È tempo di una clemenza nelle carceri, cari parlamentari: un appello trasversale Il Foglio, 18 ottobre 2024 Da gennaio, oltre settanta detenuti e sette agenti della polizia penitenziaria si sono tolti la vita, senza contare che nelle prigioni italiane ci sono quattordicimila persone in più rispetto ai posti effettivamente disponibili. Dati su cui riflettere e un appello da sostenere. Non c’è più tempo: bisogna fermare la strage di vite e diritti nelle carceri italiane. Più di quanto non sia mai stato, le carceri italiane sono diventate un luogo di morte e disperazione. Dall’inizio dell’anno ormai ben oltre settanta le persone si sono tolte la vita dietro le sbarre, quanti non mai dall’inizio del secolo in poco più di nove mesi. E con loro hanno deciso di farla finita sette agenti di polizia penitenziaria. Ognuno di loro avrà avuto le proprie personali ragioni per arrivare a quella scelta ultima ed estrema, ma quelle morti ci interrogano sull’ambiente di vita e professionale in cui avvengono e sulle sue croniche carenze. Sono ormai 62.000 i detenuti nelle carceri italiane, circa quattordicimila in più dei posti effettivamente disponibili. In un anno, quasi quattromila in più. Si tratta in gran parte di autori di reati minori, condannati a pene che potrebbero dar luogo a un’alternativa al carcere se avessero un domicilio adeguato, una famiglia a sostenerli, un lavoro con cui mantenersi. Non più di un terzo è autore di gravi reati contro la persona o affiliato a organizzazioni criminali. È questo il contesto in cui si sta registrando un numero di suicidi senza precedenti, tra i detenuti e nella polizia penitenziaria. Il carcere, i suoi operatori, i detenuti non ce la fanno più. Anche i migliori propositi, come quelli condivisi dall’Amministrazione penitenziaria con il Cnel, di abbattere la recidiva attraverso il potenziamento della formazione, dell’orientamento e dell’inserimento lavorativo dei detenuti, per potersi avverare hanno bisogno di ridimensionare il numero dei detenuti in modo che gli operatori possano seguirli efficacemente. Per non dire della prevenzione del rischio suicidario e della necessaria assistenza sanitaria. E’ da molto tempo all’esame della Camera una apprezzabile proposta, avanzata dall’on. Giachetti, volta a potenziare le riduzioni di pena per i detenuti che partecipano attivamente all’offerta di attività rieducative proposte dal carcere. Ma, se vedesse finalmente la luce, non consentirebbe prima di qualche mese o addirittura di un anno l’uscita anticipata dal carcere di alcune migliaia di detenuti a fine pena, tanti quanti ne sono entrati nell’ultimo anno. Serve un intervento più deciso, che consenta la cancellazione drastica e immediata del sovraffollamento e la realizzazione delle condizioni per una più generale riforma del sistema penitenziario. E’ un intervento che la Costituzione prevede come strumento di politica del diritto penale quando se ne ravvisi la necessità e l’urgenza, come certamente è questo il caso. Un provvedimento di clemenza generale, che potrebbe assumere le caratteristiche di una legge di amnistia e di indulto per i reati e i residui pena fino a due anni. In poche settimane, con l’indulto uscirebbero dal carcere circa sedicimila detenuti, con l’amnistia per i reati minori si alleggerirebbero i carichi di lavoro degli uffici giudiziari e per un po’ di tempo si eviterebbero nuove carcerazioni per reati minori. Tutti gli operatori della giustizia penale e del sistema penitenziario sanno che questa è l’unica soluzione disponibile ed immediatamente efficace per risolvere il problema del sovraffollamento. Il fatto che l’articolo 79 della Costituzione richieda una maggioranza speciale per l’approvazione di una legge di amnistia e di indulto, che pure meriterebbe di essere rivista, lungi dal costituire un impedimento assoluto alla sua approvazione, spinge a una condivisione di responsabilità tra le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, per l’adozione di un provvedimento necessario a restituire condizioni di vita e di lavoro dignitose nelle nostre carceri. Condivisione che ci fu nel 2006, quando il presidente del consiglio Romano Prodi e il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi si assunsero la comune responsabilità di votare a favore del più recente provvedimento di clemenza adottato in Italia, allora come oggi necessario al rispetto ai principi dell’articolo 27 della Costituzione. In ultimo, ricordiamo che - contrariamente a una errata opinione molto diffusa - quel provvedimento ha dato risultati molto positivi non solo nel decongestionamento degli istituti di pena, ma anche nella riduzione della recidiva: secondo la ricerca di Torrente, Sarzotti, Jocteau, commissionata dal ministero della Giustizia nel 2006, degli oltre 27 mila detenuti liberati grazie a quell’indulto, solo il 35% era rientrato in carcere cinque anni dopo, a fronte di un dato generale che vede intorno al 67% la percentuale di recidiva registrata tra quanti scontano interamente la propria pena in carcere; d’altro canto, secondo l’indagine di Drago, Galbiati e Vertova, pubblicata sul Journal of Political Economy, il tasso di recidiva tra i beneficiari dell’indulto del 2006 è diminuito del 25%. Dati su cui riflettere e da cui trarre coerenti conseguenze. Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Michele Ainis, Mons. Vincenzo Paglia, Gaia Tortora, Giovanni Fiandaca, Gherardo Colombo, Clemente Mastella, Daria Bignardi, Mauro Palma, Francesco Petrelli, Tullio Padovani, Rita Bernardini, Dacia Maraini, Alessandro Bergonzoni, Mattia Feltri, Andrea Pugiotto, Ornella Favero, Franco Corleone, Patrizio Gonnella, Franco Maisto, Luigi Pagano, Grazia Zuffa, Valentina Calderone, Samuele Ciambriello Per info e contatti: clemenzaperlecarceri@gmail.com Emergenza Carceri, suicidi e sovraffollamento tra silenzi politici e diritti violati di Giulia Sorrentino L’Identità, 18 ottobre 2024 Settantacinque è il numero dei suicidi avvenuti nei nostri istituti penitenziari da inizio anno: un numero per cui l’Italia potrebbe rischiare una seconda sentenza Torreggiani viste le condizioni in cui versano le nostre carceri. Era l’8 gennaio 2013 quando la seconda Camera della Corte europea dei diritti umani (Cedu), ha condannato lo Stato italiano per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani per trattamenti disumani e degradanti. Non è solo l’articolo 27 della Costituzione quello a cui dobbiamo appellarci per far sì che il concetto di riabilitazione sia veramente messo in pratica. Una riabilitazione che passa molto e anche attraverso chi soffre di disturbi psichiatrici in carcere. C’è una branca della genetica che prende il nome di epigenetica, che si occupa di studiare come i fattori ambientali possono modificare l’espressione dei nostri geni. Emergenza carceri: suicidi e sovraffollamento. Quali sono le cause? - L’ambiente circostante è fondamentale anche e soprattutto per il funzionamento del nostro cervello, che si ciba, si innamora e si nutre voracemente non solo della propria chimica, ma anche di ciò che ne influenza il funzionamento. Il carcere è certamente un ambiente ostile soprattutto per le persone che presentano un disagio mentale. Soggetti che andrebbero tutelati e per i quali dovrebbero esistere dei percorsi alternativi seri e strutturati che consentano al contempo una cura dei disagi in essere. Attacchi di panico, depressione, ansia, disturbo di personalità, psicosi. Questi sono solo alcuni degli innumerevoli quadri clinici che altro non possono che peggiorare dietro le sbarre. Ricollocare in modo alternativo chi ha commesso dei reati ma al contempo presenta una seria e conclamata situazione mentale compromessa garantirebbe due benefici: il primo è la tutela del diritto alla vita e alla salute di quegli esseri umani, il secondo è una diminuzione del numero dei detenuti all’interno delle nostre carceri. C’è anche un altro aspetto molto importante che riguarda il sovraffollamento, aspetto che dovrebbe certamente meritare il rinnovamento degli istituti già in essere e la costruzione di altri impianti. Il dato assurdo, però, ci dice che oltre il 30% della nostra popolazione penitenziaria è costituita da stranieri. Stranieri che gravano su uno Stato che non ha certamente bisogno di ulteriori problemi economici, e no, noi cittadini non dovremmo occuparci di mantenere chi nel nostro Paese non rispetta le regole. Questo perché, in concerto con il contrasto dell’immigrazione clandestina, ci deve essere il contrasto all’illegalità perpetrata da chi non riconosce le leggi e le istituzioni italiane. Una domanda al Pd: ma voi, dopo non aver fatto assolutamente nulla in merito in anni e anni di Governo, voi che vi ritenete i paladini dei diritti a giorni alterni, come mai non dite una parola? Forse perché i detenuti non portano tanti voti quanti ne può portare la comunità Lgbtq+? Misure alternative e riorganizzazione: i punti principali per la riforma del carcere di Manuela Petrini interris.it, 18 ottobre 2024 Come ha spiegato papa Francesco all’Angelus del 23 settembre 2024 “Dobbiamo lavorare perché i detenuti siano in condizioni di dignità. Ognuno può sbagliare. Essere detenuto è per riprendere una vita onesta dopo”. L’istituto penitenziario è un’istituzione che, nella sua totalità, è impossibile da conoscere per la maggior parte delle persone ed è pressoché impenetrabile a chi non ha motivi professionali per entrarvi. Il carcere è una realtà estrema, particolare e difficile da descrivere, eppure la gente e i mass-media ne parlano come se la conoscessero ma, invece, affrontano l’argomento in modo settoriale e quasi sempre in occasione di eventi estremi come i suicidi e le rivolte. La misura detentiva è, innanzitutto, privativa della libertà; oltre alla privazione della libertà di uscire, ciò che viene quasi totalmente a mancare è la libertà di gestione di molti aspetti della propria vita. Con l’ingresso in carcere, ogni concessione al detenuto avviene mediante canalizzazioni precise o a seguito di specifici permessi accordati previa presentazione di un’apposita “domandina”, ossia un modulo prestampato attraverso il quale il ristretto rivolge le sue richieste particolari e parla al Direttore. Alla compilazione seguono poi i tempi di risposta e, infine, l’esito della richiesta. Le giornate si susseguono secondo il regolamento interno del penitenziario: sveglia, ora d’aria, pranzo, cena, con una ripetitività inesorabile. Esistono le attività trattamentali che includono le attività lavorative, spesso occasionali e, purtroppo, per mancanza di fondi, non riguardano tutti i detenuti. “Il carcere è una realtà dura, e problemi come il sovraffollamento, la carenza di strutture e di risorse, gli episodi di violenza, vi generano tanta sofferenza”. Lo ha ricordato il Pontefice nella sua visita ad aprile alle detenute della Giudecca a Venezia invitando a “non togliere la dignità a nessuno”. Il carcere “può anche diventare un luogo di rinascita, morale e materiale, in cui la dignità di donne e uomini non è “messa in isolamento”, ma promossa attraverso il rispetto reciproco e la cura di talenti e capacità”. La capacità ricettiva delle carceri italiane ha reso il sovraffollamento “strutturale e sistemico”, come, appunto, definito dalla Corte per i diritti umani del Consiglio d’Europa nella famosa sentenza “Torreggiani” del 2014. Tuttavia, è bene precisare che l’Italia, in base ad una consolidata prassi amministrativa, calcola la capacità ricettiva del proprio sistema penitenziario facendo riferimento ad un parametro più elevato rispetto a quelli impiegati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e da numerosi altri Stati membri del Consiglio d’Europa. Invero, non esistendo nessuna fonte normativa che dica quanto spazio ciascun detenuto debba avere all’interno della camera detentiva, l’Amministrazione penitenziaria ha ritenuto di individuare come criterio idoneo per definire la capienza ottimale delle camere di pernottamento quello previsto dal Ministero della sanità con d.m. 5 luglio 1975 il quale individua in nove metri quadri la superficie minima delle camere da letto delle civili abitazioni. Tale dato numerico, indicato per le camere da letto delle civili abitazioni, è stato adottato dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria per determinare la superficie regolamentare degli ambienti detentivi, e calcolando così la capienza regolamentare degli istituti sulla base della disponibilità di nove metri quadrati per una persona, ai quali vanno aggiunti ulteriori 5 metri quadri per ciascun detenuto nelle camere detentive multiple. Sulla base di tali criteri viene elaborato il dato della capienza complessiva del sistema penitenziario italiano, periodicamente pubblicato dal Ministero della giustizia che al 30 giugno 2024 - come rappresentato, anche graficamente, dal Sole 24 ore - registrava un indice di sovraffollamento di circa il 120%, essendo presenti nei penitenziari italiani diecimila reclusi in più rispetto al massimo consentito. A ciò, occorre aggiungere che il patrimonio edilizio destinato alla detenzione, attualmente, è costituito da oltre duecento complessi demaniali edificati in epoche diverse e per destinazioni, in alcuni casi, non afferenti alla specifica funzione carceraria, alla quale sono stati adattati solo successivamente (ad esempio i modelli monastici degli edifici a corte). Vi sono poi modelli architettonici che, seppure realizzati per uso detentivo, risalgono al periodo antecedente all’abolizione della pena di morte ed alla prima legge relativa all’edilizia penitenziaria (legge 14 luglio 1889, n.6165), quali ad esempio le case circondariali e di San Vittore (Milano) e di Regina Coeli (Roma). Solo con la riforma penitenziaria