Salute mentale, sovraffollamento e dipendenze: detenuti e personale allo stremo di Luigi Alfonso vita.it, 13 ottobre 2024 Un convegno promosso dal Tribunale di sorveglianza di Sassari e da Conosci Odv ha messo il dito nella piaga di un sistema penitenziario al collasso in tutto il Paese. Nella Casa circondariale di Bancali 400 detenuti su 500 fanno uso di psicofarmaci. La Sardegna potrebbe essere un laboratorio di sperimentazione per un nuovo modello operativo. Il sistema penitenziario italiano fa acqua da tutte le parti. La stragrande maggioranza degli istituti di pena risale al secolo scorso, buona parte delle strutture ha problemi di sovraffollamento, la promiscuità tra italiani e stranieri (questi ultimi costituiscono il 35% della popolazione carceraria: una cifra elevata) sta creando seri problemi di convivenza e di comunicazione, buona parte dei detenuti ha problemi di salute mentale, dipendenze o malattie infettive che suggeriscono il ricovero altrove. La Sardegna non è da meno, e il recente suicidio registrato alla Casa circondariale di Bancali, a Sassari (dove 400 detenuti su 500 fanno uso di psicofarmaci), è stata la molla che ha spinto il Tribunale di sorveglianza e Conosci Odv a organizzare il convegno “Tutela della salute negli istituti penitenziari del Nord Sardegna: peculiarità e criticità”, che si è svolto nella giornata di ieri all’Aula udienze penali della Corte d’Appello di Sassari. Moltissimi i dati emersi, non solo le critiche e le polemiche di chi in carcere ci lavora ed è costretto a fare i conti quotidianamente con le bizzarrie di leggi obsolete o comunque con la scarsità di risorse e personale di polizia penitenziaria e sanitario. A proposito di suicidi, premesso che nelle scorse ore il conto a livello nazionale è salito a 75 (un record) e che il Nord-ovest ha percentuali quasi doppie rispetto al Sud, la Sardegna rispetta la media nazionale del 7% ma soltanto perché quella relativa alle donne è inferiore: i suicidi tra gli uomini sono infatti aumentati rispetto agli anni scorsi. Il focus, che riguardava in particolare le realtà del Centro-nord Sardegna (Sassari, Alghero, Tempio Pausania, Nuoro e Mamone), in realtà ha mostrato un quadro analogo nel resto dell’Isola. La criticità è talmente alta che, per una volta, tutti gli attori sono d’accordo. Non è da meno il presidente del Tribunale di sorveglianza di Sassari, Giommaria Cuccuru: “Il diritto alla salute per i detenuti è stato più volte posto dal legislatore nazionale”, ha ricordato in apertura dei lavori. “Già la legge n. 230/1999 stabiliva che i detenuti dovessero avere in materia di salute gli stessi diritti dei cittadini in stato di libertà, e questo principio è ribadito nei successivi provvedimenti con cui si è disposto che l’assistenza sanitaria passasse dal Ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale. La norma cardine è costituita dall’art. 11 dell’ordinamento penitenziario, riformulato nel 2018, che prevede che il Ssn deve operare all’interno degli istituti di pena, e ha poi statuito con norma imperativa che il Ssn “garantisce ad ogni istituto un servizio sanitario rispondente alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati. Questa previsione, a mio avviso, può anche essere interpretata nel senso che il Ssn deve approntare per i detenuti strutture idonee a soddisfare il loro specifico bisogno di salute; dunque, occorre che queste strutture siano funzionali e parametrate alle esigenze di quella particolare tipologia di utenti. Nella stragrande maggioranza dei casi, i detenuti provengono da strati sociali marginali, si portano dietro malattie trascurate nel tempo, non dispongono di risorse materiali per ricorrere all’assistenza privata, e spesso neppure di un valido supporto familiare. Conseguentemente, necessitano di maggiori cure e attenzioni da parte del Ssn rispetto ai pazienti in stato di libertà, a parità di stato morboso. Senza considerare, poi, che vivere una condizione di malattia in ambiente carcerario, con le connesse ristrettezze di spazi, in assenza di riservatezza e con convivenza obbligata con persone talvolta non gradite, aumenta il disagio, la solitudine e lo sconforto derivante dalla malattia. Questa peculiare condizione dei detenuti apre la strada al superamento del “neutrale” principio della parità di trattamento, dal punto di vista sanitario, tra persone detenute e in stato di libertà. Occorre fare di più per sopperire a tali esigenze, senza che questo possa costituire una irragionevole sperequazione a loro favore. Dunque, dal punto di vista giuridico vi è spazio per ritenere che la tutela della salute dei detenuti possa essere caratterizzata da misure specifiche e sostanzialmente di vantaggio rispetto a quelle in essere per i cittadini in stato di libertà”. Al convegno è intervenuto anche Armando Bartolazzi, assessore regionale della Sanità, il quale ha lanciato una proposta: “Per dare la dovuta assistenza ai malati in carcere, non bastano le leggi: occorre un approccio sinergico fra il livello della decisione politica, il settore medico e la magistratura per governare le complessità. L’obiettivo comune deve essere la tutela della salute. Occorre andare verso un sistema che clusterizzi l’utenza per tipologia di cura: malattie infettive, tossicodipendenze, disagio mentale e patologie comportamentali. In questo modo è possibile organizzare la risposta sanitaria con una presa in carico che veda come obiettivo non solo il fine pena ma il trattamento del paziente detenuto a 360 gradi, garantendo la cura e il reinserimento sociale dell’individuo. Per fare questo, bisogna rafforzare il legame fra i livelli di gestione territoriale della sanità e le realtà penitenziarie dell’Isola. Penso anche alle prestazioni aggiuntive specialistiche da erogare, là dove possibile, all’interno del carcere. Le sezioni carcerarie in ospedale ci sono, ma gli spazi vengono spesso vengono occupati da altre discipline. Occorre una maggior consapevolezza e un’assunzione di responsabilità verso i pazienti detenuti, spesso in condizioni di fragilità estrema”. Soprattutto i medici presenti nella sala hanno fatto notare all’assessore Bartolazzi che, pur comprendendo l’esigenza di dover razionalizzare risorse e personale, molti detenuti presentano più di una problematica (es.: problemi di dipendenze e disagi psichici), dunque è difficile passare dalla teoria all’attuazione della sua proposta. Tra l’altro, la carenza di agenti di polizia penitenziaria sta creando problemi nella gestione dei svariati casi che si registrano ogni giorno nelle carceri, anche perché gli spazi ristretti in cui sono costretti a convivere, spingono molti detenuti a compiere azioni autolesionistiche o forme di protesta anche estreme (dallo sciopero della fame al suicidio), e non necessariamente perché abbiano problemi di salute mentale. Marco Porcu, direttore della Casa circondariale di Uta (che sino allo scorso 10 giugno ha diretto anche la struttura di Bancali), ha posto l’accento su un’altra grave criticità: è carente la formazione specifica del personale penitenziario, chiamato ad affrontare situazioni di grande complessità ma spesso non messo nelle condizioni di operare. “La detenzione è in crescita, in Italia e in tutto il mondo, anche a causa delle norme più restrittive introdotte negli ultimi anni”, ha ricordato Sandro Libianchi, promotore dell’iniziativa, medico e presidente di Conosci Odv, il Coordinamento nazionale degli operatori per la salute nelle carceri italiane. “Da uno a due terzi delle persone detenute sono direttamente o indirettamente legate all’uso di sostanze stupefacenti. La maggior parte dei detenuti è di sesso maschile (94%) ma negli ultimi vent’anni il numero delle donne in carcere è cresciuto in maniera più evidente (+35%) rispetto agli uomini (+16%). I detenuti fanno parte della nostra comunità: proteggerli, in chiave di reinserimento sociale, significa anche proteggere noi stessi. Ecco perché è fondamentale aiutarli a recuperare e a non cadere nella recidiva. In Italia oggi contiamo 62mila detenuti (2.224 in Sardegna, dove si registra un indice di sovraffollamento del 97,70%: siamo arrivati, cioè, quasi ai limiti della capienza), ma i posti disponibili sono 45mila: ecco perché le risorse messe a disposizione dallo Stato sono insufficienti. Il finanziamento in materia sanitaria in Italia è pari a circa 227 milioni di euro, alla Sardegna spettano poco meno di sette milioni di euro, in buona parte per la medicina penitenziaria. La legge n. 354/1975 prevede che per ogni istituto di pena vi sia almeno uno specialista in psichiatria. Ebbene, nessuna regione rispetta questa disposizione. Il carcere è un contesto particolare, nel quale le leggi in materia sanitaria vengono raramente applicate. È evidente che la detenzione, di per sé, determina condizioni di vita completamente diverse da quelle delle persone in libertà. Ma non è possibile continuare ad assistere a una prassi molto frequente, cioè la conversione di problemi non sanitari in problemi sanitari, per esempio quando un detenuto “dà di matto” e il personale penitenziario chiede l’intervento terapeutico di un medico per placarlo. Noi, però, sappiamo bene che quelle reazioni sono legate anche alle condizioni di vita in queste strutture di pena”. L’articolo 545 bis del Codice di procedura penale, dal 2022, parla per la prima volta di “disturbo da uso di sostanze o di alcol, ovvero di gioco d’azzardo”. Ecco perché la medicina in carcere rappresenta un modello di “medicina della complessità”, per il peculiare contesto e per la numerosità delle istanze presenti. “La persona con limitazione della libertà personale è portatrice di una necessità di presa in carico globale, come individuo e non come una singola malattia o somma di varie patologie”, ha precisato Libianchi. “Le persone con reati minori droga-correlati necessitano di trattamenti e non di carcerazione, per ridurre il rischio di ricaduta e re-incarcerazione. È necessario, dunque, un riorientamento delle politiche carcerarie. Le strutture ipotizzate dal recente disegno di legge del 2023 potrebbero essere una prima ed efficace risposta ai bisogni”. “Tutta la comunità penitenziaria della Sardegna avvertiva la necessità di un confronto pubblico come questo”, ha commentato Irene Testa, garante regionale dei detenuti. “La carenza d’organico e le situazioni che ledono i diritti umani sono sotto gli occhi di tutti. Parliamo di persone in buona prevalenza malate, che chiedono assistenza ma la vedono negata. La sanità in carcere è quasi del tutto assente. Uno psichiatra per 700 detenuti è insufficiente: quanto tempo può dedicare al singolo disagio? Non accade soltanto nelle Case circondariali di Bancali e Uta, che sono le più affollate, ma anche nelle realtà più piccole. In alcune strutture arriviamo a un sovraffollamento del 130%, eppure le colonie penali sono semivuote e pure decadenti. La situazione sanitaria è critica sia all’interno che all’esterno delle carceri; tuttavia, in un istituto di pena si verificano situazioni complesse e spesso molto gravi: con una certa frequenza, molti detenuti ingeriscono batterie; altri si producono ferite, a causa di disagi psichici. Il personale penitenziario è insufficiente, non può far fronte a tutto. Ecco perché questa è diventata una emergenza nell’emergenza”. Qualcuno le ha definite corsie preferenziali, riferendosi alle liste d’attesa che si formano nell’imbuto del Cup, il Centro unico di prenotazione. Un problema che riguarda tutti i cittadini sardi, ma che nel caso dei detenuti è particolarmente grave. “Ci sono casi, come il 41bis, che richiedono una vigilanza molto marcata”, ha spiegato il presidente Cuccuru. “Si arriva anche a dieci agenti di polizia, dunque un ingente impiego di personale e spese elevate. Ma se per far fare loro una visita specialistica urgente bisogna recarsi da Sassari a Cagliari o a Nuoro, perché il Cup ha assegnato quelle località indicandole tra le più disponibile in quel momento, i problemi si moltiplicano. Nessuno chiede trattamenti di favore, però bisogna trovare soluzioni a questi problemi”. Nel suo intervento conclusivo, Sandro Libianchi ha ipotizzato la Sardegna quale possibile laboratorio di sperimentazione verso un modello operativo che conglobi e integri tutte le funzioni nell’ottica di una presa in carico globale della persona detenuta, che sia così facilitata a rientrare nel suo territorio di appartenenza e a riconnettersi con i suoi familiari. “La Sardegna, in virtù del suo stato di Regione autonoma, della grande disponibilità delle autorità penitenziarie locali e anche della ricca varietà di tipologie penitenziarie (Case circondariali, Case di reclusione, colonie agricole con produzioni, ecc.), offre un terreno fecondo per la costruzione di un modello esportabile”. Cassano: “Serve recuperare la fiducia della giustizia, per capire che non è uno spettacolo” di Claudio Cerasa Il Foglio, 13 ottobre 2024 “È in atto una grande trasformazione, a seguito delle riforme del 2022” dice la prima presidente della Corte di Cassazione, “ma la stampa preferisce evidenziare i lati critici della realtà”. “Ci sono spunti di ottimismo sul funzionamento giustizia italiana, è in atto una grande trasformazione a seguito delle riforme del 2022”, dice la prima presidente della Corte suprema di Cassazione Margherita Cassano intervistata da Ermes Antonucci alla Festa del Foglio. “La stampa preferisce evidenziare i lati critici della realtà, e ciò contribuisce ad allentare i rapporti tra collettività e istituzioni. Mentre invece abbiamo bisogno di cementificare un rapporto sociale”. Le novità introdotte nel 2022 in campo civile e penale “hanno determinato grande trasformazione culturale: nel settore civile è avvertita la consapevolezza che possa esserci giustizia anche mediante ricorso a forme di mediazione”. Una modalità di risoluzione alternativa, sottolinea Cassano, che “permette alle persone di ricominciare a parlare fra loro. Abbiamo bisogno di pacificare questa società. e la mediazione serve a definire il contenzioso trovando un punto di incontro fra le varie pretese, ed è un vantaggio per l’intera collettività”. Un po’ di numeri: “Ogni anno iscriviamo in Cassazione 50mila nuovi ricorsi penali, li definiamo entro 4 mesi dalla loro registrazione. è un risultato che non ha eguali nel panorama europeo. I segnali ci sono, basta saperli leggere”. Sul campo penale, invece, “dal 2022 a oggi molti processi per casi più lievi si stanno chiudendo con sanzioni nuove e diverse, come i lavori di pubblica utilità e messa alla prova”. Anche se, prosegue la giudice, ma a ciò va accompagnato un processo di educazione della opinione pubblica: “Si crede che la panacea di tutti i mali sia l’applicazione a tutti i costi della pena detentiva, quando è da decenni che legislatore ha scelto una strada completamente diversa, in cui l’espiazione della pena in carcere è solo per forme più gravi della criminalità”. Per Cassano occorre dunque “recuperare l’idea che quella giudiziaria non sia la sola risposta ai fenomeni sociali, amministrativi e politici, ma solo l’ultimo approdo qualora non funzionino i normali meccanismi di prevenzione e di controllo”. Nelle ultime settimane diversi casi di accessi abusivi a banche dati uffici giudiziari, oltre all’arresto di un hacker che aveva fatto accesso al sistema informatico del ministero della giustizia, hanno offerto uno spaccato non positivo dal punto di vista della sicurezza informatica: “La Corte di Cassazione ha retto a tutti questi accessi, non abbiamo avuto problemi di questo tipo”, rassicura la giudice, ma “nelle varie articolazioni dello stato c’è un problema di conoscenza, di aggiornamento e di stanziamento economico su questi temi”. Riguardo la stabilità del quadro normativo, continuamente sottoposta a nuove ipotesi di reato e circostanze aggravanti, “sta diventando uno stanco appello da parte dei pm l’invito rivolto al legislatore a non intervenire continuamente su una stessa materia con plurimi interventi senza coordinare fra loro le leggi, dunque senza dire se legge introdotta dopo vada ad abrogare la prima, senza porsi problemi tecnici delle ricadute su processo in corso di svolgimento” spiega Cassano. “Ci diano tempo per delineare un quadro di riferimento stabile e chiaro: altrimenti all’instabilità del quadro normativo farà seguito l’instabilità della risposta giudiziaria”. Sul tema del processo mediatico, Cassano evidenzia una sovraesposizione di attenzione dell’opinione pubblica al procedimento nella fase delle indagini, in cui però “il pm elabora una ipotesi di accusa, che non è la verità processuale, la quale si ricostruisce nel processo nel contraddittorio fra le parti, fra tesi del pm e della difesa”. Tale fraintendimento si lega al fatto che prima della riforma Cartabia “la durata delle indagini preliminari era patologica, e contestualmente aumentava attenzione dell’opinione pubblica su quello che è solo un momento preparatorio del processo” portando poi al disinteresse più totale “quando arriva verifica reale davanti al giudice”. Urge un bilanciamento fra professionalità della magistratura e il diritto di informare: “Serve recuperare la fiducia della giustizia, per capire che non è uno spettacolo”. Perché boicottano le intercettazioni di Gian Carlo Caselli La Stampa, 13 ottobre 2024 Dovrebbe