Diritto penale massimo e carcere sicuro di Letizia Lo Giudice Il Manifesto, 16 ottobre 2024 I dati sulla criminalità sono ai minimi storici e restituiscono il fotogramma di un’Italia in cui si uccide poco, se non le donne, il che deve allarmare. Ma il parallelo fotogramma che torna indietro dal microcosmo penitenziario restituisce un responso antitetico: il sovraffollamento carcerario supera il 130%. La ragione è di immediata percezione. Il carcere ha tradito la sua vocazione di extrema ratio, trasformandosi in una “pattumiera” entro cui gettare i bisognosi, i poveri e quelli che il Welfare State non ha saputo sostenere. Là dove fallisce il sistema assistenziale ecco che gli istituti di pena si sovraffollano fino a deflagrare. Aumentano i suicidi, 75 da inizio anno. Aumentano persino le morti naturali di detenuti inspiegabilmente trattenuti in cella sebbene affetti da patologie che imporrebbero la dichiarazione di incompatibilità con il carcere. Crescono i casi di suicidio anche tra la polizia penitenziaria, sfinita dalla gestione di una popolazione problematica. Il disegno di legge A.S. 1236, meglio noto come “DDL Sicurezza”, all’esame del Senato, si colloca proprio al centro di questo fallimento dello Stato e della società, sublimandolo. In 38 articoli riesce a compromettere i principali capisaldi del diritto penale moderno introducendo pene sproporzionate e inusitatamente afflittive per condotte connotate da esigua o inesistente offensività. Clamoroso il peggioramento del Codice Rocco per i bambini costretti a nascere in carcere. Si punisce l’occupazione abusiva di immobili da 2 a 7 anni: eccessivo se si pensa che la ben più grave associazione per delinquere è punita con la pena da 3 a 7 anni. Aumenti anche per i reati commessi nelle adiacenze di stazioni ferroviarie o della metropolitana, o all’interno dei convogli adibiti al trasporto di passeggeri. Una vera stangata per le borseggiatrici rom… E che dire della mano di piombo che sta per abbattersi su tutti quelli che a qualsiasi titolo esprimeranno dissenso o parteciperanno a manifestazioni pubbliche? Si introduce un’ipotesi speciale di danneggiamento che punisce da 1 anno e 6 mesi a 5 anni e con la multa fino a 15mila euro se i fatti sono commessi in occasione di una manifestazione. Pene aumentate di un terzo anche per chi usa violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o un’infrastruttura strategica. Se questa norma sarà approvata si prevede un boom di ingressi nelle case circondariali di Messina e Reggio Calabria. Nuove pene da 6 mesi a 2 anni per i blocchi stradali o ferroviari operati da più persone riunite mentre è prevista la reclusione fino a 1 mese o la multa fino a 300€ per i lupi solitari: ma chi volete che ci vada a fare un blocco stradale da solo? Allo stesso modo l’articolo 26 del DDL introduce la pena da 1 a 5 anni per chiunque partecipi a una rivolta all’interno di un istituto penitenziario. Al successivo art. 27 pene da 1 a 4 anni per chi commette gli stessi fatti all’interno di un Centro per il rimpatrio (CPR). Entrambe le norme puniscono, incredibilmente, anche le condotte di “resistenza passiva”. Se dalla sommossa derivano lesioni è previsto un crescendo di aggravanti che arriva fino a 15 anni per i partecipanti (18 per i promotori) ove nella rivolta si cagioni “come conseguenza non voluta” la morte di taluno. Quest’ultima previsione varrebbe da sola come emblema di tutte le aberrazioni sanzionatorie introdotte dal pacchetto. Il Governo del diritto penale simbolico e della propaganda dimostra ancora una volta di essere ben lungi dal risolvere l’emergenza carceraria. Anzi, questo DDL servirà solo a precipitare ulteriormente nell’abisso un sistema che andrebbe riformato dalle fondamenta, tradendo la finalità rieducativa e l’aspirazione alla dignità del reo prevista dalla Costituzione. Colloqui intimi in carcere: dopo 10 mesi, ancora disattesa la sentenza della Consulta di Stefano Anastasìa* Ristretti Orizzonti, 16 ottobre 2024 Per chi abbia fiducia nello stato di diritto è inconcepibile che una sentenza della Corte costituzionale non venga presa in considerazione da un’amministrazione pubblica dieci mesi dopo la sua pubblicazione. Così è per la sentenza n. 10 del 26 gennaio 2024, che ha giudicato illegittima la norma dell’ordinamento penitenziario che obbliga al controllo visivo sui colloqui dei detenuti e delle detenute con i propri partner: a dieci mesi dalla decisione della Corte, che io sappia alcun colloquio riservato è stato autorizzato. Laddove qualche direzione di carcere era pronta a farlo, è stata bloccata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in attesa degli esiti dei lavori di un misterioso gruppo di studio ministeriale, quando invece in alcuni istituti basterebbe oscurare le finestrelle sulle porte delle stanze dei colloqui con i gruppi familiari per consentire la riservatezza degli incontri. In questi giorni ho risposto a un reclamo collettivo di 102 detenuti della Casa circondariale di Viterbo, sollecitandone il direttore, nel rispetto della decisione della Corte, a disporre con proprio ordine di servizio le modalità di accesso dei detenuti ai colloqui riservati. Una raccomandazione di analogo tenore nel settembre scorso avevamo indirizzato, con la collega di Roma Capitale, Valentina Calderone, alla direttrice della Casa di reclusione di Rebibbia, a seguito del reclamo collettivo di altri 55 detenuti. Non so se al Dap viga ancora l’interdetto dei più retrivi sindacati di polizia penitenziaria che nel 2018 impedì al ministro Orlando di anticipare il pronunciamento della Corte costituzionale. Certo è che dopo di esso, le cose non restano uguali a sé stesse: dopo aver proposto reclamo ai garanti i detenuti potranno rivolgersi ai magistrati e ai tribunali di sorveglianza, fino ad arrivare alla Corte europea dei diritti umani, e noi saremo con loro. ----- È la seconda volta dunque che il Garante regionale interviene. Questa volta, i 102 detenuti reclamanti hanno rappresentato al Garante, di aver “presentato, singolarmente, in data 2 giugno 2024, alla direzione della C.C. di Viterbo, istanza per l’attuazione della sentenza della Corte costituzionale 10/2024 del 26 gennaio 2024 ed essendo trascorsi più di 90 giorni senza ricevere alcuna risposta in merito da parte della direzione della suddetta Casa circondariale, unitamente denunciano la mancata operatività della sentenza della Corte costituzionale 10/2024”, chiedendo altresì di “avere notizie e date certe di attuazione della legittima richiesta”. Di qui la missiva del Garante Anastasìa il quale “ritiene che l’attuazione della sentenza della Corte costituzionale non sia procrastinabile e che di conseguenza il quesito dei reclamanti riguardo al quando della sua attuazione sia assorbito dalla vigenza normativa di quanto da essa disposto, che configura un obbligo di garanzia in capo all’Amministrazione penitenziaria”. Pertanto, il Garante “raccomanda alla direzione della Casa circondariale di Viterbo l’immediata individuazione di spazi idonei all’effettuazione del colloquio senza controllo visivo e - in assenza di determinazioni ministeriali - la definizione con proprio ordine di servizio della regolamentazione dell’accesso al nuovo istituto, tenuto conto di quanto stabilito dalla Corte costituzionale nei punti 6 e seguenti delle considerazioni in diritto della sentenza 10/2024 e della necessità di garantire a tutti gli aventi diritto la sua fruizione in maniera omogenea quanto ai tempi e alla frequenza dei colloqui di che trattasi”. *Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio “Più minori in carcere dopo il decreto Caivano”. Dal 2022 +48% di Mirko Labriola Corriere del Mezzogiorno, 16 ottobre 2024 I dati diffusi dal Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. A ottobre 2022, nel momento in cui si insedia l’attuale Governo, le carceri minorili ospitavano 392 persone, numero in linea con il dato immediatamente precedente la pandemia. Al 15 settembre 2024 erano 569. In ventidue mesi i giovani detenuti sono cresciuti del 48%. Un’impennata senza precedenti e che non trova alcun fondamento in un parallelo aumento della criminalità minorile, che è anzi in calo da diversi anni. Sono alcuni dati diffusi da Samuele Ciambriello, Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale nel convegno “Minori: Mare dentro, male fuori” nella sala del Consiglio regionale. “Con il Decreto Caivano sono aumentati i detenuti minori stranieri non accompagnati e i detenuti italiani”, è il commento di Ciambriello. Che spiega: “Se negli undici mesi che vanno dall’ ottobre 2022 al settembre 2023, quando è entrato in vigore il Decreto Caivano, le presenze in istituti di pena minorili sono aumentate di 59 unità, nei successivi undici mesi, da quando dunque il Decreto è in vigore, l’aumento è stato di 129 presenze, ovvero più del doppio. Ne consegue il sovraffollamento, fenomeno comune per gli adulti ma del tutto nuovo per i minori. Dei 17 Imp italiani, ben 12 ospitano più persone di quelle che dovrebbero”. “I bisogni dei minorenni - ha aggiunto Ciambriello - sono specifici e diversi da quelli degli adulti; il ricorso a misure di privazione della libertà dovrebbe essere ammessa solo come extrema ratio, ossia quando tutte le soluzioni alternative non sono percorribili o si sono rivelate fallimentari. Quando il carcere si impone come ultima risorsa, bisognerebbe tenere presente l’obiettivo ultimo: il reinserimento del minore all’interno della società e la sua riabilitazione”. I lavori sono stati aperti dai saluti del presidente del Consiglio regionale, Gennaro Oliviero, secondo cui “questa materia dà la possibilità all’intero Consiglio regionale di poter esprimersi su temi che diversamente resterebbero marginali”. Il convegno, organizzato d’intesa con la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà e l’Ordine degli Assistenti Sociali della Campania, ha visto alternarsi, nella prima parte della giornata, interventi della presidente dell’Ordine degli Assistenti Sociali Gilda Panico, del membro del Coordinamento della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali Bruno Mellano, il Capo dipartimento di giustizia minorile e di comunità Antonio Sangermano e magistrati: Margherita Di Giglio, Piero Avallone e Maria De Luzenberger. Inoltre, don Tonino Palmese presidente della Fondazione Polis, Silvia Ricciardi presidente Associazione Jonathan, e la docente universitaria Lucia Risicato. Carceri minorili pieni, ma 7 detenuti su 10 tornano a delinquere. Antidoto: educazione e istruzione di Alvaro Belardinelli tecnicadellascuola.it, 16 ottobre 2024 In Italia un minorenne violento, pieno di rabbia e rancore, che abbia commesso piccoli reati o sia rimasto impigliato nella rete delle droghe leggere e accusato di spaccio, facilmente finisce in un carcere minorile. È giusto trattarlo da belva feroce? È questo il modo corretto per “curare” la sua tendenza a delinquere? No di certo: nella maggioranza dei casi - anche grazie alle mafie, “agenzie educative” saldamente radicate nel nostro Paese - il carcere minorile è solo il primo gradino di una truculenta carriera sulla via del crimine, spesso destinata a terminare col carcere a vita o con la morte violenta. La media nazionale di recidiva nel commettere nuovi reati dopo il carcere minorile è poco al di sotto del 70%. E i minori detenuti aumentano ogni anno di più. I pesanti problemi di un carcere “modello” - Non mancano casi virtuosi, come quello di Bollate, dove il tasso di recidiva è al 17%. Ciò accade ove si rispettino le leggi italiane sugli Istituti Penali per i Minorenni (IPM): leggi - almeno sulla carta - tra le migliori del mondo. Malgrado ciò, persino l’IPM “modello” di Bollate - dove i detenuti possono lavorare e studiare, uscendo di cella - la situazione è difficilissima: suicidi, sovraffollamento, aggressioni, atti di autolesionismo. Non mancano neanche lì i problemi strutturali, né il sovraffollamento, che contribuiscono entrambi al malessere dei giovanissimi carcerati. Le buone intenzioni - Sul sito web del Ministero della Giustizia si legge: “Negli IPM vengono garantiti i diritti soggettivi a un’armonica crescita psico-fisica, allo studio, alla salute, con particolare riguardo alla non interruzione dei processi educativi in atto e al mantenimento dei legami con le figure significative. In accordo con la normativa vigente e al fine di attivare processi di responsabilizzazione e maturazione dei minorenni, vengono organizzate attività scolastiche, di formazione professionale, di animazione culturale, sportiva, ricreativa e teatrale. Le attività trattamentali sono organizzate in sinergia con la scuola, la formazione professionale e il mondo del lavoro, per massimizzare l’offerta di percorsi educativi”. Sulla via dell’inferno - Non si comprende, allora, come siano possibili i tanti abusi e violenze (e rivolte) che la cronaca registra all’interno degli IPM qua e là per l’Italia: come al “Beccaria” di Milano, considerato istituto modello prima dei ripetuti episodi recenti di evasione e di ribellione violenta dei giovani detenuti (l’ultima poco più di un mese fa), ove sono state raccolte le prove di pestaggi e violenze d’ogni tipo perpetrate nei confronti persino di detenuti quindicenni. “Tutto il sistema delle carceri minorili si basa sulla violenza”, titola l’Espresso il 15 maggio 2024. Una realtà tale da convincere i minori detenuti che la sofferenza faccia parte della pena. Beccaria: nessun delitto può esser punito con un’ingiustizia - Cesare Beccaria, cui per ironia della sorte l’IPM di Milano è intitolato, fu tra i primi (nel 1764) a negare che lo Stato abbia il diritto di commettere delitti per punire chi si macchi di delitti. Infatti, 184 anni dopo, l’art. 27 comma 3 della Costituzione prescrive: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La risposta a chi delinque deve essere educativa. Anche perché ai minori che delinquono sono spesso mancati esempi positivi in famiglia, ed è lo Stato a dover proporre quei modelli positivi, che solo la democrazia - se è veramente tale - può fornire. Questo è il significato del compito assegnato alla Repubblica dalla Costituzione (art. 3): “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Il “pieno sviluppo della persona umana” si raggiunge educandola, ossia aiutandola a far scaturire il meglio di sé, del proprio intelletto, dei propri talenti. “Decreto Caivano”: inasprire le pene fa diminuire i delitti? - Eppure la risposta del Governo allo stupro di gruppo nei confronti di due bambine (verificatosi per mesi a Caivano ad opera di 15 adolescenti e scoperto nell’agosto 2023) è stato il “decreto Caivano”: ossia quel D.L. 123/2023 che inasprisce tutte le pene per i reati dei minori, nella ostinata illusione di limitare i reati con la deterrenza della pena; mentre invece tutti i dati dimostrano che i delitti sono più frequenti proprio laddove le leggi sono più dure. In dieci nazioni su undici che hanno abrogato la pena capitale, invece, gli omicidi sono diminuiti: Serbia, Albania, Polonia, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Ucraina, Azerbaijan, Kirghizistan e Sudafrica. Gandhi: “Occhio per occhio rende il mondo cieco” - Sangue chiama sangue, violenza genera violenza. Ma soprattutto, uno Stato che si autodefinisca democratico non può ergersi a giudice, se è esso stesso maestro e gestore dell’ingiustizia. Solo l’esempio cambia le persone. Un esempio che, se manca il modello familiare, può esser fornito dalla Scuola: purché Scuola democratica, ove i valori costituzionali siano vissuti, respirati e messi in pratica; a cominciare dalla libertà dei docenti nel decidere autonomamente i percorsi didattici, senza pedagogie di Stato ispirate a modelli aziendalistici o ad altre ideologie o religioni. Solo l’esempio di una comunità educante, basata sul rispetto reciproco e sul pluralismo delle idee e delle prassi, può rieducare chi ha respirato fin da piccolo tossici disvalori fondati su violenza, sopraffazione, angoscia, paura, rabbia, consumismo, disprezzo per il debole. Istruzione e cultura - come già Beccaria scriveva 260 anni or sono - possono far rinascere il rispetto per la libertà altrui e per la propria (e altrui) umana dignità. Il Consiglio d’Europa: “L’uso dell’intelligenza artificiale nelle carceri rispetti i diritti dei detenuti” ansa.it, 16 ottobre 2024 Adottata la raccomandazione. Invito a un utilizzo “legittimo e proporzionato”. Garantire che l’uso dell’intelligenza artificiale da parte dei servizi penitenziari e di libertà vigilata rispetti i diritti umani e la dignità dei detenuti, dei soggetti in libertà vigilata e del personale. Questo l’obiettivo della raccomandazione ai suoi 46 Stati membri adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. In particolare, i governi sono invitati a garantire che i servizi carcerari e di libertà vigilata usino le tecnologie in modo legittimo e proporzionato e solo se contribuiscono alla riabilitazione degli autori di reato. Le tecnologie non devono sostituire il personale penitenziario e di sorveglianza nel lavoro quotidiano e nell’interazione con gli autori di reato, ma piuttosto assisterlo in tale lavoro e aiutare il sistema penale, in particolare nell’esecuzione delle sanzioni e delle misure penali, migliorando la riabilitazione e riducendo la recidiva. Il testo si sofferma anche sugli aspetti etici e organizzativi dell’utilizzo dell’Ia nelle carceri, sottolineando che tutti i processi relativi a progettazione, sviluppo, fornitura, uso e dismissione dell’Ia usata dai servizi penitenziari devono essere trasparenti e conformi agli standard giuridici nazionali e internazionali. L’Ia, si osserva, può contribuire a mantenere la sicurezza nelle carceri, ma il suo utilizzo deve essere strettamente necessario ed evitare effetti negativi sulla privacy e sul benessere dei detenuti e del personale. Il documento sottolinea inoltre che, quando si utilizza l’Ia per assistere il processo decisionale, i servizi penitenziari e di libertà vigilata devono adottare misure per evitare pregiudizi nei confronti di individui o gruppi di individui e prevenire la discriminazione. Tutte le decisioni basate sull’uso dell’Ia con un potenziale impatto sui diritti umani dovrebbero essere soggette a revisione umana e a meccanismi di reclamo efficaci. Per quanto riguarda la protezione dei dati e il diritto alla privacy, l’Ia dovrebbe essere limitata allo stretto necessario, garantendo la riservatezza e l’integrità dei dati personali. L’Ia e le relative tecnologie digitali possono aiutare i professionisti a reintegrare gli autori di reato nella società, ma le relazioni umane devono rimanere un elemento centrale della riabilitazione. Di conseguenza, l’Ia dovrebbe integrare e non sostituire le interazioni faccia a faccia - con operatori sanitari, avvocati, assistenti sociali, altri professionisti e famiglie - figure essenziali per una riabilitazione efficace. La raccomandazione, infine, sottolinea che l’Ia può anche migliorare il reclutamento, la gestione e la formazione del personale penitenziario che d’altra parte vede riconosciuto il suo diritto di essere informato sulle ragioni delle decisioni e di richiedere una revisione umana, se necessario. Turrini Vita ai deputati: “Io Garante dei detenuti? Tutto ok, ho già lasciato il Dap” di Valentina Stella Il Dubbio, 16 ottobre 2024 Audizione informale ieri in commissione Giustizia della Camera di Riccardo Turrini Vita, nell’ambito dell’esame della proposta di nomina a presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, in particolare sull’accertamento dei requisiti posseduti. Il problema sollevato dalle opposizioni nei giorni scorsi era che ci fosse una “palese incompatibilità che rende fuorilegge” la nomina. Aveva scritto il Partito democratico in un comunicato: “La legge che istituisce la figura del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale è molto chiara. Essa prevede che i membri siano scelti tra persone che non sono dipendenti delle pubbliche amministrazioni e che garantiscano indipendenza e competenza nelle discipline relative ai diritti umani”. Su questo Turrini, sollecitato dalle domande dei commissari, ha replicato: “Io mi sono dimesso il 3 ottobre” dalle funzioni di vicecapo del Dipartimento di Giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia, “ovviamente non esercito funzioni di vicecapo” al momento e “non rientrerò in servizio perché quando sarà terminato il mandato non avrò più l’età per essere impiegato”. Alla domanda se, dopo le dimissioni formali, ha avuto una risposta altrettanto formale ha risposto: “Non ho questo riscontro, suppongo che deriva dalla claudicante situazione della direzione generale del personale, ma dovrà essere emanato questo atto e semmai mi farò carico di sollecitarlo”. Dal giorno delle sue dimissioni ha continuato “passo in ufficio a prendere le carte che devo portare via, a chiudere fascicoli, rispondere a email, non faccio certamente attività istituzionale, sarebbero atti nulli forse addirittura in violazione di legge”. Tuttavia la risposta ha sollevato le critiche della responsabile nazionale giustizia del Pd, Debora Serracchiani, e del capogruppo della Commissione, Federico Gianassi: “La legge prevede che vengano scelti tra persone non dipendenti della Pubblica Amministrazione, tuttavia se le dimissioni ancora non sono state accettate al momento dell’indicazione allora c’è un problema”. Inoltre i dem, oltre ad una incompatibilità formale, ne hanno segnalato anche una “sostanziale, o meglio una inopportunità sul piano della indipendenza della figura che va a ricoprire quel ruolo. Per anni Riccardo Turrini Vita, avendo lavorato al Dap e avendo fatto formazione degli agenti penitenziari, ha indossato la maglia