Droghe, carcere e tanta indifferenza di Dacia Maraini Corriere della Sera, 15 ottobre 2024 Ma perché tante persone, soprattutto giovani, si drogano? È una domanda con tante risposte ma certamente la società del consumo e del vuoto di valori non aiuta a creare responsabilità. “Il Governo, di fronte alle pressioni che da più parti si levano per ridurre l’overbooking carcerario, ha dichiarato che i tossicomani saranno inviati in Comunità Terapeutiche, in alternativa al carcere”. Sono le parole di Massimo Barra che dirige il complesso di villa Maraini al quartiere gianicolense di Roma, “ma come si fa ad accogliere tanti ragazzi se gli investimenti si restringono ogni giorno?”. La cronaca parla di 16.845 detenuti avviati al Centro terapeutico. Ma veramente pensiamo che la prigione aiuti queste povere persone a uscire dalla loro dannazione? Si parla di inasprire le pene ma questa pretesa poliziesca non porta soluzioni, produce solo altra dipendenza e altra disperazione. Ricordiamo che i suicidi nel solo ultimo anno sono stati 68. “Eppure”, ripete Massimo Barra, che passa le giornate sul posto cercando di risolvere i difficili problemi della sopravvivenza del Centro, “il governo quasi ci ignora. Noi ci prendiamo cura di un male che grava su una grande città come Roma ma dobbiamo andare avanti senza sicurezze, con la paura ogni mese di dovere chiudere per mancanza di mezzi”. “La Comunità terapeutica della Villa rimane aperta 24 ore su 24, con 30 posti disponibili per ospitare persone provenienti dal carcere”, ci racconta il presidente Gabriele Mori, “tenendo presente che ogni anno riceviamo circa 700 richieste di ingresso al percorso cura”. Le richieste sono in crescita proprio perché la comunità del Centro ha un atteggiamento aperto e generoso. Non parte dall’idea che un tossicodipendente sia da punire e mettere a stecchetto, ma che debba essere compreso nella sua fragilità, ascoltato, essere convinto e non costretto ad avviarsi verso l’indipendenza. Nei viali del grande e antico giardino della villa l’atmosfera è serena e nella serenità si crea la voglia di costruire, creare, amare, guarire. Ma perché tante persone, soprattutto giovani, si drogano? È una domanda con tante risposte ma certamente la società del consumo e del vuoto di valori non aiuta a creare responsabilità. Molti si drogano perché non amano la vita come si presenta e desiderano morire, ma senza morire del tutto. E questo altalenarsi fra vita e morte porta a una lontananza dagli affetti e dai doveri, e alla fine producono un impoverimento della società che dovrebbe preoccuparci più di quanto facciamo. Dal Dap a Garante dei detenuti, il conflitto d’interessi di Riccardo Turrini Vita di Liana Milella La Repubblica, 15 ottobre 2024 Il Pd denuncia: “Nomina fuorilegge”. Domani la sua prima audizione alla Camera. Opposizioni pronte a contestargli il passaggio dalla direzione delle prigioni alla verifica degli effettivi diritti dei detenuti. Con lui il Sappe, il sindacato di destra degli agenti. Non comincia affatto bene la vita del neo Garante dei detenuti di Riccardo Turrini Vita che domani alle 13, per un’audizione definita “informale”, sarà davanti alla commissione Giustizia della Camera. Ad attenderlo “al varco” ci sono le opposizioni pronte a contestargli quello che, come vedremo, considerano “un’inaccettabile conflitto d’interessi” - lo ha denunciato subito, ma non solo, il Pd - perché lui assume il ruolo di Garante da altolocato funzionario del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dove ha lavorato per anni dopo essere stato anche magistrato addetto al ministero della Giustizia. Un passaggio che, come dice l’associazione Antigone, rivela “un’evidente confusione di ruoli”, poiché assai spesso, come purtroppo dimostrano le cronache, i detenuti sono vittime degli stessi agenti penitenziari. Turrini Vita è stato scelto dal Guardasigilli Carlo Nordio con il pieno via libera di palazzo Chigi - l’annuncio è del 3 ottobre - per rivestire il ruolo che è stato di Felice Maurizio D’Ettore. Lo stesso Nordio ha reso pubblica la nomina. Scelta urgentissima che il ministro aveva sul tavolo dal 22 agosto quando, per un improvviso infarto, è scomparso l’ex Garante Felice Maurizio D’Ettore, mentre era in vacanza nella sua Locri. Quindi una nomina assolutamente urgente visto che i suicidi nelle patrie galere hanno toccato quota 75. Un record, poiché siamo solo a ottobre e pur facendo gli scongiuri non si può escludere che questo numero già altissimo rispetto al passato possa ancora salire. Ma eccoci a oggi. Turrini Vita viene ascoltato in commissione come non era avvenuto invece a gennaio per D’Ettore, ex deputato di Forza Italia, poi passato a Coraggio Italia, e ancora a Fratelli d’Italia. Il suo conflitto d’interessi è sul tavolo. I Dem di Camera e Senato Debora Serracchiani, Federico Gianassi, Alfredo Bazoli e Walter Verini, parlano di “una palese incompatibilità che rende la sua nomina fuorilegge”. Perché “il suo status di dipendente pubblico costituisce una palese violazione, configurando la scelta del ministro Nordio come un’azione contra legem che compromette la terzietà e l’indipendenza richiesta per un incarico così importante e delicato”. Il passo indietro, insomma, dovrebbe essere scontato. Ma va da sé che il governo non accetterà queste osservazioni, visto che il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano parla del neo Garante come di persona “che ha un curriculum e un profilo di elevatissima professionalità rispetto alla funzione da ricoprire”. Ma non c’è solo il Pd a contestare la figura di Turrini Vita. Ecco Devis Dori, capogruppo di Avs alla Camera, che vede “un paradosso”, frutto “di questa destra al governo senza regole”, visto che la nomina è “in palese violazione dalla legge istitutiva dell’ufficio del Garante che stabilisce chiari criteri”, tant’è che Avs chiede al ministro “un immediato passo indietro” che si può già prevedere che non ci sarà. Anche se a criticare questa scelta non ci sono solo le opposizioni, ma anche chi conosce assai bene il mondo delle carceri. A partire da Patrizio Gonnella di Antigone che parla di “un’evidente confusione di ruoli tra controllati e controllori” con la conseguenza di mettere a rischio l’indipendenza stessa della funzione ricoperta perché “un massimo dirigente dell’amministrazione non può diventare il Garante dell’utenza soggetta a controllo”. Il lampante problema è tutto qui. E a farlo rilevare sono stati anche esponenti della magistratura. Il segretario della corrente di sinistra delle toghe Giovanni “Ciccio” Zaccaro parla di “un singolare paradosso per lo stesso Nordio che da bravo liberale dovrebbe sapere che i controllori devono essere diversi dai controllati”. “Riserve” giungono da Magistratura democratica perché “a prescindere dalla persona, la cui conoscenza del mondo del carcere è fuori discussione, esiste una delicata questione di rispetto della legge”. Protestano anche gli avvocati delle Camere penali per la scelta “di una figura dirigenziale apicale del Dap da oltre vent’anni anni che stride in maniera troppo evidente con il ruolo e le funzioni attribuite, per legge, all’autorità di garanzia dei diritti delle persone detenute”. E proprio l’Ucpi mette in rilievo la contraddizione di delegare una nomina come questa al governo, mentre il protagonista avrebbe dovuto essere il Parlamento. Ma è sufficiente vedere come avvengono le nomine tra Camera e Senato per rendersi conto che anche in questo caso la maggioranza avrebbe avuto la meglio. Riccardo Turrini Vita entrerà domani alle 13 nella ‘fossa dei leoni’ della commissione Giustizia, la maggioranza sarà dalla sua parte, ma visto il terreno delicato di cui dovrà occuparsi, inevitabilmente dovrà accettare il contraddittorio con le opposizioni. Dalla sua parte c’è il Sappe, il Sindacato di destra della polizia penitenziaria che ha definito la sua nomina “una notizia positiva”, nonché i sottosegretari di via Arenula. Il forzista Francesco Paolo Sisto: “Ha tutti i requisiti, esperienza, competenza e capacità”. E per il leghista Andrea Ostellari “un’ottima notizia per il Paese visto il suo profilo di altissimo livello”. Fantasmi dietro le sbarre. Svanire nell’ombra del 41bis di Luna Casarotti monitor-italia.it, 15 ottobre 2024 Come è strutturato e organizzato il regime del 41-bis nelle carceri di Opera e Aquila? Su quali basi - pratiche e normative - si basano le restrizioni agli oggetti in cella, la censura alle comunicazioni con l’esterno, la socialità e i contatti con altri esseri umani? Su queste e altre questioni Luna Casarotti ha intervistato Gherardo Schettino, chiedendogli di raccontare la propria storia e la propria esperienza di prigioniero in un regime carcerario che nulla a che vedere con una pena detentiva, ma che si configura come una vera pratica di tortura, fisica e psicologica. Questi che leggerete sono alcuni estratti del suo racconto. Il 41bis è concepito come un regime di isolamento, ed è quindi fondato su una forma limitata di “socialità”, un diritto fondamentale per un detenuto. In ogni gruppo di socialità possono esserci al massimo quattro persone, spesso selezionate da diverse regioni d’Italia, per esempio: un calabrese, un campano, un pugliese e un siciliano. Se non è possibile formare il gruppo con persone di regioni diverse, due detenuti della stessa regione, come due calabresi, non possono condividere la stessa socialità e quindi il gruppo si riduce a tre. La socialità si articola in due momenti: un’ora in una saletta dove si può giocare a carte e scambiare qualche parola, e un’altra ora all’aperto, anche se definire “aria” quello spazio è alquanto fuorviante. Il cosiddetto spazio all’aria è in realtà una piccola area circondata da alte mura, in cui l’unico punto di apertura verso l’esterno è una rete metallica al posto del soffitto. Nonostante l’aria aperta, lo sguardo è prigioniero tra quelle mura imponenti, anche perché il più grande di questi spazi non supera i sessanta metri quadrati. Le altre ventidue ore della giornata si trascorrono in cella, dove non c’è nulla da fare. Le finestre delle celle sono blindate da vari strati: prima l’inferriata, poi una rete elettrosaldata con spazi di pochi millimetri, e infine un pannello di plexiglas che impedisce di guardare fuori. Una chiusura totale, sia fisica che visiva. Prima dell’arrivo di AlfredoCospito, l’anarchico in sciopero della fame per tutti i detenuti sottoposti al 41bis, nella sezione in cui mi trovo facevano la raccolta dell’acqua piovana con i secchi, a causa delle numerose infiltrazioni. Solo dopo il suo arrivo, con l’attenzione mediatica che ha comportato, quei problemi vennero immediatamente risolti. Nel regime del 41bis, non viene impedito di leggere o scrivere, ma una o due volte alla settimana si è soggetti a perquisizioni in cella, (come accade anche negli altri istituti penitenziari, indipendentemente dai regimi speciali) condotte con il pretesto della sicurezza. Tuttavia, il detenuto non è presente durante queste ispezioni e di conseguenza il personale del GOM (Gruppo Operativo Mobile) può operare senza controllo. Gli oggetti in cella vengono spesso spostati, è probabile che ogni pensiero lasciato su carta venga letto, compresa la corrispondenza legale con gli avvocati, che non potrebbe essere formalmente aperta quando sulla busta è presente la dicitura “corrispondenza per motivi di giustizia non sottoponibile al visto di censura”, firmata dal presidente del consiglio dell’Ordine degli avvocati. Lo stesso vale per le lettere in uscita: devono includere sia la motivazione di giustizia, sia il numero del procedimento per cui l’avvocato è stato nominato. Quando tale dicitura non è correttamente riportata, le lettere vengono aperte e censurate. La Corte Costituzionale ha già dichiarato illegittima questa prassi, in particolare per quanto riguarda i telegrammi, che per loro natura sono inviati senza busta sigillata e quindi non dovrebbero essere passibili di controllo. Malgrado questa sentenza, la censura continua ad essere applicata anche su tali forme di comunicazione, disattendendo le direttive costituzionali. Dal 2018, è stato concesso ai detenuti di preparare cibo, ma con una serie di rigide restrizioni. Il fornello e il pentolame, per esempio, non possono essere conservati in cella. Devono essere richiesti al mattino, alle 7:00, e riconsegnati entro le 20:00. Inoltre, non è possibile cucinare in qualsiasi momento della giornata: gli orari consentiti sono indicativamente dalle 11:00 alle 13:00 per il pranzo e dalle 17:00 alle 19:00 per la cena. Il possesso di oggetti personali è ridotto al minimo: il detenuto può tenere con sé solo l’essenziale: poche paia di calze, indumenti intimi, qualche maglietta e due paia di pantaloni. Anche le magliette devono essere rigorosamente uniformi, senza disegni o loghi. Persino le bottiglie d’acqua che vengono portate dai familiari durante i colloqui devono essere prive di etichetta, e i