essere fuori discussione (ma a qualcuno va ancora spiegato) che le intercettazioni sono uno strumento utilissimo, spesso decisivo, sul piano investigativo-giudiziario. Non di meno, un disegno di legge approvato dal Senato che ora passerà alla Camera si propone di ridurne drasticamente gli ambiti di operatività. Vietando che le intercettazioni possano durare più di 45 giorni, quasi che i delitti avessero delle scadenze come le cambiali. E ciò per tutti i reati non di criminalità organizzata e tuttavia gravi (ad esempio omicidio, rapina, stupro, corruzione, peculato, bancarotta, frodi fiscali etc.) tali da comportare accertamenti complessi perciò lunghi, ben oltre il termine di 45 giorni. Come si vede, si parla tanto di tutela dei diritti e di sicurezza, per poi varare leggi che vanno in direzione opposta! Va poi considerato (come scrisse anni fa Nando dalla Chiesa) che da sempre gli “arcana imperii “segnano le barriere con cui il potere cerca di proteggere le sue deviazioni. Le intercettazioni violano queste barriere e mettono a nudo il potere, che mal tollera di essere controllato: per cui si spiega l’ostilità di chi può e conta verso questa forma di incisivo controllo che sono appunto le intercettazioni. Per qualcuno la discussione sul nuovo ddl ha assunto le cadenze del torneo ideologico a circuito chiuso. Talora del rissoso attacco personale, anziché del confronto di idee. Il senatore Pierantonio Zanettin, “padre” della riforma, ha attaccato Nino Di Matteo e Francesco Pinto (magistrati, non senatori presenti in aula, quindi senza possibilità di replicare) per le dichiarazioni rese in due interviste al Fatto. A Di Matteo - della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo- Zanettin contesta di aver sostenuto che la nuova disciplina può limitare le indagini anche per i reati di mafia, nella misura in cui non si possono disporre intercettazioni per i cosiddetti reati “spia”. Secondo Zanettin questa sarebbe sociologia. È invece facile obiettare che la mafia non è più soltanto “Coppola e lupara”, ma agisce su livelli più sofisticati rispetto al passato. Le piste da seguire sono sempre più legate al denaro, ai suoi possibili percorsi e impieghi, ai collegamenti internazionali, alle nuove tecnologie nel settore finanziario e via seguitando. Rilevare questa realtà non significa fare della sociologia, ma fotografare la nuova mafia. Che risulta strettamente intrecciata con corruzione, appalti truccati, reati economico-finanziari: reati “spia”, appunto, che sarebbe opportuno poter indagare anche con le intercettazioni senza la mannaia dei 45 giorni per non disperdere elementi importanti in ordine ai reati propriamente di mafia. A Pinto (Procuratore di Genova) Zanettin rimprovera la sproporzione che secondo lui si registra fra il gran numero di intercettazioni effettuate e il modesto risultato conseguito in termini di pena patteggiata. Quasi che l’obiettivo di Pinto fosse - sostiene Zanettin - non una condanna penale ma piuttosto il ricambio ai vertici della Regione, nel qual caso vi sarebbe stato un abuso di diritto. E siamo alle solite. Ancora una volta il magistrato cui tocca - semplicemente perché fa il suo dovere - di occuparsi di un politico accusato di questo o quel reato, viene accusato lui di fare politica: l’acqua che va verso l’alto, un paradosso comodo per chi voglia difendersi gettando la palla in tribuna. Infine va ricordato l’intervento del senatore Roberto Scarpinato (una lunga carriera in posti di grande responsabilità sul versante dell’antimafia). Egli ha sostenuto - tra l’altro - che la riforma delle intercettazioni è un atto politico, non tecnico, con gravi ricadute sulla nostra convivenza civile; un disegno volto a smantellare selettivamente i presidi dello Stato contro quel variegato mondo di colletti bianchi sempre più spesso legato da segreti matrimoni di interesse con le mafie, ormai portate a delinquere negli stessi modi dei colletti bianchi, godendo così dei loro medesimi privilegi di impunità. Ed è facile vedere che la riflessione di Scarpinato riecheggia le parole di Nando dalla Chiesa sugli “arcana imperii”: prova che un vizio irredimibile della politica italiana è quello di nutrirsi di verità virtuali. Costruite a beneficio della propria cordata di interessi Solo una coraggiosa riforma può eliminare i giudici politicizzati di Francesco Carella Libero, 13 ottobre 2024 Si fa sempre più critica nel nostro Paese l’annosa questione relativa ai rapporti fra la sfera della politica e la sfera della giurisdizione. Riportare sui binari della correttezza costituzionale l’argomento è a dir poco impossibile. Infatti, il ministro della Giustizia Carlo Nordio dichiara, in punta di diritto, che, a suo avviso, Matteo Salvini e Daniela Santanchè devono “restare al loro posto”, perché “altrimenti devolveremo alla magistratura il potere di eliminare una carica legittimata dal voto popolare”, ma riceve, in tutta risposta, inutili polemiche in luogo di argomentazioni razionali. Si tratta solo dell’ultimo episodio di una lunga catena di anomalie a causa delle quali in Italia si sta mettendo seriamente in pericolo l’equilibrio costituzionale che disciplina i rapporti fra i poteri dello Stato in una liberaldemocrazia. In altri termini, la politica intesa come spazio autonomo dove legislatori e amministratori, in qualità di legittimi rappresentanti del cittadino elettore, assumono decisioni a valenza collettiva viene “giudiziarizzata”, subendo una drastica riduzione del proprio perimetro di responsabilità. Non vi è Paese democratico, come dimostrano studi comparati, che non sia stato investito da cambiamenti di tal guisa i cui governi non abbiano reagito attraverso adeguate contromisure, a partire dalla separazione delle funzioni requirenti da quelle giudicanti. Nel nostro, viceversa, l’esondazione giudiziaria non ha incontrato né argini né bacini di compensazione. In Italia, almeno a partire dalla stagione di Tangentopoli, tale anomalia ha assunto via via un carattere più marcato fino a trasformare il conflitto politico - che per sua natura necessita di ampi spazi di autonomia - in uno scontro prevalentemente di tipo etico. Del resto, il risultato finale non poteva avere carattere diverso, dopo che- in forza della svolta moralistica compiuta dal Pci nei primi anni ‘80 - l’intera storia dell’Italia repubblicana è stata narrata come una lunga e ininterrotta catena di corruzione, mentre il mondo politico e civile riceveva un taglio netto: da una parte, i titolari della “diversità morale” (dirigenti, militanti e intellettuali progressisti) dall’altra, un esercito di cittadini italiani perennemente impegnati nel malaffare. In un contesto culturale siffatto, non deve destare meraviglia che la magistratura, soprattutto nella sua espressione requirente, sia divenuta, nel frattempo, protagonista di primo piano della vita politica fino a condizionarne tempi e svolgimenti. Lo storico Carlo Guarnieri in “Democrazia giudiziaria”, dopo avere ricordato che le relazioni tra giustizia e politica sono molto complesse sia per i valori in gioco che per i molti punti di contatto tra le due sfere, avverte che “lo si percepisca o meno è il giudice politico che oggi le democrazie si trovano davanti. Pertanto, la ricerca di appropriate soluzioni istituzionali non può essere assolutamente trascurata soprattutto in un Paese come l’Italia dove la giustizia ha assunto un rilievo politico cruciale. Il pericolo è quello di doversi confrontare con un potere irresponsabile, anzi con un potere senza responsabilità democratica. Se si rinuncia alla regolazione istituzionale si corre il rischio di lasciare il campo libero ad altre e più opache forme di influenza”. Di qui l’urgenza di una coraggiosa riforma della giustizia. L’alternativa è un futuro sempre più segnato da forme di democrazia illiberale. “Il reato universale di maternità surrogata? Uso simbolico del diritto penale” di Simone Alliva Il Domani, 13 ottobre 2024 Dopo l’approvazione alla Camera, il disegno di legge approda al Senato il 15 ottobre. Per il professor Gian Luigi Gatta la norma presenta “diversi profili critici”. Intanto perché è difficile immaginare come un italiano possa essere punito per un fatto che avviene in un paese che lo ritiene lecito. Ma la preoccupazione maggiore dovrebbe riguardare la tutela dei minori. Arriverà il 15 ottobre al Senato, dopo la sua approvazione alla Camera, la legge Varchi di Fratelli d’Italia che modifica il reato di maternità surrogata, rendendolo universale, ovvero perseguibile anche se commesso all’estero. Ma tutto è bugiardo in questa storia, a cominciare dai nomi delle cose. “Il reato universale non esiste nel linguaggio giuridico”, come spiega a Domani Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale all’università di Milano ed ex consigliere giuridico della ministra Cartabia: “Si può parlare di giurisdizione universale ma è una cosa diversa. Il diritto penale è nazionale. Qui si vuole inseguire il cittadino italiano per fatti che in alcuni ordinamenti sono leciti”, osserva il professor Gatta sforzandosi di immaginare scenari possibili su un reato già etichettato durante le audizioni in commissione da altri esperti come “un pateracchio”, un “mostro”, un “obbrobrio giuridico a rischio pernacchia”. Ma l’immaginazione è incredibile per il Governo Meloni che nella messa in scena dello spettacolo pubblico da tempo trasforma leggi e risoluzioni in gonfiabili ad uso elettorale, alimentando l’illusione di un dibattito, meglio se veemente. Già oggi la maternità surrogata in Italia è vietata e la pena per chi viola la legge prevede la reclusione da 3 mesi a 2 anni e la multa da 600.000 a un milione di euro oggi Fratelli d’Italia chiede che “le pene si applicano anche se il fatto è commesso all’estero”. Professor Gatta può spiegarci quali sono i limiti di questa legge di prossima approvazione? Direi che ci sono diversi profili critici. Prima di tutto è una proposta che non introduce un nuovo reato, non aumenta le pene. La pena qui è la reclusione di tre mesi e due anni e resterebbe tale. Ma aggiunge alla legge un comma che consente di punire il fatto realizzato dal cittadino italiano all’estero, fortunatamente non dallo straniero come nella proposta originaria. Il primo elemento di problematicità è dato dal fatto che si rende universale un reato che non è universale. Ci sono paesi stranieri in cui questa pratica è lecita. È difficile pretendere che il cittadino italiano ovunque vada nel mondo a realizzare una pratica che un certo paese ritiene lecita, risponda in Italia di un reato. Eppure su questo spinge il governo... Mi lasci precisare che è già oggi possibile punire la surrogazione di maternità realizzata all’estero dal cittadino italiano: ma ci devono essere le condizioni, ci vuole la richiesta del ministro della giustizia e la giurisprudenza richiede la doppia incriminazione, cioè che il fatto sia reato anche nel paese in cui ci si reca. Questa proposta di legge mira a eliminare questi due presupposti: la richiesta del ministro e la doppia incriminazione. Ma questo “reato universale” che da tempo prende spazio nel dibattito pubblico, nelle discussioni sui talk politici e anche su manifesti e programmi elettorali, esiste? Nei manuali non si parla di reato universale. Esiste la giurisdizione universale che è una cosa diversa. Pensiamo al terrorismo, alla violenza sessuale, alle mutilazioni genitali femminili, ai crimini di guerra, al traffico di esseri umani. Sono reati gravissimi che vengono puniti con pene severe. In una lotta a tutto campo contro queste forme di criminalità la legge prevede che anche il fatto commesso all’estero dal cittadino italiano possa essere punito in Italia. Ma si tratta di reati gravissimi, appunto, e la gravità del reato è espressa dalla pena che la legge commina. Nel caso della surrogazione di maternità la pena della reclusione è solo da tre mesi a due anni e consente la sospensione condizionale della pena. C’è un utilizzo moralista del diritto penale? Al di là del giudizio etico-morale che ciascuno può avere, incriminando la surrogazione di maternità si rischiano effetti negativi sui bambini nati da questa pratica, che certo non hanno nessuna colpa. Fa specie pensare di essere considerato un bambino nato da un reato. È simbolica e poco praticabile l’idea di uno Stato che vuole rimarcare la contrarietà a questa pratica e quindi dice al cittadino in modo paternalistico: io ti seguo ovunque e ti punisco. È un uso simbolico del diritto penale utilizzato per veicolare all’elettorato messaggi forti rispetto a temi politicamente identitari. A prescindere dal giudizio etico e morale che ciascuno può avere sulla pratica di gestazione per altri. E dal punto di vista pratico come funzionerebbe? Difficile immaginarlo. Già oggi sono pochi i procedimenti per queste pratiche. Pensiamo a un fatto commesso all’estero dove è lecito: per raccogliere gli elementi di prova, necessari per fondare una condanna, bisognerà avere la collaborazione di quello Stato, fare delle rogatorie. È arduo che lo stato, sul piano della cooperazione giudiziaria internazionale, collabori con noi nel momento in cui in quel paese la pratica è lecita. Ed è per questo che il codice Rocco del 1930 pensava alla richiesta del ministro quando si deve procedere per reati commessi all’estero. C’è un piano di opportunità politica e relazioni che vanno valutati di volta in volta. Questo problema di cooperazione tra stati non è facile da risolvere. Corre una forte preoccupazione soprattutto tra le coppie dello stesso sesso, quelle più visibili all’occhio, per così dire, in caso di gestazione per altri. Ci sono moltissime famiglie che hanno avviato un percorso di surrogata all’estero spaventate da quello che potrà succedere ai loro figli una volta approvata la legge... Una regola in materia penale è quella della irretroattività. La legge penale, quando è sfavorevole al reo, non si può applicare retroattivamente ai fatti commessi prima della nuova legge, quando sarà approvata e pubblicata. E dopo che la legge sarà pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale? Sarà interessante capire se e come emergeranno le denunce. Probabilmente con il tentativo delle coppie di iscrivere all’anagrafe il figlio. Per evitare di incorrere in una denuncia è peraltro possibile che vengano commessi altri reati di falso. E se una coppia di italiani resta all’estero, dopo la nascita del figlio, per eseguire la pena occorrerebbe chiedere l’estradizione, ma mancherebbe il requisito della doppia incriminazione che per lo più è richiesto. Soprattutto, dobbiamo già oggi e anche dopo la nuova legge preoccuparci dei possibili riflessi negativi sui minori, il cui interesse superiore deve essere tutelato, come hanno ricordato negli anni sia la Corte costituzionale sia la Corte di cassazione. Attenzione alla possibile vittimizzazione indiretta dei minori. Romano (Siulp): “Il reato di blocco stradale limita il diritto di manifestare” di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 ottobre 2024 Parla il segretario nazionale del Sindacato unitario dei lavoratori di polizia. È un poliziotto, è il segretario nazionale del Siulp, il più rappresentativo dei sindacati di polizia: 27 mila iscritti tra i 95 mila agenti italiani. Ma sul ddl Sicurezza che in questi giorni sta passando il vaglio del Senato, dopo l’ok ricevuto alla Camera, Felice Romano ha un’idea non convenzionale: “Trasformare in reato penale il blocco di una strada è qualcosa di sproporzionato e improprio”. È l’unica norma, tra i 13 nuovi reati e le 9 aggravanti del pacchetto governativo, che non le piace? Abbiamo già detto che è un primo passo per la tutela degli operatori di polizia. Ma siamo contrari alla norma sul blocco stradale contro la quale abbiamo manifestato insieme alla Cisl perché la pena è eccessiva rispetto a quelli che possono essere i protagonisti di questo tipo di azioni. Penso ai ragazzi, all’università, agli studenti che magari litigano con il Rettore e fanno una manifestazione spontanea davanti alla Sapienza. E che facciamo, gli diamo due anni perché hanno bloccato una strada, come fossero rapinatori? È una norma che limita il diritto di manifestazione. L’inasprimento delle pene per chi occupa “un immobile destinato a domicilio altrui” le sembra invece adeguato? Beh, lì siamo in un campo delicato perché in quel caso si vuole proteggere chi è più debole. Magari la vecchietta che va in ospedale e trova la sua casa occupata. Dove bisognerebbe davvero mettere mano per aumentare la sicurezza, secondo lei? Per sicurezza si deve intendere quella sociale. Il nostro ministero dovrebbe cambiare nome: non ministero dell’Interno ma ministero dei Diritti, perché a noi è affidata la custodia e la garanzia della fruibilità di tutti i diritti che la nostra straordinaria Carta costituzionale garantisce ad ogni cittadino italiano o ad ogni cittadino che si trova sul territorio nazionale. È per questo che il Siulp ha lanciato la campagna contro le aggressioni alle Helping Professional, non solo poliziotti. Perché, oltre agli agenti che subiscono in media un’aggressione ogni 3 ore, ci sono tutti quei professionisti che lavorano per aiutare gli altri e mettono a repentaglio la propria incolumità. Per questo avete voluto le bodycam. Il provvedimento però non specifica quando vanno accese