della squadra opposta a quella che di solito indossa il Garante”. Ma il magistrato ha replicato: “In merito all’interpretazione in ordine alle questioni sullo status di “non dipendente” io credo che lo status debba essere presente nel momento in cui il decreto del presidente della Repubblica viene emanato. Questo quantomeno è quanto mi è stato significato dalla presidenza del Consiglio. Una cosa è sicura: io non rientrerò in servizio se questa onorevole commissione ritenga sia opportuno designare altri alla presidenza”. Sulla questione della indipendenza ha aggiunto: “Sono nato magistrato, sono stato funzionario del ministero, non sono mai stato iscritto a partiti politici, né ad associazioni vicine ad essi. L’unica mia iscrizione è stata all’Anm”. Inoltre “Il vice capo Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità come tutti i vice non esercita funzioni se non in caso di supplenza. Io poi sono stato lì soprattutto per aiutare a riordinare il Dipartimento. Non ho mai fatto accessi a istituti penali minorili, tanto per dire. Peraltro io sono soprattutto noto per essere un esperto dell’esecuzione penale esterna”. Qualora la sua nomina andasse in porto ha rassicurato: “non la penso completamente con il professor Palma che per lungo tempo ha ricoperto quel ruolo, ma di certo non sono un eversivo. Nella materia assegnata al Garante ho qualche difficoltà a immaginare che qualcuno abbia un contrasto di interesse: si tratta di prevenire violazioni, anche gravi, dei diritti umani”. Soddisfatto delle risposte Devis Dori di Alleanza Verdi e sinistra: “Se è vero che sulle competenze nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani non ha propriamente risposto, mi pare che il resto l’audizione sia stata soddisfacente: è un magistrato, e ha detto di non aver mai avuto prossimità con la politica, quindi mi pare sufficiente così” Dimissioni sospese per Turrini, il nuovo Garante dei detenuti di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 ottobre 2024 Presentate il 3 ottobre ma mai accettate, l’ex toga è ancora vicecapo della giustizia minorile. I deputati del Pd: “Incompatibile nella forma, perché quando è stato scelto era ancora dipendente del ministero di Giustizia, e nella sostanza per l’ambiguità dei ruoli”. “Incompatibile nella forma e nel merito”, la nomina a Garante nazionale dei diritti dei detenuti dell’ex magistrato Riccardo Turrini Vita, ancora di fatto alle dipendenze del ministero della Giustizia. Ne sono convinti i partiti di opposizione, a partire dal Pd, malgrado abbiano appreso dal diretto interessato, audito ieri in commissione Giustizia della Camera nell’ambito dell’iter di approvazione della nomina, che Turrini Vita ha rassegnato le proprie dimissioni da vice capo del Dipartimento di giustizia minorile e di comunità il 3 ottobre scorso. Lo hanno interrogato più volte, i deputati dem, pentastellati e di Avs che avevano il compito di verificarne titoli e competenze, come prescrive la legge 10 che nel 2014 ha istituito il collegio nazionale, composto di tre persone “non dipendenti delle pubbliche amministrazioni, che assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani” e che “non possono ricoprire cariche istituzionali, anche elettive, ovvero incarichi in partiti politici”. Persona sulla quale in molti metterebbero la mano sul fuoco, in quanto a competenze, integrità, senso delle istituzioni e onestà, Turrini Vita, per vent’anni pure dirigente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha però dimostrato anche ieri, in commissione Giustizia, che la sua nomina è intrinsecamente gravida di rischi. Come hanno sottolineato Debora Serracchiani, responsabile Giustizia del Pd, e il capogruppo dem in commissione Federico Gianassi: “Nella forma, perché al momento della scelta il dott. Turrini Vita era vicecapo del Dgmc, mentre la caratteristica fondamentale di un Garante dei detenuti deve essere quella di una netta indipendenza dalla struttura di controllo, senza ambiguità e confusione di ruoli”, hanno spiegato. E “nella sostanza, cosa ancora più grave”, perché “finora è stato a tutti gli effetti dall’altra parte del campo. Non discutiamo curriculum e competenze - è la posizione del Pd - ma la legge voleva evitare che fosse chiamato a svolgere funzioni di garanzie e controllo chi ha rapporti organici con l’autorità che esercita il potere, non voleva dunque che controllore e controllato coincidessero”. “Non sono mai stato iscritto a partiti politici né ad associazioni o affini - ha risposto al deputato di Avs Dori Devis, Turrini Vita - solo all’Anm. E non ho mai avuto cariche istituzionali”. Ma le sue dimissioni, rassegnate il 3 ottobre, non sono state ancora accettate dal ministero che da quel giorno non ha dato segni di risposta. Di fatto sono dimissioni mai formalizzate. “Suppongo che derivi dalla claudicante condizione dell’ufficio del personale”, è l’idea che si è fatto l’ex toga “in attesa di pensione”. Nel frattempo però il vice capo del Dgmc passa ancora ogni giorno “in ufficio a prendere le carte e a chiudere i fascicoli aperti”, ha raccontato, senza però adempiere ad alcuna “attività istituzionale”. “Il personale viene ogni tanto a consultarsi con me”: questo è tutto, dice. Ma non è poco. Non c’è alcun motivo di dubitare della veridicità delle parole di Turrini Vita: “Non sono certo persona che si insinua nelle istituzioni per compiere atti di eversione”. Ed è vero che “il vice capo del Dgmc non esercita funzioni dirigenziali, se non in caso di supplenza”. In più, aggiunge lui, “io sono esperto di esecuzione penale esterna” e nel mio ruolo “ho anche irrorato sanzioni disciplinari ad agenti di polizia penitenziaria”. Vicino alla corrente di destra Magistratura indipendente, Turrini afferma, al contrario dei deputati dell’opposizione, che lo status di “non dipendente dalla Pubblica amministrazione” imposto dalla legge “deve essere presente nel momento in cui il decreto del presidente della Repubblica viene emanato”. Quindi alla fine dell’iter iniziato il 2 ottobre con la delibera del Cdm che ha accolto la proposta del ministro Nordio per sostituire il defunto Felice D’Ettore a capo del collegio nazionale. Non convinti, i deputati dem hanno espresso “forte preoccupazione” perché “di fronte ad un sistema carcerario al collasso, con un sovraffollamento medio del 135%, vicino al numero della famosa sentenza Torreggiani, e condizioni di vita e di lavoro non dignitose, come testimoniano i 75 suicidi tra i detenuti e i 7 tra gli agenti di polizia penitenziaria”, occorre da parte del governo “un supplemento di riflessione”. Con un aplomb invidiabile, il magistrato non si scompone: classe 1961 e dunque in odor di pensione, Turrini assicura di voler condurre l’ufficio dell’autorità garante in modo “collegiale”, d’intesa con gli altri due membri (l’avvocata leghista Irma Conti e il giurista Mario Serio indicato dal M5S), “senza pregiudizi” e “proseguendo nel solco di quanto già intrapreso dal primo garante nazionale Mauro Palma, che conosco dal 1997”. “Comunque - assicura Turrini a fine audizione - anche se non dovessi essere nominato, non rientrerò in servizio al ministero della Giustizia”. Grazie Nordio (quello di allora) di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 16 ottobre 2024 L’attuale ministro della Giustizia, Carlo Nordio, quando era pubblico ministero era assai più aperto di oggi, tanto più sulle intercettazioni da secretare e “riassumere”. “Tutto sommato i cittadini hanno il diritto di essere informati”. Lo scriveva nel 1977 l’attuale ministro della giustizia Carlo Nordio. E la citazione è finita nel libro Informazione e giustizia, edito dall’Ordine dei giornalisti, preoccupato dalla piega che stanno via via prendendo gli interventi legislativi (non solo col governo Meloni che ha dato solo un’accelerazione) nei confronti del diritto-dovere di giornali e mass media di dare le notizie. Rifiutando un’idea che piacerebbe forse a tutti i governi ma che fu espressa con brutale chiarezza da Gaetano Polverelli, il “portavoce” del Duce, autore di una famosa direttiva alla stampa del ‘31: “Improntare il giornale a ottimismo, fiducia e sicurezza nell’avvenire. Eliminare le notizie allarmistiche, pessimistiche, catastrofiche e deprimenti”. Traduzione della “smobilitazione della cronaca nera” invocata in una circolare del 1928. E realizzata poi in una direttiva del 1933: “Lo spazio di 30 righe è quello che appare sufficiente perché i giornali possano dare sommaria notizia di un avvenimento del genere...”. Perché “annoiare” i lettori coi resoconti dettagliati di certe malefatte soprattutto se tirano in ballo quelli che Luigi Einaudi aveva bollato nel 1919 come “padreterni”? Poche righe e via. Tutto va bene, madama la marchesa. Il “vecchio” Nordio, da pm, era assai più aperto di oggi, tanto più sulle intercettazioni da secretare e “riassumere”. Scriveva infatti nel libro “Giustizia” del 1977 che le fughe di notizie erano in fondo “peccati veniali”: “Se la legge consentisse la diffusione delle notizie attraverso un addetto stampa e con comunicati ufficiali, essi (i giornalisti, ndr) avrebbero il materiale dove lavorare, modellandovi i commenti che credono. Invece la riconosciuta ipocrisia del sistema, impedendo formalmente la divulgazione degli atti, consente di fatto l’arbitrarietà delle illazioni più fantasiose”. E proseguiva, bacchettando amabile la vanità di conferenze stampa di poliziotti e carabinieri con tanto di magistrati presenti dopo qualche arresto: “Ma che accadrebbe se i cittadini non vedessero mai i risultati delle forze dell’ordine, o li vedessero soltanto dopo parecchi anni, durante la celebrazione del dibattimento?” Del resto, spiegava, “queste fughe di notizie raramente compromettono le indagini. Si tratta generalmente di circostanze già note agli interessati, di cui, tutto sommato, i cittadini hanno il diritto di essere informati”. Purché siano accompagnate, ovvio, “dalla doverosa precisazione che la presunzione di innocenza vale per tutti”. Grazie Nordio. (Quello di allora). Il brutto melodramma sulla Consulta di Andrea Pugiotto L’Unità, 16 ottobre 2024 L’ottava fumata nera è stato un brutto spettacolo d’arte varia. Ma in gioco c’è la salute della nostra democrazia. Tocca ai gruppi parlamentari, anche d’opposizione, ritrovare autonomia e prendere iniziativa. 1. Lo spettacolo d’arte varia andato in scena a Montecitorio, con l’ottava fumata nera per l’elezione del quindicesimo giudice costituzionale, è stato deludente. Una recita a soggetto in cui tutti gli attori si sono mostrati inadeguati ai ruoli chiamati a interpretare. Ne è uscito un melodramma parlamentare, utile soltanto a muovere il segnapunti a favore delle opposizioni e contro la maggioranza. Come se, in gioco, ci fosse esclusivamente la tigna della Presidente del Consiglio, impegnata in prove tecniche di premierato. Ma non era certo per mettere in scacco il governo di turno che Marco Pannella spingeva i suoi digiuni al limite estremo dello sciopero della sete, pur di ottenere la ricostituzione del plenum della Consulta. Qual è, allora, la reale posta in palio? 2. Democrazia costituzionale non è sinonimo di assolutismo democratico. Citando il Presidente Mattarella (non a caso, nella sua vita pregressa, costituzionalista e giudice costituzionale): “una democrazia della maggioranza sarebbe, per definizione, una insanabile contraddizione”. Traduco? I limiti al potere della maggioranza parlamentare stanno dentro e non fuori il disegno di una democrazia costituzionale, il cui fine è garantire il pluralismo impedendo a chi vince le elezioni di prendersi tutto, senza fare prigionieri. La Corte costituzionale è, tra questi meccanismi contromaggioritari, uno dei più strategici. Giudica sulla legittimità delle leggi, cancellandole o correggendole se incostituzionali. Presidia i confini tra i poteri dello Stato, garantendone la separazione e incentivandone la leale collaborazione. Altrettanto fa risolvendo i conflitti tra Stato e Regioni. Dà o toglie dalle mani degli elettori la scheda referendaria. È giudice del Capo dello Stato accusato di alto tradimento costituzionale. C’è dell’altro. La questione di costituzionalità e il referendum rappresentano canali alternativi alla via parlamentare, per condurre battaglie di scopo che le Camere ignorano e il Governo osteggia. È grazie a decisioni della Consulta se, in questi anni, qualcosa è cambiato - ad esempio - in materia di fecondazione assistita, diritto di voto, fine vita, condizione carceraria, proporzionalità delle pene, libera concorrenza. Analogamente, è stata la Consulta a bocciare - da ultimi - quesiti referendari in tema di eutanasia e cannabis legali, così precludendo il voto popolare su leggi di sicura rilevanza politica. Come un semaforo, ora verde ora rosso, la decisione dei giudici costituzionali incide sullo scorrimento dell’indirizzo politico dei governi e delle loro maggioranze. E così sarà anche nei mesi a venire. Ricorsi regionali e referendum contro l’autonomia differenziata; quesiti abrogativi in materia di lavoro e di cittadinanza; abrogazione del reato di abuso d’ufficio; normativa sulle navi Ong operanti nel Mediterraneo: sono solo alcuni dei nodi che la Corte costituzionale dovrà sciogliere a breve. E dovrà farlo in un contesto politico che il suo Presidente Barbera descrive come “un bipolarismo rusticano, pronto al duello all’ultimo sangue” in cui prevale “la tentazione della delegittimazione e della demonizzazione reciproche”. 3. Ci sono tre modi per disinnescare una Corte costituzionale che svolga, come deve, il suo ruolo di veto player. Il primo è ignorarne i giudicati sgraditi e, prima ancora, i moniti al legislatore affinché intervenga a rimuovere le criticità costituzionali di norme in vigore: facendola così girare a vuoto. Il secondo consiste nell’approvare leggi che solleticano un facile consenso elettorale ma palesemente incostituzionali, per poi criticare la Consulta quando interverrà a cancellarle, contrapponendo la volontà popolare a quella elitaria di quindici giudici privi di legittimazione democratica: così delegittimandoli. Su queste due strade, non da ora, ci si è spinti pericolosamente in avanti. Volendo esemplificare: cos’è rimasto della copiosa giurisprudenza contro gli abusi della decretazione d’urgenza? Quale seguito hanno avuto le decisioni in tema di suicidio medicalmente assistito? E la sentenza che riconosce ai detenuti il diritto all’affettività inframuraria? Davvero è conforme alle indicazioni della Consulta la riforma dell’ergastolo ostativo introdotta con il primo decreto legge della legislatura? Veramente la maggioranza non ha contezza dell’irragionevolezza di molti dei nuovi reati e dello sproporzionato inasprimento di molte delle pene che s’intende introdurre con il cd. pacchetto sicurezza (AS n. 1236)? Ora, però, Palazzo Chigi fa leva anche su una terza leva: imporre i “suoi” giudici nel collegio costituzionale, applicando a un organo di garanzia la logica tutta politica di un improprio spoil system. Ci ha provato, invano, giorni fa. Ci riproverà a dicembre, con maggiore accortezza e spirito di rivalsa, quando saliranno a quattro i giudici costituzionali di elezione parlamentare. E se un unico giudice non esercita alcuna egemonia in un collegio di quindici, già quattro sarebbero in grado di spostarne il baricentro. Anche solo in chiave interdittiva, magari agevolata in futuro da una mirata revisione normativa nei protocolli di voto della Consulta: chi, infatti, può escludere l’introduzione dell’obbligo di una maggioranza qualificata perché possa deliberare una decisione d’incostituzionalità? Impossibile, si dirà. Ma impossibile si dice di una cosa fino a che non si realizza, com’è già accaduto in altri ordinamenti (cfr. Mauro Arturo Rivera León, Supermajorities in Constitutional Courts, Routledge, 2024). 4. A questo assalto alla composizione della Consulta, la risposta delle opposizioni è stata propagandistica. Mimando una scelta aventiniana a presidio della democrazia in pericolo, hanno disertato l’aula per evitare l’indicibile: cioè che proprio dalle loro fila arrivassero i pochi voti necessari alla maggioranza per raggiungere il quorum richiesto. Va da sé in cambio di qualcosa, negoziata riservatamente su altri tavoli. Come se il nome di un giudice costituzionale potesse essere oggetto di baratto. Double face è stato anche il comportamento della maggioranza parlamentare. Decidendo di votare scheda bianca, dichiaratamente in ossequio alle istituzioni, in realtà ha inteso evitare il rischio di franchi tiratori contro il candidato prescelto e - per interposta persona - contro l’atteggiamento padronale di una premier che impone il chi, il come e il quando. Dietro la vetrina parlamentare si intravede così un retrobottega dove alligna la comune volontà di arrivare con un nulla di fatto al 21 dicembre, quando il poker di giudici da eleggere agevolerà la spartizione dei nominati. Ma, per la Costituzione, ““spartire” e “condividere” sono due verbi molto diversi” (Donatella Stasio, La Stampa, 9 ottobre). La logica “a pacchetto” farà anche gola a entrambi gli schieramenti. Ma non è la logica né degli alti quorum costituzionali necessari alla scelta del giudice mancante, né del tempo indicato dalla legge per la sua elezione: un mese dalla cessazione della carica (qui, invece ne sono già inutilmente trascorsi più di dieci). 5. Servirebbe un sussulto di autonomia politica dell’organo titolare del potere di scegliere il giudice mancante, che la Costituzione non assegna al Governo, al suo Capo o ai vertici dei partiti, ma al Parlamento in seduta comune. Tocca, allora, ai gruppi parlamentari - anche di opposizione prendere l’iniziativa. Propongano una candidatura non di bandiera, bensì riconosciuta dai più come “meritevole per cultura giuridica, esperienza, stima e prestigio, di assumere quell’ufficio così rilevante” (per citare ancora il Capo dello Stato). Inizino a tessere attorno a quel nome la tela del consenso bipartisan. Lo votino, trasversalmente. Scrutinio dopo scrutinio, la candidatura potrà imporsi, a dispetto degli appetiti reciproci. Impossibile? In realtà, è già accaduto nell’ultima elezione al Quirinale. L’impossibile, infatti, non è mai tale; solo richiede un di più di tenacia, di volontà politica e di dignità istituzionale. “Sanzioni vere per chi pubblica atti dei gip”. Centrodestra e Italia viva votano la stretta di Errico Novi Il Dubbio, 16 ottobre 2024 C’è un’espressione chiave: “Effettività del divieto”. Compare nel parere sulla “legge Costa” approvato ieri, in forma identica, dalle due commissioni Giustizia, alla Camera e al Senato. L’espressione, per intenderci, è riferita alla “pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”, reato “fantasma” attualmente previsto all’articolo 684 del codice e che punisce (o dovrebbe punire) chi infrange, tra l’altro, il precetto reintrodotto (esisteva già, fino al 2017) su iniziativa del deputato Enrico Costa. La norma, secondo il documento votato ieri da centrodestra e Italia viva, dovrebbe essere ampliata, andrebbe cioè “ripensato” il “sistema sanzionatorio” in modo da costituire “un ragionevole argine alla sistematica violazione” del divieto. Una misura contestata come un “bavaglio” dalle rappresentanze dei giornalisti e da buona parte dell’opposizione. In base al provvedimento già introdotto all’articolo 4 della “legge di delegazione europea 2022- 2023” (la legge 15/ 2024) e che il decreto legislativo sottoposto dal governo alle Camere dovrà attuare, il giornalista non può riportare in modo letterale le ordinanze di custodia cautelare, né in versione integrale né per “estratto”. Resterebbe intatto, secondo la controversa disciplina, il diritto del cronista a informare i cittadini sugli sviluppi di un’indagine, a condizione, appunto, di non citare in modo testuale gli atti dei gip. Il parere approvato nelle commissioni Giustizia di Montecitorio e Palazzo Madama, dunque, non solo è “favorevole” al divieto, ma chiede “ulteriori interventi correttivi in punto di correlato presidio sanzionatorio”. L’articolo 684 del codice penale prevede una “ammenda da euro 51 a euro 258” per chi riporta atti di cui è vietata la “pubblicazione”. Si tratta di un’oblazione, il cui adempimento cancella il reato dal casellario giudiziario del giornalista: sanzione che, per il documento approvato a maggioranza, è “irrisoria”. Di certo si tratta di un reato impalpabile: oggi non esistono pm che si sognino di contestarlo, vista la sproporzione tra il dispendio di energie richieste dall’apertura di un’indagine e le conseguenze penali che, in un quadro simile, ne potrebbero scaturire. Ma il Pd è contrario a qualsiasi inasprimento: “Altro che garantismo: qui c’è solo un attacco a ogni forma di controllo e di contropotere democratici tipici dei sistemi liberali”, si legge nel comunicato diffuso dai senatori dem in Seconda commissione, vale a dire Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli, Anna Rossomando e Walter Verini. A dire il vero, però, il “contropotere” in questione sembra casomai costituito da Procure e Polizia giudiziaria che, attraverso la imperturbabile violazione del segreto investigativo, trasferiscono notizie alla stampa ben prima che si arrivi all’ordinanza di arresto. È così che pm e investigatori innescano “distorsioni delle regole del processo” e pregiudicano una “decisione effettivamente terza” da parte del giudice, come ribatte Sergio Rastrelli di FdI, relatore del parere al Senato. Ed è così che si massacrano dignità e reputazione di presunti innocenti, i quali spesso risultano effettivamente innocenti alla fine del processo. Certo la questione resta complicata. Il parere votato ieri non vincola il Consiglio dei ministri, a cui compete emanare