I media, il carcere e le violazioni dei diritti di Francesco Lo Piccolo vocididentro.it, 17 ottobre 2024 Anche “Voci di dentro” ha partecipato al Terzo Festival della comunicazione sul carcere e sulle pene organizzato dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Nel carcere di Opera alla periferia di Milano venerdì scorso un centinaio di persone (giornalisti, volontari, pedagogisti, e altri) ha riempito la sala del teatro per discutere di informazione, deontologia, giustizia riparativa. Giornata intensa e ricca di spunti durante la quale da più parti e da più relatori sono state evidenziate le violazioni dei diritti da parte dei media e da parte dell’istituzione carcere a danno dell’opinione pubblica e delle persone detenute. Mario Consani giornalista, componente dell’Osservatorio Carceri dell’OdG - Lombardia, ha elencato i numerosi protocolli a tutela dei dritti delle persone detenute a cominciare dalla Carta di Milano e ha mostrato come invece questi protocolli siano regolarmente violati. A cominciare dai titoli. I detenuti usufruiscono di misure alternative? La maggior parte dei giornali titolano “Scarcerati assassini e spacciatori”. Come pure sono violate tutte le altre raccomandazioni per non sollevare inutile allarme sociale e favorire il reinserimento di chi è stato in carcere. E naturalmente nessuna sanzione a chi non rispetta il codice deontologico, al massimo qualche buffetto sulla guancia. Insomma, un invito a un modo deontologicamente corretto di raccontare la pena. Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, ha parlato della legge Cartabia e della giustizia riparativa ponendo l’accento sul salto di paradigma, sulla rivoluzione copernicana, ovvero il passaggio da una giustizia punitiva a una giustizia che sana un torto, cioè fondata essenzialmente sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altro. “La giustizia della riparazione - ha detto Bortolato - introduce nel sistema una dialettica tripolare: non c’è più solo lo Stato che punisce e l’autore del reato che subisce la pena. Ora c’è anche la vittima, non spettatrice e spesso vittima due volte, ma presente in prima per la ricomposizione del conflitto”. “Perché - ha precisato - la soddisfazione per pene molto alte ha vita brevissima”. E sulla stessa linea anche la relazione di Adolfo Ceretti Professore Ordinario di Criminologia e docente di Mediazione reo-vittima all’Università di Milano-Bicocca che ha parlato di giustizia come ricomposizione in opposizione a una giustizia che crea nemici e che divide anziché unire. Donatella Stasio, giornalista, ha parlato di pena e Corte Costituzionale, e del volto del carcere che dovrebbe essere il volto di chi si prende cura e che opera per il reinserimento delle persone che hanno avuto una condanna e non quello che vuole reprimere, che rimuove i cattivi assecondando pulsioni vendicative. “Perché il carcere non è un campo di battaglia”. E proprio per questo, ha aggiunto Donatella Stasio, è “doveroso far rivivere la Costituzione in carcere, una Costituzione che parla di diritti, di dignità e di cambiamento”. “Perché - ha ricordato - la restrizione della libertà personale è restrizione della sola libertà personale: le altre libertà non dovrebbero essere toccate”. Oltre a Laura Pasotti e Gabriele Morelli (podcast racconti da carcere), Susanna Ripamonti (Le nuove Carte Bollate), Stefano Natoli (Cronisti in Opera), Renzo Magosso (Opera News), Roberto Monteforti (Non tutti sanno”), al Festival è intervenuto anche Francesco Lo Piccolo, direttore di Voci di dentro, che ha evidenziato come il carcere abbia una forte vocazione antidemocratica e che tenda a sottrarsi al rispetto dei diritti. “Come giornalisti - il suo pensiero - è più che mai necessario rendere pubblico ciò che è pubblico, facendo in modo che i giornali realizzati in carcere da parte dei detenuti (ma anche quelli fuori) siano veri giornali di informazione, soprattutto liberi”. E a proposito dell’opinione pubblica sempre più forcaiola, Lo Piccolo ha detto: “Sono soprattutto i media, con la distorsione della realtà e la manipolazione, con l’etichettamento e il pregiudizio, che mettono i forconi in mano all’opinione pubblica, venendo meno al dovere di informare nel rispetto dell’etica del giornalismo… venendo meno a un principio cardine: portare conoscenza e migliorare questa società”. È dietro le sbarre la scena del crimine di Francesco Lo Piccolo 9colonne.it, 17 ottobre 2024 Due anni fa, nel settembre del 2022, quando il numero delle persone morte in carcere era arrivato a 59, in copertina della nostra rivista “Voci di dentro” titolammo “Non chiamateli suicidi” ed era un atto di accusa a uno Stato bugiardo e indifferente alla sofferenza di migliaia di persone. Oggi, con i morti che sono arrivati a 75, apriamo la rivista con l’immagine di una cella scattata nel 2015 da Francesca Fascione al Don Bosco di Pisa e con il titolo “La scena del crimine”. Perché questo è, perché davvero oggi quella cella del carcere, quelle 75 celle sono la scena del crimine, cioè il luogo nel quale si compie un altro crimine: la morte di persone per le quali - pur colpevoli di reati - il nostro Paese non prevede in alcun modo la pena capitale. Ma non solo. Scena del crimine è riferibile a tutta l’istituzione carcere, perché lì, in tutta l’istituzione, si materializza quello che non si deve materializzare, si rende cioè evidente il suo DNA: violenza dentro le sue mura, mancato riconoscimento della dignità della persona e dei suoi diritti (affetti, salute, lavoro), tortura e morte occulta come già dieci anni fa Papa Francesco aveva definito la pena dell’ergastolo, la fine della speranza. Scena del crimine diventa il luogo che si converte in delittuoso, nella doppia valenza di contenitore e attore di delitti, perché ogni atto contrario al senso di umanità e ogni violenza inflitta è incompatibile con la rieducazione che la Costituzione sancisce senz’altra finalità nell’art. 27. È atto illegale. Queste morti e quelle degli anni passati, le sofferenze dei tanti detenuti che si tagliano per protesta, che tentano il suicidio e che vengono salvati in extremis dagli agenti di polizia penitenziaria (anche loro in grave sofferenza, nella realtà abbandonati e ignorati) e l’assenza di misure vere e immediate svelano tutte il paradosso di questa istituzione (peraltro noto a coloro che si occupano di carcere e giustizia, eccetto i politici che ragionano per interesse elettorale). Un paradosso rappresentato ad esempio dall’idea di voler fare rieducazione in un ambiente chiuso e isolato, vietando a coloro che hanno compiuto un reato il contatto con l’esterno “virtuoso” e confinandoli in un luogo spesso malsano tra umiliazioni e degrado, spoliazione di ruoli e mortificazione fino alla cancellazione dell’identità. E ancora, ecco che il carcere (e gli stessi decreti sicurezza) diventa anche la messa in scena di una rappresentazione - teatrale verrebbe da dire - che non risponde affatto alla realtà: una finzione che si costruisce attraverso l’identificazione e l’etichettamento del “nemico” che suo malgrado diventa l’attore sul palco della scena e al quale restano ben poche possibilità: adattarsi alla rigida tabella di marcia (a che ora mangiare, a che ora alzarsi dal letto, con chi stare e cosa fare durante la giornata) e assumere e fare proprio lo stigma oppure difendersi costruendosi addosso una corazza che diventa anche arma per offendere. Oppure stringersi un cappio al collo. Tutte parti da recitare in questo teatro dell’assurdo. Teatro della violenza. Scena del crimine. Studiare per resistere: una vita dopo il carcere è ancora possibile di Gaetano De Monte Il Domani, 17 ottobre 2024 Fabrizio Pomes ha finito di scontare una condanna per concorso esterno alla mafia. Nel carcere di Bologna ha studiato, si è laureato. Ora è di nuovo con la famiglia. Ai detenuti dice: “Si può fare”. All’alba del 7 ottobre del 2014, esattamente dieci anni fa, un’operazione antimafia portò in carcere 53 persone, la maggior parte delle quali esponenti apicali dei clan De Vitis-D’Oronzo di Taranto, protagonisti della guerra di malavita che nei due decenni precedenti, tra il 1989 e il 1991, aveva lasciato sulle strade della città. Un cartello criminale che aveva messo le mani sugli appalti più importanti del territorio e sulla politica. A pagare per tutti con il carcere e con i sequestri patrimoniali fu però anche un colletto bianco: Fabrizio Pomes, oggi 58enne, imprenditore e politico di lungo corso, già consigliere ed assessore comunale con il Psi di Bettino Craxi, ed all’epoca dei fatti dirigente regionale della “Puglia per Vendola”. Pomes fu accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni, perché avrebbe gestito insieme ad alcuni esponenti del clan d’Oronzo la più grande struttura sportiva della città, il Centro sportivo Magna Grecia, ora abbandonata da dieci anni, e che versa in condizioni disastrose, in attesa che i soldi stanziati per i Giochi del Mediterraneo la riportino all’antico splendore. Per quella vicenda l’uomo ha già scontato sette anni di carcere, condannato in via definitiva ad otto anni, ed ora si trova in regime di esecuzione penale esterna con l’affidamento in prova ai servizi sociali. A dieci anni esatti da quel primo arresto, Pomes ha deciso di raccontare la propria esperienza detentiva a Domani. “Non è stato di certo facile passare da quello che era definito il centro nevralgico della politica e degli affari, a Taranto, dalla gestione di una struttura che riusciva a tenere insieme lo sport con gli incontri politici di tutti i partiti dei diversi schieramenti politici, e da me gestito nelle vesti di “manovratore”, alla cella di un carcere”, è la premessa ironica del nostro incontro avvenuto a Bologna, dove ora vive con la famiglia dopo essere uscito dal carcere. E poi sul passato, aggiunge: “Rispetto la sentenza che mi è stata inflitta in primo grado ad undici anni, poi ridotta in appello a otto, anche se non l’ho condivisa; sono entrato in carcere con la consapevolezza che avrei scontato per intero la mia pena e questa consapevolezza mi ha aiutato perché sapevo che mi sarei dovuto armare di tanta resilienza per reagire alla sofferenza”. “È stato nel momento della vita in cui mi sono sentito più fragile e ferito che ho avuto la volontà di ridisegnare il mio progetto di vita, senza aspettare che tornasse a splendere il sole, ho imparato giorno dopo giorno a danzare in mezzo alla tempesta”, dice, rievocando i giorni della terza laurea conseguita in sociologia, in carcere, all’università di Bologna, dopo quelle che aveva già ottenuto in gioventù in giurisprudenza ed economia. Quasi si commuove ancora, mentre ricorda la discussione finale della tesi scortato dagli agenti della polizia penitenziaria, ma con la presenza dei figli, della moglie e di altri parenti. “Li considero le vittime innocenti dei miei errori e della mia superficialità, ma è in quel momento che ho capito quanto fossero importanti per me e quanto potevano essere felici per quella soddisfazione che avevo loro regalato, dopo anni di delusioni, amarezze e umiliazioni”. Continua Pomes: “Un invito a tutti i detenuti: attraverso lo studio dal carcere si può riemergere, è un’opportunità, deve essere valutata come possibilità di cambiamento, anche se resta il fatto che per molti detenuti studiare in quelle condizioni è difficile, costretti ad arrangiarsi per trovare spazi fisici e mentali utili alla concentrazione”. Appena uscito dal carcere, qualche settimana fa, inoltre, ha conseguito anche la quarta laurea, in consulenza del lavoro e delle relazioni aziendali, discutendo la tesi sui diritti dei detenuti alla Naspi. “Qui entra l’uomo, il reato sta fuori”. La scritta scolpita nel vecchio carcere di Pianosa costruito nel XIX secolo, nell’epoca della prevenzione speciale e degli studi sull’uomo criminale da parte della scuola di Lombroso, è una massima che Pomes rievoca durante il nostro incontro per ricordare le esperienze di altri detenuti che ha conosciuto all’interno del polo universitario della Dozza di Bologna: Daniele, Paolo, Igli, Andrea, Donard questi i nomi di battesimo di alcuni condannati all’ergastolo. E se l’ex politico di Taranto ritiene sia stato fondamentale l’incontro con loro, è perché “ho capito che la diversità in carcere si manifesta in molteplici forme, etnica, culturale, sociale ed esistenziale, ma ogni detenuto porta con sé una storia diversa, è un modo di vivere che il mondo di fuori oggi così tanto caratterizzato da razzismo e individualismo, forse, dovrebbe paradossalmente far proprio”, conclude. Pomes ora partecipa a “Ne vale la pena”, un laboratorio di giornalismo dentro al carcere bolognese, dove ogni settimana, dal marzo del 2012, una redazione di detenuti e volontari s’incontra per parlare della condizione carceraria. Scrive anche una rubrica “Percorsi di libertà” su EduradioTv con l’obiettivo di creare un ponte tra il carcere e la città. La “legge Costa”? Salva la dignità degli innocenti, non è un attentato alla libertà di stampa di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 17 ottobre 2024 Cara “legge Costa”. A un mese di distanza dal semaforo verde “preliminare” del governo al decreto modificativo dell’articolo 114 del codice di procedura penale, l’emendamento del collega avvocato Enrico Costa torna a far discutere, in virtù del parere favorevole espresso martedì, sul testo, dalle commissioni Giustizia di Camera e Senato. La maggioranza sostiene che siano necessarie ulteriori strette: le sanzioni