e chi lo decide. Come pensa che verranno usate, di fatto? Ci sarà sicuramente un disciplinare che, così come già avviene per quelle usate nei servizi di ordine pubblico, dirà quando e come utilizzarle. Secondo me, la bodycam dovrebbe entrare in funzione ogni volta che una pattuglia interviene. Perché l’immagine che raccoglie è un elemento oggettivo di come l’operatore ha fatto l’intervento. Il problema, mi sembra di ricordare da quelle già in funzione, è che le bodycam non hanno un’autonomia di 24 ore. Quindi bisogna attivarle solo quando servono. Poi c’è anche un problema di privacy dell’operatore, però, perché nessuno può spiare il lavoratore sul posto di lavoro se non ci sono motivi validi, ed eventualmente bisogna avere l’autorizzazione dell’ispettorato del lavoro e l’intesa col sindacato, nel senso che i lavoratori devono essere informati. Il ddl, intervenendo sulla disciplina che riguarda il porto d’armi, prevede che gli agenti possano portare con sé, quando non sono in servizio, fuori dalla propria abitazione e senza alcuna autorizzazione, armi diverse da quelle in dotazione. Qual è la ratio di questa norma? Intanto questa norma non è una novità: tutti gli ufficiali di Ps, tutti i magistrati, i vice prefetti e i prefetti, tutti gli ispettori provinciali, pure delle acque, per legge possono acquistare un’arma senza il preventivo rilascio del porto d’armi. Ma chi opera nei servizi investigativi, contro la criminalità organizzata, l’eversione o nel controllo del territorio sono i più esposti alle aggressioni, e hanno in dotazione un’arma ingombrante e vistosa come la Beretta, non adatta ad essere portata fuori servizio. Ecco la ratio della norma, anche se il Siulp non l’aveva chiesta. Anzi, faccio presente che gli agenti hanno già il problema di gestire l’arma di ordinanza, che va smontata in almeno tre parti quando la si lascia in casa. Ma non vede un rischio nella proliferazione di armi? Questa è pura ideologia: ci sono almeno 4.000 persone che portano un’arma senza averne dimestichezza e senza porto d’armi, e voi vi preoccupate di chi tutti i giorni lavora con la pistola? È come è come se ci preoccupassimo perché il medico gira con la morfina. Il reato di tortura è ancora un boccone amaro mal digerito dalle forze di polizia? Assolutamente no. La norma, così com’è, è stata accettata dai poliziotti. Il malcontento, se c’è, è relegato ad una piccola fascia di operatori. Giusta la nuova legge che punisce duramente gli occupatori di case di Bruno Ferraro* Libero, 13 ottobre 2024 Prima il caso di una pensionata novantenne di Napoli che in piena pandemia Covid si è allontanata per controlli sanitari dalla sua abitazione nel quartiere Pizzo Falcone e al ritorno l’ha trovata occupata da persone che hanno buttato in strada mobili e suppellettili e, non paghe della prodezza, hanno avviato addirittura lavori abusivi di ristrutturazione. Poi l’indagine di una emittente televisiva che ha documentato la gravissima entità del fenomeno (7.000 case occupate a Napoli, 161 palazzi a Roma in stato di degrado) e la collaudata strategia occupativa di clan e famiglie varie (porte sfondate, presenza di donne e bambini in modo che forze dell’ordine Comuni e Prefetture siano impossibilitati a intervenire con la necessaria efficacia e tempestività). Nell’agosto 2023 il ministro degli Interni Piantedosi ha definito inaccettabile la situazione creatasi nelle grandi città, causa di degrado, insicurezza e alimento della piccola e grande criminalità. A Ostia e Treviso sono stati usati i droni per verificare la presenza o meno di persone all’interno di villette, rendendo inefficace l’oscuramento delle abitazioni prese di mira. Ne consegue all’evidenza la necessità di correre ai ripari per arginare una situazione del tutto inaccettabile, al cui propagarsi hanno sicuramente contribuito immigrati abusivamente arrivati nel nostro “accogliente Paese”. Bene ha fatto quindi il governo Meloni a correre ai ripari, usando il pugno duro nei confronti degli occupanti od aspiranti tali con una iniziativa normativa destinata ad alzare la soglia repressiva ed apporre un freno a livello di prevenzione. Questi i punti della proposta: ampliamento dell’art. 634 codice penale con l’introduzione del reato di spoliazione o turbativa violenta del possesso o della detenzione di cose immobili; intervento diretto della polizia giudiziaria in caso di fragranza; denunzia, nel caso di trascorsa fragranza, all’Autorità giudiziaria che nelle 48 ore successive dispone lo sgombero e l’immediata restituzione dell’immobile al legittimo proprietario; eliminazione dello spazio di intervento dei Prefetti, sia per la constatata inefficacia dell’intervento medesimo, sia per vanificare l’anomalia di una ingerenza amministrativa in una vicenda gestita dall’Autorità giudiziaria; esclusione del rito abbreviato per scongiurare diminuzioni di pena ed altri benefici. Basterà? C’è di augurarsi di sì, visto che il provvedimento si muove nel segno della legalità, dello Stato di diritto e della difesa del diritto di proprietà che ha un preciso fondamento costituzionale. Forse, ad avviso dello scrivente come spiegato in un precedente articolo, sarebbe stato possibile legittimare un diretto potere di sgombero della Polizia giudiziaria, sulla base su di una verifica dei contratti per la fornitura di energia elettrica, gas ed acqua. È evidente che nel caso di contratto intestato ad altro soggetto l’abusività dell’occupazione avrebbe una dimostrazione addirittura documentale: e ciò in perfetta coerenza con i principi di uno stato di diritto e, se mai, costringendo gli occupanti a dimostrare la detenzione dell’immobile oggetto di rivendicazione. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Firenze. Sollicciano cade a pezzi, qui la dignità è morta di David Allegranti La Nazione, 13 ottobre 2024 Secondo una recente ordinanza del Tribunale di Sorveglianza è “impossibile assicurare una situazione non contraria al senso di umanità se non risolvendo a monte le problematiche che investono l’intero edificio sotto il profilo strutturale e igienico-manutentivo”. Avere l’acqua calda in cella (e non solo), ha stabilito con un’ordinanza il Tribunale di Sorveglianza di Firenze, è un diritto, ma il filosofo del diritto Emilio Santoro, fondatore de L’Altro Diritto e professore ordinario all’Università di Firenze, è parzialmente soddisfatto del risultato ottenuto dall’accoglimento del ricorso presentato dalla sua associazione. Certo, l’ordinanza inverte l’onere della prova sulle condizioni di detenzione (il magistrato Claudio Caretto, nel rigettare il ricorso, diceva che l’Amministrazione Penitenziaria poteva semplicemente dichiarare errate le asserzioni del detenuto, contraddicendole, senza provare che erano sbagliate, ma il reclamo appena accolto sostiene che l’Amministrazione deve provare e non dichiarare che il ristretto ha detto il falso). Certo, le parole usate da Caretto sono considerate lesive della dignità del detenuto, deridenti, “e se il presidente del Tribunale Marcello Bortolato non presenta un esposto al Csm lo facciamo noi”, ci dice Santoro. Ma ci sono motivi, sostiene ancora Santoro, per non essere pienamente soddisfatti. L’ordinanza dà fino a 90 giorni all’amministrazione penitenziaria per realizzare i lavori già programmati nel carcere di Sollicciano, “senza disporre che nel frattempo il detenuto sia messo in condizioni di dignità. Forse su questo dobbiamo andare in Cassazione e vedere se ci viene data ragione; se invece ci dà torto a quel punto avremo finito i rimedi interni e potremo andare dalla Cedu”. Trascorsi i 90 giorni, oltretutto, in assenza di miglioramento delle condizioni del detenuto, quest’ultimo deve essere trasferito. Il problema è che i ristretti non vogliono essere trasferiti, magari lontani dai parenti e dagli affetti, ma avere condizioni detentive umane e non degradanti: “Abbiamo fatto oltre un centinaio di ricorsi e l’unica cosa che i detenuti ottengono è quello che non vogliono: essere trasferiti lontani dai loro legami”, commenta amaramente Santoro. È già successo, spiega il professore: due ordinanze firmate dalla dottoressa Susanna Raimondo, che accoglievano le istanze presentate dai detenuti, davano 60 giorni all’amministrazione penitenziaria per risolvere i problemi lamentati dai ristretti. “Sessanta giorni al termine dei quali i detenuti se erano ancora in condizioni inumane e degradanti dovevano essere trasferirti… Come al 59esimo giorno è puntualmente successo”, dice Santoro che sintetizza amaramente: “Vinciamo sul piano giuridico, ma peggioriamo la situazione dei detenuti”. Il caso è peraltro destinato a ripetersi, considerate le condizioni di Sollicciano. Lo lascia intendere la stessa ordinanza del Tribunale di Sorveglianza, per il quale è “impossibile assicurare al reclamante il ripristino di una situazione di piena esecuzione non contraria al senso di umanità se non risolvendo a monte le problematiche generali che investono l’intero edificio sotto il profilo strutturale e igienico-manutentivo e dunque con interventi di manutenzione straordinaria di risanamento”. Ma nessuno è in grado di garantire un rapido svolgimento di lavori peraltro in arretrato. Quindi cosa accadrà a Sollicciano? Il carcere, sovraffollato e in condizioni pietose, via via si svuoterà a colpi di ordinanze della Sorveglianza? Mantova. La visita al carcere: “Cerchiamo di migliorare la qualità di vita dei detenuti” primadituttomantova.it, 13 ottobre 2024 Visita alla Casa circondariale di Mantova nella mattinata di venerdì 11 ottobre 2024 da parte del presidente della Provincia Carlo Bottani e delle consigliere regionali Alessandra Cappellari e Paola Bulbarelli per incontrare la direttrice Metella Romana Pasquini Peruzzi e fare il punto sulla situazione attuale del carcere, raccogliere proposte e idee per contribuire al miglioramento della vita in carcere dei detenuti. “Mi ha fatto molto piacere questa visita - ha dichiarato la direttrice del carcere Pasquini Peruzzi - per fare conoscere le attività che vengono portate avanti, nonostante la carenza di personale e risorse economiche non sempre sufficienti; stiamo facendo molto e sicuramente dobbiamo fare ancora tanto per migliorare la vita della popolazione detenuta. Spero che vi sia una maggiore attenzione da parte del terzo settore e delle imprese mantovane perché possano offrire opportunità lavorative ai detenuti che già possono fruire di una misura alternativa alla detenzione”. Gratitudine da parte del presidente della Provincia Bottani a quanti lavorano in carcere quotidianamente. “Un ringraziamento alla direttrice, al comandante, a tutti gli agenti e volontari che aiutano i nostri detenuti a vivere nel modo migliore; grazie di cuore per la competenza e amore in questa missione”. Le questioni trattate durante la visita alla casa circondariale verranno portate all’attenzione di Regione Lombardia grazie all’impegno delle consigliere regionali Paola Bulbarelli e Alessandra Cappellari. “Una visita molto importante - evidenzia Paola Bulbarelli - durante la quale abbiamo ascoltato dalla diretta voce dei detenuti quali possono essere i problemi; dobbiamo cercare di portare risultati e con Alessandra Cappellari ci prodigheremo perché la situazione al carcere di Mantova arrivi in Regione. È importante coinvolgere le aziende mantovane, il terzo settore e far sì che ci siano risultati; oggi la richiesta fondamentale è avere un maggiore numero di personale”. “Siamo reduci dal consiglio regionale sul tema delle carceri in Lombardia - ricorda Alessandra Cappellari - durante il quale è stato posto l’accento sulle tante iniziative e sul sostegno di Regione Lombardia alle case circondariali del territorio, nonostante la competenza sia nazionale. “Oggi raccogliamo quelle che sono le istanze del Mantovano sulla struttura in sé e sul supporto delle aziende non solo sul tema del lavoro dopo la detenzione, ma già per portare all’interno del carcere mansioni lavorative che non necessitino di grande competenza. L’intento nostro, inoltre, è porre l’attenzione anche a livello nazionale in modo che si possa avere una progressione anche per la casa circondariale di Mantova”. Chieti e Pescara. “Nelle carceri clima di tensione e grave assenza del Garante dei detenuti” chietitoday.it, 13 ottobre 2024 Radicali Italiani. Dalla visita di Fiammetta Trisi e Gianluca Di Marzio sono emersi un sovraffollamento al 180%, carenze di organico e pochissime professionalità per il trattamento rieducativo e la tutela dell’integrità psicofisica. Sovraffollamento al 180%, carenze di organico, pochissime professionalità dedicate al trattamento rieducativo e alla tutela dell’integrità psicofisica. È questo il quadro, per nulla edificante, emerso dalla visita guidata dei Radicali Italiani nelle carceri di Pescara e Chieti. “La situazione nei due istituti penitenziari - dichiarano Trisi e Di Marzio - appare completamente diversa. I due istituti ospitano specifiche e differenti tipologie di detenuti: a Pescara si registra una significativa presenza di detenuti stranieri, tossicodipendenti e persone affette da problematiche psichiatriche che non trovano posto nella sezione dedicata alla salute mentale. A Chieti, invece, è rilevante la presenza di donne detenute in spazi molto ridotti, oltre a un reparto per sex offenders”. “Si riscontra anche una marcata differenza riguardo agli spazi per le attività trattamentali: a Pescara sono numerosi e ampi, sebbene poco utilizzati rispetto al passato. A Chieti, invece, gli spazi sono ricavati (inventati) per offrire opportunità di trattamento attraverso le numerose iniziative formative e di istruzione - continuano Trisi e Di Marzio. A Pescara abbiamo riscontrato un clima esplosivo: non ci è stato possibile visitare la sezione penale, quasi tutti i detenuti erano chiusi nelle proprie celle e i pochissimi con cui siamo riusciti a parlare erano timorosi e spenti. Situazione completamente diversa nel carcere di Chieti, dove è stato possibile visitare tutti i reparti e gli spazi di socialità e incontrare liberamente tutti i detenuti e le detenute, che hanno speso parole di elogio per il lavoro della direzione e degli operatori, i quali, nel rispetto dei ruoli e dell’ordinamento penitenziario, provvedono prontamente alle loro necessità. Anche le attività culturali e formative sono fra le più varie, a conferma del valore rieducativo che il carcere può e deve avere nel nostro ordinamento costituzionale. Riteniamo gravissimo che la Regione Abruzzo da oltre sei mesi sia priva del Garante regionale dei detenuti. Invitiamo il Consiglio regionale - concludono - a eleggere al più presto un nuovo Garante; è inquietante che i detenuti non abbiano una figura in grado di vigilare sulle loro condizioni”. Ravenna. Al via il progetto “Territori per il reinserimento”, una vera alternativa al carcere ravennatoday.it, 13 ottobre 2024 A Ravenna è entrato nella fase operativa ‘Territori per il reinserimento’, il progetto biennale che supporta il reinserimento nella società delle persone che si trovano in esecuzione penale esterna o in misura alternativa alla detenzione. Il progetto è finanziato da Cassa Ammende e dalla Regione Emilia-Romagna e sul territorio ravennate è gestito dal Comune e dal Consorzio Solco Ravenna, con la partnership del Consorzio Fare Comunità, dell’associazione Farsi Prossimo Odv e dell’ente di formazione Cefal. “Obiettivo di questo progetto è creare opportunità sociali e lavorative per le persone che possono godere di misure alternative alla detenzione - spiega il coordinatore del progetto Massimo Caroli, del Consorzio Fare Comunità -. Con la stessa rete di soggetti avevamo già gestito il medesimo progetto nel biennio precedente, con risultati al di sopra degli obiettivi: il numero di beneficiari previsto era di 43 persone, siamo riusciti a prenderne in carico 61. Ciò che ci ha permesso di raggiungere questo risultato è stata la capacità di mettere in rete soggetti diversi, più di quelli previsti dal progetto, e presenti non solo nel comune di Ravenna, ma in tutta la provincia. Sono stati coinvolti infatti anche i servizi sociali della Unioni dei Comuni della Bassa Roagna e della Romagna faentina e i servizi specialistici dell’Ausl, Dsm e Serd”. Il progetto consiste nel costruire, per ogni persona segnalata dai servizi di riferimento (Ufficio per l’esecuzione penale esterna - Uepe, uffici di servizio sociale per minorenni - Ussm, Istituti penitenziari - Ip), un progetto personalizzato che preveda: valutazione delle competenze individuali; progettazione di percorsi individualizzati di orientamento; formazione; inserimento lavorativo; attività formative, culturali e di socializzazione; percorsi per il raggiungimento di un’autonomia abitativa quando necessario. La costruzione del piano personalizzato viene fatta dall’equipe di lavoro del progetto composta da professionalità provenienti da tutti i soggetti e gli enti coinvolti nell’iniziativa. Con la collaborazione delle cooperative sociali di Solco Ravenna e delle imprese del territorio, nello scorso biennio il 76% delle persone prese in carico ha trovato un lavoro con un contratto a tempo determinato, il 15% con un contratto a tempo indeterminato. “I risultati raggiunti col primo progetto sono la prova di come di fronte a situazioni complesse bisogna rispondere mettendo