tatuaggi vanno coperti. Il tagliaunghie deve essere richiesto specificamente e, una volta utilizzato, deve essere immediatamente depositato nella bilancetta esterna alla cella, sotto stretto monitoraggio. La giornata al 41bis è scandita da rituali che sebbene comuni anche ad altri istituti penitenziari, assumono una valenza particolarmente opprimente (oltre che senza senso, considerando le condizioni generali) in questo contesto. Ogni mattina e sera si effettua la cosiddetta “battitura”: gli agenti colpiscono le sbarre della cella con il manganello, in senso verticale, orizzontale e obliquo. Anche se questa pratica è presente in tutte le carceri, nel regime del 41bis assume una sfumatura di violenza psicologica. Considerando che ai detenuti è vietato persino possedere una lametta da barba, è evidente che la battitura non ha lo scopo di prevenire tentativi di fuga o di danneggiamento delle sbarre, ma è piuttosto uno strumento per esercitare una pressione mentale costante. Un’altra pratica di violenza non giustificata ma assai comune è quella della censura della corrispondenza, non esplicitamente prevista dalla legge sull’ordinamento penitenziario, in quanto in contrasto con l’articolo 15 della Costituzione, che tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza. Non potendo modificare questo principio costituzionale, è stato trovato un escamotage: la censura è “temporanea”, ma viene rinnovata ogni tre mesi senza che vi sia un controllo distrettuale o una motivazione chiara. Ogni reclamo presentato viene rigettato senza che venga fornita una spiegazione logica. Anche i magistrati di sorveglianza, a cui ci si rivolge per chiedere chiarimenti, rimangono in silenzio: quando domando perché “se in questi tre mesi non ho commesso alcuna infrazione e non ci sono nuovi elementi, continuare a rinnovare la censura?”, non ottengo risposta. La realtà non scritta del 41 bis è che la corrispondenza senza censura non esiste. Ogni lettera viene controllata, nonostante la mancanza di un fondamento strutturale nella legge. Oltre al regime del 41bis, varrebbe la pena portare a galla l’esistenza delle cosiddette “aree riservate”, che non sembrano trovare riconoscimento ufficiale in alcuna circolare. Nel carcere di L’Aquila questa zona si chiama “area rossa”, mentre a Opera è nota come “area verde”, situata al piano terra. Nelle aree riservate i detenuti non sono divisi in gruppi di quattro, come previsto dal regime ordinario del 41bis, ma in coppie. Ogni cella è sorvegliata da telecamere attive tutto il giorno e i bagni sono privi di porte, riducendo drasticamente la privacy dei detenuti. Queste aree sono generalmente destinate a individui considerati pericolosi o ai cosiddetti “stragisti”. La condizione psicologica di chi viene collocato in queste aree è spesso compromessa; molti di loro presentano già segni di grave stress mentale e l’assenza di socialità può aggravare ulteriormente la situazione, contribuendo a un deterioramento della salute mentale reciproca². Oggi l’attenzione è rivolta alle violenze fisiche da parte degli agenti in carcere, ma andrebbe resa maggiore su quelle invisibili, psicologiche, che spesso sfuggono al controllo e a ciò che è scritto nella normativa. Nel carcere di Opera sono state installate le telecamere all’interno delle celle, e attivate, come indicato dalla luce rossa sempre accesa. Un mio compagno di socialità si chiamava Giovanni Battaglia. Era originario di Capaci, è morto a causa di una frattura all’anca che ha portato a una cancrena. Aveva problemi psichiatrici e disturbi del comportamento, ma le istituzioni lo hanno lasciato marcire in cella, senza alcun intervento adeguato. Non era il solo in quelle condizioni. Quando Alfredo Cospito si trovava nel reparto SAI del carcere di Opera, fu visitato da una delegazione di osservatori. Il gruppo si fermò a lungo davanti alle celle dei detenuti della sua sezione, probabilmente per valutare le condizioni di ciascuno. Quando passarono vicino alla mia cella, cercai di attirare la loro attenzione. Essendo tetraplegico, non potevo alzarmi dal letto, ma con tutte le forze cercai di farmi notare, alzando la voce e chiedendo loro di andare a vedere la cella numero 7, dove era rinchiuso Giulio Bellocco, un uomo che soffriva di Alzheimer e che giorno dopo giorno si andava spegnendo. Giulio era magrissimo, la malattia lo stava divorando. Nonostante i familiari cercassero di confortarlo durante i colloqui, portandogli del cibo in una borsa frigo, lui non era più in grado di alimentarsi autonomamente. Indossava un pannolone che i sanitari cambiavano sì e no una volta al giorno, lasciandolo spesso in condizioni indegne e inumane. Giulio è morto nel 2024, prigioniero non solo delle mura del carcere, ma anche e soprattutto di una malattia che lo aveva già portato lontano da ogni consapevolezza del mondo esterno. Chiesi alla delegazione di visitare anche la cella numero 11, quella di Giovanni Battaglia, che lottava in solitudine contro il dolore e l’abbandono. Questi detenuti sono i simboli più evidenti del degrado umano che regna in carcere, e ancora di più in questo tipo di sezioni, dove la sofferenza viene sistematicamente ignorata. Venerdì 19 maggio 2023 presentai una segnalazione al direttore del carcere utilizzando il modello 393. Segnalavo un “forte odore di carne marcia” che percepivo persino a due celle di distanza. Il sabato mattina successivo, pur senza vederli, potetti sentire chiaramente il trambusto del personale medico e del dirigente sanitario che si precipitavano verso la cella di Giovanni: “A noi nessuno ci ha informati!”, dicevano. Da quanto appreso successivamente via stampa, Giovanni avrebbe dovuto essere scarcerato una settimana prima, dal momento che il tribunale di sorveglianza aveva ordinato l’attenuazione del regime detentivo cambiandolo da carcerario in domiciliare per l’aggravarsi della malattia terminale. Per questa vicenda ho presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Milano, chiedendo di essere ascoltato riguardo al decesso di Giovanni ma non ho ricevuto alcun riscontro. La verità è che quando finisci dietro le mura del 41bi smetti di esistere, perdi qualsiasi diritto, compreso quello di vivere. Siamo fantasmi, destinati a svanire nell’ombra. (intervista di luna casarotti, associazione yairaiha ETS) ____________________________ ² L’avvocato Maria Teresa Pintus, interpellata nel merito, evidenzia che le aree riservate possono avere nomi diversi, ma anche che quando si cercano chiarimenti presso l’amministrazione, spesso si ricevono risposte che negano la loro esistenza: “Esistono documenti ufficiali che attestano la collocazione di alcuni assistiti in queste aree, dimostrando che la loro esistenza è inconfutabile. A Sassari si sostiene che tutte le aree siano riservate, il che giustifica la presenza della cosiddetta “dama di compagnia”, un altro detenuto designato a coadiuvare la socialità. Questa figura ha il compito di garantire il rispetto formale di una normativa che non prevede l’isolamento totale. Nonostante le affermazioni secondo cui queste aree non esisterebbero più, è evidente che continuano a essere presenti. A Opera, per esempio, vi sono due padiglioni specificamente dedicati a queste misure restrittive, mentre a Novara due camere di pernottamento adiacenti alla sala colloqui con familiari e avvocati”. Autolesionismo, aggressioni ed evasioni: il problema dei detenuti stranieri nelle carceri italiane di Francesca Galici Il Giornale, 15 ottobre 2024 La denuncia del sindacato della Polizia Penitenziaria Osapp sulla situazione delle carceri italiane, dove la maggior parte dei disordini sono causati dai detenuti stranieri. Le carceri italiane sono una polveriera pronta e esplodere. Anzi, in alcuni casi sono già più che detonate. Il sovraffollamento è solo uno dei problemi che si riscontrano nelle case circondariali italiane, dove la violenza è all’ordine del giorno, sia tra detenuti che nei confronti degli agenti della polizia penitenziaria deputati al controllo all’interno delle strutture. In proporzione, la popolazione straniera all’interno delle carceri è superiore rispetto a quella dei detenuti locali ed è dai primi che provengono la maggior parte delle aggressioni nei confronti degli agenti. Una situazione che è diventata insostenibile, tanto che sono numerosi i poliziotti che arrivano alle dimissioni, stanchi e impauriti da quel che accade. Il sindacato Osapp della Polizia Penitenziaria ha denunciato tutto questo, sottolineando proprio le difficoltà che si incontrano nelle carceri con i detenuti stranieri che provengono dalle carceri libiche. Le denunce sulle condizioni detentive in Libia sono note ma questo è anche uno dei Paesi da cui partono la maggior parte dei migranti irregolari che poi raggiungono l’Italia. Spesso, prima di riuscire a superare il confine internazionale, vengono intercettati dalle motovedette libiche e, in ragione del tentativo illegale di uscire dal Paese, o spesso per la clandestinità nel territorio, vengono incarcerati. Quando vengono liberati riprovano a mettersi in mare e così via, finché non raggiungono l’Italia. Che però non ha niente da offrire per gli irregolari. Finiscono, così, risucchiati nella spirale della criminalità e poi in carcere, dove “si autolesionano, aggrediscono il personale e cercano di evadere, prendendo di mira gli agenti di polizia penitenziaria”. Così ha spiegato il segretario generale del sindacato Osapp, Leo Beneduci, la situazione nelle carceri italiane, ostaggio di delinquenti che, spesso, fanno branco aumentando la loro pericolosità. “I detenuti si ritrovano in celle sovraffollate, sorvegliate da un singolo agente impreparato a gestire situazioni così complesse. Questi casi dovrebbero essere presi in carico da esperti all’interno di reparti detentivi gestiti da sanitari e funzionari giuridico pedagogici”, ha spiegato ancora Beneduci, che raccoglie quotidianamente le denunce degli agenti. “in un istituto, recentemente, due poliziotti neo-agenti hanno rassegnato le dimissioni, sopraffatti dalla pericolosità della situazione. Il detenuto problematico è stato poi trasferito, solo per mettere sotto scacco un altro istituto”, ha proseguito, sottolineando anche che non si tratta di un fatto isolato. “Sempre più agenti preferiscono licenziarsi piuttosto che lavorare in queste condizioni disumane, con un’amministrazione incapace di gestire soggetti esagitati”, ha spiegato. “Le aggressioni contro il personale sono all’ordine del giorno. I detenuti, soprattutto quelli immigrati passati per la Libia, portano con loro un bagaglio di sofferenza che esplode tra le nostre mura. Scontro aperto sugli incarichi al Csm. Solo Unicost favorevole ai “punteggi” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 15 ottobre 2024 Quando si discute di nomine e di incarichi al Consiglio superiore della magistratura il clima è sempre incandescente. A maggior ragione quanto si discute dei “criteri” da utilizzare per assegnare tali nomine ed incarichi. Per comprendere come mai le nomine dei capi degli uffici giudiziari siano ormai terreno di scontro quotidiano a piazza Indipendenza, è necessario fare un salto indietro e tornare al 2006, quando il Parlamento decise di riformare l’ordinamento giudiziario mandando così in soffitta il criterio dell’anzianità per quello dell’attitudine e del merito. Da allora, come dice il togato indipendente Roberto Fontana, “il sistema consente di nominare chi vuoi, scrivendo poi la motivazione necessaria”. Concetto ben reso da una celebre chat, divenuta di pubblico domino a seguito dell’indagine della Procura di Perugia, fra un componente togato di Palazzo Bachelet e Luca Palamara, allora potente presidente della Commissione per gli incarichi direttivi: “Scegli chi devi andare e poi mettiamo a bando il posto”. Per superare questo sistema, nato con le migliori intenzioni (in quanto fino a quel momento l’incarico direttivo era una sorta di premio a fine carriera) ma poi stravolto dalle logiche spartitorie, è ora in discussione un meccanismo a “punteggi” predeterminati (vedasi Il Dubbio del 19 ottobre). Le nuove regole “anti lottizzazione” hanno però spaccato il Csm. Ad oggi sono fortemente sponsorizzate solo da Unicost, l’ex corrente di Palamara che in tal modo spera di recuperare i consensi perduti, dagli indipendenti Roberto Fontana e Andrea Mirenda, quest’ultimo a dire il vero favorevole al sorteggio, e dalla togata di Md Mimma Miele. Area, la corrente progressista, secondo Mirenda, manifesta una “pesante ambiguità nel reale contrasto al “nominificio”, di cui pure è stata - in passato - protagonista”, in quanto al suo interno ci sarebbero forti contrasti fra chi vuole mantenere l’attuale sistema e chi vuole i punteggi. “La politica sembra quella del piede in due scarpe”, aggiunge Mirenda. Contrarissimi ai punteggi, invece, i togati di Magistratura indipendente che puntano ad un correttivo del Testo unico, migliorandone gli indicatori, per