Più carcere produce solo meno sicurezza e più recidiva di Ornella Favero* Il Riformista, 19 ottobre 2024 Quando si parla di recidiva nel nostro Paese spesso si citano dati approssimativi, anche perché le ricerche sono poche, e per lo più ormai datate. Vale la pena però leggere uno studio, “Pena e ritorno. Una ricerca su interventi di sostegno e recidiva” di Giovanni Torrente e Daniela Ronco, che per quanto limitato a una esperienza nel contesto piemontese, mette a nudo i problemi più spinosi, affermando che “la fotografia del sistema penitenziario italiano mostra come al di là di progetti estemporanei e circoscritti, la formazione e il lavoro in carcere risultano lontani dall’obiettivo della qualificazione”. Si parla proprio del “ruolo del carcere nel consolidamento del precariato”, quindi nessuna illusione sui percorsi di reinserimento, ma uno sguardo in un certo senso impietoso. Colpisce anche, e lo dico da responsabile di una realtà che riunisce moltissime associazioni di Volontariato nell’ambito penale, che da questo studio emerga che purtroppo, il Terzo Settore non si afferma come un soggetto promotore di nuove forme di mobilità sociale”. È tutta la catena della lotta alla recidiva, che dovrebbe iniziare da una carcerazione sensata, che invece non funziona. A partire dal lavoro in carcere, che dovrebbe essere un diritto, e invece riguarda solo 17.042 persone alle dipendenze dell’Amministrazione e 3.029 (dati DAP) che fanno un lavoro vero alle dipendenze di imprese o cooperative. Ma questi dati fanno arrabbiare anche perché è quasi scontato che lavorare per l’Amministrazione penitenziaria non fa imparare un mestiere, ma insegna a galleggiare senza professionalità e poi uscire dal carcere ancora più emarginati. Provate a mangiare il vitto dell’Amministrazione e capirete quanto è lontana la realtà da quello che dice l’Ordinamento: “L’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale”. Una cosa è certa però: sono poche le ricerche sulla recidiva, ma vengono del tutto ignorate se i dati danno fastidio a quello che è il pensiero dominante nella società rispetto al carcere. Non si vuole concedere un’amnistia e un indulto, nonostante le condizioni di illegalità nelle nostre galere, e quindi si dice che dopo l’indulto del 2006 “sono rientrati tutti”. Ma il monitoraggio sulla recidiva dei beneficiari del provvedimento di indulto del 2006 (Manconi, Torrente, 2015) dice che i dati raccolti hanno mostrato come la recidiva dei fruitori della legge si sia attestata su livelli molto inferiori a quel che ci si aspettava. Nel 2011, a cinque anni dall’entrata in vigore del provvedimento, i rientrati in carcere risultarono infatti il 33,92%. Eppure, si continua a fingere che più teniamo le persone in galera, più siamo sicuri, dimenticando quelle “bombe a orologeria” che diventano le persone detenute se scontano la pena come racconta la testimonianza di un giovane detenuto, arrivato in carcere provenendo da un ambiente già deprivato, e trovando, in istituti carcerari diversi, quasi ovunque ulteriore povertà educativa: “Mi è stato chiesto spesso in questi anni cosa fosse per me lo Stato e cosa volesse dire crescere in un posto in cui è pressoché assente. Nascere in un luogo così significa vivere in ambienti dove mancano le cose basilari, come doposcuola, parchi, posti per socializzare, dove, anche se sono consapevole che la responsabilità è sempre personale, è più facile che un ragazzo rischi di innamorarsi di fenomeni criminali, perché agli occhi di un adolescente la ‘malavita’ diventa la più semplice possibilità di scalata sociale. Per cambiare tutto questo non basta una volante parcheggiata per strada o l’esercito nelle piazze, bisogna garantire un progetto alternativo ai giovani, altrimenti il fenomeno della malavita attirerà sempre i ragazzini. Se questo vale per le città, è ancora più vero per le strutture detentive. Io ho cambiato 13 carceri, ma se all’interno del carcere sono le istituzioni che non garantiscono la legalità mi chiedo come possa essere credibile ai miei occhi uno Stato che pare solo pretendere, senza mai considerarci degni di ricevere qualcosa in cambio. Come ci si può fidare di un’istituzione che non ammette quasi mai i propri errori, ma allo stesso tempo non accetta che degli sbagli vengano commessi da chi spesso si trova in situazioni opprimenti, perché privato della propria libertà e lasciato solo a guardare il soffitto?”. *Direttrice di Ristretti Orizzonti 25 nomi e cognomi per la clemenza nelle carceri Ristretti Orizzonti, 19 ottobre 2024 Lettera aperta alle parlamentari e ai parlamentari della Repubblica. Non c’è più tempo: bisogna fermare la strage di vite e diritti nelle carceri italiane. Più di quanto non sia mai stato, le carceri italiane sono diventate un luogo di morte e disperazione. Dall’inizio dell’anno ormai ben oltre settanta le persone si sono tolte la vita dietro le sbarre, quanti non mai dall’inizio del secolo in poco più di nove mesi. E con loro hanno deciso di farla finita sette agenti di polizia penitenziaria. Ognuno di loro avrà avuto le proprie personali ragioni per arrivare a quella scelta ultima ed estrema, ma quelle morti ci interrogano sull’ambiente di vita e professionale in cui avvengono e sulle sue croniche carenze. Sono ormai 62.000 i detenuti nelle carceri italiane, circa quattordicimila in più dei posti effettivamente disponibili. In un anno, quasi quattromila in più. Si tratta in gran parte di autori di reati minori, condannati a pene che potrebbero dar luogo a un’alternativa al carcere se avessero un domicilio adeguato, una famiglia a sostenerli, un lavoro con cui mantenersi. Non più di un terzo è autore di gravi reati contro la persona o affiliato a organizzazioni criminali. È questo il contesto in cui si sta registrando un numero di suicidi senza precedenti, tra i detenuti e nella polizia penitenziaria. Il carcere, i suoi operatori, i detenuti non ce la fanno più. Anche i migliori propositi, come quelli condivisi dall’Amministrazione penitenziaria con il Cnel, di abbattere la recidiva attraverso il potenziamento della formazione, dell’orientamento e dell’inserimento lavorativo dei detenuti, per potersi avverare hanno bisogno di ridimensionare il numero dei detenuti in modo che gli operatori possano seguirli efficacemente. Per non dire della prevenzione del rischio suicidario e della necessaria assistenza sanitaria. È da molto tempo all’esame della Camera una apprezzabile proposta, avanzata dall’on. Giachetti, volta a potenziare le riduzioni di pena per i detenuti che partecipano attivamente all’offerta di attività rieducative proposte dal carcere. Ma, se vedesse finalmente la luce, non consentirebbe prima di qualche mese o addirittura di un anno l’uscita anticipata dal carcere di alcune migliaia di detenuti a fine pena, tanti quanti ne sono entrati nell’ultimo anno. Serve un intervento più deciso, che consenta la cancellazione drastica e immediata del sovraffollamento e la realizzazione delle condizioni per una più generale riforma del sistema penitenziario. È un intervento che la Costituzione prevede come strumento di politica del diritto penale quando se ne ravvisi la necessità e l’urgenza, come certamente è questo il caso. Un provvedimento di clemenza generale, che potrebbe assumere le caratteristiche di una legge di amnistia e di indulto per i reati e i residui pena fino a due anni. In poche settimane, con l’indulto uscirebbero dal carcere circa sedicimila detenuti, con l’amnistia per i reati minori si alleggerirebbero i carichi di lavoro degli uffici giudiziari e per un po’ di tempo si eviterebbero nuove carcerazioni per reati minori. Tutti gli operatori della giustizia penale e del sistema penitenziario sanno che questa è l’unica soluzione disponibile e immediatamente efficace per risolvere il problema del sovraffollamento. Il fatto che l’articolo 79 della Costituzione richieda una maggioranza speciale per l’approvazione di una legge di amnistia e di indulto, che pure meriterebbe di essere rivista, lungi dal costituire un impedimento assoluto alla sua approvazione, spinge a una condivisione di responsabilità tra le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, per l’adozione di un provvedimento necessario a restituire condizioni di vita e di lavoro dignitose nelle nostre carceri. Condivisione che ci fu nel 2006, quando il presidente del consiglio Romano Prodi e il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi si assunsero la comune responsabilità di votare a favore del più recente provvedimento di clemenza adottato in Italia, allora come oggi necessario al rispetto ai principi dell’articolo 27 della Costituzione. In ultimo, ricordiamo che - contrariamente a una errata opinione molto diffusa - quel provvedimento ha dato risultati molto positivi non solo nel decongestionamento degli istituti di pena, ma anche nella riduzione della recidiva: secondo la ricerca di Torrente, Sarzotti, Jocteau, commissionata dal ministero della Giustizia nel 2006, degli oltre 27 mila detenuti liberati grazie a quell’indulto, solo il 35% era rientrato in carcere cinque anni dopo, a fronte di un dato generale che vede intorno al 67% la percentuale di recidiva registrata tra quanti scontano interamente la propria pena in carcere; d’altro canto, secondo l’indagine di Drago, Galbiati e Vertova, pubblicata sul Journal of Political Economy, il tasso di recidiva tra i beneficiari dell’indulto del 2006 è diminuito del 25%. Dati su cui riflettere e da cui trarre coerenti conseguenze. Luigi Manconi Stefano Anastasia Michele Ainis Mons. Vincenzo Paglia Gaia Tortora Giovanni Fiandaca Gherardo Colombo Clemente Mastella Daria Bignardi Mauro Palma Francesco Petrelli Tullio Padovani Rita Bernardini Dacia Maraini Alessandro Bergonzoni Mattia Feltri Andrea Pugiotto Ornella Favero Franco Corleone Patrizio Gonnella Franco Maisto Luigi Pagano Grazia Zuffa Valentina Calderone Samuele Ciambriello Per info e contatti: clemenzaperlecarceri@gmail.com Se il “dilemma del prigioniero” blocca il Parlamento sulle carceri di Guido Vitiello Il Foglio, 19 ottobre 2024 Dal 1992 spetta non più al Presidente della Repubblica, ma alla Camera e al Senato con maggioranza qualificata, l’approvazione dell’amnistia. Ma da allora, per questa ragione, non ce ne sono state più perché manca un’assunzione di responsabilità. Sottoscrivo - per quel che conta e per quel che conto - l’appello ai parlamentari di Luigi Manconi e altri per “fermare la strage di vite e diritti nelle carceri italiane” attraverso un provvedimento di clemenza, preferibilmente una legge di amnistia. Ma sottoscrivo non senza avvertire una grande ironia, che non riguarda soltanto la politica carceraria. È noto che dal 1992 spetta non più al capo dello stato, ma al Parlamento con maggioranza qualificata, l’approvazione dell’amnistia; ed è altrettanto noto che da allora, per questa ragione, di amnistie non ce ne sono state più. L’appello invita a una “condivisione di responsabilità tra le forze politiche”, ma il vero problema è che ormai, in tutti gli ambiti che richiedano assunzioni di responsabilità impopolari, vige tra i partiti uno stallo che ricorda il famoso “dilemma del prigioniero” della teoria dei giochi, con la differenza che qui il carceriere è l’opinione pubblica aizzata dalla cattiva stampa. Maggioranza e opposizione possono anche accordarsi di non collaborare con la canizza forcaiola, ma vivranno nel timore (spesso fondato) che all’ultimo la controparte si sfilerà dall’intesa. Perciò, in ultimo, conviene a entrambi cavalcare la belva. Dov’è l’ironia, allora? Eccola: è che i parlamenti adulti della Prima Repubblica, di cui pure si sono denunciati a ragione i vizi consociativi, forse sarebbero stati capaci di un’assunzione di responsabilità come quella promossa dall’appello, anche se la legge non gliela richiedeva. Quelli dell’attuale asilo infantile, invece, che in teoria potrebbero votarsi l’amnistia da soli, nei fatti la accetterebbero solo se fosse concessa da un sovrano in grado di esentarli dal dilemma di cui sopra. Forse è tempo di rimettere la clemenza sulle ginocchia del Quirinale. Sovraffollamento e suicidi: l’impotenza del decreto carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 ottobre 2024 Lo si sapeva già, ma il decreto carcere voluto dal ministro Nordio che, per sua natura, è emergenziale e quindi finalizzato a risolvere almeno a medio termine l’allarme sovraffollamento e suicidi, non funziona. A pesare sono le parole dell’avvocata Maria Brucale di Nessuno Tocchi Caino, che su Facebook punta il dito sull’inefficacia del decreto, nella parte in cui teoricamente avrebbe dovuto facilitare la liberazione anticipata. In sostanza, delinea uno scenario preoccupante di disomogeneità applicativa e interpretazioni contrastanti. “Come era prevedibile”, afferma Brucale, “il decreto non solo non ha prodotto alcun risultato riguardo al dramma del sovraffollamento e dei suicidi, ma ha determinato un grande caos nella concessione del beneficio”. L’avvocata evidenzia come alcune procure si rifiutino di calcolare anticipatamente il fine pena agli ordini di esecuzione in corso, sostenendo che la norma operi solo per l’avvenire. Un’interpretazione che, se confermata, svuoterebbe di senso l’urgenza stessa del decreto. La situazione appare ancor più caotica tra i magistrati di sorveglianza: “C’è chi continua a esprimersi sulle richieste già presentate prima del decreto e chi no; chi anche su quelle presentate dopo e chi no”, spiega Brucale. Questa disparità di trattamento mina alla base il principio di uguaglianza di fronte alla legge, creando inaccettabili disparità tra detenuti. Ma è sul regime del 41 bis che la critica di Brucale si fa più aspra: “Sul 41 bis cala il sipario del diritto, come sempre”. L’avvocata denuncia come questi detenuti restino esclusi dai benefici, e gli ergastolani non possano nemmeno ipotizzare l’accesso alla liberazione condizionale. “Restano fuori, come si vuole, come si tentava di fare da un po’”, aggiunge con amarezza, “e la Costituzione con i suoi proclami di carta resta a guardare”. La situazione è grave. Il sistema carcerario si trova in una situazione di grave sovraffollamento, con circa 61.000 detenuti che occupano strutture pensate per ospitarne 46.000. Questo surplus di 15.000 persone non solo viola i diritti fondamentali dei detenuti, ma mette anche a dura prova l’intero sistema penitenziario, compromettendo la sicurezza, la salute e le possibilità di riabilitazione. In questo contesto, dove è oggettiva l’inefficacia del decreto Nordio, emerge la proposta innovativa del portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali Samuele Ciambriello, che suggerisce un approccio radicale per affrontare il problema. Ciambriello afferma: “Credo che per ogni carcere debba esistere un limite massimo assoluto per il numero di detenuti, al fine di garantire lo standard minimo in termini di spazio abitativo”. Questa idea non si limita solo agli aspetti logistici, ma abbraccia una visione più ampia della dignità umana all’interno del sistema carcerario. Il Garante sottolinea che, una volta raggiunto tale limite, le autorità competenti dovrebbero essere obbligate ad adottare misure appropriate per garantire condizioni di detenzione accettabili. Queste non si limiterebbero solo allo spazio abitativo, ma includerebbero anche un adeguato rapporto numerico tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria, nonché la presenza sufficiente di personale per l’assistenza sociosanitaria e per l’offerta trattamentale. L’obiettivo di Ciambriello è chiaro: “Solo così si costringerebbe l’autorità giudiziaria e la politica a rispettare il dettato costituzionale”. La proposta mira a creare un meccanismo che obblighi le istituzioni a trovare soluzioni alternative alla detenzione quando le carceri raggiungono la loro capacità massima, in linea con i principi di umanità e rieducazione sanciti dalla Costituzione italiana. Questa visione non è isolata. Il garante campano fa riferimento a una proposta di legge depositata al Senato della Repubblica nel dicembre 2022, intitolata “Misure alternative alla detenzione in carcere nel caso di inadeguata capienza dell’istituto di pena”. La proposta, che vede come prima firmataria la senatrice Cecilia D’Elia, rappresenta un tentativo concreto di tradurre in legge queste idee innovative. L’articolo 2 della proposta di legge prevede l’adozione di un regolamento, tramite decreto del ministro della Giustizia, che stabilisca il numero di posti letto regolarmente disponibili in ciascun istituto di pena italiano. Questo conteggio non sarebbe arbitrario, ma basato su standard