in via definitiva il decreto legislativo attuativo della “legge Costa”. Vero è che il documento della maggioranza, appoggiato come detto dai renziani in entrambe le commissioni Giustizia, è stato elaborato dai due relatori anche d’intesa col ministero della Giustizia. E va segnalato come anche alla Camera ad assumere le vesti di relatore sia stato un parlamentare di Fratelli d’Italia, Andrea Pellicini. Tra i suggerimenti dati al governo c’è l’invito a inquadrare in una analoga cornice tutte le ordinanze cautelari: non solo quelle che dispongono la detenzione in carcere o ai domiciliari ma anche, per esempio, gli atti con cui i gip ordinano sequestri di beni o impongono divieti di avvicinamento, come per le violenze in famiglia. Va anche segnalato che, insieme con l’innalzamento delle sanzioni pecuniarie (non “quantizzato” nel parere delle due commissioni), si sollecita l’esclusione, dall’articolo 684 del codice penale, dell’arresto (attualmente stabilito in 30 giorni). Costa, che aveva proposto l’emendamento sul divieto di pubblicazione testuale delle ordinanze, replica a propria volta alle critiche, rilanciate anche da Ilaria Cucchi di Avs: “È una norma a garanzia della presunzione di innocenza, e chi la descrive come un bavaglio mente in modo sfacciato, perché le informazioni sul contenuto degli atti giudiziari non sono minimamente intaccate”. Nel parere c’è l’ipotesi di intervenire anche attraverso la modifica del decreto legislativo 231 sulla responsabilità di enti e imprese: in tal modo si punirebbe non il giornalista ma l’editore per l’ingiusto profitto ottenuto con l’uso testuale (e “suggestionante”) degli atti firmati dai gip. Vista la delicatezza della materia, non si può escludere che parte dell’intervento venga rimandato, dal governo, alle modifiche in preparazione, a via Arenula, proprio sulla “231”. Mediare potrebbe servire non solo a stemperare le accuse di “bavaglio” ma anche a sminare il campo in vista dell’elezione del giudice mancante alla Consulta: la nuova riunione del Parlamento in seduta comune è stata fissata per il 29 ottobre. L’allarme dell’Anm: “Sistemi informatici a rischio hackeraggio” di Valentina Stella Il Dubbio, 16 ottobre 2024 Santalucia scrive a Nordio per denunciare le fragilità della rete giustizia: “Lavorare per una soluzione”. Profonda preoccupazione per la sicurezza dei sistemi informatici della rete giustizia: è questo il tema centrale della lettera inviata due giorni fa dal presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Giuseppe Santalucia, al Guardasigilli Carlo Nordio. Nella missiva si chiede al ministro della Giustizia anche un incontro, a cui potrebbe prendere parte il capo del Dipartimento dell’Innovazione tecnologica di Via Arenula, per conoscere quanto previsto a tutela dei sistemi giudiziari e del lavoro dei magistrati. “Le recenti notizie di cronaca su indagini penali per plurimi accessi abusivi ai sistemi informatici della rete giustizia hanno creato allarme tra i magistrati per gli scarsi livelli di sicurezza dei dispositivi e delle piattaforme utilizzate nel quotidiano esercizio delle delicate funzioni”, si legge nella lettera. La preoccupazione dell’associazione, che raccoglie il 98 per cento delle toghe, nasce, come ci spiegano, soprattutto dall’inchiesta su Carmelo Miano, l’hacker siciliano di soli 24 anni arrestato qualche settimana fa dalla Polizia Postale al termine di indagini coordinate dalla Procura di Napoli in relazione alle effrazioni alla rete informatica del Ministero della Giustizia. Lo stesso procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo, presente alla conferenza stampa del procuratore Nicola Gratteri insieme con Ivano Gabrielli, a capo della Polizia postale e delle comunicazioni, aveva dichiarato che era stata sventata “una minaccia grave” che “ha provocato danni alla sicurezza di infrastrutture dello Stato”. Miano, ora detenuto a Regina Coeli, ha sostenuto, sempre durante l’interrogatorio di garanzia dello scorso 4 ottobre, di avere violato le webmail di diversi magistrati inquirenti, tra Roma, Gela e Napoli, comprese quelle dei titolari del fascicolo che lo riguarda, affermando però di non avere visualizzato i messaggi di natura personale. Dunque un sistema informatico troppo permeabile a interferenze esterne. Cosa sarebbe accaduto se al posto dello smanettone ci fosse stato un esponente della criminalità organizzata in grado di accedere alle email dei pubblici ministeri che lo stanno indagando o alle cancellerie dei tribunali? Non bisogna dimenticare pure che a dicembre dello scorso anno degli hacker russi avevano attaccato una azienda la cui infrastruttura cloud è utilizzata da Pubblica amministrazione digitale e in particolare anche dal Consiglio superiore della magistratura e dall’Autorità nazionale anticorruzione. Da questo quadro generale arriva la preoccupazione dell’Anm il cui gesto non va letto in chiave politica contro il ministro Nordio ma come spinta per aggiornare e proteggere i sistemi informatici. Bisogna comunque registrare che l’allarme dei magistrati giunge in un momento in cui si sente sempre più parlare anche di presunti dossieraggi, a partire dall’indagine della Procura di Perugia sul finanziere Pasquale Striano e sull’ex magistrato Antonio Laudati. È vero, in questo caso se fossero accertate in via definitiva le responsabilità dei due indagati si tratterebbe sicuramente di accessi abusivi da parte di chi è già dentro il sistema e possiede le credenziali. Tuttavia rappresenterebbero una falla e mancati controlli (rafforzati con l’arrivo di Melillo a Via Giulia) sintomo di una forte penetrabilità e di mancanza dei giusti anticorpi. Inoltre bisogna aggiungere che da parte di esponenti del Governo e della maggioranza c’è il tentativo di unire diversi puntini - l’inchiesta di Perugia, quella di Bari sul dipendente di banca autore di migliaia di accessi abusivi, i presunti complotti contro la premier - per dimostrare che qualcuno starebbe tramando per indebolire il centrodestra, compresa una parte della magistratura. Pertanto le toghe, si può ipotizzare, hanno tutto l’interesse di capire lo stato di salute dei sistemi informatici della giustizia e chiedere maggiore sicurezza, al fine di allontanare da loro qualsiasi sospetto di complicità. Dunque “la percezione - ha proseguito Santalucia - è che non siano per nulla adeguati i presidi di sicurezza informatica della intera rete giustizia e sarebbe utile per l’Anm, su cui si convogliano gran parte delle diffuse preoccupazioni, avere qualche informazione, nei limiti del possibile, che possa rassicurare o comunque dare la corretta dimensione del fenomeno, descritto mediaticamente in termini allarmanti”. Per l’Anm le maggiori criticità sono riservate al settore civile “che ostacolano e rallentano, con scarsamente tollerabile frequenza, l’espletamento dei compiti giudiziari, in particolare di studio atti e deposito provvedimenti”. La lettera si conclude: “Le chiedo (rivolto a Nordio, ndr) anche a nome della Giunta esecutiva centrale dell’Anm, di poter avere un incontro al fine di essere resi edotti sullo stato dei problemi e su qual tipo di accorgimenti siano stati predisposti per l’avvio di una soluzione”. La richiesta non dovrebbe trovare ostacoli o diffidenze a Via Arenula. Non a caso due giorni fa il Guardasigilli, intervenendo all’Assemblea plenaria della XII sessione della Conferenza degli Stati parte della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, aveva sottolineato l’importanza di contrastare i cybercrimini, rafforzando, tra l’altro, i poteri di coordinamento della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo e la collaborazione tra Stati. Perché non partire, dunque, dalla tutela dei sistemi interni? Il M5S scopre i danni del circo mediatico-giudiziario (su cui ha campato) di Ermes Antonucci Il Foglio, 16 ottobre 2024 Di fronte al caso Scarpinato i grillini criticano la pubblicazione sui giornali di intercettazioni coperte da segreto, che però è sempre stata cavalcata per fini politici dal Movimento. Intervista surreale alla senatrice pentastellata Lopreiato. “Senza conoscere vergogna e con grande ipocrisia, i partiti della maggioranza cavalcano intercettazioni, riferite con svariate falsità da un quotidiano, che riguardano un parlamentare e che sono ancora coperte da segreto e come tali non rivelabili e non conosciute nemmeno dagli indagati”. Il Movimento 5 stelle, quello nato sul “vaffanculo” e sulla gogna nei confronti dei politici indagati (o soltanto intercettati), ha scoperto improvvisamente i danni causati dalla pubblicazione sui giornali di intercettazioni coperte da segreto e dal contenuto penalmente irrilevante. E’ stato necessario che a essere vittima del meccanismo dello sputtanamento mediatico-giudiziario fosse un esponente grillino, il senatore Roberto Scarpinato, intercettato trenta volte (casualmente, a detta della procura di Caltanissetta) con l’ex pm Gioacchino Natoli, indagato per il presunto insabbiamento dell’indagine su mafia e appalti del 1992. La notizia delle conversazioni private tra i due, che sarebbero state finalizzate a concordare domande e risposte in vista dell’audizione di Natoli alla commissione Antimafia, è stata pubblicata su un quotidiano in violazione del segreto investigativo. A vergare il duro comunicato contro il centrodestra che ora cavalca politicamente la vicenda sono state le capogruppo del M5s nelle commissioni Giustizia della Camera e del Senato, Valentina D’Orso e Ada Lopreiato. Per capire come il Movimento delle manette abbia avuto l’inaspettata illuminazione sui danni prodotti dal circo mediatico-giudiziario abbiamo contattato proprio la senatrice Lopreiato. Ne è seguita una conversazione surreale, che riportiamo. “La maggioranza approfitta del momento per infierire nei confronti di Scarpinato su dichiarazioni avute tramite intercettazioni indirette e superando il passaggio, obbligato per un parlamentare, rappresentato dalla giunta per le autorizzazioni”, spiega Lopreiato. Ci perdoni, lei afferma che il centrodestra sta cavalcando le intercettazioni su Scarpinato, ma il Movimento 5 stelle su intercettazioni coperte da segreto ci ha cavalcato un bel po’ in passato… “Guardi, credo le intercettazioni non bisognava proprio toccarle perché per come erano impostate andavano benissimo”. Ma non ci stiamo riferendo alla riforma che ha posto un tetto alla durata massima delle intercettazioni. Ci stiamo riferendo a chi cavalca le intercettazioni. “Loro a uso proprio hanno fatto tremila tagliole alle intercettazioni, questo mi ha fatto arrabbiare. Poi se vogliamo parlare dei costi delle intercettazioni, non so più come dirlo. Quando mi ritrovo come giustificazione alla tagliola delle intercettazioni la questione dei costi, se solo faccio riferimento a quanto sono costate le intercettazioni a Napoli e quanto invece si è ricavato con quello che si è scoperto con le intercettazioni, dico che questo argomento è destituito di ogni fondamento. Le intercettazioni sono uno strumento importantissimo per le indagini, punto”. Però non ha risposto alla mia domanda. Il passato del Movimento 5 stelle è costellato di casi in cui la pubblicazione di intercettazioni segrete, spesso penalmente irrilevanti, è stata cavalcata per fini politici... “Non so a quale passato si riferisce”. Beh, basti pensare al caso Guidi, al caso Lupi, al caso Cancellieri… “Ci siamo posti sempre in maniera molto serena nei confronti di questi casi”. Mica tanto, avete sempre chiesto le dimissioni dei politici intercettati. L’ipocrisia che rintraccia nel centrodestra non la intravede un po’ anche nel M5s? “Non la vedo proprio. Assolutamente no”... Ma era il M5s a chiedere le dimissioni della ministra Guidi. Era il M5s a chiedere le dimissioni del ministro Lupi… “Se a seguito delle intercettazioni si scopre qualche cosa… L’importante è che la magistratura faccia il proprio percorso. Ma che tagliamo a monte uno strumento di indagine come quello delle intercettazioni assolutamente no”. Ma infatti stiamo parlando di chi cavalca politicamente le intercettazioni segrete pubblicate sui giornali... “No, io credo che siamo stati sempre fermi sul discorso intercettazioni e non abbiamo mai fatto passi indietro. Viva lo strumento di indagine e no alle tagliole”. Nient’altro da dire. Calabria. Cpo e Garante dei detenuti: impegno concreto per migliorare le condizioni carcerarie reggiotoday.it, 16 ottobre 2024 La seduta, tenuta presso l’aula commissioni del Consiglio regionale della Calabria, si è incentrata sulla tutela dei diritti delle persone detenute, riguardo alla genitorialità e alla condizione delle donne in carcere. La Commissione regionale per l’uguaglianza dei diritti e delle pari opportunità fra uomo e donna, presieduta dalla prof.ssa Anna De Gaio, ha tenuto, venerdì 11 ottobre, una significativa seduta presso l’aula commissioni A. Acri del Consiglio regionale della Calabria, incentrata sulla tutela dei diritti delle persone detenute, con particolare riguardo alla genitorialità e alla condizione delle donne in carcere. Al centro dell’incontro, l’audizione dell’avv. Luca Muglia, garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, che ha rappresentato un momento di svolta, portando alla luce una realtà penitenziaria che richiede interventi urgenti e mirati. L’avv. Muglia, garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, ha illustrato la sua relazione semestrale 2024, evidenziando le problematiche organizzative e strutturali che affliggono le carceri calabresi, quali sovraffollamento, eventi critici e carenza di personale. Particolare rilevanza ha avuto la discussione sulle linee guida “Carcere e Genitorialità”, che mirano a garantire il diritto dei figli minori a mantenere un legame affettivo con il genitore detenuto ed a prevenire e scongiurare la discriminazione che spesso colpisce le persone private della libertà personale. Il garante ha sottolineato la necessità di luoghi idonei per i colloqui tra genitori detenuti e figli in cui esercitare il diritto all’affettività e di percorsi adeguati di sostegno alla genitorialità, nonché di interventi dedicati alle detenute madri. Muglia ha fatto appello affinché il sistema giudiziario e penitenziario adotti misure più flessibili ed umane, rispettando le esigenze della genitorialità e il benessere dei minori coinvolti. Le linee guida delineate, frutto di consultazioni con le istituzioni nazionali, propongono un modello di intervento mirato che la Commissione Pari Opportunità ha accolto con favore. Quanto alle sezioni detentive femminili, il Garante regionale ha evidenziato che il sistema penitenziario non presenta alcuna caratterizzazione di genere, essendo pensato e costruito “a misura di uomo”. Occorre, viceversa, riconoscere e valorizzare le peculiarità che contraddistinguono la condizione detentiva femminile, individuando anche gli strumenti di cui la donna detenuta necessita per elaborare il suo vissuto. La Commissione per le pari opportunità, nella sua funzione di tutela dei diritti, si è impegnata a dare seguito alle raccomandazioni emerse dall’audizione, riconoscendo l’urgenza di intervenire sulle condizioni delle persone detenute, con una particolare attenzione alle donne e ai genitori. Come sottolineato dalla presidente De Gaio, espresso il pieno apprezzamento per il lavoro svolto dal garante, la Commissione si porrà come interlocutore attivo per stimolare e facilitare l’attuazione delle Linee guida e stimolare un dialogo costruttivo con le autorità penitenziarie e gli organi giudiziari. Tra i risultati della seduta, si è convenuto di organizzare alcuni incontri per dare seguito alle proposte avanzate, con particolare attenzione al miglioramento delle condizioni per le detenute. Si è convenuto, in particolare, di promuovere, per il futuro, progetti specifici che migliorino le strutture penitenziarie, affinché siano più adeguate alle esigenze delle persone detenute, garantendo spazi sicuri e rispettosi per i colloqui con i familiari e condizioni dignitose per le detenute, soprattutto per coloro che sono madri. Come è emerso dalla riunione, la Commissione intende collaborare con istituzioni locali e nazionali per sviluppare politiche concrete di inclusione e reinserimento sociale. In questo contesto, è stata condivisa una proposta congiunta, per quanto di competenza. La Commissione pari opportunità e il garante regionale si faranno carico, a breve, di richiedere all’Amministrazione penitenziaria l’istituzione di una sezione riservata alle donne detenute presso la casa di reclusione a custodia attenuata di Laureana di Borrello. Tale istituto, infatti, noto sul piano nazionale per l’eccellenza delle sue attività di recupero e formazione, rappresenta un modello virtuoso per lo sviluppo di progetti penitenziari innovativi volti alla riabilitazione ed al reinserimento sociale, di cui dovrebbero beneficiare anche le donne detenute. Milano. Carceri, situazione drammatica: le Associazioni si adoperano tra arte, sport, cultura e lavoro di Giovanni Seu mitomorrow.it, 16 ottobre 2024 Pochi giorni fa si è suicidato il 75° detenuto dall’inizio dell’anno. È avvenuto proprio a San Vittore, il carcere più sovraffollato d’Italia, ma c’è chi non demorde e prova a dare un po’ di sollievo. Bisogna partire dai numeri che rivelano bene tutta la drammaticità della situazione nelle carceri in Italia. Venerdì scorso un detenuto di 44 anni di origini pugliesi in carcere per reati correlati agli stupefacenti, con fine pena provvisorio fissato al 2027 si è suicidato in una cella di San Vittore. “Si tratta del 75° recluso che si toglie la vita dall’inizio dell’anno in Italia, in una strage continua”, ha affermato Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa, il sindacato della Polizia Penitenziaria. Il Ministero della Giustizia offre questi numeri che parlano da soli. La Casa circondariale Francesco Di Cataldo, questa è la denominazione burocratica, dispone di 700 posti regolamentari, 253 non disponibili mentre i detenuti sono 1.018. Questi ultimi sono ospitati in 492 stanze, altre 197 non sono disponibili. Anche le date sono importanti: la costruzione del complesso inizia nel maggio del 1872, mentre viene inaugurato il 24 giugno 1879 durante il Regno d’Italia da Umberto I. Negli anni è stato ammodernato ma ciò non toglie che la struttura abbia raggiunto 145 anni. Secondo il sindacato Uilpa la situazione sarebbe ancora peggiore di quella che emerge analizzando i dati del Ministero: a San Vittore sono stipati 1.022 detenuti a fronte di 447 posti disponibili con un sovraffollamento di oltre il 229%, sorvegliati da 580 appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria, distribuiti su più turni e comprendendo gli addetti agli uffici e ai servizi vari, rispetto a un fabbisogno di almeno 700, con un deficit del 17%. Secondo il sindacato “è di ogni evidenza che un qualsiasi apparato articolato non possa reggere in tali condizioni e non possa propriamente dirsi neppure organizzato”. Il dibattito sul chiudere e trasferire altrove San Vittore è vecchio, l’ultimo sussulto si è avuto nel 2021 nel corso della campagna elettorale quando Luca Bernardo, candidato del centrodestra, propose di trasformarlo in sede culturale come la Biblioteca europea. Opposto il parere dei radicali, allora presenti in giunta con Lipparini, che sostengono la centralità - anche geografica - delle carceri nelle città per evitare di escludere i reclusi dalla vita sociale: San Vittore si può ampliare e riqualificare. Quale che sia il parere è evidente che il tema è sempre più urgente. Nel frattempo, però, a San Vittore, come nelle altre case di reclusione del milanese, Opera e Bollate, e Beccaria (il carcere minorile), si cerca di portare avanti progetti di reinserimento lavorativo o volti a portare un po’ di luce di speranza tra le sbarre. Ed è per questo che abbiamo voluto fortemente dividere in due questo speciale, evidenziato sì le enormi criticità, ma anche le tante iniziative possibili grazie alla collaborazione con le associazioni del terzo settore. Abbiamo selezionato “10 cose buone”. Nahum: “Chiudere non è la soluzione, subito politiche per sfoltire il carcere” La situazione è critica, ma bisogna insistere su San Vittore. È la posizione di Daniele Nahum, presidente della Sottocommisione Carceri di Palazzo Marino. Qual è il livello di vivibilità nel carcere? “È quello determinato dal sovraffollamento che arriva al 236,70% in una struttura dove vivono 1.080 detenuti di cui 80 donne”. Perché si è creato questo fenomeno? “Ogni giorno ci sono 10-15 accessi, sono ben 300 al mese non compensati dalle persone che escono”. Chi entra a San Vittore? “Ben 750 hanno problemi di tossicodipendenza, sono in cura al Sert: questo è il primo grande problema, arrivano persone devastate che, nonostante lo straordinario lavoro del personale medico, è difficile assistere”. Altri problemi? “A differenza di altre carceri del sud qui l’80% dei detenuti è di origine straniera, in particolare del nord Africa, sono persone arrestare per furti, rapine, spaccio che parlano poco o niente l’italiano e si trovano soli una volta scarcerati”. Manca il recupero dopo la detenzione? “Lo dicono i dati, in Italia la recidiva arriva al 67%. Purtroppo mancano comunità di recupero che li accompagnino a ritornare nella vita civile”. Perché San Vittore non riesce a svolgere opera di recupero? “Un detenuto su due non studia e non lavora: è dimostrato che la via per il recupero è frequentare i corsi, imparare un lavoro. Poi c’è il fatto che si tratta di una casa circondariale, entrano persone in attesa di giudizio che dopo poco vanno via”. Chiudere sarebbe la soluzione? “Non credo. È facilmente raggiungibile, a differenza di Opera e Bollate, inoltre trovo sbagliato allontanare dai nostri occhi questa realtà”. Con una popolazione adeguata agli spazi San Vittore potrebbe funzionare? “Premesso che un numero di presenze congruo non c’è mai stato, voglio citare ciò che mi ha detto il direttore: il loro momento migliore è stato durante il covid perché erano costretti ad avere gli spazi adeguati”. Quale può essere un provvedimento immediato? “L’amnistia e l’indulto sono necessari. Non è facile, il 20-30% dei detenuti ha un residuo di pena di 1-3 anni ma non vengono scarcerati perché sono senza domicilio, non saprebbero dove andare” Insomma il problema del dopo è pesante quando quello dell’internamento. “Il carcere porta a deresponsabilizzarti, come fai a collocarti quando esci?”