attualmente previste sarebbero troppo blande. Sarebbe infatti necessario che il bilanciamento tra informazione e presunzione d’innocenza sia rispettato e, dunque, sia conseguentemente prevista una proporzionale sanzione, adeguata, proprio ai diritti in gioco. Ecco che, nel parere che le commissioni parlamentari hanno approvato sul presunto “bavaglio” - la norma vieta la pubblicazione testuale dell’ordinanza di custodia cautelare, ammesso solo il “riassunto” - è stato inserito anche l’esplicito invito a prevedere sanzioni per chi deciderà di pubblicare ugualmente anche solo stralci degli atti dei gip. Le pene “invocate” sono di due tipi: un’ammenda molto più salata di quella attuale, che oscilla tra i 51 e i 258 euro; e una sanzione che graverebbe sulle aziende editoriali, utilizzando il meccanismo degli assetti di cui al D. Lgs. 231/2001. Non è tutto però. La maggioranza, insieme con una parte dell’opposizione, vale a dire i rappresentanti di Italia viva, auspica che la stretta vada oltre l’ordinanza di custodia cautelare, e investa anche i decreti di perquisizione, gli ordini di sequestro o ancora le ordinanze di Riesame, atti, che si ricorda, ad oggi sono coperti dal segreto. Ora, alcun dubbio v’è quando si afferma che la libertà di stampa sia sacra e inviolabile, ma non bisogna scordarsi che di uguale importanza è la garanzia della segretezza delle informazioni e della dignità dell’individuo. Non a caso in Costituzione c’è l’articolo 21. Ecco perché l’emendamento Costa dev’essere visto come uno dei tanti passi sul percorso che ha come traguardo una giustizia ispirata ai principi liberali e garantisti. Purtroppo in molteplici e spiacevoli occasioni, la giustizia italiana ha visto sul banco dell’opinione pubblica persone del tutto estranee alle indagini, offese prima e compromesse poi nella loro carriera per ragioni rivelatesi del tutto infondate. Con un effetto anticipatorio di una condanna che nella realtà non è mai giunta: la condanna mediatica. A opinione di chi scrive era dunque doverosa una riforma garantista contro la dilagante piaga della cultura della presunzione di colpevolezza e del pezzo di cronaca da dover sbattere a tutti i costi in prima pagina, ignorando consapevolmente - ed è questo forse l’aspetto più deplorevole - ogni regola di civiltà. Chi abbia avuto diretta esperienza degli scempi ai quali un soggetto, non avvezzo alla macchina della giustizia con le sue spire talvolta nebulose e di difficile comprensione, possa essere sottoposto, può comprendere come le continue critiche avanzate all’emendamento Costa evaporino come fantasmi. Di più: l’occasione è opportuna per sollevare una riflessione e per citare un capitolo di un libro del guardasigilli Carlo Nordio, “Non sparate al cronista”, il quale sottolinea come il giornalista, una volta che riceve una notizia, ha il diritto e per alcuni versi anche il dovere di pubblicarla. Il problema sorge quando la notizia è riservata: e qui la colpa è di chi ne ha consentito la diffusione. Le riforme messe in atto non sono una minaccia ai giornalisti o alla libertà di stampa: vogliono semplificare l’individuazione di chi ha reso possibile la violazione del segreto istruttorio. Ed è chiaro come non vi sia alcun spazio per le strumentalizzazioni politiche, ma casomai ampio terreno per il Legislatore, anche in punto di adeguati assetti organizzativi. *Avvocato, Direttore Ispeg Così si inasprisce la “legge bavaglio”: aumentano gli atti non pubblicabili. Sanzioni per gli editori di Lorenzo Stasi Il Domani, 17 ottobre 2024 Le Commissioni Giustizia di Camera e Senato, nei pareri allo schema di decreto legislativo che vieterà la pubblicazione delle ordinanze cautelari, chiedono di “garantire effettività al divieto” aumentando i provvedimenti che non si potranno pubblicare. Multe fino a 500mila euro anche per le aziende editoriali. La guerra alla cronaca giudiziaria non si ferma. È un processo che va avanti da un po’ e che da dicembre dello scorso anno ha avuto un’accelerazione quando Enrico Costa, deputato eletto con Azione e transitato qualche settimana fa in Forza Italia, ha presentato un emendamento che delegava il governo a vietare la “pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare fino al termine dell’udienza preliminare” o comunque fino alla fine delle indagini. Sarà possibile fare solo una vaga sintesi del provvedimento, ma senza riferimenti puntuali. Ora il centrodestra alza l’asticella, con l’approvazione - il 15 e il 16 ottobre nelle commissioni Giustizia di Senato e Camera - di un parere che propone all’esecutivo non solo di aumentare le sanzioni (“per garantire effettività al divieto”), ma anche di estendere i documenti non pubblicabili e di coinvolgere nelle sanzioni, oltre al giornalista e al direttore responsabile, anche gli editori. “Una manganellata”, denuncia Alessandra Costante, segretaria della Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi). La norma Costa, ribattezzata da più parti “legge bavaglio”, ha avuto un iter lungo quasi un anno. Ed è stata accompagnata da altre proposte (poi ritirate) che sono arrivate anche a ipotizzare il carcere per i giornalisti, come un emendamento al ddl cybersicurezza dello stesso Costa (che mirava a punire chi pubblicava atti ottenuti illecitamente) o quello del forzista Calderone (che voleva estendere le norme in tema di ricettazione e riciclaggio anche alla divulgazione di dati sottratti illecitamente). Sono state chiare reazioni sull’onda del “caso Striano” e dei cosiddetti dossieraggi. Il carcere per ora è stato escluso, ma la stretta è passata ed entro poco diventerà operativa. Lo scorso 4 settembre il governo ha infatti approvato lo schema di decreto legislativo che ogni anno adegua la normativa italiana a quella comunitaria e che, tra le altre cose, recepiva la norma Costa, in applicazione della direttiva 343 del 2016 sulla presunzione di innocenza. Il testo in questi giorni è passato alle commissioni Giustizia di Senato e Camera per un parere non vincolante entro il 20 ottobre. Poi tornerà in Consiglio dei ministri per l’approvazione definitiva. Ed è proprio in queste sedi che la maggioranza di governo ha proposto di irrigidire ulteriormente un divieto che già così com’è finirebbe per mettere i bastoni tra le ruote alla libertà d’informazione. Dalle due commissioni, oltre alla prevedibile luce verde al provvedimento, sono arrivate anche altre indicazioni. Già nella sua attuale formulazione la norma Costa modifica l’articolo 114 del codice di procedura penale, cancellando l’esclusione - introdotta da Andrea Orlando nel 2017 - dell’ordinanza di misura cautelare dagli atti che è vietato pubblicare. L’articolo 684 del codice penale prevede multe da 51 a 258 euro. È proprio per conferire “effettività al divieto” che le due commissioni, nei due pareri pressoché identici approvati il 15 ottobre al Senato e il 16 ottobre alla Camera, chiedono al governo due cose: aumentare i documenti non pubblicabili e aumentare le sanzioni. Sul primo punto le due commissioni, nei due pareri approvati dal centrodestra e Italia Viva presentati dai meloniani Sergio Rastrelli e Andrea Pellicini, invitano l’esecutivo a estendere il divieto di pubblicazione “a tutte le misure cautelari personali” o ad altri provvedimenti che “possono essere emessi nel procedimento cautelare”. Si parla cioè di tutti gli atti che intervengono nelle fasi che precedono un processo: decreti di sequestro o perquisizione, le ordinanze del Riesame contro la custodia cautelare, ma anche provvedimenti come il divieto di espatrio o l’obbligo di dimora, la sospensione dall’esercizio di un ufficio pubblico, eccetera. Tutti quei provvedimenti, si legge nei pareri, che, se pubblicati, “producono analoghi effetti sovrapponibili a quelli della sola ordinanza di custodia cautelare”. Ma il versante più problematico è il secondo. “Ferma restando l’esclusione di sanzioni detentive”, l’obiettivo - si legge nelle osservazioni delle commissioni - deve essere quello di “conferire effettività al divieto e costituire un ragionevole argine alla sistematica violazione del medesimo, (…) alla luce della sperimentata ineffettività dell’attuale sanzione”. In che modo? Aumentando le multe, ma non solo. Perché - ed è questa la vera novità - le commissioni di Camera e Senato chiedono al governo di estendere l’elenco delle persone sanzionabili anche ad “altri profili” oltre ai giornalisti e ai direttori. Facendo ricorso, per esempio, al decreto legislativo 231 del 2001 sulla responsabilità amministrative delle persone giuridiche e delle società. In pratica si finirebbe per applicare la norma anche agli editori secondo un complicato sistema di “quote” determinate in base al peso economico delle aziende. Multe che, in questo modo, potrebbero schizzare in su, da un minimo di 25mila a un massimo di mezzo milione di euro (ma in alcune circostanze la cifra può salire ancora). Con il rischio indiretto ma concreto che gli editori possano fare pressioni sui giornalisti che, ogni giorno, si trovano a maneggiare carte e interrogarsi - questo il loro mestiere - sul potenziale interesse pubblico di un fatto. Se il padrino di questa stretta, Enrico Costa, continua a ripetere che non c’è nessun bavaglio e che le sue proposte mirano solamente a “correggere un’anomalia”, le voci critiche si sono alzate anche in occasione di questo possibile ulteriore irrigidimento. “Dietro la presunzione di non colpevolezza il governo si appresta a peggiorare ulteriormente la norma Costa, estendendo il divieto a tutti gli atti cautelari, compresi i sequestri disposti dal Gip - denuncia Alessandra Costante dell’Fnsi -. Ai giornalisti, come ormai ci ha abituato il governo, la manganellata di sanzioni economiche. E questa volta il manganello sanzionatorio dovrebbe toccare anche gli editori perché per una certa politica le notizie non rientrano nel diritto all’informazione stabilito dall’articolo 21 della Costituzione, ma sono solo un modo per vendere i giornali”. Anche le opposizioni, al netto di Azione e Italia Viva, contestano il provvedimento e le nuove previsioni. Ilaria Cucchi, senatrice di Avs e componente della commissione Giustizia del Senato, ha presentato un parere alternativo a quello della maggioranza. Nelle sue osservazioni Cucchi mette in risalto alcune contraddizioni (la richiesta di custodia cautelare avanzata dal pm, che contiene elementi che confluiscono nell’ordinanza del gip, continuerà a essere pubblicabile) e un rischio di “eterogenesi dei fini” nella misura in cui la sintesi giornalistica può finire per “essere maggiormente pregiudizievole per l’immagine dell’indagato” rispetto alla “motivazione del giudice”. Il parere (poi bocciato) è lapidario: il divieto di pubblicazione “non ha nulla a che vedere con il rafforzamento del principio di presunzione di non colpevolezza, ma è fortemente limitativo del diritto di informare e di essere informati”. Ma la maggioranza di centrodestra, con l’aiuto dei partitini centristi, tira dritto nella sua guerra contro la cronaca giudiziaria (e non solo). Resa dei conti in Antimafia: addio alla dittatura dei pm di Errico Novi Il Dubbio, 17 ottobre 2024 Sull’incompatibilità degli ex magistrati de Raho e Scarpinato con le indagini parlamentari che li riguardano, la presidente della Bicamerale, Colosimo, conduce una battaglia decisiva per l’equilibrio fra politica e toghe. La materia è delicata. Si tratta innanzitutto delle verità mai abbastanza esplorate sugli orrori del 1992. Su Capaci, via D’Amelio e sul peso che, soprattutto in relazione alla strage in cui fu ucciso Paolo Borsellino, rivestì l’indagine “Mafia-appalti”, cara a entrambi i magistrati-eroi. Su quel versante costellato da snodi complicatissimi, il senatore M5S Roberto Scarpinato, già procuratore generale di Palermo e prima ancora pm antimafia nel capoluogo siciliano, è “parte in causa”: ha vissuto i giorni che precedettero l’eccidio del 19 luglio 1992 come titolare del fascicolo, che illuminava gli intrecci fra Cosa nostra e imprese del Nord. Su questo squarcio di storia - quasi sempre relegato all’invisibilità carsica, con la sola infaticabile eccezione degli articoli firmati su queste pagine da Damiano Aliprandi - la commissione parlamentare Antimafia ha deciso di accendere finalmente un faro. Ha dato voce, nelle audizioni, ai soli interlocutori davvero interessati a valorizzare “Mafia-appalti” come chiave per spiegare via D’Amelio: i figli di Paolo Borsellino, Fiammetta, Manfredi e Lucia, e il marito di quest’ultima, Fabio Trizzino, avvocato che difende da anni la famiglia del magistrato assassinato. Le visioni dei Borsellino e di Trizzino non coincidono, anzi contrastano con la ricostruzione che Scarpinato propone sul dossier “Mafia-appalti”. A Palazzo San Macuto, sede della commissione Antimafia, c’è uno scontro aperto. In un quadro simile, considerate le funzioni che Scarpinato rivestiva nel ‘92, già sussisterebbe un problema di conflitto d’interessi. Il problema si è ingigantito dopo che, la settimana scorsa, il quotidiano La Verità ha riferito di un’intercettazione in cui l’ex magistrato Gioacchino Natoli, indagato a Caltanissetta per favoreggiamento della mafia in relazione ai fatti del ‘92, nel prepararsi a deporre dinanzi alla Bicamerale sembrerebbe farsi “assistere” proprio da Scarpinato, che pure, nell’indagine conoscitiva di Palazzo San Macuto, dovrebbe essere “giudice”. Vicenda ormai nota. Ne sono derivate due conseguenze. La prima è la richiesta, avanzata martedì da Scarpinato, di secretare il materiale e rinviarlo