Nuove carceri: quando, e come? di Gian Domenico Caiazza Il Riformista-PQM, 12 ottobre 2024 Da quando in questo Paese si discute e si polemizza di carcere, di sovraffollamento, di funzione rieducativa della pena, sentiamo una ben determinata parte politica bollare in modo sprezzante come “svuota-carceri” ogni proposta di potenziamento della esecuzione della pena alternativa alla detenzione penitenziaria. E quando si chiede a costoro quale diversa ricetta propongono per risolvere la vergogna del sovraffollamento, messo all’indice ripetutamente dalla CEDU, la risposta immancabile è: costruiremo nuove carceri. La baldanzosa spigliatezza con la quale viene seccamente opposta questa presunta soluzione del problema, ci dà la certezza che chi la pronuncia non abbia la minima idea della sua straordinaria complessità. E d’altro canto, ci sarà pure una ragione per la quale nessuno ha mai fatto seguire azioni concrete a quei propositi così orgogliosamente annunciati. La complessità è (almeno) triplice, perché riguarda i tempi, le risorse finanziarie necessarie e, non ultima, l’idea di carcere che si intende realizzare. Abbiamo perciò voluto dedicare questo numero di PQM al tentativo almeno di abbozzare i contorni di quella complessità, nella convinzione di dare il nostro piccolo contributo a sfatare luoghi comuni e a denudare la vuota ridondanza della retorica politica profusa a piene mani su questo drammatico problema. Così apprendiamo che i tempi di edificazione di un nuovo istituto penitenziario sono biblici e i costi onerosissimi, nei quali vanno ovviamente compresi quelli dell’ulteriore personale (polizia penitenziaria, personale amministrativo, assistenti sociali, strutture sanitarie etc.) che ogni nuovo carcere esigerebbe inesorabilmente, in un quadro generale che è già di drammatico sottorganico. Ma ancora più interessante, e forse meno presente a chi straparla di nuove carceri, è quello delle opzioni di architettura penitenziaria. Perché la verità è che l’edilizia penitenziaria non è politicamente neutra, come d’altronde è ovvio che sia. Si progetta un carcere a seconda di quale idea si abbia della funzione della pena intramuraria. Il progetto di un nuovo istituto penitenziario varia a seconda che si abbia una idea puramente espiativa della pena, la quale vuole che il carcere sia separazione drastica dalla vita sociale le cui ordinate regole il detenuto ha consapevolmente violato, ovvero una idea che privilegi il recupero sociale del detenuto, con l’obiettivo che egli possa essere messo in grado di non più delinquere a pena espiata. Ed è bene sapere che, con qualche rarissima eccezione, tutte le carceri italiane sono pensate ed organizzate in coerenza con la prima delle due idee. Orbene, pochi giorni fa il Ministro Nordio ha nominato un Commissario per la edilizia penitenziaria, e questa è intanto una buona idea, non fosse altro che per ottenere qualche nozione più precisa su cosa intenda in concreto il Governo nel suo ripetuto e rivendicato obiettivo di “costruire nuove carceri”. Certo, l’arco temporale assegnato al Commissario (un anno) e la limitata struttura (cinque persone, a quanto pare) lascia intendere che la mission a lui assegnata sia di natura poco più che ricognitiva: ma è comunque un primo passo per fare chiarezza, per andare oltre uno slogan ad oggi vuoto e quasi irridente nei confronti di un dramma che è, senza alcun dubbio, una delle cose delle quali l’Italia non ha altro che da vergognarsi. E quindi il lettore di PQM avrà qualche utile e qualificata nozione in più per esprimere il suo giudizio. A noi non sembra poco, e comunque sappiamo accontentarci. Ha davvero senso continuare a costruire carceri che poi diventano scuole del crimine? di Ornella Favero* Il Riformista-PQM, 12 ottobre 2024 “Il magistrato ha personalmente appurato che, per poter scorgere il cielo dalla finestra della camera di pernottamento è necessario appoggiarsi al muro e alla finestra stessa e sporgere la vista pressoché verticalmente. (...) Ritiene il Tribunale che le condizioni detentive di fatto, cui è sottoposto comportino un attuale pregiudizio sia al diritto alla salute sia a quello a una detenzione conforme al senso di umanità”: così scrive il Tribunale di Sorveglianza di Bologna in risposta al reclamo di una persona detenuta relativo alle condizioni di vita nelle “camere di pernottamento” delle nostre galere, e lo scrive dopo aver visto personalmente quelle condizioni. Nel 1948 Piero Calamandrei, in un intervento alla Camera, diceva: “Ho conosciuto a Firenze un magistrato di eccezionale valore che i fascisti assassinarono nei giorni della liberazione sulla porta della Corte d’appello. Il quale aveva chiesto, una volta, ai suoi superiori il permesso di andare sotto falso nome per qualche mese in un reclusorio, confuso coi carcerati, perché soltanto in questo modo egli si rendeva conto che avrebbe capito qual è la condizione materiale e psicologica dei reclusi, e avrebbe potuto poi, dopo quella esperienza, adempiere con coscienza a quella sua funzione di giudice di sorveglianza, che potrebbe esser pienamente efficace solo se fosse fatta da chi avesse prima esperimentato quella realtà sulla quale deve sorvegliare. Vedere! Questo è il punto essenziale”. Bisognerebbe allora davvero che tutti vedessero, e lo facesse prima di tutto il nuovo Commissario all’edilizia penitenziaria, non però in una visita/passerella come tante che ci sono state in questi anni, ma come il magistrato di Calamandrei, “confuso tra i carcerati”, parlando con loro e facendosi raccontare come si vive davvero nelle nostre galere. E allora forse scoprirebbe che le carceri, per come sono costruite e organizzate a tutt’oggi, sono delle grandi fabbriche di criminali, come racconta un giovane ergastolano, Giuliano N.: “Dopo circa dieci giorni dall’arresto mi hanno trasferito in un carcere della Calabria. Sono stato accolto da una dozzina di ragazzi come me, che, per i trascorsi e le ‘imprese’ che mi avevano visto protagonista sin da molto giovane, riconoscevano in me una sorta di punto di riferimento. I primi tre giorni ero considerato un ospite: era una sorta di ‘formazione comportamentale’ che viene fatta a tutti quelli che si ritengono ragazzi validi. Ci veniva spiegato come camminare, vestirsi, sedersi a tavola, rivolgersi agli agenti e tutta un’altra serie di raccomandazioni che si dovevano seguire alla lettera: era la ‘legge del carcere’, che non rispondeva a nessuna autorità istituzionale. Le nostre giornate le passavamo tra il cortile e la cella a discutere di processi, condanne, sentenze, ma quello che più di tutto ci accomunava era la voglia di quasi tutti di emergere in un mondo che ai nostri occhi sembrava affascinante: era il mondo del crimine, che illudendoci ci prometteva soldi facili, bella vita e potere. Venni scarcerato dopo pochi mesi; l’esperienza detentiva non mi aiutò a redimermi, anzi, fu come se quella breve detenzione mi avesse conferito una medaglia da esibire sul petto per fare vedere ai più giovani che il carcere non mi aveva piegato, bensì mi aveva reso più forte. L’esperienza dei reparti differenziati mi insegnò a non mostrare mai le emozioni, gli stati d’animo e allo stesso tempo mi fece maturare sentimenti di odio e di rabbia che, una volta fuori, difficilmente sarei stato capace di gestire da solo. Infatti, appena fuori dal carcere, il giorno dopo indossai il passamontagna e ricominciai a fare quello che sapevo fare, ma con molta più determinazione e violenza nei confronti di tutto e di tutti. Ero diventato una bomba ad orologeria: la mia rabbia esplose, trovando conforto nell’azione criminale, nell’adrenalina del rischio e della rivalsa, prendendo con la forza tutto quello che desideravo e che volevo, senza considerare niente e nessuno. (...) Da quel momento in poi il mio percorso autodistruttivo ebbe i giorni contati, infatti poco dopo venni arrestato e ricondotto in carcere. Per essere condannato all’ergastolo, a poco più di vent’anni”. *Direttrice di Ristretti Orizzonti Un’edilizia penitenziaria che punta solo a tenere le persone detenute separate dalla collettività di Mauro Palma* Il Riformista, 12 ottobre 2024 Che l’architettura, o meglio l’organizzazione dello spazio, svolga un ruolo importante nel rendere l’esecuzione penale conforme alla Costituzione italiana credo sia ormai un concetto acquisito nella riflessione di quanti tuttora si interrogano attorno all’effettività di questo obiettivo. Non lo è per quanti pensano, senza dirlo, che in fondo quel precetto fissato dall’articolo 27 della nostra Carta sia una mera enunciazione, al più una bella speranza perché il vero tema sia tenere ben separate le persone dalla collettività, pur sanando quelle inaccettabili condizioni che l’attuale panorama carcerario ci presenta nella gran parte delle nostre città. Ancor meno sembra essere concetto acquisito da parte dell’amministrazione, che negli ultimi decenni ha continuato a restringere il tema alla semplice collocazione delle persone in moduli geometrici informi che poco hanno a che fare con l’architettura. Al più la offendono. Lo spazio restituisce nella sua organizzazione e articolazione - lo si è ripetuto più volte - l’idea di ciò che al suo interno si realizza, la conferma e la ripropone. In modo particolare, lo spazio destinato a realizzare una funzione pubblica, affidata dalla collettività, è la concretizzazione della concezione socialmente diffusa di quella funzione e però al contempo la riafferma, rischiando di perpetuarla. Per questo da un lato una diversa organizzazione spaziale può fare evolvere il pensiero collettivo e, quindi, aiutare la società ad aprirsi a un pensiero diverso e più aperto circa quella funzione; dall’altro la proposizione di uno spazio informe e anonimo consolida la posizione di chi crede che non ci sia nulla d’innovativo da pensare per ciò che là dentro deve avvenire. Del resto nessuno - tranne pochi - si è meravigliato nel veder sorgere dagli anni Novanta nel proprio territorio parallelepipedi grigi, sgradevolmente anonimi e il tema base per chi amministra la detenzione e la sua intrinseca pena ha così continuato a essere il numero di posti, la garanzia di accesso all’area, un ambiente anch’esso anonimo per i colloqui con i familiari e quelle altre poche cose che anche il più restrittivo regime non può negare. Gli Istituti del panorama edilizio carcerario del nostro Paese trasmettono questa sensazione di indifferenza. Sono più comunicativi quelli antichi, anche se spesso angusti e difficilmente riconducibili a una concezione di esecuzione penale che non sia una retribuzione di sofferenza per il male provocato; così pensati e così in grado di trasmettere questo implicito messaggio, anche se spesso ospitano anch’essi persone che ben poco male hanno provocato e molto ne hanno subìto nelle difficoltà della vita passata. Quelli teoricamente più recenti - anch’essi comunque ormai trentenni o quarantenni - non trasmettono neppure questo; si limitano a inviare il messaggio che là non c’è nulla da congetturare, basta rassicurare la collettività