. Quale ruolo può avere il Comune? “Non ha poteri, c’è la sottocommissione che presiedo che non si limita a svolgere opere di denuncia ma sostiene iniziative come il protocollo sottoscritto dagli assessori Bertolè e Cappello con il Tribunale dei minori per assegnare lavori di pubblica utilità a sette minori”. Cos’altro potrebbero fare gli enti locali? “Sarebbe importante l’impegno della Regione sul fronte terapeutico, è una loro competenza”. Quando il teatro è il mezzo perfetto, di Ivan Filannino Da anni nel carcere di Opera si porta avanti il progetto Opera Liquida. Non serve un palcoscenico per fare teatro e soprattutto il teatro ha un’altra dote unica: è in grado di scavalcare i muri e le barriere fino ad entrare in luoghi impensabili, ad esempio in un carcere. In questo senso arriva l’impegno di Opera Liquida che dal dicembre 2008 ha portato le sue attività all’interno della Casa di Reclusione di Milano Opera. Un luogo che non deve essere considerato estraneo alla città, ma riconosciuto a tutti gli effetti come parte della metropoli. Era un periodo diverso da quello odierno, le attività all’interno delle carceri erano davvero poche, così un progetto nato come piccolo laboratorio teatrale che si sarebbe dovuto chiudere con la prima messa in scena è diventato anno dopo anno sempre più protagonista all’interno della casa di reclusione. A dar vita all’iniziativa è stata Ivana Trettel, fondatrice, regista e drammaturga di Opera Liquida, quella che è diventata la compagnia teatrale della Casa di Reclusione Milano Opera, sezione media sicurezza. “A spingermi ad andare avanti è stata la passione che ho trovato nelle persone detenute che ho incontrato, alcune di loro ancora collaborano con noi”. Questo perché Opera Liquida ha l’importante caratteristica di poter unire persone detenute ed ex detenute; una volta entrati in questa realtà è difficile abbandonarla del tutto e c’è anche chi ha scelto di rimanerci in pianta stabile una volta uscito dal carcere. A formare lo zoccolo duro al fianco di Ivana ci sono Vittorio Mantovani, attore ex detenuto, e Nicoletta Prevost che si occupa della comunicazione e organizzazione, ma il gruppo si allarga con i formatori e i docenti. Non si può ovviamente dimenticare, nell’elenco dei collaboratori, la Casa di Reclusione Milano Opera perché tutto ciò che viene realizzato prevede procedure organizzative complesse. Le attività vengono proposte con annunci all’interno della sezione, le persone detenute fanno la richiesta di partecipazione, l’istituto decide chi è idoneo a partecipare e infine si passa al colloquio con Ivana Trettel. L’obiettivo dichiarato è quello di mettere in scena spettacoli originali su temi di rilevanza sociale. Da elemento anomalo all’interno di un’istituzione molto rigida, Opera Liquida ha conquistato la fiducia con grande discrezione e rigore ed è ora una realtà stabile all’interno del carcere. “Uno dei momenti più straordinari è il post spettacolo quando viene concesso un breve incontro coi parenti. Momenti di vitalità, orgoglio e gioia”. Tra i suoi progetti di Opera Liquida c’è anche Stai all’occhio, per la prevenzione dei comportamenti a rischio nei giovani che porta nelle scuole come tutor persone detenute ed ex detenuti. Un giardino per sperare. Nuovo spazio verde all’Istituto Beccaria, di Edoardo Colzani Nel carcere minorile Cesare Beccaria è nato un nuovo spazio comune, il giardino interno. Un luogo creato nell’ambito del progetto Palla al centro promosso da Fondazione Francesca Rava e supportato da Fondazione Covivio, con l’obiettivo di promuovere percorsi di rinascita per i giovani detenuti. “Bisogna essere portartici della bellezza come valore educante. Crediamo inoltre nel ruolo fondamentale del lavoro di squadra e dell’importanza di ogni singola persona”, dichiara Mariavittoria Rava. “Noi come Fondazione, collaboriamo da 4 anni con il carcere Beccaria, e all’interno dell’istituto ci occupiamo di formare i ragazzi per un loro reinserimento futuro. Abbiamo svolto e proseguiremo a svolgere corsi di informatica, di pronto soccorso e di sport. Sono attività che come abbiamo riscontrato, portano alla diminuzione delle recidive di chi ha scontato la pena”. Giovanna Ruda di Fondazione Covivio aggiunge: “Siamo stati partecipi alla riqualifica del giardino, grazie anche al nostro know-how. Per i lavori sono stati coinvolti 5 ragazzi dell’istituto, ed è stato svolto un corso di giardinaggio della durata di 40 ore”. All’inaugurazione di ieri era presente anche l’assessore al Welfare del Comune di Milano Lamberto Bertolè: “L’istituto Beccaria è l’unica struttura carceraria in Italia ad avere un presidio educativo permanente. Dobbiamo investire sulle misure di pena alternative al carcere. I fatti recenti del carcere sono stati dovuti all’assenza di un direttore, e alla carenza nel mondo delle carceri di educatori ministeriali”. E infine, Alessia Villa, presidente della commissione carceri della Lombardia conclude: “Non bisogna considerare la pena come un tempo vuoto”. Le altre 8 cose buone, di Serena Scandolo A fine settembre a San Vittore è stato inaugurato ReverseLab, uno spazio per l’arte contemporanea tra carcere e città, con la mostra Gli artisti sono quelli che fanno casino. Frammenti dal carcere di San Vittore. Nel carcere di Bollate si legge carteBollate, il giornale scritto, pensato e finanziato dai detenuti, un periodico bimestrale di informazione dal carcere e sul carcere. Il CSI è alla ricerca di squadre di calcio a 7 Open C per disputare il campionato invernale in uno dei due gironi speciali nel quale saranno inserite anche le squadre delle carceri di San Vittore e di Monza. Da anni esiste la Biblioteca del Confine della Casa della Carità, che nell’ambito di “Biblioteche in rete a San Vittore” promuove progetti che mettono in relazione persone che vivono dentro e fuori dal carcere. Cascina Bollate, una cooperativa sociale dove lavorano giardinieri liberi insieme a giardinieri detenuti, che imparano un mestiere e si impegnano in una produzione di qualità. A suon di musica c’è Orchestra in Opera, un ensemble interamente formato da detenuti del Carcere di Opera: nasce dal laboratorio musicale che coinvolge un gruppo di detenuti selezionati sulla base delle loro esperienze musicali. Catena in movimento è un’associazione fondata all’interno del carcere di Bollate, che si occupa di sartoria per la produzione di gadget aziendali, lavori conto terzi e prodotti da vendere durante eventi milanesi. Nel carcere di Opera è stata inaugurata la scuola edile, un laboratorio attrezzato aperto anche ai ragazzi del Beccaria, dove i detenuti imparano il mestiere di manovale. Rieti. Nelle carceri ho visto cose che nulla hanno a che fare con la giustizia di Lucio Boldrin* formatrieti.it, 16 ottobre 2024 Mi accingo a scrivervi qualcosa in merito alla realtà carceraria non senza difficoltà e ritrosia e pessimismo perché sono stanco di parole e parole” scrive Padre Lucio da anni ormai cappellano di Rebibbia, struttura che ‘abita’ dalle 8.30 alle 19.30 sei giorni su sette. Non mi soffermerò sui numeri dei suicidi tra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria, il sovraffollamento e la sempre maggiore crescente mancanza di agenti e del personale medico, paramedico e di persone nell’area educativa, e neppure delle condizioni delle carceri italiane obsolete e carenti a livello igienico. Ne ho sentito parlare e letto ovunque. Penso anche la maggior parte di voi. Ma come vivono i detenuti in molte carceri italiane? Difficile saperlo per me e ancora meno per chi vive di luce riflessa o per sentito dire. Vi dico soltanto che da un po’ seguo su tik tok un ex detenuto che è uscito, libero dal 2018, e che cerca di rispondere alle domande che gli vengono poste sulla realtà carceraria. Vi posso assicurare che in molte risposte lo sento lontanissimo da ciò che ha vissuto e di come è cambiata la situazione carceraria in pochi anni. La frase che con rassegnazione spesso mi accoglie è: “Lucio, non sai cosa succede di notte…”. E lì muore la frase. In carcere il silenzio e la paura la fanno da padroni sempre di più, tra complicità di altri detenuti e agenti che fanno finta di non sapere accettando le motivazioni: “Sono scivolato in doccia”, “Ho sbattuto contro uno spigolo”, “Sono caduto dalle scale”, “Mi sono fatto male giocando pallone” e via dicendo per giustificare ematomi, fratture o violenze ricevute. Molti detenuti sopportano angherie e minacce temendo il peggio e con la speranza di uscire al più presto. Vi posso assicurare che il carcere è lo specchio della società: tutto ha un prezzo! E tutto costa di più. Molto di più. Anche la droga e la grappa fatta in cella, anche se vietata, gira in abbondanza. La droga entra attraverso i mezzi “più ingegnosi” e il “dio denaro” la fa da padrone e fa la differenza così come fuori dal carcere. Sia per la possibilità d’acquisto…o per avere i migliori avvocati. Ci sono detenuti che hanno familiari vicino e possono riceverli a colloquio e avere ricariche di soldi, cibo e vestiario settimanalmente. Chi ha i parenti lontani, gli stranieri (circa il 50 per cento nelle carceri italiane. In maggioranza al centro nord, meno al sud), i tanti clochard, vivono spesso la solitudine più profonda e disperata, anche per la difficoltà di parlare la nostra lingua. In carcere ci sono persone in attesa del primo giudizio e non sanno nemmeno se saranno dichiarati innocenti o colpevoli. Giovani che entrano con la prepotenza “Io sono io …e tu non sei nessuno” anche verso i detenuti più anziani. Un crescente numero di tossicodipendenti e malati psichiatrici. Persone accusati di reati commessi anni e anni fa con sentenze diventate solo ora definitive. E questo al di là dell’età: ho visto portare in carcere ottantaquattrenni con la salute talvolta cagionevole. Individui che dopo aver commesso degli errori (non parlo di reati gravissimi) hanno trovato nel frattempo la persona giusta, un lavoro, “messo la testa a posto” destinati, per una giustizia tardiva, a perdere tutto e ad essere peggio di come sono entrati. Un carcere che ammala, peggiora anticostituzionale e non aiuta minimamente al recupero della persona. Mi chiedo: è possibile che ciò non venga compreso da chi di dovere? Il carcere è chiamato a rieducare, oltre che fare scontare una giusta pena, ad aiutare chi ha sbagliato a riprendere una nuova vita sociale. Il reato va punito, ma le persone vanno rispettate. Non esiste solo la carcerazione! E tenere migliaia di persone a oziare per giorni, mesi e anni rischia di trasformare il carcere in una scuola per delinquenti più che in centro di riabilitazione e reinserimento. Per determinati casi sarebbero più utili gli arresti domiciliari: la possibilità che vadano a lavorare e tornino a casa alla sera, abbiano la vicinanza di persone positive e continuino a crescere in ambienti meno degradanti. Ho visto detenuti diventare peggiori, cadere in depressione, spegnere la fiamma della vita e della speranza. Stanchi di combattere contro i muri di gomma rappresentati talvolta dai magistrati o chiedendo il rispetto dei propri diritti. Detenuti destinati a rientrare in carcere dopo pochi mesi dalla loro liberazione perché al cospetto di una società che li respinge, non dà loro del lavoro, un luogo dove vivere… tornano sulla strada costretti a delinquere per sopravvivere. Poi ci sono gli stranieri, lontani da casa e senza nessuno, aiutati soltanto dai volontari e dai cappellani: arrivati in Italia seguendo l’illusione di una vita migliore e finiti a delinquere, spesso costretti da persone senza scrupoli sotto la minaccia di violenze su loro stessi o sui familiari rimasti nei Paesi d’origine. Per costoro è difficile perfino spiegarsi, farsi capire, per ragioni di lingua e di cultura, perciò molti sono discriminati anche in carcere. Stranieri in attesa dell’espulsione in qualche CPR (centro d’accoglienza per immigrati), centri che assomigliano a dei veri lager da dove fuggire, scarse le REMS (strutture sanitarie per infermi di mente). Poveri, senza tetto, malati psichici, tossicodipendenti, stranieri: quando usciranno dove andranno? Ritorneranno “invisibili” nelle nostre strade fino al prossimo atto violento. Senza dire dei barboni che torneranno a dormire con i loro cartoni e commettere qualche piccolo reato per tornare in carcere trovando riparo... almeno per l’inverno. Avverto ogni giorno che passa più tristezza e mi sento sempre più piccolo e incapace di far sentire la mia voce e di tanti “miei ragazzacci” che se aiutati, potrebbero essere una risorsa lavorativa e umana per la nostra società. Mi ripeto: il carcere è sempre più una discarica dove le persone vengo buttate e inascoltate, calpestate nei loro diritti, quelli che invece la Costituzione italiana richiederebbe. Invisibili, autori di reati comuni che scontano pene vivendo in condizioni terribili. Tanto che alcuni arrivano a scelte estreme: qualcuno si taglia il corpo o fa lo sciopero della fame. Poi dopo due giorni di infermeria, torna però nel proprio limbo. Non tutte le persone che sono nelle carceri sono delinquenti incalliti. Ci sono anche degli innocenti o persone che hanno sbagliato per un periodo limitato della propria vita. Non si può entrare in carcere e uscirne malati o peggiorati. Il reato va punito, ma le persone vanno rispettate”. *Cappellano del carcere di Rieti Torino. Recluso nella cella senza doccia. Il giudice: “Può usare un secchio” di Carlotta Rocci La Repubblica, 16 ottobre 2024 Il Magistrato di Sorveglianza ha rigettato il ricorso di un detenuto che protestava per le condizioni disumane. Negli ultimi quindici anni è entrato e uscito dal carcere di Torino almeno una quindicina di volte. Celle piccole, con almeno due ma a volte anche quattro compagni di stanza, “condizioni inumane”, per l’uomo, 42 anni, che - assistito dall’avvocato Alessandro La Macchia - ha presentato un ricorso al tribunale di sorveglianza chiedendo una “riduzione della pena detentiva” per le condizioni in cui è stato detenuto. Nell’interpretazione della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo sono da considerarsi “inumane” le situazioni che rendono la pena “non solo particolarmente difficoltosa ma totalmente squalificante della dignità umana”. Contano i metri quadrati a disposizione, almeno 3 per ogni detenuto presente nella cella, ma anche “la possibilità di usare i servizi igienici in modo riservato” e “il rispetto dei generali requisiti igienico-sanitari”. Durante l’esame del ricorso presentato dal detenuto, l’amministrazione penitenziaria si è difesa depositando una relazione per contestare l’accusa. Le celle non hanno le docce, che sono soltanto nelle aree comuni, ma hanno un lavandino e un rubinetto che eroga soltanto acqua fredda. Ma - spiega il Dap elencando una serie di fattori compensativi che renderebbero la detenzione meno afflittiva e le condizioni più dignitose - ai detenuti è data a possibilità di chiedere “la concessione di un secchio” per raccogliere, durante il proprio turno di doccia, l’acqua calda da trasportare nella propria cella e usarla per lavarsi durante la giornata. Il magistrato di sorveglianza ha rigettato il ricorso del detenuto dopo aver analizzato i metri quadri a sua disposizione durante ogni periodo di detenzione. Per 17 giorni, dal 7 dicembre 2016 al 23 dello stesso mese, aveva vissuto con una superficie calpestabile di 2,72 metri quadri a disposizione. Con il suo compagno di cella era costretto a fare i turni per sgranchirsi le gambe mentre l’altro restava seduto o sul letto. Nel 2022 quando i giorni di detenzione erano stati 115 tra ottobre e dicembre in cella sono sempre stati quattro o cinque per un totale di 2,81 metri quadri si superficie calpestabile per carcerato ma l’uomo aveva avuto diritto al “regime aperto” che gli consentiva di trascorrere fuori dalla cella fino a 12 ore e 30 minuti. “L’utilizzo della stanza detentiva per le sole ore notturne. rende possibile ritenere che la limitata fruizione di spazio personale abbia minore rilevanza e non leda la dignità”, spiega il giudice motivando il rigetto. Il legale, su richiesta del suo assistito, ha impugnato l’ordinanza del magistrato di sorveglianza: tra le altre cose si contesta il fatto che le ore trascorse fuori dalla cella non fossero 12 ma molte meno perché le celle restano chiuse durante la consegna del vitto e le ore concesse all’aperto sono poco meno di quattro. In questo tempo sarebbe permessa anche la doccia dove, però, mancherebbe spesso l’acqua calda. Torino. “Dietro le sbarre per trent’anni ho visto l’inferno. All’uscita ho trovato il vuoto” di Marta Borghese La Repubblica, 16 ottobre 2024 “Dietro le sbarre per trent’anni ho visto l’inferno in 38 carceri. All’uscita ho trovato il vuoto”. “Sa quanti ne ho visti di vecchietti con il catetere che non ce la fanno più, che ti chiedi che cosa ci facciano ancora lì. Curati e monitorati, c’è scritto nei referti. Curati e monitorati”. Scuote la testa V.D., sessant’anni o poco più, di cui 33 trascorsi nei penitenziari: “Quando sei in carcere - esordisce - devi solo pregare di stare bene di salute”. Lui ne ha cambiati 38: Poggioreale, Secondigliano, Genova, Foggia. Una sfilza infinita di sezioni speciali. “Un mattatoio” commenta di qualcuno. Il passato è nella camorra degli omicidi per strada. Il presente è tra i pacchi del banco alimentare: li smista e li consegna per l’associazione evangelica torinese “Brothers keeper ministry”, che dal febbraio 2020 si prende cura di lui. “Fuori dal carcere non c’è niente. Se non hai nessuno torni dentro in un attimo”. Perché? “Con una condanna così lunga perdi tutto. Io sono entrato che mia moglie era incinta della terza figlia: 21 aprile 1991. Sono uscito nel 2019, ho chiesto solo di vedere i miei nipoti”. Com’è andata? “Pochi giorni prima di uscire dal Lorusso e Cutugno di Torino, con 18 giorni di ritardo perché mancava un foglio dalla procura di Napoli, ho ricevuto un fax dalla mia famiglia. Mi chiedevano di tornare urgentemente a casa. Facevo comodo. Una notte alle 4 una persona mi dà appuntamento al bar, mi mette due pistole in mano e mi fa: “Ricominciamo”“. Cos’ha fatto? “Ho sentito una voce nel cervello, “Vattene!”, e me ne sono andato. Ho dormito per strada. Prima potevo comprarmi quello che volevo, Gucci, Versace. Mio papà mi diceva che i soldi a me “buttano calci”. Li ho sempre spesi, ma quando sono uscito non ne ho trovati più. Sono stati tre mesi d’inferno, senza farmaci, senza insulina. In carcere una volta mi sono messo a protestare per una persona che dormiva in strada morta di freddo. Ma come si può morire per una coperta? Alla fine il Signore ha mandato me, a fare il senzatetto”. E poi? “In strada incontro un amico, gli chiedo 20 euro. Ricarico e chiamo l’unico numero che ho, quello della donna che in carcere veniva a parlare con me: “Se non mi prendete voi sono finito”“. E l’hanno presa? “Mi ha fatto un biglietto per la mattina dopo. Ora vivo in una delle strutture dell’associazione Brothers keeper ministry. Mi sono salvato così”. Cosa pensa del fine rieducativo della pena? “Ma quale fine rieducativo? Ci sono posti in cui non ho mai visto un educatore. Io stavo alla sezione speciale, attività ce ne sono meno, ma è solo una mezza galera: sei solo in cella e c’è rispetto”. E delle rivolte di quest’estate? “Che il detenuto a volte non può avere le cose e le pretende. Che ci sono i poliziotti da buttare e i detenuti da buttare e che la massima ignoranza sta nelle patrie galere. Io sono stato sempre uno che protestava e per questo mi trasferivano. Però lo facevo per una cosa: i diritti. Una volta a Torino ho portato la garante a vedere le docce, piene di ruggine e verderame. Se la sono legata al dito: mi hanno fatto rapporto. “Lei vuole essere agevolato in tante cose...” mi hanno detto”. Come spiega la presenza dei cellulari? “Droga, telefoni, in carcere entra di tutto. Quando venivano i parenti con 100 grammi di prosciutto, però, dovevano essere impacchettati fetta per fetta, che si vedesse attraverso. A Benevento accompagnavano le donne in visita a cambiare l’assorbente per paura che portassero qualcosa”. E allora? “E allora con i soldi entra tutto”. L’assistenza sanitaria funziona? “A Sulmona mi fratturo un piede giocando a calcio. Non mi visita nessuno. Sto lì 10 giorni e questo piede diventa enorme, viola. Cammino con le mani al muro. Passa la direttrice - era Armida Miserere, che poi si è sparata in testa pure lei - si mette a urlare di portarmi all’ospedale. Alla fine il piede era rotto e mi è venuto un infarto, mi hanno messo 5 bypass. Penso che in carcere devi solo sperare di stare bene, ecco che penso”. Cosa pensa delle carceri di oggi? “Che bisogna buttarle a terra e ricostruirle come Dio comanda, con una doccia per cella. Che bisogna mettere le persone vicino a casa: ma sa quanta gente si è impiccata per la famiglia? Non tutti possono andare da Napoli in Valle D’Aosta a trovare un familiare, i detenuti costano e le famiglie si esauriscono”. Ciò che le è pesato di più? “Quando è morta mia