non lasciare campo libero agli “algoritmi”. Con una nota diffusa ieri, i consiglieri di Mi hanno stigmatizzato la diffusione in questa fase dei contenuti del contenuto delle delibere, ancora in fase di discussione. “Quella che viene sbandierata e pubblicizzata con tanta enfasi come la madre di tutte le riforme consiliari (capace di sanare ogni patologia correntizia) non sia che una ben organizzata finzione dove chi decide non si assumerà la responsabilità nascondendosi dietro i numeri ma dove anche e soprattutto si finge di porre regole stringenti aumentando viceversa la discrezionalità”, si legge nella nota. “Anche chi sostiene la proposta, ammette che “il margine di manovra non sarà azzerato” e che “le manovre continueranno”. Noi aggiungiamo che le “manovre” potranno aver luogo senza controllo. Se non si predeterminano gli indicatori e si fa riferimento alle “esperienze” e “risultati” eccezionali, il giudice amministrativo non avrà più la possibilità di esercitare efficacemente il proprio sindacato. Esattamente come nel passato, in cui Unicost Area ed Md erano certamente indiscussi protagonisti”, aggiungono i togati di Mi. Sullo sfondo, comunque, si staglia la campagna elettorale per il rinnovo dei vertici dell’Anm che rischia di condizionare la discussione in Plenum sul nuovo Testo unico. “Riteniamo l’istituzione consiliare troppo importante e le sue determinazioni troppo rilevanti per il futuro e la tenuta democratica del sistema giustizia per essere in qualsiasi modo scaraventata nell’agone elettorale del sindacato dell’Anm”, ricordano dalle parti di Mi. “Di questa delibera si discuterà per dieci anni”, è stato il commento di Fontana. Lucia Borsellino: “Il diritto alla verità non va in prescrizione, vogliamo sapere” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 15 ottobre 2024 “Nostro padre tradito da un amico dentro la procura di Palermo”. La figlia del giudice Paolo sostiene “gli approfondimenti in ogni direzione che stanno conducendo il procuratore De Luca e i suoi colleghi: sono doverosi”. “Il diritto alla verità è imprescrittibile”, ripete Lucia Borsellino. Con i suoi fratelli, Fiammetta e Manfredi, non ha mai smesso di chiedere verità e giustizia per la strage che il 19 luglio 1992 ha ucciso il padre, Paolo, e i cinque agenti della scorta. Lucia Borsellino scandisce i loro nomi, “perché questo Paese spesso dimentica - dice - e invece noi dobbiamo continuare a ricordare: si chiamavano Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli”. La figlia del giudice Paolo rompe un lungo silenzio per tornare a chiedere che nulla sia lasciato intentato, c’è ancora da comprendere cosa accadde davvero in quei 57 giorni che trascorsero fra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio e poi dopo, con la drammatica farsa del pentito Scarantino, che ha tenuto lontana la verità per troppo tempo. “I processi di questi ultimi anni - dice Lucia Borsellino - hanno disvelato il più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana, in questo momento penso sia ancora più doveroso non trascurare alcun ambito di indagine, soprattutto per fare luce sulla solitudine di mio padre all’interno di quello che lui chiamava il covo di vipere, la procura di Palermo. Confidò pure che un amico l’aveva tradito. Chi è questo amico?”. Le indagini della procura di Caltanissetta sono in un crinale molto delicato, che sta cercando di fare luce su ciò che accadde all’interno del palazzo di giustizia di Palermo e di altri palazzi dell’antimafia. Sotto inchiesta sono finiti anche due magistrati che negli ultimi trent’anni sono diventati dei simboli della lotta alla mafia, Gioacchino Natoli e Giuseppe Pignatone. Qual è il suo stato d’animo oggi? “Il motivo per il quale sento questa volta di non dovermi sottrarre alla sua domanda è lo stesso per il quale mio fratello Manfredi ha ritenuto doveroso essere presente il 19 luglio di quest’anno soltanto all’evento tenutosi presso la Corte d’appello di Caltanissetta. In quell’occasione, lui ha detto che per noi in quel distretto giudiziario si sta giocando la partita più importante, forse l’unica che vale la pena di essere giocata, anche ai supplementari, se ci saranno”. Fu l’allora procuratore Pietro Giammanco a utilizzare quell’espressione mutuata dal mondo dello sport. “Così la partita si è chiusa”, disse a suo padre la mattina di quel drammatico 19 luglio, comunicandogli che finalmente gli affidava il coordinamento delle indagini su Palermo. E suo padre rispose: “No, la partita è aperta”... “Manfredi ha detto pure che oggi a Caltanissetta si sta giocando la partita che a nostro padre non fu consentito di fare. In queste parole è condensato tutto il nostro riconoscimento per il lavoro che la procura di Caltanissetta diretta da Salvatore De Luca sta compiendo con coraggio e determinazione per contribuire all’accertamento della verità sulle circostanze che hanno agevolato la morte di mio padre e, con lui, degli uomini e della donna che componevano la sua scorta insieme con Antonio Vullo, l’unico sopravvissuto a quella terribile strage che ha offeso non solo le famiglie delle vittime, ma l’intero Paese”. Qualcuno, anche autorevole, mi riferisco al professore Giovanni Fiandaca, ha scritto polemicamente sul Foglio che i pm nisseni hanno disposto intercettazioni e altre attività d’indagine in fascicoli che contestano reati ormai prescritti. Cosa ne pensa? “Con riferimento a questa complessa e delicata indagine, ritengo che gli approfondimenti in ogni direzione che stanno conducendo il procuratore De Luca e i suoi colleghi siano doverosi per l’accertamento della verità. Il diritto alla verità è imprescrittibile come lo è il delitto di strage. Se poi consideriamo che da allora sono trascorsi oltre trent’anni e non tre giorni, durante i quali si è anche disvelato il più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana, penso sia ancora più doveroso non trascurare alcun ambito di indagine”. Cosa si attende la famiglia Borsellino dalle indagini della magistratura e dalle audizioni della commissione parlamentare antimafia? “Noi ancora attendiamo, a oltre trent’anni di distanza, di conoscere le ragioni che spinsero nostro padre, poche settimane prima della morte, ad affidare a dichiarazioni pubbliche le sue inequivocabili parole di accusa per i tradimenti fino a quel momento consumati ai danni dell’amico e collega Giovanni Falcone e ai suoi. È a tutti noto lo stato di prostrazione che lo ha accompagnato dal 23 maggio 1992 fino alla morte, culminato pochi giorni prima del 19 luglio nello sfogo raccolto dai colleghi Massimo Russo e Alessandra Camassa: nel suo ufficio, nostro padre usò espressioni come “nido di vipere” e “un amico mi ha tradito”. Si riferiva al contesto di lavoro all’interno della procura di Palermo”. Siete ancora fiduciosi che si possa arrivare a qualche verità? “La procura di Caltanissetta sta impegnando tutte le proprie forze in questa direzione e ad essa vanno il nostro rispetto e la nostra fiducia incondizionati. Siamo altresì fiduciosi nel momento in cui non si cerchi ancora una volta di imbrigliare, impedire o deviare, la ricerca obiettiva e senza pregiudizi della verità, attraverso qualsivoglia modalità che anteponga altri interessi a quello prevalente della conoscenza della verità, che appartiene a tutti e non solo ai familiari delle vittime. Ciò anche al fine di riaffermare quella onorabilità che le varie componenti istituzionali possono e devono ricercare agendo a tutela dell’onorabilità di chi per quelle istituzioni ha sacrificato la propria vita”. Il dopo Bibbiano: meno affidi e più comunità. E i costi lievitano di Simona Musco Il Dubbio, 15 ottobre 2024 Aumentano i reati contro i minori. E diminuiscono le tutele. Le conseguenze dell’affaire Bibbiano non riguardano solo una violenta campagna mediatica che ha fatto venir fuori il peggio del giornalismo giudiziario in Italia, fondato sulla disinformazia, il gossip e il confirmation bias. La feroce campagna di odio contro i servizi sociali e gli psicoterapeuti ha provocato una voragine nel tessuto della protezione dei minori, distruggendo quella che un tempo veniva considerata un’eccellenza. Mentre aumentano i reati contro i minori. I dati sono tutti recentissimi ed elaborati dal Servizio analisi criminale della direzione centrale Polizia criminale: nel 2023 sono stati 6.952 i reati a danno di minori in Italia, in media 19 al giorno, 95 in più rispetto al 2022. E sono aumentati del 34 per cento in 10 anni. I reati più diffusi, che registrano anche l’incremento più alto, sono i maltrattamenti in famiglia: ben 2.843 casi, il 6 per cento in più rispetto al 2022 e oltre il doppio del 2013. Tutto questo è certificato dal rapporto di “Terres des Hommes”, presentato nei giorni scorsi alla Camera. Non, dunque, un’invenzione dei Servizi o dello psicoterapeuta Claudio Foti, che nel parlare del fenomeno si è sempre e solo attenuto ai dati ufficiali. E questi numeri fanno il paio con quelli resi noti dagli avvocati Oliviero Mazza e Rossella Ognibene (difensori di Federica Anghinolfi, ex responsabile del Servizio sociale della Val d’Enza), che hanno depositato dei documenti prodotti in indagini difensive nel processo “Angeli e Demoni” sui presunti affidi illeciti. I dati recuperati dai difensori sono ben più spaventosi di quelli che a partire da giugno 2019, per mesi, hanno tenuto banco ogni giorno sui giornali, quando si parlava di “giri di affari con i minori” e di migliaia di affidi. Allarmi che si sono di molto ridimensionati, quando i dati reali sono stati resi pubblici, nel silenzio di molti. E ora ciò che emerge è che era vero l’opposto: mentre nell’anno del blitz, il 2019, appunto, il costo degli affidi era di poco più di due milioni e mezzo, nel 2021 è schizzato a quattro milioni e centomila euro circa, solo a Reggio Emilia e provincia, zona di azione di “quelli del sistema Bibbiano”. Mentre per quanto riguarda le contestazioni mosse in questo processo, la somma sotto la lente della procura si aggira attorno ai 200mila euro, come spiegato in udienza da Mazza venerdì scorso. Non sono numeri immaginari, ma dati forniti dal Comune di Reggio Emilia. Dunque ufficiali. “Per fare un’indagine di questo genere, la pubblica amministrazione - per restare ai numeri del solo Comune di Reggio Emilia - si è ritrovata a pagare quasi due milioni di euro in più - ha commentato venerdì scorso al Dubbio Mazza -. Ma il problema non è solo economico, riguarda anche il destino di questi minori. Perché un conto è trovare accoglienza in una famiglia e un conto è finire in una comunità”. La chiave investigativa dell’inchiesta “Angeli e Demoni” si basa infatti sul presunto aumento vertiginoso di affidi in Emilia, che avrebbe fatto sospettare di un sistema messo in piedi dai servizi sociali per lucrare. Sistema che, per la procura, sarebbe rappresentato da otto casi su centinaia di affidi (sempre decisi dal Tribunale per i minori) evidentemente considerati legittimi, in un contesto in cui, secondo i dati a disposizione - consultabili anche prima dell’indagine - non vi sarebbe stata alcuna anomalia numerica in fatto di allontanamento dei minori. Ora ci sono i dati reperiti dalle difese, depositati in udienza, a spiegare meglio la situazione. Da quei documenti si evince come il numero degli affidi, nel 2019, non fosse molto diverso da quello degli anni precedenti: nessun aumento spropositato, dunque. Anzi, nel 2019 gli affidi familiari erano 232, contro i 270 del 2014. In compenso, nel 2020 sono scesi a 189. Mentre sono lievitati quelli in comunità, con i relativi costi: dai 2 milioni 262mila euro del 2018 si è passati ai 4 milioni e 99mila del 2021. Una vera e propria sconfitta per il sistema. La Commissione parlamentare messa in piedi dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per certificare il presunto orrore aveva già smentito le tesi catastrofiste: l’Italia è infatti il Paese con il minor numero di allontanamenti in Europa. Un dato non necessariamente positivo, dal momento che potrebbe indicare un vuoto di tutela, come ipotizzato dall’Onu. “I dati sui minori fuori famiglia relativi all’Italia - si legge nella relazione finale, passata sottotraccia - indicherebbero una minore propensione all’allontanamento (2,8 per mille, a fronte del 10,5 della Germania, del 10,4 della Francia e del 6,1 del Regno Unito)”. Insomma, nessuna emergenza. Se non fosse che il marasma suscitato dall’inchiesta ha provocato l’effetto opposto rispetto a quello che, almeno a parole, veniva predicato nelle ore convulse dopo il blitz - che per uno strano caso è coinciso con la violentissima campagna elettorale in Emilia Romagna -: la crescita del ricorso alle comunità rispetto gli affidi, con impennata dei costi sociali e umani, dal momento che il ricovero nelle case famiglia costa sette volte in più rispetto all’affido. Ma non solo: i servizi sociali, come testimoniato dagli stessi operatori, sono ora meno propensi a segnalare i casi