con un bel muro e soltanto contenere, perché il tempo scorre all’interno uniforme come uniformi e muti sono gli ambienti. E anche le persone sembrano divenire progressivamente mute nel loro essere ridotte a casi, fascicoli, più o meno complessi. Ragionare sugli spazi della detenzione vuol dire allora interrogarsi sul necessario recupero di effettività di quei due aspetti dell’articolo 27 che, rispettivamente, indicano che in carcere le condizioni non possano essere contrarie al senso di umanità, così considerando la persona nella sua pienezza, e che, di più, il tempo di vita che in esso si spende non sia fine a sé stesso, ma proiettato in avanti verso il dopo, oltre quel muro. Questi due aspetti direttamente discendono da tutto l’impianto costituzionale, a cominciare dai princìpi di uguaglianza, di riconoscimento della dignità della persona e di impegno a rimuovere ogni disparità; princìpi che non cessano in validità e pregnanza oltrepassando il muro materiale e simbolico della punizione legale. Perché questa può determinare riduzioni, diverse declinazioni e limiti nell’esercizio dei diritti, mai il loro annullamento - tranne, ovviamente, il diritto alla libertà del proprio muoversi e della definizione del proprio tempo. Anche sul primo aspetto - la pena non può essere inumana - occorre tornare a riflettere, nonostante si sperava in anni non troppo lontani che non ce ne fosse più bisogno e l’attenzione era volta prioritariamente alla finalità tendenziale dell’esecuzione penale. Tornare a riflettere perché in troppi casi gli spazi attuali non sono adatti neppure al mero contenere, né a garantire l’accesso sufficiente di aria nei luoghi dove si è chiusi per molte ore o la riservatezza delle funzioni naturali da risolvere in un contesto affollato privo di intimità. Il tema sembra essere solo la collocazione numerica centrata sull’attenzione a non andare al di sotto di quei parametri minimi che farebbero scattare la “strong presumption” di violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani, così come fissati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Ma la vita in un luogo che diventa il tuo luogo è qualcosa di più di una allocazione (così la chiama l’amministrazione). Il secondo aspetto, quello di cui molto si discute in convegni e molto poco si applica nella pratica, cioè la finalità di reinserimento sociale - che ben due disegni di legge a firma di esponenti dell’attuale partito al governo vorrebbero circoscrivere, ridurre nell’estensione di prospettiva - richiede uno sguardo “altro”, del tutto diverso rivolto allo spazio. Non più solo quello del rientrare nei limiti minimi fissati, bensì quello dell’articolazione degli ambienti, per le loro funzioni diversificate sulla base alle attività che in essi si devono svolgere. Richiedono pluralità e non omogeneità; richiedono la possibilità di favorire interazioni produttive di consapevolezza, di costruzione di qualcosa, di recupero di un ruolo anche nel rapporto con l’esterno. In sintesi, richiedono una visione della detenzione in cui la cella non è più “il” luogo della giornata perché nel decorso della giornata stessa c’è un “altrove” dove dirigersi, per fare e non per attendere. Qui l’architettura torna a essere attrice importante e la sua capacità dì relazionare spazi articolati torna a essere l’impianto da prevedere affinché ciò che la Costituzione prescrive possa realizzarsi. Le persone recupererebbero così soggettività e questo sembra essere oggi per la direzione che la politica dà all’amministrazione un obiettivo distante: per taluni impossibile, eccessivo per altri, da evitare per altri ancora. Eppure è questa la dimensione da recuperare: non solo perché la tradizione di civiltà chiede al nostro Paese di agire sempre verso il maggior recupero possibile di ogni persona, non assecondando l’impulso quasi vendicativo che emerge in molti commenti, ma che in fondo forse non rappresenta il sentire profondo, ma anche perché una prospettiva di ritorno positivo nella società esterna, tale da ridurre il rischio di recidiva, ha minori costi sociali e garantisce maggiore sicurezza. Non solo, ma anche perché lo si deve a chi in questi luoghi, molto spesso non dignitosi e negli altri casi quasi sempre amorfi, spende la propria vita lavorativa. Lo spazio pensato, progettato e non solo anonimamente costruito, porta sempre pensiero e pensarlo positivamente può aiutare a far pensare anche chi crede che in fondo ci sia ben poco da riflettere e che basti costruire qualche altro insieme di posti-letto. *Ex Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Niente architettura per il carcere italiano di Cesare Burdese* Il Riformista-PQM, 12 ottobre 2024 “L’architetto della prigione è il primo esecutore della pena; egli è il primo artefice dello strumento del supplizio”. Questa affermazione del penitenziarista ottocentesco Louis Mathurin Moreau-Christophe, mantiene ancora oggi inalterata la sua verità. Nel passato, sin dalle origini, gli edifici carcerari sono stati l’espressione dell’idea di incarcerazione del momento, a conferma dell’importanza della configurazione fisica di qualsiasi impianto penitenziario per il raggiungimento di specifici obiettivi penali. Oggi questo, per lo più ovunque, non succede più. L’Architettura, con la funzione sociale che le appartiene, ovunque si collochi, potrebbe diventare strumento di riscatto. Essa, in quanto arte a pieno titolo, è espressione dello spirito del tempo, manifestazione di aspirazioni e obiettivi di giustizia, uguaglianza e solidarietà. L’architetto, con i suoi sentimenti e le sue emozioni, diventa interprete dei desideri e delle speranze della società; progettando un carcere deve inevitabilmente essere consapevole dei rapporti che intercorrono tra delitti, pene e recupero di chi ha sbagliato. Le mura del carcere ovunque da sempre invalidano, rendono incerti, scoraggiano, minano, reprimono, nonostante le leggi sanciscano il contrario. La finalità risocializzativa della pena contemporanea trova soddisfazione se la localizzazione e la configurazione dell’edificio carcerario soddisfano esigenze relazionali con l’esterno e all’interno e di fabbisogno spaziale per le attività trattamentali. Allo stesso modo, il rispetto dell’umanità e della dignità del detenuto e del detenente dipende dalla qualità materiale dell’ambiente carcerario, rappresentato da adeguate soluzioni architettoniche e dallo stato di conservazione e dalle modalità d’uso dei luoghi. Una qualità che si raggiunge solo mettendo al centro della scena detentiva l’individuo, con i suoi bisogni fisiologici, psicologici e relazionali. Da tutto questo derivano i requisiti in grado di garantire condizioni di vita meno ansiogene e più dignitose e di creare relazioni materiali ed immateriali positive e riabilitanti. Negli ultimi decenni il pensiero del valore dell’architettura correzionale come catalizzatore per risultati positivi, ha portato all’estero a realizzare carceri “inedite” di alto valore architettonico, perché improntate al rispetto della funzione sociale, alla qualità estetica, al benessere ambientale. Le soluzioni tradizionali sono state abbandonate per nuovi modelli spaziali, concepiti anche con l’ausilio delle teorie della sociologia, della psicologia e persino dell’ecologia e dove l’architettura e gli ideali riabilitativi sono stati armonizzati. Purtroppo la realtà architettonica delle nostre carceri ci fornisce un quadro impietoso e diametralmente opposto. Le nostre carceri (189 in funzione, diverse tra loro per epoca storica e per tipologia costruttiva), appaiono strumento di distruzione fisica e morale dell’individuo ed espressione di arretratezza culturale e morale. Una realtà che deriva in generale dal modo di progettare le opere pubbliche, al quale le carceri appartengono, e sino agli aspetti peculiari della produzione edilizia carceraria. Da troppi anni la fabbricazione delle opere pubbliche, e quindi anche degli edifici carcerari, è condizionata dalla cultura dell’emergenza che ha spazzato via gli spazi di un pensiero critico, con un conseguente impoverimento ideativo e progettuale. Con una visione al passato recente del nostro carcere, il periodo degli anni di piombo e l’avvento della nuova criminalità organizzata, nel focus della Riforma dell’Ordinamento penitenziario del 1975, hanno obbligato a privilegiare le esigenze securitarie a discapito di quelle trattamentali. L’eredità che il passato remoto e quel periodo ci hanno lasciato, sono edifici inadeguati alle esigenze attuali. Passato il periodo emergenziale, per le produzioni edilizie carcerarie successive non vi è stato riscatto, né poteva esserci, in assenza di un chiaro mandato politico e di strumenti culturali adeguati. A riguardo nelle scuole di Architettura l’edificio carcerario non è insegnato, l’Accademia non se ne occupa, la categoria degli architetti non è coinvolta. A differenza di quanto succede oltre confine, le carceri in Italia non sono progettate facendo ricorso alla pratica del concorso di idee, con il coinvolgimento di valenti architetti, nonostante la nostra norma sulle opere pubbliche lo preveda. Tutto è risolto nel chiuso degli uffici ministeriali in maniera burocratica e farraginosamente, con l’unico obiettivo di accelerare il processo edificatorio, peraltro sempre deficitario e a discapito della qualità del prodotto edilizio. In questo modo i nostri edifici carcerari in funzione, a prescindere dalle epoche storiche di appartenenza, appaiono destinati a contenere cose e non ad ospitare persone, in palese e costante violazione del monito costituzionale. Nonostante i timidi tentativi ministeriali del recente passato per produrre Architettura e non edilizia carceraria, non si intravedono all’orizzonte spiragli di luce. Il contesto culturale e gestionale, nel quale si verrà a collocare l’annunciato “Piano carceri” gestito da un Commissario straordinario, non è certamente favorevole. È tempo di reclamare un ritorno a una progettazione del carcere, ridimensionato nel suo utilizzo, che si ponga il problema del contesto e dell’utente, e non certo per una richiesta corporativa. Si tratta in ultimo di fornire all’edificio carcerario i requisiti che lo possano ricondurre nell’alveo costituzionale e della norma, quale espressione di una società che si professa civile. Attrezzarsi per una progettistica competente e consapevole, diventa un impegno culturale e morale. *Architetto, esperto di edilizia penitenziaria Architettura e carcere, parla il Prof. De Rossi di Giuseppe Belcastro Il Riformista-PQM, 12 ottobre 2024 A margine della nomina del Commissario straordinario governativo per l’edilizia carceraria, abbiamo dialogato sul tema con l’architetto prof. Domenico Alessandro de Rossi, fondatore e presidente del CESP (Centro Europeo Studi Penitenziari), per cercare di capire, dalle parole dell’esperto, Io stato dell’arte e se il progetto governativo abbia per davvero una possibilità di raggiungere gli obbiettivi. Architetto, esiste a suo avviso una relazione tra la qualità degli spazi di detenzione e la funzione