madre. Arriva un fax, ti chiama l’ispettore, lo scopri così. Ho chiesto un permesso e non me l’hanno dato: non l’ho più vista e basta. E pensare che lei non mi ha mai fatto mancare nulla: aereo, treno, ogni settimana si metteva sui mezzi per venire da me, anche quando ero in Sardegna”. La vita ora? “Vado a prendere un caffè, vado dal barbiere, passeggio con la mia nuova famiglia. Cose che non ho mai potuto fare prima. Quando guardi Gomorra non lo dicono, ma il prezzo da pagare è sempre troppo alto”. C’è pregiudizio fuori? “Eccome se c’è. Intanto appena esci cominciano ad arrivarti tutte le spese processuali, è una botta, perché non le potrai mai pagare. Io ho l’80 per cento di invalidità e ho fatto richiesta per una pensione da 287 euro al mese. Serviva un foglio: 400 euro. Poi non andava bene. Passano i mesi e nessuno risponde, chiedo in un ufficio e un’impiegata mi fa: “È per questo - mostrandomi l’interdizione dai pubblici uffici - che questa pensione non la vedrà mai”. Ma è un mio diritto, tornerò a fare richiesta”. Cosa le è rimasto della vita di prima? “Mangio velocissimo. Ero arrivato a 3 secondi per un piatto di pasta. Di più non potevo, la mia non era una vita normale”. Torino. Processo sulle torture in carcere, un detenuto: “Me ne hanno fatte di tutti i colori” di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 16 ottobre 2024 In aula parla uno dei detenuti. Aveva segnalato alla Procura e in seguito, con una seconda lettera, ritrattò. “Un agente mi disse “ricordati che hai bisogno di noi”, ritira la denuncia e spiega che ti sei fatto male da solo”. “Me ne hanno fatte di tutti i colori”. È quanto ha detto in tribunale a Torino un detenuto chiamato a testimoniare al processo sui presunti casi di maltrattamento avvenuti fra il 2017 e il 2018 all’interno del carcere delle Vallette. Fra i 22 imputati ci sono numerosi agenti di polizia penitenziaria. L’uomo è un 54enne originario di Alessandria, recluso dal 2014, con alcuni problemi di carattere psicologico. “Mi avevano sistemato - ha raccontato - in un padiglione “chiuso” perché se devo dividere la cella con un’altra persona mi viene paura e no so il motivo. Subivo atti di violenza tutti i giorni e, in particolare, i due detenuti “lavoranti” della sezione sembravano i cagnolini dei poliziotti. Attraverso lo spioncino gettavano di tutto nella cella, compresa l’urina, per dormire mi spostavo nella zona del bagno. Un giorno tappai il varco con un accappatoio e loro gli diedero fuoco. Gli agenti incolparono me e mi presero a calci e pugni: uno mi schiacciò la mano destra con la scarpa”. Alle domande delle difese il detenuto ha risposto che dal 2014 “ha cambiato 23 carceri” e ha collezionato una cinquantina di procedimenti disciplinari. Alle Vallette il 54enne restò per circa nove mesi. Segnalò l’episodio alla Procura e in seguito, con una seconda lettera, lo ritrattò. In aula ha giustificato il gesto spiegando che “un agente mi disse “ricordati che hai bisogno di noi”, ritira la denuncia e spiega che ti sei fatto male da solo”. Civitavecchia (Rm). Medici precari nelle carceri, si risolva problema della stabilizzazione di Nicola Buonaiuto e Giuseppe Pergola* tusciaweb.eu, 16 ottobre 2024 L’azienda Asl Roma F ospita nel proprio distretto di Civitavecchia due sedi carcerarie: il cosiddetto “Nuovo Complesso” con 547 detenuti e la “Casa di reclusione di Civitavecchia” che ne ospita 91. Le precedenti normative nazionali hanno sancito il trasferimento delle funzioni in materia di sanità penitenziaria dal ministero di Grazia e Giustizia ai sistemi sanitari regionali. L’assistenza sanitaria del locale sistema penitenziario è quindi oggi in carico al sistema sanitario regionale ed operativamente alla Asl Roma 4. La realtà carceraria nel nostro paese vive notoriamente di carenze strutturali, strumentali e di personale, rendendo spesso gli ambienti di vita dei detenuti e del personale di assistenza poco adeguati. Non sfuggono a questo disagio neppure i medici penitenziari che quotidianamente rendono possibile l’assistenza ad un elevato numero di detenuti con modalità e risorse molto più limitate rispetto all’utenza “fuori le mura”. Ciò nonostante questi professionisti assicurano una assistenza ordinaria e spesso straordinaria di ottimo livello, per le condizioni date, in un ambiente che è per sua natura difficile ed afflittivo. Si va dalle prime visite in ingresso con particolare cura alla prevenzione del rischio suicidario, alle prestazioni di emergenza ed urgenza di primo soccorso sia per detenuti che per personale e visitatori, alle visite programmate sia ai detenuti comuni che in regime di isolamento, a quelli in sciopero della fame/sete, alla prescrizione e controllo dei vitti differenziati, alle certificazioni richieste dall’autorità giudiziaria e dagli organi del ministero della Giustizia, ai contatti con i presidi sanitari esterni (ospedali, ambulatori) ed alla vigilanza al rientro da interventi eseguiti all’esterno, alle campagne di screening e prevenzione promosse dalla Asl per la popolazione detenuta e a molteplici altri tipi di prestazioni. Il tutto rivolto ad una popolazione spesso fragile (tossicodipendenti, malati infettivi, malati metabolici ed oncologici) e con frequenti rischi di aggressioni verbali e talora fisiche che spesso non vengono neppure segnalate rientrando ormai nella routine lavorativa. Questi colleghi, pur mantenendo alto lo standard delle cure sanitarie nelle difficili condizioni date, vedono equiparato il loro contratto a quello della continuità assistenziale sia in termini di retribuzione che in termini di instabilità di incarico. Nei penitenziari di Civitavecchia infatti l’intero personale medico (poco più di 10 professionisti) che assicura quanto descritto (con rotazione 24/24 - 7/7 e cambi a vista), sconta ormai da anni anche la beffa di un continuo ed irrisolto precariato con la reiterazione di contratti di lavoro semestrali a scadenza che minano non solo la continuità assistenziale necessaria per i pazienti ma anche la dovuta serenità di vita che il personale sanitario merita. Dopo diverse interlocuzioni isolate e personali dei medici con la direzione aziendale, con scarsi riscontri operativi la vertenza è stata presa in carico dalla Cisl medici che il 14 ottobre 2024 ha chiesto ed ottenuto alla direzione aziendale un incontro a cui ha partecipato anche una delegazione dei medici penitenziari. L’incontro mirava a rendere ancor più palese alla direzione aziendale il contrasto tra una attività strutturata da anni ed ormai di forte specializzazione, e la precarietà contrattuale dei medici che confligge con lo stesso criterio di continuità assistenziale. Il clima di ascolto è stato positivo da parte dell’azienda che ha manifestato consapevolezza delle difficoltà esposte ed una preliminare volontà di prendere in carico il problema della stabilizzazione, anche alla luce dei recenti strumenti normativi e contrattuali (legge n. 12 08/08/24 e ultimo ACN dei medici di medicina generale), che consentirebbero, in tempi abbastanza brevi, di perseguire questo importante risultato. La Cisl medici ha chiesto di aggiornare il tavolo a breve per verificare il percorso che fattivamente permetterà di raggiungere la piena stabilizzazione dei colleghi impegnati nei penitenziari. Contestualmente la segreteria Cisl medici Lazio chiederà un incontro sul tema anche al presidente della regione Lazio Francesco Rocca che sta mostrando una buona sensibilità sul tema delle rinnovate dotazioni di personale e della risoluzione del precariato in sanità nelle sue diverse componenti. Infine Cisl medici sta mettendo in atto una indagine conoscitiva sulla medicina penitenziaria anche a livello regionale e nazionale perché la vertenza per il riconoscimento della stabilità lavorativa che è nata localmente a Civitavecchia possa coinvolgere i tanti colleghi delle varie regioni italiane che si trovano nelle medesime condizioni. La vertenza verrà attentamente e costantemente seguita dalla Cisl medici su tutti i tavoli preposti per ridare serenità e dignità al lavoro dei medici precari della sanità penitenziaria. Tutti i colleghi che operano nelle altre carceri laziali e nazionali nelle medesime condizioni di precariato possono contattare, per unirsi alla vertenza di stabilizzazione, nicola.buonaiuto@gmail.com *Rappresentanti sindacali CISL Medici Prato. Detenuti in campo per l’ambiente: “Impegnati nel decoro della città” La Nazione, 16 ottobre 2024 Vab e Alia in campo per il progetto Ulepe. Da detenuti a operatori ecologici per il completo reintegro nella società. Il progetto che ha ricevuto il patrocinio del Comune di Prato, è gestito operativamente dalla Vab che si occupa di coordinare l’attività a titolo gratuito: l’associazione seguirà le persone adulte imputate e condannate che sono attualmente seguite dall’ufficio Ulepe, Ufficio locale esecuzione penale esterna di Prato appartenente al Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. In pratica i volontari di Vab Prato si occuperanno di assegnare alle persone le varie attività, seguendole con dei tutor nelle fasi operative sul territorio e comunicando mensilmente all’Ufficio del ministero le ore svolte insieme ad una relazione sul contributo individuale apportato al progetto dai singoli cittadini che saranno coinvolti a partecipare. Alia è partner operativo del progetto, che si concretizza in un’attività iniziale di formazione alle persone coinvolte rispetto ai comportamenti corretti nelle attività di pulizia e soprattutto di individuazione delle diverse tipologie di rifiuti abbandonati che possono presentarsi nelle aree pubbliche oggetto dell’intervento tra le quali figurano la pista ciclabile in sinistra e destra idraulica del fiume Bisenzio, il percorso pedecollinare pedonale e ciclabile, dalla Querce fino Canneto. Oltre all’attività di formazione Alia ha contribuito anche alla fornitura delle attrezzature per l’effettuazione del servizio costituite da guanti, pinze e sacchi per il confezionamento dei materiali e si occuperà del ritiro puntuale del materiale raccolto durante le giornate d’intervento, attraverso corretti principi di raccolta rifiuti. “L’obiettivo del progetto è quello di migliorare l’ambiente di vita - dicono gli organizzatori - percorrendo insieme alle associazioni del territorio ed a tutti i soggetti coinvolti un percorso volto a far scaturire dall’evento negativo del reato un’esperienza positiva, quindi la principale attività è individuabile nel risarcimento verso la società e nella conseguente ricostruzione del legame con la stessa”. Napoli. Inclusione, al via il progetto “Rigiocare il futuro” nel carcere di Secondigliano Famiglia Cristiana, 16 ottobre 2024 Grazie all’impegno congiunto delle associazioni “Seconda Chance” e “Sport senza Frontiere” partiranno a dicembre i lavori per realizzare nel Penitenziario napoletano il più grande polo sportivo carcerario in Italia con la realizzazione di due campi di padel e la ristrutturazione del campo di calcio attuale. “Si tratta di un’iniziativa di rieducazione attraverso lo sport”, spiega Flavia Filippi, fondatrice di “Seconda Chance”, “e si fonda sull’idea che il carcere non debba essere solo un luogo di detenzione, ma anche uno spazio di crescita personale e di riqualificazione”. Una cittadella dello sport in carcere. È l’obiettivo del progetto “Rigiocare il Futuro, lo sport per ripartire”, ideato da “Seconda Chance”, associazione non profit del Terzo Settore che fa da ponte tra carceri e imprese allo scopo di procurare ai detenuti opportunità di formazione e di lavoro, ma anche occasioni di benessere psicofisico, svago e cultura e “Sport Senza Frontiere”, attiva nel settore dell’assistenza educativa e socio-sanitaria in favore di soggetti socialmente svantaggiati attraverso la realizzazione di interventi di inclusione sociale tramite la pratica sportiva. L’iniziativa punta a realizzare all’interno dell’istituto penitenziario “Pasquale Mandato” di Secondigliano, che si trova nel quartiere napoletano di Scampia e ospita circa 1.300 detenuti per lo più classificati “alta sicurezza”, un polo sportivo d’eccellenza che offra ai detenuti nuove opportunità di crescita e reinserimento lavorativo. Il progetto è sviluppato secondo due direttrici: essere un esempio concreto di investimento in infrastrutture sociali in un luogo pubblico (interamente sostenuto da risorse private) e puntare sulla forza del partenariato (tra pubblico, privato e terzo settore) per lo sviluppo dei servizi che quelle infrastrutture permetteranno di erogare. Il progetto si sviluppa in due fasi: la prima prevede la creazione e la dotazione all’Istituto penitenziario delle infrastrutture per la pratica sportiva e la seconda l’avvio di corsi professionalizzanti che consentiranno un reinserimento nel mondo del lavoro. La riqualificazione, all’interno del perimetro del centro penitenziario di un’area non agibile, consentirà la realizzazione ex novo di due campi da padel, che potranno essere utilizzati anche per altri sport, mentre la ristrutturazione dell’attuale campo da calcio, consentirà ai detenuti di utilizzare l’intera area anche con l’ausilio di nuovo materiale tecnico per gli allenamenti. Il completamento delle nuove strutture sportive consentirà l’avvio di un percorso formativo della durata di 24 mesi che, grazie alla presenza diretta di formatori, tecnici ed istruttori sportivi certificati all’interno della rete di “Sport Senza Frontiere”, lavorerà sullo sviluppo delle competenze sportive e trasversali dei detenuti, che potranno anche ottenere l’abilitazione per diventare arbitri. L’obiettivo di “Rigiocare il Futuro” è una sfida: dimostrare che la sostenibilità è reale attraverso un progetto concreto realizzato all’interno di un carcere. “In Seconda Chance, crediamo fermamente che ogni individuo abbia il diritto a una seconda opportunità, specialmente quando dimostra di voler lavorare su sé stesso e contribuire alla comunità”, spiega Flavia Filippi, giornalista di LA7 e fondatrice di “Seconda Chance”, “questo progetto di rieducazione attraverso lo sport si fonda sull’idea che il carcere non debba essere solo un luogo di detenzione, ma anche uno spazio di crescita personale e di riqualificazione. Investire poi sulla formazione e sul reinserimento professionale dei detenuti significa anche ridurre il rischio di recidiva, creando condizioni concrete affinché possano reintegrarsi nella società come cittadini responsabili e autonomi. Attraverso programmi mirati di formazione professionale vogliamo offrire a questi uomini e donne gli strumenti per riscattarsi, per trovare un lavoro dignitoso e per ricostruire i loro legami con la società. Vogliamo dimostrare che la nostra Società è capace di offrire una seconda possibilità, e che questa possibilità può fare la differenza tanto per il singolo individuo quanto per la collettività intera”. “La nostra esperienza ci mostra ogni giorno il potere trasformativo dello sport come strumento di inclusione sociale”, spiega Alessandro Tappa, Presidente di “Sport Senza Frontiere”, “il progetto di rieducazione che presentiamo mira a portare questa opportunità all’interno di uno dei principali istituti penitenziari italiani, offrendo ai detenuti la possibilità di acquisire nuove competenze attraverso la pratica sportiva e corsi professionalizzanti. Siamo convinti che il miglioramento del benessere psicofisico garantito dallo sport, insieme a un apprendimento mirato, possa avere un impatto positivo sul loro percorso di vita, sostenendo la loro reintegrazione sociale. Attraverso valori fondamentali come disciplina, rispetto e lavoro di squadra, intendiamo fornire strumenti che permettano di ricostruire il proprio futuro e affrontare le sfide con rinnovata fiducia. Oggi il tema delle carceri è all’attenzione di tutti e poter intervenire concretamente attraverso un progetto così impattante è per noi una grande soddisfazione. Solo condividendo opportunità, strumenti e competenze si può realmente affermare che la relazione profit, non profit rappresenta un valore aggiunto”. È possibile supportare l’iniziativa partecipando al crowdfunding ad esso dedicato avviato da “Seconda Chance” e “Sport Senza Frontiere” sulla piattaforma della Rete del Dono (https://www.retedeldono.it/progetto/rigiocare-il-futuro). Nell’isola chiamata carcere, approdo dei naufraghi di vita di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2024 Se è vero - per dirla con John Donne - che “nessun uomo è un’isola”, per comprendere davvero le voci di un carcere bisogna ascoltare anche quelle che restano fuori. Come in certe sere alle Mantellate a Roma o intorno a via Filangieri a Milano, quando il vento ripete nomi di mariti, figli, fratelli - quasi solo uomini - scanditi a squarciagola da donne che fanno giungere così il proprio abbraccio al di là di blindo e cancelli. La vicinanza delle famiglie è determinante nel percorso dei detenuti: lo sanno bene gli operatori penitenziari, lo sa bene chi, come Daria Bignardi, da anni fa dono del suo tempo ai reclusi della casa circondariale di Milano. Un legame diventato ora un libro, che è un diario di navigazione e uno zibaldone di storie, tra volti incontrati o cercati. Tra prigioni e isole. Tra San Vittore, in prevalenza, e Linosa. Perché “Ogni prigione è un’isola” (Mondadori, 168 pag, 18.50 euro), recita il titolo del volume che non è un’inchiesta né un saggio, non ambisce a spiegare la complessità, ma si sviluppa lungo un percorso personale in compagnia degli abitanti di un carcere e di un’isola. Negli anni, alcuni scogli sono diventati penitenziari, tra i più duri. Come l’Asinara e Pianosa, con le celle di massima sicurezza per i boss stragisti. O, con un balzo indietro, come il panopticon di Santo Stefano, difronte a Ventotene, dove fu imprigionato il futuro presidente della Repubblica, Sandro Pertini, come pure Luigi Settembrini. “Viviamo - annotava nelle Lettere dall’ergastolo - ad arbitrio de’ venti, del mare e de’ marinai”. Una frase scelta da Bignardi ad esergo del libro, in cui il lettore, nell’incontro con i reclusi, ritrova specchiati i mali non risolti del mondo di fuori. Ecco perché “di carcere non vuole parlare nessuno”, premette l’autrice, che entra nel rituale di cancelli, parlatoi e “domandine” con lo sforzo di sfrondare ogni frase dal troppo e dal vano. E’ la vita del carcere che le interessa, fatta “di dolore, ingiustizia, povertà, amore, malattia, morte, amicizia, rimpianto di una felicità e desiderio di libertà”. Ma anche fatta di colloqui, ancora più autentici dentro di fuori, perché contingentati; di tormenti e di tentativi di riparazione, “perché i prigionieri si sentono in colpa rispetto ai parenti - scrive l’autrice - e ne parlano continuamente”. Le storie (l’ex ergastolano divenuto imprenditore che dà lavoro ad altri detenuti; l’ex della banda di Vallanzasca con la testa non “più calda ma disperata per gli anni di vita persi”; il fratello di una vittima della rivolta di Modena con il suo dolore e i suoi interrogativi; gli ex della lotta armata) sono costellate di riflessioni, che non possono che provenire da “una Settantotto”, come si chiama in gergo chi ha il permesso di entrare in carcere “allo scopo di partecipare all’opera rivolta al sostegno morale dei detenuti e degli internati, e al futuro reinserimento nella vita sociale”. Bignardi lo fa nel reparto La Nave di San Vittore per tossicodipendenti, tra corsi di scrittura, articoli di giornale e un coro, possibili grazie alla generosità dei volontari. Anche per questo, ogni carcere è diverso da un altro. Perché ogni carcere è anche il territorio che lo circonda. Oltre che luogo di comunità in cui “se sta male il carcerato sta male anche la guardia”, riflette un ex detenuto, convinto che “gli stessi che hanno picchiato a Santa Maria Capua Vetere a Bollate non lo avrebbero fatto”. Come più raramente torna a delinquere chi, nell’istituto alle porte di Milano, ha avuto accesso ad un’occasione professionale, come dimostrato da una ricerca sulla recidiva. Da anni però, “le prigioni sono tornate a vestire l’abito degli ospedali generali di un tempo”, ammette il direttore dei servizi penitenziari di Parigi in un’audizione citata da Bignardi. Aubergedes pauvres, ricovero per ogni categoria di emarginati. In Francia, come in Italia. Il carcere quindi isola distante, spazio separato dalla società dei liberi, ma talora addirittura approdo. Gli antichi greci chiamavano l’isola nesos, terra che fluttua, forse dal verbo nechomai, nuotare. Terra dove continua a stare, ad esempio, chi non ha una casa per poter accedere alle misure alternative; terra che va incontro a detenuti-naufraghi, a cui il vento non ha baci da consegnare. Come i non pochi che si tolgono la vita alla vigilia del ritorno in libertà. Un paradosso drammatico, in apparenza. Un’emergenza che riguarda e chiama in causa tutti. Se si vuole evitare che il carcere continui a replicare se stesso. Isola da cui troppi non riescono a ripartire. “Settimana per la pace”. A Bolzano voci di libertà di Francesca Visentin Corriere dell’Alto Adige, 16 ottobre 2024 Una mostra e conferenze con donne icone di impegno nel mondo, come Narges Mohammadi. Da Narges Mohammadi, Premio Nobel per la Pace 2023, attivista iraniana in carcere per la lotta in difesa dei diritti umani, alle palestinesi Sumaya Farhat Naser e Hiyam Marzouqa-Awad, Bolzano si prepara ad accogliere voci di libertà, contro guerra, oppressione, diritti violati. Il Centro per la Pace di Bolzano ha organizzato fino a domenica una settimana di sensibilizzazione alla pace, insieme all’istituto “De pace fidei”. Domani al centro Pastorale di piazza Duomo (ore 18) arrivano le attiviste palestinesi, la scrittrice Sumaya Farhat Naser e la medica Hiyam Marzouqa-Awad, a lungo primaria del Caritas Baby Hospital, che oltre alla conferenza, incontreranno gli studenti e le studentesse delle scuole. Sumaya Farhat-Naser ha co-fondato organizzazioni come Women Waging Peace eil Global Fund for Women .