si inizia a porre il problema della disponibilità delle strutture e solo nell’epoca giolittiana viene soppresso l’uso della catena al piede per i condannati ai lavori forzati e l’eliminazione delle disumane punizioni della camicia di forza, dei ferri e della cella oscura. Detti sistemi, anche sotto l’aspetto strutturale, rilevano l’inadeguatezza a contenere spazi destinati alle attività di lavoro, di studio e formazione per i detenuti aventi la stessa dimensione dell’area utilizzata per le attività detentive. Del pari, l’inadeguatezza riguarda anche l’adeguamento di questi istituti ai più moderni standard edilizi della sicurezza e della salubrità dei luoghi di lavoro anche delle strutture per il personale dell’amministrazione penitenziaria. Appare ormai improcrastinabile la tanto attesa rivoluzione copernicana del pianeta carcere tra misure alternative e riorganizzazione degli istituti penitenziari. Per provvedere alla realizzazione delle opere necessarie per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari, il Governo ha recentemente nominato il nuovo Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, dott. Marco Doglio, il cui recente decreto d’incarico è stato firmato dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, su proposta del Ministro della giustizia Carlo Nordio, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini. Affinché il sistema carcerario possa finalmente offrire ai detenuti e alle detenute “strumenti e spazi di crescita umana, spirituale, culturale e professionale, creando le premesse per un loro sano reinserimento” - come ci chiede a gran voce Papa Francesco - occorrono, quindi, interventi organici e sistematici che non possono prescindere dalla complessità del carcere, dalla territorialità della detenzione nel senso di detenzione e residenza del detenuto, ma anche di vicinanza a nodi stradali importanti per consentire ai familiari di preservare l’affettività con il ristretto e garantirgli una migliore condizione di vita. Una significativa inversione di tendenza dell’attuale gestione in materia di edilizia penitenziaria richiede, perciò, interventi infrastrutturali e piani strategici di riorganizzazione degli istituti nonché di realizzazione di nuovi istituti penitenziari e di alloggi di servizio per la polizia penitenziaria, unitamente alla promozione di percorsi di esecuzione della pena differenziati e trattamenti individualizzati finalizzati alla rieducazione ed al reinserimento dei detenuti. Solo così potrà essere accolto il monito di papa Francesco “non isolare la dignità, ma dare nuove possibilità”. Ddl sicurezza, penalisti in sciopero per tre giorni di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 ottobre 2024 L’annuncio del presidente Ucpi davanti ai senatori delle commissioni riunite. L’avv. Francesco Petrelli: “orme profondamente illiberali e autoritarie, con sproporzionato e ingiustificato rigore punitivo nei confronti dei fenomeni devianti meno gravi”. “Natura intimidativa dello strumento penale”, “matrice securitaria, profondamente illiberale e autoritaria”, “incremento irrazionale del sistema carcerocentrico”, “aperto contrasto con la ricorrente giurisprudenza costituzionale”. Sono solo alcuni dei giudizi sul ddl Sicurezza esposti dagli esperti interrogati ancora ieri dai senatori delle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia nell’ambito dell’iter di approvazione del pacchetto già approvato alla Camera un mese fa. “Le audizioni stanno smontando pezzo per pezzo la pessima legge voluta da Meloni”, riferisce a fine seduta il capogruppo di Avs, Peppe De Cristofaro, che presiede il gruppo Misto di palazzo Madama. Poco prima, davanti a lui, il presidente dell’Unione delle camere penali Francesco Petrelli aveva spiegato i motivi per i quali gli avvocati penalisti italiani hanno proclamato tre giorni di sciopero contro il ddl 1236: si asterranno dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale il 4, 5 e 6 novembre. A Roma, il 5 novembre, si terrà una manifestazione nazionale per “sollecitare il Parlamento ad adottare tutte le opportune modifiche alle norme del pacchetto sicurezza in senso conforme alla Costituzione ed ai principi del diritto penale liberale”. Il Pacchetto “Omnibus” rivela, infatti, secondo l’avv. Petrelli, “una matrice securitaria, profondamente illiberale e autoritaria, caratterizzata da uno sproporzionato e ingiustificato rigore punitivo nei confronti dei fenomeni devianti meno gravi ed ai danni dei soggetti più deboli, caratterizzandosi per l’introduzione di una iniqua scala valoriale, in relazione alla quale taluni beni risultano meritevoli di maggior tutela rispetto ad altri di eguale natura, in violazione del principio di ragionevolezza, di eguaglianza e di proporzionalità”. Scelte “del tutto prive di giustificazione, non solo perché non rispondono ad alcuna effettiva messa in pericolo della sicurezza dei cittadini, facendo leva su di un sentimento di insicurezza a sua volta strumentalmente diffuso nella collettività, pur a fronte di una ormai costante e significativa diminuzione dei reati che dura ininterrottamente da circa trent’anni e che ci colloca tra i Paesi più sicuri d’Europa, ma anche in quanto l’aumento delle fattispecie di reato e della misura delle pene, per diffusa e condivisa esperienza, non assicura alcun effetto deterrente e, conseguentemente, non raggiunge neppure gli obiettivi di miglioramento delle condizioni di sicurezza pubblica”. Come già sottolineato prima di lui da altri, in commissione, Petrelli ricorda che “affidare al sistema repressivo penale la soluzione di ogni situazione di marginalità, devianza, o potenziale conflitto sociale” finisce con “l’incrementare irrazionalmente un sistema carcerocentrico produttivo di ulteriore sovraffollamento, incompatibile con ogni forma di rieducazione, a sua volta causa dell’aumento della recidiva”. Dei sei professionisti ascoltati ieri, quattro sono rappresentanti dei corpi di polizia: per il Siulp, Silvano Filippi, Massimo Zucconi Martelli e Enzo Marco Letizia per il Siap Anfp (associazione di dirigenti) e Donato Capece, per il Sappe. Le loro audizioni si sono concentrate soprattutto sulle norme che li riguardano da vicino, con poche e trascurabili recriminazioni. Fortemente critico, invece, l’avvocato cassazionista Michele Passione, tra i più richiesti nei processi per tortura intentati contro agenti delle forze dell’ordine: “Irragionevoli”, “costituzionalmente censurabili” e “indeterminate” le norme sull’occupazione di case. Difficile capire, per esempio, cosa voglia dire “fuori dai casi di concorso del reato… coopera nell’occupazione dell’immobile”. Espressione di una “fallace logica deterrente”, secondo il legale, anche l’articolo che introduce un’aggravante per chi commette un reato all’interno o nei pressi delle stazioni o sui convogli. Perché dovrebbe essere maggiormente punito un atto di corruttela commessa su un treno? Passione spiega poi perché il reato di blocco stradale è solo un modo per “criminalizzare il dissenso”. O come mai la nuova fattispecie della rivolta in carcere “per un verso rischia l’eterogenesi dei fini” (se si equipara la violenza alla resistenza passiva, si finisce con il favorire la commissione dei reati peggiori), dall’altro “è espressione di una modalità di regolazione dei conflitti in carcere tipica di una concezione autoritaria”. Ddl Sicurezza, penalisti in sciopero contro la legge di Valentina Stella Il Dubbio, 18 ottobre 2024 L’Ucpi lancia la protesta dal 4 al 6 novembre: per l’Unione Camere Penali il ddl “rivela nel suo complesso una matrice securitaria, populista illiberale e autoritaria”. I penalisti italiani incroceranno le braccia il 4, 5 e 6 novembre. Al centro della protesta il ddl sicurezza, già approvato alla Camera e ora in discussione nelle commissioni Giustizia e Affari costituzionali del Senato. Secondo l’Unione delle Camere Penali, infatti, “il pacchetto sicurezza, lungi dal porsi in sintonia con un programma di riforma della giustizia in senso liberale, rivela nel suo complesso e nelle singole norme una matrice securitaria sostanzialmente populista, profondamente illiberale e autoritaria, caratterizzata da uno sproporzionato e ingiustificato rigore punitivo nei confronti dei fenomeni devianti meno gravi ed ai danni dei soggetti più deboli, caratterizzandosi per l’introduzione di una iniqua scala valoriale, in relazione alla quale taluni beni risultano meritevoli di maggior tutela rispetto ad altri di eguale natura, in violazione del principio di ragionevolezza, di eguaglianza e di proporzionalità”. L’associazione politica degli avvocati prende atto che “nonostante le sollecitazioni da parte dell’avvocatura, gli incontri con il Ministro della Giustizia e le audizioni davanti alle Commissioni Parlamentari” l’iter della legge sembra proseguire spedito. Il 5 novembre alle 10 è prevista anche una manifestazione nazionale a Roma presso il Centro Congressi “Roma Eventi Fontana di Trevi”, alla quale parteciperanno esponenti dell’Avvocatura e dell’Accademia “per sollecitare il Parlamento ad adottare tutte le opportune modifiche alle norme del pacchetto sicurezza in senso conforme alla Costituzione ed ai principi del diritto penale liberale”. Oggi proprio il presidente dell’Unione, Francesco Petrelli, è stato audito dalle commissioni di Palazzo Madama. Ha definito “iniqua e vessatoria” la previsione normativa, introdotta con un emendamento di Fratelli d’Italia a Montecitorio, di non poter sottoscrivere “un contratto telefonico per il “cittadino di uno stato non appartenente all’Unione europea, per il solo fatto di essere sprovvisto di titolo di soggiorno”. Si tratta di un divieto che sortirà effetti maggiormente “ghettizzanti”, ostacolando il processo di integrazione di un essere umano presente sul territorio nazionale, con contestuale aumento del rischio di ulteriori episodi di illegalità, in senso nettamente difforme rispetto alle finalità di sicurezza pubblica perseguite dal pacchetto normativo in esame”. Nella memoria illustrata ai commissari, Petrelli si è poi soffermato sull’ordine del giorno proposto dalla Lega e approvato alla Camera di organizzare un tavolo per valutare come prevedere il blocco androgenico mediante terapie con effetto temporaneo e reversibile per i condannati per violenza sessuale: “Quanto al versante costituzionale interno, la misura in discussione immediatamente richiama l’incivile immagine della “pena corporale”; autorevoli voci hanno definito la castrazione chimica una “misura inumana e contraria alla dignità della persona”. Ciò basterebbe per sollevare dubbi di compatibilità costituzionale. Tuttavia, si ritiene che l’art. 27 co. 3 Cost. rilevi anche sotto un ulteriore profilo, ossia quello della finalizzazione della pena alla rieducazione del condannato. Ebbene, tale imprescindibile elemento teleologico sembra costituire una preclusione insuperabile, non potendosi ragionevolmente intravedere alcun tratto rieducativo e risocializzante”. Ha poi criticato l’art. 15 per cui il rinvio della pena per donne incinte e madri di prole fino a un anno viene reso facoltativo: “Si allineano, nell’intenzione del legislatore, le condizioni tra le madri di figli di età maggiore o minore di un anno attraverso la scelta carcerocentrica, seppure presso gli ICAM sulla cui notoria carenza (solamente 5, con distribuzione territoriale assai disomogenea), tuttavia, non si interviene, in virtù della clausola di invarianza finanziaria. Con la inevitabile conseguenza che si apre alle donne in attesa ed ai bambini la porta del carcere, nonostante siano note le condizioni drammatiche nelle quali versano gli istituti del nostro Paese”. Ciò “non solo in termini di sovraffollamento, ma anche di carenza di organici e di personale sanitario e psichiatrico, con conseguenze evidentemente negative di termini di tutela della salute e dell’integrità fisica e psichica di madri e minori, che dovrebbero essere oggetto di specifica tutela costituzionale”. Csm, “Mi” chiede “silenzio” sulla riforma. Ma Fontana non ci sta di Valentina Stella Il Dubbio, 18 ottobre 2024 Il conflitto tra le correnti sulle nuove regole per gli incarichi direttivi. Il togato indipendente: “Probabilmente a essere in gioco è una diversa visione del rapporto tra eletti ed elettori”. Non si placano le polemiche all’interno del Csm in merito alle regole per la nomina degli incarichi direttivi e semidirettivi. I consiglieri di Magistratura indipendente - D’Ovidio, Marchianò, Mazzola, Nicotra, Cilenti, Paolini, Scaletta - in una comunicazione interna a Palazzo Bachelet si sono lamentati “della grande convention organizzata a Milano da Md, Area e Unicost per presentare la nuova circolare sul TU Direttivi”. A loro parere si sarebbe dovuto privilegiare il “silenzio su chat, mailing list, social media vari, quotidiani e convegni”. Alimentare il dibattito fuori dal Csm non sarebbe indice di “serietà”. E allora, siccome secondo Mi “i buoi sono però ormai usciti largamente dalla stalla”, non ci si può più esimere “dall’evidenziare come quella che viene sbandierata e pubblicizzata con tanta enfasi come la madre di tutte le riforme consiliari non sia che una ben organizzata finzione dove chi decide non si assumerà la responsabilità nascondendosi dietro i numeri ma dove anche e soprattutto si finge di porre regole stringenti aumentando viceversa la discrezionalità”. I consiglieri della corrente conservatrice dell’Anm sono per la proposta A), che rappresenta una riproposizione dell’attuale testo unico. Gli altri (Unicost, Md, Indipendenti) sarebbero per la proposta B), che propone punteggi specifici che limiterebbe molto la discrezionalità. Area starebbe lavorando ad una terza proposta che vada a sintetizzare le due