a Caltanissetta in attesa dell’udienza-stralcio, che potrebbe escludere parte di quelle “captazioni” dal procedimento su Natoli. La seconda conseguenza è la proposta, avanzata dalla deputata di FdI Chiara Colosimo, che della commissione Antimafia è presidente, di modificare la legge istitutiva della Bicamerale in modo che in casi simili il parlamentare in “conflitto d’interessi” sia obbligato ad astenersi. Analogo effetto, una modifica simile, provocherebbe su un altro fronte che vede impegnata la commissione: l’indagine sui dossieraggi alla Procura nazionale Antimafia. In questo caso è l’ex pm e oggi deputato Federico Cafiero de Raho, eletto anche lui coi 5S, che si troverebbe nella condizione di doversi astenere: guidava la Superprocura all’epoca in cui sarebbero iniziati gli accessi abusivi al database dell’Ufficio. Scarpinato e de Raho si oppongono alla loro estromissione dai due filoni più rilevanti, per l’attuale commissione Antimafia. Ma, in un mondo normale, l’esito sarebbe scritto. Eppure non solo il Movimento 5 Stelle, che ha voluto in Parlamento (e nella Bicamerale) i due ex magistrati, ma anche il Pd, e in particolare Walter Verini, capogruppo dem a Palazzo San Macuto, hanno continuato a contestare l’iniziativa di Colosimo. Secondo i pentastellati, la maggioranza vuole semplicemente “fare fuori dall’Antimafia due campioni della materia come de Raho e Scarpinato”. Verini sostiene che, col “lodo” Colosimo, si impedirebbe “a un parlamentare di esercitare il proprio mandato, in base a decisioni e inaccettabili logiche di maggioranza”. Ora, la commissione Antimafia pretende, per “statuto”, a ogni tornata elettorale, di bollare come impresentabili i candidati gravati anche da un semplice rinvio a giudizio. Un organismo del genere, o anche la sua componente di minoranza, come può pretendere che chi è, più o meno indirettamente, oggetto di un’indagine conoscitiva della commissione, resti pure “inquirente” per quel dossier? È impensabile. Ed è solo lo status di magistrati rivestito in passato da Scarpinato e de Raho, a poter alterare il senso comune. A spingere il Pd nella temeraria difesa delle prerogative del deputato e del senatore pentastellati. C’è anche da dire che fonti della commissione Antimafia già un anno fa riferivano del “peso” che Scarpinato e de Raho mostravano di poter far valere nella Bicamerale. Era chiara a molti l’influenza che i due ex pm avrebbero esercitato in determinate scelte, nell’indirizzo impresso al nuovo corso di Palazzo San Macuto. Adesso Colosimo, con la proposta sull’incompatibilità “per singolo dossier”, rovescia quello schema, orientato verso la visione di cui, non solo nel campo dell’antimafia, de Raho e Scarpinato sono portatori. Una rivoluzione. Di più: un atto di ribellione rispetto al condizionamento che da decenni tutti i parlamentari-ex magistrati hanno avuto l’ambizione di esercitare in determinati campi nelle due Camere. Una svolta. Ecco perché lo scontro su de Raho e Scarpinato, sulla possibile incompatibilità del primo col caso dossieraggi e del secondo con l’indagine parlamentare su via D’Amelio, va ben oltre i contenuti dei due dossier. Riguarda il rapporto fra politica e toghe. L’autonomia del Parlamento dalle visioni della magistratura. È una resa dei conti che ha il proprio epicentro a Palazzo San Macuto. Ma che evidentemente riguarda il sistema dei poteri in senso più generale. E non si può fare a meno di riconoscere il coraggio che Colosimo mostra di avere nell’infrangere i dogmi da cui quel sistema è stato finora, e da molti anni, imprigionato. Il concorso nei reati dello stesso disegno criminoso è attribuibile anche per indizi di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2024 La partecipazione alla commissione di delitti da cui prevedibilmente possano derivarne altri fa scattare il dolo eventuale sufficiente alla sussistenza di una condotta concorsuale nel reato. Il concorso nella commissione di un reato può essere affermato dal giudice anche in base a elementi di natura indiziaria. E il ruolo di coautori del reato non necessita dell’attribuzione di ogni singola frazione di condotta all’uno o all’altro soggetto, quando dall’ideazione comune iniziale si giunge alle conseguenze anche impreviste dell’azione criminosa. Non è di fatto necessaria l’adesione “esplcita” di ciascuno alla singola azione perpetrata dall’altro e da cui non ci si dissocia fattivamente. Il concorso - che si ricorda può essere anche solo morale attraverso l’istigazione o il rafforzamento di compiere il reato - si fonda sull’agevolazione o sulla messa in atto di comportamenti che rendono possibile il compimento del reato stesso. Nel caso specifico - risolto dalla Cassazione penale con la sentenza n. 37855/2024 - i due concorrenti nella rapina, nell’omicidio della vittima e nell’incendio dell’appartamento di quest’ultima contestavano la mancata attribuzione individuale, da parte del giudice di merito, delle singole azioni a ciascuno dei due coautori dei reati perpetrati. I ricorrenti sostenevano, in sintesi, che la sentenza fosse irrimediabilmente viziata, proprio per non aver appunto dimostrato il singolo apporto alla realizzazione dei diversi crimini imputati a entrambi. Quindi, nel caso concreto, praticamente i due coimputati - nel tentativo di attribuire l’uno all’altro la maggior responsabilità penale - ritenevano che la responsabiltà penale non fosse di fatto stata accertata stante la sua natura strettamente personale. Ma al centro della decisione - ritenuta legittima con il rigetto del ricorso - la Cassazione ha affermato che vi sia stata corretta applicazione delle norme che regolano la fattispecie penale del concorso e che la sua sussistenza sia stata pienamente accertata per entrambi gli imputati e in ordine a tutti e tre i reati loro ascritti. Nel caso si trattava di due rapinatori che una volta entrati in casa della vittima l’avevano colpita al fine di compiere la rapina e l’avevano poi uccisa appiccando l’incendio alla sua abitazione. Il giudice di merito di fatto affermava esplicitamente che non fosse necessario addivenire a una specifica distinzione di quanto compiuto da uno o dall’altro dei rapinatori, per dichiararli entrambi concorrenti in tutti i reati commessi su quella scena. Ciò perchè era stata pienamente appurata la loro compresenza a tutte le condotte realizzate contro la vittima senza che emergesse l’autonoma e imprevedibile determinazione di uno solo dei due o l’opposizione di uno di loro all’escalation che si era verificata. Spiega la Cassazione, che per l’attribuzione del concorso è sufficiente anche il dolo eventuale di colui che partecipa al delitto e ben può rappresentarsi le conseguenze anche estemporanee derivanti dal disegno criminale realizzato e a cui ha aderito originariamente senza aver compiuto azioni positive per evitare la commissione del più grave reato conseguenza di quello inizialmente progettato. Mantova. Il carcere è sovraffollato: in media 150 detenuti su una capienza di 106 mantovauno.it, 17 ottobre 2024 “Su una capienza regolamentare di 106 detenuti, presso la Casa Circondariale di Mantova ne contiamo in media 150. A questo dato aggiungiamo la carenza di personale di polizia penitenziaria, una condizione che non agevola il lavoro, che viene svolto in condizioni gravose”. A dirlo è Stefania Ianulardo, funzionario giuridico pedagogico del carcere di via Poma, in occasione del convegno a Palazzo Soardi in cui vengono presentati i dati di associazione Antigone sulle condizioni della detenzione nelle carceri italiane con uno sguardo alla realtà mantovana. Uno sguardo introdotto da Marina Baguzzi, presidente del Centro Solidarietà Carcere, che allinea il carcere di via Poma alla media nazionale. Una media che nelle parole della referente dell’associazione Antigone Valeria Verdolini assume connotati terrificanti: “la Lombardia è insieme alla Puglia la regione più sovraffollata nelle carceri con tassi tra il 150% e il 200%. In parallelo, le case circondariali italiane sono sempre più affollate (61.800 le persone attualmente incarcerate) per tutta una serie di motivi, tra i quali l’aumento della durata delle pene, che corrisponde a una risposta politica a forme di allarme sociale, i problemi sociali in aumento senza che il penale riesca a fornire soluzioni, l’aumento significativo di persone tossicodipendenti, l’affidamento al carcere della gestione della salute mentale con l’ingresso di persone con problematiche psichiatriche di varia natura”. Che il carcere non sia spesso un luogo di redenzione, né un luogo sicuro o in grado di fornire prospettive edificanti lo dicono le 75 morti avvenute da inizio anno, cui si aggiungono i 7 suicidi di operatori che vi lavorano all’interno. Una chiave possono essere le misure alternative alla detenzione, e in tal senso a Mantova sono 16 i detenuti che escono dal carcere ogni giorno per andare a lavorare. “Come amministrazione comunale puntiamo molto sul far conoscere la giustizia riparativa - afferma l’assessore Alessandra Riccadonna - anche perché sono molti i reati per i quali si può accedere a questa forma, ma spesso i detenuti che ne avrebbero diritto restano in carcere perché non hanno un lavoro o una dimora fissa”. Sulla possibilità di uscire dal carcere per lavorare e sulle difficoltà che si incontrano aveva lanciato un appello nei giorni scorsi anche la direttrice Metella Romana Pasquini Peruzzi, e a nome suo Stefania Ianulardo sottolinea che “abbiamo proficui rapporti di collaborazione con le cooperative del territorio, sono molte le realtà che collaborano con il carcere. Ma siamo sempre in cerca di nuove realtà datoriali oltre a quelle che lavorano con noi”. Se da un lato il Comune di Mantova continua a promuovere iniziative che ospitano approfondimenti sul tema del carcere, della detenzione e di tutto ciò che vi gira attorno, compresa una nuova attività in collaborazione con Bibliofficina per portare la lettura (anche in gruppo) dentro le mura di via Poma, dall’altro Riccadonna esprime preoccupazione perché “la situazione andrà peggiorando con l’aumento delle forme di reato che sono state indette con il nuovo Ddl Sicurezza, che aumenta il numero di reati che prevedono la detenzione, con un ulteriore affollamento dei carceri e un peggioramento delle condizioni di vita dei detenuti”. Un altro problema della casa circondariale mantovana è quello della sua vetustà strutturale, essendo ospitato in un edificio di inizio Novecento con tutte le criticità del caso. Ma le ristrutturazioni proseguono “e si sta lavorando molto - dice Ianulardo - per risanare una serie di ambienti, in particolare le camere detentive, con la sostituzione dei servizi igienici. Più in generale, insieme ad associazioni e volontari svolgiamo molte attività diversificate per compensare alle carenze della struttura”. Torino. Una casa e un lavoro: Salim e gli altri sono rinati in Piazza dei Mestieri di Simona De Ciero Corriere della Sera, 17 ottobre 2024 Il ventennale della Fondazione. Centomila giovani accolti e formati: il riconoscimento del presidente Mattarella. “Qui scoprono di avere identità e unicità”. Ha solo 20 anni ma la vita gli ha già imposto prove durissime: la perdita di casa e famiglia; l’esperienza, da minorenne, del carcere pur senza aver commesso alcun reato; un fratellino morto in mare. Salim è un giovane uomo nato in Gambia e vissuto serenamente in Libia, con mamma papà e due fratelli, fino allo scoppio della guerra civile, nel 2011, quando le loro vite cambiano radicalmente e il destino di questa famiglia “normale” viene stravolto per sempre. I genitori vengono arrestati (e di lì a breve uccisi), Salim è imprigionato, i suoi fratelli riescono a scappare ma il più piccolo, e Salim lo scopre da un video del telegiornale, muore in mare durante un naufragio del barcone sul quale si era imbarcato. Nonostante lo strazio, Salim capisce che la sua vita non può finire tra le mura di un minorile libanese e, grazie a una piccola somma di denaro offertagli da un professore, e una via di fuga ben organizzata, riesce a partire alla volta dell’Italia. E ce la fa. Arriva a Lampedusa dove in pochi giorni viene trasferito in una comunità per minorenni di Settimo Torinese. Ha solo 16 anni, ma ha le idee molto chiare e crede che, a salvarlo, possa essere solo lo studio. Così chiede di frequentare una scuola. E approda a Piazza dei Mestieri, la Fondazione nata a Torino (con sedi anche a Catania e Milano) per sostenere i giovani e aiutarli a scoprire i loro talenti affiancandoli nella delicata fase che li porta dall’adolescenza alla vita adulta. Qui Salim trova una seconda famiglia, impara l’italiano e diventa un bravo panettiere. Perché la Piazza è un luogo che sa di casa, dove i ragazzi “riscoprono il valore della loro identità e unicità” spiega Cristiana Poggio, vicepresidente e cofondatrice della realtà che pochi giorni fa ha spento 20 candeline e festeggiato il prezioso compleanno con una settimana di eventi nella sede storica torinese. “In vent’anni - prosegue Poggio - abbiamo accolto circa 100 mila giovani riuscendo a inserire direttamente nel mondo del lavoro il 75% di loro. Piazza dei Mestieri, infatti, non si rivolge solo a ragazzi dal passato drammatico come Salim ma, più in generale, è destinata a tutti gli adolescenti che rischiano di cadere in zone buie, scivolare verso forme di esclusione sociale, abbandonare la scuola”. Sempre di più, infatti, nonostante la giovane età e una vita intera da vivere, gli adolescenti dicono di sentirsi rassegnati, ansiosi. E