problematici e gli stessi assistenti sociali sono costantemente vittima di aggressioni, come certificato dall’ex presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine Gianmario Gazzi sul Dubbio. Mentre di famiglie disposte ad accogliere se ne trovano sempre meno. Un clima che trova le sue ragioni nella sfiducia generata dal racconto che del caso Bibbiano è stato fatto, criminalizzando l’intero mondo della tutela dei minori. Verso il reato universale: maternità surrogata in Senato per l’ok definitivo di Rocco Vazzana Il Dubbio, 15 ottobre 2024 Il ddl già approvato alla Camera dovrebbe passare a Palazzo Madama senza intoppi entro la settimana: fino a due anni di carcere per il cittadino italiano che ricorre alla gravidanza per altri all’estero. Domani in piazza la manifestazione di Famiglie Arcobaleno con l’Associazione Coscioni. Domani o al più tardi mercoledì: il ddl che introduce il reato universale di maternità surrogata potrebbe essere presto legge. Già approvato alla Camera nel luglio 2023, il testo approda questa settimana in Aula al Senato senza modifiche rispetto al testo licenziato a Montecitorio, pronto per l’ok definitivo. Si tratta della proposta di Carolina Varchi, deputata di Fratelli d’Italia e prima firmataria del ddl, fortemente voluto e già presentato da Giorgia Meloni nella scorsa legislatura, che punta ad estendere la perseguibilità del reato anche al cittadino italiano che faccia ricorso alla gestazione per altri all’estero. Il testo consta di un solo articolo e interviene sul comma 6, articolo 12, della legge 40 del 2004, che già punisce con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600mila euro a un milione di euro “chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità”. Il disegno di legge è stato approvato lo scorso luglio dalla commissione Giustizia di Palazzo Madama, con il mandato alla relatrice Susanna Donatella Campione di Fratelli d’Italia a portare il testo all’esame dell’Aula. Nel corso della seduta era stato bocciato l’emendamento della Lega, presentato con il parere contrario del governo e respinto da tutte le forze politiche, che prevedeva un’ulteriore stretta: fino a 10 anni di carcere e 2 milioni di multa. Respinti anche tutti gli emendamenti soppressivi presentati dalle opposizioni, che parlano di “obbrobrio giuridico” e propongono (con gli opportuni distinguo) la possibilità di regolare la gestazione per altri (Gpa) in forma “solidale”. Se la norma dovesse passare senza intoppi, come previsto, resterà da sciogliere il nodo relativo al riconoscimento dei bambini nati maternità surrogata. Considerata una legge bandiera di Fratelli d’Italia, oltre che un deterrente per scoraggiare il ricorso alla pratica nei paesi dove la Gpa è legale, la norma non affronta la questione relativa alla trascrizione o registrazione degli atti di nascita formati all’estero. E per Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, sarà inapplicabile perché priva di fondamento giuridico. “Se questo testo dovesse essere approvato anche al Senato e diventare legge, sarebbe una legge ingiusta e discriminatoria, un moralistico manifesto politico. Se diventasse legge, verrebbe subito impugnata perché è giuridicamente inapplicabile in quanto ignora il principio della doppia incriminazione, che è alla base del diritto penale. Ovvero: per punire in Italia un reato compiuto in un altro paese è necessario che sia considerato un reato anche lì. Le persone che dall’Italia accedono a queste tecniche in altri paesi scelgono stati con normative che rispettano e tutelano i diritti delle persone coinvolte e il consenso libero della donna gestante è al centro delle tutele insieme ai nati. La nostra battaglia è per una legge che riconosca e tuteli i diritti di tutte le parti coinvolte, in un percorso di gravidanza per altri solidale, vietando lo sfruttamento e promuovendo l’autonomia e la libertà di scelta. Prima di tutti i diritti dei figli, delle bambine e dei bambini che sono nati grazie alla GPA, che dovrebbero essere protetti e non usati per una dichiarazione politica. Siamo pronti ad assistere nei tribunali e in ogni sede le persone che saranno vittime di questa legge ingiusta che non protegge le donne da possibili abusi ma colpisce solo le famiglie e i nati”, spiega Gallo. L’Associazione Luca Coscioni ha elaborato una proposta di legge depositata lo scorso anno al Senato dal senatore Ivan Scalfarotto (Italia Viva) e alla Camera dei deputati dall’onorevole Riccardo Magi (+Europa), per regolamentare la gravidanza per altri solidale, contro ogni forma di sfruttamento e abuso e, con alcune modifiche, dalla senatrice Mariolina Castellone e altri (Movimento 5 stelle). Domani sarà in piazza per la manifestazione organizzata da Famiglie Arcobaleno a Roma, in piazza Vidoni dalle ore 12. “L’obiettivo della manifestazione - si legge in una nota - è ribadire il sostegno alle famiglie, ai diritti dei bambini e delle bambine nati da Gpa”. Stop a liberazione anticipata dopo la protesta collettiva in carcere, “battaglia” tra tribunali di Ernesto Di Girolamo casertanews.it, 15 ottobre 2024 La sentenza è stata annullata per insufficiente motivazione e la causa è stata rinviata al Tribunale di Sorveglianza di Napoli per una nuova valutazione. La Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Napoli riguardante il diniego della liberazione anticipata a un detenuto di alta sicurezza, un 54enne di Mondragone, coinvolto in una protesta collettiva all’interno del carcere. La Suprema Corte ha rilevato una carenza motivazionale nel provvedimento impugnato e ha disposto il rinvio per un nuovo giudizio. Il detenuto, nel luglio 2021, aveva partecipato a una protesta collettiva nella sezione di Alta Sicurezza del carcere. Questo comportamento era stato considerato dal Tribunale di Sorveglianza come un fattore negativo nell’ambito della valutazione della sua condotta per la concessione della liberazione anticipata. Tuttavia, la difesa aveva contestato questa decisione, sottolineando che altri detenuti coinvolti nella stessa protesta avevano ottenuto il beneficio, nonostante non fossero stati sanzionati disciplinarmente. Pertanto, ha chiesto al Tribunale di verificare se ci fossero elementi concreti che giustificassero una differenza di trattamento tra il proprio assistito e gli altri detenuti. La Corte di Cassazione ha stabilito che il Tribunale di Sorveglianza avrebbe dovuto esaminare più attentamente la questione sollevata dalla difesa, confrontando i casi dei detenuti che avevano beneficiato della liberazione anticipata pur avendo partecipato alla stessa protesta. Inoltre, avrebbe dovuto chiarire le ragioni di una possibile valutazione diversa nel caso di specie. La Suprema Corte ha ribadito che, sebbene l’esito di procedimenti analoghi non possa influenzare direttamente il caso specifico, il Tribunale avrebbe dovuto fornire una motivazione più approfondita e dettagliata sulle ragioni che hanno portato a negare la liberazione anticipata. Di conseguenza, la sentenza è stata annullata per insufficiente motivazione, e la causa è stata rinviata al Tribunale di Sorveglianza di Napoli per una nuova valutazione. Sardegna. Carceri affollate, Caligaris: “I problemi si moltiplicano quotidianamente” di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 15 ottobre 2024 La presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme Odv” lancia l’allarme. La situazione più grave a Uta ma le difficoltà si registrano anche a Bancali. Il carcere mandamentale di Uta è sul punto di scoppiare per sovraffollamento, quello sassarese di Bancali non è da meno. L’avviso viene dalla presidente dell’associazione culturale “Socialismo Diritti Riforme Odv”, Maria Grazia Caligaris, ancora una volta in prima linea nel denunciare la pericolosa situazione degli istituti penitenziari isolani, in particolare i due principali di Ua e Bancali. “A Uta i reclusi erano 701 il 31 di agosto, oltre il limite regolamentare dei 561 posti teoricamente disponibili - attacca Caligaris -. Secondo i dati dell’Ufficio statistiche del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, diffusi dal Ministero della Giustizia, e resi noti soli oggi (ieri, ndr), con grave ritardo rispetto al consueto resoconto, erano diventati 729 (33 donne) il 30 di settembre. Il conteggio odierno però lascia senza parole. I posti sono sempre quelli, ma i ristretti sono diventati 742 (132%). A Cagliari-Uta la detenzione non può rispettare i canoni del trattamento è prevalentemente custodiale e i problemi si moltiplicano quotidianamente”. Maria Grazia Caligaris fa osservare che “vivere in quattro in celle destinate a due persone significa creare condizioni di costante tensione che sfociano, spesso, in atti aggressivi e/o di autolesionismo”. Prosegue la presidente di Sdr: “A Cagliari-Uta, com’è noto, si registra la presenza di un alto numero di persone con gravi problematiche psicosociali, tossicodipendenze e disturbi psichiatrici. A complicare il quadro un’alta percentuale di stranieri (23,3%) prevalentemente extracomunitari, molti dei quali provenienti da altri Istituti della Penisola. Anche il numero delle donne è aumentato in seguito al trasferimento da Bancali per sovraffollamento. Anche la situazione del carcere di Sassari, infatti, è problematica”. Nel secondo istituto penitenziario più grande dell’isola, secondo i dati ministeriali, si trovano 521 detenuti per 454 posti (24 donne) pari al 114% di affollamento (90 al 41bis e 161 stranieri - 30.9%). In sofferenza anche Tempio Nuchis che con 171 presenze ha superato il numero regolamentare dei 170 posti. Insomma in due istituti penitenziari sono detenute 1.263 persone su 2.262 (566 stranieri, 25%) attualmente presenti nelle 10 strutture isolane”. In calo invece, seppur di poco, le presenze delle tre colonie penali sarde. Sono infatti 296 i detenuti (185 stranieri) a fronte di 598 posti disponibili. “Quello dei penitenziari all’aperto (unico caso in Italia) - prosegue Caligaris - resta la questione più significativa in una regione dove il lavoro per scontare una pena detentiva potrebbe offrire importanti occasioni di reintegro sociale. La Sardegna continua a non essere presa nella dovuta considerazione dal Ministero e dal DAP, se non per i trasferimenti da altri Istituti della Penisola”. “L’aspetto più importante è quello di un Provveditore regionale, Mario Antonio Galati, - conclude la presidente di Sdr - che svolge il suo importante ruolo tra Piemonte-Liguria-Valle d’Aosta e Sardegna. A prescindere dalle sue qualità, è evidente che in Sardegna il Ministero ha il dovere di assegnare l’incarico a chi ha le competenze, le conoscenze territoriali e le qualità per gestire al meglio le carceri. Una riflessione importante spetta anche al mondo politico locale affinché finalmente un sardo possa ricoprire l’incarico di direttore generale e diventare provveditore”. Napoli. Detenuto di 93 anni ottiene gli arresti domiciliari. Molti ultra 80enni restano in carcere ansa.it, 15 ottobre 2024 Il detenuto di quasi 93 anni che da Poggioreale da oggi è in detenzione domiciliare in una struttura adeguata conferma che negli istituti penitenziari italiani c’è una popolazione carceraria di età avanzata che per la gran parte dovrebbe seguire la stessa sorte. Così Aldo Di Giacomo, segretario generale del S.PP. riferendo che al 30 giugno scorso, secondo i dati più aggiornati del Ministero della Giustizia, i detenuti con 70 anni ed oltre sono 1.244 di cui 115 nelle carceri campane e 5 in Basilicata. Anche se la classificazione per età fatta dal Ministero non consente di disporre di un dato differenziato sui detenuti con 80 anni ed oltre, ci sono comunque decine di questi casi. Purtroppo il suicidio dell’83enne di Maschito avvenuto a luglio nel carcere di Potenza dove era detenuto nonostante avesse dato chiari segnali di instabilità mentale - aggiunge - è stato già rimosso ed invece dovrebbe suscitare quanto meno una ricerca e analisi più attenta dei detenuti con 80 anni ed oltre e sui relativi casi di detenzione domiciliare. Il grave sovraffollamento si supera anche in questo modo. Invece i detenuti sono aumentati di 15mila unità con una media di circa 300 al mese - sono complessivamente 61.480 e sono cresciuti di 1.314 unità in un semestre (+2,2%) e di 3.955 in un anno (con un tasso pari a +6,8%), a fronte di 47.067 posti regolarmente disponibili, per un indice di sovraffollamento pari al 130,59% - e di contro il personale è diminuito (per effetto dei pensionamenti) di 18mila unità, solo in piccolissima parte compensato da nuove assunzioni. Il risultato: dall’inizio dell’anno l’”emergenza carcere” ha raggiunto il livello storico più allarmante di sempre determinando una situazione del tutto fuori dal controllo dello Stato. Basti pensare che da gennaio ad oggi si è raggiunto il numero più alto in assoluto di morti in carcere - 191 - di cui 76 suicidi con almeno una cinquantina per le quali le cause sono ancora da accertare e per le quali