precisi, applicando i criteri vigenti per gli ambienti di vita nelle civili abitazioni, come definiti dal decreto del ministro per la Sanità del 5 luglio 1975. I minori e le carceri in Italia di Marianna Gatta terzogiornale.it, 19 ottobre 2024 Una deriva criminalizzante, con l’abbandono di qualsiasi percorso rieducativo a favore del semplice “sbattili in galera”. Se un ragazzino di quattordici anni viene trovato con uno 0.4 di hashish e venti euro in tasca può essere portato in un istituto penale minorile, dove probabilmente si troverà a dividere la cella con un coetaneo colpevole di un reato ben peggiore. Se poi l’adolescente è un minore straniero non accompagnato, la situazione si aggrava ulteriormente. È l’effetto del “decreto Caivano” che ha previsto l’arresto in flagranza di reato per i minori, e ha esteso i casi di custodia cautelare in carcere, disposti anche per crimini di minore entità. Approvato un anno fa, nel settembre del 2023, in seguito a un caso di cronaca agghiacciante che coinvolgeva anche minorenni, il provvedimento ha aggravato lo smantellamento del sistema penale minorile. Il governo ha scelto di prendere una deriva criminalizzante (di cui ha parlato Agostino Petrillo qui), che vede la miseria come un morbo insidioso a cui porre rimedio con la forza, in controtendenza rispetto al resto dei Paesi dell’Europa occidentale. Insieme al cosiddetto “decreto anti-rave” e al discusso disegno di legge Sicurezza, la norma non fa che peggiorare un sistema di crescente emarginazione giovanile che genera l’incremento di casi giudiziari a carico di ragazzi e ragazze. A queste volontà repressive, invece che rieducative, si va ad aggiungere la mancanza di attenzione verso il tema della migrazione di minori, poco sostenuti e tutelati. Sedicenni, quindicenni e quattordicenni vengono trattati alla stregua di criminali navigati, con una modalità di gestione sempre più simile a quella degli adulti, che non risponde alle esigenze di cura proprie della giustizia minorile. “Il decreto Caivano ha creato un sovraffollamento anche nel minorile che non si verificava da anni, una condizione dove i tipi di reati completamente diversi sono mischiati insieme”, dice Valentina Calderone, responsabile dell’Ufficio del garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Roma. Secondo l’ultimo report di Antigone, pubblicato nell’ottobre 2024, a un anno dall’introduzione del decreto Caivano, negli Istituti penali per minorenni (Ipm), al 15 settembre 2024, erano presenti 569 ragazzi e ragazze, una cifra mai raggiunta prima. Per fare un paragone, nell’ottobre 2022, momento in cui si insedia l’attuale governo, le carceri minorili ospitavano 392 persone. Di questi, oltre il 65% dei ragazzi si trova in carcere senza una condanna definitiva: il che evidenzia l’uso della custodia cautelare, utilizzata non come pratica eccezionale, ma come prassi per affrontare problemi di gestione sociale che richiederebbero invece soluzioni educative. Tale sovraffollamento crea evidenti problematiche. Dei diciassette istituti minorili presenti in Italia, ben dodici superano la capienza massima e, quando aumenta il numero di persone costrette in uno spazio ristretto, peggiori diventano le condizioni generali e più frequenti sono gli scontri, sia tra i ragazzi sia con gli operatori. Nell’istituto di Treviso, per esempio, che ha un tasso di affollamento del 183%, con ventidue ragazzi ospitati in uno spazio che ne potrebbe accogliere dodici, come anche in quello di Torino, ci sono state rivolte a causa delle condizioni di vita al limite, con adolescenti costretti a dormire su brandine da campeggio o su materassi lasciati a terra. Anche al Beccaria di Milano, diventato famoso per le agitazioni dei detenuti, il sovraffollamento (al 145%) ha creato situazioni di forte disagio, aggravando i problemi strutturali che limitano l’accesso alla luce e a spazi comuni adeguati e indispensabili alla vita di un giovane. Inoltre, gli operatori, il personale di sorveglianza e gli educatori non sono in numero sufficiente per permettere lo svolgimento delle attività sportive, ludiche e soprattutto educative. Così i detenuti sono spesso lasciati per giorni nelle celle, senza poter essere accompagnati nelle aree esterne. “La carenza di personale ha innescato un circolo vizioso che incrementa i problemi, e così risulta difficile organizzare le attività quotidiane”, denuncia Calderone. La garante sostiene come, in queste condizioni, non ci sia da stupirsi se i ragazzi distruggono le celle, si ribellino o tentino l’evasione, com’è successo l’estate scorsa all’Istituto di Casal del Marmo di Roma, da cui sono fuggiti due ragazzi tunisini. Al contrario di quanto vogliano far credere i titoli sensazionalistici dei quotidiani, che gridano alle baby gang di minori stranieri che terrorizzano i quartieri, l’incremento di giovani detenuti non trova riscontro in un corrispondente aumento della criminalità minorile, che, anzi, negli ultimi quindici anni ha mantenuto un andamento oscillante ma generalmente stabile, senza picchi significativi. Nel 2023, i dati rilevano addirittura una diminuzione delle segnalazioni di minori denunciati o arrestati, con un calo del 4,15% rispetto all’anno precedente. Questo scollamento tra l’andamento della criminalità e il numero di ragazzi in carcere mostra che la via giudiziaria è spesso una risposta inadeguata a problemi di natura sociale e psicologica, piuttosto che una necessità dettata da un aumento della delinquenza. I dati del report di Antigone evidenziano inoltre che la maggior parte dei reati commessi dai giovani detenuti negli Ipm sono contro il patrimonio (il 52,2% del totale). Furti e rapine sono particolarmente comuni tra i ragazzi stranieri, che costituiscono una fetta importante della popolazione carceraria minorile: 266 tra ragazzi e ragazze a settembre 2024, cioè il 46,7%. Le possibilità di essere incarcerato si moltiplicano nel caso dei minori non accompagnati, che non solo sono esposti a un percorso di marginalità e criminalizzazione dovuti alla mancata accoglienza, ma sono anche più propensi a essere incarcerati a causa dello scarso supporto familiare sul territorio. Sostiene Calderone: “I minori non accompagnati spesso si vedono già persi, già completamente senza una prospettiva a soli 16 o 17 anni”: una condizione che rende impossibile immaginare un futuro. Per i ragazzi stranieri il periodo trascorso in carcere è ulteriormente appesantito dai continui trasferimenti, utili ad allentare il sovraffollamento negli istituti. I detenuti vengono spostati arbitrariamente dal Nord al Sud Italia, e la scelta ricade spesso sui minori che non hanno legami familiari nella regione di riferimento. Questi viaggi finiscono per erodere i rapporti creati nel tempo dai giovani, anche con forti fragilità psicologiche, in un sistema che privilegia le soluzioni logistiche alla tutela dei loro diritti. Emblematico è il caso di M., nato in Egitto nel 2008 e trasferito improvvisamente dall’Ipm di Milano a uno in Campania, senza preavviso ai suoi tutori legali. Come dice ancora Calderone: “Il carcere è l’esito di un processo che fuori non ha funzionato. Siamo responsabili di creare i percorsi per permettere ai giovanissimi di avere un lavoro, una casa, una formazione adeguata”. Le condizioni critiche che caratterizzano il sistema delle carceri minorili oggi sono il risultato di politiche che hanno progressivamente abbandonato l’approccio rieducativo, che in passato ha reso la giustizia minorile italiana un modello in Europa. Se ora il sistema è al collasso, l’unica risposta è una maggiore attenzione a misure che riportino al centro l’educazione, l’inclusione e il rispetto dei diritti dei minori?. Una visione, a quanto pare, non in linea con quella dell’attuale governo. Affettività in cella, il governo snobba da 10 mesi la sentenza della Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 ottobre 2024 A quasi un anno dalla storica sentenza della Corte costituzionale che ha garantito ai detenuti il diritto a colloqui intimi riservati, il Dap continua a far orecchie da mercante. Il Garante per il Lazio, Stefano Anastasìa, denuncia l’assurda situazione, definendola “inconcepibile” per uno Stato di diritto. La sentenza n. 10 del 26 gennaio 2024 aveva spalancato le porte ai colloqui riservati, ma a dieci mesi di distanza, secondo Anastasìa, “nessun detenuto ha ancora potuto usufruire di questo diritto”. Il caso di Viterbo è la punta dell’iceberg: 102 detenuti, come riportato da Il Dubbio, attendono da oltre 90 giorni una risposta alla loro richiesta di colloqui riservati, presentata il 2 giugno 2024. Di fronte a questo immobilismo, il Garante Anastasìa è intervenuto con urgenza, sollecitando la direzione del carcere ad agire immediatamente. È necessario che vengano individuati al più presto spazi idonei ai colloqui riservati e che venga definita una nuova regolamentazione dell’accesso all’istituto. Anastasìa punta il dito contro il Dap, che avrebbe bloccato le iniziative di alcune direzioni carcerarie pronte ad attuare la sentenza. Il motivo? L’attesa degli esiti di un “misterioso gruppo di studio ministeriale”. Una giustificazione che il Garante ritiene inaccettabile, sottolineando come in alcuni istituti basterebbe “oscurare le finestrelle sulle porte delle stanze dei colloqui con i gruppi familiari” per garantire la riservatezza degli incontri. Il caso solleva interrogativi inquietanti sul rispetto delle sentenze della Corte costituzionale da parte delle istituzioni. Anastasìa ipotizza che al Dap possa ancora vigere “l’interdetto dei più retrivi sindacati di polizia penitenziaria che nel 2018 impedì al ministro Orlando di anticipare il pronunciamento della Corte costituzionale”. La vicenda potrebbe avere ripercussioni legali: i detenuti, dopo i reclami ai garanti, potranno rivolgersi ai magistrati e ai tribunali di sorveglianza, fino ad arrivare alla Corte europea dei diritti umani. “E noi saremo con loro”, assicura Anastasìa. Il caso di Viterbo non è isolato. Situazioni analoghe si sono verificate in altri istituti, come la Casa di reclusione di Rebibbia, dove 55 detenuti hanno presentato un reclamo collettivo. In quell’occasione, Anastasìa e la collega di Roma Capitale, Valentina Calderone, avevano indirizzato una raccomandazione analoga alla direttrice dell’istituto nel settembre scorso. La mancata attuazione della sentenza non solo viola i diritti dei detenuti, ma mina la credibilità stessa delle istituzioni democratiche. Come sottolinea il Garante, “l’attuazione della sentenza della Corte costituzionale non è procrastinabile” e “configura un obbligo di garanzia in capo all’Amministrazione penitenziaria”. Resta da vedere se e quando lo Stato deciderà di rispettare le proprie leggi, anche dentro le mura del carcere. Nel frattempo, centinaia di detenuti attendono di poter esercitare un diritto che la Corte costituzionale ha riconosciuto loro 10 mesi fa, in un limbo di attesa che sembra non avere fine. L’affettività in carcere non è un lusso, ma un diritto: è ora di affrontare questa sfida cruciale di Leo Beneduci* Il Fatto Quotidiano, 19 ottobre 2024 Con la pronuncia n.10 del 26 gennaio 2024, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 della Legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta, previi determinati requisiti, possa essere ammessa a svolgere colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, in pratica ritenendo ammissibile il coltivare momenti di affettività intima anche nel corso dell’esecuzione penale in carcere. Una decisione, quella della Corte Costituzionale, che sta per impattare in maniera fragorosa con l’attuale organizzazione del sistema penitenziario italiano andando a coinvolgere contemporaneamente gli organi centrale e territoriali dell’Amministrazione penitenziaria (il Dap), il personale delle carceri in particolare di Polizia penitenziaria, la magistratura di sorveglianza (la questione di illegittimità era stata promossa dal magistrato di sorveglianza di Spoleto), le autorità politiche del Ministero della Giustizia (il Ministro Nordio e il sottosegretario delegato, della Lega, Andrea Ostellari) e il Parlamento. Il Legislatore, infatti, dovrebbe modificare la norma nella parte dichiarata illegittima, ma i richiami nella motivazione della sentenza agli articoli 2, 3, 13, 29, 30, 31 e in particolare all’articolo 117 - comma 1 della Costituzione, con riferimento agli articoli 3 (divieto di tortura) e 8 (rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo lasciano pochi margini di attesa, pena l’ennesima condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo. L’Amministrazione penitenziaria, quindi, dovrebbe muoversi senza ulteriori indugi e come negli ultimi tempi non è più abituata a fare, ma anche alla luce degli ultimi gravi eventi penitenziari la soluzione risulta ardua per un duplice ordine di problemi. In primo luogo le infrastrutture e il personale: in una missiva che data allo scorso mese di maggio il Dap ha chiesto alle direzioni degli istituti penitenziari sul territorio di comunicare l’esistenza di spazi idonei anche in termini di dignità e riservatezza e su circa 200 sedi non oltre 50 avrebbero dato la propria adesione, essenzialmente per la realizzazione di strutture prefabbricate esterne alle aree detentive, tenuto conto che la stragrande maggioranza degli istituti di pena è in debito di manutenzione e bisognevole di prolungate ristrutturazioni; inutile dirlo, mentre si parla di nuove carceri e si nomina un commissario straordinario per l’edilizia, l’idea di creare “stanze dell’amore” in strutture dismesse sembra ridurre la complessità della dimensione affettiva a quattro mura, un letto e un materasso. Riguardo, poi, al personale addetto alla sorveglianza interna e, quindi, di Polizia Penitenziaria, l’attuale carenza media degli organici è di circa il 15% con punte di oltre il 30% in alcune sedi e con conseguente scopertura di posti di servizio essenziali e conseguente eccessivo aggravio dei carichi di lavoro; né esiste una specifica formazione professionale per un’attività di vigilanza del tipo richiesto e solo apparentemente priva di rischi e che gli addetti del Corpo considerano del tutto inappropriata alle proprie espresse attribuzioni di polizia, se non equivalente ad un inaccettabile voyeurismo istituzionale. Inoltre, rispetto alla seconda criticità della vicenda, l’affettività dietro le sbarre non dovrebbe essere un capriccio o una concessione benevola e finanche direttamente premiale, ma un diritto fondamentale che impatta profondamente sia sui detenuti che sui loro partner liberi, seppur condizionati dalla vicenda giudiziaria. Come l’etere, la quintessenza teorizzata da Empedocle che permeava e connetteva terra, acqua, aria e fuoco, l’affettività potrebbe diventare il sesto elemento del trattamento penitenziario. Questo “sesto elemento” andrebbe non solo ad affiancare lavoro, istruzione, formazione, religione, attività culturali, ricreative e sportive, ma ne condenserebbe i risultati fungendo da catalizzatore cruciale per i processi di umanizzazione del carcere e di risocializzazione dei detenuti, perché quanto mai vicino alla vita reale, ma anche in questo caso l’organizzazione dell’attività trattamentali nelle carceri, svolte da tutto il personale penitenziario e poi, nella pratica, esercitate dal Gruppo di Osservazione e Trattamento presieduto dal direttore penitenziario risulterebbe oggi del tutto inadeguata, come l’alto indice delle recidive espressamente indica. Per tali ragioni, non si tratta di un problema che si risolve con soluzioni improvvisate e richiede un dibattito serio e il coinvolgimento di esperti, in prima linea gli operatori del trattamento e della sicurezza, se si vuole che l’affettività in carcere non sia da considerarsi un lusso, ma un diritto e uno strumento potente di riabilitazione e reinserimento sociale. È, quindi, giunto il momento di affrontare questa sfida, probabilmente cruciale, con la serietà e la profondità che merita, dando concreto seguito al monito della Consulta, a beneficio dell’intera società. E in questo percorso, è fondamentale riconoscere i ruoli specifici di ciascun attore del sistema penitenziario, lasciando alla Polizia Penitenziaria i compiti che le competono, senza ingerenze nelle relazioni intime in carcere. *Segretario Sindacato Polizia Penitenziaria Cospito è seppellito vivo al 41-bis, ma per Cantone è il pericolo numero uno di Frank Cimini L’Unità, 19 ottobre 2024 Nel discorso di inaugurazione del nuovo anno giudiziario il Procuratore di Perugia salta indietro di cinquant’anni e ci riporta alla strategia della tensione. Nella sua