in rete più soggetti, con tavoli di lavoro operativi e non generici e alzando lo sguardo oltre al proprio operato - continua Caroli -. Essere riusciti a coinvolgere i servizi sociali di comuni diversi, le imprese e le opportunità di territori diversi ci ha permesso di avere uno sguardo più ampio sulle possibilità presenti sul territorio. Un altro aspetto molto importante da sottolineare è che, quando siamo partiti, dai servizi penitenziari c’era preoccupazione. Si pensava che le persone prese in carico non sarebbero state accettate dalle imprese, nel mondo del lavoro, per pregiudizio. Noi non abbiamo avvertito niente del genere, da nessuna impresa coinvolta. Il bisogno di occupazione è forte e gli aspetti che vengono valutati dalle imprese riguardano le competenze, non il vissuto della persona. È un segnale positivo che va colto e su cui lavorare”. Il progetto avviato quest’anno ha l’obiettivo di prendere in carico almeno 61 persone in tutta la provincia di Ravenna. Le prime segnalazioni sui partecipanti sono arrivate e l’equipe di lavoro sta predisponendo i piani personalizzati e il lavoro di rete per creare opportunità di formazione, orientamento, lavoro e socializzazione, per poter avviare con l’inizio del 2025 i primi inserimenti presso le imprese individuate. Catanzaro. Giustizia riparativa, la testimonianza di Agnese Moro con i detenuti corrieredellacalabria.it, 13 ottobre 2024 La figlia del leader della Dc assassinato dalle Br nel 1978 è intervenuta a un incontro al carcere Caridi. Un incontro incentrato sulla giustizia riparativa quello che Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, ha avuto con i detenuti del carcere Ugo Caridi di Catanzaro. Dopo i saluti istituzionali del direttore Patrizia Delfino e del magistrato di sorveglianza Angela Cerra, che hanno sottolineato l’importanza dell’esempio di Agnese Moro in contesti come il carcere, la figlia dell’ex presidente del Consiglio dei ministri, ha raccontato ai presenti il suo percorso di vita personale che l’ha portata ad instaurare un rapporto di amicizia con i brigatisti Adriana Faranda e Franco Bonisoli condannati per il rapimento di Aldo Moro e gli omicidi della scorta di via Fani. “È stato - ha dichiarato Agnese Moro - un lungo percorso che ho iniziato dopo anni, in cui i fantasmi di quegli uomini hanno fatto parte non solo della mia vita, ma anche della vita dei miei figli. Non era arrivata a loro solo la memoria di mio padre, quel ricordo positivo di ciò che era stato, ma anche l’angoscia, il dolore, il risentimento. Tutto questo con un silenzio rumoroso era stato trasmesso all’ultimo dei miei figli nonostante con loro io non avessi mai parlato”. Per questo motivo Agnese Moro ha deciso di dire basta per migliorare la sua vita e quella dei suoi figli. “Quando quei fantasmi che mantengono nella tua mente il volto che avevano all’epoca - ha sottolineato Agnese Moro - te li trovi davanti, svanisce tutto. Svanisce il fantasma ed hai davanti una persona con i tuoi stessi problemi, con il problema di dire al figlio, al nipote che lui nella vita ha ucciso una persona. Allora vedi in lui il dolore, lo riconosci. I fatti di allora sono storia, ma tu, insieme a loro, non siete più quelle persone, anche se il mondo vorrebbe che quei fantasmi rimanessero per sempre tali”. All’incontro, organizzato dalla pastorale penitenziaria calabrese, nato nel corso di un progetto di scrittura e lettura dei volontari della cappellania, coordinato dall’area educativa e trattamentale, hanno partecipato anche l’Arcivescovo di Catanzaro-Squillace Claudio Maniago, Luigi Mariano Guzzo, docente di diritto e religione all’Università di Pisa e Charlie Barnao, professore ordinario di sociologia all’Università di Catanzaro. “Questo incontro - ha detto Maniago - per me è sorprendente, ma mi ricorda molto la parabola del buon samaritano e di come ci insegna che amore e compassione non conoscono differenze e pregiudizi”. Di umanizzazione del carcere e di itinerari Ignaziani hanno discusso Guzzo e Barnao. Siracusa. La sartoria nata in un bene tolto alla mafia dove lavorano detenuti e donne a rischio di Marta Silvestre meridionews.it, 13 ottobre 2024 Un’accademia sartoriale e un atelier in un bene confiscato alla mafia nel cuore della Borgata, un quartiere di Siracusa ad alto rischio di disagio e devianza. A trasformare un immobile che fu dell’omonimo clan del rione aretuseo, e che era oramai praticamente diroccato, è stato il progetto Le tele di Aracne rivolto a giovani detenuti della casa circondariale di Cavadonna e donne a rischio di marginalizzazione sociale. “È un potente strumento di riscatto e di inclusione sociale che impatta due fragilità, quelle delle persone coinvolte e quelle del quartiere dove insiste la struttura”, spiega a MeridioNews Sebino Scaglione, il presidente di Passwork, la cooperativa sociale che è capofila dell’associazione temporanea di scopo - composta anche da Cna Siracusa, Moda Ermes Comunicazione e Fondazione di Comunità Val di Noto Ets - che gestisce il progetto promosso da Comune di Siracusa e finanziato dal ministero dell’Interno. Nella sartoria sociale di via Bainsizza è già iniziato il primo laboratorio di formazione a cui stanno partecipando 12 persone: cinque detenuti del carcere Cavadonna di Siracusa e sette donne a rischio di marginalizzazione, di cui tre che vivono in case rifugio per vittime di violenze. “Un progetto che ha l’obiettivo - dichiara Scaglione - di tessere un tessuto sociale fragile e di ricucire vite sdrucite”. Come quella di Amina, una ragazza originaria della Tunisia che è ospite del progetto Sai (Sistema di accoglienza e integrazione) a Cassaro (nel Siracusano), dove vive con il marito e il nipote. Dopo un’esperienza lavorativa importante di sarta svolta nel suo Paese, oggi Amina è una delle tutor di Le tele di Aracne. “L’incontro con la nostra accademia sartoriale - dice il presidente di Passwork - ha scatenato tutte le sue potenzialità finora inespresse”. E, forse, di più l’arte riparatrice della sartoria ha fatto con Giuseppe. Un detenuto poco più che 30enne, in uscita dal circuito penale per cui sta scontando una pena dopo un reato grave. “Durante la prima giornata di formazione, il suo impatto emotivo è stato fortissimo”. Prendere in mano le forbici, srotolare il metro, appuntare gli spilli e gli aghi, indossare un ditale e toccare i filati lo hanno riportato indietro agli anni della sua infanzia. “A uno dei pochi ricordi belli che lo legano a quel periodo perché sono gli attrezzi del mestiere del nonno - racconta Scaglione - che aveva provato anche a trasferirgli questa passione”. Interrotta, ma di cui adesso riprende le fila “con Le tele di Aracne, un nuovo inizio che sa di riscatto e di rinascita”. Tanto personale quanto sociale. L’accademia ha già dato vita a una linea sartoriale ispirata al riutilizzo del cosiddetto corredo della nonna: creazioni artigianali fatte all’uncinetto cucite sulle coffe tradizionali siciliane, sui cappelli di paglia, sulle infradito e su altri accessori e capi di abbigliamento. “Siamo fermamente impegnati a garantire la prosecuzione di questo progetto - conclude il presidente di Passwork - per continuare a tessere storie di speranza e opportunità”. La somministrazione di lavoro è una forma di contratto lavorativo che si sta sviluppando rapidamente negli ultimi tempi, ma le cui funzionalità potrebbero non essere del tutto chiare. Poiché è una tipologia di contratto che porta numerosi benefici alle aziende e ai datori di lavoro, ma anche agli stessi lavoratori, abbiamo realizzato questo articolo per spiegare in maniera trasparente e semplice cosa si intende per somministrazione di lavoro. Cominciamo col dire che i soggetti chiamati in causa sono tre e che di fatto si stipulano due diversi contratti. Le aziende (utilizzatori) possono rivolgersi ad agenzie di lavoro autorizzate (somministratori) per richiedere le prestazioni di lavoratori. Non tutte le agenzie per il lavoro possono fornire questo tipo di servizio, ma solo quelle regolarmente iscritte in un albo informatico presso l’Anpal. Un primo contratto di somministrazione, definito commerciale, viene stipulato tra l’utilizzatore e il somministratore e può essere a tempo determinato o indeterminato. Un secondo contratto, detto di lavoro, viene invece sottoscritto tra il somministratore e il lavoratore somministrato e anche in questo caso può essere a tempo determinato o indeterminato. Come vengono regolati i rapporti tra i tre soggetti? L’agenzia per il lavoro si occupa della retribuzione del lavoratore, della gestione contributiva, del rispetto delle normative contrattuali e in generale di tutti gli aspetti burocratici. Inoltre deve anche garantire la formazione e la sicurezza del lavoratore. L’azienda viene di fatto sgravata da una serie di impegni, consentendole di risparmiare sui costi per la selezione e l’assunzione del personale e guadagnare tempo prezioso per dedicarsi maggiormente al suo core business. L’azienda utilizzatrice è comunque tenuta a rispettare le condizioni di lavoro, altrimenti il lavoratore può rivolgersi all’agenzia per far valere i suoi diritti. In pratica quindi il lavoratore è sotto contratto con l’agenzia per il lavoro, ma offre i suoi servizi all’azienda utilizzatrice. I lavoratori che hanno sottoscritto un contratto di somministrazione a tempo indeterminato possono beneficiare degli stessi diritti degli altri dipendenti assunti a tempo indeterminato. Inoltre il lavoratore assunto a tempo indeterminato ha anche diritto a un’indennità di disponibilità per quei periodi in cui non viene mandato in missione presso altre aziende, in pratica quando non lavora. Il contratto di somministrazione a tempo determinato ha invece una durata limitata che non può superare i 24 mesi. In pratica può essere prorogato fino ad un massimo di sei volte nell’arco dei 24 mesi e ogni proroga deve essere giustificata da esigenze specifiche e va formalmente comunicata al lavoratore. È opportuno sapere che questa forma di contratto, per essere valida, deve essere obbligatoriamente messa per iscritto. I vantaggi sono numerosi per tutti i soggetti: l’azienda utilizzatrice può beneficiare di una gestione flessibile del personale e coprire vuoti temporanei senza dover assumere direttamente, mentre i lavoratori possono accedere a numerose opportunità lavorative e, in alcuni casi, ottenere anche un’assunzione diretta a tempo indeterminato. Aversa (Ce). Nella Casa di Reclusione i detenuti potranno diventare bibliotecari di Antonio Taglialatela pupia.tv, 13 ottobre 2024 La lettura rendere davvero liberi ad Aversa, una città profondamente segnata nella sua storia dalla presenza di importanti istituzioni che si sono radicate e succedute nel tempo: tra queste il primo ospedale psichiatrico giudiziario d’Italia, nel 1876, riconvertito, dopo la chiusura definitiva degli Opg, nell’attuale Casa di Reclusione intitolata a Filippo Saporito. Da un incontro tra la libreria sociale “Il Dono” e il Cesp - Centro Studi per la Scuola Pubblica è nata così l’idea, accolta con favore dalla direzione della struttura penitenziaria, di promuovere il corso di “Biblioteche innovative in carcere” con l’obiettivo far acquisire ai detenuti conoscenze e competenze di lettura, scrittura e comunicazione spendibili in ambito lavorativo una volta tornati in libertà. L’iniziativa è stata presentata nella casa di reclusione aversana, alla presenza di autorità, direttori di istituti penitenziari, dirigenti scolastici, docenti ed esponenti del mondo della cultura e dell’associazionismo. Oltre 100 i libri nel frattempo donati alla struttura dalla libreria “Il Dono” di Aversa nata diciotto anni fa dal progetto del professor Fortunato Allegro che, durante il periodo dell’emergenza rifiuti della città, nel 2008, creò un circuito di raccolta, recupero e messa a disposizione di libri destinati al macero o abbandonati che, una volta arrivati nella libreria, vengono sistemati e poi distribuiti a ospedali, carceri, parrocchie, scuole e famiglie non abbienti. Ad oggi la libreria, situata nei locali al pian terreno del Palazzo Gaudioso, sede della Biblioteca Comunale, ha circa 60mila volumi, molti dei quali, però, pur se adeguatamente sistemati su librerie e scaffalature, devono essere inventariati e classificati. E qui potrebbe esserci l’impiego dei detenuti formati nel corso del progetto. “Una volta formati - spiega Allegro - i detenuti potrebbero essere utilizzati come operatori di biblioteca presso l’istituto penitenziario di appartenenza e, quando gli sarà consentito, in biblioteche pubbliche e private. Ciò per dimostrare come la fase di redenzione attraverso la scrittura, e prima ancora con la lettura, sia una proposta concreta”. C’è stato anche un confronto tra i docenti che insegnano nelle carceri, appartenenti alla “rete delle scuole ristrette” fondata dal Cesp, presieduto da Anna Grazia Stammati, che ha coordinato i lavori: “Le biblioteche innovative in carcere è uno dei progetti delle ‘scuole ristrette’ e può costituire un elemento comune per favorire un trattamento consapevole, fruttuoso, che possa collocare i detenuti anche da un punto di vista lavorativo una volta usciti dal carcere”. A tal proposito, il dibattito è stato arricchito dal contributo di un detenuto in semilibertà, Pierdonato Zito, riuscito a conseguire la laurea in Scienze sociali alla Federico II e autore di due libri (“Indimenticabile padre: ricordi di un ergastolano” e “I colori nel buio”), che ha parlato anche delle difficoltà che incontrano i detenuti nel ricollocamento lavorativo: “Abbiamo trasformato una piccola cella, uno spazio detentivo, in uno spazio di crescita, di trasformazione, che è stato la mia aula universitaria. Effettivamente, c’è una grande criticità nella ricollocazione sul territorio di provenienza di persone che sono state coinvolte sul piano giudiziario. Ma in realtà, in questo caso, le istituzioni dovrebbero favorire la realizzazione dell’articolo 27 della Costituzione, quindi restituire alla collettività una persona che non è più un pericolo sociale ma è una risorsa sociale”. Il professor Lucio Romano, docente di Bioetica presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, già senatore della Repubblica, ha ricordato “le testimonianze di detenuti, ed ex detenuti che, attraverso lo studio in carcere, attraverso i libri, attraverso la biblioteca, si sono riscattati sia sotto il profilo interiore che evidentemente anche nelle possibilità successive di inserimento del lavoro”. “La garanzia dei diritti fondamentali dell’uomo non può venire soltanto dall’amministrazione penitenziaria, ma deve essere il risultato di un’azione collegiale che ci vede tutti uniti: le scuole, le biblioteche, la cultura che deve entrare in carcere”, ha affermato la provveditrice dell’Amministrazione penitenziaria per la Campania, Lucia Castellano, sottolineando come la casa di reclusione di Aversa sia all’avanguardia: “Pensiamo soltanto ai detenuti che fanno da Cicerone per il Museo Criminologico nelle giornate del Fai. Sono esperienze straordinarie, non soltanto per i detenuti ma anche per noi che lavoriamo tutti i giorni con loro. Finalmente ci apriamo, finalmente diventiamo tutti delle risorse per l’esterno”. Leggere fa sicuramente acquisire uno sguardo critico e una libertà di pensiero rispetto a chi non gode di una libertà materiale, ha sostenuto la direttrice della casa di reclusione, Stella Scialpi: “Diceva Proust che chi legge un libro legge sé stesso e attraverso questo riconoscersi c’è un ripensamento delle proprie scelte passate rispetto a cui potranno, attraverso questo processo di consapevolezza, di apertura mentale, di acquisizione di un nuovo punto di vista sul mondo tornare in società dove, però, si spera, possano avere delle risposte concrete a questa loro nuova dimensione. E per concrete intendo il lavoro, il recupero, la riabilitazione, la risocializzazione. Ecco, su questo punto, ritengo che la lettura sia davvero il primo passo”. Cagliari. L’esperienza degli incontri sinodali nella Casa circondariale di Uta di Don Gabriele Iiriti* Avvenire, 13 ottobre 2024 L’esperienza sinodale in carcere è nata con un invito esplicito fatto ai detenuti all’inizio del Sinodo: formare un gruppo per dare vita alla proposta di papa Francesco di realizzare una consultazione di tutti i cristiani e di quanti lo desiderano sulla vita della Chiesa e la sua missione. La risposta è stata da subito positiva. Fin dalle prime battute ci si è resi conto della grandezza dell’intuizione del Pontefice, racchiusa in quel “tutti”, che ha rivestito ciascun carcerato della dignità di figlio di Dio e di membro della Chiesa, chiamato a dare il suo apporto, con le proprie intuizioni e proposte, sulla vita della Chiesa e la sua missione nel mondo. In carcere a Cagliari-Uta troviamo persone provenienti da diverse parti della Sardegna, del resto d’Italia e tanti stranieri. Anche i membri del gruppo sinodale sono diversi per provenienza, per formazione culturale e con situazioni personali ed esperienze di vita tra le più variegate. Molti di loro provengono da un’esperienza parrocchiale: hanno frequentato la Chiesa cattolica fino all’adolescenza e poi hanno cominciato dei cammini che lentamente li hanno portati a delinquere. Altri non avevano mai fatto parte di un gruppo ecclesiale e non avevano mai