già sul tavolo. Il voto nella V Commissione ci dovrebbe essere la prossima settimana, ma i giochi sono ancora tutti aperti. Ma tornando alla nota di Mi, i togati hanno aggiunto: “Desideriamo precisare che non ci appartiene la violazione sistematica e scientifica della riservatezza dei lavori consiliari di commissione con il fine di affascinare i colleghi dando loro l’illusione di una partecipazione al processo decisionale”. Gli ha replicato il consigliere togato indipendente Roberto Fontana, che al Dubbio ha parlato di “reazione spropositata” da parte dei suoi colleghi. Ha spiegato che “non esiste un divieto di parlare all’esterno delle scelte da compiere con queste circolari”. Poi su tutte le mailing list ha scritto: “Sono profondamente convinto che sia opportuno oltre che pienamente legittimo e del tutto fisiologico sul piano istituzionale che i consiglieri promuovano dei confronti all’esterno quando sono in discussione proposte di delibera di una portata generale come sono quelle aventi ad oggetto atti di normazione secondaria, tanto più se in diretta attuazione di una previsione legislativa come in questo caso”. Per Fontana “è in gioco probabilmente una diversa visione del rapporto tra eletti ed elettori con riferimento agli organi costituzionali di natura elettiva, ritenendo io che l’elezione non debba risolversi necessariamente in una delega tout court per l’intero mandato e che risponda ad una visione dinamica della democrazia, un costante rapporto di confronto, anche nella fase di elaborazione delle scelte, con i cosiddetti corpi intermedi (ossia nel caso nostro i gruppi associativi) o con gli elettori anche in forme diverse e più fluide spesso rese possibili dalle nuove tecnologie”. In pratica, il magistrato sta contestando la visione verticistica del gruppo e di chiusura del Csm che hanno gli esponenti di Mi: “Peraltro devo constatare che, al di là di qualche diversità d’impostazione teorica, il confronto costante con i vertici dei gruppi associativi su questioni di carattere generale, come lo sono le circolari in corso di elaborazione, ma talvolta anche su procedimenti meno generali, come ad esempio quelli relativi alle nomine, rispondono ad una prassi diffusa ed ampiamente consolidata”. In chiusura, si chiede Fontana, “teorizziamo come fisiologiche le asimmetrie informative per cui vi sono, al di fuori del Consiglio, cerchie più o meno ristrette di magistrati di serie A che sono costantemente coinvolti in tutti i dibattiti, anche quando i processi decisionali sono ancora in maturazione e talvolta neppure avviati, e magistrati di serie B che devono aspettare la narrazione ex post su quanto saggiamente deciso?”. Nessuna censura: è la Costituzione che stabilisce il conflitto di interesse di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 ottobre 2024 Il “Fatto quotidiano” parla addirittura di caccia alle streghe. Ma la censura non c’entra nulla: l’articolo 82 della Carta è fin troppo chiaro, rispetto alle limitazioni per l’autorità giudiziaria. “Caccia alle streghe!”, esordisce Il Fatto Quotidiano puntando il dito contro la proposta di Chiara Colosimo, presidente della Commissione antimafia, volta a sanare una evidente problematica mai verificatasi da quando è stato istituito tale organismo politico alla fine degli anni Cinquanta. La questione del ‘conflitto di interesse’ sollevata nei confronti dell’ex magistrato e senatore grillino Roberto Scarpinato non nasce per antipatia o volontà di far tacere una presunta voce scomoda, ma per rendere compatibile quanto stabilito dall’articolo 82 della Costituzione, il quale stabilisce che per le loro indagini tali commissioni hanno gli stessi poteri e limitazioni dell’autorità giudiziaria. Ebbene, tra le limitazioni che riguardano tale autorità assimilabile alla commissione, non solo un PM si astiene dall’indagine se l’episodio in esame lo vede coinvolto direttamente o indirettamente, ma c’è anche la competenza territoriale quando si tratta di indagini relative ai fatti concernenti le procure. Nel caso attuale della commissione parlamentare, soprattutto dopo l’audizione fiume dell’avvocato Fabio Trizzino e di Lucia Borsellino, è emersa la questione del cosiddetto ‘nido di vipere’, così definita dal giudice ucciso in Via D’Amelio nei confronti della Procura di Palermo. Nasce così la volontà di approfondire per la prima volta i punti tuttora non chiariti, e purtroppo ‘seppelliti’ nel corso degli anni a causa delle varie tesi giudiziarie risultate fallimentari, riguardanti la ‘Via Crucis’ che dovette affrontare Borsellino in quei 57 giorni che iniziano con la strage di Capaci, dove perse il suo collega e fraterno amico Giovanni Falcone, e finiscono con una terribile esplosione, tanto da dilaniare il suo corpo. “È a tutti noto lo stato di prostrazione che lo ha accompagnato dal 23 maggio 1992 fino alla morte, culminato pochi giorni prima del 19 luglio nello sfogo raccolto dai colleghi Massimo Russo e Alessandra Camassa: nel suo ufficio, nostro padre usò espressioni come ‘nido di vipere’ e ‘un amico mi ha tradito’. Si riferiva al contesto di lavoro all’interno della procura di Palermo”, ricorda con sofferenza Lucia Borsellino nella recente intervista apparsa su Repubblica. Se da una parte c’è la Procura di Caltanissetta - competente territorialmente - che sta svolgendo indagini su ciò che accadde all’interno del palazzo di giustizia di Palermo, nel contempo anche la commissione antimafia vuole approfondire tale aspetto. E ha iniziato a farlo ben prima dei recenti avvisi di garanzia nei confronti di due ex magistrati palermitani del tempo. Il caso Scarpinato emerge nel contesto di questo approfondimento. Attenzione, è sempre meglio ribadirlo, non c’entra nulla la questione penale. Si parla di opportunità visto che il suo nome non emerge soltanto nella questione del controverso procedimento mafia-appalti, ma anche in diverse fasi di ricostruzione - in questo caso da testimone - riguardanti la diffidenza di Borsellino nei confronti di alcuni colleghi, a partire dall’ex capo procuratore Pietro Giammanco. Per comprendere la necessità di una sua astensione, e di conseguenza una legge che lo regolamenti, si potrebbe fare un esempio emblematico. Grazie alla ricostruzione documentata dell’avvocato Trizzino, nel corso della sua audizione in commissione è emerso che Borsellino fece una confidenza rilevante a Scarpinato. Fatto che si è potuto appurare, dopo 30 anni, dai famosi verbali del CSM risalenti a pochi giorni dalla strage di Via D’Amelio quando furono sentiti tutti i togati della procura. Trizzino, facendo i giusti incroci delle testimonianze, tra l’altro ben riportate anche nelle motivazioni della sentenza d’appello Trattativa, ha evidenziato che Borsellino disse all’attuale senatore grillino che stava conducendo delle indagini molto delicate a insaputa di Giammanco e di mantenere il riserbo più assoluto. All’epoca, innanzi al Csm, Scarpinato non ha voluto dire di cosa si trattasse perché l’indagine annessa alle confidenze di Borsellino era ancora in corso. Trizzino, con i dovuti incroci, ha riportato ciò che Borsellino potrebbe aver detto a Scarpinato. Cosa che emerge anche dalla ricostruzione del giudice Pellino sulle motivazioni della Trattativa. A quel punto il senatore pentastellato si sarebbe inalberato. Da lì un battibecco che la presidente Colosimo ha dovuto stoppare. Legittimamente Scarpinato può negare e fare chiarezza, ma ancora oggi, la domanda posta dal Csm risulta inevasa. Persino al Fatto Quotidiano, quando i giornalisti gli chiesero a cosa si riferiva Borsellino, ha risposto di non ricordarlo. Tutto ciò può essere compatibile con il suo ruolo da commissario? Si potrebbero fare tanti altri esempi, a partire dalle dichiarazioni che l’avvocato Trizzino definisce ‘progressive’. Ma anche, giusto per citarne un altro, il fatto che tra le carte di Borsellino è stato ritrovato un appunto dove appare il suo nome vicino a quello del pentito Contorno, probabilmente per un’indagine che svolgevano insieme, anche se non è dato sapere. Detto ciò, come si può affermare che non ci sia una questione di ‘conflitto di interesse’? Attenzione, tale definizione non implica assolutamente una questione penale, ma si riferisce a una situazione in cui, in virtù del suo ruolo, possa non agire in modo imparziale visto gli inevitabili legami personali e lavorativi avuti appunto in quel terribile periodo in cui Borsellino navigava a vista. Dilemma sull’elezione di Marini: alla Consulta l’astensione è vietata di Rosario Russo* Il Dubbio, 18 ottobre 2024 A differenza di quanto è previsto per gli “organi giudiziari”, per i componenti della Corte costituzionale la legge vieta sia il “non voto” che la ricusazione. È oggetto di dibattito la candidatura alla Corte costituzionale del prof. F. S. Marini, docente ordinario di diritto pubblico, siccome consigliere giuridico del governo nonché autore della riforma sul premierato, tanto cara alla presidente Meloni. Per tale ragione, secondo il prof. Ugo De Siervo, già presidente della Corte costituzionale, osterebbero a tale candidatura evidenti ragioni di opportunità. Ma, obietta altro esimio giurista: “Non vedo nessun problema. Se c’è una possibilità che debba giudicare su una questione che lo riguarda, si deve astenere. E questo vale per tutti gli organi giudiziari. Ci sono stati tanti ministri che hanno fatto proposte di legge approvate, e poi come giudici sono stati chiamati a giudicarle. Si astengono dal dibattito, dall’udienza in cui quei temi si discutono e dalla decisione finale”. Sennonché, secondo l’art. 32 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (Delibera della Corte del 22 luglio 2021 e successive modificazioni), “Nei giudizi di cui alle presenti Norme integrative non si applicano le disposizioni relative alle cause di astensione e di ricusazione dei giudici”. Consegue che, a differenza di quanto è previsto per gli “organi giudiziari”, il giudice della Corte costituzionale, una volta che sia stato nominato, non può legittimamente astenersi né può essere legittimamente ricusato. Ognuno intende per altro quanto maldestro - e frontalmente contrario all’inequivoca volontà espressa dalla stessa Corte - si rivelerebbe l’espediente d’invocare un inesistente impedimento fisico per sottrarsi alla decisione. In realtà nel disegno costituzionale, quale interpretato dalla stessa Corte, la sua permanente imparzialità è comunque adeguatamente garantita dalla norma che disciplina la nomina dei suoi quindici componenti, affidata com’è al Presidente della Repubblica, alle supreme magistrature nonché al Parlamento stesso in seduta comune, in ragione di un terzo per ciascuno di tali grandi elettori (art. 135 Cost.). E si è altresì ritenuto che un modulo elettivo così sofisticato e articolato non dovesse subire alterazioni neppure per volontà dei giudici stessi o delle parti (art. 32 citato), ravvisandosi così un valore irrinunciabile nella stessa stabilità della formazione giudicante. Giova rimarcare inoltre che dunque gli stessi parlamentari contribuiscono alla nomina dei Giudici chiamati a valutare la conformità alla Costituzione delle leggi da loro emanate. Ma - è questo il punto cruciale - il loro voto non può tendere alla nomina di giudici costituzionali di parte ovvero di partito, perché questa eventualità è letteralmente esclusa dallo spirito e dalla lettera (e - si potrebbe perfino aggiungere - dalla “ragione aritmetica”) dell’art. 135 Cost., se costituzionalmente interpretato. Trattasi difatti di uno dei casi in cui rileva l’esclusione del vincolo di mandato (art. 67 Cost.). Nel momento in cui scelgono il Giudice costituzionale, deputati e senatori, lungi dal seguire l’indicazione egoistica (o di bandiera) in ipotesi proposta o imposta dal loro partito, devono scegliere, in necessario concerto con le altre forze politiche, la figura di chi rappresenti al meglio unitariamente il Parlamento e la funzione legislativa considerata nel suo complesso. É appena il caso di osservare che, se così non fosse, un partito che godesse del favore dei tre quinti dei voti (tanti ne bastano dopo il terzo vano scrutinio) potrebbe ad libitum eleggere i cinque i giudici assegnati al Parlamento esclusivamente tra coloro che avessero ricevuto maggiori consensi elettorali. Un risultato questo che, forse formalmente legittimo, si porrebbe tuttavia in sostanziale contrasto con l’art. 135 Cost., giacché i cinque giudici così nominati rappresenterebbero non il Parlamento, ma soltanto il partito che li ha votati. Intanto dopo otto scrutini il Parlamento, per legge tenuto a provvedere entro un mese dal verificarsi della vacanza, non è riuscito a colmare il vuoto lasciato dalla presidente S. Sciarra, che ha concluso il proprio mandato nel novembre del 2023. A dicembre 2024, al posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra si aggiungeranno tre ulteriori vacanze (il presidente Barbera e i vicepresidenti Modugno e Prosperetti, tutti di elezione parlamentare). Si può ragionevolmente temere che l’insopportabile ritardo nella sostituzione della Presidente Sciarra sia dovuto all’intenzione di procedere nel prossimo dicembre ad una elezione dei quattro giudici “a pacchetto”, con cui alla coalizione di Governo sarebbero attribuite tutte o quasi tutte le nomine; e già si ventilano perfino i loro nomi. Si passerebbe così dalla costruttiva “condivisione”, imposta dal Costituente, alla nuda “spartizione” del Potere, non meno incostituzionale per il fatto che essa sia stata praticata in passato (puntualmente) dallo stesso Parlamento e (analogamente, cioè con Palamara & Company) perfino dalla Giurisdizione! *Già sostituto procuratore generale presso la Suprema Corte Stampa e intercettazioni, l’interesse pubblico vince