rieducativa dell’esecuzione penale? La ringrazio della la domanda perché corrisponde al problema trattato nel mio ultimo libro, scritto insieme al prof. De Risio, psicologo clinico e docente di psicologia dell’azione penale alla LUMSA, che in questi giorni è negli scaffali delle librerie. Il titolo apparentemente provocatorio, il saggio ribalta i termini a cui siamo da sempre abituati: “Quando la pietra scolpisce la mente, neuroscienze e semiotica dell’architettura delle comunità confinate”. Facendo ricorso alla Gelstat (psicologia della forma) e alle neuroscienze si possono determinare almeno in generale quelle linee metodologiche di riferimento destinate all’ambiente, fatto di forme e di funzioni, a diventare l’attore consapevole dell’orientamento comportamentale della persona, rimodulando gesti, azioni, modo di pensare e, perché no, nuovi riferimenti di valore etico -comportamentale. L’ambiente così ripensato deve partire però da una lunga riflessione destinata a concepire innanzi tutto in termini “sistemici” cosa significhi oggi e soprattutto per il domani, la “detenzione”, il sequestro del tempo di chi è in carcere e come utilizzarlo al meglio per la persona che in qualche modo dovrebbe migliorare. Ponendosi domande, quindi, anche sulla filosofia del diritto, all’interno di un condiviso sistema di valori ispirato specialmente ai diritti umani, al principio della protezione della salute, al dettato costituzionale (articoli 27 e 32). Sotto il profilo ideale, la struttura detentiva, come ogni altra organizzazione di spazi per l’individuo, richiede - e dunque richiama - una programmazione architettonica. Eppure, parlare di architettura carceraria in Italia suona quasi come un ossimoro. Perché secondo lei? Parlare di architettura prima di essersi accordati e messi in sintonia su cosa sia la detenzione e soprattutto a cosa serva carcerare una persona, mi sembra un esercizio accademico che possa piacere solo agli architetti e ai professori di composizione architettonica, ai quali piace molto parlare di architettura. Rinchiudere una persona per poco o lungo tempo dentro una gabbia comporta responsabilità culturali, civili e politiche di altissimo livello. L’edilizia, secondo me, viene molto dopo. Essa segue i contenuti elaborati in altra sede interpretando bene, con lo spazio correttamente progettato, le esigenze e i valori comuni e le prassi condivise, a cominciare dai servizi, dai materiali di impiego, alla sicurezza attiva e passiva, agli impianti necessari, per esempio, antincendio. Come giudica nel complesso il sistema detentivo nazionale sotto il profilo architettonico anche in rapporto alla situazione nel resto di Europa? Il patrimonio edilizio italiano, che ho studiato nei miei precedenti libri (L’universo della detenzione, del 2001 e Non solo carcere, del 2016 - Mursia ed.) è costituto da un 20% di edifici realizzati tra il 1200 e il 1500; un buon 60% tra il 1600 e il 1800; la rimanente parte (20%) risale a dopo l’Unità d’Italia. Questo significa che ben l’ottanta per cento dell’intero complesso è stato realizzato adattando castelli, conventi e monasteri alla funzione carceraria concepita e finalizzata esclusivamente verso la sofferenza, se non apertamente destinata alla vendetta delegata allo stato. L’Italia è stata censurata pesantemente nel lontano 2014 nientemeno che dalla CEDU che la obbligava a rimodulare interamente il complesso detentivo. Purtroppo, in tal senso nulla è stato fatto e oggi raccogliamo amaramente gli effetti della sola retorica propagandistica e parolaia di una promessa di rinnovamento che nulla di fatto ha apportato. L’Europa è molto più avanti per quanto concerne l’istituzione penale. Dall’Austria, alla Spagna, dalla Francia alla Norvegia, dalla Svizzera alla Germania si riscontrano ben altri criteri di detenzione, con edifici in cui l’ambiente detentivo si trasforma in criterio spaziale performante e rimodulante il comportamento del detenuto nel rispetto dei diritti di persona umana. Ha davvero senso parlare di qualità dei luoghi della detenzione in un paese come l’Italia che non è in grado spesso nemmeno di garantire lo spazio minimo vitale di pochi metri quadrati pro capite e che per questo subisce richiami e condanne dalla Corte europea? Non rischia di restare quello un esercizio retorico del tutto scollato dalla realtà? La retorica politica, destinata spesso a soddisfare o ad inseguire la concezione della pena intesa come vendetta o ritorsione, per quanto di male è stato compiuto compiendo un reato, è una visione corta ed incivile perché dimentica anche gli effetti negativi al momento in cui la pena sarà finita. Se si è subita violenza durante il tempo della carcerazione, nulla facendo, fissando il soffitto per anni e stando sdraiato su di un materasso pieno di cimici, quando si aprono le porte del carcere, cosa crede che esca fuori da quell’ambiente? Come pensa possa essere reinserita nel circuito civile quella persona che proprio stando in carcere ha ulteriormente perduto tracce di valore civile e magari di pentimento per quanto compiuto? Il Governo ha recentemente nominato il dott. Marco Doglio quale Commissario per l’edilizia penitenziaria. L’obbiettivo dichiarato è di realizzare le opere necessarie a far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari. In disparte le qualità personali del dott. Doglio, partendo dalle riflessioni che sopra ha fatto, le sembra un progetto realistico, anche atteso che è previsto che la carica spiri il 31.12.2025? Quale può essere l’utilità concreta di questa figura amministrativa? Il compito del Commissario a mio parere non è meramente amministrativo. Certamente difficile perché eredita una responsabilità culturale ed operativa congelata da almeno mezzo secolo, ma, come ho già detto, necessario per una programmazione oculata e, soprattutto, fondata su approfondimenti e competenza. Sono però necessari interventi urgenti attesa la situazione. Qualcosa di immediato e utile può essere messo in atto lavorando principalmente su di un programma teso a diminuire l’indice di affollamento dei detenuti. Secondo alcuni dati approssimativi si potrebbe lavorare su due grossi settori: il primo è quello delle persone in attesa di giudizio che, in quanto tali, sono a tutti gli effetti da considerare innocenti e degni di ben altri tipi di trattamento. La destinazione per costoro può essere sicuramente diversa dal carcere. L’altro argomento riguarda i detenuti che invece sono affetti da dipendenza da sostanze ed essendo essi a tutti gli effetti malati, in quanto tali possono essere destinati a centri di cura e accoglienza molto diversi dal carcere. Dalle stime fatte queste persone ricoprono circa il 30% dell’attuale popolazione carceraria, cioè sono circa 18.000. Tra coloro che non possono essere liberati perché pericolosi insieme ad altri perché non sono in condizioni di essere trasferiti per altri motivi, in buona sostanza si può dire che circa dagli ottomila alle diecimila persone già da subito potrebbero essere destinate presso strutture specializzate e qualificate per la cura ed il recupero. Togliendo in tal modo dal circuito penitenziario questo numero di detenuti si tornerebbe già ad un consistente alleggerimento dello stato attuale, riportando intorno alle 50.000 persone il numero dei detenuti corrispondenti, grosso mondo, agli effettivi posti disponibili. Quali sono i tempi di edificazione di una nuova struttura detentiva di medie dimensioni? La edificazione di un nuovo carcere impegna almeno 10 anni. Ma se si vuole parlare per forza di nuovi istituti bisogna procedere secondo me con un approccio culturale di tipo “sistemico” e su di una base di revisione dello stesso regolamento penitenziario che sia aggiornato ai tempi attuali ed in vista del futuro europeo. Noi come CESP, in collaborazione con ONAC (l’Osservatorio Nazionale Carceri di AIGA), con la Fondazione Villa Maraini Croce Rossa Italiana e Mezzaluna Rossa, ACROSS e Università LUMSA, stiamo elaborando un corpus documentale che riteniamo essere interessante. Per far ciò occorre rivedere la dimensione del carcere-tipo sulla base dei requisiti di base e delle finalità detentive (sottolineo questo concetto), di criteri economici, gestionali e territoriali del tutto assenti oggi nel dibattito dedicato. Unità territoriali, rapporto tra sistema penitenziario e società civile, economia circolare del carcere e della produttività esterna, lavoro e cultura, formazione, personale specializzato per la sicurezza e la gestione tecnico-amministrativa insieme ad altre non piccole cose che le sto elencando fanno parte di un complesso di progettualità che tuttora nella discussione pubblica è del tutto assente. È lecito in conclusione affermare che l’iniziativa del Governo, pur meritoria in termini generali e in una prospettiva di lungo termine, non serve a nulla rispetto all’obbiettivo perseguito di ridurre il sovraffollamento nell’immediato? Sì. Si tratta certamente di un buon progetto, ma i suoi effetti non possono inseguire l’urgenza segnalata dalle attuali condizioni detentive. Occorre però ribadire con decisione che rinunciare ad intervenire solo perché finora ci sono state troppe parole mi sembra sbagliato. Non bisogna arrendersi e con passi ponderati laddove occorre si può avanzare verso un indispensabile miglioramento. Per quanto ho appreso dalla stampa, io credo che l’idea di nominare un Commissario per l’edilizia penitenziaria sia necessaria e opportuna. Necessaria perché i fattori decisionali politici, amministrativi, tecnici, economici concernenti le azioni indispensabili per risolvere i problemi sono molteplici e stretti da diverse capacità e possibilità decisionali. Opportuna perché per la tipologia dell’incarico affidata al prof. Marco Doglio fa riferimento ad una gittata temporale breve, di tempi rapidi e di azioni risolutive immediate. Ciò sgombera il caso da visioni di più lunga gittata che troverebbero soluzioni accettabili in tempi in cui, come ho detto sopra, i lustri entrerebbero in campo però solo con numeri a due cifre. Cosa questa impossibile data l’urgenza. Quanto al raggiungere gli obiettivi, del resto, ciò è nelle mani di una buona organizzazione, dove effettive capacità ed efficienza, insieme a specifiche e sicure competenze in materia possano essere messe a sistema e in condizione di poter lavorare. La stessa intelligente iniziativa di avvalersi dell’aiuto che il CNEL può dare in termini di collegamento strategico tra realtà carceraria e società civile è fondamentale. Mi sembra che allargare le competenze e metterle in rete in una rinnovata logica sistemica sia un grande nuovo processo innovatore. Vedremo. Gli spazi per l’affettività di Marella Santangelo* Il Riformista-PQM, 12 ottobre 2024 Bisogna individuare luoghi riservati ai colloqui intimi: così i detenuti possono godere di un loro diritto. La sentenza della Corte Costituzionale n.10 del 2024 dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge n.354 del 1975 nel prevedere che i colloqui dei detenuti con i coniugi, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, non possano essere svolti senza il controllo a vista del personale di custodia; questa decisione molto attesa della Corte ha aperto uno scenario complesso che trova nei luoghi in cui possano svolgersi i colloqui, anche intimi, il suo focus. Negli anni con alcuni colleghi architetti abbiamo lavorato per cercare soluzioni architettoniche che potessero trasformare concretamente la vita dei reclusi, consci che lo spazio del carcere rappresenta oggi un aggravio di pena. Quanto affermato nella sentenza ci ha messo di fronte oggi all’urgenza di individuare quelli che sono definiti “appositi spazi riservati ai colloqui intimi”, altrimenti detti spazi per l’affettività, per far sì che i detenuti possano godere di un loro diritto sino ad oggi negato. Da molti anni il gruppo di lavoro del Dipartimento di Architettura dell’Università di Napoli Federico II ha lavorato alla verifica delle potenzialità di spazi inutilizzati o sottoutilizzati, fino alla sperimentazione progettuale su spazi ad oggi mancanti, tra cui proprio le “case per l’affettività”. Si ragiona in termini di architettura e non di edilizia penitenziaria, per dare dignità alle persone ristrette e senso agli istituti esistenti in Italia, anche quelli che appaiono oggi nelle condizioni peggiori. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha costituito un gruppo di studio sulla sentenza di cui sono stata chiamata a far parte, per gli aspetti relativi ai luoghi e agli spazi; il gruppo sta ancora lavorando. Per quanto concerne il mio ambito di lavoro sono ripartita dagli studi elaborati negli ultimi anni. Da una parte ci si è concentrati sull’individuazione di spazi adeguati da destinare all’affettività, recuperando spazi sostanzialmente inutilizzati e con aperture e luci sufficienti e rispondenti alle necessità, per realizzare delle piccole abitazioni con accesso dall’interno e dall’esterno, alle quali aggiungere anche uno spazio esterno, concepito come un prolungamento dello spazio interno. Per ragioni di sicurezza, lo spazio esterno dovrebbe essere delimitato da sistemi di recinzione leggeri, come reti, pannelli o pareti verdi, che soddisfino comunque le esigenze di sicurezza e isolamento acustico, integrandosi con l’esistente. Abbiamo sviluppato diverse ipotesi progettuali, con diverse quadrature comunque adattabili; la distribuzione prevede in tutte le metrature una zona giorno, servizi igienici e angolo cottura, più una zona letto. Una volta individuato uno spazio disponibile, e gli istituti italiani sono pieni di spazi inutilizzati, abbandonati o mal utilizzati, si potrebbe avviare una rapida e relativamente semplice realizzazione, non sacrificando spazi esterni che, quando esistenti, diventerebbero di servizio alle unità residenziali. L’altra ipotesi di lavoro è centrata sul progetto di piccole unità abitativa da realizzare ex-novo. Il riferimento è la Casa a Tre Corti progettata dall’architetto Mies Van Der Rohe nel 1934. La scelta della casa a patio è dovuta proprio alla sua natura introversa: una configurazione chiusa verso l’esterno che enfatizza la privacy e la sicurezza, due aspetti fondamentali per una struttura detentiva; esternamente, il muro continuo rende la casa completamente chiusa, mentre internamente gli ambienti si aprono verso i patii tramite ampie superfici vetrate. In queste piccole abitazioni i detenuti hanno l’opportunità di trascorrere del tempo con le loro famiglie in un ambiente che ripropone i tempi e le condizioni della vita quotidiana. La privacy è garantita dalla sorveglianza indiretta e da un attento posizionamento delle piccole strutture all’interno dei complessi carcerari, distanziandole il più possibile dalle aree frequentate dagli altri detenuti durante la giornata. Sono state sviluppate diverse soluzioni dimensionali per soddisfare le diverse esigenze in base al tempo concesso, al numero di familiari o alla coppia. Sono state ipotizzate diverse possibili aggregazioni di unità per ricreare un’atmosfera residenziale, mantenendo ingressi separati e distanziando le camere da letto dai muri confinanti per garantire una maggiore privacy. *Architetta, componente del Gruppo di Studio istituito dal DAP sulla sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale Emergenza senza fine, tra salute mentale e suicidi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 ottobre 2024 Un altro nome si aggiunge alla tragica lista dei detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri italiane quest’anno. Nelle prime ore di mercoledì mattina, un uomo di 44 anni è stato trovato senza vita nella sua cella nel carcere di San Vittore a Milano. Si è strozzato con i lacci delle scarpe, diventando la 75esima vittima di suicidio dall’inizio dell’anno nel sistema penitenziario italiano. La notizia, riportata da Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia penitenziaria, getta nuovamente luce sulla drammatica situazione delle nostre carceri. “Una strage continua che non trova alcun argine dal governo”, denuncia De Fazio, evidenziando come il numero di suicidi abbia già superato quello dell’intero 2022, anno che aveva segnato un triste record. Il caso di San Vittore è emblematico delle criticità che affliggono il sistema carcerario nazionale. Con oltre 1000 detenuti a fronte di soli 447 posti disponibili, l’istituto milanese registra un tasso di sovraffollamento del 229%. Una situazione esplosiva, aggravata dalla carenza di personale: gli agenti di polizia penitenziaria sono 580, ben al di sotto del fabbisogno stimato di 700 unità. Ma il dramma dei suicidi in carcere è solo la punta dell’iceberg di una crisi più profonda, che affonda le sue radici nel disagio psichico diffuso tra la popolazione detenuta. Il recente rapporto dell’associazione Antigone getta luce su questo fenomeno allarmante, rivelando che il 12% dei detenuti (circa 6.000 persone) soffre di una diagnosi psichiatrica grave. “Il carcere sta diventando un manicomio”, confida un ispettore di polizia penitenziaria agli osservatori di Antigone. Una percezione condivisa da molti operatori del settore, che denunciano un aumento esponenziale delle patologie psichiche tra i detenuti, a fronte di risorse e strumenti sempre più inadeguati per affrontare il problema. La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari nel 2017 ha privato il sistema di una “valvola di sfogo” per i casi più complessi, costringendo le carceri a farsi carico di situazioni spesso ingestibili. Le Articolazioni per la Tutela della Salute Mentale (Atsm), istituite per colmare questo vuoto, offrono solo 300 posti in tutta Italia, un numero del tutto insufficiente rispetto alle reali necessità. Il risultato è una vera e propria “psichiatrizzazione” degli istituti penitenziari, dove il ricorso massiccio agli psicofarmaci diventa spesso l’unica risposta possibile. I dati sono allarmanti: il 20% dei detenuti (oltre 15.000 persone) fa uso regolare di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi, mentre il 40% (30.000 detenuti) assume sedativi o ipnotici. “Il carcere è tossico, nuoce alla salute, soprattutto quella mentale”, sottolinea Michele Miravalle, ricercatore di Antigone, riprendendo le riflessioni del criminologo Vincenzo Ruggiero sul carcere come “fabbrica di handicap”. Un circolo vizioso in cui il disagio psichico preesistente viene esacerbato dalle condizioni detentive, generando nuove patologie e aggravando quelle già presenti. La situazione è particolarmente critica per le donne detenute: il 12,4% di loro soffre di diagnosi psichiatriche gravi, contro il 9,2% degli uomini. Ancora più allarmante è il dato sull’uso di psicofarmaci, che coinvolge il 63,8% delle detenute. Di fronte a questi numeri, le risorse appaiono del tutto inadeguate. In media, sono disponibili solo 9,14 ore di servizio psichiatrico e 19,8 ore di supporto psicologico ogni 100 detenuti. Un rapporto che rende praticamente impossibile un intervento efficace e tempestivo sui casi più critici. La tragedia di San Vittore cristallizza l’urgenza di un intervento radicale nel sistema carcerario italiano, ormai da tempo al collasso. Le promesse del governo Meloni si sono rivelate inutili di fronte alla realtà di strutture fatiscenti e sovraffollate. Come denunciato da De Fazio, la situazione è addirittura peggiorata. Di fronte a questa emergenza, è improrogabile rivalutare proposte come quella di legge sulla liberazione anticipata speciale, presentata da Roberto Giachetti di Italia Viva e Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, che potrebbe rappresentare una svolta nel trattamento dei detenuti e contribuire a decongestionare le carceri. Suicidi in carcere: già 75 nel 2024, si teme di superare i 100 casi a fine anno di Paolo Virtuani Corriere della Sera, 12 ottobre 2024 Il sindacato di Polizia penitenziaria: “Il sistema carcerario è sull’orlo del baratro. I detenuti sono 15mila in più rispetto alla capienza, mancano più di 18 mila poliziotti”. Con il suicidio nel carcere di San Vittore a Milano di un detenuto di origini pugliesi, sono arrivate a 75 le persone che si sono tolte la vita nel 2024 nelle carceri italiane. In tutto il 2022 furono 80. Se la tendenza dovesse essere mantenuta negli ultimi tre mesi, a fine anno il numero dei suicidi potrebbe arrivare, se non superare quota cento. “Una strage continua che non trova alcun argine dal governo”, ha dichiarato in una nota Gennarino de Fazio, segretario del sindacato Uilpa Polizia penitenziaria. A San Vittore sono presenti 1.022 detenuti, ma i posti disponibili sarebbero solo 447. I sorveglianti, compresi coloro che lavorano in ufficio e in servizi vari, sono 580 rispetto a un fabbisogno di almeno 700. “Sui suicidi e sul sovraffollamento servono interventi urgenti e immediati”, aveva ammonito il presidente Mattarella lo scorso 18 marzo. “Il sistema carcerario è sull’orlo del baratro” - “I reclusi sono 62mila, i posti disponibili sono invece meno di 47mila, aggiunge de Fazio. “I detenuti in esubero sono oltre 15 mila, le unità mancanti alla Polizia penitenziaria sommano a più di 18 mila. Assistenza sanitaria e psichiatrica sono carenti, inadeguati gli equipaggiamenti, le strutture e le infrastrutture, molto approssimativa l’organizzazione: un sistema carcerario sull’orlo del baratro”. Il precedente record del 2022 e le parole di Meloni - Il 2022 fu il precedente anno record per i suicidi in carcere. De Fazio ricorda che il 25 ottobre di quell’anno i suicidi erano giù arrivati a 71 e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel discorso per la fiducia alla Camera dei deputati, disse che “non era degno di una nazione civile, come indegne sono spesso le condizioni di lavoro dei nostri agenti di Polizia penitenziaria”. Carcere “sociale” - “Oggi a finire in carcere non sono più i criminali di mestiere: siamo di fronte a una detenzione sociale, con tanto disagio mentale, tanta povertà”, accusa Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, rivista realizzata dagli ospiti del carcere di Padova. “Un periodo così drammatico, per numeri ma soprattutto per desolazione e