relazione in vista della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2025 il procuratore capo della Procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, per illustrare i pericoli derivanti dal terrorismo nella fase attuale, dopo aver citato il fenomeno islamico, che in verità in questo paese ha prodotto zero attentati, si concentra sul fronte interno. Il procuratore, da tempo magistrato molto mediatico, se la prende ovviamente con gli anarchici e, pur avendo in mano molto poco di concreto, lancia l’allarme: “È fatto notorio come nella zona del Folignate operi da tempo un gruppo anarchico in contatto con il noto ideologo detenuto in carcere per altri reati, Alfredo Cospito. Il gruppo cui si fa riferimento è ancora attivo ed operativo, sia pure soprattutto con attività di affissioni di manifesti inneggianti alle attività rivoluzionarie e con manifestazioni di protesta a sostegno dei compagni detenuti”. Bum! Il messaggio di Cantone, nonostante la sua procura sia oberata di inchieste di altro genere, è molto chiaro. Alfredo Cospito sepolto vivo e torturato al 41bis è il nemico pubblico numero uno. Ma l’allarmismo del tutto ingiustificato sul tema della sovversione che non c’è, essendo infinitamente inferiore alla repressione, arriva anche da altre parti. A L’Aquila la Digos, con il coordinamento della procura distrettuale, ha eseguito due mandati di perquisizione nei confronti di due cittadini residenti a Pescara e a Lecco, ipotizzando nei loro confronti il delitto di istigazione alla commissione di reati con finalità di terrorismo. “I due cittadini, tramite il proprio account” - dice il comunicato degli inquirenti - “avevano pubblicato delle frasi particolarmente allarmanti, nelle quali si faceva riferimento a ‘figure politiche’ e alla necessità di ricorrere a ‘un po’ di sano terrorismo, giusto per defascistizzare questo governo’, a commento di un post nel quale veniva affermato che ‘ormai in Italia servirebbe qualcuno in grado di ristabilire l’ordine, di combattere il fuoco con il fuoco. Le Br’“. Il comunicato informa che con le perquisizioni sono stati rilevati ulteriori messaggi di interesse investigativo, costituito da frasi dall’inequivoco contenuto minatorio. Insomma, questi apparati anti-eversione in toga e in divisa hanno poco lavoro, causa la mancanza di materia prima. E quindi devono trovare motivi per giustificare la loro esistenza e i costi. La sensazione però è che essendo questo il tenore delle investigazioni se mai un giorno emergesse una qualche forma di sovversione sarà così diversa che impiegherebbero un bel po’ di tempo a capirci qualcosa. La recidiva ha ancora un futuro? di Giovanni Flora* Il Riformista, 19 ottobre 2024 Un qualche cosa, dunque, che renderebbe più grave il nuovo delitto commesso in conseguenza di una constatata “insensibilità” del “reo” alla condanna precedentemente subita, indice di maggior capacità a delinquere. E questo è il primo punto su cui riflettere in una prospettiva di rifondazione del sistema sanzionatorio. Il recidivo sarebbe dunque soggetto tendenzialmente inemendabile e, in caso di recidiva reiterata, irrimediabilmente perduto. La logica è dunque, apparentemente, quella della maggiore rimproverabilità in chiave etico-retributiva. In realtà il sistema costruisce, sotto le mentite spoglie di una circostanza aggravante, un “tipo di autore”, “il recidivo” (infatti il codice elenca subito dopo le figure del delinquente abituale, professionale o per tendenza, al cui riconoscimento consegue, oltre agli aumenti di pena per recidiva, anche l’applicazione di misure di sicurezza, in un mix irrisolto di maggiore rimproverabilità e di pericolosità “qualificata”). Ma che la recidiva non possa essere propriamente qualificata come circostanza aggravante è da tempo sostenuto dalla dottrina più autorevole. Si tratta di qualificazione dogmatica palesemente contraria alla realtà delle cose: è palesemente illogico che la reiterazione di un delitto, dopo una precedente condanna definitiva, possa rendere più grave il nuovo delitto. E la “natura delle cose” non può essere arbitrariamente forzata dal legislatore. Del tutto illogico, altresì, che la recidiva possa comportare l’allungamento dei tempi di una auspicabilmente reviviscente prescrizione. Quasi che la prescrizione sia un premio che deve essere “meritato”. Insomma, in una riforma organica del sistema sanzionatorio, non più eludibile, la recidiva, espunta dal novero delle circostanze, potrebbe, innanzitutto, assumere un ruolo nella fase della commisurazione della pena da irrogare in concreto, come parametro di valutazione della capacità a delinquere, declinata secondo parametri costituzionalmente conformi, all’interno di una nuova norma regolatrice della discrezionalità, tutta da riscrivere e che si inserisca in un sistema in cui le alternative al carcere, concedibili già in fase di cognizione, siano in numero assai più vasto ed articolato di quello attuale. In secondo luogo, la recidiva potrebbe trovare adeguata considerazione in fase esecutiva al fine di costruire quel percorso individualizzato, funzionale al reinserimento sociale del detenuto, di cui “parla” (come “vox clamans in deserto”) il comma 2 dell’art. 1 dell’ordinamento penitenziario; una vera utopia stanti le odierne disumane, vergognose condizioni del carcere e della giustizia penale in generale. Infatti, solo la drastica riduzione del numero dei reati, il ricorso al carcere davvero come extrema ratio, potrebbero far sì che durante l’esecuzione della pena si possa davvero trattare il condannato, anche recidivo, come essere umano e costruirgli un percorso che almeno non ne mortifichi la speranza della risocializzazione. *Professore f. r. di Diritto penale nell’Università di Firenze Misure di prevenzione dopo il carcere, la pericolosità sociale va sempre rivalutata di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2024 Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 162 depositata oggi, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 14, comma 2-ter, del Dlgs 159/2011 limitatamente alle parole “se esso si è protratto per almeno due anni”. In caso di sospensione della misura di prevenzione a causa della detenzione, la pericolosità del soggetto deve sempre essere rivalutata dal giudice anche se il periodo di reclusione è stato inferiore ai due anni. Il principio di rieducazione della pena, unitamente a quello della attualità della “pericolosità sociale”, impone infatti che alla cessazione dello stato di detenzione il tribunale sarà tenuto a verificare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato. Sino a tale rivalutazione, dunque, la misura di prevenzione in precedenza disposta dovrà considerarsi ancora sospesa, e le prescrizioni con essa imposte non potranno avere effetto nei confronti dell’interessato. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 162 depositata oggi, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 14, comma 2-ter, del Dlgs 159/2011, (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), limitatamente alle parole “se esso si è protratto per almeno due anni”. Il Tribunale di Oristano era chiamato a decidere sulla responsabilità di un uomo che per cinque volte avrebbe violato la prescrizione di non allontanarsi di notte dalla propria abitazione. La prescrizione tuttavia era rimasta sospesa per il suo ingresso in carcere e sarebbe ripresa una volta scarcerato. E all0ra il Tribunale rimettente dubita della legittimità della disposizione nella parte in cui prevede che, in caso di sospensione dell’esecuzione della sorveglianza speciale durante il tempo della detenzione, il tribunale è tenuto a verificare la persistenza della pericolosità “soltanto ove lo stato di detenzione si sia protratto per almeno due anni”. La questione è rilevante, si legge nella decisione, perché, se fondata, permetterebbe all’imputato di essere assolto, dal momento che - non essendo stata effettuata alcuna rivalutazione - la misura della sorveglianza speciale precedentemente adottata nei suoi confronti non avrebbe potuto considerarsi ancora esecutiva. La Consulta ricorda poi che nella “materia attigua” delle misure di sicurezza una risalente giurisprudenza ha giudicato incompatibili con il canone della ragionevolezza fondato sull’art. 3 Cost. varie presunzioni assolute di pericolosità sociale poste alla base di automatismi nell’applicazione di tali misure. Così, in una importante decisione (n. 291 del 2013), la Corte ha sottolineato che “salvi i casi in cui la misura di sicurezza sia applicata direttamente dal magistrato di sorveglianza - la valutazione di pericolosità sociale dovrà essere effettuata due volte: prima dal giudice della cognizione, al fine di verificarne la sussistenza al momento della pronuncia della sentenza; poi dal magistrato di sorveglianza, quando la misura già disposta deve avere concretamente inizio, in modo tale da garantire l’attualità della pericolosità del soggetto colpito dalle restrizioni della libertà personale connesse alla misura stessa”. I medesimi principi sono stati applicati dalla Consulta alla materia delle misure di prevenzione, accomunate alle misure di sicurezza dalla finalità di “prevenire la commissione di reati da parte di soggetti socialmente pericolosi e [di] favorirne il recupero all’ordinato vivere civile” (sentenza n. 291 del 2013). Successivamente, nel dichiarato intento di contribuire alla “certezza del diritto”, con la legge 17 ottobre 2017 n. 161 (Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), è stata reintrodotta, di fatto, una presunzione di persistente pericolosità laddove la sospensione connessa allo stato di detenzione dell’interessato sia inferiore a due anni. Ma tale soluzione, si legge nella decisione, “non appare in sintonia con la ratio della sentenza n. 291 del 2013” e viola, anzitutto, l’art. 3 Cost., risultando per un verso intrinsecamente irragionevole, e per altro verso foriera di un’irragionevole disparità di trattamento rispetto alla parallela disciplina oggi applicabile alle misure di sicurezza. Non vi è, infatti, “alcuna ragione per ritenere che nell’arco di un intero biennio la personalità di un individuo […] non possa subire significative modificazioni, quando si tratti di un individuo detenuto in esecuzione di una pena, e dunque sottoposto a un trattamento che per vincolo costituzionale è finalizzato alla sua rieducazione”. Irragionevolezza, prosegue il ragionamento, che diviene ancor più evidente quando la fine della detenzione sia dovuta alla concessione di misure alternative, che presuppongono una valutazione positiva. Inoltre, l’articolo 13 della Costituzione subordina la legittimità di eventuali restrizioni alla libertà personale non solo alla puntuale definizione per legge dei presupposti, ma anche al loro accertamento caso per caso da parte di un giudice. Infine, la disciplina contrasta anche con l’art. 27, terzo comma, Costituzione: “Se è vero, infatti, che il successo di un trattamento rieducativo non è mai scontato, la presunzione legislativa in esame muove - come correttamente rileva il rimettente - dal non condivisibile presupposto che un trattamento penitenziario in ipotesi protrattosi fino a due anni sia radicalmente inidoneo a modificare l’attitudine antisociale di chi vi è sottoposto”. E allora, osserva causticamente il giudice delle leggi: “Se ritenuto corretto, un simile presupposto varrebbe a determinare di per sé l’incompatibilità con l’art. 27, terzo comma, Cost. di tutte le pene detentive di breve durata” Invece, pur nella consapevolezza dei “molti ostacoli di ordine fattuale”, l’ordinamento “non può che muovere dalla premessa della idoneità anche delle pene detentive di durata non superiore ai due anni a svolgere una funzione rieducativa nei confronti del condannato”. Il che, conclude la Consulta, impone di “lasciare aperta la porta a una verifica caso per caso se questo risultato sia stato raggiunto, o se invece persista, nonostante l’avvenuta espiazione della pena, una situazione di pericolosità sociale dell’interessato, che deve ancora essere contrastata mediante l’effettiva esecuzione della misura precedentemente disposta”. Lavoro di pubblica utilità, il ritardato consenso dell’ente non esclude la sanzione sostitutiva di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2024 All’atto della domanda del condannato di applicazione di Lpu il giudice ha il dovere di verificare la possibilità di conseguire l’ok dell’ente individuato anche fissando apposita udienza. Il giudice richiesto dell’applicazione di una sanzione sostitutiva deve utilizzare i termini e i mezzi di verifica messi a sua disposizione per valutare - anche dopo la pronuncia della condanna - il ricorrere dei presupposti per la concessione del beneficio, compresa l’acquisizione del consenso da parte dell’ente individuato dal condannato per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Non basta quindii che al momento dell’istanza di applicazione della pena sostitutiva sia già stato acquisito il consenso di cui sopra perché sia da considerarsi legittima la negazione dell’accesso al beneficio. Anche d’ufficio il giudice deve procedere alle dovute verifiche e non può de plano negare la sostituzione per la mancata acquisizione dell’ok da parte dell’ente considerando spirato il termine per la concessione solo perché manca un tassello del beneficio al momento della lettura del dispositivo di condanna. La norma interpretata dalla Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 38127/2024 - è l’articolo 545 bis del Codice di procedura penale inserito nel nostro ordinamento dalla Riforma Cartabia. La norma di fatto prevede un’autonoma fase valutativa - rispetto al momento della pronuncia di condanna e della lettura del dispositivo in udienza - della richiesta proveniente dall’imputato. E, infatti, in caso di mancanza di elementi valutativi per la concessione del beneficio dopo la lettura del dispositivo il giudice può disporre ulteriore specifica udienza incentrata specificatamente sulla questione della sostituzione della pena. Non è quindi legittima la decisione che non risponde alla richiesta di applicazione del lavoro di pubblica utilità o la nega per la constata assenza al momento dell’istanza dell’ok dell’ente indicato come luogo di svolgimento della pena sostitutiva. Infatti, come spiega la Cassazione il dispositivo può essere successivamente integrato nella medesima udienza dove se ne è data lettura e quando necessario all’udienza ad hoc che il giudice può fissare a 60 giorni di distanza. Il caso riguardava l’applicazione del beneficio al condannato recidivo per infedele dichiarazione Iva che si è visto rigettare la domanda di applicazione del beneficio per mancanza dell’assenso dell’ente successivamente espresso dopo l’udienza ultima in cui era stata pronunciata la condanna. Per tale comportamento inerte del giudice, e pianamente constatativo della mancanza del consenso dell’ente, la Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza contenente il diniego del lavoro di pubblica utilità, affinchè sia svolto nuovo giudizio sul punto del beneficio. Torino. Detenuto si tolse la vita in carcere, i familiari chiedono che venga riaperto il caso di Sandro Marotta torinocronaca.it, 19 ottobre 2024 “È mancato un peculiare livello di attenzione”. I familiari di Angelo Libero e i loro avvocati hanno convinto la gip a riesaminare il caso, che in precedenza era stato archiviato. Si dovevano adottare procedimenti e cure diverse per il detenuto? Angelo Libero “richiedeva un peculiare livello di attenzione”: così la giudice per le indagini preliminari del tribunale di Torino ha commentato, riaprendolo, il caso del detenuto Angelo Libero che si era tolto la vita in carcere a Torino l’anno scorso; sulla vicenda c’è già stato un procedimento a carico di ignoti, terminato però in un’archiviazione. La storia - Il detenuto aveva 44 anni e nel suo profilo medico erano indicate due patologie mentali; per questo motivo, secondo gli avvocati che hanno chiesto la riapertura del caso, Libero non avrebbe dovuto trovarsi in carcere, ma in una struttura dedicata alla salute mentale, ad esempio una Rems (Residenza per l’Esecuzione delle misure di sicurezza). Angelo Libero si trovava nella sezione B del “Lorusso e Cutugno” già all’inizio dell’estate del ‘23, quando aveva tentato di togliersi la vita. Nonostante questo episodio non era stato trasferito e a inizio luglio si era ucciso in cella; gli mancavano tre mesi da scontare. Il fatto era avvenuto quando Libero era stato lasciato da solo in cella, mentre il compagno era uscito in cortile e nessun agente stava sorvegliando gli spazi