affrontato tematiche come quelle proposte dal Sinodo. Eppure, nonostante tutto, è stato possibile iniziare un cammino di fede. Alla domanda su quali esperienze del camminare insieme sono state vissute nella Chiesa, molti hanno risposto ricordando la positiva accoglienza del proprio parroco, gli anni del catechismo, l’ascolto della Parola di Dio, il gruppo di preghiera; altri hanno evidenziato l’ambito del volontariato nel quale sono stati impegnati prima di entrare in carcere. Per la maggior parte di loro il cammino si è interrotto dopo la cresima. Altri hanno smesso di frequentare perché “è mancato qualcosa…”. “Ho vissuto le mie esperienze in parrocchia da ragazzo, ma crescendo sono cambiate troppe cose nella mia persona…”. Questo “cambiamento “, dovuto probabilmente al cammino evolutivo della persona, al contesto socio-culturale in cui viveva, forse non è stato percepito da coloro che, in qualche modo, potevano aiutarlo. Nelle esperienze vissute in ambito ecclesiale, alcuni detenuti ne riconoscono la positività in termini di condivisione di pensieri e fatti vissuti, del non sentirsi soli ma parte di una comunità o di un gruppo, del sentirsi accettati come persone che hanno sbagliato; c’è chi è stato aiutato ad esser più forte e uscire dalla tossicodipendenza, e chi ha ricevuto la speranza di vivere una nuova vita. Michele, uscendo dal carcere qualche mese fa ha voluto scrivere una lettera al gruppo sinodale: “Cari amici del gruppo sinodale, la mia gioia è immensa ora che sono a casa, ma non vi nascondo il mio dispiacere per non poter più frequentare gli incontri del mercoledì con tutti voi”. “Vorrei nominarvi uno per uno, ma non ricordo il nome di tutti; ma una cosa è certa: non dimenticherò mai il volto di ognuno di voi, e non dimenticherò mai le vostre opinioni ricche di fede, di sincerità e amore che ognuno ha messo a disposizione del gruppo, insegnando a tutti che l’incontro e il confronto sono l’unico modo per costruire un rapporto vero tra le persone”. “Abbiate fede e fatevi coraggio perché fuori dal carcere c’è chi vi aspetta per dare sostegno. Posso dire di essere molto sorpreso dell’accoglienza da parte della società esterna. Quando la notizia della mia scarcerazione ha fatto il giro del paese, vi dico che ho ricevuto tante telefonate di sostegno da parte di persone che non mi rivolgevano la parola da anni”. “Per questo vi dico coraggio! Ci vorrà del tempo ma la luce del Signore risplenderà sul vostro cammino, dando a tutti la forza per poter riprendere in mano la propria vita”. In questa testimonianza si colgono due aspetti fondamentali della pastorale penitenziaria: l’accompagnamento durante la detenzione, del quale fa parte anche l’esperienza del gruppo sinodale, e il reinserimento e l’accoglienza nella propria comunità cristiana e nel proprio paese. Francesco, un detenuto del gruppo sinodale scarcerato recentemente, con orgoglio ci ha fatto notare che nell’ordinanza di scarcerazione il magistrato di sorveglianza, tra gli aspetti importanti di cambiamento personale, ha evidenziato che durante la detenzione “egli frequenta con assiduità il Sinodo della Chiesa”. L’esperienza sinodale fatta in carcere diventa un aiuto anche per l’istituzione carceraria che ne riconosce l’apporto positivo nella rieducazione e reinserimento dei carcerati nella società. *Cappellano Casa circondariale Cagliari-Uta Milano. E tu che lavoro sei? L’Associazione culturale Prison Art varca i cancelli del carcere di Angelo Redaelli collettiva.it, 13 ottobre 2024 Approda a Bussero al Teatro Sfera, con i detenuti della compagnia “I figli di Estia” dell’Associazione Culturale PrisonArt, nata all’interno del Carcere di Bollate (Milano) per desiderio di un gruppo di persone detenute che avevano lavorato con Michelina Capato, scomparsa prematuramente nel 2021. Il 18 ottobre debutteranno in uno spazio libero, il Teatro Sfera di Bussero, sempre nel Milanese, con il nuovo spettacolo E tu che lavoro sei? Attori e tecnici sono tutte persone detenute che collaborano con la scenografa Barbara Bedrina e la regista Lorenza Cervara. Lorenza, questo gruppo di detenuti, orfano dell’esperienza straordinaria vissuta insieme a Michelina Capato, ha fortemente voluto portarla avanti. Il teatro è diventato per loro una ragione di vita, in un senso molto più che metaforico... Il lavoro teatrale è un lavoro di relazione e quando ha chiuso la cooperativa Estia si è avvertito un vuoto molto forte da un punto di vista emotivo. Soprattutto perché il teatro unisce, permette a persone molto diverse tra di loro, molte delle quali non parlano neanche l’italiano, di comunicare, perché il lavoro che noi facciamo con queste persone è prevalentemente fisico. La parola arriva certamente, ma sempre dopo il corpo e il gesto, che innescano l’interazione principale. All’interno del gruppo si sono consolidati legami molto forti e dunque abbiamo deciso di raccogliere l’eredità di Michelina, per far sì che queste persone che erano rimaste orfane potessero continuare questo lavoro, che necessariamente aveva bisogno del supporto di persone libere, che godono di tutti i diritti civili e possono, a differenza dei detenuti, ricoprire incarichi formali all’interno di un’associazione culturale. Il tema del lavoro assume un ruolo cruciale per chi si trova in carcere. Guardando al passato, può essere ciò che è mancato a una vita difficile. Nel presente è quello che permette di immaginare un futuro alternativo fuori. Come avete costruito il percorso su questo tema? Noi siamo partiti da una serie di domande aperte: cos’è il lavoro? Che cos’è il lavoro oggi? Che cos’è il lavoro nella società? E che cos’è il lavoro all’interno del carcere? E soprattutto, come cambia la definizione di se stessi in base al lavoro? Questo è un aspetto dirimente per chi è detenuto. Se alla domanda “che cosa fai” normalmente si risponde operaio, impiegato, muratore, banchiere, chi si trova in carcere diventa il reato che ha commesso. Da questo siamo partiti, per provare a recuperare la ricchezza umana che potrebbe trovarsi dietro a quel reato, a quella persona. Magari in qualche caso si è arrivati a delinquere per via di un percorso complesso, forse proprio perché di lavoro non ce n’era. La maggior parte dei detenuti del gruppo arrivano da condizioni familiari e sociali, da contesti di fragilità. Da questo punto di vista Bollate è un istituto penitenziario all’avanguardia, dove si punta realmente alla rieducazione e al reinserimento, a dare alle persone l’opportunità di diventare altro, attraverso percorsi di studio, di formazione professionale, di educazione. Viviamo in un momento storico in cui soprattutto i giovani rifiutano il concetto di lavoro come marchio identitario e rivendicano una dimensione umana che prescinde da esso. “Io non sono più il mio lavoro, perché sono e faccio altro”. In carcere questa trasformazione sociale e culturale arriva? Sicuramente c’è uno scollamento tra le due realtà, ma paradossalmente è molto più semplice fare delle riflessioni rispetto alla definizione di se stessi quando si è dentro rispetto a quando si è fuori. Il mondo oggi ci chiede di essere sempre iperattivi, iperconnessi e iper-reattivi. Ma qui dentro tutto arriva lontano e ovattato, tutti questi stimoli restano fuori. La risposta a “che lavoro vorresti fare” è prima di tutto “vorrei fare un lavoro”. Il tema principale è l’urgenza, la necessità di una base economica che permetta loro di immaginarsi una vita e una famiglia fuori. Poi, certo, arriva anche un desiderio di bellezza, un’aspirazione al miglioramento. Il più giovane elemento della compagnia ha 24 anni, il più adulto ne ha 71. Molti di loro possono ancora pensare a una vita dopo il carcere. Le attività che svolgete con la compagnia teatrale sono anche professionalizzanti, soprattutto sul piano delle competenze tecniche acquisite. Possono rappresentare per il dopo un reale sbocco lavorativo? Molti componenti della compagnia si cimentano sia nei ruoli attoriali che in quelli tecnici. Sicuramente la formazione tecnica è quella che permette di pensare con più facilità a un futuro lavorativo, ma ci sono anche ragazzi che mi hanno confessato che desidererebbero continuare a recitare una volta usciti. A prescindere da questo, però, il teatro ti permette di assumere un punto di vista alternativo e nuovo sulle cose, di avere uno sguardo. E questo fa tantissimo. Alcuni ragazzi, per esempio, stanno studiando, vogliono laurearsi, si stanno costruendo un futuro diverso. O quanto meno, ci provano. Libri. Manconi, militante del vero e il suo ingresso nell’oscurità di Goffredo Fofi Corriere del Mezzogiorno, 13 ottobre 2024 Tra tutte le disgrazie che possono colpire una vita umana e le menomazioni che possono conseguirne, quella della cecità è certamente la più temuta ma anche la più cantata in letteratura, in cinema, in teatro. Lo è stata di più in epoche passate, in chiave di melodramma e di tragedia, lasciando il posto, per esempio nel cinema del primo e del secondo dopoguerra, anche ad altre disgrazie, ad altre menomazioni - e grandi attori, da John Garfield a Marlon Brando, hanno rivestito i panni di un reduce che ha perso al fronte gambe o mani, vista o udito. Hollywood arrivò a dare un oscar a un attore per caso. Harold Russell in “I migliori anni della nostra vita”, perché era un reduce che le mani le aveva perdute davvero sul campo di battaglia. Più di recente è la voga di una letteratura attenta alla quotidianità e alla narrazione di vite comuni - e basta questo a volte a spingere al racconto “uno della famiglia”... “Ipocriti” i lettori, ma spesso anche gli autori, in crisi di ispirazione e di ambizione. È una memoria che sa farsi saggio, e saggio molto significativo, molto importante nel panorama della cultura di oggi, “La scomparsa dei colori”, il libro scritto da Luigi Manconi. Che è stato ieri un coerentissimo militante della nuova sinistra ed è oggi personaggio tra i più integri e puri di un ceto politico e culturale perlopiù malato di mediocrità e di superficialità, smanioso di esibirsi. Tra tante altre sue battaglie, vorrei ricordare che Manconi si è occupato tra i primi e più assidui delle condizioni di vita nelle nostre carceri. A un certo punto della sua vita, è diventato via via cieco, fino a perdere del tutto il grande dono della vista. Lo ha raccontato nel suo libro ripercorrendo con e per il lettore il suo progressivo ingresso nel buio, nel buio di una notte senza fine, e ha raccontato i suoi modi di reagire, di accettare la tremenda condanna di una sorte sommamente ingiusta, per poter continuare nel suo ostinato “ben fare”. Non è un libro edificante, il suo, ma una sorta di diario su come egli è entrato progressivamente nel mondo dell’oscurità, in una notte che non ha mai fine ma che impone, nonostante tutto, di vivere e di fare. Straordinario manuale di ri-apprendimento (o meglio, di continuità negli impegni umani e civili, nonostante il buio e da dentro il buio), leggere Manconi convince che non si deve mai smettere di essere vivi e attivi nonostante tutto. Anche nonostante quella che, già per gli antichi, era la peggiore delle disgrazie. Non tutte le disgrazie... eccetera. È una frase che diciamo senza davvero pensare a chi da una grave disgrazia è stato colpito, alle sue ansie e ai suoi dolori. È una frase ipocrita. Per quanto mi riguarda, posso certificare che non c’è in realtà una vera trasformazione in Manconi tra il prima e l’oggi, so del mio privilegio di vedente, ma se è ovvio che il Manconi di oggi non è quello di ieri e non può fare tutte le cose che faceva ieri, tuttavia è sempre lui: “un militante dei valori”, del bello del giusto del vero si sarebbe detto una volta, e vale anche oggi. Libri. Aleksei Navalny, i diari dalla prigione: “Morirò qui, devo accettarlo” di Irene Soave Corriere della Sera, 13 ottobre 2024 Gli estratti dell’autobiografia in uscita in tutto il mondo il 22 ottobre. “Sottovalutiamo il potere delle dittature”. È facile farsi ingannare dall’umorismo - mai nero, spesso feroce - delle pagine scritte da Aleksei Navalny durante la prigionia e poco prima, nelle settimane di convalescenza dopo essere stato avvelenato dai servizi russi: leggendo gli estratti pubblicati ieri dal New Yorker e dal Times ci si trova spesso a sorridere - del goffo compagno di cella “Balthazar”, della stupidità delle “attività disciplinari”, del sarcastico paragone tra la propria vita in prigione e quella tra sbarre dorate condotta da Putin. Del fatto che “alcune persone collezionano francobolli. Altri monete. Io ho una collezione in espansione di processi penali stupefacenti”. Così le memorie di Navalny possono non sembrare quello che sono, cioè gli ultimi pensieri di un Nelson Mandela mancato, che dopo tre anni e un mese di detenzione per la sua dissidenza al regime di Putin, in una colonia penale al Circolo Polare Artico, alla fine, è morto. Sulle circostanze della sua fine restano pesanti interrogativi. La vedova Yulia si è detta convinta che sia stato per decisione diretta di Vladimir Putin. “Una vita felice” - Delle prime pagine trapelate da “Patriot”, l’autobiografia postuma di Aleksei Navalny che uscirà in tutto il mondo il 22 ottobre (in Italia per Mondadori), è facile anche assorbire le lezioni morali: il prigioniero Navalny capisce che “quella che sto scontando è una condanna a vita, dove la vita o è la mia o è quella del regime”, e la cosa più importante da fare, scrive, è “passare subito all’accettazione” saltando il lutto, la collera, le fantasie di vendetta. Pensare di aver vissuto più di quarant’anni, una vita felice e piena di senso, e che la morte davvero ingiusta sia quella di un diciannovenne spedito al fronte in Ucraina, senza averlo nemmeno voluto. E le lezioni di dissidenza: in uno degli estratti pubblicati ieri sono riportate le pagine sullo sciopero della fame che ha condotto per ottenere una visita medica, “una forma potente e pericolosa di lotta. Non dovrebbe essere intrapresa se non è assolutamente necessario, e se non si è sicurissimi della propria forza e della validità della causa”. È facile, cioè, che passi in secondo piano la disperazione del prigioniero Navalny, che pensa ai figli - Dasha, 23, e Zakhar, 16 - e si tortura per l’impossibilità di abbracciarli ai loro compleanni. “Che razza di auguri patetici sono quelli fatti per lettera a tuo figlio che compie quattordici anni”, scrive per esempio il 26 marzo 2022, “che razza di memoria gli lasci della vicinanza con te? [...] Non si scelgono i genitori. A qualche bambino capitano avanzi di galera”. E profetizza: “Finirò la vita in prigione e morirò qui. Non ci sarà nessuno a dirmi addio. O i miei cari moriranno mentre sono qui, e non potrò dire addio a loro. Non vedrò mai i miei nipoti. Mancherò da ogni foto”. L’arresto e l’isolamento - Il direttore del New Yorker David Remnick introduce il lungo estratto concesso alla rivista con poche righe: “È impossibile leggere questo diario senza essere oltraggiati dalla tragedia della sofferenza di Aleksei Navalny, e dalla sua morte”. Avvelenato ad agosto 2020 a Tomsk, in Siberia, con un agente nervino; trasportato poi in Germania, dove viene curato per circa cinque mesi, Navalny torna in Russia appena sta in piedi, insieme alla moglie Yulia. Già all’aeroporto di Seremet’evo viene arrestato per non aver rispettato l’obbligo di firma di una precedente condanna sospesa, mentre era in Germania. “Non sono riuscito a fare nel mio Paese nemmeno un passo da uomo libero”, scrive in un altro degli estratti. “mi hanno fermato già prima dei controlli alla frontiera”. Condannato prima a tre anni e mezzo poi a 9, poi ad altri 19, vede sua moglie Yulia per l’ultima volta pochi giorni prima dell’invasione dell’Ucraina. Dopo due anni di detenzione, viene portato in isolamento: il famigerato “Shizo”, che per legge deve durare al massimo due sole settimane e in cui Navalny resta per 295 giorni. Completamente solo fino a che nella cella di fronte viene spostato un detenuto psichiatrico “che urla, ringhia, dà colpi, abbaia”. Per settimane è il tappeto sonoro della sua detenzione. A marzo 2023, il documentario Navalny sulla sua vita merita l’Oscar, e a ritirare la statuetta, proprio come i premi Nobel per la pace assegnati a dissidenti, va la sua famiglia. Meno di un anno dopo, lui non è già più in vita. “L’Urss è durata settant’anni, i regimi di Corea del Nord e Cuba sopravvivono, i prigionieri politici cinesi invecchiano e muoiono in cella”, scrive in una delle pagine più vicine alla fine delle sue memorie. E una delle più amare. “La verità”, scrive, “è che sottovalutiamo la forza delle dittature”. Libri. “Una maschera color del cielo”, sulle tracce di Maria Maddalena di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 13 ottobre 2024 Detenuto da vent’anni in un carcere israeliano per terrorismo, il palestinese Bassem Khandaqji ha scritto un romanzo il cui protagonista, dotato di doppia identità, avvia una ricerca sul personaggio dei Vangeli. Che riguarda anche l’attualità. Nato a Nablus, nella Cisgiordania occupata da Israele, nel 1983, Bassem Khandaqji proviene da una famiglia di profughi palestinesi. Aderente al Fronte popolare per la liberazione della Palestina, è stato arrestato nel 2004 dalle autorità israeliane per avere partecipato alla pianificazione di un attentato suicida che fece tre vittime. Condannato