sulla reputazione di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2024 Cedu. Il giornalista ha il diritto a non svelare la fonte che gli ha passato le trascrizioni I personaggi pubblici hanno una minore protezione del diritto alla vita privata. La pubblicazione di notizie di interesse pubblico prevale sul diritto alla reputazione e il giornalista ha diritto a non svelare la fonte che gli ha trasmesso il contenuto delle trascrizioni di alcune intercettazioni su un procedimento penale di interesse generale. Lo ha stabilito la Corte di Strasburgo con la sentenza Kajganic contro Serbia depositata 1’8 ottobre (n. 27958/16) con la quale è stato respinto il ricorso di un’avvocata secondo cui i giudici nazionali non avevano tutelato il suo diritto alla reputazione facendo prevalere, invece, il diritto del giornalista a informare. Su un settimanale era stato pubblicato un articolo intitolato “Soci, avvocati e vecchi amici”, affiancato dalla fotografia della ricorrente, legale di un uomo accusato di essere coinvolto nell’assassinio, nel 2003, dell’ex primo ministro serbo. Nell’articolo si dava conto dei tentativi della donna di far ottenere al cliente uno status privilegiato come testimone, riportando la trascrizione delle intercettazioni telefoniche. La legale aveva citato in giudizio il giornalista chiedendo un risarcimento di 75omila dinari serbi per danni alla reputazione. In primo grado aveva ottenuto un indennizzo, ma i giudici di appello avevano ribaltato il verdetto accertando che il giornalista aveva svolto in modo professionale la propria attività, che la notizia era di interesse pubblico e che l’articolo non riguardava la vita privata dell’avvocata. La Corte costituzionale, anche grazie all’articolo 10 della Convenzione europea che assicura il diritto alla libertà di stampa, aveva condiviso l’impostazione dei giudici di appello. Così la donna si è rivolta a Strasburgo che, però, ha respinto il ricorso, proprio perché i giudici nazionali hanno applicato correttamente la Convenzione, facendo prevalere la tutela del giornalista. La Corte europea riconosce che il diritto alla libertà di espressione, e quello alla reputazione, meritano uguale tutela. Ma nell’effettuare il bilanciamento tra i diritti in gioco va messo in primo piano l’interesse pubblico a ricevere notizie di interesse generale, essenziali per garantire il dibattito pubblico. È evidente - osserva la Corte - che pubblicare il contenuto delle intercettazioni, dalle quali risulta il tentativo di fare ottenere uno status particolare a chi è accusato di un grave reato, rientra nel perimetro delle notizie di interesse pubblico che è dovere dei media divulgare. I personaggi pubblici, primi tra tutti i politici, hanno, inoltre, una minore protezione del diritto alla vita privata, così come coloro che, attraverso determinate azioni o per la loro posizione, entrano nell’arena pubblica. La ricorrente non era una figura pubblica, ma poiché era la legale di un uomo accusato di un reato grave lo è diventata e non può essere trattata al pari di un privato. L’attenzione della stampa sull’attività professionale della ricorrente era quindi giustificata. La Corte, inoltre, chiarisce ai giudici nazionali che è contrario alla Convenzione un approccio eccessivamente rigoroso nella valutazione della condotta professionale dei giornalisti che porterebbe a un chilling effect su tutta la stampa. Veneto. “Carceri, situazione esplosiva”. Il suicidio di un detenuto a Venezia arriva in Senato veneziatoday.it, 18 ottobre 2024 Sovraffollamento e carenze organiche e strutturali le maggiori criticità. Il viceministro Sisto: “Per ridurre le presenze ci sono procedure di riequilibrio”. “Dopo il suicidio di un detenuto al Santa Maria maggiore di Venezia a luglio, a inizio ottobre c’è stato l’ennesimo suicidio, questa volta a Vicenza. Secondo l’ultimo report del garante dei detenuti, i detenuti suicidi sono già 72 dall’inizio dell’anno, un dato in crescita rispetto al 2023. Il sovraffollamento delle carceri in Veneto è del 160%. La casa circondariale di Venezia versa in condizioni drammatiche, nonostante gli sforzi e l’iniziativa encomiabili della direzione, degli agenti e degli operatori. Sul Santa Maria Maggiore chiediamo interventi immediati”. Lo ha detto nell’aula del Senato Andrea Martella, segretario regionale del Pd illustrando l’interrogazione Dem sulle carceri. “A Santa Maria Maggiore - ha proseguito Martella - sono presenti 258 detenuti, ce ne dovrebbero essere 159. A ottobre il sovraffollamento ha superato il 161%, il secondo più alto del Veneto dopo Treviso. Il lavoro riguarda solo 70 detenuti, non sono garantiti i tre metri quadrati calpestabili e la divisione fra adulti e giovani adulti. Nel 2024 ci sono stati oltre cento casi di autolesionismo. I sindacati di polizia segnalano 60 eventi critici e decine di aggressioni ai danni del personale. La polizia penitenziaria è sotto organico, al 70%. Un quadro drammatico”. Da parte sua il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, assicura che sul suicidio a Venezia sono ancora in corso le indagini. Il detenuto, ricorda il viceministro, “nel suo percorso era riuscito a inserirsi nella vita dell’istituto, partecipando alle attività comuni e impegnandosi in qualità di addetto alla cucina, tanto che il comportamento non appariva poter degenerare in un tragico gesto”. Il suo caso va a sommarsi ai sette verificatisi dall’1 gennaio al 9 ottobre nelle carceri del Triveneto (due a Venezia). E il ministero della Giustizia sta cercando di fronteggiare questo fenomeno, che è nazionale, potenziando l’assistenza psicologica con progetti, fondi e personale. Per ridurre le presenze nei penitenziari ci sono “procedure di riequilibrio” e, di recente, fa presente Sisto, “sono stati adottati provvedimenti deflattivi che hanno interessato proprio gli istituti del Triveneto con una maggiore presenza detentiva”. Quanto all’assistenza sanitaria, a Santa Maria Maggiore ci sono i “presidi fondamentali”: assistenza medica sull’intero arco giornaliero, dermatologia, infettivologia, odontoiatria, psichiatrica e presidio per tossicodipendenti. Inoltre, al momento “non si rilevano criticità degne di nota sotto il profilo edile”. Sisto tocca poi il capitolo personale: mancano 32 agenti ai 146 in servizio a Venezia; di cui un funzionario, 10 ispettori, 20 sovrintendenti. Lecce. Ilaria Cucchi visita il carcere: “Per mille e 400 detenuti, solo 600 agenti e due psichiatri” di Valentina Murieri lecceprima.it, 18 ottobre 2024 La senatrice di Sinistra Italiana, nel pomeriggio, è entrata a Borgo San Nicola assieme ai garanti regionale e comunale dei diritti della popolazione carceraria. “Abbiamo raccolto anche i disagi, la sofferenza della polizia penitenziaria e degli altri lavoratori che operano nell’istituto, preoccupa il numero di patologie psichiatriche tra i detenuti”. Cambiano le città, cambiano le latitudini, ma i problemi degli istituti penitenziari restano sempre gli stessi. Questo il sintetico bilancio della senatrice Ilaria Cucchi, nel primo pomeriggio di oggi in visita nel carcere di Lecce, assieme ai garanti regionale e comunale dei diritti dei detenuti Piero Rossi e Maria Mancarella. La parlamentare di Sinistra Italiana, sorella di Stefano Cucchi, ha riscontrato l’annoso fenomeno del sovraffollamento nelle celle che nell’intero Paese, a suo dire, avrebbe raggiunto cifre da record. Un incremento della popolazione carceraria che fa il paio con un’altra criticità: quella del sottodimensionamento del personale della penitenziaria. Trend che coinvolge anche Borgo San Nicola, con il doppio delle persone rispetto agli agenti: mille e 400 gli e le ospiti, a fonte di 600 poliziotti. “Una sofferenza sia per i detenuti, che per coloro che lavorano all’interno del carcere”, ha dichiarato Cucchi davanti a Maria Pia Scarciglia e Davide Piccirillo, rappresentanti dell’associazione Antigone (fondata nel 1991 per tutelare i diritti e le garanzie nel sistema penale e penitenziario), al segretario provinciale di Sinistra Italiana Danilo Scorrano e ad alcuni esponenti locali del partito di Fratoianni. “A risentirne sia i diritti dei lavoratori, ma soprattutto quelli dei detenuti, costretti a rinunciare ai corsi di formazione per carenza di personale e persino a curarsi”, prosegue la senatrice. “Un detenuto, tra i tanti che mi avevano scritto dal carcere di Opera, costretto sulla sedia a rotelle, si è ritrovato impossibilitato a uscire dalla cella, se non aiutato da altri tre compagni di stanza che, volontariamente, hanno trasportato la carrozzina per le scale per consentigli di uscire”, prosegue. Nel racconto della sua visita in carcere, la parlamentare ha sottolineato l’importanza dell’ascolto delle lamentele e delle richieste di aiuto da parte degli agenti della penitenziaria e dei numerosi, altri lavoratori che operano, tra varie mansioni, dentro la casa circondariale. Resta, però, una certa apprensione su un aspetto: quello legato al quadro sanitario per le varie patologie di natura psichiatrica. Un numero elevato di casi, hanno rimarcato Cucchi e i due garanti, con soli due psichiatri a disposizione. “Una emergenza visto il tasso di suicidi registrato fra i detenuti in tutta Italia”, ha concluso la parlamentare romana. Trieste. Al carcere del Coroneo inizia la costruzione della nuova infermeria di Filippo Tomei diariofvg.it, 18 ottobre 2024 Un’iniziativa del Ministero della Giustizia per garantire maggiore sicurezza nella struttura carceraria triestina. Dopo anni di attesa e a seguito di una crescente necessità di migliorare le condizioni di sicurezza all’interno del carcere, partono finalmente i lavori per la nuova infermeria della casa circondariale di Trieste. L’intervento, pianificato dal Ministero della Giustizia già dal 2022, prevede lo spostamento dell’infermeria lontano dall’area detentiva, un’azione volta a prevenire episodi di saccheggio e furto di farmaci, come avvenuto nel luglio scorso. Un progetto atteso da due anni - La decisione di rinnovare le infermerie delle carceri italiane nasce come risposta alle rivolte scoppiate durante la pandemia da Covid-19, che ha messo in evidenza le carenze delle strutture carcerarie. Anche se a Trieste le proteste non sono state particolarmente gravi, il Ministero della Giustizia ha ritenuto necessario attuare delle misure preventive per evitare problemi futuri. I ritardi burocratici, tra cui le procedure di gara e l’assegnazione dei lavori, hanno posticipato l’inizio del cantiere di quasi due anni. Tuttavia, ora il processo è in corso, con la consegna dei locali prevista per il 31 ottobre. Le celle, che già avevano bisogno di ristrutturazione, saranno rinnovate completamente per ospitare la nuova infermeria e un ambulatorio medico. Lavori al via entro novembre - Il cantiere dovrebbe aprire a novembre, con l’impresa incaricata pronta a trasformare oltre una dozzina di celle in uno spazio sanitario moderno e sicuro. L’area scelta per la nuova infermeria sarà al piano terra, più lontana dal settore detentivo, garantendo una maggiore protezione contro i tentativi di furto di farmaci e altre sostanze pericolose. Il nuovo spazio sarà notevolmente più grande rispetto all’attuale infermeria, un cambiamento che risponde non solo alle necessità di sicurezza ma anche a quelle strutturali e sanitarie della casa circondariale. Saranno inclusi anche nuovi ambulatori per migliorare l’accesso alle cure mediche da parte dei detenuti. La rivolta di luglio e i problemi della struttura - La necessità di spostare l’infermeria è diventata evidente durante la rivolta dello scorso luglio, scatenata da una serie di problematiche che hanno aggravato le condizioni di vita dei detenuti. Il sovraffollamento, il caldo torrido e l’infestazione da cimici dei letti hanno esasperato la situazione, portando ad atti di saccheggio. Alcuni detenuti, approfittando del caos, hanno fatto irruzione nell’attuale infermeria, rubando farmaci e metadone. L’assunzione incontrollata di queste sostanze ha causato malori e, in alcuni casi, overdose. Tra le conseguenze più gravi, si sospetta che il decesso di Zdenko Ferjancic, 48enne trovato senza vita dopo la rivolta, possa essere legato all’assunzione di queste sostanze. Misure di sicurezza e prevenzione - Il trasferimento dell’infermeria lontano dall’area detentiva è quindi una misura preventiva importante, voluta per evitare che episodi simili si ripetano. Le nuove disposizioni permetteranno un migliore controllo dei farmaci e una maggiore protezione del personale medico, riducendo i rischi legati a furti e abusi di sostanze. Il carcere di Trieste è solo uno dei numerosi istituti in Italia che stanno implementando questo tipo di interventi. La prevenzione è ora al centro delle politiche carcerarie, soprattutto dopo i tragici eventi legati alla pandemia e alle condizioni disumane in cui molti detenuti sono costretti a vivere. Un passo avanti verso il miglioramento - L’inizio dei lavori per la nuova infermeria del carcere di Trieste rappresenta un passo importante verso il miglioramento delle condizioni di vita all’interno della struttura. Nonostante i ritardi, il progetto porterà a un ambiente più sicuro sia per i detenuti che per il personale sanitario, contribuendo a ridurre le tensioni e migliorare la gestione della salute all’interno del carcere. Con l’arrivo dell’inverno e l’avvicinarsi della stagione fredda, si spera che il cantiere possa concludersi rapidamente, restituendo al carcere una struttura sanitaria all’altezza delle nuove esigenze e garantendo finalmente una migliore tutela della salute dei detenuti. Sondrio. Detenuti al servizio della città: lavorando come muratori hanno sistemato il lavatoio Il Giorno, 18 ottobre 2024 Il progetto “Porte