soli, soprattutto. “Parlo spesso con i nostri studenti e quello che mi colpisce di più - sottolinea la vicepresidente della Fondazione - è che abbiano la sensazione di essere l’ultima generazione perché il mondo esploderà presto, soffocato dal cambiamento climatico, dalle guerre e dall’indifferenza”. E sono tanti i ragazzi che, ogni anno, si affidano alle Piazze dei Mestieri d’Italia per scrivere le pagine del loro destino. Solo nel 2023, per esempio, i 436 docenti della scuola hanno erogato oltre 102 mila ore di formazione (su 124 corsi) destinate a più di 3.100 studenti che hanno potuto accedere ai percorsi di formazione anche grazie a 234 borse di studio e poco meno di 2 mila azioni di accompagnamento al lavoro. Per questo, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha partecipato alla festa del ventennale inviando una lettera nella quale ha ringraziato la Fondazione per il servizio offerto e ha ribadito come il lavoro costituisca “un cardine del patto di cittadinanza su cui si fonda la nostra Costituzione” e contribuisca alla “realizzazione personale e partecipazione al destino comune della Repubblica”. Palermo. Detenuto si laurea in Architettura al Pagliarelli con 110 e lode La Sicilia, 17 ottobre 2024 È la prima laurea, nel carcere palermitano, dopo l’accordo quadro firmato il 25 febbraio 2021, dal rettore Massimo Midiri e l’emerito professore Giovanni Fiandaca. “Oggi alla casa circondariale Antonio Lorusso di “Pagliarelli” si è laureato in architettura con la tesi sulla “Greentrification” (rinnovamento urbano) un giovane ingegnere detenuto in attesa di essere giudicato. È la prima laurea al Pagliarelli dopo l’accordo quadro firmato il 25 febbraio 2021, dal rettore di Palermo, Massimo Midiri e l’emerito professore Giovanni Fiandaca, allora garante regionale per i diritti dei detenuti della Sicilia, per l’istituzione del polo universitario penitenziario. Alla proclamazione hanno assistito la moglie i figli e alcuni familiari emozionatissimi”. Lo dice Pino Apprendi garante comunale dei detenuti. “Un sentito ringraziamento va ai professori che hanno accompagnato lo studente in questa stupenda storia e a tutto il personale dell’amministrazione penitenziaria che ha collaborato per arrivare all’obiettivo finale - aggiunge - Pino Apprendi - erano presenti il presidente della magistratura di sorveglianza Nicola Mazzamuto e il vicario Simone Alecci, oltre al garante regionale dei detenuti Santi Consolo e il componente dell’ufficio del garante nazionale Mario Serio. Il voto è stato un meritatissimo 110 e lode”. Il neo laureato ha detto: “Grazie allo studio non mi sono mai sentito annientato tra queste mura e sono riuscito a ritrovare la mia identità. Oggi, ai miei figli, porto un esempio positivo e posso impartire un’importante lezione: lo studio è fondamentale per costruire il proprio futuro, realizzare i propri sogni ed essere liberi”. Lo studente detenuto è stato proclamato dottore in “Urbanistica e Scienze della città”, corso di laurea triennale del dipartimento di Architettura. La cerimonia si è svolta davanti alla famiglia dello studente e ai rappresentati del mondo accademico, giudiziario e penitenziario. La tesi di laurea dal titolo: “Gentrification: l’evoluzione del fenomeno. I casi studio: Palermo e Milano” è stata discussa davanti alla commissione composta da Filippo Schilleci (presidente) Chiara Giubilaro (relatrice) e Annalisa Giampino. Alla discussione erano presenti anche il prorettore alla Didattica e all’Internazionalizzazione Fabio Mazzola e la prorettrice all’Inclusione alle Pari opportunità e alle Politiche di genere Beatrice Pasciuta di Unipa.”Esprimo profonda gratitudine e soddisfazione - ha sottolineato Enrico Napoli, prorettore vicario dell’Università degli Studi di Palermo - per questo importante risultato. Oggi è una giornata altamente simbolica perché permette di esprimere, nel migliore modo possibile il ruolo positivo che l’istituzione universitaria svolge all’interno della società attraverso la diffusione della cultura e il trasferimento della conoscenza”. “È il risultato - ha spiegato la direttrice del Pagliarelli, Maria Luisa Malato - di uno sforzo notevole che ha coinvolto due mondi, quello penitenziario e quello accademico, spesso distanti e caratterizzati da procedure difficili da conciliare. Oggi gioiamo perché dimostriamo che la collaborazione tra istituzioni non solo è possibile, ma necessaria per abbattere muri e steccati”. I Poli penitenziari universitari in Sicilia sono stati avviati a partire da marzo 2021 e, grazie al recente rinnovo dell’accordo quadro con la Regione Siciliana le attività di Unipa continueranno anche per il triennio 2024-2027, assieme agli atenei di Catania, Messina e al coinvolgimento del Garante regionale dei diritti dei detenuti della Regione Siciliana, al Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Sicilia e all’Assessorato regionale dell’Istruzione e della Formazione professionale. Il Polo universitario penitenziario di Unipa ha registrato una cinquantina di iscrizioni, tra immatricolazioni e passaggi ad anni successivi al primo; tra la casa circondariale Antonio Lorusso “Pagliarelli” e la casa di reclusione Calogero di Bona “Ucciardone”. Nove i dipartimenti coinvolti assieme a una squadra di orientatori, tutor senior e studenti tutor coordinati dall’Area didattica e Servizi agli studenti con il supporto del Centro orientamento e Tutorato. Napoli. Calcio, padel e pallavolo: una cittadella dello sport nel carcere di Secondigliano di Pasquale Tina La Repubblica, 17 ottobre 2024 Dentro al penitenziario è già stato inaugurato un campo per il basket. Per completare il polo servono 400 mila euro. La più grande cittadella dello sport all’interno di un istituto penitenziario. È la missione delle associazioni Seconda Chance e Sport Senza Fontiere, supportate dalla Fondazione Entain. Il progetto “Rigiocare il Futuro, lo sport per ripartire” ha l’obiettivo di creare nel Centro Penitenziario Pasquale Mandato di Secondigliano - area di 40 ettari che ospita 1300 detenuti per lo più classificati Alta Sicurezza - una struttura di alto livello dedicata allo sport. L’idea è venuta a Flavia Filippi, giornalista di La 7, fondatrice di Seconda Chance, l’associazione no profit che fa da ponte tra carceri e imprese allo scopo di procurare ai detenuti opportunità di formazione e di lavoro, ma anche occasioni di benessere psicofisico, di svago e di cultura: “A marzo - spiega proprio la Filippi - abbiamo inaugurato all’istituto penitenziario di Secondigliano un campo di basket che ci ha donato la Federbasket nella per-sona del presidente Gianni Pe-trucci. In quei giorni, mi sono resa conto di come le aree circostanti al nuovo parquet fossero abbandonate e ho pensato di donare un’altra struttura. Mi sono rivolta alla Fondazione Entain che, dopo un sopralluogo coni suoi architetti, ha pensato alla costruzione di un vero e proprio polo dedicato a varie discipline”. Sarà ristrutturato il campo di calcio e in un’area non agibile saranno realizzati due campi da padel che potranno essere utilizzati pure per la pallavolo: “Ma non ci limiteremo soltanto a questo -aggiunge Giuliano Guinci di Entain - ci saranno dei corsi della durata di 24 mesi che potrebbero rappresentare pure un’occasione di lavoro. I detenuti avranno l’occasione di diventare arbitri, ma anche istruttori di padel o pallavolo con degli attestati riconosciuti”. Gli interventi costeranno com-plessivamente 400mila euro: Fondazione Entain e Ita Airways sono tra i primi sostenitori del progetto. Se ne cercano altri per completare il budget e presto ci saranno altre adesioni. L’obiettivo è partire entro dicembre: “Lo faremo soltanto - continua Guinci - quando avremo raggiunto la cifra prefissata. Le ditte sono state già allertate e i contratti sono pronti. Abbiamo lanciato un crowdfunding per coinvolgere quante più realtà possibili”. L’obiettivo è allargare la platea di investitori: “Faccio appello - spiega Flavia Filippi - agli imprenditori napoletani. Abbiamo bisogno pure di loro per realizzare questo obiettivo molto prestigioso. Aiutateci a costruire la più grande cittadella dello sport all’interno di un istituto penitenziario, ma se potete venite ad incontrare pure i detenuti per selezionare personale e magari regalare una nuova opportunità a chi ha sbagliato. Per questo motivo ho fondato Seconda Chance. Siamo impegnati in tutta Italia. A Napoli abbiamo trovato lavoro ad alcuni detenuti alla Stazione Zoologica Dohrn e al centro direzionale. Vorremmo portare pure la scherma a Poggio-reale e a giorni attendiamo la risposta per iniziare”. Premio letterario Carlo Castelli. Le testimonianze Ristretti Orizzonti, 17 ottobre 2024 Il tempo si è fermato per un po’ nella Casa Circondariale di Montorio, a Verona, durante la cerimonia di premiazione del concorso letterario Carlo Castelli. Il silenzio ha accompagnato il profondo rispetto dei presenti verso chi ha messo da parte la vergogna e con dignità ha deciso di soffermarsi su come la vita, tra le mura del carcere, riesca a sopravvivere, a ritrovare un pizzico di gioia e a mantenere salda la speranza di un domani migliore nonostante non arresti il dolore della colpa. Tre i ristretti che hanno voluto rilasciare le loro testimonianze restituendo ai presenti la possibilità di entrare, anche solo per pochi minuti, in un mondo di dolore, di sofferenza, di privazione, ma anche di timore quando raccontano i momenti vissuti dopo la concessione del primo permesso, “Ho attraversato più di 10 cancelli o porte, li ho contati. Il mio cuore batteva a mille e avevo un po’ di paura…”, ha affermato Ndrec Laska. Il mondo fuori spaventa e a stento si riesce a guardarlo: “Attraverso l’ultima porta, salgo in macchina e passo più della metà della strada con la testa bassa, poi ho cominciato a vedere…”. Si temono le reazioni, ritornano alla mente le sofferenze arrecate, anche ai propri cari, e prevale un forte senso di angoscia che piano piano lascia nuovamente spazio alla speranza di una vita nuova. Una vita che ritrova l’opportunità e la possibilità di essere nuovamente vita tra gli spazi ristretti di un luogo da cui bisogna necessariamente trarre forza per non essere risucchiati dal lento scandire di giornate che sembrano tutte uguali. Si rischierebbe di impazzire: “Ho pensato che se mi lasciavo trascinare, senza fare niente, il tempo non sarebbe passato mai, sarei impazzito!”, ha dichiarato Gianantonio Farinelli. Cresce così il bisogno e la consapevolezza di trarre beneficio da un nuovo vissuto segnato dalla condizione di privazione della libertà. Sostenuti instancabilmente dal personale preposto, dai volontari, inseriti in attività rieducative mirate, le persone in stato di detenzione iniziano lentamente a ritrovare se stessi, a riavvicinarsi alla propria coscienza, a mettersi alla prova, a scoprire nuovi talenti e a rispolverare quelli di un tempo: “Ho avuto l’opportunità in questo Istituto di riprendere in mano una chitarra. Quando suono e canto le mie canzoni non mi sento in carcere e condivido il mio universo di emozioni. La musica mi ha sempre salvato nella vita”, continua Gianantonio che, al termine del suo discorso, si è potuto esibire suonando i brani composti negli anni di reclusione. In carcere, anche le cose più semplici diventano un mezzo e un modo possibile da cui ripartire, ricominciare a camminare e a guardare la vita con speranza: “Un domani ci sarà un qualcosa di buono”, ha detto Alberto Brianti che nella sua testimonianza ha raccontato come anche la visione di un film, dietro le sbarre, ha acquisito maggiore valore e lo ha aiutato a comprendere che si possa vivere “Una vita senza eccessi riuscendo a nutrirsi delle cose più normali - sono le cose normali che ti regalano la felicità - cosa che io spesso ho dimenticato per colpa della mia vita poco regolare… Solo quando guardi fuori, attraverso le sbarre, ti rendi conto di tutto quello che ti manca davvero…”. A chiusura della due giorni del Premio Carlo Castelli, nel Teatro Nuovo di San Michele, il racconto di Giovanni ha catturato l’attenzione dei presenti. Vincitore del premio Carlo Castelli nel 2009, con il racconto “La storia di Frank”, Giovanni ha raccontato come sia riuscito a riavere pace e a parlare al mondo delle scuole raccomandando ai ragazzi di non delinquere. Il Premio Carlo Castelli è un evento organizzato e promosso dal Settore Carcere e Devianza della Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV, con il patrocinio di Camera, Senato, Ministero della Giustizia e con il riconoscimento della medaglia del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. L’appuntamento coinvolge detenuti provenienti da penitenziari di tutta Italia, offrendo loro un’opportunità unica di esprimersi attraverso la scrittura. Ogni anno, un carcere o un Istituto Penitenziario Minorile (IPM) viene scelto come sede della cerimonia, durante la quale vengono letti e premiati i racconti selezionati da un’apposita giuria. Il tema di quest’anno, intitolato “Perché? - Ti scrivo perché ho scoperto che c’è ancora un domani” ha invitato a riflettere sul valore della speranza e sul riscatto possibile. “La speranza è un bene prezioso, una luce che accompagna e sostiene, soprattutto nei momenti più difficili”, afferma Paola Da Ros, Presidente Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli. “E in questo luogo, dove la libertà è limitata, il nostro desiderio è che nessuno perda mai questa luce” e aggiunge: “Il Premio Carlo Castelli non si limita a offrire uno