detentivi. La sequenza di eventi di questa vicenda mettono in dubbio il fatto che siano state applicate davvero le norme del Regolamento di Esecuzione dell’Ordinamento penitenziario (R.E), in cui viene detto che l’osservazione del detenuto deve essere “rivolta ad accertare, attraverso l’esame del comportamento del soggetto e delle modificazioni intervenute nella sua vita di relazione, le eventuali nuove esigenze che richiedono una variazione del programma di trattamento”. Tra l’altro, la norma prevede che i detenuti con “infermità psichiche” debbano essere seguiti dal personale qualificato del servizio sanitario pubblico. In questo senso l’autolesionismo così come il suicidio di un detenuto potrebbe comportare un “reato omissivo improprio”: l’agente della penitenziaria, se non ha fatto il possibile per evitare il fatto, è come se l’avesse causato. La storia di Libero fa parte del più ampio quadro dei suicidi in carcere: nel 2023 erano morte 70 persone, secondo i dati dell’associazione Antigone. Al 17 settembre di quest’anno il dato è di 72. Il procedimento e l’opposizione degli avvocati della famiglia - Sulla vicenda era stata avviata un’indagine a carico di ignoti e la pubblico ministero Delia Boschetto aveva chiesto l’archiviazione. I legali dei familiari di Libero (Gianluca Vitale e Pier Lorenzo Tavella), tuttavia si sono opposti e hanno presentato ricorso. La giudice per le indagini preliminari lo ha accolto e ora il caso è stato riaperto. Al centro del nuovo iter giuridico c’è la mancata attenzione al quadro sanitario del detenuto che, benché avesse già esternato più volte tendenze suicide, è stato lasciato solo dagli agenti e dall’amministrazione penitenziaria. Reggio Calabria. Maysoon e le altre, gli occhi smarriti dietro le sbarre di Emilia Vera Giurato L’Unità, 19 ottobre 2024 Provo a contagiargli speranza con gli occhi, con il sorriso. Non posso fare altro per queste anime in pena. Lo sono tutte; quelle colpevoli di più perché oltre alla restrizione, alla privazione della libertà, alla luce filtrata dalle grate, all’orizzonte fatto di spessi muri grigi, portano il peso insopportabile della colpa. Sono 38 le donne recluse nella sezione femminile del carcere di Reggio Calabria, che ne potrebbe contenere al massimo 26. Il sovraffollamento ha un impatto meno evidente rispetto alle sezioni maschili; i locali sono silenziosi, le celle (camere di pernottamento tecnicamente ma celle in verità) sono pulite, organizzate secondo un ordine forzato, che mal si concilia con gli spazi ristretti. I bagni sono in discrete condizioni, hanno la doccia con acqua calda, il riscaldamento in inverno e la luce non manca. Ma le condizioni generalmente accettabili e l’apparenza tranquilla stridono con la sensazione di oppressione che si avverte nitidamente entrando. Il contesto scompare, esaltando la timidezza discreta delle donne rinchiuse in quelle neutre scatole di cemento, astratte dalla realtà. I loro occhi sono spenti ma grati nel vedere, per una volta, qualcuno che non indossi la divisa. Nessuno tocchi Caino è un’associazione che conoscono bene, sanno che non sarà una visita di cortesia, sanno che non ci si dimenticherà di loro appena usciti. Con la mano aggrappata alle sbarre della cella, una donna si rivolge a Rita, di cui intuisce la rara capacità di ascoltare con cuore e anima: “Ho fatto tanti lavori per vivere, anche cose di cui mi vergogno. Purtroppo il mio destino è questo e devo accettarlo”. Quella postura mi evoca l’istinto di aggrapparsi alla vita, nonostante quel destino, nonostante la rassegnazione e la incapacità di essere padrona della propria sorte. In biblioteca incontriamo Daniela, mi sembra timorosa, come in bilico sul cornicione della vita; poco dopo capisco il perché di quell’impressione. Anni fa, accecata dalla delle agenti di Polizia penitenziaria che ci guidano, perché credo che compassione e accudimento possano aiutare a smorzare il dolore della solitudine. Prima di andar via, incontriamo Maysoon, una ragazza curda, arrestata appena sbarcata al porto di Crotone perché accusata di essere una scafista. È piccola di statura e molto minuta, anche per via dello sciopero della fame che ha portato avanti per ribellarsi all’ingiustizia del trattamento che le viene riservato. Ha occhi grandi e neri come profondi laghi di notte, intelligenti, vivi; ha imparato a parlare l’italiano in pochi mesi. È regista e attrice di teatro, costretta a scappare dal suo Paese a causa della violenta repressione nei confronti di donne e giovani. Vorrebbe uscire, Maysoon, per denunciare, manifestare, gridare per le donne del suo popolo e freme, contando i giorni che trascorre intrappolata tra le maglie opprimenti di una giustizia disfuzionale: 281. La potenza dello sguardo di quella piccola donna dalla tempra d’acciaio si scioglie in un attimo quando le chiedono la sua età: “Ventotto”, gli occhi si annacquano di lacrime e lei, dritta come un fusto, le ricaccia dignitosamente indietro. Ci sono anche una mamma e una figlia, detenute insieme e io non posso fare a meno di domandarmi che società siamo diventati, che genere di civiltà sia quella in cui una mamma e sua figlia finiscono in carcere insieme; perché non posso credere che sia solo responsabilità loro. Mi sono rimasti dentro gli occhi di tutte queste donne. Mentre attraversiamo il corridoio per uscire, noto una panchina dipinta di rosso, simbolo del sangue versato dalle donne vittime di violenza; ci dicono che i reati per cui sono ristrette le detenute al carcere di Reggio attualmente sono spaccio e omicidio. Penso a tutte le donne uccise dalla mano di uomini e a quelle che versano il sangue altrui e poi scompaiono inghiottite dal buio pesto delle nostre carceri. La violenza non ha genere, ha a che fare con l’umanità e noi non abbiamo ancora trovato il modo di guarire. Bolzano. “Cambiare per ricominciare”, percorsi di reinserimento per detenuti ed ex detenuti agensir.it, 19 ottobre 2024 I 25 anni di Odos, l’alternativa al carcere. “Scontare una condanna fuori dal carcere, in luoghi come Odós, aiuta ad abbattere la recidiva e i pregiudizi”, ha spiegato Danilo Tucconi, responsabile d’area della Caritas Bolzano-Bressanone, in occasione del convegno organizzato per i 25 anni del servizio, al quale ha partecipato anche il vescovo Ivo Muser. Il convegno “Cambiare per ricominciare”, tenutosi al Centro pastorale di Bolzano, ha approfondito il ruolo delle misure alternative alla detenzione e delle realtà che ne consentono l’esecuzione. Da 25 anni il servizio Odós della Caritas lavora a fianco di detenuti ed ex detenuti per favorire il loro reinserimento sociale. “È un buon esempio di come la collaborazione fra pubblico e privato, possa fornire delle alternative concrete e innovative rispetto al carcere”, ha detto Danilo Tucconi, responsabile dell’area Caritas “Senza tetto e senza dimora”. Nel complesso il servizio ha accolto 574 persone in forma residenziale, prima in un piccolo appartamento di viale Druso a Bolzano e, dal 2004, in una struttura sita in viale Venezia, fornita dalla provincia, che dispone di 16 posti letto. “In tutti questi anni, abbiamo contato solo 15 recidivi, a conferma di un progetto che funziona”. Il vescovo Ivo Muser ha lodato l’impegno e, soprattutto, l’approccio di guardare sempre e prima di tutto alla persona e non al reato commesso. Dopo una prima ricostruzione delle tappe e della storia operativa di Odós, il convegno ha affrontato da più punti di vista il ruolo centrale delle misure alternative, proprio per evitare l’esclusione sociale delle persone che commettono reati. Il servizio Odós si trova a Bolzano in viale Venezia. Fanno parte del servizio Odós anche 2 appartamenti di scuola abitativa, dove è possibile trascorrere 16 mesi in una formula di maggior autonomia; e un appartamento dedicato all’affettività, in cui un coniuge, un genitore o un figlio può trascorre qualche giorno con il proprio parente detenuto. Dopo il convegno, il personale e alcuni ospiti del servizio Odós, hanno incontrato i visitatori interessati per un pomeriggio di porte aperte, nella struttura residenziale di viale Venezia. Varese. “Il lavoro restituisce dignità ai detenuti” La Prealpina, 19 ottobre 2024 Protocollo della Prefettura che mira a favorire il reinserimento sociale di chi sta in carcere o è appena uscito. “Tanti non sono delinquenti incalliti”. Dalla prefettura di Varese, guidata da Salvatore Pasquariello, un importante passo avanti per il reinserimento dei detenuti. Di questo si è parlato in un incontro, con tutte le autorità del territorio, nella sala del Consiglio provinciale a Villa Recalcati. Il punto di partenza il “protocollo di intesa per promuovere e sostenere il reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute, ex detenute e in esecuzione penale esterna” sottoscritto a luglio. Sono state condivise le “buone prassi” per facilitare il percorso di reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. L’incontro ha evidenziato l’importanza infatti della sinergia tra istituzioni, imprese ed organizzazioni sindacali, ponendo nuovamente l’accento sul ruolo fondamentale che la speranza e la dignità possono svolgere nel promuovere una reale riabilitazione dei detenuti. Tale ripresa, infatti, passa anche attraverso un lavoro dignitoso, così riducendo anche il sovraffollamento carcerario. Laura De Gregorio, in rappresentanza del Magistrato di sorveglianza, e Giuseppe La Pietra, in rappresentanza del presidente Brunetta del Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) e del “Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale”, nell’incontro hanno parlato dell’importanza fondamentale della formazione e del lavoro in ambito carcerario, sottolineando come questi strumenti siano essenziali per favorire i reinserimento sociale dei detenuti. De Gregorio ha quindi focalizzato l’attenzione sui nuovi detenuti, una tipologia prevalentemente “sociale”: “L’emergenza carceraria non è legata solo al problema del sovraffollamento, ma anche alla tipologia di popolazione carceraria presente oggi negli istituti penitenziari. Come ha detto Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, la detenzione oggi è detenzione sociale”. “Soprattutto negli istituti penitenziari del nostro territorio - ha aggiunto - molti dei detenuti presenti nelle nostre carceri non sono “delinquenti di mestiere”, che hanno scelto il crimine come stile di vita, ma persone per le quali il crimine è stata la risposta sbagliata ad una condizione di emarginazione sociale, di povertà e di disagio”. “Ed allora - ha spiegato Laura De Gregorio - è proprio nei confronti di questi soggetti che il lavoro può essere un elemento decisivo contro il rischio di recidiva, perché in grado di restituire dignità e speranza. Nella prospettiva imprenditoriale, va sottolineato che è questo un capitale umano con una fortissima motivazione al lavoro e che viene valutato dalla Magistratura di sorveglianza come meritevole per l’ammissione a determinati benefici previsti dall’ordinamento penitenziario”. E quindi l’appello “ad investire sui detenuti non vuole risuonare come un invito al cieco buonismo, ma come l’invito ragionato ad offrire una seconda chance a chi ha sbagliato e a chi dimostra una volontà di cambiamento”. “È una sfida anche culturale, perché mira a superare una concezione di afflittività meramente retributiva e un’idea illusoria di sicurezza, fondata sulla separazione dal corpo sociale del condannato. I detenuti e più in generale i soggetti in espiazione pena devono essere invece preparati alla libertà, perché l’emarginazione comporta dei costi sociali altissimi: non c’è soggetto più pericoloso di chi non ha nulla da perdere”. Poi, un giudizio sul protocollo Varese, “di cui l’ufficio di Sorveglianza di Varese condivide gli intenti”, che mira “a fare in modo che il tempo dell’espiazione della pena non sia il tempo dell’ozio senza riposo. Il tempo della disumanità, della vendetta pubblica, ma un tempo degno di uno Stato di diritto, un tempo di speranza, un tempo utile per tutti, per i condannati e per la collettività. Un tempo in cui le ragioni dell’imprenditoria possono incontrarsi con la volontà di riscatto di chi ha sbagliato”. Giuseppe La Pietra ha parlato delle iniziative che il Cnel, nel quadro di una collaborazione con il Ministero della Giustizia e con il Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), ha intrapreso. E nello specifico il disegno di legge presentato al Parlamento per migliorare l’attuale sistema di governance e agevolare l’elaborazione di una politica pubblica nazionale sul lavoro in carcere con l’obiettivo di strutturare una rete interistituzionale volta a gestire l’inclusione lavorativa nella sua globalità, sia in carcere, sia nella fase post-rilascio. Il nuovo segretariato permanente presso il Cnel avrà il compito di coordinare le azioni di tutti gli attori coinvolti nel processo di reinserimento, facilitando la collaborazione tra istituzioni centrali e locali, organizzazioni sindacali e imprese. L’obiettivo è creare una rete capillare di servizi e opportunità, superando gli ostacoli burocratici e valorizzando le buone pratiche già esistenti. Il disegno di legge introduce importanti novità: l’equiparazione salaria dei detenuti che lavorano avranno diritto alla stessa retribuzione dei lavoratori liberi; il fondo volontario che verrà istituito per finanziare progetti di reinserimento, alimentato da contributi di fondazioni bancarie e imprese; il potenziamento della legge Smuraglia per facilitare l’assunzione di detenuti da parte delle imprese; la creazione di una piattaforma informatica online per mettere in contatto imprese e carceri, facilitando la ricerca di profili professionali e l’organizzazione di tirocini. È stata quindi sottoscritta una convenzione dalla direttrice della casa circondariale di Busto Arsizio e dal rappresentante della Grassi S.p.A., società che produce abbigliamento tecnico professionale (guidata da Roberto Grassi, imprenditore della provincia di Varese e presidente di Confindustria Varese). Un esempio concreto di agevolazione del reinserimento. San Gimignano (Si). Presentata una ricerca sulle persone detenute per mafia di Niccolò Gramigni La Nazione, 19 ottobre 2024 Lo studio condotto da Ordine degli Psicologi della Toscana, Università di Palermo e L’altro diritto onlus. La detenzione può influire sulla personalità delle persone detenute per reati mafiosi? E lo studio? Sono le domande da cui è partita la ricerca presentata oggi all’interno della casa di reclusione di San Gimignano dai soggetti che l’hanno condotta: l’Ordine degli Psicologi della Toscana, il Dipartimento di Scienze Psicologiche, Pedagogiche, dell’Esercizio Fisico e della Formazione dell’Università di Palermo e L’altro diritto-Centro di ricerca interuniversitario su carcere, devianza a marginalità e governo delle migrazioni. La ricerca, di cui oggi sono stati anticipati i primi risultati, è stata fatta attraverso questionari e interviste alle persone detenute che scontano pene per reati di associazione mafiosa, con una lunga detenzione e che seguono un percorso formativo universitario. “L’obiettivo era capire gli effetti della lunga detenzione, del trattamento penitenziario, dell’intervento psicologico e del percorso di studi sulla loro personalità” spiega la psicologa Ilaria Garosi, curatrice della ricerca. “Da una prima analisi dei risultati, che in seguito verrà approfondita, è emerso che alcuni tratti della personalità descritta nella letteratura (tendenza a manipolare gli altri, un sé grandioso, assenza di empatia e sensibilità, sospettosità che sconfina a volte nella paranoia) si sono attenuati. Da questo si può supporre che il trattamento detentivo abbia interferito in maniera positiva sulla personalità delle persone detenute e che il percorso di studi seguito abbia contribuito a generare nuove prospettive di pensiero e un’apertura mentale maggiore”. All’incontro hanno partecipato Maria Grazia Gianpiccolo, direttrice della casa di reclusione di San Gimignano, Maria Antonietta Gulino, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Toscana, Sofia Ciuffoletti, presidente de L’altro diritto, Cecilia Giordano e Girolamo Lo Verso del Dipartimento di Scienze Psicologiche, Pedagogiche, dell’Esercizio Fisico e della Formazione dell’Università di Palermo, Ilaria Cornetti, magistrato di sorveglianza, Simone Mangini, vicepresidente dell’ Ordine degli Psicologi della Toscana e coordinatore del gruppo di lavoro Psicologia penitenziaria dell’Ordine. “Ringraziamo la direttrice Gianpiccolo per averci permesso di presentare i primi risultati della ricerca all’interno della