assenza di speranza, non lo avevo vissuto mai. Per la prevenzione dei suicidi una cosa sarebbe facilissima e a costo zero, ma che resta nella discrezionalità dei direttori: fateli telefonare a casa”. “Il carcere è diventata una condanna a morte e ciò va contro ogni nostra conquista legale”, ha scritto recentemente Dacia Maraini sul Corriere delle Sera. Comunità di Sant’Egidio: “Ambienti inadatti e squallidi” - La Comunità di Sant’Egidio ha stigmatizzato alcuni dei mali cronici del sistema detentivo in Italia che producono disperazione: “Sovraffollamento oltre ogni limite accettabile, chiusure dei detenuti nelle celle invece che sorveglianza diffusa, dilagante disagio psichiatrico come causa ed effetto delle condizioni penose, uso e abuso spregiudicato di psicofarmaci, carenza cronica di personale della polizia penitenziaria che soffre anche di inadeguata formazione, ambienti inadatti e squallidi come quelli di San Vittore”. Ma come ci si è arrivati? “Indirizzando le risorse non sulla soluzione dei problemi ma costruendo il mito della sicurezza”, dice Ornella Favero, “e sull’idea che la pena debba infliggere sofferenza. Su questo soffia la politica di chi oggi comanda, in Italia e non solo. E questo purtroppo è il vento che tira tra la gente”. Nostro figlio, in carcere con gravi problemi di salute mentale di Massimiliano D’Agostino L’Unità, 12 ottobre 2024 È ridotto a uno stato di stordimento e sonnolenza continua. Sono il padre di un detenuto del carcere di Trapani, dove mio figlio è stato trasferito a inizio giugno da Enna per sovraffollamento. Dalla padella alla brace perché, a quanto leggo dall’ultima visita di Nessuno tocchi Caino, la stessa situazione si ripete nella Casa Circondariale di Trapani. Sono sconcertato. A mio figlio è stato diagnosticato un ritardo mentale da due perizie del tribunale di Siracusa, le quali sostenevano la necessità di un ricovero presso una Comunità o in alternativa una detenzione domiciliare per essere seguito dal Centro Salute Mentale di riferimento. Abbiamo proposto ricorso al Tribunale di Sorveglianza di Caltanisetta per ottenere la detenzione domiciliare per motivi di salute. Nella sentenza di rigetto i giudici hanno scritto che nonostante ci fosse un “granding suicidario medio” era sottoposto a cure farmacologiche, cosa che le perizie di Siracusa sconsigliavano fortemente. Invece, “Brintellix 15 gocce al dì; Trittico 25 gocce; Lexotan 30 gocce”, in tutto 70 gocce di tranquillanti che riducevano mio figlio per gran parte delle giornate in uno stato di stordimento e sonnolenza continua con una percezione della realtà distorta. Abbiamo sporto denuncia ai Carabinieri per capire come mai le perizie dei due periti d’ufficio nominati dal tribunale di Siracusa e le nostre perizie di parte sono state ignorate, ribadisco per ben due volte. Nella decisione di rigetto del Tribunale di Caltanissetta spiccano due anomalie abbastanza inconsuete. La prima è che il tribunale si basa su una “informativa” della questura di Siracusa secondo la quale il domicilio indicato non sarebbe una residenza idonea. Peccato solo che, pur essendo una casa di campagna, è effettivamente il luogo dove mio figlio ha la residenza e dove per ben 13 mesi di arresti domiciliari i Carabinieri sono venuti a fare i controlli di rito trovando sempre mi figlio e senza che ci sia mai stata una violazione alle prescrizioni imposte. La seconda incongruenza, mi pare, è che la figura del magistrato di sorveglianza e quella del presidente del tribunale di sorveglianza siano nel caso di mio figlio la stessa persona, quando di norma dovrebbero essere due distinti magistrati. Ragion per cui le istanze presentate sono state rigettate. La stessa Azienda Sanitaria Provinciale di Enna, rispondendo ai quesiti posti dal Tribunale di Sorveglianza di Caltanisetta, indicava per ben due volte di sottoporre mio figlio a perizia per accertarne la compatibilità o meno con il regime carcerario. Così ha scritto: “riguardo al quesito posto nella rinovellata nota di codesto ufficio, si precisa che questo servizio ha competenze clinico-diagnostiche, pertanto ai fini della valutazione sulla incompatibilità con l’attuale misura custodiale, necessita di eventuale indagine peritale volta a verificarne le condizioni”. Cosa che naturalmente né la direzione sanitaria del Carcere di Enna né il Tribunale di Sorveglianza di Caltanisetta hanno mai provveduto a fare. Abbiamo ripresentato al Magistrato di sorveglianza di Trapani la stessa istanza di detenzione domiciliare, richiesta di permesso premio, la legge 199 del 2010, cosiddetta “svuotacarceri”, visto che ormai di pena residua da scontare a mio figlio rimangono solo 7 mesi, ben al di sotto dei fatidici 18 mesi di pena residua. Ma anche da Trapani abbiamo ottenuto un rigetto: la inammissibilità della richiesta perché manca ancora la relazione di sintesi, che dovrebbero aver fatto ma ancora non abbiamo. Relazione di sintesi in notevole ritardo, dopo 10 mesi trascorsi a Enna, non si capisce se sia voluto o meno da parte della casa circondariale. Il nostro avvocato ha sollecitato con delle PEC di avere al più presto il verbale di chiusura di detta relazione ma unica risposta che abbiamo ottenuto è stato il silenzio totale dell’aerea educativa di Enna. Sarà la normalità? Mi chiedo come sia possibile tenere un soggetto con un ritardo mentale in un posto sovraffollato quando avrebbe il diritto di uscire per essere curato adeguatamente in una comunità apposita. Il trasferimento al carcere di Trapani rende poi le nostre visite e i colloqui ancora più difficoltosi per la notevole distanza dal luogo di residenza e di lavoro della famiglia. Un lungo viaggio davvero: ci vogliono sei ore in auto per andare e altre sei per tornare. Il trasferimento a Trapani lo abbiamo vissuto come una punizione nei nostri confronti e nei confronti di nostro figlio, un soggetto fragile che non ha mai creato problemi in tutti i suoi mesi di detenzione. Carceri: è urgente agire per la difesa della vita di Raffaele Grimaldi agdnotizie.it, 12 ottobre 2024 Papa Francesco: propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza. In questi ultimi mesi, le criticità delle nostre carceri, hanno creato un gran fermento nei mass media e molti dibattiti sia in politica che nel mondo ecclesiale e nelle associazioni di volontariato presenti nei nostri istituti. Nelle carceri bisogna sanare le ferite di molte vite fragili, non mortificarle né calpestarle né lasciarle nella solitudine e nell’abbandono. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dell’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (Art. 27 della Costituzione). Questi luoghi di pena devono avere solide basi di profonda umanità. E, con l’impegno di tutti, vanno umanizzati sempre più gli istituti penitenziari, affinché non siano luoghi di rabbia, violenze e “disordini”, ma ambienti dove il condannato è accompagnato dagli operatori penitenziari, attraverso molteplici attività trattamentali, e sostenuto per una vera rieducazione, un cammino di rinascita e un futuro inserimento sociale. Purtroppo, il cronico sovraffollamento e la mancanza di personale nelle diverse mansioni non aiutano il ristretto a vivere un percorso di reinserimento. Anzi, c’è il rischio che ne siano calpestati i diritti e la dignità; rischio che, in questo contesto, coinvolge anche il personale penitenziario. Il dramma dei suicidi nelle celle - Oggi, di fronte al dramma dei suicidi in carcere, si corre il rischio di abituarci a questi eventi estremi, conseguenza della solitudine e del sentirsi abbandonati, di relazioni interrotte, del sentirsi giudicati e condannati senza misericordia. Ma, soprattutto, è forte il sentimento di angoscia per la mancanza di speranza e di futuro. Anche papa Francesco, lo scorso 18 maggio, incontrando i detenuti del carcere di Verona, ha incoraggiato i ristretti a “Non cedere allo sconforto. …] La vita è sempre degna d’essere vissuta”. I nostri istituti non devono essere solo visti come luoghi punitivi, dove viene rinchiuso lo scarto della società, ma luoghi dove sono presenti persone fragili, che davanti alla privazione della libertà personale si disperano. E spesso commettono atti autolesionistici. E, purtroppo, anche auto-soppressivi. Aumentano le persone fragili - In questo tempo di criticità, occorre fare una riflessione onesta e attenta sulle molteplici problematiche che si vivono con drammaticità negli istituti di pena. Negli ultimi anni si sono concentrati gruppi di persone più vulnerabili e più fragili: i giovani, le persone disadattate con disturbi mentali e problemi per abuso di sostanze stupefacenti, che hanno determinato un aumento esponenziale del rischio suicidi. Ripensare il sistema carcerario - Bisognerebbe ripensare il carcere. E, forse, avere il coraggio di fare qualche passo indietro, per le diverse scelte discutibili fatte, in questi ultimi anni, dai diversi governi, soprattutto con la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) nel 2015. L’istituzione delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), che avrebbero dovuto sostituire gli Opg e ospitare i detenuti con problemi psichiatrici, s’è rivelata insufficiente allo scopo. Purtroppo, a oggi, per molti detenuti affetti da patologie psichiatriche, non può essere assicurata l’assistenza sanitaria presso queste strutture per mancanza di posti disponibili. E, quindi, si è costretti ad allocare questi soggetti fragili in strutture penitenziarie ordinarie, dove il personale in servizio, con tutta la sua buona volontà, non è preparato ad affrontare questa emergenza sanitaria. I suicidi nelle nostre carceri, che in questi ultimi tempi sono stati numerosi, sembrano una storia infinita, che si ripete puntualmente ogni anno e conta numeri sempre più elevati di coloro che si tolgono la vita: malati psichiatrici, stranieri, senza fissa dimora, giovani, a volte uomini senza speranza e futuro. Ma soprattutto, da non sottovalutare, c’è anche una fragilità psicologica che porta il ristretto a una decisione estrema. Molti si tolgono la vita alla loro prima esperienza detentiva, al termine del loro fine pena o alla vigilia della loro uscita dal carcere tanto sperata, perché sono spaventati, terrorizzati dalla paura di non farcela, di non trovare un vero inserimento e accoglienza in una società molte volte chiusa nell’indifferenza e nell’egoismo, che condanna senza misericordia gli errori commessi. Diminuiscono i diritti di chi è recluso - In questi ultimi tempi stiamo assistendo a continui disordini all’interno dei nostri istituti penitenziari. E ascoltiamo e leggiamo giuste denunce per la poca attenzione e sensibilità verso la difesa e la mancanza dei diritti e la dignità dei carcerati. Non basta però solo denunciare, quando uomini e donne reclusi sono dietro le sbarre. Abbiamo bisogno di uomini di buona volontà per l’accoglienza, per aiutare e prendersi cura di chi varca le soglie del carcere, per aiutarli a riprendere la loro piena libertà, offrendo un lavoro dignitoso e un’abitazione. Cosa possiamo fare di più? - Nel fare il nostro