spazio di riflessione e espressione per i detenuti, ma prosegue nel tempo, grazie ai progetti di reinserimento sociale sviluppati in collaborazione con le istituzioni. Con il contributo in denaro che eroghiamo per ciascuno dei tre premi oltre alla somma che spetta al vincitore, ogni anno realizziamo tre progetti. Il primo premio di questa edizione finanzierà un importante progetto di reinserimento nel mondo del lavoro per i ristretti del carcere di Brescia che hanno finito di scontare la loro pena; il secondo aiuterà i giovani dell’Istituto per Minori di Catania, il terzo premio andrà a favore delle attività dell’Ufficio Distrettuale di Esecuzione Penale Esterna di Pisa”, dichiara la Presidente Paola Da Ros. Sicurezza, avanza lo Stato di polizia di Marco Boato iltquotidiano.it, 17 ottobre 2024 Dalle proteste colpite al regime carcerario: tutte le obiezioni al ddl. Il 18 settembre alla Camera dei deputati la maggioranza di destra del governo Meloni ha approvato il disegno di legge sulla sicurezza, che ora è passato all’esame del Senato della Repubblica, dove è stato preceduto già da una forte manifestazione di protesta da parte di forze sindacali e politiche e da molti esponenti della società civile. Si tratta di un gravissimo provvedimento legislativo, che si colloca ma ancor più aggrava sulla linea dei “decreti sicurezza” del l’allora ministro dell’interno Salvini e poi dei decreti “rave”, “Cutro” e “Caivano” dell’attuale governo. Non solo i partiti politici di opposizione e i principali sindacati, l’Arci, l’Anpi e la Caritas, ma anche molti osservatori giornalistici (tra questi Roberto Saviano, il quotidiano cattolico “Avvenire” ed altri), giuristi e magistrati (in particolare Magistratura Democratica, ma non solo) hanno gettato l’allarme su misure finalizzate quasi esclusivamente alla repressione del dissenso, dei movimenti di contestazione in specie ambientalisti ed ecologisti, anche delle manifestazioni improntate alla nonviolenza e alla resistenza passiva, anche nelle carceri e nei Cpr, al punto che alcune delle norme sono state emblematicamente stigmatizzate come “anti-Gandhi”. Modello di “cattivismo” Il portavoce italiano di Amnesty International, Riccardo Noury, ha definito questo provvedimento “un modello di ‘cattivismo’ che intacca profondamente, tra gli altri, il diritto di protesta pacifica inasprendo criminalizzazioni o introducendone di nuove”. In generale, ha osservato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, “il ddl sicurezza contiene un attacco al diritto di protesta come mai accaduto nella storia repubblicana, portando all’introduzione di una serie di nuovi reati con pene draconiane, anche laddove le proteste siano pacifiche”. Secondo Gonnella, “così si colpiranno persone detenute che in carcere protestano contro il sovraffollamento delle proprie celle, gli attivisti che protestano per sensibilizzare sul cambiamento climatico, gli studenti che chiederanno condizioni più dignitose per i propri istituti scolastici, lavoratori che protestano contro il proprio licenziamento”. Inoltre, secondo il presidente di Antigone, “se consideriamo anche il carcere per le donne incinte e le madri con figli neonati o per chi occupa un’abitazione, si vede come il governo abbia deciso di voler gestire numerose questioni sociali nella maniera più illiberale possibile, cioè reprimendole con l’utilizzo del sistema penale, anziché aprirsi al dialogo e all’ascolto”. “Resistenza passiva” colpita Secondo i sindacalisti della Cgil, la parte più inquietante del disegno di legge è quella che contiene le sanzioni sulla cosiddetta “resistenza passiva”: “Una vergogna che introduce norme pensate e volute per colpire in maniera indiscriminata chi esprime il proprio dissenso verso le scelte compiute dal governo o che manifesta per difendere il posto di lavoro e contro le crisi occupazionali, pacificamente ma in modo determinato, prevedendo fino a due anni di carcere per chi effettua queste proteste nelle strade o in altri luoghi pubblici”. La canapa e la droga Un emendamento del governo ha equiparato inoltre le infiorescenze della canapa industriale alla droga, imponendo il divieto di importazione, vendita e distribuzione. Questa norma ha incontrato forti critiche dagli operatori del settore, preoccupati per le grandi ripercussioni economiche e occupazionali. Le norme sulle prigioni Per quanto riguarda le norme sull’ordina - mento penitenziario, secondo la presidente del Tribunale di sorveglianza di Cagliari, Maria Cristina Ornano, si rischia “di alimentare la tensione già oggi molto forte nella popolazione detenuta”, per via di nuovi reati come quello di “rivolta all’in - terno degli istituti penitenziari”, che punisce chi promuove, organizza e dirige una rivolta all’interno del carcere, ma comprende “nella condotta di reato non solo il partecipare alla rivolta col ricorso alla violenza, ma anche con la resistenza, precisando ulteriormente che quest’ultima è integrata anche dalla mera resistenza passiva; previsione, quest’ultima, che appare di dubbia legittimità costituzionale”. L’autorità in primo piano Secondo Magistratura democratica, “colpisce la tendenza a introdurre nuove incriminazioni e a introdurre inasprimenti sanzionatori. E preoccupa, in secondo luogo, la costruzione di nuove fattispecie penali (o l’introduzione di aggravanti) che perseguono l’obiettivo di sanzionare in modo deteriore gli autori di reato che hanno commesso fatti nel corso di manifestazioni pubbliche o di iniziative di protesta”. In generale, argomentano i magistrati di Md, nel testo è contenuta “una ‘vi ione’ dei rapporti tra autorità e consociati fortemente orientata al versante dell’autorità, che coltiva l’ambizione di risolvere-con l’inasprimento di pene, l’introduzione di nuovi reati, l’ampliamento dei poteri degli apparati di pubblica sicurezza -problemi sociali che probabilmente potrebbero trovare più efficaci risposte senza usare per forza la leva penale”. Uno “Stato di polizia”. Scettico sulle prospettive ipotizzate è pure Antonello Ciervo, docente di diritto pubblico, che appunta le proprie critiche su diverse misure, che definisce da “Stato di polizia”. Ad esempio, spiega, quella che “prevede l’arresto in differita anche per le manifestazioni pubbliche”. In pratica, osserva, “ti vengono a prendere a casa dopo aver visto il video della manifestazione; se alla polizia è sfuggito qualcosa, ex post ti arrestano per comportamenti che a questo punto anche discrezionalmente valuteranno come reato”. Oppure, annota il professor Ciervo, rispetto all’aggravio di pena previsto “se la violenza o la minaccia è commessa al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica, il fatto che io commetta violenza o minacci un pubblico ufficiale in una manifestazione il cui obiettivo è la protesta contro un’opera pubblica è illogico”. A suo parere, “non c’è nessun nesso di consequenzialità tra l’aggravamento di pena e il fatto che io protesti in un corteo per la liberazione della Palestina o perché sono contrario al Ponte sullo Stretto di Messina. Perché dovrebbe aumentarsi la pena in questo secondo caso? Cosa faccio di più grave rispetto a una ‘normale’ manifestazione?”. Secondo il docente universitario, “è chiaro l’intento di criminalizzare le proteste ambientaliste”. Clandestini? Niente Sim - Un’altra previsione che fa discutere è quella che vieta ai gestori telefonici di vendere una scheda Sim con numero di cellulare a stranieri non provenienti da Paesi europei che siano sprovvisti di permesso di soggiorno valido. “Non crediamo che la misura possa avere un reale effetto di deterrenza - secondo Oliviero Forti, responsabile Immigrazione della Caritas italiana -. Rischia invece di essere una norma discriminatoria che va ad ostacolare il diritto di comunicare con i propri familiari nei Paesi di origine e al contempo potrebbe alimentare il mercato nero delle Sim, con inevitabili conseguenze in termini di sicurezza”. Secondo il professor Roberto Cornelli, audito alla Camera dei deputati, “i dati Istat oggi disponibili dicono che l’insicurezza derivante dalla percezione della criminalità nel proprio quartiere di vita è in netta diminuzione negli ultimi 5 anni e, negli anni precedenti, ha avuto degli innalzamenti, poi rientrati, proprio in corrispondenza dell’approvazione di decreti sicurezza o in presenza di campagne mediatiche particolarmente pressanti. L’ipotesi, già validata in altri Paesi, è che le leggi sulla sicurezza non intervengano per rispondere a una domanda di sicurezza che viene dal basso, ma al contrario che alimentino campagne politico-mediatiche finalizzate, a volte, a ottenere visibilità o legittimazione politica, altre volte, a irrigidire il quadro delle libertà e delle garanzie democratiche”. Sebbene non sia stato ancora licenziato il testo definitivo, che è ora all’esame del Senato, è già possibile immaginare i margini di intervento della Corte costituzionale. In particolare, la Consulta ha più volte sottolineato che le scelte di politica criminale rientrano nella discrezionalità del legislatore, ma ciò non significa che la materia penale sia uno spazio franco, sottratto al sindacato di legittimità costituzionale. La stessa Corte costituzionale, infatti, ha chiarito che, salvo l’ambito di scelta discrezionale rimessa al legislatore, è sempre possibile valutare la compatibilità delle norme incriminatrici con l’assetto di princìpi e diritti consacrati all’interno della Carta costituzionale. E, prima ancora che talune norme del ddl sicurezza approdino eventualmente, una volta approvate definitivamente, al giudizio della Corte costituzionale, è lecito immaginarsi che lo stesso Presidente della Repubblica si astenga dalla promulgazione di un simile obbrobrio giuridico e possa rinviare il testo al Parlamento per un suo radicale riesame, sulla base delle sue prerogative costituzionali. *Ex parlamentare Ogni morto è una persona. Ci devono essere delle risposte minime uguali per tutti di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 17 ottobre 2024 Manuel e Leonardo, gli ultimissimi ragazzi morti, il primo assassinato, il secondo spinto al suicidio perché la sua vita era diventata insopportabile a causa delle persecuzioni di sconosciuti amici e compagni di scuola. Quante persone sono spinte al suicidio in carcere, oppure perché non hanno più speranza di lavoro e sono ancora in età produttiva, ma nessuno si cura di considerarli più di un prodotto o di un produttore? Su tutte le morti sovrasta la sua ineluttabilità e le fanno corona i necrologi. Ne apprezzo molti e magari li ho scritti anch’io, spinto dal dolore che mi esplodeva incontrollabile. Ho la sensazione di vivere in una società dannosa, sia nei corpi che negli anticorpi. Ci sono, ci devono essere delle risposte minime uguali per tutti: se un lavoratore pakistano che si è ferito a morte durante il lavoro e il suo corpo viene portato davanti all’abitazione, col messaggio esplicito “Non ci serve più, sbrigatevela voi”, significa che questo gesto è permesso, o comunque non è esecrato come dovrebbe. Se 5 operai anche specializzati, giovani, muoiono perché un treno alla cui strada stanno lavorando, arriva non segnalato, e li travolge, questo lavoro è considerato nei fatti accessorio, che ci sia o non ci sia non preoccupa chi lo organizza. Non sono accuse lanciate con faciloneria, ma ragionamenti concatenati fra loro. I ragazzi muoiono, si tolgono la vita e spesso, si, anche loro non hanno piena coscienza di ciò che fanno, ma se avviene vuol dire che sono rimasti abbandonati, non seguiti, come gli operai, le donne vittime di femminicidio. Ogni morte ha la sua peculiarità: ma ogni morte brutta, resta senza valore in sé, se non la si analizza nella storia, nel contorno. Se lo facessimo non dovremmo muoverci da sedicenti studiosi che cercano la soluzione basandosi su categorie, ognuna con la sua peculiarità. C’è un tratto unificante. Tutte le morti di cui stiamo parlando sono le morti che avvengono in un paese che sta aprendo un centro per ospitare i rifugiati selezionati non si sa con quale criterio fra quelli intercettati nel mare Mediterraneo. Questo centro aperto in Albania viene fatto passare come una soluzione che rappresenta un buon affare economico per entrambi i paesi, ed un esempio da riprodurre. È l’ennesimo atto di colonialismo, che cambierà anche la vita attorno a Gjader (chi se ne andrà, chi verrà attratto da lauti guadagni come i sorveglianti), sceglierà come cavie i rifugiati ridotti ancora più in catene degli altri, perché diminuiranno i loro diritti dal consultare associazioni che prestano soccorso umanitario e potranno rivolgersi solo al gestore del campo. Li chiamerei prove generali di privatizzazione delle carceri, ancora una volta partendo da persone la cui morte e i cui mali sono meno importanti di altri. L’Albania, lo racconta la Storia, è un paese che ha dato tanti immigrati all’Europa ed è la nazione che l’Italia voleva invadere nel 1919, appena finita la prima guerra mondiale, e non lo ha fatto per la coraggiosa ribellione dei bersaglieri nella Caserma Villarey di Ancona. Poi fu invasa con l’inizio della seconda guerra mondiale dai fascisti, e gli stessi al governo hanno architettato questo nuovo “ballon d’essai”. Se questi sono i principi sui quali viene amministrato il nostro paese, le cause di queste morti che non valgono nulla e stanno aumentando a vista d’occhio, vanno cercate anche in chi amministra l’Italia e in chi non si oppone. Surrogata come reato universale, c’è la legge. E in Aula