aperte” ha permesso loro di uscire dal carcere e darsi da fare. L’assessore ai Servizi sociali: “Un’esperienza che contiamo di replicare con l’aiuto delle aziende”. Detenuti del carcere di Sondrio al lavoro per il recupero del lavatoio di Pradella. In continuità con le attività svolte nei tre anni precedenti, in questo 2024, il progetto Porte aperte, promosso nei territori di Sondrio e di Lecco, con il finanziamento della Regione Lombardia, e coordinato dalla Cooperativa Forme, ha attivato un laboratorio sperimentale di giustizia di comunità. Un modo per rendere concreto il reinserimento in società di chi ha sbagliato e sta pagando. Un gruppo di detenuti presso la Casa Circondariale di Sondrio è stato infatti coinvolto in un’attività di pubblica utilità individuata dall’Ufficio tecnico comunale nella riqualificazione del lavatoio nella frazione Pradella inferiore. Per alcuni giorni, i detenuti hanno lavorato insieme ai dipendenti dell’azienda Della Cagnoletta di Albosaggia, presenti a titolo volontario, utilizzando il materiale messo a disposizione dal Comune di Sondrio, uno dei partner del progetto Porte Aperte. “Si tratta di un’iniziativa di rilevanza sociale, efficace nella sua azione, che vede la collaborazione di pubblico e privato - spiega l’assessore ai Servizi sociali Maurizio Piasini -. Oltre a generare forme di giustizia di comunità, il progetto è stato promosso con l’intento di sensibilizzare il territorio, affiancando nel lavoro di riqualificazione di un bene pubblico persone detenute e cittadini. Siamo riusciti a realizzarlo grazie alla disponibilità dell’azienda Della Cagnoletta e dei suoi dipendenti, con la collaborazione dell’ufficio tecnico comunale e il coordinamento della cooperativa Forme. L’auspicio è che altre aziende si rendano disponibili per poter avviare percorsi lavorativi per i detenuti e recuperare beni comuni”. I detenuti e i dipendenti dell’azienda durante le giornate di lavoro hanno condiviso anche il pranzo completando l’esperienza di integrazione. Palermo. Detenuto da 110 e lode. In tre anni 50 iscrizioni al polo universitario penitenziario di Filippo Merli Il Domani, 18 ottobre 2024 Quanto vale una laurea conseguita in carcere? Per i docenti universitari 110 e lode, ma per chi l’ha ottenuta, un giovane ingegnere in attesa di giudizio detenuto nel penitenziario palermitano Pagliarelli, probabilmente avrà un significato ancora maggiore. “Alla casa circondariale Antonio Lorusso Pagliarelli si è laureato in architettura con la tesi sulla greentrification (il rinnovamento urbano) un giovane ingegnere detenuto in attesa di essere giudicato”, si legge in una nota. “È la prima laurea al Pagliarelli dopo l’accordo quadro firmato il 25 febbraio 2021 per l’istituzione del polo universitario penitenziario dal rettore di Palermo, Massimo Midiri, e dall’emerito professore Giovanni Fiandaca, allora garante regionale per i diritti dei detenuti della Sicilia”. “Alla proclamazione hanno assistito la moglie, i figli e alcuni familiari emozionatissimi”, ha spiegato Pino Apprendi, garante comunale dei detenuti. “Un sentito ringraziamento va ai professori che hanno accompagnato lo studente in questa stupenda storia e a tutto il personale dell’amministrazione penitenziaria che ha collaborato per arrivare all’obiettivo finale. Il voto è stato un meritatissimo 110 e lode”. Alla cerimonia di laurea, lo scorso mercoledì, hanno partecipato anche il presidente della magistratura di sorveglianza, Nicola Mazzamuto, e il vicario Simone Alecci, oltre all’attuale garante regionale dei detenuti, Santi Consolo, e il componente dell’ufficio del garante nazionale, Mario Serio. In tre anni il polo universitario penitenziario dell’università degli studi di Palermo ha registrato una cinquantina di iscrizioni, tra immatricolazioni e passaggi ad anni successivi al primo, nove dipartimenti coinvolti e una squadra di orientatori, tutor senior e studenti a supporto degli universitari detenuti. Grazie al rinnovo dell’accordo quadro sui poli universitari penitenziari la collaborazione tra la Regione Sicilia e Unipa continuerà anche per il triennio 2024-2027, assieme agli atenei di Catania e Messina (in un secondo momento verrà siglato anche a Enna) e al coinvolgimento del garante regionale dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia, al provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e all’assessorato regionale dell’istruzione e della formazione professionale. “Si tratta di un progetto in cui crediamo moltissimo e che negli ultimi anni ci ha visti impegnati con diverse iniziative e numerose azioni di rilievo indirizzate all’eliminazione di ostacoli economici e sociali che impediscono il diritto allo studio di persone fragili e vulnerabili, e che mirano a un’effettiva realizzazione della concezione rieducativa della pena”, ha spiegato il rettore Midiri. L’università di Palermo si è occupata anche dell’allestimento di sale dedicate allo studio negli istituti di pena (che verranno ulteriormente potenziate grazie all’acquisto di personal computer aggiuntivi) e della fornitura di materiale didattico, oltre all’esonero dal pagamento delle tasse universitarie e della tassa regionale per il diritto allo studio. Roma. Carceri, il cinema e il teatro oltre le sbarre La Repubblica, 18 ottobre 2024 L’incontro-spettacolo delle ex detenute “Donne del Muro Alto” alla Festa del Cinema di Roma. Le “Donne del Muro Alto” tornano al MAXXI per la Festa del Cinema di Roma. Domenica 20 ottobre, alle 16, la compagnia di attrici ex detenute guidata dalla regista Francesca Tricarico animerà un incontro spettacolo dedicato al cinema e al teatro in carcere. Come l’arte cinematografica e teatrale viene contaminata nel linguaggio e nella rappresentazione da questi luoghi ristretti? E come le carceri sono contaminate, a loro volta, da queste arti? Pensieri sulla drammaturgia contemporanea. L’evento alternerà video di lavori nati in carcere a interventi teatrali estratti dagli spettacoli della compagnia e alle testimonianze delle attrici ex detenute sulla loro esperienza teatrale e cinematografica dentro e fuori le mura detentive. Un pretesto per creare uno spazio di riflessione sulla drammaturgia contemporanea frutto di esperienze all’interno degli istituti di pena e sui linguaggi utilizzati nell’allestimento di spettacoli e film con attrici professioniste e non provenienti da contesti detentivi. Il laboratorio teatrale dentro le mura di Rebibbia. L’incontro spettacolo alla Festa del Cinema di Roma è solo il primo atto della nuova stagione teatrale delle Donne del Muro Alto. Ripartono, per l’undicesimo anno, le attività del laboratorio teatrale tra le mura del carcere di Rebibbia femminile. Si lavorerà alla scrittura e alla realizzazione di un nuovo spettacolo da portare in scena a primavera nel teatro dell’istituto penitenziario. La tournée delle ex detenute. Le attrici ex detenute della compagnia porteranno, invece, in tournée in alcuni istituti di pena romani il loro spettacolo su Olympe de Gouges, paladina dei diritti delle donne durante la Rivoluzione francese, finita in carcere e poi messa a morte con la ghigliottina. Fuori dalle mura carcerarie, prosegue inoltre, per il secondo anno, il lavoro nelle scuole con incontri di educazione alla legalità, condotte dalla regista insieme alle attrici ex detenute, e matinées per i ragazzi dello spettacolo Olympe, previste per il mese dicembre. Suor Cristiana Scandura, la Clarissa che “dialoga” con i detenuti di Antonio Tarallo acistampa.com, 18 ottobre 2024 La religiosa Clarissa, da tempo, ha instaurato un rapporto epistolare con molti detenuti d’Italia. “Carissima Suor Cristiana, mi commuove la tua profonda fiducia nei confronti dell’umanità. La tua è una vocazione colma di affetto e vicinanza, tanto da donare all’altro, come nel mio caso, una pace ineffabile”. Con queste parole inizia la prefazione al volume “Un raggio di luce oltre le grate” (Editrice Velar, 2023) di suor Cristiana Scandura. Sono parole di un detenuto condannato all’ergastolo, di un uomo che vive oltre le sbarre e che grazie alla missione di suor Cristiana ha ricominciato a sperare e ad avere fiducia non solo in Dio ma nella vita. Dopo questo volume è nato un altro libro, “Dalle tenebre alla luce” (Editrice Velar, 2024), una raccolta delle riflessioni che l’autrice invia bimestralmente a tutte le carceri d’Italia, alternate alle lettere che quotidianamente riceve da parte di numerosi detenuti. AciStampa ha intervistato suor Cristiana, Clarissa del Monastero Santa Chiara di Biancavilla (in provincia di Catania), per poter comprendere meglio il suo servizio “a distanza” nelle carceri. Suor Cristiana, prima di tutto, come nasce la sua vocazione religiosa? Beh, come tutte le storie di Dio posso dire che tutto è avvenuto in maniera assai “strana”. Prima, vivevo come la maggior parte dei giovani: frequentavo l’Università; avevo parecchie amicizie; vivevo una vita abbastanza serena, apparentemente felice. Tuttavia nel profondo del cuore, a più riprese, il Signore mi faceva sentire una certa insoddisfazione e il desiderio profondo di conoscerlo meglio, di fare della mia vita qualcosa di più grande, di più bello: mi metteva nel cuore un anelito che io non capivo, non riuscivo a decifrare ancora. Solo mi accorgevo che le gioie, anche lecite, che mi dava il mondo, anziché appagarmi, mi lasciavano con un senso di vuoto e di tristezza. All’età di 18 anni, proprio la notte di Pasqua, il Signore chiamò a sé mia Madre. Quel dolore, oltre a spezzarmi il cuore, fu come se spezzasse le mie resistenze interiori, mai come allora sentii accanto a me la Presenza del Signore. A distanza di poco meno di due anni, anche mio padre, non resistendo al dolore per la perdita di mia madre, ritornava al Cielo. Questi eventi dolorosi mi portarono ad aprire gli occhi sul fatto che la vita è breve, che si vive una sola volta ed è importante spendere bene questa vita, impiegandola nell’unica cosa necessaria: conoscere Dio. E conoscere Dio significa diventare come Lui: amore. In questo tempo ricordo che ricercando chiese solitarie, trascorrevo molto tempo ai piedi del Tabernacolo, chiedendo a Gesù cosa volesse dirmi con la storia che stava facendo con me e stando in ascolto della Sua voce che parla al cuore in maniera molto eloquente. Non saprei ridire quello che passava tra me e Gesù in questi momenti. A poco a poco mi caddero come delle bende dagli occhi e cominciai a guardare la storia, la mia storia con gli occhi di Dio. Fino allora era come se avessi conosciuto il Signore solo per sentito dire. Fu allora che compresi la chiamata a vivere nella preghiera e nell’offerta, dietro la grata di un Monastero di clausura. E proprio a questa parola, “grata”, sono dedicati due titoli della sua produzione letteraria: “Un raggio di sole oltre le grate” e “Dalle tenebre alla luce”... Si. In merito all’ultimo libro che ha citato, “Dalle tenebre alla luce”, il Signore mi ha concesso la grazia e la gioia di distribuire ai detenuti delle varie carceri d’Italia già 7.000 copie, come un dono in preparazione al Giubileo ormai alle porte. Ma cosa vuol dire fare servizio - anche se “a distanza” - nelle carceri? E’ da circa 5 anni che il Signore ha posto nel mio cuore, come una vocazione nella vocazione, il desiderio di annunciare il Suo amore, la Sua misericordia e la Sua tenerezza ai Fratelli e Sorelle che vivono l’esperienza del carcere in Italia. Lo faccio inviando loro bimestralmente delle riflessioni scritte, ma da questo scaturisce poi una corrispondenza personale con quei fratelli e sorelle, sempre più numerosi, che mi scrivono aprendo il loro animo. Le grate esteriori che abbiamo in comune, sebbene per scelte alquanto diverse, e quelle interiori che spesso ciascuno si porta dentro, mi fanno sentire particolarmente “sorella”, ma anche “madre” nei confronti di chi ha fatto scelte sbagliate nella vita e ne vive le conseguenze amare. La carità di Cristo mi spinge a portare semplicemente un messaggio di amore, di vicinanza e di tenerezza al cuore di chi si sente solo, di chi nella vita ha errato, come tutti del resto, e fatica a credere di essere comunque figlio amato di Dio, di essere comunque “amabile”, anzi di essere quella pecorella smarrita per cui Dio è disposto a lasciare le altre 99 al sicuro per andare alla sua ricerca, mettersela sulle spalle, una volta trovata, e riportarla a casa. Dio condanna il male perché ci fa male, ci fa stare male, ma la porta della Sua Misericordia rimane sempre aperta. Tutti abbiamo bisogno di conversione e il fatto di avere bisogno della Misericordia di Dio, ci deve portare ad essere misericordiosi verso il nostro prossimo. Chi ha commesso dei gravi reati, perché accecato dalle proprie passioni o perché cresciuto in un ambiente familiare in cui ha assorbito uno stile di vita non buono, quando tocca il fondo della propria esistenza, può reagire in due modi: o indurendosi ancora di più, oppure aprendosi alla Misericordia di Dio e cambiando vita, con il Suo aiuto. In questo caso anche il peggiore dei peccatori può diventare un santo e passarci addirittura avanti nel regno di Dio. E ora da questi due libri nascerà un musical. Come nasce questa idea? E quali sono i suoi sentimenti davanti a un progetto così bello? Con mia grande sorpresa qualche mese fa un mio carissimo amico e cooperatore salesiano, Armando Bellocchi, responsabile del gruppo CGS Life di Biancavilla, colpito dalla relazione spirituale ed epistolare che il Signore mi ha donato di instaurare con un numero sempre crescente di fratelli detenuti che mi scrivono consegnandomi il loro vissuto, mi chiede di collaborare alla realizzazione del Musical “Oltre le grate”. L’intenzione del regista è quella di evidenziare l’incontro tra due categorie