a più ergastoli, Khandaqji si trova in carcere, dove si è laureato e ha cominciato a scrivere. Con “Una maschera color del cielo” ha vinto il Premio internazionale per la narrativa araba 2024. La trama nelle prime pagine appare bizzarra. Ma non scoraggia, piuttosto incuriosisce, e il ritmo agile della scrittura sprona alla lettura. Un archeologo palestinese quarantenne residente in Cisgiordania ha in progetto di scrivere la biografia della Maria Maddalena biblica. Inizialmente pensa di poterne fare una ricerca su standard universitari. Sebbene sia musulmano, la sua formazione è laica, la storia del primo cristianesimo lo affascina. Da archeologo si è specializzato sulla Palestina romana ai tempi della predicazione di Gesù. Ma presto si rende conto di possedere ben poche evidenze scientifiche. Legge i Vangeli apocrifi, s’appassiona alle versioni tramandate in due millenni sul ruolo della Maddalena: meretrice, amante del Cristo, discepola fedele destinata a entrare nel circolo degli apostoli al posto di Giuda, ma poi esclusa dal “maschilismo” di Pietro? S’inoltra nelle diatribe teologiche, rimane personalmente offeso da quelle che definisce le “falsità” contenute nel Codice da Vinci di Dan Brown. Si rende allora conto di stare scivolando nelle elucubrazioni e cambia genere: abbandona il piano iniziale e decide di scrivere un romanzo. La licenza poetica della creatività letteraria gli fornirà il materiale e lo stile per sopperire con la fantasia alla carenza di testi originali, di testimonianze credibili e prove archeologiche. Proprio la svolta nel suo lavoro ci porta al cuore del libro. Con Una maschera color del cielo (Edizioni e/o) il quarantunenne Bassam Khandaqji intende tornare a parlarci dell’esperienza chiave del popolo palestinese dal 1948 a oggi: la Nakba, ovvero la “catastrofe”, l’espulsione forzata e violenta di oltre 700 mila arabi dalle loro case al momento della nascita di Israele. Un tema oggi tornato all’ordine del giorno a causa dei massacri di decine di migliaia di palestinesi per mano delle truppe israeliane nella striscia di Gaza dopo il gravissimo eccidio commesso da Hamas il 7 ottobre 2023. Per lungo tempo, dopo la dichiarazione d’indipendenza dello Stato ebraico nel maggio 1948, la propaganda israeliana ha fatto del suo meglio per occultare i massacri e la cacciata forzosa dei palestinesi, sostenendo che l’esodo era stato una libera scelta della popolazione impaurita o addirittura incoraggiata dai leader arabi a scappare in attesa del ritorno garantito da quella che era prospettata come l’inevitabile sconfitta delle forze ebraiche. Sono poi state le vittorie israeliane a generare l’effetto paradossale del ritorno della memoria della Nakba. La si voleva nascondere sotto il tappeto, ma intanto la narrazione della cacciata palestinese diventava con il trascorrere degli anni sempre più forte e radicata. Il 1967 vide gli arabi israeliani rimasti nei loro villaggi dopo il 1948 ricongiungersi con i fratelli di Cisgiordania e Gaza, da cui erano stati separati con la guerra. Nel 1987 la prima Intifada, la grande rivolta nei territori occupati, portò alla rinascita dell’identità collettiva palestinese contro il molto più forte esercito israeliano, nonostante la crescita del movimento dei coloni ebrei. E adesso gli orrori dei trasferimenti forzati dei gazawi non fanno che perpetuare l’incubo di una Nakba bis, sia nella Striscia che in prospettiva anche in Cisgiordania. Khandaqji soffre tutto sulla sua pelle. Nato nel 1983 a Nablus, ha solo 4 anni allo scoppio della prima Intifada, a 15 entra nel Fronte popolare per la liberazione della Palestina, il movimento marxista-leninista che rifiuta il radicalismo islamico di Hamas, ma ne condivide le strategie di lotta armata. Nel 2004, a soli 21 anni, viene arrestato e condannato a diversi ergastoli con l’accusa di avere partecipato alla preparazione di un attentato sucida che ha causato la morte di tre israeliani. Lo Human Rights Council dell’Onu ha messo in dubbio le prove: ne chiede la liberazione. Israele guarda dall’altra parte: è dal 1967 che i sistemi repressivi dell’occupazione vengono condannati dagli organismi internazionali, ma le conseguenze sono sempre state irrisorie. Lui intanto scrive, non vuole abbrutirsi in carcere, studia per corrispondenza. Questo libro è stato scritto di nascosto in cella e i capitoli sono stati passati segretamente su “pizzini” ad amici e famigliari, che poi li hanno messi assieme e consegnati a un editore libanese, che ha pubblicato la prima versione araba del libro. L’archeologo-scrittore del romanzo ha la sua stessa età e si chiama Nur Mahdi alShahdi. Un palestinese che ha le sembianze di un ebreo askenazita e ha imparato l’ebraico perfettamente. Il dettaglio è fondamentale, perché è proprio nella discriminazione sociale che crescono ingiustizie, disuguaglianze e razzismo. “In questo Paese gli accenti linguistici e i tratti somatici dettano i rapporti umani”, osserva. Grazie al suo aspetto e alla padronanza della lingua ebraica, lui passa inosservato i posti di blocco militari dove i suoi famigliari vengono invece fermati. Nur si bea di questa immunità: non è un traditore, però ama l’illusione di poter vivere la sua pretesa identità ebraica muovendosi liberamente. E la cosa diventa più semplice quando, a una bancarella del mercato dell’usato di Jaffa, compra un cappotto di seconda mano e nel taschino interno trova la carta d’identità di Ur Shapiro, un israeliano residente a Tel Aviv e di età simile alla sua. La fa falsificare da amici specializzati nel modificare i lasciapassare per i pendolari palestinesi della Cisgiordania, che ogni giorno trovano lavori precari nelle aziende israeliane. A questo punto matura il progetto di unirsi a una missione internazionale di ricerca archeologica intenta a scavare sulla piana di Megiddo i resti dell’accampamento della IV Legione romana, proprio dove si ritiene si trovasse il villaggio natale di Maria Maddalena. Il piano gli sembra perfetto: il suo romanzo avrà un lungo capitolo sui villaggi attorno a Megiddo, non lontano dal lago di Tiberiade. Qui Ur e Nur giocano a rimpiattino e si sfidano tra gli scavi. Storia e memoria evidenziano le incompatibilità laceranti delle due identità. La vittoria di Ur comporta l’annullamento di Nur e viceversa. Nel gruppo di archeologi ci sono anche due amori potenziali, ma in lotta tra loro: una collega ebrea di Tel Aviv e un’araba di Haifa. Ur/Nur ascolta con forti sensi di colpa la narrazione sionista della “terra del latte e del miele redenta dal lavoro ebraico”. Sono tutti alloggiati al kibbutz di Mishmar Ha-Emek, nel 1948 uno dei capisaldi da cui partì l’offensiva per scacciare i palestinesi della Galilea. Lui guarda sgomento il monumento eretto subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale alla memoria dei bambini ebrei morti nei campi di sterminio nazisti, che venne danneggiato da una bomba araba: le autorità del kibbutz non hanno mai voluto ripararlo per sottolineare la linea di continuità tra la Shoah e la lotta contro gli arabi. “I sionisti hanno inserito con forza l’Olocausto nella fondazione di Israele. Hanno sionistizzato l’Olocausto”, scrive Khandaqji. Ma il tema più doloroso è rappresentato dalle rovine nascoste dei villaggi palestinesi, che emergono di continuo attorno agli scavi. Si chiamino Lajjun, o Saraa, Magdala, oppure Abu Shusha, il nome cambia poco: nascondono vicende di fucilazioni, fosse comuni, espulsioni di massa senza possibilità di ritorno. Ur ascolta gli archeologi ebrei che usano e abusano la Bibbia per legittimare la loro presenza, ma allo stesso tempo Nur ricorda i racconti della Nakba sofferta dal padre, quando venne scacciato con altre decine di migliaia di civili da Lod, che una volta si chiamava Lydda, e da allora sino alla morte non dimenticò mai la sua piccola locanda nella zona del mercato, dove si diceva servisse il miglior caffè della regione. Di quel tempo, presso la loro catapecchia nel campo profughi in Cisgiordania, resta un piccolo carretto arrugginito che lui già da bambino sapeva di dover guardare con dolore. La memoria gronda nostalgia. Davanti alle foreste piantate a bella posta dai pionieri del kibbutz sulle rovine dei villaggi arabi, la narrazione di Nur s’impone sempre più su quella di Ur. Alla fine, la scelta di stare con la collega araba, nonostante le avances di quella ebrea e i vantaggi offerti dalla carta d’identità israeliana (che comunque sono effimeri, visto che dovrebbe presto fare quella elettronica e il suo falso verrebbe smascherato), diventa l’ovvia prevalenza della sua originaria identità. Le sue riflessioni ricordano Di fronte ai boschi, una short story del 1963 di Abraham Yehoshua, uno dei più noti scrittori israeliani morto nel 2022, che già allora descriveva imbarazzato la scoperta inquietante delle macerie dei villaggi arabi da parte di un giovane ebreo innamorato delle camminate nella natura. Per l’intellettuale-carcerato Khandaqji scrivere è molto più che testimoniare, diventa un atto di resistenza. Possiamo immaginare le sue paure, le inquietudini nell’atto di affidare furtivamente i manoscritti a qualche parente durante i rari momenti di colloquio mensili. Sono ormai tante le generazioni di palestinesi cresciute nelle prigioni israeliane. E scrittori come lui stanno diventando numerosi. Nel libro cita Ghassan Kanafani, nato nel 1936, testimone, vittima-narratore della Nakba e ucciso dal Mossad a Beirut nel 1972. Fu Kanafani a sostenere che il sionismo politico era stato preceduto da quello letterario. Theodor Herzl, prima di predicare la necessità della creazione dello Stato ebraico, già alla fine dell’Ottocento fu giornalista e scrittore. Oggi Khandaqji, dal chiuso della sua cella, sta partecipando alla rifondazione intellettuale del movimento resistenziale palestinese davanti all’incubo di una seconda “catastrofe”. Cinema. “Tehachapi”, anche i ritratti finiscono in carcere di Maria Egizia Fiaschetti Corriere della Sera, 13 ottobre 2024 JR porta il suo lavoro in un penitenziario della California dove i detenuti sono soprattutto latinos, neri e suprematisti bianchi. “Ma in una gabbia si può cambiare”. Il film è a Napoli. Si interroga sul potere dell’arte come agente di cambiamento il documentario “Tehachapi” del francese JR, 41 anni, che con i suoi collage su scala ambientale realizzati in contesti conflittuali e marginalizzati, dal muro al confine tra Messico e Stati Uniti alla striscia di Gaza, è riuscito a mantenere intatta la funzione pubblica dei graffiti nella babele visiva contemporanea. Il film, che il 16 ottobre sarà presentato al Teatro San Carlo di Napoli nell’ambito del Festival Artecinema, è una sorta di “messaggio in bottiglia” che racchiude una domanda: “Può un pezzo di carta trasformare la realtà?”. La risposta è nelle sequenze girate all’interno del carcere di massima sicurezza di Tehachapi, tra i più violenti della California, dove i detenuti sono quasi tutti latinos, afroamericani e bianchi suprematisti. Prima di confrontarsi con l’amministrazione americana, JR ha provato a sviluppare l’idea nel suo Paese ma non è stato possibile: “Quando ho contattato il governatore della California - racconta - non aveva la minima idea di chi fossi, poi si è ricordato di aver partecipato a un mio lavoro a San Francisco e in tre giorni ho ottenuto il permesso. Ho cercato su Google Earth e ho trovato quello di cui avevo bisogno: un cortile di cemento”. Il piazzale utilizzato come campo da basket ha accolto il maxi poster con i ritratti fotografici dei detenuti che guardano verso l’alto alla ricerca di un contatto con il mondo esterno. Qual è stato l’aspetto più difficile di lavorare nella prigione di Tehachapi, non soltanto sul piano logistico ma anche per la durezza delle storie che ha ascoltato? “Non credevo che mi avrebbero autorizzato, forse il sistema carcerario americano non era preparato a un progetto del genere. Magari pensavano: “Ha il permesso, proporrà delle attività, gli servirà questo o quello...”. Non gli ho lasciato il tempo di capire le grandi cose che avremmo fatto ed è stato meglio così, se avessi dovuto spiegare il processo sarebbe stato più complicato. Il problema principale non è stato avere il permesso, ma la realtà della prigione: a volte è capitato che non siamo potuti entrare perché era morto un detenuto o c’erano forti tensioni, allora mi sono reso conto che al di là della zona di sicurezza dove ci era consentito lavorare era il caos e quanto fosse difficile per l’amministrazione gestire la nostra presenza”. Nel documentario lei mostra le celle di isolamento simili a gabbie dove alcuni detenuti sono stati reclusi anche per lunghi periodi... “Avevo visto celle simili soltanto nei film americani: pensavo fossero una finzione, che esistessero a Cuba e Guantánamo... Mi ha fatto uno strano effetto trovarle al centro della California, vicino a Los Angeles. Sono rimasto colpito anche dal fatto che molti siano entrati a Tehachapi quando avevano 15 o 16 anni: da ragazzo mi è capitato di commettere errori e non oso immaginare come sarebbe stata la mia vita se fossi finito in galera. Nel gruppo con cui ho collaborato ho conosciuto persone condannate per la legge dei “tre strike” per cui al terzo reato, anche minore, come il furto di un telefonino o una rissa, ti sbattono dietro le sbarre e ti becchi l’ergastolo pur non avendo ucciso nessuno. In questo contesto l’aspetto per me più interessante è come si possa cambiare chiusi dentro una gabbia, la prigione reale e quella che ognuno di noi ha in testa. Durante il progetto ho toccato con mano il cambiamento, ma il punto è chi può vederlo se sei al livello quattro di massima sicurezza e non hai contatti neppure con le guardie. In una situazione del genere se cambi lo fai soltanto per te stesso e il documentario ha voluto fare luce proprio su questo: renderlo visibile all’amministrazione, alle famiglie, alla gente là fuori anche attraverso l’app interattiva che abbiamo creato”. In Italia si continua a discutere dei limiti del sistema carcerario, non soltanto di quello minorile, anche a fronte dei 62 suicidi registrati quest’anno, 20 in più rispetto al 2023: qual è la sua visione dopo avere sperimentato la crudezza di un posto come Tehachapi? “Non sono un esperto, posso parlare della mia esperienza. Quando sono arrivato a Tehachapi non sapevo che esistesse un posto così, forse la mia naïveté mi ha permesso di essere più leggero, senza sovrastrutture. Non ho la risposta, io utilizzo l’arte per costruire ponti. Ci avevo provato in Francia ma non ci sono riuscito, è strano che un progetto così folle sia stato realizzato negli Stati Uniti dove la legge è più dura ma un governatore ti dice: “Fai quello che vuoi”“. Le riprese sono iniziate nel 2019, pochi mesi prima che la pandemia costringesse il mondo all’isolamento: il Covid ha influito sul progetto? sebbene io sia abituato a lavorare in situazioni di emergenza. Per fortuna ho iniziato il lavoro prima che scoppiasse la pandemia, poi quando non si poteva viaggiare sono rimasto in contatto con alcuni detenuti. Ho capito che lì era tutto più complesso, quanto fosse difficile bloccare la diffusione del contagio in quelle condizioni. Al mio ritorno, un anno e mezzo d’opo, ho trovato un’energia pazzesca e la disponibilità dell’amministrazione carceraria a valutare nuove proposte. Nel frattempo, le storie hanno continuato a diffondersi grazie all’app”. Con Kevin, uno dei protagonisti del documentario che da ragazzo si è tatuato una svastica sulla guancia, è nata un’amicizia: lei era ad aspettarlo fuori dal carcere il giorno in cui è tornato in libertà... “Sì, è anche venuto in Francia per l’anteprima del film e ha dormito nella mia casa di New York. Abbiamo viaggiato insieme sul Tgv (il treno ad alta velocità, ndr) e mi ha accompagnato a prendere mio figlio all’uscita di scuola... Lo so, sembra incredibile”. Una delle scene più emozionanti del film è quando Kevin va a farsi rimuovere con il laser il simbolo nazista... “È stata una sorpresa anche per me scoprire che la dottoressa che lo ha sottoposto al trattamento fosse ebrea. Non sono uno che prepara troppo i lavori, mi lascio guidare dall’istinto. Quando comincio un progetto incrocio spesso persone che sembra siano arrivate con una naturalezza e un tempismo perfetti per dare il loro contributo: anche grazie a questi incontri ho compreso il potere dell’arte”. Lei interviene da sempre in contesti di fragilità sociale o ad alto tasso di conflittualità: perché, da artista, ha scelto di lavorare in situazioni difficili? “Perché sono cresciuto in un ambiente simile. Quando sperimenti l’impatto dell’arte sulla società non riesci più a tornare indietro, diventa un’ossessione. Io non sono un’organizzazione umanitaria e con l’arte c’è sempre la possibilità di fallire: provo a realizzare un progetto in un carcere e magari non succede nulla, ma se si innesca il cambiamento allora mi appassiona capire quale sia stato il motore e in che modo l’arte abbia influito”. A qualcuno piace giocare con la paura di Loredana Lipperini L’Espresso, 13 ottobre 2024 Mentre le denunce diminuiscono, il Governo fomenta il terrore di molti italiani di subire reati. Che poi la paura non sia quella di venir aggrediti o uccisi, ma di perdere uno status sociale, come notava anni fa la psicologa Chiara