casa di reclusione di San Gimignano, dove la ricerca è stata fatta” commenta Maria Antonietta Gulino, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Toscana. “La scelta del luogo per presentare il progetto vuole testimoniare l’impegno dell’Ordine degli Psicologi della Toscana nel fare ricerca e occuparsi della salute psicologica di tutte le persone, anche di quelle detenute e quelle che lavorano nelle case di reclusione. Dobbiamo portare l’attenzione su quello che accade dentro le carceri, luoghi dove vivono persone che si sono macchiate di crimini ma non per questo devono essere lasciate a se stesse, anzi, proprio per questo devono essere supportate anche dal punto vista psicologico. La presenza degli psicologi è necessaria nelle carceri”. “Il carcere è un tema a cui come psicologi vogliamo dedicare impegno, ricerca e attenzione. Per questo, oltre a promuovere ricerche e progetti e stilare intese con il Ministero della Giustizia, abbiamo istituto all’interno dell’Ordine un gruppo di lavoro dedicato alla psicologia penitenziaria - spiega Simone Mangini, vicepresidente dell’Ordine degli Psicologi della Toscana e coordinatore del gruppo di lavoro Psicologia Penitenziaria dell’Ordine -. Abbiamo messo a punto anche un manuale che sarà pubblicato a breve e speriamo possa essere un valido contributo per tutti coloro che si occupano di questo settore”. Napoli. “Detenuto per un minuto”, una cella in piazza contro il sovraffollamento delle carceri tg24.sky.it, 19 ottobre 2024 Gli ultimi dati delineano un quadro peggiore dell’anno scorso: 75 suicidi dietro le sbarre, sovraffollamento di più del 130 per cento. Per sensibilizzare l’opinione pubblica, in piazza a Napoli viene installata una “cella virtuale” nella quale le persone possono entrare per comprendere cosa significhi la detenzione. L’ultimo report del Garante nazionale dei detenuti, lo scorso settembre, contava 67 suicidi in carcere, in Italia, nel 2024. Il bilancio si è già aggravato in una manciata di giorni: si contano 75 suicidi, come emerge dai dati pubblicati da “Ristretti Orizzonti”, la rivista nata nel carcere di Padova e nell’istituto penale femminile della Giudecca che è diventata un vero e proprio osservatorio sulle condizioni di detenzione. Un dato record, quello dei suicidi dietro le sbarre: “Un morto ogni tre giorni e mezzo - allarga le braccia Elena Lepre, avvocato penalista e consigliera dell’associazione “Il Carcere Possibile Onlus” - Il sovraffollamento oggi, ma in realtà da decenni, ha raggiunto numeri spropositati: a fronte di una capienza di 47mila detenuti, ne sono presenti 62mila”. Quasi il 132 per cento: vuol dire che in una cella possiamo trovare anche otto persone. L’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo per trattamenti inumani e degradanti, con uno spazio vitale per detenuto inferiore ai tre metri quadri. Una norma, l’articolo 35ter dell’ordinamento penitenziario, stabilisce che chi ritiene di aver subito trattamento disumano possa richiedere una riduzione della pena (un giorno ogni 10 del periodo trascorso in condizioni inumane) oppure richiedere il risarcimento: 8 euro per ogni giorno passato in questo modo. Una situazione comune, addirittura per chi si sia trovato in una cella per una sola persona. “Un mio assistito - ricorda l’avvocata - detenuto in una cella per una sola persona, mi raccontò che non aveva nemmeno lo spazio per una sedia normale. Doveva sedersi su uno sgabello e restare ingobbito per ore, per poter consultare i documenti relativi al suo procedimento. E per sgranchire le gambe, poteva solo fare saltelli sul posto, perché non c’era spazio”. L’iniziativa “Detenuto per un minuto” - Una situazione drammatica, quella delle carceri e del sovraffollamento, che bisogna continuare a denunciare; in questo senso va l’iniziativa “Detenuto per un minuto”, che nel 2009 fu creata dall’iniziativa di Riccardo Polidoro, fondatore dell’associazione “Il Carcere Possibile”: l’installazione di una cella virtuale in diverse città italiane. In piazza, per far capire alle persone cosa significhi essere in una cella di un carcere. Questa volta, il 19 ottobre, dalle 10.30 alle 13.30, sarà montata in Piazza dei Martiri a Napoli, il cosiddetto salotto buono della città. Chi vorrà, potrà entrare - anche solo per un minuto - per capire più da vicino cosa sia la detenzione in tre metri per tre. E, spesso, anche sotto questo minimo spazio vitale. Milano. I detenuti in scena con “Extravagare”, uno spettacolo per riscoprire la civiltà della Grande Madre di Fabio Postiglione Corriere della Sera, 19 ottobre 2024 La rappresentazione, aperta alla città, è in calendario per il 25 ottobre all’interno del carcere di Bollate. Ci sono progetti dal forte valore simbolico. Una rappresentazione nel carcere di Opera aperta alla città è uno di questi. “Extravagare. Rituale di reincanto”, spettacolo di Opera Liquida, compagnia fondata da Ivana Trettel 16 anni fa e composta da detenuti ed ex detenuti attori della Casa di reclusione di Milano Opera, a un anno dal debutto e dopo essere andato più volte in scena con successo nei teatri della città torna il 25 ottobre alle 20.30 (biglietti entro il 20 ottobre sul sito www.operaliquida.org) sul suo palco d’elezione, quello del carcere dove è nato. Un’occasione che apre i cancelli del carcere, affinché le persone provenienti dalla città possano condividere un momento culturale con la popolazione detenuta, rinnovando la possibilità di uno spazio di incontro, per favorire il cambiamento e il superamento dei pregiudizi. Lo spettacolo, scritto da Ivana Trettel ed Alex Sanchez, è una storia poetica e intensa che approfondisce la civiltà della Grande Madre, società non belligerante, in perfetta parità tra i generi, dedita alla ricerca di cultura e bellezza, per ribaltare con forza l’idea di un male insito nella natura umana. L’installazione che prende vita sul palco sino a coinvolgere la platea è il fulcro della drammaturgia scenica, ispirata all’opera “Grande oggetto pneumatico” realizzata a Milano nel 1960 a firma del Gruppo T, nata dalla collaborazione della compagnia con l’artista cinetico Giovanni Anceschi, tra i fondatori del Gruppo. Il “Grande oggetto pneumatico”, che traccia le nuove strade da percorrere, è inserito nelle scenografie di Marina Conti e Ivana Trettel, realizzate dai detenuti scenografi. “Interrogandoci sull’esistenza dell’umanità, sulle sue vuote e devastanti dinamiche e approfondendo le riflessioni di Aryun Appadurai, di Byung-Chul Han sulla deresponsabilizzazione e la deritualizzazione, abbiamo inaspettatamente incontrato - racconta Ivana Trettel, che firma regia e drammaturgia dello spettacolo - la società della Grande Madre: dimostrazione che l’essere umano ha vissuto per 20.000 anni in armonia con il cosmo. Per mano ci hanno accompagnato Marija Gimbutas, Raine Eisler, Giuditta Pellegrini. E mentre aumentava lo stupore e la gioia per questo affascinante viaggio, un nuovo interrogativo ci ha invaso. Perché molte persone non ne sanno nulla? Perché non studiamo fin dall’infanzia questa straordinaria civiltà? Perché continuiamo a giustificare gli orrori del mondo affermando che è nella natura umana? Ecco, ci opponiamo a questa idea certi della possibilità di extravagare, di trovare nuove strade, nuove prospettive, anche grazie ad un Rituale di reincanto. Questo l’augurio”. I costumi, firmati dallo stilista Salvatore Vignola, sono realizzati dai detenuti costumisti sotto la guida di Tommaso Massone. L’allestimento tecnico è a cura di Silvia Laureti e Mario Pinelli, tecnico detenuto, con i partecipanti al corso tecnico audio luci. Il brano finale dello spettacolo, prodotto all’interno del carcere, è di BrianStormdj, detenuto producer. In scena Michel Alvarez, Alessandro Arisio, Sohaib Bouimadaghen, Carlo Bussetti, Alfonso Carlino, Babacar Casse, Eleonora Cicconi, Vittorio Mantovani, Christopher Santos e Nicolae Stoleru. La cura del progetto è affidata a Nicoletta Prevost. La rappresentazione avviene, in collaborazione con la Direzione della Casa di Reclusione Milano Opera, nell’ambito della terza edizione della Masterclass “L’officina di Opera Liquida: un incrocio di sguardi tra teatro e accademia”. Opera Liquida fa parte della rete nazionale “Per Aspera ad Astra - come riconfigurare il carcere attraverso cultura e bellezza” promosso da Acri con il contributo di Fondazione Cariplo e altre undici fondazioni di origine bancaria. Bologna. Una “Osteria formativa” per i giovani detenuti chiesadibologna.it, 19 ottobre 2024 Una visione da “dentro”. È quella che offre il libro “Osteria Formativa Brigata del Pratello” presentato giovedì 10 ottobre presso l’Auditorium Enzo Biagi della Sala Borsa. È uno dei frutti di un’iniziativa che da anni offre ai giovani detenuti del carcere minorile del Pratello di seguire percorsi formativi. È quindi il racconto di un’esperienza fatta dentro un luogo chiuso come il carcere, ma anche dell’interiorità dei ragazzi che attraverso questa esperienza preparano il loro futuro. La Garante per l’infanzia e l’adolescenza della Regione Emilia-Romagna, Claudia Giudici, ha sottolineato che questi progetti permettono ai ragazzi che vengono da vissuti difficili, di avere una seconda opportunità. Presente all’evento in Sala Borsa anche il Direttore dell’Istituto Penale minori di Bologna, Alfonso Paggiarino, che afferma di aver sempre creduto nel recupero dei ragazzi, e di avere iniziato a collaborare con Fomal fin dal suo arrivo alla Direzione dell’Istituto nel 2012. Il Sindaco Matteo Lepore ha ricordato come sia importante parlare dei giovani senza riferirsi sempre alle criticità, come se fossero il male della società, e invita a modificare il punto di osservazione, partendo dall’attenzione da prestare all’uso del linguaggio. Alcune studentesse del Fomal hanno introdotto la presentazione del libro commentando attraverso musica e letture l’articolo 3 della Costituzione. Per prenotare una sera a cena, consultare il sito https://www.brigatadelpratello.it/home Ivrea (To). Il carcere apre le porte ai cani dei detenuti, tra affettività e polemiche di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 19 ottobre 2024 Un’iniziativa che vede le lodi dei Garanti: “Sacro il diritto all’affettività”. La Casa Circondariale di Ivrea sta vivendo un momento di svolta: per la prima volta, i detenuti possono accogliere i propri cani durante le visite dei familiari, e nel frattempo, tra le mura del carcere, i ristretti si prendono cura di alcuni gattini. L’iniziativa, accolta con entusiasmo dai garanti per i diritti delle persone private della libertà, Bruno Mellano e Raffaele Orso Giacone, rispettivamente garante regionale e garante di Ivrea, rappresenta un importante passo avanti per garantire ai detenuti un diritto spesso negato: l’affettività. Giacone ricorda che una sentenza della Corte Costituzionale del 1999 aveva già riconosciuto questo come un vero e proprio diritto soggettivo. “Progetti come questo mettono al primo posto il detenuto,” spiega Giacone, “permettendo loro di mantenere i legami con l’esterno e coltivare relazioni affettive anche all’interno delle strutture detentive”. Molti detenuti sentono la mancanza dei loro amici a quattro zampe, e ora, grazie a questa novità, chi si trova ristretto a Ivrea potrà finalmente rivedere il proprio cane durante le visite, un momento che promette di restituire un po’ di umanità a chi sta scontando la propria pena. Tuttavia, non mancano le polemiche. Il sindacato Osapp ha sollevato preoccupazioni, chiedendo una revisione della disposizione, ritenendo che l’introduzione degli animali possa creare problematiche logistiche e di sicurezza. Ma Giacone non sembra cedere alle critiche: “Questa è solo strumentalizzazione per fare polemica” afferma deciso. Anche Mellano interviene sulla questione, chiarendo che l’ingresso degli animali è regolamentato da autorizzazioni precise e iter rigorosi. “Non si tratta di una misura improvvisata,” spiega, “stiamo lavorando su diversi progetti legati alla pet therapy per i detenuti”. I nuovi volti della povertà da record e la presa in carico che manca di Francesco Riccardi Avvenire, 19 ottobre 2024 Ci sono i numeri che parlano di un record negativo: 5,7 milioni di persone in povertà assoluta nel nostro Paese, di cui 1,3 milioni minori, mai così tanti. E percentuali che segmentano l’insieme per territorio e tipologia familiare, misurando dove e quanto il morbo della miseria colpisca: il Sud sempre in difficoltà e il Nord che peggiora, i nuclei numerosi ad essere maggiormente a rischio e le famiglie di stranieri a rappresentare quasi un terzo del totale dei bisognosi, perché tra gli immigrati più di quattro su dieci ne sono affetti, come in un’epidemia. Il rapporto dell’Istat sulla povertà nel 2023 ribadisce concetti che paiono ovvi - più sale il grado di istruzione più si è protetti dal rischio - assieme a dati assai meno scontati: la povertà non è più “monopolio” di clochard e disoccupati ma alligna anche fra chi un’occupazione ce l’ha, con un’incidenza del 16% tra operai e simili, il doppio della media. Ha pesato l’inflazione, dice l’Istituto di statistica, assieme ai bassi salari e ai minori aiuti e trasferimenti pubblici. È osservando le file alle mense dei poveri o gli accessi agli sportelli Caritas, però, che queste cifre drammatiche diventano carne, le percentuali volti, si può toccare la sofferenza delle persone ai margini. Si trovano ancora gli anziani a cui la pensione sociale non basta, anche se mangiano solo pane e latte la sera, ma ci si imbatte sempre più spesso in madri che recuperano l’essenziale per i figli perché il lavoro precario loro e dei mariti non è sufficiente; in badanti straniere che tra un anziano defunto e il prossimo da assistere non sanno come mettere insieme pranzo e cena; 40-50enni espulsi dal mercato del lavoro, spiazzati da qualche innovazione e ora in difficoltà a mantenere casa e famiglia. E assieme a loro i “saltuari ritornanti”: quelli che il mese scorso hanno lavorato 20 giorni e non si sono visti, ma ora c’è fiacca e di giornate pagate ne han fatte a malapena 10 e ovviamente non bastano. Ci sono ancora gli spiazzati dalla vita, i malati, i “difficili” che hanno bisogno di una compagnia come companatico essenziale. Sempre più, però, trovi appunto loro: famiglie di origine straniera venute qui per lavorare ma che non guadagnano abbastanza e giovani che hanno abbandonato precocemente la scuola e oggi galleggiano tra un part-time e l’altro. C’è “un’occupazione che si va frammentando tra una fascia alta, in cui a qualità e professionalità corrispondono buone retribuzioni, mentre in basso si creano sacche di salari insufficienti, alimentati anche da part-time involontario, e da precarietà”, ha osservato giusto ieri il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “È la condizione che riguarda anche molti immigrati, sovente esposti a uno sfruttamento spietato, inconciliabile con la nostra civiltà”. Il Governo Meloni - abolendo il Reddito di cittadinanza ritenuto troppo costoso e assistenzialistico - ha scelto di mirare i sostegni solo ai nuclei familiari con figli. Niente più universalità, per spingere in particolare i singoli ad attivarsi e a trovare un’occupazione. Ha incluso più nuclei di origine straniera, prima particolarmente penalizzati dal Rdc, ma in totale ha ridotto la copertura a meno del 30% dei poveri assoluti. Davvero un’esigua minoranza. Assai parziali, finora, anche i risultati dell’altra misura introdotta, il Supporto formazione lavoro, che ha riguardato 96mila persone, coinvolte in progetti di formazione del cui esito non è dato sapere. Se, però, si è tutti d’accordo che istruzione e occupazione rappresentino gli assi portanti su cui è possibile costruire il percorso di uscita dalla povertà, la formazione e le politiche attive del lavoro dovrebbero diventare le priorità sulle quali investire, la lotta allo sfruttamento un impegno serrato e il recupero degli esclusi dalla scuola, dal mercato del lavoro e dalla società una preoccupazione costante. Assieme a strategie di “contorno” che riguardano anzitutto le politiche per la casa e il diritto all’istruzione, temi finora trascurati. In definitiva, quella che occorre è una vera e propria “presa in carico dei poveri” che finora non si è avvertita, prima con l’illusione che bastasse fornire a quante più persone un sussidio e ora pensando che il mercato da solo possa aggiustare domanda-offerta di lavoro e far emergere tutti. Ma non è così e un piano, anzi tante strategie politiche, sono sempre più urgenti per evitare quello che, ancora il capo dello Stato, ha definito “un elemento di preoccupante lacerazione