Èconosciuta in tutto il mondo per l’impegno per i diritti umani e la lotta per pace e giustizia in Medio Oriente. Hiyam Marzouqa è stata a lungo primaria del Caritas Baby Hospital, dove ha lavorato fino all’agosto 2024. Sotto la sua guida, il Caritas Baby Hospital è diventato un’importante risorsa nel Medio Oriente, offrendo assistenza medica a tutti i bambini e ragazzi fino ai 18 anni. Sempre nell’ambito della settimana per la pace, viene inaugurata nel Foyer del Comune di Bolzano, lunedì 21 (ore 18), la mostra fotografica La Rosa e l’Usignolo. Il canto della libertà... Zan, Zendegi, Azadi, di Carmine Sanchirico, dedicata al popolo iraniano. A ogni foto è associata una poesia, scelta tra quelle dei più grandi poeti della letteratura classica e contemporanea dell’Iran. Grande attesa per il momento clou della settimana per la pace: il 24 ottobre nella Sala di Rappresentanza del Comune di Bolzano (ore 18), l’incontro con Ali e Kiana Rahmani, figli della Premio Nobel per la Pace 2023, Narges Mohammadi, attivista iraniana in carcere per la lotta in difesa dei diritti umani e delle donne. Ali e Kiana Rahmani portano a Bolzano la voce e l’impegno della loro madre, che anche dal carcere e nonostante le torture, continua a lottare per i diritti. Narges Mohammadi è la vicepresidente del Defenders of Human Rights Center, guidato da Shirin Ebadi. È prigioniera nel carcere di massima sicurezza di Evin, noto nel mondo per la violazione dei diritti umani, pestaggi, molestie sessuali, rifiuto di cure mediche e torture. Mohammadi è stata condannata a un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate. Il 6 ottobre 2023 ha vinto il Premio Nobel per la pace “per la sua battaglia contro l’oppressione delle donne in Iran e per promuovere diritti umani e libertà”. Narges Mohammadi dal carcere ha fatto sapere: “Non ho perso speranza e motivazione. Credo profondamente che gli sforzi instancabili di attiviste e attivisti alla fine daranno i loro frutti. I pensieri e i sogni non muoiono. La fede nella libertà e nella giustizia non muore con il carcere, la tortura o la morte. E la tirannia non prevale sulla libertà”. Narges Mohammadi non piega la testa. “Il duro trattamento e la condanna che ho subito non sono dovuti a attività terroristica - continua a ribadire con forza - , ma come ammesso dai giudici, sono per la mia battaglia per i diritti. Nella mia patria sono condannata e imprigionata perché difendo i diritti, sono femminista e mi oppongo alla pena di morte. Ma la detenzione e la condanna non solo non mi hanno fatto provare rimpianto, ma anzi hanno rafforzato più che mai il mio impegno nella difesa dei diritti umani. Quando una donna come me si oppone alle norme tiranniche, subisce il carcere e la separazione dai figli, come azioni intimidatorie per le altre donne. Questa tirannia utilizza ogni possibile leva per istituzionalizzare la discriminazione sulla base del genere, della sessualità, della religione, dell’etnia e dell’orientamento ideologico, in particolare contro le donne”. I ragazzi nell’era del rancore di Walter Veltroni Corriere della Sera, 16 ottobre 2024 Gli episodi di violenza di questi giorni che hanno come protagonisti i nostri giovani. È un’emergenza. “È sempre successo”. Così di solito si sente rispondere chi considera i fatti di cronaca terribili di questa stagione del nostro vivere come qualcosa di spaventosamente nuovo, di spaventosamente inedito. Invece i rassicuratori ci invitano a non preoccuparci - cosa vuoi che sia se nelle scuole americane si spara - con centinaia di morti, se gli adolescenti soffrono come cani - in fondo sono pochi e non votano - se le strade di questo povero Paese - non diversamente da quelle francesi o inglesi - sono macchiate di sangue bambino. “È sempre successo” dicono, citando la storia di Novi Ligure o quella di Pietro Maso. Ma quei casi sono estratti da diversi decenni di vita italiana; ci inchiodarono e si sono fissati nella memoria collettiva proprio per la loro terribile unicità. Ora invece facciamo fatica a ricordare la sequenza degli eventi tragici dell’ultima settimana. L’assassino diciannovenne di Rozzano ha detto che è uscito di casa con un coltello in mano, in piena notte, e ha deciso di uccidere un giovane di 31 anni “perché aveva passato una brutta giornata”. Un diciassettenne di Viadana ha strangolato una donna perché voleva vedere “che effetto faceva uccidere una persona” e per questo si era documentato su Internet dove aveva lasciato messaggi di sostegno all’assassino di Giulia Cecchettin. A Paderno Dugnano un ragazzo di diciassette anni ha ucciso madre, padre e fratello perché viveva un profondo disagio interiore fino a sentirsi “un estraneo, in famiglia e nel mondo” e ha pensato che, liberandosi dagli altri, sarebbe stato più libero e più felice. Ha qualche anno di più, solo pochi, la ragazza che, a Traversetolo, mette al mondo due creature e poi le toglie dal mondo, sotterrandole nel giardino di casa prima di andare in vacanza negli Usa. Tutti questi episodi in un mese. Solo in un mese. Non è “sempre successo”. Non così, non tanto così. E gli adulti, quelli che hanno o dovrebbero avere più responsabilità, fanno finta di non vedere, perché questa bava di dolore e sangue chiama in causa cose profonde. Sono ragazzi italiani, sono del Nord prospero, sono di famiglie “normali”. I genitori, spesso distratti da sé stessi, sono però lasciati soli, come gli insegnanti, delegittimati da uno spirito del tempo che deride autorevolezza e competenza. Tutti soli, in una spirale di violenza e in una perdita inavvertita del valore della vita umana che assomiglia a quella che si verifica nelle zone e nei tempi di guerra. Gli analisti della mente umana spiegheranno gli effetti che il Covid, l’impatto con la morte e la paura, hanno avuto sulla nostra visione degli altri, sul nostro rapporto con il futuro. In quei mesi allucinanti, non dimentichiamolo, furono quasi duecentomila i morti in Italia, più delle vittime civili della Seconda guerra mondiale. Altri ci diranno dell’incidenza della società digitale nella alterazione delle relazioni tra il formarsi della vita nei ragazzi e il contesto. Del radicale modificarsi, secondo quanto dice Jonathan Haidt nel suo “La generazione ansiosa”, di una esperienza adolescenziale che oggi si svolge essenzialmente attraverso il labirinto digitale. Un intrico di vie e di indirizzi nei quali è facile perdersi ed è facile soffrire. La pressione che agisce sui ragazzi, trasformandoli da subito in soggetti esposti a una dimensione pubblica e universale, costretti costantemente a cercare conferme di autostima magari minata da un insufficiente numero di followers, la precocità con la quale si entra in contatto, basta una tastiera, con il mondo violento dei grandi, l’obbligo di crescere in fretta, di divorare il tempo, il sottile veleno della negazione della bellezza dell’altro da sé, la pesantezza di una società che trasferisce solo ansia per il futuro e che è deprivata, anche politicamente, di ogni sogno collettivo che fornisca senso: tutto questo amplifica a dismisura il male naturale di vivere che quel tempo della vita assegna all’esperienza umana. Tempo fa un ragazzo di Torino ha accoltellato un ragazzo che passava per strada perché “era troppo felice”. E il diciassettenne di Paderno ha sterminato la famiglia la notte del compleanno felice del padre. La felicità vissuta come inarrivabile e punibile in chi la mostra. Non è “sempre successo”. I ragazzi della mia generazione sono caduti quando l’eroina è arrivata a fiotti incrociando delusioni per un tempo storico che non conosceva i cambiamenti che aveva annunciato. Altri hanno preso le armi per sparare contro chi non la pensava come loro. Ma quello che viviamo è un disagio diverso. Più diffuso - basta chiedere a chi ha figli adolescenti - più sottile, più debilitante. La forza rodomontica della società digitale si alimenta proprio della fragilità dei suoi maggiori consumatori. Musk annuncia il robot e tutti gioiscono come bambini, senza pensare a come armonizzare questa cinematografica novità con la vita, la società, la libertà di noi mortali. Nel frattempo, sono i dati italiani a ricordarcelo, dal 2006, anno di arrivo degli smartphones, sono raddoppiati i reati verso i minori. E tra loro crescono esponenzialmente i casi di ansia, di autolesionismo, gli istinti suicidari, le forme di disturbo dell’alimentazione. O le risse violente tra gruppi di adolescenti. Il ragazzo di quindici anni di Senigallia che si è tolto la vita perché devastato dal bullismo era, secondo chi lo conosceva: “gentile, terribilmente gentile”. La gentilezza, il reato più grave, in questo tempo di lupi rancorosi. Non è “sempre successo”. La scena più struggente di “Uccellacci e Uccellini” di Pier Paolo Pasolini è quella in cui una madre, contadina, non avendo i soldi per dare da mangiare al figlio piccolo, gli risponde, quando in pieno giorno lui la chiama affamato: “Dormi, che è ancora notte”. Così finisce col fare, con cinismo, senza tenerezza, chi si ostina a non vedere che la condizione umana degli adolescenti del nostro tempo sta diventando un’emergenza. Una feroce, dolorosa emergenza. Alla quale è troppo facile rispondere: “Dormi, che è ancora notte”. Migranti. La denuncia di Francesca Ghirra: “Il Cpr di Macomer è un lager” di Claudio Zoccheddu La Nuova Sardegna, 16 ottobre 2024 La deputata di Avs ha visitato il Centro di permanenza per i rimpatri: all’interno migranti, detenuti con problemi psichici. Il report diventerà un esposto alla Procura di Nuoro. La descrizione non lascia spazio alle interpretazioni: lager. Il Cpr di Macomer, cioè il Centro di permanenza per i rimpatri, descritto durante la conferenza stampa della deputata Francesca Ghirra, pare una struttura che arriva dal passato più buio dell’umanità, dove il rispetto dei diritti umani non sembra ammesso all’ingresso. Il racconto è devastante già a partire dai presupposti: “Quello di Macomer è il più impenetrabile tra i Cpr italiani”, ha ripetuto più volte l’avvocato Cesare Mariani, che ha partecipato alla visita per conto dell’associazione Naga. Dentro il centro, in cui dovrebbero finire le persone raggiunte da provvedimenti amministrativi, la delegazione guidata dalla deputata Ghirra ha trovato invece persone con problemi psichici, quasi tutti migranti, ma anche persone che in quel Cpr non ci sarebbero mai dovute finire e che invece hanno trascorso anni dentro uno stabile che sarebbe dovuto essere un carcere di massima sicurezza ma che, non avendo raggiunto i requisiti necessari, è stato adibito a Cpr: “Non era sufficientemente sicuro per i detenuti in regime di 41bis, ma invece può ospitare i migranti”, ha sottolineato il medico Nicola Cocco, anche lui parte della delegazione ammessa nella struttura. Difficile spiegare la presenza di un uomo di nazionalità statunitense, del tutto avulso dal mondo “esterno” e convinto di essere la reincarnazione di Richard Nixon, o di un giovanissimo nordafricano, nato forse nel 2004 ma registrato all’anagrafe del Crp come se fosse un uomo del 1984, ma anche di un società esterna alla struttura, composta perlopiù da cittadini marocchini che avrebbero dovuto fare da interpreti ma che, secondo il racconto dei testimoni, in realtà gestiva l’intera struttura seguendo il principio di “Africa comanda Africa”. E poi tante altre persone che, pur di farsi sentire, erano arrivate ad autoinfliggersi pesantissime ferite o a praticare atti di picacismo, cioè mangiare cose non commestibili, come gli escrementi. Una situazione condita dai racconti delle violenze subite dai detenuti, raccontate in prima persona da Omar, ex ospite della struttura, oggi finalmente libero, che ha offerto un terribile spaccato della vita all’interno del “lager” di Macomer. Il report prodotto dalla deputata Ghirra e dalle associazioni “Naga” e “Mai più lager- No ai Cpr” diventerà un esposto che verrà trasmesso alla Procura di Nuoro in modo che si possa finalmente accendere la luce sul “Cpr più impenetrabile d’Italia”. Migranti. Processo alla gestione del Cpr di Milano: due detenuti ammessi come parti civili di Andrea Sparaciari La Notizia, 16 ottobre 2024 Sono già due - ma saranno molti di più - i detenuti del Cpr di via Corelli che chiederanno di essere parti civili nel processo. Mentre il governo pubblicizza ovunque il suo centro albanese, sui Centri permanenza e rimpatrio “nostrani” cala il silenzio. E invece di cose ce ne sarebbero da dire, a partire dagli ultimi sviluppi dell’inchiesta milanese sul Cpr di via Corelli a Milano, nel quale i migranti, secondo le indagini dei pm Paolo Storari e Giovanna Cavalleri e del Nucleo di polizia economica finanziaria della Gdf, sarebbero stati rinchiusi in condizioni “disumane” e “infernali”. Due reclusi ammessi come parti civili. E altri seguiranno - Ieri due migranti - ex “ospiti” nel Cpr - all’udienza preliminare sono stati ammessi come parti civili, per gli eventuali danni, e altri hanno annunciato che si costituiranno nell’udienza in programma davanti al gup Mattia Fiorentini, a carico di Alessandro Forlenza e Consiglia Caruso, amministratori di fatto e di diritto della Martinina srl, e della stessa società con sede a Salerno. Per gli ex gestori del centro le accuse sono di frode in pubbliche forniture e turbativa d’asta. Come parti civili sono state ammesse anche le associazioni Naga e BeFree, che da tempo si occupano dei Cpr e denunciano le condizioni in cui sono trattenuti i migranti. Forlenza, difeso dall’avvocato ed ex pm Antonio Ingroia, ha chiesto di patteggiare un anno e 8 mesi e la Martinina ha chiesto un patteggiamento a 15mila euro di sanzione pecuniaria con interdizione dal contrattare con la pubblica amministrazione per 20 mesi. Non ha scelto riti alternativi, al momento, Caruso, madre di Forlenza. L’inferno del Cpr milanese svelato dalla Guardia di Finanza - L’inchiesta aveva avuto una svolta lo scorso 1° dicembre con un blitz all’alba della Guardia di finanza che aveva perquisito la struttura in appalto per la Prefettura in base a una gara da 4 milioni e 398mila euro. Nel Cpr sarebbero stati “totalmente assenti” i servizi di “mediazione linguistico culturale, orientamento legale, assistenza sociale, psicologica” che, sebbene contrattualizzati, venivano documentati alla Prefettura di Milano con “dati falsi” e firme apocrife. I migranti sarebbero stati trattenuti all’interno con un “uso smodato”, “costante e indiscriminato” di benzodiazepine e psicofarmaci. Le altre gare con i documenti contraffatti - Inoltre, Forlenza risponde di altre imputazioni, in quanto “quale amministratore di fatto di Engel Italia srl e Martinina” avrebbe presentato “documentazione contraffatta” partecipando ad altre “gare d’appalto” per la gestione di centri di accoglienza per stranieri richiedenti asilo, tra Milano, Salerno, Brindisi e Taranto. L’udienza preliminare è stata aggiornata al 18 dicembre, anche perché si attende il passaggio di consegne tra l’amministratore giudiziario (una relazione sarà depositata nelle prossime settimane) e la nuova società che ha vinto il bando per la gestione del centro. La Prefettura, che si accingeva a prolungare l’affidamento alla Martinina (intendimento caduto solo con lo scoppio dell’inchiesta), non ha chiesto di costituirsi parte civile. Oggi invece alla Camera Avs presenterà il report: “A porte chiuse. La violenza del Cpr di Macomer tra punizioni e razzializzazione”, curato dall’Associazione NAGA ODV e dalla Rete Mai più Lager - No ai Cpr, sulla base delle denunce arrivate al centralino Sos dell’Associazione. Primi migranti detenuti caricati su una nave per l’Albania: un precedente pesantissimo di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 16 ottobre 2024 La delocalizzazione degli esseri umani, come oggetti, come pesi morti, come spazzatura da portare in discarica. I primi migranti detenuti sono stati caricati su una nave che da Lampedusa li farà sbarcare in Albania, paese dove il governo italiano ha costruito due hotspot per trattenerli, più un carcere per essere pronti ad arrestarli qualora commettessero un reato. Scelta provvida, quest’ultima, vista la prossima introduzione del reato di rivolta nei centri per migranti, configurabile anche nei casi di resistenza passiva (per definizione: quando non si fa nulla). In quei luoghi senza legge che sono tali centri, dove non vi è alcuna regolamentazione formale degli standard di vita interna e pochissima supervisione indipendente, la resistenza passiva è spesso il solo modo che rimane per dire al mondo e a se stessi che si è vivi, che si è ancora uomini e donne, che si è qualcosa di più di un corpo fisico abbandonato lì. Il mercato globale ci ha abituati alla delocalizzazione delle produzioni e dei servizi. I paesi ricchi vanno nei paesi poveri per sfruttare manodopera a basso costo. Da qualche anno delocalizziamo le persone. I paesi ricchi vanno nei paesi poveri per depositare chi non ha più diritti ed è solo un fastidio e un costo a perdere. Basta pagare e il fastidio non c’è più. Si può fare preventivamente, come quando nel 2017 l’Italia scelse di pagare la Libia (ovvero le bande criminali che se la contendevano) affinché bloccasse con qualsiasi mezzo - anche la morte o la tortura - chi voleva raggiungere le nostre coste. Nel dicembre 2021 la Danimarca decise di pagare il Kosovo affinché si prendesse qualche centinaio di detenuti condannati da tribunali danesi che affollavano le carceri del Regno. Oggi il governo italiano paga l’Albania, secondo un accordo firmato nel novembre scorso, per detenere migranti al posto nostro, senza dimenticare di arrestarli quando fosse opportuno. Chi ha creduto nel sogno europeo ha sperato nella libera circolazione delle persone che ha seguito la libera circolazione delle merci. Come in un quadro dalla prospettiva allucinata e distorta, assistiamo adesso alla deportazione delle persone che segue l’ormai consolidata deportazione della forza lavoro per la produzione di merci. I costi del protocollo Italia-Albania sono enormi (oltre 650 milioni di euro in cinque anni) e non del tutto chiari (il ministro Piantedosi ha ammesso la necessità di un sovrappiù che li porterebbe a circa 800 milioni). Il piccolo carcere per migranti esternalizzati sottrarrà al già insufficiente personale del sistema penitenziario italiano 45 persone tra poliziotti e dirigenti, le quali partiranno per l’Albania attratte da uno stipendio triplicato. Un’operazione propagandistica che si ripercuoterà sulle nostre tasche e non servirà a niente. Ma per questo poco male, ne abbiamo viste tante. Il dramma è che, con la partenza odierna di quella manciata di primi esseri umani delocalizzati in Albania, abbiamo messo un tassello che pesa come un macigno nella pratica di delocalizzazione degli scarti umani da imprigionare. Lo fa l’Italia, paese tra i fondatori del Consiglio d’Europa, tra i fondatori dell’Unione Europea. Si può fare, lo può fare chiunque. Soldi in cambio di persone da detenere. Migranti in detenzione amministrativa, persone condannate penalmente, portate lontane dalle loro famiglie, dai loro avvocati, dai magistrati di sorveglianza. O magari un domani minorenni incarcerati, donne allontanate dai figli, chi lo sa? Per adesso i due centri italiani in terra albanese dovrebbero recludere, nelle intenzioni del governo Meloni, maschi adulti provenienti da paesi qualificati come sicuri mentre la loro richiesta di asilo viene esaminata. Lo scorso 4 ottobre la Corte di giustizia europea, in una sentenza riguardante un cittadino della Moldavia in Repubblica Ceca, ha fatto alcune precisazioni a proposito di cosa significhi che un paese è sicuro. Il decreto governativo del maggio 2024 che aggiorna al rialzo l’elenco di quelli considerati tali dall’Italia - così da poter sottoporre più persone richiedenti protezione internazionale alla procedura accelerata, con conseguente restrizione delle garanzie - è vergognosamente esteso. Basti dire che l’Egitto è considerato un paese sicuro. Dopo aver torturato a morte Giulio Regeni. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Migranti. Chi in Italia e chi no. Una selezione senza basi giuridiche di Gianfranco Schiavone Il Manifesto, 16 ottobre 2024 Tutto quello che non sta in piedi nell’operazione Albania. A partire dalle procedure di screening che non poggiano su nessuna norma di legge ma sulla semplice prassi. La prima cosa da chiedersi di fronte alla notizia che sedici migranti sono stati trasportati forzatamente in Albania è come sia stata decisa la selezione. Come e perché, vale a dire, questi sedici sono stati separati dagli altri per i quali invece il soccorso in mare si conclude in Italia, dove accedono alle procedure di asilo ordinarie e vengono ospitati in strutture aperte. Non occorrono competenze tecniche particolari per capire che questa selezione incide sulla condizione giuridica (e sulla vita) delle persone interessate. Eppure le operazioni di screening per l’invio coattivo in Albania non sono disciplinate da nessuna norma, neanche di rango secondario, come se fosse normale attuarle sulla base di una semplice prassi. La messa in pratica del Protocollo tra Italia e Albania apre enormi problematiche giuridiche. Il presupposto di fondo è la possibilità, rivendicata dal nostro governo, di applicare nelle aree soggette alla giurisdizione italiana ma in territorio albanese il diritto italiano e quello dell’Unione europea sull’ingresso e il soggiorno degli stranieri “in quanto compatibili”. Ma è un presupposto quanto mai incerto. Nessuno dei testi normativi vigenti e neppure i nuovi regolamenti sull’asilo sembrano consentire un’applicazione del diritto dell’Unione al di fuori del territorio (o delle frontiere) degli Stati membri. LE PERSONE soccorse nelle acque internazionali vengono dunque forzosamente portate dall’Italia in un Paese terzo al solo scopo di limitare l’esercizio delle garanzie procedurali. Chi verrà detenuto nei centri in Albania, che sono lontani anche dai centri urbani di quel Paese (il centro di Gjader si qualifica come un esempio perfetto di campo di confinamento) non potrà comunicare con le organizzazioni che prestano assistenza legale ma solo con il gestore del centro, soggetto non indipendente perché agisce su incarico del ministero dell’Interno. Chi si trova lì confinato assai difficilmente potrà consultare un avvocato italiano, non potendo uscire dal centro (come scegliere un avvocato su una lista di nomi di sconosciuti? e una volta scelto, in quale lingua parlarci? con quale interprete? con quale mezzo? Il cellulare che non ha - o la cui scheda potrebbe non funzionare in Albania? Con il computer dell’ente gestore? Quanti minuti avrà a disposizione?) Sono tutte domande che vanno al cuore del principio di effettività della norma, ovvero il principio in base al quale il diritto enunciato deve essere concretamente esercitabile. La questione dell’effettività del diritto si fa particolarmente acuta nel caso di ricorso contro il rigetto della domanda di asilo, decisione che verrà assunta dopo un’audizione fatta in videoconferenza. Secondo la nuova procedura il tempo per proporre il ricorso è drasticamente ridotto da quindici a sette giorni. Sette giorni per cercare un avvocato disponibile in Italia (in che modo?) fornirgli tutti gli elementi a sostegno del ricorso (in quali colloqui riservati? fatti dove?) e da parte dell’avvocato scriverlo e depositarlo. Tutto in sette giorni! Tutto ciò appare in contrasto con il diritto alla difesa sancito dall’articolo 24 della Costituzione. O forse, dobbiamo chiederci, nell’ottica del “diritto speciale del nemico” per queste persone tale diritto non deve esistere? Non è finita qui. Nei centri usati come hotspot in Albania è previsto il trattenimento dei richiedenti asilo sottoposti alla procedura accelerata di frontiera, ma il principio cardine del diritto europeo è proprio il divieto di trattenimento generalizzato e l’obbligo di “una valutazione caso per caso” (Direttiva 2013/33/UE articolo 8) se attuare il trattenimento “solo dopo che tutte le misure non detentive alternative al trattenimento sono state debitamente prese in considerazione”. La procedura accelerata di frontiera che si prevede di realizzare in Albania esclude del tutto la possibilità di valutare una misura diversa dal trattenimento, che si configura dunque come l’unica opzione possibile. Dunque si tratta di procedura in radicale contrasto con il diritto europeo che aggira del tutto istituendo esattamente ciò che è vietato, ovvero un trattenimento generalizzato. Da ultimo, una questione molto trattata anche sulla stampa negli ultimi giorni, ma non sempre ben chiarita. Questa procedura speciale di frontiera e il trattenimento sono possibili solo nel caso in cui il richiedente asilo provenga da un paese dichiarato sicuro. Ma che cos’è un paese di origine sicuro nel diritto europeo? È un paese nel quale, in modo generale e uniforme, non vi sono persecuzioni (definite dall’articolo 9 della direttiva 2011/95/CE), né torture, né trattamenti o pene inumani o degradanti, né minacce di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno. La sentenza del 4 ottobre 2024 della Corte di giustizia dell’Unione europea afferma due importanti principi di diritto: il primo è che le condizioni di sicurezza devono essere soddisfatte in tutto il territorio affinché il Paese di origine possa essere considerato sicuro (e molti dei paesi designati dall’Italia non lo sono affatto sotto questo profilo); il secondo e non meno importante principio (di cui si è parlato poco) è che il giudice è tenuto a valutare in concreto se il paese di origine del richiedente è sicuro nel senso indicato dal diritto europeo; se non lo è la procedura diviene ordinaria e di conseguenza senza alcun trattenimento. In molte ordinanze i Tribunali competenti hanno ritenuto che Tunisia, Egitto, Bangladesh e altri paesi non siano sicuri e pertanto non hanno convalidato il trattenimento dei richiedenti asilo negli hotspot italiani. Spetterà ora al Tribunale di Roma, sezione specializzata sull’asilo, valutare i possibili profili di legittimità che avvolgono la prima attuazione pratica dell’accordo con l’Albania, con riferimento ai casi concreti delle persone che sono state coattivamente portate lì. Il metodo usato dall’Italia con l’Albania, sui migranti, è tutto tranne che uno scandalo di Claudio Cerasa Il Foglio, 16 ottobre 2024 Cortocircuiti e miti da sfatare. La domanda in fondo è semplice e riguarda il famoso piano elaborato dal governo italiano per esternalizzare in Albania uno degli ingranaggi che riguardano la gestione del flusso dei migranti. Domanda semplice: ma oltre alla propaganda c’è qualcosa di più? Questa mattina, come forse già sapete, arriveranno in Albania i primi migranti intercettati dalla Marina militare italiana in acque internazionali. L’accordo tra il governo italiano e quello albanese prevede i seguenti punti. L’Albania ha dato all’Italia il permesso di realizzare due strutture dedicate alla gestione dei flussi dei migranti. La prima struttura si trova a Shengjin, a 66 km a nord di Tirana, mentre la seconda struttura si trova a Gjadër, 21 km più a nord (in entrambe le strutture vige la giurisdizione italiana e sono le forze di polizia italiane che devono garantirne l’ordine). La prima struttura è un centro per il trattenimento di richiedenti asilo e ha 880 posti. La seconda struttura è un Cpr (un centro di permanenza per i rimpatri) e ha 144 posti. I migranti che la Marina militare può portare qui sono solo ed esclusivamente quelli intercettati e salvati in acque internazionali e sono solo ed esclusivamente maschi, adulti, non vulnerabili, provenienti da paesi inseriti nella lista dei cosiddetti paesi sicuri (il primo screening dei migranti viene fatto a bordo della nave della Marina che porta i migranti dalle acque internazionali all’Albania). Una volta arrivati in Albania, i migranti arrivano al primo hotspot. Entro 28 giorni occorre analizzare, come succede in Italia, le pratiche di chi ha diritto a richiedere l’asilo e chi no. Chi ne ha diritto, viene trasferito in Italia. Chi non ne ha diritto, viene spostato nel Cpr. Chi può essere rimpatriato viene rimpatriato direttamente dall’Albania. Chi non può essere rimpatriato viene portato nel Cpr albanese. Nei Cpr il tempo massimo di permanenza è di diciotto mesi. Una volta trascorsi i diciotto mesi, i migranti ricevono il foglio di via e vengono portati in Italia. Una volta arrivati in Italia, come tutti i migranti con foglio di via, hanno quindici giorni per lasciare il paese (nel caso in cui un migrante venga scoperto ancora in Italia nonostante il foglio di via le Forze dell’ordine gli consegnano un altro foglio di via). Capienza circa 45 mila migranti all’anno. Costo dell’operazione: circa 635 milioni di euro in cinque anni. Una volta fatti i conti con le coordinate dell’operazione si può provare a rispondere alla domanda di cui sopra, aggiungendo qualche elemento di riflessione in più: oltre alla propaganda c’è qualcosa di più? L’operazione albanese porta al governo almeno cinque vantaggi. Un primo vantaggio è di carattere retorico e non c’è dubbio che la creazione a caro prezzo della bolla albanese possa consentire alla presidente del Consiglio di rivolgersi ai propri elettori e non solo a quelli con lo sguardo di chi finalmente può dire di aver trovato una via di mezzo tra la follia salviniana dei porti chiusi, la scellerata strategia del blocco navale e l’utopia europea della solidarietà sui migranti. Il secondo vantaggio è di carattere politico, per così dire, e riguarda una certa percezione che assume l’Italia, che nell’immaginario esterno diventa un paese che sceglie una via nuova, per qualcuno creativa per altri disumana, per poter dimostrare di voler proteggere i confini dell’Europa. Il terzo vantaggio è di carattere, anche qui, comunicativo, anche se la tesi del governo è tutta da dimostrare: inserire un altro elemento nell’ingranaggio della macchina che gestisce l’immigrazione, tu migrante diretto in Italia sai che prima di mettere piede lì dovrai mettere piede nella bolla italiana in Albania, potrebbe essere un modo per disincentivare le partenze. Il quarto vantaggio è di natura pratica e riguarda i numeri. Se davvero la capienza dei centri albanesi è quella annunciata dal governo, ovvero 45 mila posti all’anno, si può dire che in Albania potrebbe finire una fetta importante dei migranti che sbarcano ogni anno in Italia (nel 2021, gli sbarchi sono stati 67.477, nel 2022 sono stati 105.131, nel 2023 sono stati 157.652, nel 2024 dovrebbero essere un terzo del 2023). Il quinto vantaggio invece è, per così dire, di natura tecnica e ciò che cambia davvero per l’Italia nella esternalizzazione dei centri per i migranti è il fatto che i migranti che si trovano nel Cpr, nel centro di permanenza per i rimpatri, i migranti che dunque non dovrebbero stare in Italia e che dovrebbero essere rimpatriati, per 18 mesi piuttosto che stare chiusi in un Cpr in Italia, vicino a qualche comune che potrebbe soffrire l’affollamento in un Cpr, staranno in un Cpr in Albania, sotto la giurisdizione italiana ma lontana dagli elettori. I soldi potevano essere, come sempre, come per tutto, utilizzati in modo diverso, ma lo scandalo albanese è uno scandalo che non c’è ed è uno scandalo così poco scandaloso da aver incuriosito in modo scandaloso molti leader europei, e non solo a destra. Ieri Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, nella lettera inviata ai leader dell’Unione europea in vista del Consiglio europeo del 17-18 ottobre, ha utilizzato parole soft sul tema del modello Albania: “Dovremmo anche continuare a esplorare possibili strade da percorrere riguardo all’idea di sviluppare centri di rimpatrio al di fuori dell’Ue, soprattutto in vista di una nuova proposta legislativa sui rimpatri. Con l’avvio delle operazioni previste dal protocollo Italia-Albania, saremo anche in grado di trarre lezioni pratiche”. Il Pse, ieri, ha scelto di venire incontro alla posizione del Pd, molto critico con Meloni per la scelta dell’esternalizzazione in Albania, ma nel farlo ha comunque dato uno schiaffetto al Pd. La capogruppo dei socialisti e democratici Iratxe García Pérez, spagnola, ha detto che “i Socialisti e Democratici sono contrari alla creazione di hub di rimpatrio e a qualsiasi forma di esternalizzazione della politica di asilo”. Ma poi ha aggiunto: “Per decenni, abbiamo chiesto un approccio olistico alle sfide migratorie e dopo otto anni di negoziati, finalmente, lo scorso maggio è stato adottato il Nuovo patto sull’asilo e la migrazione”. Problema: il Pd ha votato contro questo patto, che il Pse dice di essere quello giusto su cui misurare le ambizioni dell’Europa, mentre ad aver votato sì, in Italia, sono scandalosamente i nemici del Pse, ovvero Fratelli d’Italia e Forza Italia. A proposito di scandali, poi, se ci si guarda in giro per l’Europa si scoprirà facilmente che le sinistre che si trovano al governo hanno spesso sull’immigrazione un approccio molto diverso dalle sinistre, come quella italiana, che si trovano all’opposizione. Keir Starmer, leader laburista inglese, ha detto a Giorgia Meloni che le esternalizzazioni modello Albania meritano di essere studiate. “Starmer è molto interessato al nostro accordo con Tirana ed entrambi vogliamo che Interpol ed Europol si concentrino sulla lotta ai trafficanti di uomini”, ha detto Meloni un mese fa, dopo aver ricevuto il primo ministro inglese a Palazzo Chigi (Meloni per giovedì sta organizzando un incontro con Olanda, Danimarca, Polonia e forse anche Germania sui temi dell’immgrazione). Lo stesso ha fatto il cancelliere tedesco Olaf Scholz, socialdemocratico, progressista, con cui che già alla fine dello scorso anno, poche ore dopo l’annuncio da parte del governo dell’accordo con l’Albania, ha utilizzato parole simili: “C’è la migrazione irregolare che deve essere ridotta e ci sarà una stretta collaborazione con i paesi al di fuori dell’Unione europea, come avviene ora, ad esempio con la Turchia, e potrebbero essercene altri”. Ci si chiederà perché mai molti paesi europei osservano con curiosità e interesse il modello italiano? Da una parte c’è una questione anche qui tecnica spiegata mesi fa da Sabino Cassese sul nostro giornale: “La finalità del modello albanese mi pare quella di potenziamento della capacità amministrativa, e principalmente di evitare movimenti secondari, ciò che farà felici i paesi che sono destinatari dei movimenti secondari, in particolare Germania e Francia. Da questo punto di vista, mi sembra un accordo utile”. Dall’altra parte c’è invece un tema di carattere politico: se vuoi salvare i confini interni dell’Europa ed evitare che siano gli Orbán a dettare l’agenda sull’immigrazione devi trovare un modo non solo per redistribuire i migranti che arrivano (Patto sull’asilo e migrazione) ma anche per provare a governare i confini esterni dell’Europa (non basta essere dalla parte dei poveri migranti che cercano fortuna in Europa per avere una politica migratoria e di sicurezza). Si può sostenere naturalmente che tutto ciò che verrà fatto in Albania si sarebbe potuto fare anche in Italia, specie ora che i numeri che riguardano l’immigrazione sono contenuti rispetto ai mesi passati, e si potrebbe dire che l’immigrazione per l’Italia resta tutto tranne che un’emergenza - rispetto alle richieste d’asilo, i principali paesi europei di destinazione nel 2023 sono stati Germania (31,4 per cento), Spagna (15,3), Francia (13,8) e Italia (12,4), quasi 131 mila richiedenti per la prima volta. Ma la ragione per cui tra i leader che osservano l’esternalizzazione modello Albania vi sono leader tanto di destra che di sinistra in fondo è semplice e ci permette di rispondere alla domanda da cui siamo partiti: oltre alla propaganda, forse, c’è qualcosa di più, e lo scandalo di volere tentare tutte per governare l’immigrazione lo si può denunciare quando ci si trova comodamente all’opposizione ma non quando ci si trova meno comodamente al governo. Cosa ci stanno a fare nella deportazione in Albania la Croce Rossa, l’UNHCR e l’OIM? di Vittorio Alessandro* L’Unità, 16 ottobre 2024 Nave Libra ha risalito lentamente l’Adriatico (arriverà oggi, due giorni dopo la partenza da Lampedusa) fino al lontano porto albanese di Schengjin con il misero carico di 16 migranti - 10 egiziani e 6 bengalesi - che attentavano ai confini dello Stato italiano: le inaugurazioni sono sempre necessariamente un po’ costose e, per questa, si sono addirittura buttati i soldi in mare. Dei pericolosi 28 “prelevati” dalla nave in acque internazionali, soltanto 12 hanno, infatti, superato l’esamino per Lampedusa, come riportato dal tenace Sergio Scandura di Radio Radicale. Gli altri, gli sfortunati, hanno guadagnato il nostro posto al sole in Albania (dove, assicura il ministro Piantedosi, non c’è filo spinato, e i cronisti confermano: nella tappa finale di Gjadër niente filo, ma barriere di cinta alte cinque metri, e un confortevole carcere indoor). A quale prezzo? Nel 2015, il costo di esercizio di una unità della classe Cassiopea - pattugliatori, tra cui nave Libra, acquistati con fondi destinati alla protezione dell’ambiente marino - era stimato in 12/15mila euro al giorno, al netto dei costi per il personale imbarcato (fonte: Analisi Difesa sull’operazione Mare Nostrum). In questi ultimi dieci anni tale importo è certamente lievitato, stante l’aumento di tutti gli oneri, a partire da quello per il combustibile. Se dunque, al ribasso (considerati anche i generi di prima necessità), stimiamo un impegno giornaliero di 20mila euro, il trasferimento dei 16 migranti sarebbe costato 60mila euro, quasi 4mila a persona, pari al doppio di un biglietto di andata e ritorno per New York. Insomma, mentre alcuni migranti battevano l’onda su nave Libra circondati - dice ancora Scandura - da Oim, Unhcr e Croce Rossa italiana, note d’agenzia annunciavano che a Lampedusa ne erano arrivati in due giorni ben 1.447, sicuramente ben lieti di aver perso la coincidenza per l’Albania. Certe cose accadono solo nelle favole, ma sarebbe stato bello che il governo, piuttosto che cantar vittoria (“Siamo molto soddisfatti, abbiamo dato un buon esempio”, ha detto ieri la presidente Meloni in Senato), in questa storia di mare avesse ammesso di aver preso un granchio. P.S. - Che ci stanno a fare, in questa scombinata missione di deportazione, Oim, agenzie Onu e Croce Rossa italiana? *Ammiraglio L’operazione Cpr in Albania rischia di essere un flop colossale di Vitalba Azzollini* Il Domani, 16 ottobre 2024 La sentenza del 4 ottobre della Corte di giustizia Ue, vincolante sia per il giudice del rinvio sia per tutti i giudici degli stati membri (quindi anche per quelli italiani), potrebbe incidere sull’attuazione del Protocollo insieme ad altre pronunce attese nei prossimi mesi. Mettendo a rischio il trattenimento di migranti nel paese. In questi giorni si sente spesso richiamare una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (CgUe) che potrebbe vanificare l’attuazione del protocollo con l’Albania. Occorre spiegare gli impatti concreti di questa sentenza, unitamente ad altre, attese nei prossimi mesi. Sui medesimi temi sono pendenti due rinvii pregiudiziali alla CgUe da parte del tribunale di Firenze, nonché una questione pregiudiziale sottoposta dal tribunale di Roma alla corte di Cassazione. Le relative pronunce non potranno che confermare la linea tracciata da quella in esame. La procedura di frontiera - Possono essere portati in Albania soltanto i richiedenti asilo provenienti da “paesi di origine sicuri”, ai quali si applica la cosiddetta procedura accelerata di frontiera. Con un decreto del maggio scorso, il ministero degli Affari esteri ha rivisto la lista di tali paesi, ampliandone il numero a solo un anno dal precedente aggiornamento e includendovi stati nei quali, leggendo le relative schede fornite dalla Farnesina, avvengono gravi violazioni dei diritti umani. Il fine è evidentemente quello di fare in modo che sempre più richiedenti protezione internazionale siano sottoposti alla procedura di frontiera, con conseguenti maggiori probabilità di rigetto della loro domanda. Infatti, tale procedura, essendo “accelerata”, presenta per i migranti minori garanzie rispetto a quella ordinaria. Innanzitutto, l’esame delle istanze di protezione deve avvenire in soli sette giorni. Inoltre, l’onere di provare che il paese non sia sicuro grava sul migrante, e per negargli la protezione basta affermare che tale prova non sia stata fornita. Ancora, il termine del ricorso contro il diniego è parti a 7 giorni e la sua proposizione non sospende automaticamente il rimpatrio. La procedura di frontiera dovrebbe durare in totale al massimo 28 giorni. La sentenza della Corte Ue - La sentenza della CgUe del 4 ottobre 2024, emessa su rinvio pregiudiziale di un giudice del tribunale regionale di Brno (Repubblica Ceca) riguardo al caso di un richiedente asilo moldavo, è vincolante sia per il giudice del rinvio sia per tutti i giudici degli stati membri, quindi anche per quelli italiani. La Corte afferma che, ai sensi della direttiva Procedure (2013/32), un paese può essere qualificato come “sicuro” a condizione che, “in modo generale e uniforme”, non si ricorra mai a “persecuzione (…), tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti e che non vi sia alcuna minaccia dovuta alla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno”. Dunque, un paese non è sicuro se “talune parti del suo territorio” non lo sono o se i diritti di alcune categorie di persone rischiano di essere violati. Il giudice - afferma la CgUe - ha il dovere di sindacare l’inserimento di un paese nella lista di quelli sicuri, verificando se siano stati rispettati i criteri di “sicurezza” previsti dalla direttiva. Ciò richiede la valutazione in concreto delle condizioni del paese stesso, oltre che della situazione personale del migrante. Il protocollo con l’Albania - La decisione della Corte avrà impatti rilevanti sull’attuazione del protocollo con l’Albania, dove sarà seguita la procedura di frontiera. Infatti, quasi tutti i paesi che l’Italia ha qualificato come sicuri prevedono eccezioni alla “sicurezza”. Ciò dovrebbe escludere tale qualificazione e, con essa, l’applicabilità della procedura di frontiera per chi proviene da quei paesi, ove i diritti non sono garantiti per tutti e in tutto il territorio. I giudici chiamati a convalidare entro 48 ore i provvedimenti di fermo dei migranti portati in Albania sono tenuti a rispettare la pronuncia della CgUe, e pertanto non dovrebbero procedere alla convalida del trattenimento. Di conseguenza, bisognerà trasferire in Italia coloro ai quali il fermo non sia stato confermato, visto che il protocollo prevede espressamente che nessun migrante potrà rimanere libero sul territorio albanese. Cpr in Albania, appalti senza gara: oltre 60 milioni a ditte sconosciute - Se il fermo fosse comunque convalidato e l’istanza di protezione respinta, ci si aspetta che i richiedenti asilo presentino una mole rilevante di ricorsi che - sempre in forza della vincolatività della sentenza della Corte per i giudici che dovranno esaminarli - hanno elevate probabilità di essere accolti. Ursula von der Leyen ha detto che “con l’avvio delle operazioni