esame di coscienza, davanti ai mille volti di dolore che tendono le loro mani e ci chiedono un aiuto concreto, dobbiamo anche avere il coraggio di confessare le nostre omissioni, le nostre paure, le nostre mancanze di carità e di attenzione. Le denunce, il puntare l’indice su eventuali responsabili, la rabbia per i drammi che si vivono nelle carceri… tutto ciò è giusto, ma non basta. Molti detenuti che escono dal carcere, molto spesso sono persone sole e senza alcun riferimento familiare; occorre aiutarli con supporti psicologici, con strutture per l’accoglienza, offrendo un lavoro che possa dare loro dignità. Sono ben consapevole che tali soluzioni non sono facilmente realizzabili per la complessità della problematica. Sia come Chiesa che come società civile chiediamoci: cosa possiamo fare di più? Siamo un po’ tutti coinvolti e interrogati per i molteplici suicidi. Certamente un ristretto che si toglie la vita costituisce il fallimento più evidente del ruolo punitivo dello Stato. Non bastano i proclami - Per rassicurare l’opinione pubblica, non bastano i proclami sulla sicurezza; c’è bisogno di offrire un futuro e una speranza a coloro che escono dal carcere dopo aver scontato la pena. Se non trovano l’aiuto necessario e l’umana accoglienza, per queste persone il rischio di ritornare a delinquere è molto alto. Davanti a questo scenario drammatico, cerchiamo di avere uno sguardo cristiano carico di speranza. L’Anno giubilare 2025 sia di incoraggiamento, come ci ricorda papa Francesco nella Bolla d’indizione: “Saremo chiamati a essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio”. La voce profetica di papa Francesco - La voce profetica del Pontefice è rivolta anche ai Capi di governo, affinché abbiano cura di coloro che sono reclusi, non inasprendo le pene, ma lasciando loro “il diritto alla speranza”. “Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza, forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. Auguriamoci che quanto auspicato dal Santo Padre possa trovare pieno consenso presso tutti gli uomini di buona volontà. Detenuti al lavoro? Ancora troppo pochi di Patrizia Pallara collettiva.it, 12 ottobre 2024 Solo un terzo dei reclusi ha un’occupazione: la stragrande maggioranza dipende dall’amministrazione, per una manciata di ore, salari bassi e senza tutele. Su 60.166 detenuti presenti nelle nostre carceri, solo 20 mila lavorano. Di questi, 17.042 sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, 3.029 per altri datori. Pochi, pochissimi, specie se si considera che il lavoro è uno degli elementi del trattamento rieducativo: la legge infatti stabilisce che ai detenuti vada assicurata un’occupazione (art. 15 l. 354/75). I dati, forniti dal ministero della Giustizia e riferiti alla fine dello scorso anno, sono confermati dall’osservatorio di Antigone, che nel 2023 ha visitato 99 istituti: la media delle persone che lavorano è risultata del 32,6 per cento, quelle dipendenti da datori esterni sono solo il 3,2. Da aggiungere che mentre ci sono carceri dove si registrano iniziative d’inserimento lavorativo di una certa rilevanza, in altre le possibilità sono davvero ridotte e si limitano al lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Poche ore e pochi giorni - Non solo. “I numeri non ci dicono quanto effettivamente lavorino quelle persone - spiega Denise Amerini, responsabile dipendenze e carcere dell’area stato sociale e diritti Cgil -: sappiamo che per i detenuti dipendenti dall’amministrazione il lavoro si svolge per poche ore al giorno, per pochi giorni alla settimana o al mese. Questo rende, di fatto, indispensabile interpretare correttamente i dati perché non tengono conto del quanto e del come: può considerarsi occupata una persona che lavora, per fare un esempio, due mesi in un anno, e magari in maniera non continuativa?”. Senza contare che chi è alle dipendenze dell’amministrazione fa un’attività di tipo “domestico”, svolge compiti necessari alla gestione degli istituti: cucina, lavanderia, distribuzione dei pasti, manutenzione ordinaria dei fabbricati, con scarsissimo se non nullo contenuto professionalizzante, attività che non preparano affatto al mondo di fuori. Doppio potere - “Se il datore di lavoro è lo stesso ente che ha un potere detentivo e punitivo sulla persona, il rapporto non potrà mai essere equilibrato - fa notare Oscar La Rosa, socio e fondatore di Economia Carceraria -. Un equilibrio che invece è più facile trovare quando il datore è esterno e si applica un contratto. Il secondo problema è rappresentato dalle ore lavorate: l’amministrazione preferisce far lavorare per due ore quattro persone, piuttosto che una per otto ore”. Lavoro senza tutele - “Anche questo è un fattore che deve far riflettere - aggiunge Amerini -, perché mentre chi lavora per imprese e cooperative esterne ha accesso alla retribuzione e alle tutele contrattuali previste dal contratto collettivo di riferimento, chi lavora alle dipendenze dell’amministrazione ha una retribuzione che corrisponde ai 2/3 di quella contrattuale, e non ha tutte le tutele previste da un compiuto rapporto di lavoro. Prova ne sono i numerosi ricorsi che la nostra organizzazione, con l’Inca, ha promosso per il riconoscimento della Naspi, e con esito positivo”. E talora senza salario - C’è poi ancora la prassi di inserire detenuti in lavori di pubblica utilità, per i quali non è previsto un salario, ma solo, e non sempre, un rimborso spese. “Anche su questo la Cgil ha espresso giudizio negativo - dice Amerini -, perché è solo riconoscendo tutti i diritti legati alla prestazione che questa assume davvero un valore risocializzazione, e permette di passare dalla condizione di detenuto-lavoratore a quella di lavoratore-detenuto, titolare di diritti”. I soldi servono in carcere - La questione dello stipendio mensile non è secondaria. “In carcere i soldi servono, anche se sembra strano - afferma La Rosa -. Il vitto non è buonissimo e se vuoi comprarti qualcosa hai bisogno di soldi. Ti passano beni per l’igiene ma se hai bisogno di più dentifricio o carta igienica, hai bisogno di soldi. Se eri l’unica persona che portava a casa un reddito, legale o illegale che fosse, adesso la tua famiglia è rimasta senza. E poi ci sono i parenti che, se vogliono venire a trovarti, a volte devono affrontare lunghi viaggi e di conseguenza costi”. In questo contesto si colloca il disegno di legge elaborato dal Cnel che ha istituito uno specifico segretariato, che prevede l’integrale applicazione dei contratti collettivi di riferimento, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative, e il superamento del lavoro non retribuito. Le falle del ddl Sicurezza - “Preoccupa l’aver inserito nel ddl Sicurezza - prosegue Amerini - anche l’estensione dell’apprendistato professionalizzante, così come introdotto dal Jobs Act, cioè senza limiti di età, ai condannati e gli internati ammessi alle misure alternative e ai detenuti assegnati al lavoro esterno. Questo provvedimento è contrario al valore e al significato che deve avere il lavoro dei detenuti. Oltre a ridurre i costi per le aziende, si diminuiscono diritti e tutele, come se il lavoro non fosse davvero un diritto. E il suo valore di risocializzazione non si sostanziasse nel pieno riconoscimento di diritti e doveri, ma l’assunzione di persone in situazione di maggiore bisogno, o fragilità, possa essere legata esclusivamente a incentivi economici, sgravi fiscali, e a una retribuzione ridotta”. Carceri, il lavoro per la rinascita sociale e personale di Simona Ciaramitaro e Patrizia Pallara collettiva.it, 12 ottobre 2024 Tre progetti in tre diversi istituti italiani. Le testimonianze di chi sta provando a far costruire ai detenuti il proprio futuro. Nelle carceri italiane, di cui anche noi di Collettiva spesso trattiamo le condizioni disperate dei detenuti, esistono anche esempi virtuosi di attività che puntano al reinserimento nella società di coloro che vi si trovano reclusi, allo scopo di evitare uno stato di abbandono che può soltanto peggiorarne la condizione, anche nel momento in cui torneranno in libertà. Spesso è il lavoro a riqualificare le loro vite, e in tutta Italia ci sono istituti impegnati in progetti lavorativi. Noi abbiamo scelto tre esempi: in Sicilia, Lazio e Lombardia. La scuola edile - In Lombardia ha preso vita un corso di formazione per manovale e muratore per i detenuti del carcere di Opera in possesso dei requisiti di legge per uscire dalla casa di reclusione per motivi di lavoro, allo scopo di trovare in seguito un impiego stabile e duraturo. Al termine del corso, infatti, a tutti coloro che lo avranno terminato con successo verrà proposta l’assunzione in una delle aziende dell’edilizia nelle province di Milano, Lodi e Monza Brianza. Un’iniziativa della Fondazione Don Gino Rigoldi, in collaborazione con i sindacati Fillea Cgil, Filca Cisl e Feneal Uil, e con Assimpredil Ance, Intesa Sanpaolo per il sociale, Umana e la scuola edile di Esem-Cpt. Pierfilippo Pozzi, direttore generale della Fondazione. Una pasta che guarda al futuro - A Roma hanno impiegato dieci anni per trasformare un’esortazione di papa Francesco e un’idea del cappellano padre Gaetano in una vera attività. Il Pastificio Futuro ha aperto i battenti l’anno scorso nel minorile Casal del Marmo: in una palazzina di 550 metri quadrati, resa esterna e separata dall’istituto penale, oggi si produce una tonnellata di pasta secca a settimana, circa il 20 per cento della sua capacità. Ci lavorano quattro ragazzi che vengono dal carcere ma che adesso vivono all’esterno, assunti con regolare contratto, e alcuni giovani universitari. “Il momento più difficile è proprio quando i ragazzi escono e finiscono ai servizi sociali: è lì che possono ricadere, ed è lì che dobbiamo combattere la recidiva”, spiega Alberto Mochi Onori, presidente della cooperativa Gusto Libero onlus: “Abbiamo anche capito che non svolgiamo soltanto un’attività professionalizzante per questi giovani, ma proprio un’educazione al lavoro: venire tutti i giorni, rispettando gli orari, se non vieni devi presentare un certificato medico, altrimenti prendi le ferie o comunque devi giustificare l’assenza, avere una busta paga, imparare a rispondere, a lavorare in gruppo, ad accettare le indicazioni dei capi. Si fa esperienza a tutto tondo. Ma il pastificio è molto connotato. Perché ci sia una vera riabilitazione, i ragazzi devono spiccare il volo e andare a lavorare da un’altra parte”. La Sartoria sociale - A Palermo, nel quartiere Malaspina, in un immobile confiscato alla mafia c’è una grande bottega che confeziona abiti e oggetti etici con gli scarti tessili e che nel 2023 ha dato vita al Pagliarelli Lab, nella sezione femminile dell’omonimo carcere, dove le detenute vengono formate e avviate alla manifattura tessile, con l’obiettivo della risocializzazione e del reinserimento professionale. È la Sartoria sociale, un’impresa della cooperativa autofinanziata Al Revés di abbigliamento etico e riciclo tessile, che vuole “valorizzare le provenienze di ognuno e proporsi come un luogo ‘altro’ di accoglienza di storie, narrazioni ed esperienze”. La Consulta e il Parlamento paralizzato di Serena Sileoni La Stampa, 12 ottobre 2024 Quando un componente della Corte costituzionale conclude il proprio mandato, deve essere sostituito entro trenta giorni. Non è da adesso, quindi, ma da più di dieci mesi che c’è urgenza di individuare un successore alla giudice Sciarra, che ha terminato il proprio incarico nel novembre scorso. Solo ora, però, si è aperto un acceso dibattito. Non per senso delle istituzioni da parte della pubblica opinione e del parlamento, ma per un fatto politico, e cioè perché è trapelato dalla stessa maggioranza parlamentare che la Presidente Meloni, in vista dell’ottava votazione, ha inviato un ordine di scuderia per eleggere uno stimato professore di diritto pubblico, che al momento è suo consigliere giuridico a Palazzo Chigi. La questione politica, quindi, ha preso il sopravvento su quella istituzionale, sulla quale invece è opportuno soffermarsi per riflettere su cosa si crede che sia e cosa si vuole che sia la Corte. L’inoperosità del Parlamento nell’eleggere la sua quota di giudici alla Consulta ha una lunga serie di precedenti, fin dalla sua istituzione. Nel 1953, venne approvata la legge costituzionale sul funzionamento della Consulta (quella che impone di sostituire i giudici entro un mese dalla scadenza del loro mandato). Eppure, essa entrò in funzione solo nel 1956. L’attesa di due anni e mezzo fu dovuta al ritardo proprio nella elezione dei giudici di competenza del parlamento, con tanto di richiamo dell’allora presidente della Repubblica Gronchi nel suo messaggio di insediamento, appena eletto, alle Camere. Nella prima Repubblica, raccontano le cronache, le elezioni si svolgevano con più facilità secondo una logica consensuale e spartitoria, dove dei cinque giudici due venivano indicati dalla DC, uno dal PSI, uno dal PCI e uno dai partiti laici minori. Scomparsi quei partiti, le difficoltà degli accordi sui nomi sono diventate palesi e si sono accumulati ritardi e scrutini: undici mesi (e dodici scrutini) nel 1996, venti mesi (e dodici scrutini) nel 1997, diciassette mesi (e quindici scrutini) nel 2002, diciotto mesi (e ventuno scrutini) nel 2008, quattro mesi (e ventuno scrutini) nel 2014. Nel 2015, infine, il parlamento si è trovato a tardare la nomina contemporanea di tre giudici vacanti, al punto da costringere il Presidente Mattarella a rivolgere un messaggio per l’adempimento di quello che è un vero e proprio dovere costituzionale. Come allora e anche oggi Mattarella, anche i suoi predecessori si sono trovati a dover richiamare le forze politiche al loro dovere: Cossiga nel 1991, Ciampi nel 2002 e Napolitano nel 2008. Nel 2008, peraltro, la vicenda era simile all’attuale, poiché l’elezione del giudice mancante coincideva con l’insediamento della Commissione di vigilanza della Rai. Eppure proprio in quel caso avvenne un fatto politico che segna una decisa differenza rispetto a oggi. I radicali, guidati da Pannella - che per l’occasione fece uno dei suoi scioperi della sete - si resero promotori di un appello votato dalla maggioranza assoluta dei parlamentari e rivolto ai presidenti di Camera e Senato per convocare a oltranza le sedute, finché non si sarebbero ottenute le rispettive elezioni. Oggi, invece, i parlamentari, anziché pretendere dai partiti di essere messi nella condizione di adempiere al loro dovere istituzionale, hanno soffiato sul fuoco della vicenda politica, sia dalla maggioranza che dall’opposizione. Da un lato, si dice “così fan tutti”, dall’altro si è gridato all’assalto degli organi di garanzia fino a evocare, ancora una volta, l’Aventino. È evidente che la scelta di un quinto dei componenti della Corte sia politica: non sarebbe, altrimenti, una elezione del parlamento. È però sottratta sia alla disponibilità della maggioranza che alle più strette logiche partitiche. Per questo, il voto è segreto e le maggioranze richieste sono tali da essere più ampie anche di quelle di una maggioranza in un sistema maggioritario. L’elezione, inoltre, spetta a un organo terzo rispetto alla Camera e al Senato - il Parlamento in seduta comune - senza candidature e senza discussione, davanti al quale il giudice eletto non risponderà, una volta conferito l’incarico. Questo vuol dire che l’elezione parlamentare sia a-politica? Chiaramente no, altrimenti - come detto - gli sarebbe sottratta questa funzione. Vuol dire però che deve essere corrispondente a una logica di ampio consenso, quello richiesto appunto dal quorum, e non di appropriazione di personalità di indiscusso valore. Quanto è diversa dalla logica spartitoria della prima repubblica quella che si è appena manifestata? E si può dire che l’una era corretta, l’altra no? Quanto alla prima domanda, la forma è sostanza. Una eventuale spartizione frutto di convergenza politica sui nomi non è la stessa cosa di una manifesta prova di forza da un lato e resistenza dall’altro. Alla seconda domanda, non c’è una risposta univoca. Si può ragionare sull’opportunità di una appropriazione politica più evidente e trasparente di chi si vuole far eleggere. La Consulta di oggi appare molto diversa da quella di ieri. È vista come protagonista della vita politica con la p maiuscola, essa stessa si è aperta a un maggior confronto con l’opinione pubblica. Che le logiche di elezione per la quota parlamentare diventino più palesi non è necessariamente un male. A dicembre scadranno i mandati di altri tre giudici di nomina parlamentare. Se le vicende attuali sono l’anticipo di un accordo dove domani ciascuno avrà il suo, è anche giusto saperlo. Ma a ciò deve accompagnarsi un ripensamento su cosa si pensa e si vuole che sia la Corte e quindi anche a come funziona. A partire, ad esempio, dall’introduzione delle opinioni dissenzienti e concorrenti, cioè delle opinioni di “minoranza” che espongono i giudici a un confronto con la pubblica opinione. La composizione e il funzionamento della Corte servono a costruire una specie di triangolo di Penrose: una figura compiuta pur nella apparente impossibilità. Ogni lato che si tocchi rischia di rompere un delicato ma riuscito equilibrio. Sono rischi che la politica può intestarsi, a condizione però di ricomporre la figura guardando tutti i lati, da tutte le prospettive. “No al Ddl sicurezza”, oggi la protesta diffusa di Giuliano Santoro Il Manifesto, 12 ottobre 2024 Azioni previste in tutto il Paese. L’allarme lanciato dopo l’ok della camera è stato raccolto da tanti. Si lavora a un corteo nazionale. È il giorno della protesta diffusa in tutto il paese contro il Ddl 1660 che con la scusa della “sicurezza” colpisce il diritto al dissenso in numerose forme. “Si tratta di una misura in linea con la cultura sempre più autoritaria del governo Meloni - affermano dalla Rete nazionale No Ddl Sicurezza - volta a colpevolizzare le figure giovanili protagoniste delle mobilitazioni per l’ambiente, restringere fino a impedire il campo di azione dei movimenti sociali e colpire il diritto allo sciopero nelle sue forme storiche; le forme che hanno costruito negli anni l’agibilità di lavoratori e lavoratrici e la stessa democrazia formale e sostanziale”. L’allarme lanciato nelle ultime settimane, dopo che il provvedimento che porta le firme dei ministri Piantedosi, Nordio e Crosetto ha avuto il via libera alla camera, ha raggiunto il suo obiettivo: in molte città italiane si sono tenute assemblee partecipate. Dappertutto la preoccupazione per quella che senza mezze parole viene considerata una stretta autoritaria ha generato voglia di partecipare e di rimettersi in movimento. La protesta contro il provvedimento ha incrociato vertenze sindacali, comitati territoriali, associazioni, centri sociali e singoli cittadini che, raccontano al manifesto i promotori della protesta, da giorni li stanno contattando per sapere come possono aderire e cosa possono fare per contrastare il Ddl. L’impressione è che il fatto di aver preso sul serio questo allarme abbia costretto molta gente a fare sul serio, spesso a superare divisioni e idiosincrasie. “Si è parlato di un vero e proprio salto di paradigma, di una ‘orbanizzazionè del paese, in direzione delle ‘autocraziè realizzate e dei disegni ideologici dei populismi - spiegano - La rete che si è costituita ha lanciato vari appuntamenti pubblici uniti dallo slogan ‘Se fate il fascismo, noi facciamo la Resistenza’; si è voluto sancire la necessità di praticare un’opposizione dura alla svolta autoritaria”. Ci saranno, oltre alle specifiche realtà locali, anche pezzi di partiti di sinistra, Rete dei numeri pari, Anpi e Arci. Da Padova, il centro sociale Pedro e Adl Cobas ricordano che “l’impianto ideologico su cui si regge il Ddl è la restrizione di tutti gli ambiti di esercizio della libertà individuale, che non sia quella votata a difendere il profitto e la proprietà privata”. Da Milano, dove è previsto un corteo affermano che il Ddl 1660 “non è solo l’ennesima legge repressiva, è una dichiarazione di guerra contro i picchetti sindacali e le lotte studentesche ed ecologiste, contro chi si ribella all’orrore del carcere, contro chi ha la colpa di essere di un altro paese d’origine oppure di non avere una casa”. E poi, tra le tante piazze, Bologna, Parma, Roma, Salerno. Saranno volantinaggi e azioni comunicative, proteste di piazza e flash mob, inizative che rilanceranno la campagna specifica e al tempo stesso porteranno avanti lotte territoriali che procedono da tempo. Se ne è parlato già ieri nelle piazze dei Fridays for future e se ne continuerà a parlare in quelle per la Palestina, nel corteo dei lavoratori dell’automotive del prossimo 18 ottobre e nell’appuntamento, sempre contro il Ddl sicurezza, convocato per sabato 19 dalla rete Liberi di lottare, cui aderiscono diversi sindacati di base. I promotori della giornata di oggi, intanto, lavorano a una grande assemblea nazionale a Roma che dovrà servire a organizzare il blocco dell’area attorno a Palazzo Madama per il giorno in cui il Ddl arriverà in aula. Dalle audizioni dei giorni scorsi, davanti alle commissioni giustizia e affari costituzionali del senato, diversi giuristi hanno sottolineato che gli articoli del Ddl, vero e proprio catalogo dei nemici pubblici al tempo di Meloni, sono scritti male e quindi a rischio di inapplicabilità. Ma questa vaghezza dei dispositivi di legge, è la preoccupazione, rischia di creare ampi margini di discrezionalità. Non sarebbe la prima volta che la debolezza della politica rischia di lasciare il posto agli automatismi di polizia. Qui sta la pericolosa connessione tra leggi spot, tutte legate agli allarmi virtuali e montati dai media, e la loro restrizione di diritti materiali. Abuso d’ufficio, decide la Consulta di Gloria Riva L’Espresso, 12 ottobre 2024 Scacco - non ancora matto - alla legge Nordio, quella che ha abrogato l’abuso d’ufficio. Al momento la norma che puniva i pubblici ufficiali, rei di profittare del proprio potere per vergognosi interessi privati, è evaporata lo scorso 25 agosto, quando il reato è stato cancellato. Ma per