della coesione sociale”. Dalla povertà si esce solo accompagnati e un Paese cresce tanto più quante meno persone vengono escluse o abbandonate a sé stesse. L’attacco allo stato di diritto minaccia tutti di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 19 ottobre 2024 Fallimento e reazione. È la storia del potere politico che si pretende immune dal rispetto delle leggi, la vittoria elettorale come unico crisma riconosciuto della legalità. Ho i voti quindi posso. Nella sua marcia sullo stato di diritto, la destra italiana registra continue sconfitte, ma arretrando trascina con sé il paese. Ogni volta un passo indietro lungo la scala della democrazia e della civiltà. L’ultima, prevedibilissima, sconfitta con la mancata convalida dei trattenimenti dei pochi migranti rimasti nei campi di concentramento in Albania porta con sé immediato un nuovo annuncio. Arriverà un nuovo decreto, arriverà subito, entro due giorni, per cambiare la lista degli “Stati sicuri”. Dirà, più o meno, che uno Stato è sicuro e quindi deve riprendersi i migranti anche se fuggono da violenze e torture, è sicuro perché lo dicono la presidente del Consiglio e il suo ministro poliziotto dell’interno. Non basterà, neanche stavolta, perché la sentenza della Grande sezione della Corte di giustizia europea alla quale ieri ha fatto riferimento il Tribunale di Roma per ordinare il rimpatrio dei migranti vale anche per il governo italiano. Così come valgono la Costituzione e i Trattati internazionali e ci sarà sempre una giudice o un giudice che non abdicando alla sua funzione li farà applicare. Ma intanto l’attacco del governo Meloni di decreto in decreto e di proclama in proclama va concentrandosi e chiarendosi. Punta direttamente al cuore dello stato di diritto e ai principi fondamentali della nostra malandata democrazia. “Lasciateci lavorare” non è certo formula nuova per demagoghi e reazionari. Così reagendo all’ennesimo smacco nella sua guerra ai migranti, il governo ricorre a questo antico slogan, in una versione appena più articolata: “Rispettiamo la magistratura, ma la magistratura ci lasci lavorare”. La seconda parte della frase nega evidentemente la prima ed ha anch’essa una sua lunga storia nella destra nazionale. È la storia del potere politico che si pretende immune dal rispetto delle leggi, la vittoria elettorale come unico crisma riconosciuto della legalità. Ho i voti quindi posso. Eppure rispetto alla versione originale del sillogismo di impunità, quello introdotto nella politica italiana da Silvio Berlusconi - il leader che a suo tempo ha allevato tutti e tre i protagonisti di oggi, Meloni, Salvini e Tajani - la nuova versione è assai più pericolosa. Non bisogna farsi confondere dai colpi di teatro, dalle quasi identiche sfilate di ministri solidali con il capo, quella radunata ieri a Palermo da Salvini come quella ordinata dal Cavaliere a Milano nel 2013. Oggi la minaccia è molto più alta. Se infatti Berlusconi pretendeva impunità per difendere se stesso e i suoi affari, la destra oggi reclama di divincolarsi dalle leggi per portare a segno la sua quotidiana missione di egoismo e segregazione. Chiede al paese una tanto più facile complicità contro i migranti, colpevoli di nulla se non di essere tali. Se Berlusconi nella sua crociata contro le toghe aveva l’appoggio altalenante delle simpatie e delle invidie del popolo, Meloni e compagnia possono contare sull’eterna paura dell’altro da sé, che loro stessi alimentano. I giudici, dunque, almeno quando si ostinano a seguire la gerarchia delle leggi e i principi superiori (il che peraltro non avviene sempre, malgrado il governo voglia farlo credere), sono dei nemici perché non collaborano a questo missione superiore. Ecco dunque che nell’umiliante sfilata palermitana di ministri come nell’arringa difensiva al processo “Open Arms” (che ha portato nell’aula di giustizia gli argomenti della piazza, in buon avvocatese) come negli annunci di guerra della presidente del Consiglio, non si tenta nemmeno una difesa di Meloni e Salvini e dei loro fallimenti. Ma si giura di combattere per “la patria” e per “i confini”. Una retorica da ultimo stadio che se non altro chiarisce il punto di arrivo della marcia sullo stato di diritto. Perché l’elenco dei nemici da abbattere a mani libere comincia con i migranti ma è assai più lungo. Migranti in Albania, il tribunale non convalida il trattenimento: “Saranno riportati domani in Italia” di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 19 ottobre 2024 Il provvedimento riguarda i 12 stranieri che si trovano nei centri al di là dell’Adriatico. Bangladesh ed Egitto non sono “paesi sicuri”. La sezione immigrazione del tribunale di Roma non ha convalidato il trattenimento dei migranti all’interno del centro italiano di permanenza per il rimpatrio di Gjader in Albania. Il provvedimento era stato disposto per i dodici stranieri dalla questura di Roma il 17 ottobre scorso, i quali fanno parte dei 16 migranti (dieci provenienti dal Bangladesh e 6 dall’Egitto) trasportati in Albania al Cpr di Gjader dalla nave Libra della Marina militare italiana. Il destino dei 12 richiedenti asilo è quello di essere riportati in Italia: per effetto del provvedimento non possono rimanere nelle strutture ma non possono nemmeno essere lasciati liberi in territorio albanese. Una nave della Marina Militare domani li riporterà a Bari e successivamente trasferiti in un centro di accoglienza: qui potranno presentare ricorso entro due settimane per ottenere la protezione internazionale. “I due Paesi da cui provengono i migranti, Bangladesh ed Egitto, non sono sicuri anche alla luce della sentenza della Corte di Giustizia europea” scrivono i giudici di Roma. Secondo i quali lo stato di libertà potrà essere riacquistato solo al loro rientro in Italia. Per i magistrati “manca il titolo” in base al quale i migranti potevano essere trattenuti in Albania. L’ordinanza del tribunale di Roma - analoga ad altre già adottate dai giudici di diverse città italiane - pone in serio dubbio il fondamento dell’intero piano albanese, per il quale il governo ha previsto una spesa in cinque anni di oltre 600 milioni. Il presupposto da cui sono nate le norme varate dal ministro Piantedosi è che i rimpatri possano seguire una procedura accelerata (4 settimane) quando riguardano cittadini di una lista di Paesi considerati “sicuri” e che quindi non danno luogo a richieste di asilo. La sentenza della Corte di Giustizia ha però stabilito che tale requisito lo hanno solo nazioni in cui tutte le categorie di individui, nessuna esclusa, siano al riparo da discriminazioni. Non raggiungerebbero questo status molti dei 22 Paesi individuati come “sicuri” dall’Italia. Da qui l’impossibilità di trattenere gli stranieri nei Cpr destinati a questa “procedura accelerata”. “I provvedimenti adottati hanno analizzato le specificità di ciascuna richiesta” ha dichiarato in una nota ufficiale la presidente di sezione del tribunale di Roma Giuliana Sangiovanni. Riguardo alle reazioni politiche, la Lega batte tutti sul tempo: “I giudici pro immigrati si candidino alle elezioni ma sappiano che non ci faremo intimidire” fa sapere una nota ufficiale del partito di Salvini. “La sinistra giudiziaria aiuta quella parlamentare” sostiene e invece Fratelli d’Italia sul suo profilo ufficiale di X. Il senatore meloniano Rastrelli si spinge a parlare di “atto di guerra dei magistrati contro il governo”. “Abbiamo presentato un’interrogazione sui costi per l’Albania, c’è un danno erariale” incalza invece la segretaria del Pd Elly Schlein. Più pacata la reazione del ministro Matteo Piantedosi: “Rispettiamo la decisione dei giudici, presenteremo ricorso”. Meloni furiosa: “Vergogna”. Guerra totale tra magistrati e governo di Paolo Delgado Il Dubbio, 19 ottobre 2024 L’opposizione, oltre a bersagliare in coro e molto rumorosamente il governo per la figuraccia, mettono sul tavolo, in Europa, addirittura la possibile procedura d’infrazione. Ora la guerra tra centrodestra e magistratura è totale, forse persino più esasperata che negli anni del conflitto fra i togati e Silvio Berlusconi. È stato solo il caso a volere che l’esplosione di un conflitto di tali proporzioni sul fronte dell’immigrazione coincidesse con l’arringa difensiva dell’avvocato e deputata leghista Bongiorno al processo contro Salvini per il caso Open Arms. Però nessun regista avrebbe potuto fare di meglio. Il colpo inflitto alla premier dai magistrati della sezione immigrazione del tribunale di Roma è pesantissimo. Il Protocollo con l’Albania non è una mossa politica come tante altre. Era o doveva essere il fiore all’occhiello del governo italiano in Europa, la pista aperta da Roma sulla quale si sarebbero poi incamminati tutti, la prova delle centralità ritrovata dall’Italia. Chi pensa che fosse una mossa propagandistica a uso interno non afferra il senso reale della strategia impostata da Meloni ma spalleggiata dalla presidente della Commissione europea von der Leyen e da tutta quella robustissima area del Ppe che guarda a destra e accolta con vivo interesse anche da leader certo non di destra come il cancelliere tedesco. La sentenza di Roma rischia di farla naufragare nel ridicolo, anche per quegli 800 milioni che sembrano oggi gettati dalla finestra, tanto che la segretaria del Pd Schlein denuncia il possibile “danno erariale”. L’opposizione, più precisamente Pd, M5S e Avs, però non si limita a questo. Oltre a bersagliare in coro e molto rumorosamente il governo per la figuraccia, i tre partiti del centrosinistra mettono sul tavolo, in Europa, addirittura la possibile procedura d’infrazione, con la formula classica dell’interrogazione nella quale ci si chiede se la Commissione intenda procedere per un accordo illegale. La premier, che già schiumava rabbia, sbotta: “Non si era mai visto. È una vergogna”. In effetti la richiesta di procedura d’infrazione contro il proprio Paese non è cosa di tutti i giorni e forse, nell’entusiasmo dei festeggiamenti, è stato un passo falso piuttosto clamoroso. Dunque la giornata di ieri apre due fronti di guerra: quello con la magistratura e quello con l’opposizione. Sul primo la tempistica rende ragione del livello raggiunto dallo scontro anche più della raffica di dichiarazione del centrodestra che si scagliano contro i “magistrati politicizzati che vorrebbero abolire i confini dell’Italia” (FdI), e che dovrebbero invece “candidarsi alle elezioni” (Lega). La sezione immigrazione si è infatti riunita prestissimo ieri mattina: sperava di chiudere prima che la commissione territoriale incaricata di vagliare le loro richieste d’asilo, e che di solito impiega mesi, le respingesse in poche ore. Ora il governo ricorrerà in Cassazione contro la sentenza che blocca il trasferimento in Albania, i 16 migranti faranno lo stesso contro il respingimento della loro richiesta d’asilo. Cosa sarà di loro quando oggi stesso la nave militare riporterà i 12 “albanesi” in Italia è oscuro. In compenso è chiara la doppia invasione di campo. Il Tribunale, forte anche della sentenza della Corte di Giustizia europea in base alla quale non si può definire “sicuro” un Paese se non è sicuro il suo intero territorio, si è di fatto sostituito al Parlamento affossando una decisione delle Camere, cioè della politica. La commissione territoriale, cioè la politica, si è sostituita alla magistratura negando un asilo che secondo il Tribunale di Roma doveva invece essere concesso. Sul piano politico l’esito dello scontro violentissimo in termini di consenso è più discutibile. Forse l’opposizione avrebbe fatto meglio ad abbassare i decibel e limitarsi a prendere atto, certo con soddisfazione, di una decisione della magistratura. La decina e decine di dichiarazioni tripudianti, i festeggiamenti, la messa all’indice del governo, l’accusa di aver provocato un danno erariale e addirittura l’autogol della procedura d’infrazione invocata rischiano di restituire alla premier, in termini di consenso interno, quel che ha perso sul piano dello smalto internazionale. Agli occhi di quella parte non certo piccola di opinione pubblica spaventata dall’immigrazione, la festa un po’ sgangherata di ieri sembrerà la prova di quanto ideologiche e sbilanciate a sinistra siano le posizioni di una parte della magistratura. Sul piano politico, se non su quello giudiziario, il più gongolante è Salvini. La destra europea già ne aveva fatto un martire e una bandiera. Il suo processo diventa ora a tutti gli effetti la prima linea di uno scontro all’ultimo sangue tra poteri dello Stato, oltre che tra maggioranza e opposizione. E una recalcitrante Giorgia Meloni si ritrova sua malgrado buttata letteralmente tra le braccia del rumoroso alleato e della sua destra sovranista europea. Meloni e il caso migranti: “Contro di noi parte delle istituzioni”. E prepara un decreto di Francesco Verderami Corriere della Sera, 19 ottobre 2024 Lunedì un testo con le nazionalità di chi potrà essere trasferito. Non è il solito derby tra politica e magistratura. Stavolta il conflitto è sui poteri dello Stato. Un nodo delicato che preannuncia uno scontro di sistema. Lo si intuisce dal modo in cui la premier commenta la sentenza dei giudici di Roma che impone al governo di riportare in Italia i dodici migranti appena trasferiti in Albania: “Il problema non è quel centro di accoglienza. Il problema è che è molto difficile cercare di dare risposte alla Nazione quando si ha anche l’opposizione di parte delle istituzioni”. Un colpo diretto e stavolta non ci sono di mezzo inchieste sulla corruzione, stavolta il problema è quello evocato dal presidente del Senato: “Il verdetto mi stupisce ma non mi sorprende. Penso che serva un sano rapporto tra poteri e che sia stabilita in modo chiaro la perimetrazione delle rispettive funzioni”. È uno dei massimi esponenti di Palazzo Chigi, solitamente molto riservato, a tradurre il concetto di La Russa: “Quando un potere si sostituisce a un altro potere, si parla di eversione”. Ecco la fiammata, seguita da un circostanziato atto d’accusa verso la giudice del processo che ha riportato in Italia i migranti, la quale “con una serie di esternazioni sulla stampa ha anticipato di fatto la decisione, annunciando che “il protocollo varato dal governo non si applicherà”. Sembra di leggere il don Rodrigo del Manzoni...”. La tesi che l’esecutivo voglia celare dietro il complotto quello che appare come un fallimento della sua strategia sull’immigrazione, regge fino a un certo punto. È vero che la sentenza fa saltare il tassello politicamente e mediaticamente più importante del “modello Italia”, al quale guardano persino alcuni governi socialisti europei. Un modello composto dal decreto sui flussi, da intese con Paesi sottosviluppati e da aiuti agli Stati africani rivieraschi, e che ha prodotto un calo degli arrivi di immigrati irregolari. Ed è altrettanto vero che le opposizioni hanno ora buon gioco a denunciare “lo spreco di danaro pubblico” per l’hotspot in Albania che “non potrà più essere usato”. Per certi versi persino Meloni - annunciando un decreto ad hoc - riconosce un baco nella legislazione. In realtà il Consiglio dei ministri di lunedì sarà l’inizio di un braccio di ferro con la magistratura. Lo fa capire il titolare degli Interni quando spiega che “il verdetto è colpa di una evoluzione dell’applicazione del diritto in Italia”. Decrittata da un suo collega di governo, “la frase di Piantedosi è un modo per criticare il giuridicismo cavilloso delle toghe finalizzato a rendere impossibile l’accelerazione delle procedure di rimpatrio”. Tecnicamente il problema riguarda i “Paesi sicuri” dove rimandare gli immigrati irregolari. Ma l’oggetto del contendere, secondo Palazzo Chigi, è di natura costituzionale: “A chi tocca stabilire se un Paese è sicuro? Ai giudici o alla politica?”. Perché in Italia la Farnesina è nel pieno di una crisi diplomatica con il Marocco, dopo che la corte d’Appello di Brescia ha respinto l’estradizione di un marocchino accusato di terrorismo, siccome “il Marocco non è un Paese sicuro”. Mentre la Germania ha appena rimpatriato ventotto irregolari in Afghanistan. “E comunque nel 2026 - aggiunge Piantedosi - iniziative come quella che l’Italia sta realizzando in Albania diverranno diritto europeo”. Perciò nessuno a Palazzo Chigi prova a dissuadere Meloni dal fatto che “siccome non riescono a colpirmi giudiziariamente su questioni personali, provano a colpirmi sugli atti di governo”. Tanto più che un autorevole ministro le ha girato una dichiarazione della leader dem: “L’accordo con l’Albania è fuorilegge. Ottocento milioni buttati che configurano un danno erariale”. “Occhio Giorgia”, c’era scritto nel messaggio di accompagnamento: “Schlein preannuncia l’intervento della Corte dei conti. E dopo arriverà la magistratura ordinaria”. Il conflitto tra poteri dello Stato, se non risolto, potrebbe pregiudicare la durata della legislatura. E stavolta lo scontro non ruoterebbe attorno al malaffare politico ma sull’immigrazione e sul ruolo della magistratura. Diceva ieri la premier: “Come si difendono così i confini? Come si può gestire così l’ordine pubblico? Dove si trovano i miliardi per l’accoglienza?”