di persone che, naturalmente per motivi e scelte alquanto differenti, vivono oltre le grate: i detenuti e noi monache di clausura, il modo in cui questi due mondi si sono incontrati e i frutti di tale incontro. Sono stata molto felice di poter umilmente collaborare fornendo il racconto della storia di diversi fratelli reclusi e del cambiamento che la grazia del Signore ha operato in alcuni di essi. Il Musical, che inizierà ad essere rappresentato pubblicamente a maggio del 2025, ci è stato presentato in forma privata nel parlatorio del nostro Monastero. Per me è stato molto toccante, è durato due ore e confesso di aver pianto ininterrottamente per tutta la sua durata. Mi sembrava di vedere dal vivo quei fratelli che il Signore mi ha donato di incontrare per via epistolare, la cui esistenza profondamente segnata dal dolore per gli errori commessi, porto nel cuore e nella preghiera. Per il momento si pensa a qualche rappresentazione in qualche carcere? Me lo auguro e mi sto attivando in tal senso! Sarebbe bello perché sarebbe una testimonianza del fatto che il Signore non preclude a nessuno la possibilità del cambiamento. E che tutti siamo chiamati a collaborare con la Misericordia di Dio e ad esserne strumenti. Con grande onestà devo confessare che la testimonianza di alcuni fratelli detenuti, anche ergastolani, che si sono aperti alla Misericordia e alla Grazia di Dio, passando dalle tenebre alla luce, diventa motivo di stupore, di gratitudine e di crescita nella fede anche per me. Premio Artusi a La Mantia: “Riconosciuto il mio lavoro nelle carceri” di Lara Loreti La Repubblica, 18 ottobre 2024 Al cuoco siciliano il prestigioso riconoscimento: “Ho iniziato a organizzare i pranzi di Natale per i detenuti dopo che io stesso a 25 anni sono stato scarcerato. Con loro c’è un bellissimo scambio, un’esperienza che riempie il cuore”. “Passare il Natale in carcere con i detenuti ti dà una ricchezza immensa. Ognuno cucina ciò che vuole, ciò che lo fa sentire a casa, io do indicazioni e coordino. E così, per un giorno, i detenuti lavorano come in un vero ristorante. È un’esperienza che non ha prezzo”. Lo chef Filippo La Mantia è una di quelle persone che pensano col cuore, che prima di parlare agiscono, e che le cose belle le portano avanti per tutta una vita. Non è un tipo da mode del momento. E così da 28 anni - ma se ci mettiamo il periodo in cui si muoveva in autonomia gli anni diventano 38 - ogni Natale va nelle carceri e cucina per i detenuti. Di più: li coinvolge nella preparazione del pasto. “Agli stranieri chiedo di cucinare i piatti che le nonne e le mamme facevano per loro da ragazzi”. Proprio per questo motivo il cuoco siciliano ha ricevuto l’ambito Premio Artusi 2024, per il suo grande impegno volto a mettere al centro la cucina come veicolo di pace, solidarietà e tolleranza, con particolare riferimento al mondo delle carceri italiane. La cerimonia di consegna è prevista sabato 19 ottobre alle 17 proprio in Casa Artusi. “Tutto è iniziato quando sono stato scarcerato, nel 1986…”. Non tutti sanno che La Mantia da ragazzo, suo malgrado, rimase coinvolto in un episodio di cronaca: a 25 anni, da fotoreporter, si è ritrovato in galera per essere stato l’ultimo affittuario della casa da cui erano partiti i colpi che avevano ucciso Ninni Cassarà, stretto collaboratore di Giovanni Falcone. Un equivoco risolto proprio grazie al magistrato, che allora era nel pool antimafia. “Da allora ho cominciato a organizzare i pranzi di Natale nelle carceri italiane, prima da solo, contattando direttamente i direttori. Poi, negli anni, ho iniziato a collaborare con l’associazione Prison Fellowship che oggi mi segue e organizza il tutto”. La Mantia visita il carcere prescelto due mesi prima, fa sistemare le cucine che spesso hanno pecche e mancanze, e poi, il giorno designato, porta con sé anche degli amici: “Lo scorso anno sono stato a Bologna, mi hanno accompagnato Giallini, Bennato, Ringo, Gianluigi Nuzzi, Sabrina Scampini, Angela Missoni: un gruppo di lavoro che ha fatto molto divertire i detenuti - racconta lo chef - Quest’anno invece il pranzo lo farò nel carcere dell’Ucciardone a Palermo. E vorrei coinvolgere Ficarra e Picone e anche un cantastorie, per fare un vero e proprio spettacolo. Sono delle idee, vedremo. Non vado in mezzo ai detenuti a fare il professore, con loro ci parlo, li conosco uno a uno, anche gli ergastolani, e c’è un bellissimo scambio. Arrivo alle 6 della mattina, vado via alle 15.30. E tutte quelle ore con i detenuti delle cucine sono straordinarie. Alla fine, viene fuori una cosa molto sentimentale, loro sono felici, sia gli uomini sia le donne. E a me si riempie il cuore”. Incontri molto profondi che toccano anche gli ospiti di La Mantia: “Ad Angela Missoni è cambiata la vita dopo l’esperienza a Bologna. Un mese fa abbiamo fatto una presentazione a Roma al Regina Coeli con Beppe Fiorello, abbiamo creato squadra femminile di calcetto, ci siamo molto divertiti”. L’oste e cuoco - come lui stesso si definisce, non amando essere chiamato chef - precisa che non vuole visibilità, “ma la motivazione del premio mi gratifica molto. Quando mi hanno chiamato per dirmelo - continua La Mantia - sono stato molto felice: mi è stato riconosciuto il lavoro enorme di questi anni. È una cosa che mi lascia un benessere interiore incredibile”. Alla cerimonia di consegna del premio saranno presenti anche Milena Garavini (sindaca di Forlimpopoli), Laila Tentoni (presidente di Casa Artusi), Sandro Gallo (referente associazione Prison Felloship dell’Emilia-Romagna), Lia Benvenuti (direttrice dell’agenzia formativa di Forlì - Cesena Technè), Roberto Morgantini (fondatore delle cucine popolari di Bologna), introduce e coordina Andrea Segrè (Comitato Scientifico Casa Artusi, Università di Bologna). L’evento si concluderà con caponata e cous cous (ricetta artusiana n 47) a cura di Casa Artusi e Filippo La Mantia. “Grande cucina e grande cuore, come spesso accade, vanno di pari passo perché cucinare è un atto d’amore e di cura verso gli altri - dichiara il vicesindaco e assessore alla Cultura Enrico Monti che consegnerà il premio - Legare il concetto di solidarietà al cibo è un messaggio positivo e potente che fa da insegnamento per la nostra società”. La Mantia ha dunque una storia personale e pubblica straordinaria che lo lega al cibo, alla cucina e alla solidarietà. Fotoreporter di mafia nella Palermo negli anni delle stragi, inizia a cucinare per i compagni di cella. Una volta uscito, questa diventerà la sua professione ma la “cucina nelle case circondariali” rimarrà un progetto che ha mantenuto vivo nel tempo. La Mantia ha poi dimostrato grande sensibilità sociale cucinando negli ospedali, per i più poveri durante il Covid, per iniziative contro lo spreco alimentare considerando la cucina come veicolo di pace e tolleranza. Ed è in attesa di partire per Gaza per aiutare le popolazioni coinvolte nel conflitto israelo-palestinese. Anche se la “Gpa” non ci piace, la libertà è sempre la scelta migliore di Chiara Lalli Il Dubbio, 18 ottobre 2024 Ogni volta che mi chiedono perché sono a favore dell’aborto o dell’eutanasia mi innervosisco. Ogni volta che mi chiedono perché sono a favore della gravidanza per altri (o maternità surrogata o utero in affitto) mi innervosisco. Insomma, mi innervosisco spesso ma ho delle buone ragioni. Perché la questione non è essere a favore dell’oggetto specifico (aborto, eutanasia, gravidanza per altri o come volete chiamarla) ma della possibilità di scegliere. E quella possibilità di scegliere dovrebbe essere garantita a meno che non riusciamo a dimostrare che causerebbe un danno per qualcun altro. Ma poi che cosa significa essere a favore dell’aborto? Due giorni fa la gravidanza per altri, anzi la “surrogazione di maternità” (così la definisce la legge 40), è diventata un reato universale. La legge 40 aveva già vietato nel 2004 questa tecnica riproduttiva: “chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro”. La nuova legge modifica quell’articolo “in materia di perseguibilità del reato di surrogazione di maternità commesso all’estero da cittadino italiano”. Che significa? Che fare un figlio ricorrendo alla gravidanza per qualcun altro è un reato anche se vado in un paese in cui è legale. Non è facilissimo da capire, lo so. E mi pare anche un po’ mitomane pretendere che la nostra idea di reato sia condivisa dagli altri paesi che hanno una idea diversa (sono ormai 66 i paesi che hanno una legge sulla gravidanza per altri, l’ultimo l’Irlanda; Alessia Cicatelli ha fatto una bellissima mappa che si può consultare sul sito dell’Associazione Luca Coscioni). Vedremo quali saranno le applicazioni e le conseguenze, ma insomma l’idea è che se vado in California o in Canada, ricorro alla gravidanza per altri, mi porto il figlio in Italia, sono rea anche se ho fatto una cosa che in quel paese è legale. Che succede quando torno qui? Mi arrestano? Cosa succede a mio figlio, lo date in adozione? Ho seguito la discussione in Senato del 16 ottobre sperando di ascoltare una buona ragione, anche una mezza buona ragione in difesa del reato e del reato universale. Ma niente. Le solite cose: la dignità delle donne, la mercificazione, l’orrore, la violazione delle leggi della natura. La domanda più importante - e quella che quasi mai si fanno i critici ma forse nemmeno i sostenitori - è se qualcuno viene necessariamente danneggiato. Parliamo di me che così magari è più facile: se volessi portare avanti la gravidanza per qualcun altro, potrei farlo? E perché no? Come sarebbe possibile escludere che sia una mia scelta? Non basta pensare che non sta bene, che non si fa. Non basta nemmeno rispondere “io non lo farei!”. Spesso si invoca la mia dignità, per proteggere la quale si vuole giustificare il reato e il reato universale. Ma la mia dignità chi decide che cosa è? E può sostituire la mia libertà? La possibilità di scegliere? Attenzione: non sto dicendo che non ci possano essere abusi. Ho un brutto carattere ma non sono scema. Quello che sto dicendo è che questa non può essere una scusa per vietare sempre e comunque. E che questa sarebbe (è) la scelta più pigra e ingenua e ipocrita. Chi ha davvero a cuore i diritti, i bambini e le libertà non può che sperare in una buona legge. Una legge che garantisca le libertà delle persone e le loro scelte (anche se sono diverse dalle nostre), che stabilisca delle premesse e che controlli che non ci siano costrizioni o abusi. Una buona legge dovrebbe lasciare lo spazio per decisioni libere e non costrette e soffocate da una idea di famiglia e di genitorialità. O da una strana idea dei limiti imposti dalla natura. Quali sarebbero questi limiti? La libertà è sempre la scelta migliore - in assenza di un danno per qualcun altro - perché ci permette di non usarla, di rinunciarvi, di pensarci. Concludo con un argomento che spesso viene malinteso e preso per un argomento prolife (no, non è così). Quel nato da gravidanza per altri ha solo due possibilità: nascere in quel modo o non nascere proprio. Siamo sicuri di riuscire a dimostrare che nascere così sia talmente disastroso da preferire la non esistenza? La “Gpa” mercifica la vita e calpesta la dignità: non si può mettere la maternità sotto contratto di Mariastella Gelmini Il Dubbio, 18 ottobre 2024 Maternità surrogata, gestazione per altri, gravidanza “solidale”: comunque la si voglia chiamare, la Gpa è una pratica degradante che offende la dignità delle donne, i diritti dei bambini e mercifica la vita. Da cattolica, non ho mai nascosto la mia contrarietà alla Gpa e ho avuto sempre una posizione molto chiara. Quando in Senato - a poco più di un anno dal voto della Camera - siamo stati chiamati ad esprimerci sul disegno di legge che rende perseguibile il reato di surrogazione di maternità commesso all’estero da cittadini italiani, non potevo che votare a favore del provvedimento. Se è vero che la maternità non è riconducibile solo a un fatto biologico, è però indubitabile che la gravidanza e il parto sono eventi che segnano profondamente una donna. Resto così convinta del fatto che non si possa subordinare a un contratto quel legame speciale, imprescindibile, che lega ogni donna al proprio figlio. Un rapporto unico che si crea durante l’esperienza della gestazione e del parto. I figli non si comprano e non si vendono. Si acquistano le cose, gli oggetti, non le persone. Nella pratica della Gpa la donna, tanto quanto il nascituro, diventa di fatto oggetto di una vergognosa compravendita e spesso dietro questa scelta non c’è vera libertà, ma piuttosto un bisogno economico. Povertà, solitudine, disperazione. Basti pensare all’incremento che ha avuto questo fenomeno in Ucraina dopo l’invasione russa. In Italia la Gpa è già considerata reato: grazie alla legge 40 il nostro ordinamento lo prevede oramai da circa vent’anni. In questi anni, la legge 40 è stata in larga parte emendata dalla Corte Costituzionale, ma mai nessuno ha pensato o proposto di cancellare il reato di surrogazione di maternità. Finora però nessuno si era posto il problema di impedire che questa prassi inumana fosse commessa all’estero, per lo più da persone con ampie disponibilità economiche. Non si poteva continuare a far finta di non vedere che questa attività viene svolta in Paesi che non sono il nostro. Intervenire, quindi, era doveroso. Oltre che urgente. Non mi convincono le obiezioni di chi accampa motivi giuridici sull’impossibilità di perseguire effettivamente il reato. Innanzitutto perché in molti Paesi, come la Francia o la Germania (non proprio due stati oscurantisti sul fronte dei diritti), è già vietata. Dunque l’argomento della mancanza della doppia incriminazione per alcuni Paesi verrebbe meno. Ma è di tutta evidenza