non si può escludere nulla. Questi numeri - dice Di Giacomo - fanno diventare, inequivocabilmente, le carceri italiane le peggiori in Europa e le avvicinano a quelle sudamericane, come del resto confermano le continue sentenze di condanna per lo Stato Italiano da parte degli organismi dell’Ue in materia giustizia e sistema penale. Ma la situazione si scarica pesantemente in primo luogo sul personale penitenziario - circa 31 mila in servizio - con un forte sottodimensionamento degli organici: su 5 mila assunzioni avvenute con questo Governo per concorsi, almeno 4 mila sono “bruciati” da pensionamenti con una media di 200 pre-pensionamenti l’anno”. Napoli. Ciambriello: “Le carceri esplodono, serve limite massimo di capienza” di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 15 ottobre 2024 A Poggioreale 2.125 detenuti a fronte di una capienza reale di circa 1.400 posti. Il Garante campano: “Servirebbero le carceri a numero chiuso, un limite massimo di capienza invalicabile”. “Stamattina sono stato nel carcere di Poggioreale per effettuare dei colloqui con i ristretti, c’erano 2125 detenuti a fronte di una capienza reale di circa 1.400 posti. Credo che da tempo in questo carcere non ci siano le condizioni di detenzione accettabili di spazio abitativo. Una buona notizia è che oggi il detenuto di quasi 93 anni è uscito per andare in detenzione domiciliare in una struttura adeguata”. In Italia sono presenti circa 61.000 detenuti, 15.000 detenuti in più rispetto alla capienza reale. Ecco la proposta innovativa del garante Ciambriello: “Credo che per ogni carcere, debba esistere un limite massimo assoluto per il numero di detenuti, al fine di garantire lo standard minimo in termini di spazio abitativo. Pertanto, ogni volta che un carcere ha raggiunto tale limite, le autorità competenti devono adottare misure appropriate per garantire che ad una persona, appena sottoposta a custodia cautelare o condannata ad una pena detentiva, siano offerte condizioni di detenzione accettabili non solo abitative, ma anche rispetto alla presenza di agenti di polizia penitenziaria, di personale per l’assistenza sociosanitaria e per l’offerta trattamentale. Su questo argomento è stato presentato anche una proposta di legge al Senato, solo così si costringere l’autorità giudiziaria e la politica a rispettare il dettato costituzionale”. Il garante campano fa riferimento ad una proposta di legge che è stata depositata nel dicembre 2022 al Senato della repubblica intitolata “Misure alternative alla detenzione in carcere nel caso di inadeguata capienza dell’istituto di pena” che vede come prima firmataria la senatrice Cecilia D’Elia. All’art. 2 si disciplina che “Con regolamento da adottare con decreto del Ministro della giustizia, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n400, è stabilito il numero di posti letto regolarmente disponibili in ciascuno degli istituti di pena italiani ai fini dell’attuazione delle disposizioni di cui all’articolo 1 della presente legge, sulla base di un conteggio effettuato applicando gli standard vigenti con riferimento agli ambienti di vita nelle civili abitazioni, come definiti dal decreto del Ministro per la sanità 5 luglio 1975,pubblicato nella Gazzetta ufficiale n.190 del 18 luglio 1975”. Modena. Consiglieri comunali in visita al carcere Sant’Anna carpi2000.it, 15 ottobre 2024 Una delegazione di consiglieri e componenti della giunta, guidata dalla Presidenza del Consiglio comunale di Modena e dalla Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale Giovanna Laura De Fazio, ha visitato venerdì 11 ottobre il carcere Sant’Anna di Modena. All’iniziativa seguono adesso una commissione consiliare Servizi, con la relazione della Garante sulla propria attività, e un Consiglio comunale tematico; le date delle due sedute vengono definite nei prossimi giorni. La visita rientra infatti in un percorso richiesto dalla stessa Assemblea che ha approvato, nella seduta del 9 settembre, un ordine del giorno sul proseguimento delle attività di monitoraggio del penitenziario, da parte di Consiglio e Amministrazione comunale, allo scopo di constatare direttamente le condizioni della struttura e la situazione dei detenuti, anche rispetto al fenomeno del sovraffollamento carceri. Accolta dal direttore Orazio Sorrentini, la delegazione ha incontrato in un primo momento il comandante della Polizia penitenziaria Massimo Bertini, la coordinatrice dell’Area Pedagogica Nicoletta Maria Saporito, i responsabili degli uffici della Casa circondariale e quelli di Coopattiva che opera nella struttura con progetti di lavoro per i detenuti. Poi, divisa in due gruppi, è stata guidata nei due reparti della struttura, quello maschile e femminile, oltre che nelle parti comuni. La delegazione, in particolare, ha avuto modo di visitare l’interno di alcune camere detentive e di parlare direttamente con i detenuti. Per il Consiglio comunale si tratta della seconda visita al penitenziario di Modena, dopo quella organizzata nel 2016. Milano. Il Beccaria rinasce con giardino e murale. In campo la Fondazione Rava di Jessica Muller Castagliuolo Il Giorno, 15 ottobre 2024 A Milano, la Fondazione Rava trasforma un istituto per minori con il progetto “Palla al centro”, puntando sulla rinascita e formazione dei detenuti per il reinserimento sociale. Il giardino razionale e il murale floreale sono realizzati dai ragazzi stessi, con l’obiettivo di riportare speranza e rieducazione in un contesto difficile. Nel cortile del Beccaria un giardino razionale dalle aiuole curate. Tutto intorno, se ne arrampica idealmente un altro: un murale floreale e onirico. Lì dove due anni fa c’era solo un ammasso di detriti, inaugura lo spazio ristrutturato dalla Fondazione Francesca Rava con il sostegno delle Fondazioni di Covivio e Deloitte. È uno degli obiettivi raggiunti grazie al progetto “Palla al centro”, portato avanti dalla Fondazione Rava all’interno dell’Istituto per minori milanese e nato nel 2020 da un accordo di collaborazione con il Tribunale per i Minorenni di Milano e il Centro per la Giustizia Minorile per la Lombardia. Finalità del progetto: la realizzazione di percorsi di rinascita e di formazione in vista del futuro reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Ragazzi che “hanno solo bisogno di essere riempiti di cose belle”, afferma la presidente Mariavittoria Rava. “Molti vengono dalla strada e dalla povertà, noi vogliamo mostrare loro qualcosa di diverso. Abbiamo passato ore a creare questo spazio con loro, ecco perché è così importante. Siamo partiti dal riqualificare le celle, abbiamo realizzato la palestra. Ora abbiamo il grande sogno di ristrutturare il campo sportivo esterno”. Insistere col presidiare un contesto difficile. “Le difficoltà ci sono ma è nostro impegno riportare l’istituto ad essere un luogo di rieducazione, formazione e lavoro. Dobbiamo tornare a riportare la speranza”, dichiara intanto il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari. Parla di “segno di speranza” anche il direttore dell’Ipm Claudio Ferrari, che sottolinea come la volontà sia quella di continuare a dialogare con il territorio e con il terzo settore: “Non è mutato il modello della giustizia minorile, ma è cambiata l’utenza. Ci troviamo di fronte a situazioni già molto compromesse: minori stranieri non accompagnati, spesso con problemi di dipendenza e disagio psichico. Più di rieducare si tratta di educare”. A realizzare il murale che circonda il giardino sono stati proprio questi ragazzi. Albania Pereira, arte terapeuta che da quattro anni lavora nell’Ipm tramite la Fondazione, racconta: “Mi colpisce sempre la loro grinta, proprio quella che a volte risulta ingestibile. Hanno della genialità, ma la usano in modo sbagliato. Quando li frequenti capisci che c’è la sostanza ma non c’è il contenitore. Siamo noi a doverlo creare”. Milano. Carceri, la Tenda di Mamre: luogo d’incontro e accoglienza di Roberta Barbi vaticannews.va, 15 ottobre 2024 È stato inaugurato a settembre presso la parrocchia Maria Madre della Chiesa, nella periferia milanese di Gratosoglio, uno spazio rivolto all’incontro tra il carcere, la comunità cristiana e la società civile. Don Palumbo: “È il nostro ponte tra dentro e fuori”. “Mi casa es tu casa”: utilizza questo detto messicano don Francesco Palumbo, cappellano della casa di reclusione di Milano Opera per spiegare i motivi che lo hanno portato a trasferirsi nell’unica camera singola ospitata dalla Tenda di Mamre, il nuovo spazio creato nella parrocchia di Maria Madre della Chiesa a Milano per l’incontro tra detenuti in permesso e la società. “All’inizio mi sono trasferito per motivi organizzativi, perché c’era bisogno di qualcuno che fosse presente in questa nuova casa - racconta ai media vaticani - ma poi mi sono reso conto che non vogliamo solo che queste persone escano dal carcere, vogliamo che non siano sole e così mi sono messo in gioco per primo per accoglierle”. L’idea è venuta circa un anno fa a chi accanto alle persone detenute vive quotidianamente, i volontari e gli operatori, oltre, naturalmente, al cappellano: “Ci siamo resi conto che spesso i ristretti quando escono in permesso non sanno dove andare, sono più soli fuori che dentro”. Ora l’idea di questo spazio condiviso è diventata realtà: “I detenuti che sono in prossimità del fine pena hanno bisogno di reimparare il mondo che c’è là fuori - spiega ancora il cappellano - ma anche il mondo di fuori, soprattutto i giovani, hanno bisogno di incontrare chi è dentro. Ecco: questa casa che chiamiamo Tenda di Mamre funziona da mediatore”. Il giorno dell’inaugurazione, lo scorso 15 settembre, c’è stata una grande festa: “Non è stato un momento di autocelebrazione, perché - osserva don Palumbo - le persone detenute vanno messe sempre al centro. Spesso in carcere maturano delle esperienze umane forti e preziose che è molto importante mettere a disposizione della comunità, farle conoscere fuori”. Così durante la festa i partecipanti, oltre a poter toccare con mano come si vive ‘dentro’ grazie alla riproduzione fedele di una cella, hanno potuto anche ascoltare diverse testimonianze dalle voci degli stessi ristretti: “Solo così - prosegue il cappellano - possiamo abbattere davvero i pregiudizi. Il carcere è una realtà complessa che va compresa, i detenuti stessi vanno scoperti, come persone. Dopo l’inaugurazione ho ricevuto molti feedback positivi: le persone hanno cominciato a interrogarsi. La città non può più ignorare cosa c’è dietro quelle mura”. Ovviamente, per sopravvivere, la Tenda di Mamre ha bisogno dell’aiuto di tutti; da qui l’appello del cappellano alla cittadinanza: “Abbiamo bisogno di amici, volontari, di chiunque voglia passare qui qualche ora, prendere un caffè insieme; magari reinsegnare a qualcuno degli ospiti come si prende un autobus - conclude don Francesco - aspettiamo chiunque voglia, anche gruppi e famiglie. Siamo qui”. Per chi fosse interessato, può scrivere all’indirizzo mail: latendadimamre@tim.it. Bari. “Saltando Respiro”: un viaggio fotografico nel carcere, tra i sogni e i desideri dei detenuti Gazzetta del Mezzogiorno, 15 ottobre 2024 Un viaggio fotografico nel carcere di Bari, una mostra multimediale degli scatti d’autore di Daniele Notaristefano nel braccio penitenziario maschile. Tematiche ricorrenti: il sogno, i desideri, l’altrove. È il progetto Saltando Respiro, presentato oggi, 14 ottobre, nella Casa Circondariale di Bari, nato con l’obiettivo di illustrare la condizione carceraria in un’ottica di trattamento e rieducazione delle persone ristrette, rendendole non passive fruitrici delle progettualità ma individui protagonisti e interpreti loro stessi di uno sguardo sulla propria condizione. Ai detenuti, inoltre, durante la sessione sono state affidate due macchine fotografiche. Il momento di restituzione ha visto la presenza della direttrice del Carcere di Bari, dott.ssa Valeria Piré, della direttrice del Dipartimento ForPsiCom dell’Università Aldo Moro di Bari, prof.ssa Loredana Perla, del delegato del Magnifico Rettore per le attività progettuali con le amministrazioni penitenziarie, prof. Ignazio Grattagliano, della curatrice della mostra, prof.ssa Claudia Attimonelli, del Coordinatore del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione (Uniba), prof. Luigi Cazzato e del fotografo Daniele Notaristefano. L’esposizione è inserita tra gli eventi per il Centenario di Uniba, e avrà luogo in uno spazio pubblico a metà novembre, curata da Claudia Attimonelli. Gli scatti sono stati realizzati nei luoghi della quotidianità penitenziaria: si vedono, infatti, il cortile, una cella, la biblioteca del carcere e il braccio femminile abbandonato da anni, cui è stato permesso l’accesso per il progetto in atto. I racconti dello psichiatra. Storie (vere) di chi si è perso di Martina Dei Cas Corriere dell’Alto Adige, 15 ottobre 2024 Il libro del trentino Eraldo Mancioppi, che ha firmato la perizia su Benno Neumair. I