Volpato, poco conta: l’importante è che si continui a essere terrorizzati, magari dai fantasmi, e si esulti quando il Governo in carica risponde da par suo. Sembrerà strano, ma a volte rivolgersi all’operetta aiuta: “La danza delle libellule” debutta nel 1922, su musica di Franz Lehár e libretto di Carlo Lombardo. La trama è un gran pasticcio che vede la vedova Cliquot corteggiata da un riccone, Piper, che vuole stupirla mettendo in scena una commedia. I colpi di scena e gli intrighi sono abbastanza simili al caso Boccia-Sangiuliano, quindi non ci interessano: quel che è interessante, invece, è che già oltre cento anni fa ci si dilettava nella rappresentazione del crimine a uso e consumo dei privilegiati, e dunque i nobili invitati si divertono a travestirsi da malavitosi di allora, gigolettes e apaches, canticchiando “In loschi tabarin/danziamo al ritmo del bicchier”. Non è cambiato moltissimo, in termini di rappresentazioni che non corrispondono alla realtà, se si pensa alla raffica di reati previsti dal ddl Sicurezza: oltre a quelli già citati, come ricordava Adriano Sofri su Facebook in una lettera a Paolo Del Debbio, viene trasformata da illecito amministrativo in reato la “disobbedienza passiva” a un ordine della polizia penitenziaria da parte di tre o più detenuti, “puniti con la reclusione da uno a cinque anni”, e, “se promotori”, “da due a otto anni”. Un capolavoro. Ora, se si prende in mano il rapporto Censis del 2022, si vedrà che avevamo allora (e abbiamo ancora oggi) un problema di paura: il 51,7% degli italiani teme di rimanere vittima di reati, nonostante nell’ultimo decennio il numero delle denunce sia diminuito del 25,4%; gli omicidi volontari calano del 42% (i femminicidi restano sempre stabili, invece), le rapine e i furti in casa del 48%. Eppure, questo governo agisce proprio sul terrore degli italiani; un paio di anni fa, la presidente del Consiglio rispondeva alle non poche polemiche relative al decreto Anti-rave e Anti-tutto con queste parole: “È una norma che rivendico e di cui vado fiera perché l’Italia, dopo anni di governi che hanno chinato la testa di fronte all’illegalità, non sarà più maglia nera in tema di sicurezza”. Qualche tempo fa, inoltre, l’ineffabile Luca Ricolfi contestava il ddl Zan scrivendo sulla Ragione che si può condannare l’odio, ma non la paura: “Perseguire xenofobia, omofobia e transfobia equivale a sostenere che la gente non abbia il diritto di manifestare sentimenti di paura verso determinate categorie di persone”. Giuro che l’ha scritto davvero. Che poi la paura non sia quella di venir aggrediti o uccisi, ma di perdere uno status sociale, come notava anni fa la psicologa Chiara Volpato, poco conta: l’importante è che si continui a essere terrorizzati, magari dai fantasmi, e si esulti quando il governo in carica risponde da par suo. Recentemente, infatti, la commissione Cultura, Scienza e Istruzione ha approvato una risoluzione presentata dalla Lega, firmata da tutta la maggioranza, che si oppone alla “propaganda gender” nelle scuole. Il primo firmatario Rossano Sasso ha motivato la risoluzione dicendo che le drag queen non devono entrare nelle aule delle elementari. Perciò, la cosa preziosa di oggi è “Chi ha paura del gender?” di Judith Butler (Laterza, traduzione di Federico Zappino). L’onorevole Sasso non lo leggerà, ma chi può lo faccia: perché la filosofa ribatte punto su punto a chi vorrebbe, con il pretesto del gender, “neutralizzare le conquiste giuridiche e sociali” che ci hanno permesso di vivere un po’ meglio. E con meno paura, nei fatti. Cortei, blocchi e azioni contro il “Ddl Ungheria”. “Fermiamo il governo” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 13 ottobre 2024 Movimenti Adesioni da tutt’Italia alla giornata di mobilitazioni territoriali La campagna intreccia vertenze e lotte. Verso il corteo nazionale. La giornata No Ddl Sicurezza è cominciata con un bel blocco stradale, una di quelle proteste che il provvedimento vorrebbe reprimere con forza. I manifestanti si sono ritrovati a Roma, sull’arteria di via Cristoforo Colombo. Poi hanno raggiunto il ministero dell’ambiente e hanno lanciato sulla facciata della vernice lavabile (altro reato gravissimo per i tutori dell’ordine al governo). “Attiviste e attiviste, alcuni con maschere animali, hanno dato un primo segnale di opposizione al ‘decreto Ungheria’ - hanno spiegato dal megafono - altre azioni seguiranno a Roma e nel paese fino a che non verrà fermato il disegno di legge”. Nel frattempo l’Anpi nazionale, che ha aderito alla giornata di mobilitazioni diffuse, divulgava il proprio appello contro il Ddl 1660, attualmente in discussione in senato. “Occorre impedire che sia approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza, che è contrario allo spirito, e in alcuni punti anche alla lettera, della nostra Costituzione antifascista - dicono dall’Anpi - Lanciamo un appello all’avvocatura, ai giuristi, agli operatori del diritto e della sicurezza, a tutte le forze politiche, a quelle dell’opposizione, ma anche a quelle della maggioranza che dicono di ispirarsi ai principi della democrazia liberale, affinché tale legge sia respinta”. Sempre in mattinata, altra protesta e altra fattispecie aggravante secondo le norme proposte dalla destra: veniva occupata simbolicamente la Casa del passeggero, storica struttura a due passi dalla stazione Termini. “Il tuo BNB, il nostro sfratto. E se protestiamo andiamo in carcere”, c’era scritto nello striscione esposto dal Social forum dell’abitare. Che denuncia: “Questo posto sta per essere venduto per realizzare appartamenti o case vacanze di lusso per turisti che se lo potranno permettere”. Il Ddl minaccia un giro di vite anche contro chi cerca di opporsi alle grandi opere, ed ecco che qualche ora dopo ad Albano, nei Castelli romani, scendevano in strada i comitati che si battono contro l’inceneritore. Nel pomeriggio a Milano e Bologna centinaia di persone hanno partecipato a cortei. Nel capoluogo lombardo lo striscione rilanciava uno degli slogan della campagna: “Se voi fate il fascismo noi facciamo la Resistenza”. I manifestanti, diretti in zona Bicocca, sono partiti da piazza Belloveso: “Milano è la città di chi lavora e studia, degli immigrati, di chi ha stipendi da fame rispetto ad affitti abnormi - hanno spiegato - Ma chi la vive è sotto attacco, sono sotto attacco gli spazi sociali e chi pratica autogestione”. Sotto le due torri l’apertura del corteo portava la scritta: “A pieno regime. No al Ddl sicurezza”. Azioni e volantinaggi anche a Salerno, Reggio Emilia, Parma e Verona. A nord-est si lavora a un corteo regionale per il prossimo 26 ottobre, ma già sabato prossimo a Roma è prevista una manifestazione nazionale cui sta lavorando la Rete liberi di lottare, composta dai movimenti per il diritto all’abitare a sindacalismo di base. L’impressione è che di fronte all’allarme ci sia un processo di ricomposizione in nome del fronte comune del No al Ddl. Si muovono anche i partiti. Un gruppo di attivisti radicali dell’associazione Adelaide Aglietta ha dato vita a un sit-in in via Garibaldi, nel centro storico di Torino. “Il primo fuorilegge è lo stato che ha stipato 62 mila detenuti dove potrebbero starcene meno di 50 mila - hanno dichiarato - Uno stato che viola i diritti dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria oggi vuole inserire un nuovo reato per chi attua la resistenza passiva in carcere”. Infine, la segretaria del Pd Elly Schlein ha ribadito l’impegno a contrastare il Ddl “che contiene norme che vanno oltre il codice Rocco. Sono norme sbagliate, securitarie e che restringono gli spazi di dissenso”. Piantedosi: “Dico no ai tagli sulla sicurezza” di Francesco Olivo La Stampa, 13 ottobre 2024 Il ministro dell’Interno: “Migranti, rafforzare il sistema di espulsioni. Ma da alcuni giudici resistenza ideologica”. Ministro Piantedosi, il suo collega Giancarlo Giorgetti protesta: bisogna trovare i fondi per la manovra, i ministeri non tagliano a sufficienza e in mancanza di proposte toccherà a lui intervenire. Si sente chiamato in causa? “Facciamo mestieri diversi. Lui deve dare attenzione alla tenuta dei conti ed è molto bravo a farlo. Io devo garantire la sicurezza dei cittadini mantenendo efficiente un complesso e articolato apparato. In anni trascorsi, con governi precedenti, avere considerato la macchina della sicurezza un fattore di costo e non di investimento si è rivelato una scelta sbagliata, non priva di effetti che ancora adesso fatichiamo ad invertire. Il governo Meloni ha dedicato importanti risorse a tutto il comparto. I cittadini lo hanno capito e gli hanno confermato ampio sostegno alle recenti elezioni europee”. Forza Italia insiste e chiede l’introduzione dello Ius Scholae, Lega e FdI sono contrari. Cambiare le norme sulla cittadinanza non verrebbe incontro a una società di fatto già cambiata? “È legittimo valutare di fare un tagliando alla legge sulla cittadinanza che è vecchia di decenni. Questo vale per ogni legge. Detto questo, rifiuto la narrazione di un Paese arroccato e chiuso sul tema, visto che siamo lo Stato che riconosce il numero maggiore di nuove cittadinanze a livello europeo. E questo sia in termini assoluti che, soprattutto, in relazione alla popolazione residente. Il 40% vengono concesse a ragazzi sotto i venti anni. Sarà pertanto difficile che eventuali interventi possano accentuare ancor di più questa nostra maggior disponibilità rispetto ai partner europei. Né il dibattito in corso deve rappresentare un incentivo alle partenze irregolari dei migranti, gestite dai trafficanti, che potrebbero illusoriamente pensare all’inizio di una stagione di porte aperte a tutti”. Sempre Forza Italia sottolinea come ci siano troppe concessioni di cittadinanza a italiani di terza e quarta generazione. Non è un’anomalia da affrontare? “Concordo con questa osservazione che è suffragata dai numeri. La cittadinanza deve rappresentare il completamento di un percorso di reale integrazione. Non può essere semplicemente un passaporto conservato in un cassetto”. I centri in Albania sono pronti? Quando arriveranno i primi migranti? “Sono pronti e già la prossima settimana potranno iniziare a ospitare gli immigrati irregolari che dovessero partire dal nord Africa”. Il tribunale di Palermo ha respinto il 90% delle richieste di trattenimento dei migranti. Il decreto Cutro è inapplicabile o credete ci sia ostilità da parte della magistratura? “Non commento mai i pronunciamenti dei giudici al di fuori degli atti ufficiali, ma sicuramente emerge una tendenza della magistratura di settore su posizioni che non condividiamo proprio in punto di diritto. Le espulsioni di coloro che non hanno diritto si fanno in tutta Europa, e l’Europa stessa si è data l’obiettivo di rafforzare il sistema delle espulsioni. C’è in Europa chi comincia a pensare che sia proprio questo il settore in cui dovrà specializzarsi Frontex, l’Agenzia europea per le frontiere. In Italia abbiamo anticipato la realizzazione di un sistema e l’applicazione di regole che diventeranno diritto europeo, obbligatorio, a partire dal 2026”. Queste sentenze non rappresentano un problema? “Ogni resistenza ideologica è destinata ad essere travolta dalla partecipazione all’ordinamento europeo spesso sbandierata proprio da coloro che adesso ci criticano. Sia chiaro che non ci faremo scoraggiare da queste decisioni di alcuni tribunali e contiamo di affermare le nostre ragioni con iniziative tutte interne allo stesso sistema giudiziario, impugnandole e portandole al giudizio delle massime giurisdizioni del nostro Paese”. Matteo Salvini ha accusato i pm del processo Open Arms e lei lo ha difeso pubblicamente. A pochi giorni dalla sentenza di primo grado, queste polemiche non rappresentano una interferenza politica? “Non si tratta di difendere Salvini, che è in grado di farlo benissimo da solo. Il vero cortocircuito istituzionale si è verificato quando è stata consegnata alla giurisdizione penale la linea politica, criticabile o meno, legittimamente espressa da un governo. Non è un’accusa alla magistratura, che fa il suo lavoro in base a quello che le è stato consegnato da gruppi parlamentari dell’epoca che, peraltro, in analoghi casi precedenti si erano determinati in senso contrario”. Il Viminale ha tagliato i fondi alle associazioni di ex deportati e di perseguitati del fascismo in nome di una norma che lega il finanziamento al numero di iscritti. Correggerete questo automatismo? “La risposta è nell’automatismo che lei stesso ha evidenziato, imposto da regole vigenti che non abbiamo varato noi. Da parte del Governo non c’è alcuna intenzione di indebolire l’esercizio della memoria su pagine importantissime della nostra storia. Proprio grazie a una mia iniziativa quest’anno è stata concessa a una delle associazioni interessate la Medaglia d’oro al merito civile, dopo tanti anni che era stata dimenticata da governi precedenti. Garantiremo comunque sempre un adeguato sostegno a tutte le realtà che operano in tale ambito”. Il caso dei dossieraggi la preoccupa? Si tratta di qualche mela marcia o crede ci sia qualcosa di più inquietante? “La risposta a questa domanda la daranno le autorità giudiziarie che stanno svolgendo i necessari approfondimenti. Certo è inquietante che ci fosse un così sistematico voyeurismo finalizzato a possibili dossieraggi, che ha riguardato soprattutto persone espressione di specifiche parti politiche. È molto importante che si faccia chiarezza e so che si sta lavorando in questa direzione”. Giuristi e opposizioni accusano il governo di limitare il diritto di manifestare con il ddl sicurezza passato alla Camera. Un allarme giustificato? “Nulla di più falso. Non c’è alcuna compressione del diritto a manifestare per come è garantito dalla nostra Costituzione. Con l’intervento normativo recentemente approvato da un ramo del Parlamento si è voluto semplicemente meglio tutelare i diritti delle persone più vulnerabili, quelle che la mattina escono di casa per andare a lavorare, per andare a scuola o che talvolta devono fare urgente ricorso a cure mediche e che vedono questi diritti impediti talvolta da iniziative estemporanee e improvvisate”. Centri per migranti in Albania. Piantedosi: “Deterrente agli sbarchi”. Tutti i dubbi sui costi di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 13 ottobre 2024 L’annuncio del numero uno del Viminale: “Apriranno la prossima settimana”. Budget di 653 milioni ma molti costi sarebbero stati evitati se i migranti fossero stati accolti in Italia. I lavori nella struttura per la gestione dei migranti di Gjader prevista dal protocollo siglato tra Roma e Tirana sono ancora in corso. Uno dei centri, nel porto di Shengjin sulla costa adriatica dell’Albania, è pronto da più di un mese ma l’altro, a circa 24 chilometri a est, vicino all’ex aeroporto militare di Gjader, è ancora lontano dall’essere terminato. Una sede sarà dedicata al riconoscimento dei migranti, l’altra alla loro permanenza. L’accordo prevede la destinazione nelle strutture albanesi solo dei migranti soccorsi in acque internazionali da navi italiane, escluse le donne, i bambini e le categorie vulnerabili. Il numero di migranti presenti contemporaneamente in territorio albanese non potrà essere superiore a tremila. L’ambasciatore Bucci ha spiegato che il primo ritardo è dovuto al terreno friabile del campo di Gjader, che necessitava di un intervento di consolidamento. Inoltre, l’ondata di caldo di luglio ha costretto le autorità a imporre una pausa nelle ore più calde della giornata. Le prove di un’intensa attività di costruzione erano evidenti all’esterno delle strutture, con due escavatori e un’alta gru in azione per spostare enormi tubi e preparare l’installazione di una recinzione perimetrale intorno al sito di circa 20 ettari. Gli edifici in container che forniranno alloggi ai residenti del campo sono già stati installati, ma all’ingresso principale sono ancora presenti pile di pannelli e telai per costruire altre unità abitative. Il capo del vicino villaggio di Gjader e i residenti locali hanno dichiarato che i lavori al centro sono tutt’altro che conclusi. Il momento dell’apertura dei centri per i migranti in Albania sembra finalmente arrivato. Il via arriverà questa settimana, secondo quanto dichiarato oggi dal ministro degli interni Matteo Piantedosi: “Contiamo di partire già dalla prossima settimana, poi speriamo di no: perché significherebbe non aver bisogno di portare lì delle persone. Tutto dipende da ciò che accade nel Mediterraneo e dalle attività dei trafficanti” ha detto il numero uno del Viminale nel corso della Festa Foglio a Firenze. “Noi siamo pronti dalla prossima settimana - conferma Piantedosi - non ci sarà nessuna cerimonia di apertura, ci andrò se necessario per ricognizione. Né ci sarà alcun taglio di filo spinato: i centri che stiamo realizzando in Albania sono analoghi a quelli realizzati sul territorio nazionale, sono di contenimento leggero, non sono Cpr. Se il sistema manifesterà tempi rapidi, per sapere se le persone sono ammissibili di protezione internazionale o meno, e quindi da espellere e da riportare indietro, ci sarà sicuramente un fattore di deterrenza” conclude il ministro. In effetti i dubbi sull’efficacia di “esternalizzare” un centro per trattenere i migranti non si sono dissolti in questi