che non è questo il punto. Questa legge non solo va a colmare un vuoto normativo, ma chiarisce anche quello che dovrebbe essere ovvio a tutti, ovvero che - essendo un reato - praticare la maternità surrogata in Italia o fuori dai nostri confini, è esattamente la stessa cosa. Chi è contrario a questa legge è in verità un sostenitore più o meno occulto della Gpa: parlano di ostruzionismo miope e testardo alla naturale tendenza dell’uomo verso la genitorialità o di un provvedimento contro le coppie omosessuali. Nulla di tutto questo: dal mio punto di vista l’obiettivo del testo appena approvato dal Parlamento non è quello di legiferare “contro” qualcuno, ma di colpire la gestazione per altri, una pratica intollerabile, a prescindere dal fatto che venga praticata per coppie eterosessuali piuttosto che omosessuali. Naturalmente non sono i bambini a dover pagare il prezzo di tutto questo. Questa legge, come tutta la legislazione penale, non ha ovviamente valore retroattivo. Al contempo bisogna chiarire che la strada per tutelare l’interesse del bambino nato da maternità surrogata è quella indicata oramai da anni dalla magistratura, cioè l’adozione in casi particolari, che consente l’adozione di minori a prescindere dal loro stato di abbandono. Spero che questa legge abbia un reale effetto di deterrenza su un fenomeno che va contrastato in ogni modo. E anche alla luce della direttiva Ue, che include la gestazione per altri nei reati collegabili al traffico di esseri umani, mi piace pensare che questa norma possa diventare sempre più un modello da esportare in altri Paesi. Sarebbe un segnale importante. Un passo avanti verso la tutela e la promozione, a livello internazionale, dei diritti fondamentali delle donne e dei bambini. Esiste, infine, il grande tema delle adozioni. Sono tantissimi i minori, orfani o allontanati dai genitori, in attesa di una nuova famiglia. Bisogna lavorare per riformarne l’iter, snellendo la burocrazia e riducendo i tempi delle procedure. Tocca al Parlamento, in maniera trasversale, oltre ogni appartenenza politica, dare un contributo significativo su un tema così delicato che riguarda la vita di tante famiglie e spero che lo si possa fare presto. *Senatrice Migranti. Deportati in Albania, è un sequestro di persona di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 18 ottobre 2024 Ha fatto la sua ricomparsa la figura della persona illegale, per colpa soltanto della sua identità ed esistenza. In Europa si assiste a una gara penosa nelle politiche di esclusione. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha dichiarato che “saremo in grado di trarre lezioni da questa esperienza nella pratica”. Il presidente di turno dell’Unione Victor Orbán ha di recente parlato di rimpatri fuori dei confini europei. Il premier inglese Keir Starmer si è detto interessato all’esperimento albanese. E il presidente polacco Donald Tusk, per battere la concorrenza della destra nella campagna elettorale contro i migrati, ha annunciato un piano che prevede la possibilità di sospendere il diritto d’asilo, in aperta violazione dell’articolo 18 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea. Non sono affermazioni di cui vantarsi. C’è solo da vergognarsene. Non dimentichiamo che l’Europa ha un debito gigantesco nei confronti del resto dell’umanità. Per secoli, proprio in nome del diritto di emigrare da essa stessa teorizzato alle origini dell’età moderna, ha invaso, depredato e assoggettato gran parte del pianeta. Nel secolo scorso ha allevato fascismi e razzismi e ha scatenato due guerre mondiali. L’Unione europea è nata contro tutto questo: contro i campi di concentramento, contro i fili spinati, contro le discriminazioni e contro il razzismo. “Unità nella diversità” è la massima da essa adottata nel 2000 per esprimere questa nuova identità, basata sul valore dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, quali che siano le loro differenze personali. Oggi l’Europa sta rinnegando se stessa. Con le sue leggi contro i migranti - le odierne leggi razziste - ha moltiplicato le disuguaglianze di status, per nascita, tra cittadini, stranieri più o meno regolarizzati e immigrati clandestini ridotti allo stato di non-persone. Ha fatto così la sua ricomparsa la figura della persona illegale, per colpa soltanto della sua identità ed esistenza. Pagando, per imprigionarli nei lori lager, i regimi dai quali i migranti tentano di evadere, l’Europa si è nuovamente consegnata agli egoismi nazionali, ai populismi xenofobi, alle paure, alle intolleranze e ai suprematismi identitari, in una gara penosa di tutti i suoi Stati membri nelle politiche di esclusione e repressione dei diversi. Accade così che a causa delle omissioni di soccorso, ogni anno muoiono migliaia di persone che fuggono dalle guerre, dalle persecuzioni, dalla fame, dalle malattie e dalla miseria e si affollano in massa ai nostri confini, dispersi e malmenati dalle nostre polizie. Nel 2023 sono state ben 3.041 le persone affogate nel Mediterraneo. Di queste morti i nostri governi portano la responsabilità: per la negligenza delle navi della nostra guardia costiera, come è accaduto nella tragedia di Cutro dello scorso anno; per i tanti ostacoli opposti ai salvataggi delle navi soccorritrici, costrette ad approdare, anziché nel porto più vicino come impongono le norme del diritto internazionale, in porti lontani come quelli di Ancona o di Genova, a costo di inutili disagi e al solo fine di impedire ulteriori salvataggi; per le crudeli complicazioni burocratiche che hanno costretto più volte le navi umanitarie a restare a lungo nei porti in condizioni di fermo amministrativo, mentre centinaia di persone affogavano in mare o morivano per la fame e la sete. Oggi l’Unione europea è a un bivio, tra involuzione ed evoluzione, tra regressione e progresso. Può cedere alle logiche identitarie e razziste del nemico o del diverso, oppure prendere sul serio i suoi valori fondanti, l’uguaglianza e la dignità delle persone, che sono valori intrinsecamente universali che valgono al di là di qualunque confine. Può accettare e promuovere la divisione in due del genere umano - l’umanità che viaggia liberamente per il mondo, per turismo o per affari, e l’umanità dei sommersi e degli esclusi, costretti a terribili odissee e a rischiare la vita nei loro fragili barconi - oppure comprendere che sulla questione migranti si gioca oggi la sua identità democratica e la dignità di tutti i suoi paesi membri. Migranti. Albania, oggi si decide sulle convalide. Dubbi sulle procedure di Giansandro Merli Il Manifesto, 18 ottobre 2024 Il tribunale di Roma da remoto dovrà deliberare sul trattenimento dei migranti. Ispezione dei parlamentari: “Verificare il protocollo”. “Se avessi saputo che mi portavano in Albania mi sarei tuffato e avrei raggiunto Lampedusa a nuoto. Ero molto vicino”: ha detto così uno dei 12 richiedenti asilo, otto cittadini del Bangladesh e quattro dell’Egitto, alla delegazione di parlamentari italiani organizzata dal Tavolo asilo e immigrazione (Tai) che ieri ha visitato la struttura detentiva di Gjader incontrando quattro dei trattenuti. Sono entrati prima Riccardo Magi di +Europa insieme ai dem Paolo Ciani e Rachele Scarpa, più tardi la deputata di Avs Francesca Ghirra. “Chiederemo i tracciati delle imbarcazioni che hanno soccorso i migranti. Secondo le testimonianze sarebbe avvenuto tutto in posizione molto ravvicinata all’isola siciliana di Lampedusa. Questo è il punto più delicato e grave”, dice Magi. Usa il condizionale, d’obbligo, ma vuole vederci chiaro: secondo il protocollo Italia-Albania oltre Adriatico possono essere trasferite solo persone mai entrate nel territorio nazionale, acque territoriali comprese. Altra questione sollevata dall’ispezione è il tema dello screening. Un primo livello effettuato a bordo della motovedetta per scartare donne, minori e vulnerabilità evidenti. Un secondo sulla nave Libra, dove dovrebbe salire solo chi è cittadino di uno dei 22 paesi ritenuti “sicuri” dall’Italia (tra cui Tunisia, Egitto e Bangladesh), con lo scopo di verificare l’eventuale possesso dei documenti. Chi non li ha, va in Albania. “Ma non è chiaro chi decide in base a cosa - afferma Ciani -. Una nave in mezzo al mare non è il luogo per valutare adeguatamente le situazioni soggettive”. E infatti mercoledì in quattro sono stati riportati in fretta e furia verso la Libra, che intanto aveva mollato gli ormeggi. Due erano risultati minori e due vulnerabili. Ieri li hanno sbarcati a Brindisi, in un ping pong che ha come tavolo il Mediterraneo. Il tema, però, è più complesso e riguarda anche gli altri. “Da quanto visto e sentito dalla viva voce dei migranti coinvolti, emerge come le procedure usate siano del tutto illegittime”, attacca il Tai. Tutti quelli incontrati dalla delegazione hanno trascorso un lungo periodo in Libia, da diversi mesi a oltre un anno, e lì sono stati sottoposti a violenze, torture e lavoro in condizioni di schiavitù. “Un cittadino del Bangladesh ha raccontato di essere stato venduto da un tassista del paese nordafricano a dei criminali e di essere stato rinchiuso per mesi in una stanza - afferma Scarpa -. Un egiziano, fuggito dal suo paese per non arruolarsi nell’esercito, ha detto che in Libia è stato rapito due volte e torturato. In faccia aveva un segno evidente che ha attribuito al colpo del calcio di un fucile”. L’articolo 17 del decreto che definisce i soggetti vulnerabili (142/2015) riguarda proprio le vittime di torture: chi rientra in questa categoria deve seguire le procedure ordinarie per l’asilo e non può essere sottoposto a quelle accelerate di frontiera previste in Albania. Il secondo capitolo di questa storia sarà comunque scritto oggi dal tribunale di Roma. Dalle 9 i giudici della sezione specializzata in immigrazione esamineranno le richieste di convalida dei trattenimenti firmate dal questore della capitale. Non ci sono elementi di novità rispetto a quanto deciso dai magistrati di Palermo e Catania per le analoghe situazioni dei centri di Porto Empedocle e Modica, ovvero la non convalida. Nel frattempo è anche arrivata la sentenza della Corte di giustizia Ue secondo cui non possono essere considerati “sicuri” i paesi per cui esistono eccezioni territoriali o per categorie di persone (come Bangladesh ed Egitto). Interpretazione recepita nei giorni scorsi dal tribunale di Roma in una decisione sul ricorso per la sospensiva del provvedimento di espulsione presentato da un richiedente asilo. Tutto lascia credere, dunque, che i trattenimenti non saranno convalidati. E la cosa è nota anche dalle parti del governo. Quello che davvero resta da capire è ciò che avverrà dopo. Se i giudici si opporranno alla detenzione, i richiedenti asilo dovranno essere liberati subito. Ma come? Certamente non possono essere rilasciati sul territorio albanese, ma non essendoci più la nave della Marina militare Libra in rada non è chiaro come sarebbero trasferiti senza ritardi in Italia. È qui che potrebbe scattare una contromossa di dubbia legittimità. Ieri tutti i casi sono stati esaminati dalla commissione territoriale competente, con le audizioni dei migranti da remoto. Se dovessero arrivare a tempo di record dei dinieghi alle richieste d’asilo, le autorità italiane potrebbero emettere un nuovo provvedimento di trattenimento. A quel punto non per le procedure di frontiera, ma contro persone “irregolari”. Come avviene per chi è rintracciato senza documenti nel territorio nazionale e finisce in un Cpr. Servirebbe, entro 48 ore, una nuova convalida: questa volta, però, la competenza sarebbe del giudice di pace, che non valuta la questione dei paesi sicuri. In casi analoghi il via libera alla detenzione è arrivato quasi sempre. Così i migranti reclusi in terra albanese sarebbero trasferiti nel secondo girone della struttura detentiva: dal centro di trattenimento al vero e proprio Cpr. Questo spiegherebbe perché il governo ha scelto di tirare dritto nonostante le sentenze dei giudici italiani ed europei e con numeri così contenuti (il Cpr ha solo 24 posti pronti, a regime saranno 144). Per adesso si tratta di un’ipotesi, tra poche ore scopriremo come andrà a finire. Migranti. La strada per la libertà è in salita, il giudice lascia Maysoon in sospeso di Silvio Messinetti Il Manifesto, 18 ottobre 2024 Aggiornata l’udienza per l’uscita dal carcere. Il fratello dell’attivista espulso dalla Germania: dubbi per l’interrogatorio. Il calvario continua. Maysoon Majidi deve ancora aspettare l’agognata libertà dalle carceri italiche. Non sono bastate tre ore di serrata discussione nell’aula del tribunale della Libertà di Catanzaro per ottenere il sospirato provvedimento. I giudici si sono riservati all’esito dell’udienza. Se ne parla oggi o, più probabilmente, la settimana prossima. Se così fosse si determinerebbe un irrituale ingolfamento con il giudizio di merito. Infatti proprio la settimana prossima, il 22 ottobre, a Crotone è prevista l’ultima udienza istruttoria. Maysoon si presenterà in quell’occasione da cittadina libera o in manette? Stramberie di un processo davvero grottesco, in cui da 10 mesi si tiene in carcere una militante politica, sulla base di indizi che sono caduti come birilli uno dopo l’altro durante il dibattimento. Ieri l’attesa era palpabile anche tra il solito folto gruppo di attivisti che ha assistito all’udienza del Riesame. L’imputata invece ha partecipato solo in videocollegamento dal carcere di Reggio Calabria. Le precarie condizioni di salute non le permettono di sostenere un viaggio dalla città dello Stretto. Alla scorsa udienza di Crotone si era sentita male nella strada del ritorno. Maysoon, assistita dall’avvocato Giancarlo Liberati, ha chiesto già 5 volte al collegio crotonese