. Sembrava in campagna elettorale. Dai giudici scelta obbligata dopo la sentenza della Corte Ue sui migranti. Ora serve una soluzione politica. Non le liti di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 19 ottobre 2024 La decisione del giudice di Roma che nega il rimpatrio dei cittadini stranieri trasferiti in Albania era ampiamente prevedibile. Nei giorni scorsi altri giudici si sono espressi in identico modo decidendo di non convalidare il trattenimento di cittadini stranieri che, dopo lo sbarco, erano stati trasferiti in centri di permanenza che si trovano in Italia. Tutte le ordinanze emesse nelle ultime due settimane si basano su una sentenza della Corte di giustizia europea che il 4 ottobre scorso ha ridefinito il criterio di “Paese sicuro” ponendo dei vincoli stretti alla possibilità di rimpatriare i migranti negli Stati di provenienza. Il caso preso in esame a Lussemburgo riguardava un cittadino moldavo giunto nella Repubblica Ceca e nei confronti del quale era stata attivata la procedura di espulsione. Ma, come sempre accade per le pronunce della Corte di Giustizia, il principio deve essere esteso e quindi applicato da tutti gli Stati membri. Basterebbe questo a rendere poco comprensibile la bagarre politica che si è scatenata ieri, pochi minuti dopo il deposito dell’ordinanza sui migranti portati in Albania. Il centrodestra si è subito scagliato contro i magistrati definendo politica una decisione fondata su elementi giuridici. L’opposizione si è affrettata a rivendicare di aver avuto ragione quando aveva attaccato l’accordo siglato con Tirana perdendo di vista il fatto che la questione è generale. Entrambi gli schieramenti hanno così dimostrato di non aver centrato il vero nodo del problema e le conseguenze che può avere in Italia, ma più in generale in Europa sulla gestione dei flussi migratori e in particolare sull’impossibilità di rimpatriare gli stranieri che non hanno diritto a rimanere. La linea scelta dal governo Meloni con l’apertura dei centri in Albania ha un obiettivo esclusivamente deterrente, anche perché 3.000 posti non possono rappresentare la soluzione al sovraffollamento delle strutture. Il messaggio è esplicito: non partite alla volta dell’Italia, anche se siete intenzionati ad andare in altri Stati europei, perché vi impediremo in ogni modo di toccare il nostro suolo. La realizzazione di questo accordo al momento si è però rivelata estremamente costosa dal punto di vista economico e soprattutto da quello pratico, ottenendo così l’effetto contrario a quello prefissato. È vero che la presidente della commissione Ursula von der Leyen ha parlato di “soluzioni innovative per affrontare l’emergenza” impegnandosi a sperimentare il “modello Albania” e altri leader hanno espresso giudizi positivi, ma il consenso non è unanime, e comunque bisogna tenere conto dei vincoli imposti dalle regole e convenzioni della stessa Unione. La strada da percorrere per un progetto comune appare ancora lunga. Ecco perché è importante mantenere una linea di fermezza senza abbandonarsi a reazioni scomposte. La storia di questo Paese è stata segnata negli ultimi decenni da uno scontro tra politica e magistratura che ha avuto conseguenze talvolta anche drammatiche. Ogni governo, se ne ha le capacità e i numeri in Parlamento, ha il diritto e il dovere di portare avanti il proprio programma e in materia di giustizia l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni lo sta facendo in maniera rapida aiutato anche da alcuni parlamentari che - almeno formalmente - si trovano dalla parte opposta della barricata. Può farlo senza alzare i toni, ma anche considerando poco opportuna la scelta di alcuni ministri di organizzare un sit in a Palermo dove era in programma un’udienza del processo contro Matteo Salvini per il caso Open Arms. Lunedì si riunirà il Consiglio dei ministri, all’ordine del giorno c’è il varo di un provvedimento che consenta al governo di superare l’impasse creato dalla sentenza della Corte europea. Gli uffici legislativi di Palazzo Chigi e del Viminale sono al lavoro, l’ipotesi è quella di rendere appellabili le ordinanze dei giudici in modo da bloccarne l’effetto. Una strada giudiziaria, dunque, l’unica in questo momento percorribile se non si vuole acuire un conflitto tra poteri dello Stato che ha già raggiunto livelli altissimi. Nei momenti delicati - e quello che l’Italia sta vivendo lo è per le tensioni interne ma soprattutto per la crisi internazionale - diventa indispensabile muoversi con cautela e responsabilità. Consapevoli che le fibrillazioni continue, o peggio ancora gli scontri istituzionali, possono provocare soltanto danni ulteriori. Il guaio di un Paese che non vuole vedere le esondazioni dei magistrati quando si parla di immigrazione di Claudio Cerasa Il Foglio, 19 ottobre 2024 Si può non condividere il metodo scelto da un governo sulle politiche migratorie, ma c’è un interrogativo di fondo a cui bisogna trovare una risposta: chi decide quali sono i paesi sicuri dove possono essere rimandati i migranti che arrivano in Italia senza averne il diritto? Il modello albanese su cui l’Italia ha scelto di scommettere per provare a ridurre il numero di migranti irregolari che arrivano sulle nostre coste contiene tutti gli elementi per animare ancora a lungo discussioni e divisioni profonde all’interno del mondo della politica. Il modello può essere legittimamente considerato come un esempio da studiare per capire se l’esternalizzazione della gestione dell’immigrazione può produrre efficienza o quantomeno un effetto deterrente (la Commissione europea è su questa prima strada) e può essere altrettanto legittimamente considerato come uno spreco di denaro pubblico perché quello che si cerca di fare in Albania non si capisce per quale ragione non possa essere fatto rafforzando i centri di accoglienza che si trovano in Italia (l’opposizione a Meloni è invece su questa seconda strada). Su un punto però chi considera il modello positivo e chi lo considera negativo dovrebbero trovarsi. E quel punto coincide con una necessità che dovrebbe essere scontata e che invece purtroppo non lo è: non considerare il migliore dei mondi possibili quello in cui l’opposizione delega alla magistratura la definizione di ciò che è giusto e cosa è sbagliato quando si parla di politiche migratorie. Nel caso in questione non stiamo parlando del processo palermitano a Salvini, un processo che fa parte di un altro secolo, un secolo in cui i ministri dell’Interno sceglievano esplicitamente e sfacciatamente di violare il diritto del mare. Stiamo parlando di un altro caso, più fresco, che è quello affiorato oggi a Roma, dove i giudici della sezione immigrazione del tribunale della Capitale hanno deciso di non convalidare il trattenimento di dodici richiedenti asilo provenienti da Egitto e Bangladesh soccorsi nella notte del 13 ottobre in acque internazionali dalla Guardia di Finanza, trasferiti a bordo di una nave della Marina militare e condotti due giorni fa in Albania al centro di trattenimento di Gjader. I giudici hanno scelto di non convalidare il trattenimento, si legge nel comunicato stampa diffuso dalla presidente di sezione del tribunale di Roma, a causa dell’”impossibilità di riconoscere come paesi sicuri gli stati di provenienza delle persone trattenute”. La questione riguarda il caso dell’Albania, naturalmente, nei cui centri creati dall’Italia possono essere condotti solo migranti salvati in acque internazionali e solo ed esclusivamente maschi, adulti, non vulnerabili, provenienti da paesi inseriti nella lista dei cosiddetti paesi sicuri. Ma in verità il caso riguarda un tema più generale, e ancora più importante, al centro del quale vi è un problema, se così lo vogliamo definire con un eufemismo, che è il cuore dello scontro che vive ormai da mesi, a intensità variabile, tra un pezzo della magistratura e il governo di centrodestra. A livello di diritto, il problema è semplice: chi decide quali sono i paesi sicuri dove possono essere rimandati i migranti che arrivano in Italia senza averne il diritto? I magistrati, evocando una sentenza della Corte di giustizia europea che impone all’autorità giudiziaria di valutare caso per caso le limitazioni di libertà dei migranti in virtù della possibilità che vi siano alcuni paesi considerati sicuri che in verità non sono sicuri per tutti o che comunque non sono sicuri nella loro interezza (vedi il caso della Transnistria, in Moldavia, vedi il caso di paesi enormi come la Nigeria, dove non tutti i distretti possono considerarsi sicuri), hanno scelto una strada negli ultimi mesi. Questa: smantellare la lista dei paesi sicuri costruita negli anni dal potere esecutivo andando a considerare paesi non sicuri tutti i paesi in grado di non garantire al cento per cento la libertà di un migrante (secondo questi criteri anche gli Stati Uniti, dove vige la pena di morte in alcuni stati, potrebbero essere considerati non sicuri). A livello politico, il problema è se possibile ancora più complesso e la questione è in fondo semplice da capire: la politica ha ancora il diritto di considerare irregolare un migrante che arriva in Italia, senza averne il permesso, senza avere il diritto di chiedere asilo, oppure chiunque arriva in Italia deve essere considerato automaticamente regolare, anche chi arriva da paesi sicuri con cui il governo ha stabilito accordi precisi di ingressi legali attraverso il decreto Flussi, per il semplice fatto che l’autorità giudiziaria considera in modo discrezionale non sicuri paesi definiti invece sicuri dal governo? Negli ultimi mesi, all’indomani dell’approvazione del cosiddetto decreto Cutro, che ha creato una procedura accelerata che può durare al massimo ventotto giorni per esaminare lo status dei migranti, diversi tribunali hanno scelto di colpire ripetutamente la dottrina migratoria del governo facendo leva proprio sull’impossibilità di definire una lista di paesi sicuri. L’effetto di questa azione della magistratura - azione che qualcuno potrebbe definire anche di carattere ideale, considerando che non è raro incontrare tra i giudici che non convalidano il trattenimento di migranti alcuni particolarmente attivi all’interno delle proprie correnti della magistratura, l’ultima della serie è la dottoressa Silvia Albano, presidente di Magistratura democratica, che oggi ha firmato due provvedimenti del tribunale di Roma - è come è evidente quello di rendere di fatto illegale la politica dei rimpatri (nella prima metà del 2024 l’Italia ha emesso 13.330 ordini di rimpatrio ma ha rimandato indietro solo 2.035 persone), è quello di rendere di fatto più sottili le frontiere (non esiste un’emergenza migranti in Italia, come scrive bene il nostro David Carretta oggi, ma esiste un problema legato al fatto che la politica, grazie alla discrezionalità della magistratura, ha sempre meno sovranità sulla politica migratoria) ed è quello di trasferire sull’autorità giudiziaria una competenza che dovrebbe essere fino a prova contraria di pertinenza dell’autorità politica: decidere, al termine di una complessa istruttoria, quali paesi possono essere considerati sicuri e quali invece no, e valutare sulla base di questa scelta il modo più opportuno per portare avanti le proprie politiche migratorie. I più furbi proveranno a dire che le esondazioni della magistratura sul terreno dei rimpatri dimostrano che la magistratura ha un pregiudizio ideologico nei confronti della destra e che di questo pregiudizio ideologico ne è vittima anche Matteo Salvini, la cui storia invece è totalmente diversa, perché nella storia di Salvini vi è un politico che ha scelto deliberatamente di violare il diritto del mare mentre nella storia dei rimpatri ci sono dei magistrati che altrettanto deliberatamente ammettono le proprie intenzioni sostenendo che non può essere la politica a occuparsi di rimpatri ma deve essere la magistratura. I più accorti non potranno però non concordare su un punto che dovrebbe essere al centro di ogni stato di diritto e di ogni democrazia sana. Si può odiare con tutto il cuore il metodo scelto da un governo sulle politiche migratorie. Ma non si può non saltare sulla sedia quando si scopre che a volersi sostituire al governo è una magistratura che esonda dando lezioni di morale e non un’opposizione che si afferma dando lezioni di democrazia. Se il Governo rinuncia al dialogo con l’Islam di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 19 ottobre 2024 Le dimissioni del Consiglio per le relazioni con l’Islam, operante nell’ambito del Ministero dell’Interno, richiamano all’attenzione un problema che riguarda l’Italia nei suoi rapporti con le comunità islamiche. Si tratta della mancanza del loro riconoscimento legale, frutto e causa di difficoltà di rapporti con le autorità dello Stato e di problemi relativi alla libertà religiosa garantita dalla Costituzione. V’è poi discriminazione rispetto al trattamento di altre confessioni religiose e, più in generale, impatto negativo sulla percezione pubblica di quel particolare aspetto del fenomeno religioso: non riconosciuto perché - così si intende - non merita di essere riconosciuto. Quest’ultimo aspetto è tanto più rilevante nei tempi presenti in cui molti conflitti e violenze muovono da radici che si vogliono religiose e oppongono questa o quella versione dell’Islam al resto del mondo. Proprio un simile contesto globale dovrebbe sconsigliare di trattare e rigettare sul punto del riconoscimento legale la realtà dell’Islam in Italia, come un fenomeno unitario da tenere tutto a distanza. Converrebbe riconoscere invece le varietà esistenti al suo interno e, riconoscendole sul piano giuridico, in qualche modo promuovere le comunità organizzate che offrono garanzie di coerenza con i valori costituzionali e di contrasto a pericolosi radicalismi. Sono circa due milioni i cittadini italiani e gli stranieri di numerose nazionalità residenti in Italia di fede islamica, con una decina di moschee e un migliaio di sale di preghiera. I luoghi di preghiera sono spesso terreno di contrasto da parte di amministrazioni comunali, che ne fanno occasione di lotta politica contro l’Islam. Ha dovuto intervenire la Corte costituzionale, richiamando il principio supremo rappresentato dal carattere laico della Repubblica e la libertà religiosa stabilita dall’art. 9 della Costituzione: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”. E la Costituzione prevede il regime dei rapporti tra Stato e Chiese, nel senso che quelli con la Chiesa cattolica sono retti dai Patti Lateranensi, mentre quelli con le altre confessioni religiose sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. In mancanza di intesa il regime proprio di una confessione religiosa è quello stabilito dalla legge del 1929 sui culti ammessi. Una legge generale sulla libertà religiosa, in linea con la Costituzione, non è mai stata approvata. Mentre sono state concluse intese con numerose confessioni religiose, anche di scarsissima consistenza numerica, non si è ancora provveduto con le associazioni rappresentative dell’Islam italiano. Nemmeno si è avuto il riconoscimento legale di tali organizzazioni, salvo una, il Centro islamico culturale d’Italia, che sovrintende alla Grande Moschea di Roma e ha uno statuto molto speciale, che vede un ruolo degli ambasciatori di alcuni Paesi islamici. La questione del mancato riconoscimento è seria: in diversi Stati europei sono stati rilevati numerosi casi in cui a organizzazioni religiose di vario tipo era negati o venivano ritirati il riconoscimento legale oppure la natura religiosa. Con la conseguenza di escludere l’applicabilità delle particolari discipline previste nei vari ordinamenti per le confessioni religiose: in Italia, la protezione assicurata dalla Costituzione alle associazioni di carattere ecclesiastico o religioso. Numerose sono le sentenze della Corte europea dei diritti umani che riconoscono in tali casi la violazione del diritto alla libertà religiosa e del divieto di discriminazione. L’anno scorso, per l’Unione delle Comunità Islamiche in Italia (Ucoii) e per la Comunità Religiosa Islamica (Co. Re. Is.) era