casi, anche noti, incontrati in 40 anni di carriera. Sono persone nella loro unicità, non pazienti anonimi, quelli raccontati dallo psicologo e psicoterapeuta trentino Eraldo Mancioppi, nel libro “L’uomo di cartapesta e altre storie” (Edizioni Ets, 172 pagine, 15,20 euro). Un esordio nella narrativa in cui lo psichiatra di Ala ha raccolto 31 racconti, nati da oltre 40 anni di carriera. Il libro viene presentato in anteprima dall’autore domani alle 20.30 all’Ordine dei Medici di Trento, in dialogo con Claudio Agostini, direttore del Dipartimento di salute mentale dell’azienda sanitaria di Trento. Poi il 7 novembre alle 19, alla Libreria Arcadia di Rovereto. Mancioppi è anche lo psichiatra che ha firmato la perizia su Benno Neumair, condannato per avere ucciso i genitori a Bolzano. Dottor Mancioppi, lei ha vissuto l’entrata in vigore della legge Basaglia e la chiusura dei manicomi. Cosa ricorda di quegli anni? “Ricordo “il guardiano”, protagonista del racconto che apre il libro. Era un signore anziano, che conobbi al manicomio di Marzana, vicino Verona, ai tempi della tesi di laurea. Stava di guardia su una panchina all’ingresso per assicurarsi che non lasciassi i fari della macchina accesi quando arrivavo. Segnalarmi quella dimenticanza era per lui un modo di sentirsi utile. E poi c’è Severina. La incontrai durante un percorso di reinserimento nel suo territorio natale, la Valle dei Laghi, dopo la chiusura del manicomio di Pergine. Segnata da un’infanzia povera, aveva trovato una parentesi di pace solo nel matrimonio con un uomo anziano. Rimasta vedova, continuò a cucinare per lui e a lasciare il cibo sulla sua lapide una volta alla settimana. Mi commosse vedere come una donna non scolarizzata aveva fatto suo senza saperlo un antico culto dei morti”. Cosa accomuna le storie del “guardiano” e di Severina? “La consapevolezza che, chiusi i manicomi, resta la necessità di cura e presa in carico delle persone. Mi fa effetto quando leggo di reparti psichiatrici costruiti in palazzine dismesse delle case di riposo. Come a creare “il Polo degli Inutili”: anziani e matti. Ciò che serve, invece, è un profondo lavoro di comprensione collettiva e di analisi delle potenzialità per favorire, se possibile, l’inserimento lavorativo del paziente”. Negli anni Novanta ha cominciato a fare il consulente per il tribunale... “Sì. Penso che anche la magistratura faccia parte della rete della cura. Su cento perizie, due, tre riguardano casi gravi, delitti crudi che impattano l’opinione pubblica. Le altre, invece, si riferiscono a piccoli reati, come lo schizofrenico che ruba i cartoni del latte. Ecco, fare la perizia, vuole dire riprenderlo in carico dal punto di vista medico e costruire insieme un progetto di crescita e guarigione. Anche se le storture non mancano”. In che senso? “Nel senso che le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, ovvero le strutture alternative al carcere dove viene mandato chi non è imputabile, non possono curare contro la volontà della persona. Dunque, se chi è inviato lì rifiuta la terapia e si comporta in modo violento, finisce comunque per essere spedito in carcere perché pericoloso. Il problema si sposta o si posticipa, ma non si risolve”. Tra le perizie che ha firmato, c’è quella di Benno Neumair. Quanto pesa l’opinione pubblica sul suo lavoro? “Di solito, quando lavoro ai casi mediatici, evito i giornali per non farmi influenzare. Ciò che conta è l’ascolto del periziando e la lettura attenta delle carte. Con Benno, per esempio, abbiamo lavorato settecento ore. Penso che, per chi fa lo psichiatra o il criminologo, partecipare a un talk show senza essersi prima ben documentato, sia imprudente. L’importante è mettersi nei panni dell’imputato o del paziente. Il mio compito è comprendere. Non giudicare”. Dal suo libro traspaiono dedizione professionale e umanità nel tracciare i tratti caratteristici di ogni paziente. Chi l’ha colpita di più? “L’uomo di cartapesta che dà il titolo al libro. Aveva l’abitudine di riempire di insulti gli altri ospiti della casa di riposo. A causa dei suoi modi, all’inizio lo battezzai “uomo di ferro”. Durante le sedute però la sua essenza si schiuse, restò soltanto l’uomo in tutta la sua fragilità e desiderio di essere compreso. Mi parlò della sua passione per la cartapesta e riuscimmo a ricavarne una scultura per i bambini di una vicina scuola materna. Purtroppo non è una storia a lieto fine perché qualche tempo dopo si è suicidato. Un epilogo felice è invece quello del ragazzo abbandonato dal papà, ossessionato dai treni con i quali il padre era partito, da adulto ha trovato il suo riscatto lavorando come autista. O la giovane che, negli anni Ottanta, ho accompagnato fuori dall’anoressia. Sto già lavorando a un altro libro e la sua storia ne sarà il perno”. Le donne senza fissa dimora tra discriminazioni, violenze, abusi e disturbi di salute mentale di Francesca Polizzi Il Domani, 15 ottobre 2024 Quando si parla di marginalità adulta ci si concentra solo sull’esperienza maschile. Eppure le donne, che rappresentano il 32 per cento del totale, corrono maggiormente il rischio di rimanere senza casa a causa del mercato del lavoro. E se hanno figli devono vivere il trauma dell’allontanamento. Non sono solo tossicodipendenti o alcoliste: molte sono semplicemente povere. Tra loro molte ex badanti. Le politiche pubbliche non prendono in considerazione le loro specifiche esigenze. Senza considerare che molte situazioni particolari di precarietà abitativa non vengono nemmeno rilevate. In Italia la grave emarginazione adulta è un tema che fatica a essere al centro del dibattito pubblico. La mancanza di consapevolezza su un fenomeno così variegato determina l’assenza di approcci specifici, a cui si unisce la complessità nella raccolta di dati precisi e aggiornati. Inoltre, laddove si parla di grave marginalità adulta, ci si concentra quasi esclusivamente sull’esperienza maschile. Secondo il censimento della popolazione dell’Istat del 2021 le persone senza tetto e senza dimora sono 96.197. La rilevazione dell’Istat rappresenta, da un lato, un’importante novità perché dà visibilità e riconoscimento a segmenti di popolazione difficili da tracciare e percepiti come invisibili. Dall’altro lato, però, presenta dei limiti dovuti alla metodologia di rilevazione che si basa solo su criteri amministrativi: vengono prese in considerazione solo le persone iscritte all’anagrafe con un indirizzo di residenza fittizio. Il quadro che emerge dai dati Istat mostra come la maggioranza di persone senza dimora è composta da uomini. Le donne, invece, rappresentano circa il 32 per cento delle persone senza dimora in Italia, corrispondenti a 30.790. A partire da questo dato le politiche pubbliche dovrebbero tenere in considerazione le specifiche esigenze di questa parte di popolazione - che spesso rimane sottotraccia - per affrontare in modo efficace il fenomeno dell’homelessness. Per le donne, ma non solo, la strada rappresenta l’ultima delle scelte: comporta un’esposizione a livello fisico che spinge le persone a preferire delle soluzioni che non rientrano tipicamente nell’homelessness, ma che possono risultare insicure perché vi è la possibilità di essere esposte alla violenza. “Le donne, pur avendo un tetto sopra la testa, vivono una situazione di grave precarietà, di emarginazione ed esclusione abitativa. Anziché ricorrere ai servizi per la marginalità tendono a rivolgersi ad amici, parenti, familiari trovandosi talvolta in situazioni di sovraffollamento e mancanza di privacy. Questa precarietà abitativa è difficilissima da intercettare: le rilevazioni non riescono a stimare questi numeri”, dice Lucia Fiorillo, ricercatrice di fio.PSD (federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora), per spiegare il fenomeno dell’”homelessness nascosta”. Il modo in cui si parla del fenomeno ha degli impatti sulla visibilità delle donne che sono soggette a una forte stigmatizzazione. Entrano in gioco anche gli stereotipi e i ruoli di genere, che associano alle donne l’ambiente intimo della casa e dei lavori domestici e di cura. Le donne vivono la condizione di grave marginalità per motivi diversi rispetto agli uomini, ma spesso alla base vi sono caratteristiche comuni: la povertà, l’inadeguatezza dell’offerta abitativa e la mancanza di sussidi. Per le donne la condizione di senza dimora può essere percepita come un fallimento personale che devia dalle aspettative di genere. In realtà, dietro queste dinamiche vi è uno svantaggio strutturale: le donne corrono maggiormente il rischio di rimanere senza casa a causa del difficile mercato del lavoro; hanno, inoltre, maggiori probabilità di vivere in povertà con livelli di risparmio più bassi e di indebitamento più elevati a cui possono associarsi episodi di violenza domestica e altri eventi ed esperienze traumatiche. Le donne hanno anche maggiori probabilità di avere responsabilità di cura e sono spesso a capo di nuclei familiari monogenitoriali. Poi ci sono alcuni gruppi di donne più esposte a causa di ulteriori condizioni di discriminazione e svantaggio come razzismo, violenze, abusi, problemi di salute fisica o psichica, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o le disabilità. “La conta delle persone senza dimora è particolarmente complessa e riguardo alle donne il tema dell’homelessness nascosta è particolarmente rilevante”, racconta a Domani Jacopo Faccini Lareno, ricercatore sociale che con il collega Andrea Rampini e il fotografo Luca Meola ha condotto il progetto di ricerca e documentazione fotografica “Milano senza dimora”. Lareno spiega che quelli raccolti sono dati qualitativi più che quantitativi: le esplorazioni etnografiche hanno coinvolto 15 persone senza dimora nella mappatura di una Milano diversa. “Abbiamo trovato varie relazioni di amore e cura reciproca che vedono donne e uomini in strada creare delle connessioni anche romantiche e amorose. In alcuni casi spinti dalla necessità di trovare protezione reciproca”. I ricercatori hanno osservato anche un altro fenomeno connesso all’homelessness esaminata da una prospettiva di genere: il lavoro povero legato all’immigrazione. “Abbiamo incontrato alcune storie di donne migranti lavoratrici emigrate a Milano per lavoro e impiegate nei lavori di cura e nei lavori domestici che vivono un continuo ingresso e uscita dal sistema di servizi per le persone senza dimora. Non sono esistenze lineari dal punto di vista della relazione con la strada e con la casa: tutto dipende dal momento della vita e dalla possibilità di avere un lavoro che è associato a un’abitazione come nel caso dell’attività di badantato”, continua Lareno. Nelle storie delle persone che lavorano come badanti capita che la morte della persona assistita si trasformi in potenziali processi di homelessness. Qui, però, emerge un problema strutturale: il fallimento di una società che gestisce il proprio carico di cura appaltandolo a delle figure professionali specifiche che spesso sono delle donne e di “una società che non riesce a tutelare quelle lavoratrici che dopo anni passati a prendersi cura di una persona si ritrovano a non avere nulla”, fa notare Andrea Rampini. Rampini racconta di un terzetto di donne, provenienti da paesi differenti e in fasi diverse del loro progetto migratorio, tra cui è nata un’amicizia legata all’esperienza in strada. Le tre avevano in comune rapporti problematici con delle figure maschili o un’esperienza di strada legata alla separazione dall’uomo con cui erano emigrate. “Si tratta di biografie complesse che sono una spia sul funzionamento più generale dei processi migratori e anche dell’inserimento in posizioni subalterne nel mercato del lavoro. Questo significa che esistono storie molto belle di alleanze, amicizie, affetto e tutela, ma ci sono anche storie di grande abbandono e invisibilità”. Madri senza dimora - Le donne senza dimora, infatti, vivono una condizione di svantaggio multiplo: sono più esposte a violenza, abusi, disturbi di salute mentale e rischiano con maggiore frequenza la possibilità di separazione dalla prole rispetto agli uomini. Nel bilancio 2023 dell’organizzazione di volontariato Avvocato di strada - che si occupa di fornire assistenza legale gratuita alle persone senza dimora - si legge: “Confrontando le richieste di assistenza legale provenienti da uomini e donne, si può osservare che per le questioni relative al diritto alla residenza si sono rivolti a noi per l’86,2 per cento uomini; per problemi inerenti al permesso di soggiorno, ancora una maggioranza di uomini (l’81,6 per cento); in materia di diritto di famiglia, invece, sono le donne a essersi rivolte in maggior numero all’associazione, rappresentando il 58,5 per cento delle assistite”. Come spiega Antonio Mumolo, avvocato e presidente di Avvocato di strada: “Quando una donna finisce in strada e ha un figlio minore, il figlio viene aiutato e preso in carico dai servizi sociali e dal tribunale dei