di poter proseguire la sua misura cautelare in una comunità protetta presso il borgo di Caccuri nella Presila crotonese, ricevendo però sempre un diniego. Ora dopo l’appello cautelare le speranze sono riposte nella corte catanzarese che valuterà allo stato degli atti l’eventuale pericolo di fuga, la reiterazione del reato, l’inquinamento probatorio e i gravi indizi di colpevolezza. Sul processo in corso è calata ieri la notizia del foglio di via dalla Germania per Ryan Majidi, il fratello di Maysoon. È stato citato come teste dalla difesa nella prossima udienza del 22 ottobre. La sua deposizione potrebbe essere rilevante. Anche a confermare quel che è emerso inconfutabilmente nell’istruttoria: ovvero che i fratelli Majidi hanno viaggiato verso l’Europa grazie al sostegno economico del partito filokurdo Komala. Altro che scafisti o trafficanti come si accanisce nel volerli definire la Pm Rosella Multari. Vedremo se Ryan verrà escusso oppure l’espulsione gli precluderà la possibilità di chiarire la posizione della sorella. In aula era presente anche Mimmo Lucano. Il sindaco di Riace ed europarlamentare ha annunciato di voler portare in consiglio comunale la proposta per conferire a Maysoon la cittadinanza onoraria nel comune della Locride, “per una combattente per la libertà e per il rispetto dei diritti umani. Ha pagato già un prezzo molto alto. Ma noi non perdiamo mai la speranza, convinti che il senso della giustizia si affermerà”. Migranti. L’Ue verso la stretta: i leader aprono agli hub per i rimpatri fuori dai confini di Francesca Basso Corriere della Sera, 18 ottobre 2024 Consiglio europeo, Meloni illustra l’intesa con l’Albania. Il pre vertice con altri dieci Paesi. Ucraina, Medio Oriente e lotta alla migrazione irregolare. I leader Ue riuniti a Bruxelles per il Consiglio europeo hanno cercato e trovato nelle conclusioni la sintesi su questi tre temi che continuano a dividere gli Stati membri. È stata però la discussione sulla migrazione, definita dal presidente del Consiglio europeo Michel “estremamente approfondita”, a rappresentare la maggiore novità perché rispetto al passato più recente c’è stato un cambiamento di atteggiamento, certificato dai contenuti della lettera sulla migrazione inviata dalla presidente von der Leyen ai leader Ue e anche dalla dichiarazione dei capi di Stato e di governo del Ppe (sono quattordici) che si sono riuniti prima dell’inizio del summit. Michel ha ammesso che sulla migrazione ci sono “posizioni sempre più convergenti”. E il cancelliere tedesco Scholz ha definito la discussione “molto costruttiva, un’atmosfera molto differente” ricordando che “la migrazione irregolare deve essere ridotta, non tutti possono arrivare”. La presidente della Commissione Ue von der Leyen ha annunciato “presto una nuova proposta legislativa sui rimpatri” e ha spiegato che è stata discussa pure l’ipotesi di dare “protezione anche in Paesi terzi sicuri”, non solo nell’Ue, ai rifugiati. Ora non ci sono più tabu e a prescindere dal colore politico i leader Ue hanno iniziato ad aprire all’ipotesi di studiare hub per i rimpatri fuori dai confini Ue (che nelle conclusioni diventano “nuovi modi per prevenire la migrazione irregolare”) e alla revisione del concetto di Paesi sicuri, come dimostra la riunione organizzata prima del vertice da Italia, Danimarca e Olanda, a cui hanno partecipato i leader di Austria, Cipro, Polonia, Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria, Malta, Slovacchia oltre alla presidente della Commissione europea von der Leyen. La premier Meloni ha presentato l’intesa Italia-Albania, che sta suscitando grande interesse (critiche Spagna e Germania per le quali non funziona sui grandi numeri, e per il Belgio è un modello inefficace e costoso), mentre il primo ministro olandese Schoof ha spiegato che i Paesi Bassi stanno valutando la possibilità di creare un hub per i rimpatri in Uganda per gli immigrati di origine africana a cui è stato negato l’asilo. La premier danese Frederiksen, socialdemocratica, ha invece già siglato un accordo con il Kosovo per ospitare per 10 anni 300 detenuti delle carceri danesi. Il premier Tusk ha presentato la strategia della Polonia di sospendere temporaneamente il diritto di asilo per rispondere all’attacco ibrido da parte di Bielorussia e Russia, che usano i migranti per destabilizzare il Paese. Il Consiglio europeo nelle conclusioni ha espresso “solidarietà” alla Polonia e gli altri Stati che stanno vivendo la stessa situazione (Finlandia e Baltici). Il presidente ucraino Zeleneky ha presentato di persona il suo piano di pace, bollato come “spaventoso” da Orbán. Migranti. Dal Villaggio Globale di Riace ai Cpr dell’Albania che piacciono all’Ue di Donata Marrazzo Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2024 L’ideatore dello Sprar Schiavone fa una ricognizione dell’accoglienza in Italia, tra strette di governo, acronimi, numeri e decreti. E Mimmo Lucano, europarlamentare, tornato sindaco a Riace, con lo stipendio di Bruxelles tiene aperto l’asilo e la mensa scolastica. Mentre i sedici migranti partiti da Lampedusa e attesi in Albania arrivavano nell’hotspot di Schengjin dopo quasi tre giorni di navigazione sulla nave Libra della Marina Militare, a Riace giungeva da Padova, in bus, Stella, una giovane donna di origini nigeriane con i suoi tre bambini. Tre buste e uno zainetto come bagaglio e un pupazzo fra le braccia di Treasure, la figlia più grande, 7 anni. E se il trasferimento fino al Centro albanese è costato 18mila euro per ciascuno dei migranti, dieci bengalesi e sei egiziani (in quattro peraltro stanno rientrando in Italia, due sarebbero minorenni e due soggetti vulnerabili), la donna che è arrivata nel “Villaggio Globale” della Locride - dove è tornato sindaco Mimmo Lucano, eletto anche parlamentare in Europa, dopo la sua lunga odissea giudiziaria - è stata accompagnata alla stazione dei pullman da un poliziotto che le ha fatto i biglietti: “Guarda, certe volte, Dio come assume le sembianze più inaspettate”, ha commentato Lucano. Da quando è europarlamentare, mette i soldi del suo stipendio al servizio della comunità: “Così tengo aperto l’asilo e la mensa scolastica”, dice. A Riace fa tappa la marcia mondiale della Pace - “Con il costo di un solo migrante qui potremmo riattivare tutti i servizi, le case, la mensa, la scuola, l’ambulatorio medico, i laboratori, la fattoria didattica, l’orto sociale. Fare accoglienza, integrazione ed economia per il territorio. Io non mi do per vinto. Per questo, il 24 novembre - afferma il sindaco Mimmo Lucano- in occasione della marcia mondiale della pace e della nonviolenza che farà tappa a Riace, presenterò una proposta che porterò in Europa, ispirata a quella legge regionale sull’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati e sullo sviluppo sociale, economico e culturale delle comunità locali, che è nata proprio dall’esperienza di Riace. Fu approvata il 12 giugno del 2009 dalla giunta guidata da Agazio Loiero. Il nostro, quello della Calabria ionica è un territorio con l’imprinting della Magna Grecia. Fare accoglienza ci viene naturale”, conclude Lucano che un anno fa è stato assolto dai reati gravissimi che gli aveva contestato la procura di Locri, a parte un’ipotesi residuale di falso relativo a una determina, con sospensione della pena. “Riace è stata un’esperienza virale e visionaria, capace anche di proteggere i piccoli borghi delle aree interne dallo spopolamento. Il villaggio globale di Lucano è stato un’intuizione che è andata lontano”. A parlarne, individuando di quel modello anche le criticità (“A Riace c’è stata una trasformazione troppo rapida e sproporzionata, che non ha seguito il tempo della Storia”), è Gianfranco Schiavone, esperto di studi giuridici sull’immigrazione. È considerato il padre dello Spar, sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, concepito agli inizi degli anni 2000 come “un meccanismo perfetto ma di cui restano solo i cocci. Avversato, compresso, cambiato nel nome, prima in Siproini e poi in Sai, oggi è svuotato di senso. Ma non del tutto cancellato”, spiega, animato ancora da un pizzico di speranza. L’accoglienza ai tempi della ex Jugoslavia - “All’inizio abbiamo elaborato le esperienze informali di chi aveva accolto i profughi della ex Jugoslavia- racconta Schiavone -. Erano gli anni ‘90 e a Brescia e a Parma, ad esempio, molte associazioni cercavano alloggi e facevano raccolte fondi per i disertori della guerra in Bosnia. Questa storia non viene mai raccontata, ma invece lo Sprar era un sistema che funzionava proprio perché aveva avuto un lungo periodo di gestazione, partendo dalla guerra dei Balcani”, spiega il giurista che vive a Trieste, tappa finale della rotta balcanica, “città piena di contraddizioni, divisa tra chi presta assistenza ai migranti e chi non ne vuole sapere”. Schiavone, la sinistra non ha avuto coraggio - Il problema fondamentale dello Sprar sta nel sistema binario dell’accoglienza che in Italia ne ha fatto un progetto più ampio o più limitato a seconda delle scelte dei governi, “ma sempre, in attesa di una riforma totale, con servizi di secondo livello. E anche quando nel 2015 sembrava che il decreto legislativo n. 142 volesse valorizzarlo, è rimasto tutto solo sulla carta. Era solo un esperimento burocratico, che non ha previsto il trasferimento delle competenze agli enti locali, limitato all’adesione volontaria. Nel 2018, poi, è arrivato il decreto sicurezza. E dopo, com’è noto, il decreto Cutro. Diciamo che la sinistra non ha avuto coraggio - è la lettura politica di Schiavone -, timorosa delle reazioni dei territori, mentre con un’intelligenza politica superiore la destra ha fatto leva sulla paura per lo straniero, sull’invasione dei migranti. Così è iniziata la gestione diretta dell’accoglienza attraverso le prefetture. Si sono accese le tensioni sociali e si sono creati dei veri e propri parcheggi per migranti senza più servizi. La qualità dell’accoglienza in quei luoghi non interessava più a nessuno”. L’accoglienza tra acronimi, numeri e decreti - Ma come si è trasformato il sistema negli ultimi venti anni? Come si è passati da un insieme di procedure basate sull’assistenza materiale, legale, sanitaria e linguistica per i richiedenti asilo ai respingimenti e agli hotspot oltre confine? Acronimi, numeri e decreti - in particolare, quello n. 142 del 2015, denominato decreto accoglienza, il cosiddetto decreto sicurezza n. 113 del 4 ottobre 2018, il n. 20 del 10 marzo 2023, il decreto Cutro - segnano le tappe di un rovesciamento di prospettiva. Gli hotspot, strutture di primo soccorso e accoglienza, in genere in prossimità di un luogo di sbarco, garantiscono la prima assistenza e l’informativa sulla normativa in materia di immigrazione e asilo con controlli, pre-identificazione e fotosegnalazione. Sono come quelli realizzati a Shëngjin e a Gjadër, in Albania, dove però le procedure vengono accelerate. Dopo lo “screening”, i migranti passano nel centro di detenzione di Gjadër, un cpr a tutti gli effetti, centro di permanenza per i rimpatri, ma esternalizzato. Concepiti per disincentivare l’immigrazione irregolare, i Cpr attivi in Italia sono quelli di Torino, Roma, Brindisi, Palazzo San Gervasio, Bari, Trapani, Caltanissetta, Macomer, Gradisca d’Isonzo. Il 70% dei migranti in 5mila Cas - I Centri di prima accoglienza, i Cpa, sono riservati, invece, ai richiedenti asilo. Tra questi rientrano anche gli ex Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) e gli ex Cda (Centri di accoglienza). Nei Cpa di Bari, Brindisi, Isola di Capo Rizzuto, Gradisca d’Isonzo, Manfredonia, Caltanissetta, Messina, Treviso, viene erogata l’assistenza materiale, sanitaria e la mediazione linguistico-culturale. I Cas, Centri di accoglienza straordinaria, sono invece 5mila strutture temporanee reperite dai prefetti che accolgono oltre il 70% dei migranti. La mission assottigliata degli Sprar - Il secondo livello del sistema dell’accoglienza viene assicurato attraverso progetti di assistenza alla persona e di integrazione che vengono attivati dagli enti locali. “Era la mission degli Sprar che è andata via via assottigliandosi. Anzi, a pensarci bene, è dal loro esordio che si intuiva come sarebbe andata a finire, un progetto che non è mai diventato sistema”, sottolinea ancora Gianfranco Schiavone che per anni ha atteso una riforma che trasformasse lo Sprar in un sistema unico. Ma non è accaduto e così si è passati al Siproini (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati), infine al Sai (Sistema accoglienza integrazione) con 40mila posti disponibili (attualmente ne risultano liberi circa mille), 633 progetti ordinari, 208 per minori non accompagnati, 40 per persone con disagio mentale e disabilità, erogati da 746 enti locali. L’interesse dell’Unione, l’ “intralcio” della Corte di giustizia europea - Ma ora che sembra che l’Europa guardi con interesse alle nuove soluzioni adottate in Albania, il governo Meloni e quello di Edi Rama trattengono il fiato: ci sarà da intendersi bene su quali paesi di origine considerare sicuri, tenendo presente la direttiva europea n. 32 del 2013, “che è molto precisa nel definirli come quei paesi dove non si verificano violazioni dei diritti umani in modo generale e uniforme sul territorio - specifica Schiavone -. Certamente non possono essere considerati tali alcuni dei paesi contenuti nell’elenco del ministero degli Esteri, all’interno del decreto 17 marzo 2023, come, ad esempio, Tunisia e Nigeria. Ai migranti provenienti quindi da quelle aree geografiche non è possibile applicare procedure accelerate di frontiera, come stabilito dalla sentenza del 4 ottobre 2024 della Corte di giustizia europea”. È a rischio l’accordo tra Roma e Tirana?