scatta la rissa di Francesca Spasiano Il Dubbio, 17 ottobre 2024 Cronaca di una giornata parlamentare: il lungo ping pong in Senato prima del via libero definitivo alla norma voluta da Fratelli d’Italia. Non chiamatelo “reato universale”. Quando ormai è quasi fatta, la maggioranza cerca di togliere dalla nuova legge sulla maternità surrogata il bollino col quale è nata. E si capisce il perché: per smarcare la norma approvata oggi in via definitiva al Senato da tutti i dubbi sulla sua applicabilità o costituzionalità, bisogna partire dalle parole. Il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin lo sa. E così, dopo le prime ore di scintille nell’aula di Palazzo Madama, prende parola e si rivolge ai banchi dell’opposizione per difendere il ddl in punta di diritto: reato universale lo dite voi, ragiona l’avvocato azzurro, noi diciamo soltanto di voler punire il cittadino italiano che commetta il crimine all’estero. Insomma, non si vuole mettere in galera tutti e ovunque: solo i nostri. Tanto per ribadire che il “commercio dei neonati” con “l’utero in affitto” non può essere tollerato: né qui, né altrove. Anche in questo caso le parole non sono casuali. E qualcuno nella maggioranza si indigna addirittura per chi ricorre alla sigla Gpa. Che non sta per “Gran premio d’Argentina”, come ironizza la senatrice di Fratelli d’Italia Lavinia Mennuni. Ma per “gestazione per altri”. Comunque la si chiami però, la surrogata resta una pratica già illegale in Italia ma lecita in molti paesi. E questo pone, sottolineano le opposizioni, il problema della doppia incriminazione: perché possa essere punito il fatto commesso all’estero è essenziale che sia previsto come reato nello Stato in cui è consumato il fatto. Per Zanettin la tesi giuridica però non regge, perché di reato universale non si tratta. E in effetti, neanche la relatrice di Fratelli d’Italia Susanna Donatella Campione ne parla mai nel suo intervento iniziale. Tutto torna. Se non fosse per l’arringa del senatore leghista Massimiliano Romeo, che conquista la prima standing ovation parlando di “ricchi contenti che sfruttano donne povere” per soddisfare i propri desideri genitoriali. L’esponente del Carroccio si chiede sgomento dove siano “le femministe”, le quali dovrebbero indignarsi per la surrogata, e ammette che sì, l’obiettivo è il reato universale: l’Italia spera che altri Stati seguano la stessa via. Dunque, si tratterebbe di un segnale. Uno mero strumento per disincentivare il cosiddetto “turismo creativo” che Fratelli d’Italia insegue dalla scorsa legislatura, quando la premier Giorgia Meloni ha presentato per la prima volta il disegno di legge rilanciato alla Camera dalla deputata di Fratelli d’Italia Carolina Varchi. È il suo ddl, il n. 824, ad arrivare ora al traguardo dopo il primo sì alla Camera nel 2023. Il voto è scontato: 84 sì e 58 no, nessun astenuto, il provvedimento è legge. Bocciati tutti gli emendamenti, una ventina più gli ordini del giorno, presentati dalle opposizioni. Il testo resta di un solo articolo, poche righe, e interviene sull’articolo 12 della legge 40 del 2004, che già punisce con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600mila euro a un milione di euro “chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità”. Ora si aggiunge, al comma 6, che “se i fatti di cui al periodo precedente, con riferimento alla surrogazione di maternità, sono commessi all’estero, il cittadino italiano è punito secondo la legge italiana”. Ciò vuol dire, nei fatti, che le coppie che si presenteranno al Comune per registrare l’atto di nascita formato all’estero rischiano di autoincriminarsi. Soprattutto le coppie omogenitoriali, sottolinea il senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto, perché saranno di certo le prime “indiziate”. Dunque, che ne sarà dei bambini già nati? Il punto è centrale nel ping pong infinito che va avanti per l’intera giornata. Le posizioni in aula sono chiare. Le opposizioni bollano la norma come una “legge manifesto”, frutto di “furore ideologico”, una prova esemplare di “panpenalismo universale” a colpi di propaganda che imporrà uno stigma sociale sui bambini già nati da Gpa. E ancora: “Una norma viziata dall’irragionevolezza e totalmente disallineata rispetto alle pronunce della Corte Costituzionale, della Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte di Cassazione sezioni unite civili”, argomenta la vicepresidente dem del Senato Anna Rossomando. Che tira fuori “lo scheletro nell’armadio”: la consapevolezza che “bisogna tutelare lo stato giuridico dei bambini”. È qui che il clima si infiamma. Il centrodestra respinge le accuse: per il riconoscimento dei bambini esiste già l’istituto dell’adozione in casi particolari. Quello indicato dalla Cassazione, dove arrivano tutte le battaglie legali portate avanti in questi anni. Tutelare i minori e la dignità della donna è una “scelta di civilità”, per citare la ministra della Famiglia Eugenia Roccella. La prima ad esultare nel governo appena il ddl è legge. “Le opposizioni accusano Fratelli d’Italia e il centrodestra di ideologia. E siamo d’accordo, se per ideologia si intende difendere la dignità delle persone, delle madri, dei bambini, che hanno diritto a sapere chi è il loro padre, chi è la loro madre ed hanno diritto a non essere merce”, tuona il presidente dei senatori di FdI Lucio Malan. Il quale diventa d’un tratto il vero eroe dell’aula, tra gli applausi e gli abbracci di tutti i colleghi della maggioranza. Un momento di grande unità. Poi tutti alla buvette per un caffè, mentre in aula si alternano le voci dell’opposizione in un’aula deserta. Serve un piccolo sprint. Come quello della senatrice M5S Elisa Pirro, la quale rivendica che l’utero è suo al pari di un rene e perciò ci fa quello che vuole. Dall’altra parte i senatori non sono d’accordo, si sfiora la rissa. E non capiamo se l’obiezione sia sulla proprietà dell’utero o su altro. La presidente di turno Mariolina Castellone minaccia di sospendere l’Aula. Ma poi torna il sereno. Una volta spazzate via tutte le pregiudiziali presentate dalle opposizioni, riparte il dibattito. Si torna indietro negli anni, quando sono cominciate le battaglie sul corpo della donna. Qualcuno prova a dire che anche loro sono esseri senzienti in grado di scegliere se avere una gravidanza per altri. Qualcuno replica che le donne “non sono un forno”. E così, lentamente, dal diritto di scivola al bar. Ma siamo ancora nell’aula: è la democrazia, ci vuole pazienza. Bombardare i bambini è “diritto alla difesa”, procrearli è un crimine di Nichi Vendola L’Unità, 17 ottobre 2024 Siamo dentro una drammatica regressione della nostra cultura democratica e persino di un’idea di civiltà: il dissenso è reato, la resistenza passiva è reato, la complessità sociale è reato, la povertà è reato, salvare vite in mare è reato. “Crimine universale”: mi danza in testa quest’espressione così apodittica e terrificante, entrata impropriamente nella contesa politica e indirizzata con veemenza biblica contro chi si rivolge alle tecniche di fecondazione e procreazione assistita per mettere al mondo bambini. Crimine universale non è sopprimere bambini, bruciarli vivi sotto le bombe, abusarli, torturarli, venderli come pezzi di ricambio, usarli come soldati, sfruttarli come schiavi: no, no. Il crimine è farli nascere, non farli morire. Farli nascere come miracoli della primavera in questo lungo e duro inverno demografico. Accoglierli dentro un consapevole progetto d’amore. Voi che vendete armi a tutti i portatori di morte dichiarate criminali i portatori di vita. Voi che guardate con ammirazione lo sviluppo delle industrie dello sterminio volete mettere al bando la scienza che consente alla vita di fiorire. In verità la cosiddetta “gestazione per altri” in Italia era già reato, in virtù di una legge dello Stato scritta in condominio con un altro Stato, quello piccolo piccolo che insiste oltre Tevere. Ma ora guadagna un di più di apprezzamento repressivo, incrementi di supplizio e galera, in linea con l’isteria panpenalistica della destra fascista, e soprattutto guadagna nella narrazione pubblica l’aggettivo “universale”, qualcosa che sembra alludere più che ai codici della convivenza ai dogmi della metafisica. Più che al cospetto di un legislatore pare di essere dinanzi all’ira di Dio. Ma come fa, in virtù di quale messa nera o di quale giurisprudenza planetaria, a diventare un reato “universale” ciò che è legale e regolamentato in tanta parte del globo terracqueo? Come può essere universale la sanzione di qualcosa che è permesso negli Stati Uniti, in Canada, in quasi tutto il Sud America, in Sud Africa, in tante nazioni d’Europa? L’unico senso di questa operazione è la produzione di stigma sociale contro una minoranza, perché c’è chi ha sempre fame di “capri espiatori”, c’è chi sempre ha bisogno di evocare fantasmi da esorcizzare o streghe da mettere al rogo. Siamo dentro una drammatica regressione della nostra cultura democratica e persino di un’idea di civiltà: il dissenso è reato, la resistenza passiva è reato, la complessità sociale è reato, la povertà è reato, salvare vite in mare è reato. Oggi con questa criminalizzazione del fare figli siamo alla riesumazione del clerico-fascismo, mille volte sconfitto e sempre risorgente dalle pozzanghere della storia. Oggi siamo alla costruzione propagandistica di un nuovo nemico (in realtà un nemico antico), di una preda prelibata per l’attività venatoria della destra: le famiglie arcobaleno. Serve alla resurrezione un po’ pacchiana di quel “Dio, patria e famiglia” che è stato messo sotto stress troppe volte: da chi Dio lo ha fatto naufragare e crepare sulla costa di Cutro, da chi la Patria l’ha messa nella macina della “secessione dei ricchi” col copyright di Calderoli, da chi le famiglie dovrebbe imparare a lasciarle in pace, tutte le famiglie, anche le loro sfasciatissime famiglie. Tuttavia, per un giorno si ciberanno della carne nostra e dei nostri figli, la Roccella e tutta la corte poco celeste di sepolcri imbiancati che governa il Paese. Ma questi novelli crociati non sanno quanto sono affilate le nostre unghie e aguzzi i nostri denti. Forse non immaginano quanto noi siamo allenati a combattere le polizie morali. In aula loro festeggeranno e noi studieremo i modi di continuare a combatterli e di continuare a proteggere la vita. Eppure loro sono patetici, perché sanno, e perlomeno sospettano, di essere lontanissimi del sentire reale della società e perché cercano di fermare il vento della modernità con l’acquasantiera dei fanatici. Non basteranno gli esorcisti per far sparire i nostri corpi e le nostre libertà. Sui migranti s’è imposto il piano politico italiano, vicino a Orbán ma più pragmatico di David Carretta Il Foglio, 17 ottobre 2024 Francia e Germania pensano che il protocollo italiano con l’Albania non farà la differenza. Il Consiglio europeo di oggi non riuscirà ad adottare conclusioni su migrazione e asilo perché Ungheria e Polonia non vogliono dare l’impressione di dare il loro assenso al Patto. Ma i 27 hanno imboccato una direzione impensabile un paio di anni fa. Giorgia Meloni, insieme a Viktor Orbán, ha vinto la battaglia politica sui migranti nell’Unione europea. Anche se il Consiglio europeo di oggi non riuscirà ad adottare conclusioni su migrazione e asilo, i capi di stato e di governo hanno imboccato una direzione che era ritenuta impensabile appena un paio di anni fa. “Verso destra”, secondo le parole di un alto funzionario dell’Ue. Protocollo Albania, “hub di rimpatrio”, iniziative per rimpatriare i rifugiati siriani: gli strumenti sono diversi e gli esperti dubitano della loro efficacia o legalità. Ma sul piano politico è prevalsa la linea Meloni. Dentro il Consiglio europeo ciò che divide sono le quote di ridistribuzione dei richiedenti asilo, le frontiere interne a Schengen, la ripresa dei trasferimenti dei cosiddetti “dublinanti” nei paesi di primo ingresso. E’ quella che nell’Ue è chiamata “dimensione interna” delle politiche migratorie. Se i leader non riusciranno ad approvare conclusioni al vertice di oggi è perché Ungheria e Polonia non vogliono dare l’impressione di dare il loro assenso al Patto su migrazione e asilo, che prevede più solidarietà con i paesi di primo ingresso in cambio di più responsabilità. Sulla “dimensione esterna”, invece, c’è un consenso quasi generale attorno alla linea Meloni (l’eccezione è lo spagnolo Pedro Sánchez). Lo dimostrano l’interesse per il protocollo tra Italia e Albania, la promessa di Ursula von der Leyen di lavorare per la creazione di “hub di rimpatrio” nei paesi terzi, o la generalizzazione degli accordi con la sponda sud del Mediterraneo per frenare le partenze. Il presidente del Consiglio questa mattina si riunirà con i premier di Paesi Bassi (il tecnico Dick Schoof alla guida di un governo di destra dura) e Danimarca (la socialista Mette Frederiksen) un gruppo di leader che vuole indurire ulteriormente le politiche migratorie, in particolare riducendo al minimo le tutele previste sui rimpatri. Meloni sta anche spingendo per un meccanismo che consenta più rimpatri volontari di rifugiati siriani in Siria. I bombardamenti israeliani in Libano - paese che ospita 1,2 milioni di rifugiati siriani - fa temere una nuova crisi dei rifugiati in stile 2015 nell’Ue. “Ciprioti e greci sono terrorizzati”, spiega un diplomatico. Orbán e Meloni si muovono in modo diverso nell’Ue, ma nella stessa direzione: chiudere le frontiere erigendo l’Europa fortezza. Il premier ungherese