minori e quindi in molte situazioni si avvia il procedimento di adottabilità”. Inevitabilmente il decreto di adottabilità significa l’allontanamento tra la madre e la bambina o il bambino. Mumolo racconta di due donne con figli minori che si sono rivolte all’associazione con il decreto di adottabilità: “In entrambi i casi c’è il lieto fine perché c’erano dei familiari che si potevano prendere cura dei minori”. Si è attivato un rapido sistema di contatti per raggiungere le famiglie di origine delle donne perché in queste situazioni “si accetta che il minore stia in famiglia piuttosto che darlo in adozione. Bisogna, però, dimostrare tutta una serie di requisiti a tutela del minore: che c’è una famiglia che lo può sostenere, che ha una casa con una stanza per lui, che c’è la possibilità di mandarlo a scuola”. Mumolo poi allarga il campo e riflettendo sulla condizione delle persone senza dimora conclude: “Mentre un tempo in strada c’erano persone che oltre al problema della povertà avevano problemi di alcolismo, tossicodipendenza o problemi di natura psichica che avevano contribuito a determinare quello stato di povertà che le aveva portate in strada, oggi non è più così. Ci sarà ancora qualche persona tossicodipendente o con problemi di alcolismo, ma la realtà è che la stragrande maggioranza di quelle persone sono in strada perché sono diventate povere e in più non c’è il welfare che c’era prima”. Una cosa è chiara: per fornire un sostegno efficace alle donne senza dimora bisogna far emergere esigenze e bisogni specifici e per farlo è essenziale un approccio multidisciplinare. Anche Fiorillo, ricercatrice fio.PSD, afferma che “la popolazione delle persone senza dimora non è un unicum, servono percorsi personalizzati. Inoltre, i profili delle persone senza dimora che si rivolgono ai servizi stanno cambiando con un aumento dei nuclei familiari che nella maggior parte dei casi sono composti da mamme e bambini”. Migranti. Il richiamo di Mattarella sull’accoglienza (e i primi 16 arrivi in Albania) di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 15 ottobre 2024 Sono di nazionalità egiziana e bengalese i primi profughi intercettati in acque internazionali e poi trasbordati sulla Libra. L’opposizione attacca: buttati 800 milioni. Col suo carico di migranti, la nave Libra della Marina Militare è ancora in navigazione. I calcoli di bordo ipotizzano che possa attraccare fra stasera e domattina nel porto albanese di Schengjin. Trasporta 16 migranti: 6 di nazionalità egiziana e 10 bengalesi. Erano a bordo di alcuni barchini, intercettati l’altra notte da motovedette militari italiane in acque internazionali. A Lampedusa sono stati trasbordati sulla Libra, che ha messo la prua verso l’Albania, dove i due centri di Schengjin (un hot spot di prima accoglienza e identificazione) e Gjiader (per permanenze di maggior durata) sono operativi da alcuni giorni. Nelle stesse ore, da Milano, durante una visita al Centro orientamento immigrati della Fondazione Franco Verga, è il capo dello Stato Sergio Mattarella a soffermarsi sull’apporto dato dai fenomeni migratori alla crescita del Paese: “Oggi gli immigrati non vengono più dal Mezzogiorno d’Italia, ma da più lontano, da Paesi europei come l’Ucraina, aggredita da una guerra insensata, dai Balcani, da altri continenti, gravati anch’essi da condizioni insostenibili - considera il presidente della Repubblica -. Altri sono anche gli attori di un lavoro prezioso che tende a inverare gli obiettivi di solidarietà” posti dalla Costituzione alle basi della nostra convivenza. L’auspicio di Mattarella è che “l’impegno per la coesione sociale, l’accoglienza, il progresso, l’integrazione, il divenire della cittadinanza, sia un’attività permanente”. Lo screening sui migranti - Quello di ieri è il primo gruppo trasferito in Albania dalla firma dell’intesa - ormai quasi un anno fa - fra i due premier Giorgia Meloni ed Edi Rama, per smistare parte dei migranti verso un Paese extra-Ue, con l’intento di scoraggiare gli arrivi irregolari. Il numero esiguo fa pensare a un primo test, specie se paragonato alla stazza di nave Libra (lunga 81 metri, con 70 marinai di equipaggio e potenti motori diesel che consumano notevoli dosi di carburante). I 16 sono stati scelti dopo un primo screening: sesso maschile, persone non vulnerabili, provenienti da uno dei cosiddetti “Paesi sicuri”. Caratteristiche che, nelle intenzioni del governo, li renderebbero candidabili ai controlli accelerati di frontiera legati all’accordo. La Corte Ue e i “Paesi sicuri” - Secondo l’intesa, ogni anno potranno essere inviati nella nazione balcanica fino a 36mila migranti, purché provenienti dalla lista dei Paesi sicuri (il che dovrebbe rendere ardua la possibilità che ottengano un sì alla domanda d’asilo). Al momento, la lista italiana contempla 21 Paesi sicuri (prima erano 15), fra cui Bangladesh ed Egitto, appunto, ma anche Costa d’Avorio e Tunisia. Solo da queste 4 nazioni, l’anno passato sono approdate in Italia 56.588 persone. Ma una recentissima sentenza della Corte di Giustizia Europea potrebbe fare da granello di sabbia per l’ingranaggio del governo: in un caso che riguarda la Repubblica ceca, la Corte ha affermato che un Paese extra europeo non può essere dichiarato “sicuro” a meno che il suo intero territorio non sia ritenuto privo di pericolo. E se la sentenza venisse applicata da tribunali italiani, i migranti di alcuni dei 21 Paesi (afflitti da conflitti interni o tensioni sociali) potrebbero non essere “inviabili” in Albania. Gli strali delle opposizioni - Oggi i nodi dell’intesa potrebbero essere sottoposti alla premier Giorgia Meloni, mentre riferirà in Parlamento sull’imminente Consiglio Europeo. Lo avverte il Pd, che con la segretaria Elly Schlein accusa il governo di “buttare 800 milioni di euro”, invece di investirli sulla Sanità, “per un accordo di deportazione di migranti, in violazione dei diritti fondamentali e in spregio a una sentenza della Corte di giustizia europea che ne fa scricchiolare l’impianto”. Domenica Meloni ha ribattuto alle critiche della Ong Sea Watch sugli “sprechi milionari”, confermando l’intenzione di proseguire e ironizzando sullo “scandalo” di un “governo che lavora per difendere i confini italiani e fermare la tratta di esseri umani”. Migranti. Mattarella: “Accoglienza e solidarietà sono alla base della Costituzione” di Andrea Carugati Il Manifesto, 15 ottobre 2024 Il Capo dello Stato: “La nostra è una storia di emigrazione e immigrazione, per l’oggi valga l’esempio di quanto fatto a Milano negli anni Sessanta con chi arrivava dal mezzogiorno: alfabetizzazione e integrazione”. “L’impegno per la coesione sociale, l’accoglienza, il progresso, l’integrazione, il divenire della cittadinanza, è attività permanente”. Sergio Mattarella, ospite ieri a Milano dell’associazione Franco Verga (già COI, Centro orientamento immigrati), ringrazia i volontari, “attori di un lavoro prezioso che tende a inverare gli obiettivi di solidarietà che la Carta costituzionale ha posto alle basi della nostra convivenza, un lavoro per la Repubblica”. Il Capo dello Stato ricorda come “la storia italiana è fatta di emigrazione e di immigrazione”. E lo fa in un momento non casuale, e cioè nel giorno in cui parte la prima nave della Marina militare da Lampedusa verso i nuovi centro per migranti in Albania voluti dal governo Meloni. Mattarella sottolinea come Milano sia stata approdo per oltre trecentomila citaliani del sud tra il 1951 e il 1961. “Non senza tensioni, in quella che fu una contrapposizione - che oggi appare incomprensibile - tra nuovi arrivati e antichi residenti e, invece, anche un dialogo fecondo nelle periferie urbane tra vecchi e nuovi milanesi”. “Milan la ga el cor an man”, dice il presidente, citando un antico detto, per dire della “capacità di integrazione progressiva su cui ha basato anche il proprio sviluppo: la laboriosità dell’immigrazione veneta, l’esodo giuliano-dalmata, l’ondata migratoria dal meridione. Tutti hanno contribuito alla crescita e al progresso della città”. Quell’idea di “rendere più coesa la nostra società sostenendo la creazione di valore condiviso, intervenendo sulle disuguaglianze”, è ancora valida, dice il presidente. E l’intuizione di Verga, lavorare “per l’integrazione” più che creare un’altra iniziativa caritatevole, è quanto mai attuale. Mattarella cita don Massimo Mapelli, responsabile della Caritas Milano sud, presente in sala all’Ambrosianeum: ““Insegnare la lingua e la cultura italiana, accompagnare i giovani e gli adulti che arrivano sul nostro territorio a divenire cittadini significa costruire insieme la città”. Esattamente come succedeva con i “corsi di alfabetizzazione organizzati dal 1964 dal COI” per gli italiani in arrivo dal sud. E oltre ai corsi c’era “il sostegno nelle ricerca della casa e di un lavoro”. Lo stesso sforzo che oggi viene fatto da varie associazioni per gli immigrati dall’Ucraina, dai Balcani, da altri continenti “gravati da condizioni insostenibili”. “Bisogna riconoscere la cittadinanza a chi è nato e cresciuto in Italia, non c’è più tempo da aspettare”, l’appello di don Mapelli a Mattarella, che solo pochi mesi fa lo ha nominato Cavaliere. Migranti. Come siamo arrivati al nostro campo di concentramento di Valeria Parrella Il Manifesto, 15 ottobre 2024 Qualche giorno fa ero stipata in un autobus di linea e al semaforo di un grande incrocio c’erano dei ragazzi che vendevano fazzoletti, o ti proponevano di lavare dei vetri. E il conducente ha detto “ah qui si è aperto un centro commerciale”. Allora io lo so che non si parla al conducente ma gli ho riposto. Come rispondo da una quindicina d’anni quando voglio chiudere rapidamente la questione, cioè da quando lo sentii dire a una vecchietta. Cito sempre quella vecchietta e lei disse: “Chissà che croci devono avere nei paesi loro, per venire qui da noi a dormire in terra”. In genere questa frase zittisce rapidamente i razzisti, i fascisti, gli arroganti, i vili, perché è semplice da capire. Stavolta qualcosa però non ha funzionato e il conducente ha detto non sono d’accordo e ha cominciato a parlare un buon italiano, mi ha detto che la questione va regolamentata. Per non farsi dare del razzista mi ha detto che sua madre, quando lui era piccino, aveva ospitato per sette anni un bambino dell’Africa subsahariana, a casa loro, come un fratello. Per non farsi dare dell’ignorante mi ha detto che sua sorella fino a maggio di quest’anno ha lavorato in un famoso hotspot italiano. Per non farsi dare del fascista ha detto io certo non sono mai stato di destra ma la questione va regolamentata. Allora, per continuare l’amarcord, anche io gli ho raccontato che avevo una prozia che votava Msi ma che calava due porzioni di pasta in più, tutti i giorni, per dei ragazzi esattamente come quelli che avevamo incontrato al semaforo, perché era cattolica. E poi una notte aveva scoperto che un senza fissa dimora dormiva nella sua auto e gli aveva fatto trovare un cuscino e una coperta. Insomma io ho conosciuto quell’italiano di cui Giorgia Meloni rivendica il mandato. Guida un autobus di linea, parla bene italiano e sua madre era una donna piena di umanità. Nonostante quella donna gli avesse insegnato che se c’è un bambino che ha bisogno di una casa e si possiede una casa, si ospita quel bambino, perché non c’è differenza ab origine tra le persone, lui quell’analogia ora non la vedeva più. Si era perduta, opacizzata, e diceva cose odiose contro altri esseri umani. Cioè, ho avuto la sensazione - ma io non sono un’analista politica, è stata solo un’idea da autobus di linea - che questi italiani che hanno dato mandato a Giorgia Meloni per costruire il nostro primo campo di concentramento extraterritoriale se li sono nutriti proprio loro, o sono cresciuti assieme, ci hanno messo una ventina d’anni - cosa è successo in questi ultimi vent’anni? - e hanno creato gli italiani che avranno piacere a vedere come è turrito il campo di Gjader. Ora noi stiamo qui sgomenti a guardare queste due teorie di muri grigi invalicabili, con le torri d’avvistamento e le luci issate su alti pali, addossate le mura a una parete montuosa brulla, arida, dove non può crescere nulla, e dentro una miriade di container, ciascuno con quattro lettini a castello, dove resteranno in attesa di giudizio, come anime in purgatorio, quelle persone che chiedono a noi la carità al semaforo, e possiamo dire tutto quello che vogliamo sull’orrore che li attende, sulla disperazione, sull’arzigogolo burocratico perverso che li condurrà lì. Ma il punto, credo, è che quel campo di concentramento ha il sorriso di Giorgia Meloni mentre stringe le mani di Edi Rama, e gli occhi di un conducente di autobus di linea in un giorno qualunque. Migranti. Prima nave verso l’Albania. Schlein: “Meloni sperpera un miliardo” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 15 ottobre 2024 Il pattugliatore Libra della Marina attraccherà domani al porto di Shengjin