previste dal protocollo Italia-Albania” si potranno trarre “lezioni pratiche”. Potremmo sin d’ora anticipare alla presidente della Commissione Ue che la “lezione” dell’operazione albanese rischia di essere, economicamente e giuridicamente, quella di un flop colossale. *Giurista Il coraggio della pace di Pasqualina Napoletano Il Manifesto, 16 ottobre 2024 Commenti In questa situazione ampiamente fuori controllo e che può produrre esiti ancor più catastrofici, alcune iniziative sono preziose quale quella di alcuni parlamentari europei di dar vita a un intergruppo “Pace e disarmo” in seno al Parlamento europeo. Di giorno in giorno cresce il divario tra la gravità della situazione sugli innumerevoli fronti di guerra e la debolezza della risposta politica e sociale. Sembra di essere in un altro mondo rispetto a quell’aprile 2003 in cui su moltissimi balconi sventolava la bandiera della pace, eppure eravamo noi, e avevamo, appunto, il coraggio della pace. La guerra, con tutto quello che si porta dietro, torna ad essere una opzione possibile nella testa di molti politici europei che pure, nel mettersi insieme, sembravano averla ripudiata e mai come oggi il detto latino: “Se vuoi la pace prepara la guerra” è stato così citato. Fino alla fine della Guerra fredda questo significava deterrenza, oggi, che la divisione in blocchi non c’è più, o almeno non nei termini novecenteschi, siamo andati oltre fino a sostenere: “Se vuoi la pace fai la guerra”. Molte inchieste ci dicono che questo non è il sentimento maggioritario nelle opinioni pubbliche europee, eppure, le risposte sono deboli e frammentate; non si può parlare, almeno fino ad ora, di un movimento degno di questo nome. Cosa deve ancora succedere? Sul fronte russo - ucraino, avendo rinunciato a qualsiasi ipotesi di negoziato (colloqui del 2022 in Bielorussia e Turchia ampiamente documentati dalla rivista Foreign Affairs), si è imboccata la via della vittoria sul campo con dispendio di risorse umane ed economiche, fino alla constatazione che, dopo oltre due anni di guerra, essa è impossibile da raggiungere; di conseguenza, occorre un ulteriore salto che comporti il diretto intervento NATO nel territorio russo. A chiederlo anche la maggioranza del parlamento europeo con la risoluzione del 12 settembre scorso. In Medio oriente, la risposta di Israele alla strage di civili perpetrata da Hamas il 7 ottobre 2023 rivela l’intento di voler risolvere una volta per tutte la “questione palestinese”. Per far questo, Netanyahu deve “neutralizzare” quella parte del mondo arabo e islamico che ancora ne sostiene la causa, per poi rinsaldare le sue relazione con i paesi con cui già aveva accordi di pace rinnovati ed ampliati dagli Accordi di Abramo. Questo “nuovo ordine” a suon di bombe comporta l’invasione di un paese sovrano quale è il Libano; sfregiare quel che rimane del diritto internazionale e delle istituzioni che dovrebbero garantirlo; aprire un conflitto con l’ONU, prima dichiarando il suo Segretario generale persona non grata, per attaccare, poi, le postazioni UNIFIL ai confini tra Libano e Israele, presidio scomodo rispetto all’obiettivo di ripetere in quell’area la mattanza già compiuta a Gaza. Negli Accordi di Abramo è compreso il destino dei palestinesi, mai riconosciuti come popolo, relegati in aree circoscritte e non comunicanti tra loro, circondate da muri di cui il più lungo seguirebbe l’intero corso del fiume Giordano, cui qualcuno vorrebbe, superando il surrealismo di Magritte, mettere il nome di Stato. Nel frattempo Israele potrebbe coronare il sogno di divenire uno Stato etnico, “lo Stato degli ebrei”, annettendo Giudea, Samaria (Cisgiordania) e l’intera Gerusalemme revocando, di conseguenza, la cittadinanza al resto dei cittadini non ebrei. Di fronte a questa precisa e lucida follia - che spiega la spietatezza della risposta, compresa quella di accettare il massacro e la mutilazione di migliaia e migliaia di bambini palestinesi come danno collaterale - gli appelli alla moderazione sono acqua fresca anche perché fino a ora non accompagnati da alcuna reale e convincente pressione, mentre passa in secondo piano la vita dei rimanenti ostaggi e Netanyahu sembra perfino recuperare il consenso perduto. In questa situazione ampiamente fuori controllo e che può produrre esiti ancor più catastrofici, alcune iniziative sono preziose quale quella di alcuni parlamentari europei di dar vita a un intergruppo “Pace e disarmo” in seno al Parlamento europeo. Seppure minoranza, 131 deputati europei hanno votato contro la Risoluzione citata e 63 si sono astenuti; quasi tutti i gruppi politici europei si sono divisi. È tempo di unire le forze e provare a costruire anche nel Parlamento europeo un punto di riferimento politico che abbia come scopo la pace e il disarmo. Esso potrebbe interloquire con i tanti movimenti, prevalentemente giovanili, che in Europa esistono ma che hanno poca udienza da parte della politica sempre più istituzionalizzata e autosufficiente; ma anche cercare interlocutori che la politica dei governi europei esclude dai propri orizzonti. In passato, in più occasioni, quel Parlamento ha svolto un ruolo a partire proprio dagli “intergruppi”; penso a come nacque il progetto di Costituzione Europea promosso da Altiero Spinelli, alla lotta contro l’apartheid in Sudafrica, contro l’embargo a Cuba, e si potrebbe ancora continuare; ma, a proposito di Israele e Palestina, non si possono dimenticare i discorsi tenuti al Parlamento europeo da Abu Ala e Avrham Burg (rispettivamente presidenti dell’Assemblea legislativa palestinese e della Knesset). Di tutto questo si è parlato nella tre giorni fiorentina dell’associazione “il coraggio della Pace disarma” con contributi che, messi insieme, costituiscono un patrimonio importante per la crescita di un movimento che voglia costruire una alternativa rispetto alla palude mortifera in cui rischiamo di sprofondare tutti. Medio Oriente. “Crimine di guerra”: perché Crosetto potrebbe aver ragione sugli attacchi di Israele a Unifil di Maurizio Delli Santi Il Domani, 16 ottobre 2024 La previsione tra i crimini di guerra dell’attacco alle “missioni per il mantenimento della pace” è espressamente richiamata all’articolo 8 dello Statuto della Corte penale internazionale, a determinate condizioni. Se Israele non dimostra di riconoscere il ruolo della comunità internazionale che sinora è stata al suo fianco, sarà destinato alla condanna di un definitivo isolamento È stato chiaro l’appello del premier israeliano Netanyahu rivolto dai media alle Nazioni unite, di fatto alla comunità internazionale: “Signor segretario generale, mettete le forze Unifil al riparo. Dovete farlo subito, immediatamente!”. Dal primo attacco dell’Israel Defense Force alla missione Unifil in Libano il ministro della Difesa Crosetto ha parlato di un atto che può configurarsi come una grave violazione del diritto internazionale, e anche un possibile “crimine di guerra”. Le intenzioni di Israele - Dopo le parole del premier israeliano è difficile ipotizzare ancora un “errore o incidente” - qualche osservatore ha ipotizzato un atto inconsulto di fanatici riservisti nella catena di comando - e visto che tali condotte si ripetono ci sono sufficienti motivi per ritenerlo un attacco deliberato. Israele imputa alla missione Unifil di non essere stata in grado di dare attuazione al mandato della risoluzione 1701 (2006): questa prevedeva il training e il supporto di sicurezza in favore dell’esercito regolare libanese, le Lebanese Armed Forces (Laf), nel loro rischieramento nel sud del paese, mantenendo tra la Blue Line e il fiume Litani un’area cuscinetto libera da assetti armati che non fossero quelli del governo libanese e di Unifil, in sostanza per disarmare Hezbollah e far rientrare Israele nei suoi confini. Dopo l’attacco, l’ambasciatore israeliano all’Onu Danon ha ricordato che era stato “raccomandato” alle forze Unifil di spostarsi a 5 km a nord “per evitare pericoli mentre i combattimenti si intensificano e la situazione lungo la Linea Blu rimane instabile a causa dell’aggressione di Hezbollah”. Ha richiamato che l’obiettivo di Israele non è quello di occupare il Libano, ma di allontanare Hezbollah in modo che 70.000 israeliani possano tornare alle loro case nel nord di Israele. Secondo altri analisti, l’intervento contro le forze Onu, non a caso realizzato anche con la distruzione di telecamere areali, mirerebbe a non avere testimonianze di ciò che l’Idf si accingerebbe a compiere sul campo di battaglia. “Italia e Nazioni Unite non possono prendere ordini da Israele”, ha detto il ministro Crosetto, aggiungendo che la questione andava posta nelle sedi Onu, e non certo passando alle vie di fatto prima con le intimazioni e poi con un attacco deliberato contro i caschi blu. I “crimini di guerra” - Unifil è una operazione di peacekeeping, dunque una missione di mantenimento della pace che opera ai sensi del capitolo VI (Soluzione pacifica delle controversie) della Carta delle Nazioni unite, voluta a suo tempo da tutte le parti, Israele e Libano inclusi, realizzata con la partecipazione di 50 Stati. Non si tratta di una operazione di peace-enforcement, di “imposizione” coercitiva con l’uso della forza (es. Guerra del Golfo) ai sensi del capitolo VII della Carta. Questo inquadramento ha importanti conseguenze in primo luogo perché la forza di una missione di pace delle Nazioni unite non può essere considerata un attore belligerante e quindi nemico. Bene ha fatto dunque il portavoce della missione Unifil a ricordare che in capo a Israele - come alle altre parti - incombe l’obbligo di “garantire la sicurezza e la protezione del personale e delle proprietà dell’Onu”. Le norme di riferimento sono chiare, a cominciare dalla stessa risoluzione vincolante 1701 del Consiglio di Sicurezza, e dalla Convenzione sulla sicurezza del personale delle Nazioni unite e del personale associato (New York, 9 dicembre 1994). Nel parlare di “crimini di guerra” ovviamente non ci si riferisce al linguaggio comune a uso giornalistico. Si tratta di una definizione giuridica ben tipicizzata nel diritto internazionale dei conflitti armati, che oggi trova la sua più compiuta rappresentazione nello Statuto della Corte penale internazionale, il c.d. Statuto di Roma, approvato il 17 luglio 1998 ed entrato in vigore il 1° luglio 2002. Lo Statuto introduce alla definizione dei principali “crimini internazionali”: il genocidio (art. 6), i crimini contro l’umanità, riferiti ad “attacchi estesi e sistematici contro popolazioni civili” (art. 7), l’aggressione, cioè l’attacco deliberato alla sovranità e all’integrità di uno Stato (art.8-bis), e appunto i “crimini di guerra” (articolo 8). In merito lo Statuto definisce la competenza della Corte sui crimini di guerra quando commessi come “parte di un piano o disegno politico” o “su larga scala” (agli Stati residua la competenza sui ‘singoli’ crimini guerra), e inquadra la categoria nell’ambito delle previsioni delineate nelle fonti del diritto internazionale dei conflitti armati, in particolare nelle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 (Art. 8, para 2, sub a), e nelle “leggi e usi di guerra” nel quadro consolidato del diritto internazionale dei conflitti armati internazionali (Art. 8, para 2, sub b), e dei conflitti armati non internazionali (art. 8, sub c, d, e, f). Secondo le previsioni dello Statuto dunque all’articolo 8 si considera “crimine di guerra” - al paragrafo 2, b), iii) - “dirigere deliberatamente attacchi contro personale, installazioni, materiali, unità o veicoli utilizzati nell’ambito di una missione di soccorso umanitario o di mantenimento della pace in conformità alla Carta delle Nazioni”. La norma richiede il presupposto che tali forze Onu comunque non operino in combattimenti proattivi (cioè al di fuori della legittima difesa, consentita alle peacekeeping) affinché a esse sia riconosciuto lo stesso “diritto alla protezione accordata ai civili e alle proprietà civili previste dal diritto internazionale dei conflitti armati”: la condizione è pertanto soddisfatta dai limiti del mandato ex capitolo VI della Carta delle Nazioni unite, ed è stata certamente osservata nell’azione di pacificazione sinora espletata dalle forze Unifil con forti autolimitazioni per evitare l’escalation. Alle proteste ufficiali, Israele deve rispondere con informazioni chiare, e la disponibilità a un’inchiesta indipendente delle Nazioni unite e delle Corti internazionali. Rimane aperta la questione di cosa fare ora della missione Unifil, una prospettiva che pone una serie di delicati interrogativi: ritirare la forza per proteggere i militari del contingente di pace significa dare campo libero all’azione bellica di Israele in territorio libanese, mentre cambiare il mandato di Unifil in peace-enforcement in forza del capitolo VII aprirebbe a uno scontro senza precedenti. L’Onu deve puntare necessariamente alla sua funzione originaria, che è quella di ricercare la pace, e in questo va sostenuta dal resto della comunità internazionale - Occidente e Mondo arabo in primis - che ha tutti gli strumenti (giuridici ed economici, applicando sanzioni e ritirando ogni sostegno militare) per costringere Israele a valutare la conseguenza delle proprie azioni. Madio Oriente. Amnistia in Rojava: prigionieri di Isis da “reinserire” in società di Tiziano Saccucci Il Manifesto, 16 ottobre 2024 Rilascio di migliaia di detenuti. La legge coinvolge 1.520 persone, resta aperta la questione dei militanti di Daesh non siriani. Su proposta del secondo forum delle tribù siriane tenutosi ad Heseke il 25 maggio 2024, l’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord-Est della Siria (Daanes) ha emanato un’amnistia generale che prevede il rilascio di migliaia di detenuti, inclusi appartenenti allo Stato Islamico. “L’amnistia ha coinvolto finora 1.520 persone, tra cui 63 donne. Ad oggi ne sono state rilasciate 1.120, di cui 35 donne. Le restanti 400 persone saranno rilasciate in fasi successive”, Spiega Abdulkarim Omar, Rappresentante in Europa della Daanes. “Sono escluse le persone che hanno commesso crimini contro il popolo siriano o ucciso membri delle Forze Democratiche Siriane, i leader di Isis e i loro emiri, oltre alle persone accusate di alto tradimento e spionaggio”. In seguito alla proposta del forum tribale, il Consiglio per la Giustizia Sociale ha presentato un progetto di legge al Consiglio Democratico dei Popoli che comprende rappresentanti delle istituzioni sociali e delle comunità etniche e religiose. “I notabili tribali si sono impegnati a prendersi cura dei prigionieri rilasciati e a monitorare il loro comportamento. Gli organi della Daanes, come le forze di sicurezza interna e i consigli locali, registreranno i nomi di coloro che sono stati rilasciati, registreranno le loro storie, determineranno il loro luogo di residenza all’interno delle comunità e monitoreranno i loro movimenti. Saranno inoltre riabilitati in collaborazione con tutte le istituzioni pertinenti, le organizzazioni locali e internazionali e i movimenti delle donne”, ha raccontato il co-presidente del Consiglio Democratico dei Popoli Farid Ati, interrogato dal Rojava Information Center. L’AMNISTIA è stata accolta positivamente dalla Indipendent International commission of Inquiry on the Syrian Ararb Republic dell’Onu nel report rilasciato ad agosto 2024, nonché da Amnesty International in un comunicato stampa di luglio. “La comunità internazionale ha mostrato interesse per l’amnistia, interrogandosi sulle sue implicazioni. È importante notare che si applica solo ai siriani e non ai membri stranieri di Isis - aggiunge Abdulkarim Omar - Per i Paesi coinvolti nella questione siriana, in particolare per i membri della Coalizione internazionale, l’amnistia offre infatti una potenziale stabilizzazione di zone complesse come Deir ez-Zor e Raqqa”. Secondo il Rojava Information Center, che ha svolto ricerche sull’argomento, anche le famiglie dei detenuti hanno accolto con favore l’iniziativa. “La Daanes sostiene che la stabilizzazione di aree come Deir ez-Zor è uno degli obiettivi principali della legge sull’amnistia - si legge in un commento sull’agenzia stampa - Farid Ati, co-presidente del Consiglio democratico dei popoli del Daanes, afferma che i leader tribali sono coinvolti nel processo di riabilitazione dei prigionieri a questo scopo. L’obiettivo è integrarli nella società e che non si acuiscano le tensioni tribali”. In effetti l’amnistia arriva in un momento particolarmente complesso per il nord della Siria. Nell’ultimo anno Deir Ez-Zor, già colpita dalla forte attività di cellule di Isis, è stata teatro di scontri tra Sdf e milizie legate al governo di Bashar al-Assad a seguito dell’arresto, il 27 agosto 2023, di diversi esponenti del Consiglio Militare di Deir ez-Zor accusati di collaborazione con Damasco e con il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica iraniano. “Credo che l’amnistia non solo contribuirà alla stabilità e al benessere in aree tormentate come Deir ez-Zor, ma che possa anche servire come passo verso la riconciliazione nazionale in altre regioni”, afferma Abdulkarim Omar. Rimane irrisolta la questione dei militanti non siriani di Isis, almeno 9.050 secondo l’Onu. “La Daanes - conclude Omar - ritiene che i membri stranieri di Isis debbano essere processati nelle nostre regioni, in quanto è lì che hanno commesso i loro crimini, contro il nostro popolo. Purtroppo, la comunità internazionale è riluttante sia a rimpatriare i propri cittadini che a sostenere processi equi in loco. Ci stiamo battendo per questo con la comunità internazionale, alle Nazioni unite e con organizzazioni come Amnesty International e la Commissione internazionale d’inchiesta sulla Siria. Il nostro obiettivo è fare pressione sui paesi affinché si assumano la responsabilità per i loro cittadini e aiutino il Daanes a condurre processi equi, garantendo giustizia alle vittime e alle loro famiglie”. Rwanda. Human Rights Watch: torture sistematiche nei Centri di detenzione Nigrizia, 16 ottobre 2024 Che da molti anni il regime del Fronte patriottico rwandese (RPF) di Paul Kagame, al potere dal genocidio del 1994, faccia ricorso a torture e trattamenti disumani all’interno delle strutture di detenzione in Rwanda non è una novità. A tornare a denunciare questa pratica è ora un nuovo, dettagliato rapporto di Human Rights Watch. “Gravi abusi dei diritti umani, compresa la tortura, sono all’ordine del giorno in molti centri di detenzione del Rwanda”, scrive HRW, che si è concentrata su tre strutture: le carceri di Rubavu e Nyarugenge e Kwa Gacinya, un’immobile nel quartiere Gikondo, a Kigali, usato come struttura di detenzione non ufficiale. Lo studio, basato sull’analisi dei documenti dei processi e sulle testimonianze di ex carcerati raccolte tra il 2019 e il 2024, descrive un sistema agghiacciante di violenze sui detenuti - in molti casi oppositori al regime o presunti tali - perpetrate dagli agenti penitenziari e anche dagli stessi reclusi, costretti a picchiare altri detenuti. Il centro di Kwa Gacinya è il la porta di questo inferno, il luogo in cui le persone arrestate vengono portate dopo l’arresto per costringerle a confessare. Confessioni, si legge nel rapporto, ottenute con esecuzioni fittizie, percosse e torture. Tra queste, raccontano alcuni ex detenuti, l’isolamento in celle di un metro per due, simili a bare. Si passa poi al carcere. In quello di Nyarugenge i prigionieri hanno raccontato, nel corso di vari processi, di essere stati immersi con la forza nell’acqua e di essere stati poi picchiati da agenti penitenziari e altri detenuti. Una pratica che amplifica il dolore. Altri sono invece stati privati del sonno con la diffusione permanente di musica ad alto volume. A Rubavu, ex carcerati denunciarono pestaggi spesso perpetrati dall’allora direttore della prigione, Innocent Kayumba, violenze che portarono, secondo diverse testimonianze, alla morte di undici prigionieri di cui HRW ha ottenuto i nomi. Kayumba fu in seguito trasferito alla direzione di Nyarugenge, cosa che, si legge nel rapporto, “gli ha permesso di mettere in atto le pratiche abusive e talvolta fatali in quella struttura, come aveva fatto nella prima”. Il quadro che emerge, fa notare l’organizzazione, è quello di un ben rodato e feroce sistema repressivo protetto da sostanziale impunità. L’unico funzionario ritenuto finora responsabile delle violazioni dei diritti umani compiute, evidenzia HRW, è proprio Innocent Kayumba, condannato a 15 anni di carcere lo scorso aprile per l’aggressione e l’omicidio di un detenuto a Rubavu nel 2019. HRW fa notare la “totale incapacità di ritenere responsabili tutti gli altri alti funzionari carcerari coinvolti in questi abusi”. Un’impunità “aggravata dall’incapacità della magistratura e del Rwandan Correctional Service di ordinare indagini sulle accuse di tortura presentate in tribunale dagli imputati”. Sotto accusa anche la Commissione nazionale per i diritti umani del Rwanda (NCHR), meccanismo incaricato di prevenire la tortura che “non è indipendente e non è stato in grado o non ha voluto segnalare casi di tortura”, negando costantemente, scrive HRW, che si siano registrati casi di tortura e maltrattamenti in detenzione. Il quadro, fa notare ancora il rapporto, si completa con le responsabilità delle autorità rwandesi, che “limitano sistematicamente il lavoro di altre istituzioni con il mandato di monitorare le condizioni carcerarie e prevenire la tortura”, anche a livello internazionale. Lungo e articolato l’elenco di richieste rivolte dall’organizzazione alle autorità nazionali, al parlamento, alla Commissione nazionale per i diritti umani, ma anche ad altri attori regionali e internazionali.