vuole impedire a tutti i migranti di entrare, incurante delle regole internazionali o della compassione umana. La presidente del Consiglio italiano, invece, si mostra pragmatica e rispettosa di alcuni princìpi fondamentali. È bastato questo a Meloni per farsi ascoltare, mentre Orbán continua a essere messo al bando. Anche i modelli proposti dai due leader sono simili, ma diversi. Il protocollo con l’Albania non prevede respingimenti (i migranti non entrano nelle acque territoriali dell’Ue) e garantisce il diritto di asilo, ma le procedure vengono esternalizzate in un paese terzo. Decine di migliaia di migranti salvati in mare continueranno a essere sbarcati in Italia. Orbán propone “hotspot esterni”, dove effettuare le procedure di asilo, ma impedendo a tutti i migranti di entrare nell’Ue, perché nella maggior parte dei casi, una volta entrati, non si riescono a rimpatriare. Il terzo modello sono “gli hub di rimpatrio” promossi da von der Leyen: centri in paesi terzi, dove deportare i migranti che sono stati espulsi da stati membri dell’Ue, ma non possono essere rimpatriati nei loro paesi d’origine. Il paradosso è che gli stessi diplomatici dei paesi che si sono accodati alla linea Meloni sollevano forti dubbi sull’efficacia o la fattibilità delle cosiddette “soluzioni innovative”. Francia e Germania ritengono che il protocollo con l’Albania non farà la differenza in termini di numeri. Appena raggiunta la quota di mille migranti da rimpatriare, i centri saranno pieni e dovranno restare lì per 18 mesi o essere trasferiti in Italia. Il protocollo potrebbe anche non reggere a un ricorso davanti alla Corte di giustizia dell’Ue. Gli “hub di rimpatrio” violano le regole attuali dell’Ue. Lo ha riconosciuto la stessa Commissione, annunciando la possibilità di un emendamento. Inoltre difficilmente i paesi dei Balcani accetteranno di accogliere sul loro territorio questi centri di concentramento in attesa di deportazione. Gli “hotspot esterni” di Orbán vanno contro il sacro principio di non respingimento. Ma con l’estrema destra che cresce nelle urne, presi dal panico, i leader politici hanno bisogno di mostrarsi duri sull’immigrazione. “C’è una forte componente di effetto ottico”, ammette un ambasciatore. Migranti. Il modello Albania inizia male, sbarcati minori e vulnerabili di Linda Ginestra Giuffrida Il Manifesto, 17 ottobre 2024 Il debutto del “modello Albania” non avrebbe potuto essere peggiore. Una volta che la nave Libra è arrivata nel paese delle Aquile si è scoperto che tra i 16 migranti trasportati fino al porto di Shengjin c’erano anche due minori bengalesi e due egiziani vulnerabili, quattro persone che, stando al protocollo firmato tra Roma e Tirana non avrebbero dovuto trovarsi lì. E in serata si è sparsa la voce, non confermata, della presenza di un terzo minore. Per tutti loro è cominciato il viaggio di ritorno verso l’Italia a bordo di una motovedetta della Guardia di Finanza che li ha riportati sul pattugliatore Libra della Marina Militare italiana con cui erano arrivati. Un video li ritrae mentre salgono a bordo della motovedetta, poche ore dopo aver messo piede in territorio albanese ed essere stati identificati. Un chiaro fallimento in partenza del tanto atteso patto Meloni-Rama, che ieri il ministro Piantedosi ha difeso in parlamento, e siamo ancora alla prima fase, quella delle procedure a cui saranno sottoposti i primi migranti trasferiti in Albania. Sono circa le otto del mattino quando la nave Libra arriva al porto di Shengjin, nel nord dell’Albania. Una lunga attesa costringe i migranti a rimanere ancora a bordo, come non fossero bastati i tre giorni di navigazione da Lampedusa ai Balcani. Un viaggio costato più di 250 mila euro. Verso le dieci i naufraghi cominciano finalmente a scendere sulla banchina a gruppi di quattro. Mettono piede in Albania per qualche minuto, ma subito scompaiono dentro il centro di prima accoglienza, e sono nuovamente “in Italia”. Le tre strutture costruite dall’Italia in Albania, il centro di prima accoglienza di Shengjin, quello per i richiedenti asilo, quello per il rimpatrio e il penitenziario di Gjiader, rispondono, infatti, alla giurisdizione italiana. Alle 10:30 circa tutti i migranti sono dentro il centro di prima accoglienza. L’atmosfera rimane tesa e la sbarra in ferro che separa l’interno del porto dal resto della comunità di Shengjin, resta abbassata. Un suono di sirena rompe il silenzio delle riprese dei tanti giornalisti fuori dal porto. Il suono arriva da un gruppo di attivisti albanesi che sorreggono un cartonato a grandezza d’uomo di Giorgia Meloni e del premier albanese Edi Rama vestiti da carcerieri. Sotto i loro corpi in cartone, uno striscione recita: “Il sogno europeo finisce qui”. “Abbiamo un’idea dell’Unione europea come di un posto di democrazia, valori e diritti umani ma oggi questa idea l’abbiamo vista calpestata. Per questo abbiamo rappresentato il nostro presidente insieme a Meloni vestiti da carcerieri, perché è quello che stanno facendo dell’Albania: un carcere”, racconta un’attivista del collettivo albanese Mesdhe. Le fa eco Fioralda Duma, italo-albanese (così si definisce, “anche se senza cittadinanza italiana” ci tiene a precisare), portavoce del collettivo: “Il fatto che questi territori albanesi, dove oggi sorgono i centri di detenzione italiani, vengano considerati territorio extraterritoriale italiano è un pericolo per la nostra democrazia ma anche una zona grigia dal punto di vista giuridico e legale. È un accordo che viola totalmente i diritti umani”. Intanto le ore passano e i migranti sono ancora reclusi nel centro di prima accoglienza del porto di Shengjin. Secondo l’accordo le operazioni di identificazione e le visite mediche dovrebbero concludersi al massimo entro le prime otto ore dal momento in cui i migranti mettono piede in territorio albanese a quando entrano nella struttura di Gjiader. In realtà alle 21,30, quando di ore ne sono passate undici, ancora non succede niente. Un ritardo che potrebbe essere dovuto alla scoperta dei due presunti minori prima e dei due casi vulnerabili dopo. L’attesa, interminabile, appare ancora più paradossale se si pensa che ieri sono arrivate appena sedici persone. Cosa accadrà quando, secondo i piani del governo italiano, a sbarcare saranno decine o centinaia? Il centro per richiedenti asilo a tarda sera è ancora vuoto, il sole è tramontato già da parecchio e gli edifici grigi al di là della recinzione restano illuminati solo da luci artificiali. Le cabine dormitorio, una dietro l’altra poste a schiera, sono sigillate. La parte posteriore della struttura è ancora un cantiere, ma ad essere sinceri lo sembra anche la zona dichiarata “pronta”. Fuori dalla recinzione che raggiunge i cinque metri nella sua parte più bassa, è buio pesto, solo alberi e cani che abbaiano, di altri esseri umani neanche l’ombra. Si chiude così la giornata di battesimo del discusso piano Albania. Con tutti i presupposti per far discutere ancora per molto. La Cei attacca sui Centri per i migranti in Albania: “Prenderemo posizione” di Matteo Matzuzzi Il Foglio, 17 ottobre 2024 Il presidente della Fondazione Migrantes, mons. Perego, attacca anche Ursula von der Leyen: “E’ favorevole all’accordo con Tirana? Non è bene informata”. Sull’apertura dei centri di permanenza e rimpatrio per i migranti in Albania “si stanno elaborando delle posizioni, delle dichiarazioni. Vorremmo vedere meglio”, ha detto il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, mons. Giuseppe Baturi, a margine della presentazione del Rapporto Immigrazione Caritas e Migrantes, ieri a Roma. Sull’apertura dei centri di permanenza e rimpatrio per i migranti in Albania “si stanno elaborando delle posizioni, delle dichiarazioni. Vorremmo vedere meglio”, ha detto il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, mons. Giuseppe Baturi, a margine della presentazione del Rapporto Immigrazione Caritas e Migrantes, ieri a Roma. La Cei è prudente, attende di approfondire, ma annuncia già che si farà sentire a tempo debito. E, stando a quanto detto dal presidente di Migrantes, l’arcivescovo di Ferrara Gian Carlo Perego, non saranno parole tenere. “Siamo passati dai muri alle prigioni. Spendere un miliardo, come di fatto sarà, per costruire tre prigioni a cielo aperto e un centro di identificazione allo sbarco per 400 persone - il centro di trattenimento è comunque una prigione perché non si può uscire né avere un cellulare e comunque per un Cpr di 120 posti che sappiamo sono dei lager già condannati dalla Consulta in Italia - significa che siamo passati dai muri alle prigioni quindi siamo davanti a un passaggio ulteriormente grave nella gestione del diritto di asilo”. Non solo, mons. Perego aggiunge che “fa una certa specie questo passaggio, che è avvenuto con una nave che con l’operazione Mare Nostrum era diventata una nave di soccorso, e che adesso diventi una delle navi per respingere le persone che sono in fuga e dove si fa una prima selezione per distinguere uomini da donne e bambini, rischiando di dividere le famiglie per un risultato che ora è di sedici persone su un numero che sarà molto più elevato. Se i numeri saranno questi per ogni tipo di salvataggio, e non potranno essere più di due in una settimana perché ci vogliono tre giorni dal luogo del salvataggio fino all’Albania, i numeri saranno molto residuali. Forse il dieci per cento se si arriva a cinquemila in un anno di quei cinquantaduemila che finora sono sbarcati a Lampedusa e nei porti italiani”. Ma l’arcivescovo Perego non si limita a criticare il governo italiano, ma anche la presidente della Commissione europea, che ha espresso un primo parere positivo sulla collaborazione fra Roma e Tirana: “A mio modo di vedere - ha detto all’agenzia Adnkonos - la von der Leyen non è esattamente informata dei fatti e di cosa si è costruito in Albania e di questa procedura che sta avvenendo. Forse quando sarà, con precisione, informata dei fatti, magari dagli organismi europei deputati anche al controllo, forse rivedrà questo suo giudizio. Almeno lo spero perché pensare che questa sia la soluzione quando un governo, quello inglese, è caduto sulla stessa soluzione, è una cosa che segnala una deriva europea del popolarismo europeo”. Non è la prima volta che mons. Perego, in qualità di presidente della Fondazione Migrantes, contesta l’accordo stipulato dal governo Meloni. Un anno fa lo definì “spreco di denaro pubblico”, suscitando l’irritazione di Palazzo Chigi. Il cardinale Matteo Zuppi aggiungeva che “di per sé è un’ammissione di non essere in grado. Non si capisce perché non venga sistemata meglio l’accoglienza qui”. Era il primo episodio di una serie di “incomprensioni” che avrebbero segnato i mesi successivi, con tre conferenze episcopali regionali che contestavano duramente l’autonomia differenziata e le risposte date da Zuppi sul premierato. Frasi che, ha detto al Foglio nell’intervista pubblicata sabato scorso, ripeterebbe anche oggi. Sull’autonomia differenziata, le dichiarazioni pubbliche e forti del vicepresidente Savino erano state derubricate a pareri personali perché - aveva chiarito Zuppi - quel che conta alla fine è il comunicato del Consiglio permanente. Stavolta è però diverso, visto che mons. Perego è anche presidente della Commissione episcopale per le migrazioni, quindi titolatissimo a parlare dell’accordo stretto con l’Albania. In attesa della posizione ufficiale della Cei annunciata dal segretario generale Baturi, non si vede all’orizzonte un rasserenamento nei rapporti con la maggioranza in tempi relativamente brevi. Le carceri di Vladimir Putin tra sparizioni e torture, ecco come la Russia reprime il dissenso Massimiliano Coccia* linkiesta.it, 17 ottobre 2024 L’autocrate del Cremlino spedisce in cella tutti i suoi oppositori, con metodi brutali e lesivi dei diritti umani. Abbiamo intervistato Dmitry Gurin dello European Prison Litigation Network, che ha stilato un rapporto sulla condizione delle prigioni russe. Se vogliamo comprendere come funziona la Russia di Vladimir Putin e quali obiettivi cerca di perseguire oltre alla rotta dei proventi illeciti, delle sanzioni aggirate e della propaganda occorre fermarsi ad analizzare la situazione carceraria. I penitenziari, i trasferimenti dei detenuti, la repressione massiccia e costante non sono l’altra faccia di una dittatura feroce che rivela nell’oscuro delle celle la sua vera natura che è impossibile da normalizzare. C’è un rapporto che tenta di mettere fine a un vulnus comunicativo e di informazione, a cura di The European Prison Litigation Network, e abbiamo raggiunto l’avvocato Dmitry Gurin (senior legal advisor dell’organizzazione), uno dei maggiori conoscitori della macchina repressiva di Putin. Le condizioni di detenzione nella Russia di Putin sono drammaticamente peggiorate, le carceri sono luoghi di violazione e punizione. Cosa emerge dal rapporto? Il sistema penitenziario russo non è solo luogo di punizione e di violazione massiccia dei diritti umani, ma costituisce una vasta rete di fabbriche di tortura in tutto il Paese, utilizzate per tormentare le persone private della libertà personale, spezzare la loro volontà e degradarle. La degradazione umana è diventata da tempo il principale strumento di gestione del carcere in Russia. Se prima l’uso della tortura era nascosto, adesso viene apertamente avallato e le “migliori pratiche” sperimentate in ambito penitenziario sono ormai implementate nelle politiche di gestione di molte istituzioni sociali. Si