mesi. Le strutture - nate in seguito a un protocollo tra Giorgia Meloni e il capo del governo di Tirana Edi Rama - sono due: un centro di prima accoglienza a Shengjin e uno di trattenimento ed espulsione a Gjader. La previsione era di aprirle a maggio ma il termine è via via slittato fino a oggi. Hanno una capienza complessiva di 3.000 persone e il governo pensa di far transitare dall’Albania fino a 36.000 migranti l’anno. I cancelli si apriranno per richiedenti asilo soccorsi da navi militari italiane e provenienti da Paesi considerati “sicuri” (la lista del Viminale ne elenca 22); saranno escluse alcune categorie tra cui minori e donne. Le perplessità maggiori si addensano sui costi dell’operazione. I conti presentati dal governo indicano una spesa nell’arco di 5 anni di 653 milioni ma la gestione in sè per sè delle due strutture si aggira attorno ai 30 milioni. A cosa serve il resto del budget? La relazione tecnica specifica che 252 milioni serviranno a pagare le indennità di trasferta al personale italiano che lavorerà nelle due basi; altri 95 per il noleggio delle navi destinate a fare le spola tra Italia e Albania e ancora 94 per servizi di vigilanza esterna. Tutti costi che non sarebbero esistiti nel caso in cui i migranti fossero stati fatti sbarcare in Italia. Quale dunque il vantaggio di investire tutti questi soldi? Come le parole di Piantedosi hanno sottolineato anche oggi si punta a scoraggiare gli arrivi in Italia; specialmente se - come promesso - le procedure di esame delle domande di asilo non supereranno le quattro settimane, al termine delle quali il migrante verrà rimandato nel Paese di origine. Il modello proposto da Giorgia Meloni ha inoltre incassato l’apprezzamento di altri governi, tra cui quello del premier laburista inglese Keir Starmer. Ma - come ha fatto notare ad esempio Matteo Villa, dell’Ispi, esperto di politiche migratorie, non è mai successo che l’iter per l’esame delle domande sia stato completato entro le quattro settimane. Risultato: i richiedenti asilo, non potendo essere lasciati liberi in Albania, rischiano di dover essere riportati in Italia, vanificando in questo modo lo sforzo compiuto (“Ogni migrante costerà il quadruplo” scrive Villa su Twitter). In più c’è anche un nodo giuridico irrisolto che potrebbe compromettere il buon esito del protocollo: l’elenco dei Paesi “sicuri” a cui rimandare i migranti potrebbe restringersi di molto. La Corte europea di giustizia poche settimane fa ha decretato che per rispondere a questo requisito un Paese deve garantire i diritti di ogni categoria di persone, senza eccezioni. Una condizione non soddisfatta da molti dei territori che l’Italia considera “sicuri”. Punizione, non accoglienza. Quel che non funzionerà dei Centri per migranti in Albania di Maurizio Ambrosini Avvenire, 13 ottobre 2024 Il Governo non ha esitato a parlare di una misura di deterrenza nei confronti dei potenziali partenti e questo spargerà paura tra i richiedenti asilo. Senza contare i problemi organizzativi annunciati. Il Governo Meloni ha annunciato l’imminente apertura dei due centri per il trattamento dei richiedenti asilo in Albania. Dopo vari annunci e rinvii (i centri dovevano aprire il 20 maggio) forse questa volta ci riuscirà davvero. Per raggiungere l’obiettivo, ha fatto ricorso alle procedure d’urgenza che saltano vincoli e garanzie delle normali gare d’appalto. I centri saranno due: uno al porto di Schengjin, destinato all’identificazione e alle procedure d’ingresso, con una capienza di 200 posti. Tre milioni di euro il costo di realizzazione, più 200.000 per gli allacci nel solo 2024. L’altro, a Gjader, comprende una struttura per il trattenimento di richiedenti asilo (880 posti), un Cpr (144 posti) e un penitenziario (20 posti). Altri milioni di euro spesi. Ingenti i costi di gestione previsti: 800 milioni di euro da qui al 2028 (Il Sole-24 Ore), tutti a carico dell’Italia, ma con ricadute occupazionali ed economiche al di fuori del nostro paese. Per giustificare la controversa iniziativa, il governo ha fatto ricorso a un doppio linguaggio: di fronte alle istituzioni di garanzia e nei consessi europei e internazionali, ha parlato di una soluzione volta ad accrescere la capacità d’accoglienza e di esame delle domande. Di fronte all’opinione pubblica interna e ai propri sostenitori, non ha esitato invece a parlare di una misura di deterrenza nei confronti dei potenziali partenti. Il fatto - pure sbandierato - che nei due centri verranno trattenuti soltanto uomini adulti non fragili, tratti in salvo da navi militari e provenienti da Paesi classificati come sicuri, conferma l’intenzione punitiva del progetto, e dunque l’obiettivo di spargere paura tra i candidati all’asilo. Non per caso, l’ispirazione è venuta dal progetto britannico di deportazione in Ruanda dei migranti sbarcati dal mare. Gli interrogativi riguardano sia il livello pratico-operativo, sia quello dei principi. Anzitutto, il piano governativo si concentra su una parte dei richiedenti asilo: 39.000 casi all’anno, contro 52.425 sbarcati all’11 ottobre, pur calati rispetto allo scorso anno. Ma il calcolo si basa sull’ipotesi di trattare le domande in quattro settimane, grazie a una procedura accelerata, mentre oggi serve mediamente più di un anno, spesso due. Già si prevedono collegamenti online con Roma e altre forzature procedurali, che non sfuggiranno al vaglio della magistratura. Per accelerare i tempi, si comprimono i diritti dei richiedenti, lasciando loro pochissimo tempo per prepararsi all’audizione, raccogliere la documentazione utile a suffragare la loro richiesta, fare appello alla giustizia in caso di diniego. Quanto all’elenco dei Paesi sicuri, basti ricordare che la lista italiana è stata recentemente allargata a 22 Paesi, tra cui Egitto, Tunisia, Nigeria, contro nove soltanto della Germania. Casi dunque assai dubbi, “sbiancati” a priori per poter accrescere i dinieghi dell’asilo: non i rimpatri, molto più complicati e costosi. Non è chiaro poi che cosa succederà ai richiedenti la cui domanda verrà respinta. Data la scarsa capacità delle autorità italiane di realizzare i rimpatri, non sembra né giusto né realistico pensare a un rilascio in Albania, a cui peraltro il presidente Rama si è già risolutamente opposto. Si potrebbe configurare l’esito paradossale di un trasferimento in Italia dei richiedenti diniegati. Al cospetto di un mondo in cui le crisi umanitarie si moltiplicano, la risposta è quella di una restrizione di umanità: impedimenti ai salvataggi delle Ong, quasi abolizione della protezione speciale, fondi e appoggi ai governi autoritari della sponda Sud del Mediterraneo per ingaggiarli nel contrasto dei transiti, contrazione della protezione dei minori non accompagnati. Ora anche i trasferimenti in Albania. Può darsi che l’Ue di oggi sia più disponibile a tollerare queste misure, ma ma la mobilitazione delle coscienze, già così viva in tante iniziative di solidarietà dal basso, è chiamata a rispondere con l’affermazione e il sostegno dell’accoglienza. Il magistrato: “L’Europa ridefinisce i Paesi sicuri per i migranti. Trattenerli ora è più difficile” di Alessia Candito La Repubblica, 13 ottobre 2024 Intervista a Francesco Micela, presidente di sezione al Tribunale di Palermo: “Dall’ultima direttiva del 2013 si può definire un territorio come non pericoloso solo se lo è in modo generale e uniforme. L’abbiamo già applicata”. Dalla sua sezione del tribunale di Palermo sono passati i casi dei migranti trattenuti nel centro che il Viminale qualche mese fa ha aperto in fretta e furia a Porto Empedocle. Ed è uno dei primi distretti in cui la sentenza della Corte di Giustizia Europea che ridefinisce i criteri per identificare un Paese come sicuro sia stata applicata. “Prima - spiega il presidente Francesco Micela - Palermo procedeva a un esame caso per caso, seguendo i principi comunitari secondo cui il trattenimento si può disporre soltanto in circostanze eccezionali e quando altre misure alternative sarebbero inutili. Adesso è venuto meno uno dei presupposti generali che legittima il trattenimento alla frontiera per la Tunisia, come per molti Paesi”. In dettaglio, cosa prevede la sentenza? “Mentre in passato gli Stati potevano designare come sicuri anche Paesi nei quali vi fossero eccezioni per alcune zone del territorio o categorie di persone, a partire dall’ultima direttiva del 2013 è possibile definire un territorio sicuro solo se lo è in modo “generale e uniforme”. In più, obbliga i giudici a verificare se al riguardo vi sia stata una violazione delle norme comunitarie nel proprio ordinamento”. A Palermo ha avuto già applicazione? “Abbiamo osservato che per la Tunisia, inserita nella lista dei Paesi sicuri, è la stessa scheda Paese a segnalare che tale non è per una categoria di persone: per i rapporti omosessuali consensuali è prevista una sanzione di tre anni di carcere”. I trattenimenti diventeranno più difficili? “Per i giudici questa sentenza non è solo un precedente, è formalmente vincolante perché la Corte di Giustizia Europea ha proprio il compito di assicurare l’osservanza del diritto comunitario. Nella decisione che abbiamo preso non è stato esercitato alcuno spazio di discrezionalità, non ci siamo sostituiti noi al governo nel giudicare se la Tunisia è o meno un Paese sicuro, abbiamo solo verificato, come ci impone la Corte, se vi fosse stata una violazione delle regole comunitarie”. Russia. Viktoria Roschina, quando morire non è abbastanza di Anna Zafesova La Stampa, 13 ottobre 2024 “Un colpo terribile”, dice Volodymyr Zelensky mentre incontra Papa Francesco, “una notizia sconvolgente”, secondo la diplomazia dell’Unione Europea, un “crimine di guerra” come viene qualificato dalla magistratura di Kyiv. La notizia della morte della giornalista ucraina Viktoria Roschina in un carcere russo, a 27 anni, è arrivata proprio mentre la sua famiglia aspettava di poterla riabbracciare: dopo lunghe trattative, era stata inclusa nella lista dei prigionieri da scambiare tra Russia e Ucraina. Invece, dopo lunghi silenzi, le autorità penitenziarie russe hanno infine comunicato al padre della cronista, Volodymyr Roschin, che sua figlia è deceduta, in circostanze e per cause sconosciute, mentre veniva trasferita dal carcere di Taganrog, nel Sud della Russia, in una prigione moscovita. Una fine terribile per una reporter diventata famosa per le sue inchieste scomode: aveva indagato la strage sul Maidan durante la rivoluzione in piazza del 2014, ed era andata più volte nei territori occupati dai russi per raccontare i crimini contro la popolazione civile. Cronista della tv Hromadske e della Ukrainskaya Pravda, Roschina aveva iniziato a fare la giornalista a 16 anni e veniva descritta dai colleghi come molto coraggiosa e determinata. Era già finita nelle mani dei militari russi nel 2022, mentre cercava di entrare nella Mariupol assediata dalle truppe di Mosca, ed era stata rilasciata dopo qualche giorno di prigionia, costretta a girare un video in cui ringraziava i militari di Putin per “averla salvata”. Nonostante questa esperienza, portare la testimonianza degli ucraini rimasti sotto l’occupazione russa era diventata la sua missione: si era infiltrata nei territori occupati ed è proprio lì che era sparita, il 3 agosto 2023. Le autorità russe avrebbero ammesso di averla arrestata soltanto nel maggio 2024, ed era stata inserita ufficialmente nella lista dei prigionieri della Croce Rossa internazionale. Il 28 agosto scorso Volodymyr Roschin aveva chiesto ufficialmente ai russi notizie di sua figlia, e giovedì scorso ha ricevuto una mail (datata 2 ottobre) nella quale gli veniva comunicato che era deceduta il 19 settembre. Difficile immaginarsi una causa “naturale” di questa morte: il 6 ottobre Victoria avrebbe dovuto compiere appena 28 anni. Ma il carcere giudiziario numero 2 di Taganrog, dove era rinchiusa da più di cinque mesi, è celebre come “l’inferno in terra”, dice Tetyana Katrychenko della ong ucraina “Media per i diritti umani”. È uno dei penitenziari dove vengono tenuti i prigionieri ucraini, civili e militari, e gli ex detenuti che ci sono passati raccontano di “torture terribili per costringerli a confessare crimini che non hanno commesso”. Manganelli, martelli e scosse elettriche sono gli strumenti utilizzati contro i prigionieri, insieme alla denutrizione e alle umiliazioni, come testimoniato da decine di uomini e donne ucraini che vi sono passati. Un carcere talmente pesante che perfino le autorità russe hanno deciso di sostituirne la direzione, dopo la morte di diversi detenuti. Prima, Viktoria era stata incarcerata nella prigione di Berdyansk, nei territori ucraini sotto occupazione russa, un altro penitenziario noto per torture e maltrattamenti degli ucraini. Un inferno dal quale però Roschina avrebbe dovuto uscire a breve, “avevamo fatto tutto il possibile per farla tornare a casa”, ha dichiarato ieri il portavoce dello spionaggio militare di Kyiv Andriy Yusov. Secondo alcune indiscrezioni, la giornalista avrebbe dovuto venire scambiata già il 13 settembre. Qualcosa è andato tragicamente storto. Troppe torture, troppi maltrattamenti, o forse qualche vendetta dei servizi russi: Viktoria aveva indagato sui membri dei reparti speciali Berkut fuggiti in Russia dopo aver sparato sulla folla a Kyiv. Un indizio inquietante è il fatto che la Russia non restituirà, almeno per ora, il suo corpo: bisognerà attendere “uno scambio dei cadaveri di persone trattenute”, recita la lettera ricevuta dal padre, quindi un nuovo negoziato, che durerà mesi, per fare tornare a casa la giovane reporter. Ci sono altri 25 giornalisti ucraini che restano nelle mani dei carcerieri russi, ha ricordato ieri durante l’incontro al Vaticano Zelensky, parte di quegli almeno 1.700 civili (tra cui più di 400 donne) imprigionati nei territori occupati dai militari di Mosca. La Polonia sospende il diritto d’asilo, Tusk: “Stop all’immigrazione illegale” di Uski Audino La Stampa, 13 ottobre 2024 Varsavia teme la pressione di Mosca sul confine bielorusso. La Polonia intende sospendere momentaneamente il diritto d’asilo per limitare la migrazione. Sarà questo uno degli elementi della nuova strategia sulla migrazione, ha dichiarato il capo del governo di Varsavia, secondo quanto riferisce l’agenzia di stampa polacca Pap, ripresa dai media tedeschi. “Chiederò che questa decisione sia riconosciuta in Europa”, ha detto Tusk senza fornire ulteriori dettagli. Al congresso del suo partito (KO, Coalizione Civica) Tusk ha dichiarato che lo Stato ha il compito di riprendere il controllo del suo territorio al 100% e ha accusato il presidente russo Vladimir Putin e il governatore bielorusso Alexander Lukashenko di usare i migranti per esercitare pressioni sul suo Paese. Questo è “contrario all’essenza del diritto di asilo”. “Ridurremo al minimo l’immigrazione illegale in Polonia”, ha aggiunto Tusk, che presenterà la nuova strategia sulla migrazione martedì in consiglio dei Ministri. Il mese scorso la Polonia ha registrato 2.500 casi di ingressi illegali, oltre 26.000 in totale a partire da gennaio. Il premier polacco ha inoltre minacciato di non voler rispettare il Patto sulla migrazione e l’asilo concordato al livello Ue se questo metterà a rischio la sicurezza del suo Paese. Il ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski aveva già annunciato giovedì che la Polonia avrebbe inasprito le norme sui visti. Nicaragua. L’Onu denuncia torture sui detenuti politici di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 13 ottobre 2024 La Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) ha denunciato la “persistenza di gravi violazioni dei diritti umani sui prigionieri politici in Nicaragua” e ha esortato le autorità di Managua a rilasciare immediatamente tutti i detenuti. Il Meccanismo speciale di monitoraggio per il Nicaragua della Cidh (Meseni) ha raccolto nelle ultime settimane i racconti degli abusi subiti da alcuni dei 135 detenuti rilasciati il 5 settembre ed esiliati in Guatemala nel corso della prigionia. “Le testimonianze ricevute evidenziano le deplorevoli condizioni di detenzione caratterizzate da condizioni antigieniche nelle celle, mancanza di accesso all’acqua potabile, cibo insufficiente e di scarsa qualità, assistenza medica negligente e mancanza di accesso ai farmaci, nonché restrizioni nella ricezione di beni personali e nel ricevere visite dei familiari”, si legge in un comunicato. Nelle loro deposizioni i detenuti hanno riferito di esser stati sottoposti a torture e “trattamenti disumani o degradanti, oltre che punizioni crudeli da parte di funzionari statali, tra cui percosse e scosse elettriche, isolamento prolungato, privazione del sonno, interrogatori costanti e accesso limitato alla luce del sole”. Dopo il rilascio e l’esilio in Guatemala, gli ex detenuti hanno dichiarato di dover affrontare “incertezza e vulnerabilità” a causa delle conseguenze fisiche ed emotive delle violenze subite in carcere, nonché la “paura per i rischi cui sono esposte le loro famiglie in Nicaragua”. Per questo, la Commissione ha esortato la comunità internazionale a fornire sostegno umanitario e legale a coloro che sono usciti dal carcere affinché possano ricostruire la propria vita in condizioni di dignità. Almeno altri 36 detenuti restano privati della libertà in Nicaragua.