Mattarella: “Trasmettere lingua e cultura agevola e costruisce la cittadinanza”. Arriverà domani al porto di Schengjin, in Albania, la nave Libra della Marina militare partita nella primissima mattina di ieri per portare il primo gruppo di migranti nei centri dove saranno sottoposti alle procedure accelerate di frontiera. Con un ritardo di diversi mesi infatti i due centri fatti costruire dal governo sono ormai pronti per essere utilizzati, con un centro per il trattenimento dei richiedenti asilo da 880 posti, un Cpr da 144 posti e un piccolo penitenziario da 20 posti. Come prevede la legge, sulla Libra ci sono solo migranti maschi, adulti, non vulnerabili e proveniente da paesi considerati sicuri. Lo screening è stato fatto sulla nave, ancora al largo di Lampedusa, dove invece sono stati fatti scendere donne, minori, persone torturate e malati, che verranno immessi nel normale circuito di accoglienza in attesa che la loro richiesta di asilo venga vagliata dalle commissioni territoriali. Tutta l’operazione è coordinata dal ministero dell’Interno, con il ministro Matteo Piantedosi impegnato in prima persona per garantire “continuità” nelle partenze e far sì che i centri possano operare fino nella loro totalità. A Shengjin i migranti saranno sottoposti a un secondo screening e poi trasferiti a Gjader, un ex sito dell’Aeronautica albanese a una ventina di chilometri verso l’interno, dove si trovano i centri di permanenza. “Il governo di Giorgia Meloni alza le tasse e sperpera quasi un miliardo di euro dei contribuenti per i centri migranti in Albania, in spregio ai diritti fondamentali delle persone e alla recente sentenza europea sui rimpatri che fa scricchiolare l’intero impianto dell’accordo con l’Albania - ha detto ieri la segretaria del Pd, Elly Schlein - Potevamo usare quelle risorse per accorciare le liste di attesa o per assumere medici e infermieri”. Il riferimento alla sentenza europea riguarda il recente pronunciamento della Corte di Giustizia di Lussemburgo secondo la quale un Paese, per essere definito sicuro, non deve ricorrere “alla persecuzione, alla tortura o ad altri trattamenti inumani” in ogni sua zona e per qualsiasi persona. Stando a quanto sopra 15 dei 22 Paesi considerati sicuri dalla Farnesina non rispettano il criterio, compresi Tunisia, Egitto e Bangladesh, dai quali arriva la maggior parte dei richiedenti asilo (egiziani e bengalesi sono anche i migranti sulla Libra). Ma il governo non sembra intenzionato ad aspettare i pronunciamenti dei giudici italiani, i quali probabilmente recepiranno la sentenza europea, come fato capire dallo stesso Piantedosi. “Sia chiaro - ha detto il ministro a La Stampa - che non ci faremo scoraggiare da queste decisioni di alcuni tribunali e contiamo di affermare le nostre ragioni con iniziative tutte interne allo stesso sistema giudiziario, impugnandole e portandole al giudizio delle massime giurisdizioni del nostro Paese”. Governo che gode dell’appoggio di tutti i partiti di maggioranza, con Forza Italia e Lega che una volta tanto mettono da parte le diatribe divenute ormai quasi quotidiane, dalla manovra allo Ius scholae. “Grazie al lavoro paziente del Ppe e a Forza Italia siamo riusciti ad aprire un varco sul sostegno da parte dell’Europa nei confronti di chi, come l’Italia, ha extracosti evidenti nella gestione degli immigrati - ha spiegato il portavoce nazionale di Forza Italia, Raffaele Nevi L’alternativa del Pd e dei 5 Stelle invece è di lasciare tutto libero, chi vuole può entrare in Italia tranquillamente e accomodarsi, poi però non c’è il lavoro e non ci sono le case e il problema va gestito: questo invece sarà un grandissimo deterrente”. A proposito di Ius scholae, da segnalare le parole del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ieri in visita a Milano. “Poc’anzi don Massimo Mapelli ricordava che, oggi, “trasmettere e insegnare la lingua e la cultura italiana significa dare ai giovani e agli adulti che arrivano nel nostro Paese un modo di costruire la cittadinanza” - ha detto il capo dello Stato riprendendo le parole di un sacerdote - ecco, significa davvero, trasmettendo la lingua, integrando ed agevolando, costruire la città, quella di oggi e del futuro”. Un’idea condivisa da chi, come il segretario di Più Europa Riccardo Magi, ha fatto del referendum sulla cittadinanza una battaglia politica e parlamentare. Lo stesso Magi critica fortemente i centri aperti dal governo, spiegando che “con il primo gruppo di migranti in Albania, l’Italia apre ufficialmente le sue prime colonie detentive per stranieri nel territorio di un altro Paese”. Migranti. Frodi al Cpr milanese di via Corelli. E il caso Macomer arriva alla Camera di Giuliano Santoro Il Manifesto, 15 ottobre 2024 Il vuoto di diritto anche nelle strutture italiane. L’inchiesta della procura parla di condizioni “disumane” e “infernali”. Non bisogna andare oltre le nuove sbarre d’Albania, per scoprire che i centri per migranti sono buchi neri dello stato di diritto. Le indagini e le testimonianze si susseguono da anni, fin dai tempi in cui queste strutture si chiamavano Cpt (Centri di permanenza temporanea). Uno dei primi ad aprire, ormai quasi venticinque anni fa e in mezzo a contestazioni anche clamorose e di massa fu quello milanese di via Corelli. Nel quale adesso, secondo le indagini dei pm Paolo Storari e Giovanna Cavalleri e del Nucleo di polizia economica finanziaria della Gdf, i migranti sarebbero stati rinchiusi in condizioni “disumane” e “infernali”. Due migranti sono stati ammessi come parti civili e altri hanno annunciato che si costituiranno nell’udienza davanti al gup a carico di Alessandro Forlenza e Consiglia Caruso, amministratori di fatto e di diritto della Martinina Srl e accusati di frode in pubbliche forniture e turbativa d’asta. Come parti civili sono state ammesse anche le associazioni Naga e BeFree, che da tempo si occupano dei Cpr e denunciano le condizioni in cui sono trattenuti i migranti. Forlenza, difesa dall’avvocato ed ex pm Antonio Ingroia, ha chiesto di patteggiare un anno e 8 mesi mentre la Martinina ha chiesto un patteggiamento a 15 mila euro di sanzione pecuniaria con interdizione dal contrattare con la pubblica amministrazione per 20 mesi. Il 13 dicembre scorso i pm avevano ottenuto il sequestro del ramo di azienda della Martinina che gestiva il Cpr. Le indagini avevano fatto emergere una situazione per la quale si è reso necessario nominare un amministratore giudiziario. Le carte dell’accusa parlano di “cibo pieno di vermi”, assenza di mediatori culturali e linguistici, l’uso costante di psicofarmaci, letti e bagni fatiscenti. Forlenza risponde di altre imputazioni: da “amministratore di fatto di Engel Italia srl e Martinina” avrebbe presentato “documentazione contraffatta” partecipando ad altre gare d’appalto sulla gestione di centri di accoglienza per stranieri richiedenti asilo, tra Milano, Salerno, Brindisi e Taranto. L’udienza preliminare è stata aggiornata al 18 dicembre, anche perché si attende il passaggio di consegne tra l’amministratore giudiziario (una relazione sarà depositata nelle prossime settimane) e la nuova società che ha vinto il bando per la gestione del centro. Naga ha avuto un ruolo anche nella denuncia delle condizioni del Cpr di Macomer, in Sardegna. Proprio oggi, alla sala stampa della Camera dei deputati, la deputata di Alleanza Verdi Sinistra Francesca Ghirra presenterà il report: “A porte chiuse. La violenza del Cpr di Macomer tra punizioni e razzializzazione”, curato dall’associazione milanese e dalla rete “Mai più Lager - No ai Cpr” sulla base delle denunce arrivate al centralino Sos dell’Associazione. Ghirra ha svolto una prima ispezione nel Centro già lo scorso 23 marzo: “È del tutto inadeguata - racconta - Ci sono inadempienze da parte della cooperativa che gestisce i servizi. I migranti sono sbattuti lì dentro senza fare nulla: è peggio di un carcere”. La struttura era in effetti nata come carcere di massima sicurezza. Adesso ha una cinquantina di posti occupati da persone che non hanno commesso alcun reato e si ritrovano recluse con le storie più svariate (si va dal lavoratore migrante perfettamente inserito in attesa di rinnovo di permesso di soggiorno alle situazioni borderline di marginalità estrema) un cortile lastricato di cemento. “I migranti detenuti - spiega ancora Ghirra - non sono informati dai loro diritti. La situazione è deficitaria dal punto di vista sanitario, ci sono persone che vi sono entrare con patologie già diagnosticate e non sono state curate. Chi non è matto rischia di diventarlo. Noi chiediamo che questi posti debbano essere chiusi”. Migranti. Pugno duro con lo “straniero”, in Francia passa la linea LePen di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 15 ottobre 2024 L’annuncio della nuova legge sull’immigrazione L’estrema destra incassa la linea ultra-restrittiva del ministro Retailleau. Il governo Barnier potrebbe avere in cambio il via libera sulla Finanziaria. La Francia avrà una nuova legge sull’immigrazione all’inizio del 2025, la 33esima dal 1980, ancora più restrittiva di quella votata meno di un anno fa, il 26 gennaio 2024 (i cui decreti di attuazione non sono del resto ancora stati tutti pubblicati). Lo ha confermato la portavoce del governo, dopo che da giorni l’uomo forte dell’esecutivo, l’ultra cattolico ministro degli Interni Bruno Retailleau, sta moltiplicando interviste e interventi per vantare l’avvento della “mano forte”. Il socialista Boris Vallaud si chiede “che differenza farebbe se ci fosse un ministro del Rassemblement national?”. E Jordan Bardella, alla testa del partito di estrema destra, esprime soddisfazione: “È la prova che senza di noi non possono fare niente”. Retailleau, che è stato nel Movimento per la Francia del vandeano Philippe de Villiers, poi fedele di François Fillon, era il capogruppo Lr al Senato prima di entrare nel governo Barnier. A Bruxelles ha già alzato la voce, assieme ai ministri di una quindicina di paesi, per rivedere in fretta la direttiva “Ritorni”, per permettere espulsioni-lampo, senza imbarazzi di diritto umanitario e protezioni internazionali (sottoscritte dalla Ue). Di immigrazione parleranno i capi di stato e di governo del Consiglio europeo di questo fine settimana, mentre l’Italia ha aperto i centri in Albania, la Germania ha aumentato i controlli alle frontiere seguendo la Danimarca, la Svezia ha incrementato l’aiuto al rimpatrio e la Polonia di Donald Tusk ha sospeso temporaneamente l’asilo per chi entra passando dalla Bielorussia. La nuova legge dovrebbe reintrodurre le norme che il Consiglio Costituzionale aveva bocciato un anno fa, a cominciare dall’allungamento dei tempi massimi di detenzione nei centri amministrativi per le persone considerate “illegali”, dai 90 giorni attuali a 210 (è la reazione a un tragico fatto di cronaca recente, l’assassinio e lo stupro di una studentessa al Bois de Boulogne, perpetrato da un migrante che aveva avuto il foglio di via dopo aver scontato il carcere). Ma ci potrebbe essere di più: fine dell’automatismo dello jus soli (un caposaldo in Francia, paese di immigrazione), restrizione dei ricongiungimenti famigliari che da metà anni ‘70 sono la prima ragione dell’immigrazione, abolizione della legge Valls che permetteva 30mila regolarizzazioni l’anno per lavoro, ritorno del reato di soggiorno irregolare e persino la “preferenza nazionale” per l’accesso alle prestazioni sociali. Se il governo Barnier sopravvivrà alla Finanziaria, questa nuova legge sull’immigrazione potrebbe essere la causa della sua esplosione. Ma, prima, potrebbe implodere l’area Macron, che in parte aveva già mal digerito la legge del 2024, ma aveva ingoiato la svolta reazionaria e la “vittoria ideologica” vantata da Marine Le Pen senza difendere neppure le regolarizzazioni per motivi di lavoro. L’ex primo ministro oggi capogruppo Ensemble, Gabriel Attal, ha affermato, come la ministra della Transizione ecologica Agnès Pannier-Runacher, che “una legge sull’immigrazione non sembra essere una priorità”. Il presidente Macron, il 5 ottobre, ha affermato: “Avremmo potuto decidere che avremmo fatto una migliore fisica nucleare senza la polacca Marie Curie o che avremmo potuto ballare meglio senza Charles Aznavour”, ma sono parole che nessuno ormai ascolta più. Dietro l’annuncio della nuova legge c’è forse una manovra opportunista del governo Barnier: per evitare una “censura” sulla finanziaria da parte del Rassemblement National, che può dire ai suoi: “Non facciamo cadere il governo, perché dopo arriva la nostra vittoria sull’immigrazione”. Ma, passo dopo passo, esplode in piena luce il risentimento verso lo “straniero”. Retailleau ha affermato qualche giorno fa che “l’immigrazione non è una chance”, che “lo stato di diritto non è intoccabile né sacro” e che la seconda e terza generazione di “immigrati” stanno tornando a chiudersi nelle identità “etniche” che nulla hanno a che vedere con la Francia.