tratta, insomma, di un problema enorme e complesso, che deve essere analizzato da una prospettiva storica, sociologica, penale e giuridica. Il rapporto congiunto che abbiamo elaborato come Epln e che abbiamo pubblicato all’inizio di quest’anno insieme ai colleghi di State Capture e dell’Iphr, è un tentativo di analizzare uno degli strumenti repressivi del sistema penitenziario russo: le sparizioni forzate (ED, Enforced Disappearances) che avvengono durante il trasferimento dei detenuti. Il combinato disposto delle leggi e delle pratiche nazionali mostra come le sparizioni forzate siano pienamente istituzionalizzate all’interno del sistema penitenziario russo. La legge nazionale spiana di fatto la strada e legalizza sostanzialmente il loro uso, mentre la pratica si spinge ben oltre. Le sparizioni forzate sono usate abitualmente per fare pressione sui prigionieri politici, mantenendo loro e le loro famiglie in una situazione di incertezza. Ma sono anche ampiamente utilizzate contro i “prigionieri comuni” - centinaia di migliaia - e, dal 2014, contro la popolazione civile dell’Ucraina. Nel rapporto si fa riferimento alle modalità che durante l’Unione Sovietica venivano adottate per il trattamento dei detenuti, modalità che sono rimaste inalterate. È possibile un’involuzione ulteriore della situazione? Il Servizio Penitenziario Federale della Russia (Fsin) si pone come diretto successore dell’Amministrazione Penitenziaria dell’Impero Russo e dei Gulag sovietici. Questa eredità comprende: campi di lavoro forzato, esecuzioni, deportazioni forzate e tutte le altre forme di repressione che hanno causato milioni di vittime. Invece di rompere questo circolo vizioso di crimini e diventare un’istituzione moderna, umana e riabilitativa, la Fsin ha preservato con cura questa eredità. La situazione può peggiorare e peggiorerà se non si ferma la macchina della repressione. Le autorità penitenziarie russe hanno rapidamente rimosso, uno dopo l’altro, tutti gli strumenti di controllo e le barriere che tentavano di limitarne e monitorarne l’azione - le commissioni pubbliche di monitoraggio, la Corte europea dei diritti umani (Cedu), il Comitato per la Prevenzione della Tortura (Cpt). Agli avvocati è stato vietato di portare con sé in carcere dispositivi di registrazione fotografica, video e audio, i difensori dei diritti umani sono stati espulsi, attaccati e perseguitati. Tutte queste misure sono state prese per essere liberi di agire indisturbati all’interno delle carceri, liberi, insomma, di uccidere, torturare, estorcere confessioni, mandare forzatamente in guerra. La necessità di evitare di attirare troppa attenzione pubblica è stato l’ultimo fattore di contenimento. Dopo l’arresto delle persone sospettate come responsabili dell’attacco terroristico alla Crocus Hall di Mosca, i media legati alla polizia hanno pubblicato i video delle orribili torture a cui sono state sottoposte queste persone e i responsabili delle torture - gli agenti di polizia - sono stati decorati. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: la tortura è stata di fatto ufficialmente autorizzata. È facile prevedere come questa situazione non possa che peggiorare. Negli ultimi giorni abbiamo raccontato la morte di Viktoria Roschina, giornalista ucraina che doveva essere scambiata con prigionieri di guerra russi. Sembra lo stesso destino di Alexei Navalny. Cosa avviene nei trasferimenti dei detenuti? La morte di Viktoria Roschina ci ricorda ancora una volta una terribile verità: in caso di trasferimento di prigionieri in Russia, a una persona detenuta può succedere di tutto e, se le autorità lo desiderano, la sua vita può terminare all’istante. Ciò che accomuna questi casi - la tragica morte (molto probabilmente per omicidio) di Viktoria Roschina, l’omicidio di Alexei Navalny e molte altre morti che si verificano ogni giorno nel sistema penitenziario - è l’incertezza e l’isolamento delle vittime. Il trasferimento offre condizioni perfette per alimentare entrambe queste condizioni, spesso dura due o tre settimane, durante le quali le persone detenute vengono portate in strutture diverse, lungo tragitti complicati e poco intuitivi, in furgoni carcerari e in treno, privati di qualsiasi contatto con il mondo esterno - ai detenuti non è permesso comunicare con le famiglie e gli avvocati - i trasferimenti sono spesso utilizzati per spezzare la volontà dei detenuti, per torturarli fisicamente e psicologicamente, per nasconderli al pubblico e alle loro famiglie e, infine, per eliminarli. Cosa è cambiato dall’inizio dell’invasione estesa dell’Ucraina nel sistema penitenziario russo? Molto. Come ho detto, nel febbraio 2022 è stato come se si fossero spezzate le ultime catene che trattenevano questa bestia - il sistema penitenziario russo - che ha iniziato a scatenarsi su tutto il territorio. Il sistema è diventato ancora più chiuso e opaco. Il Fsin ha smesso di pubblicare le statistiche sulle carceri. Con una mossa senza precedenti, un appaltatore militare semi-privato - Wagner - è stato autorizzato a entrare nelle prigioni, a reclutare i detenuti e a usarli come truppe (o, più probabilmente, carne da macello) nei combattimenti veri e propri (decine di migliaia di detenuti sono stati reclutati, almeno il quaranta per cento è stato ucciso). Anche ex ufficiali e ufficiali del Fsin sono stati dispiegati in Ucraina. Parallelamente allo scatenarsi in Ucraina dell’odio e della violenza che per anni erano stati alimentati tra le mura delle carceri russe, il sistema penitenziario ha iniziato ad assorbire la popolazione ucraina, i civili, compresi i prigionieri condannati dai tribunali ucraini, che stavano scontando la loro pena, i prigionieri di guerra, a migliaia, tenuti in isolamento e sottoposti a torture e maltrattamenti quotidiani. L’attuale programma di riforma penitenziaria, già in fase di attuazione, pone maggiore enfasi sul lavoro dei detenuti - sempre più spesso le pene detentive sono sostituite da “pene alternative” di lavoro forzato - per imprese private e statali - industria leggera e lavori comunali. Altre misure comprendono la riduzione complessiva del numero delle carceri e la concentrazione dei detenuti in grandi centri penitenziari situati lontano dalle grandi città, un piano che contraddice i moderni principi penitenziari e l’idea stessa di risocializzazione e reinserimento dei detenuti. Queste misure disumane, unite alle ulteriori restrizioni del diritto di accesso a un tribunale e alla quasi totale assenza di organizzazioni internazionali di controllo che possano intervenire, portano a una violazione ancor più palese dei diritti umani nel sistema penitenziario e a un ulteriore isolamento delle persone detenute. Per quanto concerne il diritto alla salute, che tipo di situazione avete riscontrato? Lavorando a stretto contatto con i nostri partner e colleghi in Russia, vediamo il deterioramento generale della medicina penitenziaria: mancanza dei farmaci necessari, grave carenza di personale medico, impossibilità di ricevere anche le cure mediche più semplici e basilari. Un altro grande problema che affligge la medicina penitenziaria da anni è la totale mancanza di indipendenza dei sanitari rispetto all’amministrazione penitenziaria - i medici sono ancora subordinati all’Fsin (soprattutto ai dipartimenti regionali), il che impedisce loro di riferire in modo indipendente su problemi generali come la mancanza di medicinali, ma li porta anche a chiudere gli occhi su casi specifici di tortura o di gravi malattie dei detenuti. I detenuti gravemente malati non possono ricevere un’adeguata assistenza medica nelle carceri e l’Fsin e i tribunali non sono disposti ad accogliere le richieste di rilascio per motivi medici finché la persona non è in punto di morte. Recentemente siamo riusciti a ottenere il rilascio di diversi prigionieri gravemente malati per motivi medici - ma solo grazie all’intervento del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite - e questi successi, pur essendo indubbiamente importanti a livello individuale, non hanno cambiato la situazione in generale. Oltre alla detenzione ordinaria nei penitenziari, sono tantissime le modalità di carcere duro previste. Ci può fare una panoramica delle tecniche di vessazioni? Ufficialmente, secondo la legge nazionale, esiste un sistema complesso, una gerarchia di strutture detentive corrispondenti a diversi regimi - da quelle più blande alle prigioni e alle colonie a regime speciale - in cui le condizioni di detenzione e le restrizioni imposte ai detenuti variano (per esempio in relazione al numero di pacchi ammesso, alle visite consentite, al numero di telefonate, al diritto di accesso all’istruzione o al lavoro, ecc.). Oltre a questi strumenti giuridici formali, che sono stati ampiamente sanzionati dalla Cedu (si pensi alle sentenze Polyakova and Others v. Russiasulle regole per l’assegnazione dei detenuti alle colonie remote, Tomov and Others v. Russia relativa agli standard nazionali delle condizioni di trasferimento in carcere,Mukhametov and Others v. Russia, sull’autorizzazione alle visite in carcere per i detenuti in attesa di giudizio), le amministrazioni penitenziarie utilizzano un’ampia gamma di pratiche per mantenere l’ordine formale e informale e per esercitare pressione su alcuni detenuti, tra cui la tortura fisica, la musica ad alto volume, la reclusione mista con persone affette da infermità mentali, la privazione di cibo e medicine, la reclusione in isolamento in minuscole celle disciplinari (note come Shizo) e, naturalmente, i trasferimenti prolungati in colonie remote. Che differenze di trattamento hanno criminali comuni e oppositori politici? Nessuno è al sicuro. Se un anno fa si poteva ingenuamente pensare che l’attenzione dell’opinione pubblica, gli avvocati, l’intervento della comunità internazionale e degli organismi internazionali avrebbero fornito almeno una minima garanzia per la vita e l’incolumità di alcuni prigionieri - dopo la morte di Navalny possiamo essere certi che, purtroppo, non è così. Se le autorità decidono di porre fine alla vita di una persona detenuta o di sottoporla a maltrattamenti, lo faranno a prescindere. Sembra che l’unica differenza tra i detenuti politici e i detenuti “ordinari” sia che ai primi non cade un solo capello senza un ordine diretto di Mosca, sia esso il Cremlino o l’Fsb (Federal Security Service). I prigionieri comuni possono essere uccisi, torturati, “affittati” dalle amministrazioni carcerarie locali senza un’autorizzazione speciale dei loro superiori o del centro federale. ----------------- La storia dell’intervento europeo sulla situazione dei diritti umani in Russia e, in particolare, nelle carceri russe è ricca, complessa, costellata di vittorie e fallimenti - la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha portato a una serie di importanti miglioramenti nella legislazione e nella prassi penitenziaria nazionale. Purtroppo, molti solo di facciata, ma con la necessaria volontà political’efficacia di questi interventi può essere “rianimata” in futuro. Altre sentenze europee sono state preziose in quanto hanno fatto luce sugli aspetti più problematici del funzionamento del sistema penitenziario (si veda S.P. and Others v. Russia che affronta il sistema di gerarchizzazione informale dei detenuti tollerato e sostenuto dalle autorità penitenziarie), ma purtroppo sono arrivate troppo tardi, già dopo l’espulsione della Russia dal Consiglio d’Europa (avvenuta nel 2022), e infine, in alcuni casi, sia il Comitato dei Ministri (l’organo di esecuzione dei giudizi della Cedu) che la stessa Corte europea hanno di fatto “scusato” la Russia per le violazioni sistemiche dei diritti dei detenuti, accettando le riforme meramente nominali come segno di buona volontà e indicatore di seri cambiamenti. Questo è stato il caso della privazione totale del diritto di elettorato attivo dei detenuti - un problema strutturale che, secondo il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, è stato risolto con la creazione di una pena alternativa - quando in realtà il problema è rimasto inalterato. Allo stesso modo, la creazione formale di un meccanismo di ricorso per le denunce sulle condizioni di detenzione è stata rapidamente accolta dalla Corte europea, nonostante il fatto che all’epoca non fosse stato risolto con successo un solo reclamo nell’ambito del nuovo meccanismo (Shmelev e altri c. Russia (dec.). In termini di raccomandazioni, il nostro rapporto congiunto con l’Iphr e State Capture mira a richiamare l’attenzione della comunità internazionale sul problema ricorrente e sistemico delle sparizioni forzate nel sistema penitenziario russo e formula raccomandazioni generali per chiedere alle autorità russe di attuare riforme sostanziali e significative in ambito penitenziario, di istituire un sistema di monitoraggio, di rispettare gli obblighi internazionali e di ratificare strumenti come la Convenzione Onu per la protezione di tutte le persone contro le sparizioni forzate. Per quanto possa sembrare ingenuo al momento, sono pienamente d’accordo con Vladimir Kara-Murza sul fatto che i cambiamenti in Russia arrivano spesso in modo improvviso e inaspettato. E quando arriverà quel momento, dovremo lottare per mantenere i problemi del carcere e le relative raccomandazioni della società civile nella lista delle priorità di coloro che lavoreranno alla costruzione della Russia futura. *Si ringrazia per la traduzione Sofia Ciuffoletti, secretary general dello European Prison Litigation Network.