stato concluso al Ministero dell’Interno il lavoro preparatorio, condotto dal Consiglio per le relazioni con l’Islam, per il riconoscimento di personalità giuridica delle due associazioni. Il Consiglio di Stato aveva dato parere favorevole. Si trattava dell’esito di un lavoro svolto lungo diversi anni, che avrebbe dovuto concludersi con la delibera del Consiglio dei ministri. Ed era un passo indispensabile, poiché quel riconoscimento è ritenuto preliminare rispetto alle trattative dirette a concludersi con una Intesa approvata per legge. Nel corso degli anni, con il concorso del Consiglio per le relazioni con l’Islam e il dialogo con le organizzazioni religiose, alcuni ministri dell’Interno hanno compiuto atti importanti. Così nel 2006 (ministro Amato), con riferimento alla varietà di culture e religioni introdotta dalle immigrazioni, era stata approvata la Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione. Si trattò all’epoca di dar seguito alla Dichiarazione approvata in ambito Unione europea, nel semestre di presidenza italiana, sul dialogo interreligioso come fattore di coesione sociale in Europa. Fondata sui principi costituzionali di dignità della persona, sui diritti di libertà e i diritti sociali con i relativi doveri, la Carta richiama in particolare il principio di laicità e la libertà religiosa ed è intesa come utile strumento di orientamento dell’azione del Ministero, in particolare per favorire la coesione sociale. Successivamente nel 2017 (ministro Minniti) era stato approvato il Patto con l’Islam italiano, nel quale si dava atto del “ruolo rilevante che le associazioni islamiche svolgono nell’azione di contrasto a ogni espressione di radicalismo religioso posta in essere attraverso propaganda, azioni e strategie contrarie all’ordinamento dello Stato”. Con il Patto si intendeva tra l’altro “promuovere un processo di organizzazione giuridica delle associazioni islamiche in armonia con la normativa vigente in tema di libertà religiosa e con i principi dell’ordinamento giuridico dello Stato” e anche “favorire le condizioni prodromiche all’avvio di negoziati volti al raggiungimento di Intese ai sensi dell’art. 8, comma 3, della Costituzione”. Ma la proposta di riconoscimento della personalità giuridica a Ucoii e Co. Re. Is. non è mai stata portata in Consiglio dei ministri. E il Consiglio per le relazioni con l’Islam non è più stato convocato. Donde la presa d’atto della sua irrilevanza e le dimissioni dei suoi componenti. Brutto segno dei tempi. Segno del prevalere della voglia del conflitto piuttosto che dell’intesa. Segno dell’intenzione di tenere a distanza tutti gli altri, senza discernimento, contro la Costituzione e contro ciò che consiglierebbe saggezza politica, per la ricerca della pace sociale. Non confondere legge e giustizia di Gianni Pardo Italia Oggi, 19 ottobre 2024 Israele sta agendo in nome della giustizia-vendetta. Ma anche gli orrori perpetrati dal nazismo furono commessi con il sostegno della legislazione allora vigente. Se c’è un errore esiziale è confondere legge e giustizia. La legge è un dato di fatto (un testo approvato da una certa autorità statuale e seguendo certe procedure) la giustizia è invece un’esigenza teorica che nessuno può garantire. Forse Dio, almeno per i credenti. Per il resto dobbiamo accontentarci della verità processuale (e non della verità storica) e dell’applicazione delle norme come le intende il giudice. In fondo nelle nostre città non ci dovrebbe essere un Palazzo di Giustizia ma un Palazzo della Legge. Gli orrori perpetrati dal nazismo furono conformi alla legislazione, furono commessi col sostegno della legislazione e nell’ambito dell’attività normale dello Stato. Ciò non toglie che quei crimini abbiano gridato vendetta dinanzi all’Altissimo e che l’esigenza di un’adeguata reazione (in nome della giustizia, stavolta) sia stata sentita come ineludibile. Purtroppo, il processo di Norimberga è voluto arrivare alla giustizia attraverso la legge, e in questo ha sbagliato. È vero che i gerarchi nazisti sono spesso stati condannati anche in base a precedenti disposizioni giuridiche tedesche, ma è anche vero che chi dirige la politica di uno Stato, e in particolare di uno Stato in guerra, non lo fa - e non può farlo - consultando continuamente il codice penale. Infatti l’Unione Sovietica, prima che cominciasse il processo, si è ben assicurata che non sarebbe stata implicata per i propri crimini. Ma anche gli Alleati avevano i propri scheletri nell’armadio. E c’è di peggio. I dirigenti sono stati anche processati per capi di accusa evanescenti e antistorici come la guerra d’aggressione, i delitti contro l’umanità ed altre imputazioni non previste da nessuna normativa, mentre - sin dal Settecento - è stato considerato un pilastro indiscutibile della civiltà giuridica che non possa esistere nullum crimen sine praevia lege, cioè che non si possa condannare per nessun reato che non sia previsto da una legge precedente. E tutte le condanne inflitte per simili reati sono illegali. Ciò non significa che molti di quei signori, non meritassero effettivamente, in nome della giustizia, l’impiccagione. Ma la meritavano in base alla giustizia, appunto, e dunque tutta la coreografia di quel famoso evento giudiziario tutto è stata salvo che un fenomeno giuridico. Nel caso del massacro del 7 ottobre 2023, Israele si è trovata dinanzi ad un problema analogo. È vero, i gazawi hanno esultato per le strade all’idea che erano state sgozzate e stuprate tante donne, uccisi tanti giovani innocenti, e perfino tanti bambini. Ma non per questo si potevano uccidere due milioni e passa di quegli incoscienti. Né si poteva dichiarare guerra a Hamas, essendo questa soltanto un’organizzazione terroristica, e non certo una struttura statuale. Non bastasse, non appena il cielo si è annuvolato, i dirigenti sono tutti scappati all’estero (salvo Yahya Sinwar), Hanihye addirittura in un albergo a cinque stelle nel Qatar. Dunque ad Israele è venuto a mancare il nemico, nessun Allende che si suicida col mitra. Ma - a quanto pare - il ragionamento fatto a Gerusalemme è stato semplice: per quanti sforzi abbiano potuto fare gli Alleati, per applicare norme indiscutibili a Norimberga, in fin dei conti sono sempre i vincitori che hanno giudicato i vinti, e lo hanno fatto in nome della giustizia, non della legge. E allora, se giustizia dev’essere (dove alla parola giustizia si può sostituire senza alcun imbarazzo la parola vendetta) che vendetta sia. Israele non ha fatto prigionieri. Non ha imbastito alcun processo. Ha applicato la regola emanata tanto tempo fa secondo cui si avvisava che uccidere un ebreo non era più gratuito. E figurarsi milletrecento. La conseguenza è stata che Israele non soltanto ha teso più ad uccidere i miliziani di Hamas che a catturarli e processarli, ma addirittura è riuscita ad uccidere praticamente tutti i capi importanti di quell’organizzazione - malgrado le straordinarie precauzioni che avranno preso per difendersi - fino a disarticolarla e renderla impalpabile. Il colmo è stata la morte di Ismail Hanihye: prova e controprova della determinazione di Gerusalemme, che non perdona e fa bene a non perdonare, dal momento che la controparte non le lascia alcuna alternativa. Quanto alla popolazione di Gaza, se soffre delle conseguenze di una guerra combattuta sul suo striminzito territorio, è perché quella guerra l’ha voluta proprio Gaza, non Israele. E Israele non ha nessun dovere di provvedere alla sua sussistenza o alla sua sanità. I gazawi desideravano uccidere tutti gli ebrei (come del resto i manifestanti nelle nostre strade), gli ebrei non desideravano uccidere tutti i gazawi, e comunque chiedere che si levino il pan di bocca nel loro interesse è francamente troppo. Che ci pensino tutti coloro che dicono di amarli. Israele ha certo la mano pesante ma, a differenza di Hamas e organizzazioni simili, non è la mano di un assassino. Gli israeliani agiscono in nome della giustizia e il fatto che la giustizia sia intesa in modo diverso da chiunque la maneggi, è un difetto ineliminabile di quel nobile ideale. Giappone. Detenuto nel braccio della morte per 46 anni: le prove? False di Diana Zogno L’Unità, 19 ottobre 2024 Il Giappone, insieme agli Stati Uniti, resta l’unica nazione, tra le democrazie industrializzate membri del G7, a praticare la pena di morte. Il paese detiene circa 106 persone in attesa della pena da eseguire mediante impiccagione, con un’attesa media anche di decenni per la revisione delle condanne o l’esecuzione. La pena capitale nel Paese del Sol Levante ha origini antiche, nonostante una prima abolizione fosse già avvenuta nel 724 per mano dell’imperatore Sh?mu, sotto l’influenza del buddismo. La pratica è stata poi ripresa e da quando il codice penale giapponese ha subito l’influenza occidentale, nel corso dell’era Meiji, ha autorizzato la pena di morte per i crimini “più atroci”. Nel 1945, durante l’occupazione da parte degli Stati Uniti, infatti, l’estrema pena fu mantenuta all’interno dell’ordinamento giudiziario. Oggi più che mai l’esecuzione capitale è oggetto di numerosi dibattiti nel Paese e la sua “appropriatezza” messa in discussione anche nelle ultime settimane dal caso di Iwao Hakamada, giapponese di 88 anni originario di Shizuoka, prosciolto dall’accusa di omicidio e rilasciato dopo aver trascorso 46 anni nel braccio della morte. Hakamada, ex pugile, era stato condannato nel 1968 per l’uccisione del suo datore di lavoro, nonché della sua famiglia, presso la fabbrica di pasta di soia miso dove lavorava. Nel 2014 era stato rilasciato per l’emergere di nuove prove del dna che hanno messo in dubbio l’affidabilità della sua condanna iniziale, finché il 26 settembre scorso un nuovo processo ha definito l’innocenza di Hakamada e la falsificazione da parte degli inquirenti di alcune prove iniziali che avevano portato al suo arresto. “L’autorità ha aggiunto macchie di sangue e ha nascosto gli oggetti nella vasca del miso ben dopo che l’incidente si era verificato”, ha affermato il giudice Kunii Koshi. I procuratori hanno deciso di non presentare ricorso contro l’assoluzione. Il caso dell’ex pugile ha presto acceso le critiche verso il sistema giudiziario e di esecuzione delle pene nel Paese. La presidente della Japan bar association, Reiko Fuchigami, ha esortato il governo e il Parlamento ad adottare misure per abolire le esecuzioni e snellire i processi giudiziari. “Il caso Hakamada mostra chiaramente la crudeltà della pena di morte ingiusta e la tragedia non dovrebbe mai più ripetersi”. L’attuale ministro della Giustizia Hideki Makihara ha replicato che sarebbe “inappropriato” abolire la pena capitale. Anche i vescovi giapponesi hanno rinnovato la loro richiesta di abolizione dopo l’assoluzione di Hakamada: “vorremmo invitare la società giapponese a considerare ancora una volta i meriti e i demeriti della pena di morte”, ha affermato l’arcivescovo di Tokyo Tarcisio Kikuchi Isao, presidente della Conferenza episcopale. Proprio sullo stesso tema era “caduto” nel 2022 il predecessore di Makihara, Yasuhiro Hanashi, costretto a dimettersi per alcune dichiarazioni rilasciate sulle esecuzioni capitali. Secondo il quotidiano nazionale Asahi Shimbun, infatti, Hanashi avrebbe ironizzato sull’importanza del ruolo del ministro della Giustizia che è incaricato, per la legge giapponese, di autorizzare le esecuzioni, sottolineando come di fatto quella fosse l’unica circostanza in cui il ministro della Giustizia ottenesse l’attenzione nazionale. L’ultima esecuzione registrata nel Paese è avvenuta nel luglio 2022, impiccato quando è stato un uomo che nel 2008 aveva ucciso sette persone in un violento scontro con un camion e accoltellamento, nel quartiere dell’elettronica di Akihabara a Tokyo. Dopo le dimissioni di Hanashi, nel corso del 2023, il Giappone non ha più effettuato impiccagioni, “merito” dell’esposizione internazionale del Paese nel suo ruolo di presidenza del G7, ma anche della pressione interna e del malcontento montante contro il dicastero della giustizia, dopo alcune rivelazioni emerse secondo cui guardie carcerarie avrebbero aggredito dei detenuti. Ma il caso di Hakamada, probabilmente il prigioniero più anziano, nella storia dei sistemi giudiziari democratici moderni, ad aver atteso la propria pena in un braccio della morte per poi essere assolto, apre una crepa inedita per la reputazione della giustizia giapponese all’interno e al di fuori dei propri confini. Dal dopoguerra a oggi, infatti, la popolazione giapponese ha generalmente mostrato fiducia nei tribunali della giustizia nazionale. Si contano sulle dita di una mano i condannati a morte a cui è stato concesso un nuovo processo, solo quattro. Hakamada è solo il quinto condannato a morte a cui è stato concesso un nuovo processo nella storia del Giappone postbellica. Il caso potrebbe costituire un precedente importante per la giustizia giapponese, di cui per la prima volta vengono messe sotto giudizio pubblico l’infallibilità, ma soprattutto la legittimità del ricorso alla pena di morte. In prigione anche a 10 anni. L’Australia non fa sconti ai bambini di Veronique Viriglio agi.it, 19 ottobre 2024 Nella regione con la più alta percentuale di minori detenuti, il parlamento approva una riforma che abbassa l’età della responsabilità penale a 10 anni. Ma si teme che la nuova legge possa avere un duro impatto sui giovani aborigeni. Una controversa riforma è stata varata nel territorio del Nord dell’Australia dove l’età penale è stata abbassata da 12 a 10 anni, in un tentativo di contrastare l’aumento della delinquenza giovanile. Si tratta effettivamente della regione con la più alta percentuale di minorenni detenuti nel Paese, pertanto la misura è stata accolta come un tentativo di arginare il fenomeno, ma si teme che possa avere un duro impatto sui giovani aborigeni. La misura è stata approvata con una votazione del parlamento regionale che si è espresso a favore della modifica legislativa che abbassa l’età penale di due anni, invertendo una riforma intrapresa l’anno scorso. Il nuovo governo regionale del partito conservatore Liberale, eletto nelle elezioni di agosto e salito al potere due settimane fa, ha sostenuto la misura con l’obiettivo di ridurre il tasso di criminalità giovanile. A eccezione di Canberra, tutte le giurisdizioni in Australia mantengono l’età penale a 10 anni, anche se alcune, come l’Australia Occidentale, Victoria e Tasmania, sono in procinto di aumentarla a 14 anni, il minimo stabilito dallo standard delle Nazioni Unite. Due giorni fa, nella legislatura della giurisdizione, la leader politica regionale, Lia Finocchiaro, ha difeso la necessità che “le persone siano ritenute responsabili dei crimini che stanno commettendo, ma anche di metterle su una strada migliore per il futuro”. “Non ci scusiamo per aver mantenuto il nostro impegno per ridurre la criminalità”, ha aggiunto la leader del Territorio del Nord, che ha un tasso di incarcerazione giovanile 11 volte superiore a qualsiasi altra giurisdizione del Paese - circa il 90% dei quali sono bambini aborigeni o indigeni dello Stretto di Torres. Laburisti contrari alla riforma - Dall’inizio dell’anno, Alice Spring, nel Territorio del Nord e famosa per la sua vicinanza al Monte Uluru, è stata teatro di una serie di disordini dell’ordine pubblico e atti violenti, costringendo le autorità ad applicare per due volte il coprifuoco in questa città dove vivono circa 36.500 abitanti, di cui oltre il 20% sono aborigeni. Il cambiamento legislativo è stato criticato dall’avversaria laburista Selena Uibo, la prima e unica donna aborigena a guidare un importante partito in Australia, definendolo un “giorno buio” per il territorio. “Sappiamo che quanto prima un bambino entra in contatto con il sistema della giustizia penale, tanto più lungo sarà il suo coinvolgimento. Vogliamo vedere i bambini ritenuti responsabili del loro comportamento scorretto, ma poi aiutati a seguire un percorso migliore”, ha osservato Uibo. Da parte sua, anche la Commissione australiana per i diritti umani del governo ha criticato la riforma. “Abbassare l’età della responsabilità penale a 10 anni non renderà le comunità più sicure, ma aumenterà solo i tassi di criminalità infantile. Si tratta di bambini in eta’ di scuola primaria e le risposte dure e punitive non sono la risposta”, ha affermato la commissaria Anne Hollonds. Gli aborigeni costituiscono il 3,8% degli oltre 26,5 milioni di abitanti del Paese. Al contrario, questa minoranza rappresenta il 33% della popolazione carceraria australiana, attualmente composta, secondo i dati ufficiali, da circa 42 mila detenuti.