i colletti banchi e i burocrati che hanno in corso processi e sono accusati di abuso d’ufficio potrebbe essere presto per brindare alla sanatoria. Perché? Un grimaldello per riaprire la porta dell’abuso d’ufficio, sprangata da Nordio, è stato messo in azione lo scorso 24 settembre dai giudici del Tribunale di Firenze, Paola Belsito, Alessio Innocenti e Anna Aga Rossi, a conclusione del processo che vede al centro l’ex procuratore aggiunto di Perugia, Antonella Duchini, ritenuta la protagonista del “clima tossico” creatosi alla Procura di Perugia, stando all’accusa dei pm fiorentini. L’intero processo ruotava attorno all’abuso d’ufficio e, sommando quel reato ad altri puniti più severamente, per Duchini erano stati chiesti dall’accusa 12 anni e 6 mesi di reclusione. La storia di questo processo è stata raccontata sul numero de L’Espresso del 20 settembre nell’inchiesta “La faida infinita e la pm imputata”, che ha ripercorso il calvario di Giuseppe Colaiacovo, uno degli eredi della prestigiosa famiglia di Gubbio, proprietaria della terza più grande industria di cemento d’Italia, la Colacem spa, a sua volta controllata dalla holding Financo, che è divisa in parti uguali fra i quattro fratelli Pasquale, Giovanni, Franco e Carlo Colaiacovo. Giuseppe Colaiacovo è il figlio di Franco e negli ultimi vent’anni la sua vita è stata segnata dalla pm Duchini, che lo arresta (ingiustamente) nel 2007, gli sequestra le quote della Financo e presenta un’istanza di fallimento per le sue società. Mentre Duchini intercettava Giuseppe, parallelamente la voce della magistrata veniva ascoltata dai magistrati siciliani, che stavano indagando sull’ex carabiniere dei Ros, Orazio Gisabella, stretto collaboratore di Duchini. In tal modo affioravano fortuitamente i contorni della macchinazione illecita che si stava compiendo a danno di Giuseppe Colaiacovo e della Fc Gold. Macchinazione che avrebbe giustificato l’avvio da parte dei pm fiorentini di una delicatissima indagine, sfociata in un processo che, a causa dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio, rischiava di finire in nulla. Invece l’avvocato che ha difeso Giuseppe Colaiacovo, che nel processo si è costituito parte civile, ha avanzato un’istanza di legittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge Nordio. Istanza accolta dai giudici lo scorso 24 settembre, ritenendola “non manifestamente infondata e rilevante” nel giudizio in corso. Hanno chiesto l’intervento della Consulta, che ora dovrà decidere. In cosa consiste l’osservazione del difensore Manlio Morcella? Secondo il legale, la cancellazione dell’abuso d’ufficio contrasta con l’articolo 19 della Convenzione di Mérida del 2003, cioè la Convenzione Onu contro la corruzione. Quell’articolo, intitolato “Abuso d’ufficio” dice che ciascuno Stato “shall consider adopting” le norme più congrue per contrastare l’abuso delle proprie funzioni o della sua posizione da parte di un pubblico ufficiale. La violazione della Convenzione di Mérida era già stata tirata in ballo nel corso della discussione parlamentare del ddl, ma la maggioranza non l’ha presa in considerazione. E ora, tale e quale, finisce sul tavolo della Corte costituzionale. Ma fa un passo avanti. Infatti il guardasigilli Nordio aveva interpretato e dunque qualificato l’espressione inglese shall consider adopting come una semplice raccomandazione. Nel senso che “ogni Stato aderente al trattato Onu dovrebbe considerare di adottare” una legge contro l’abuso d’ufficio. Secondo Morcella non è così: “Nei punti in cui la stessa Convenzione ha inteso offrire un suggerimento agli Stati ha usato il verbo may, come all’articolo 27. In base al trattato, lo Stato che non prevede il reato di abuso d’ufficio ha l’obbligo “di considerare la sua introduzione”; lo Stato, come l’Italia, che già lo contempla, deve restare fermo”, stand still. L’esatto contrario di quel che ha fatto Nordio, che ha abrogato la legge. Tutte affermazioni condivise dai giudici fiorentini nell’ordinanza inviata alla Consulta. La risposta potrebbe arrivare entro la prima metà del 2025. Nell’attesa, Giuseppe Colaiacovo, forte dell’ordinanza nella quale si conferma che, nonostante il reato sia stato estinto, il fatto esiste, sta già valutando di avviare la causa civile. Il risarcimento partirebbe da una cifra non inferiore ai 50 milioni di euro. Del resto, il solo valore della partecipazione in Financo, quello che è stato sequestrato e poi posto in fallimento dall’ex pm Duchini, oggi è stato valutato dal fondo d’investimento americano One Equity Partners 412 milioni di euro. Il fondo, infatti, ha da poco presentato un’offerta da 1,65 miliardi per il 100% della holding Financo, anche se la situazione di tensione fra gli eredi della famiglia non ha permesso di accogliere l’interessante offerta. Al riguardo si è in attesa di una decisione del tribunale di Perugia, dove è stata depositata e discussa l’istanza di scioglimento di Financo, non essendo possibile né l’approvazione del bilancio né il rinnovo delle cariche per il contrasto insanabile fra gli eredi Colaiacovo. Lazio. Carceri, la Giunta regionale stanzia 350mila euro per favorire il reinserimento viterbotoday.it, 12 ottobre 2024 La Regione Lazio stanzia 350mila euro per migliorare le condizioni di vita in carcere e favorire il rinserimento sociale Miglioramento delle condizioni di vita in carcere, diritto allo studio e alla diffusione dell’istruzione universitaria tra i detenuti: dalla Regione Lazio 350mila euro. La giunta Rocca, su proposta dell’assessora Luisa Regimenti, ha approvato due delibere. In base a quanto disposto da una legge regionale del 2007, 290mila euro sono destinati alla promozione di percorsi volti a ridurre la recidiva nei reati di genere, ad attività di informazione, orientamento e facilitazione all’accesso alle prestazioni previdenziali e socio-assistenziali erogate da enti pubblici o privati, alla formazione professionalizzante e ad attività di educazione e promozione culturale della conoscenza della lingua e della cultura italiana e a interventi di arteterapia e di sviluppo di capacità artistico creative. “Le iniziative - sottolinea la Regione - saranno realizzate attraverso un avviso pubblico destinato alle istituzioni sociali private per definire i criteri e le modalità di valutazione delle proposte progettuali finalizzate alla realizzazione negli istituti penitenziari del Lazio, degli interventi e delle azioni di natura trattamentale oltre che i criteri di assegnazione dei finanziamenti”. Altri 60mila euro sono destinati al sostegno del diritto allo studio e alla creazione di poli universitari. Le risorse saranno ripartite in misura proporzionale al numero dei detenuti iscritti nell’anno accademico 2024/2025 agli atenei coinvolti che sono l’università Roma Tre, Tor Vergata, La Sapienza, Università della Tuscia e quella di Cassino e del Lazio meridionale. “Rinnoviamo - commenta l’assessora Regimenti - il nostro impegno per la popolazione detenuta del Lazio che, come dimostrano i tanti momenti critici vissuti nei mesi scorsi, vive un momento di grande sofferenza a causa del sovraffollamento. Grazie a queste risorse vogliamo offrire una prospettiva di riscatto attraverso attività alternative come lo studio, la formazione, il lavoro, l’arte che possano consentire al detenuto di aspirare a una nuova vita una volta scontata la pena. Queste misure si aggiungono al tavolo di lavoro interistituzionale per la prevenzione dei suicidi e al tavolo interassessorile per il trattamento della popolazione detenuta, strumenti che testimoniano la costante attenzione della giunta Rocca alle condizioni dei detenuti e di operatori e agenti che lavorano degli istituti penitenziari. Migliorare la condizione delle persone recluse significa anche migliorare la qualità della vita di tutti gli operatori che lavorano nel carcere”. Toscana. Salute mentale in carcere. “Sollicciano e Livorno i contesti più problematici” firenzetoday.it, 12 ottobre 2024 Oltre al dramma dei suicidi aumentano gesti autolesivi e aggressioni. “Nelle carceri italiane c’è anche un’emergenza salute mentale. In Toscana i contesti più problematici sono le case circondariali di Sollicciano a Firenze e Le Sughere a Livorno. Oltre al dramma dei suicidi, registriamo purtroppo gesti autolesivi o eterolesivi di cui è difficile avere un numero certo”. A dirlo è la dottoressa Ilaria Garosi, membro del gruppo di lavoro sulla psicologia penitenziaria dell’Ordine toscano, facendo una fotografia dello stato di salute psicologica dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria nelle carceri toscane. I dati diffusi dal provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per la Regione Toscana aggiornati al giugno 2023 registrano quattro suicidi nel carcere fiorentino, 44 gesti di autolesionismo, 128 scioperi della fame e 50 aggressioni al personale di polizia. Lunedì scorso l’ultimo caso eclatante. “Il sovraffollamento dei penitenziari - dice Garosi - è un fattore che evidentemente incide in maniera negativa, così come la tipologia delle persone detenute: molti individui già problematici vengono detenuti anziché adeguatamente trattati nelle strutture sanitarie. Parliamo di casi in cui il quadro psicopatologico dovrebbe prevedere soluzioni alternative al carcere. Ci sono poi moltissimi stranieri che vivono una condizione di solitudine maggiore causata dalla non presenza dei familiari e da differenze culturali che rendono complesso l’adattamento alla vita detentiva. Ci sono persone detenute tossicodipendenti che avrebbero necessità di percorsi terapeutici esterni al carcere”. “Non tutti i suicidi sono però riconducibili a disagio mentale - continua la psicologa -. Altre possibili cause di un evidente e crescente disagio psicologico possono essere connesse all’ ambiente detentivo complesso o a momenti precipitanti come comunicazioni di atti giuridici o eventi collegati alla vita familiare”. Garosi allarga lo sguardo anche agli agenti di polizia penitenziaria: “Gestire detenuti con profili così fragili rappresenta in egual misura una condizione di sofferenza. Assistere a suddetti eventi critici espone le nostre forze dell’ordine a traumi psicologici e stress”. “I colleghi psicologi che lavorano nelle carceri toscane, sia che siano coinvolti nell’area sanitaria sia come esperti ex articolo 80, cioè i professionisti che operano nelle strutture su disposizione del ministero della Giustizia - rimarca Maria Antonietta Gulino, presidente dell’Ordine degli psicologi della Toscana - possono offrire un contributo importante nella rilevazione dei bisogni e dei fattori di rischio e sarebbe importante quindi che il lavoro integrato che gli stessi fanno nelle equipe multiprofessionali dei vari istituti fosse valorizzato. Sul piano del personale prosegue invece l’esperienza portata avanti dal Centro criticità relazionali di Careggi insieme al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria Toscana Umbria che aveva preso avvio proprio da una collaborazione con il nostro Ordine. Ci auguriamo che la nostra professionalità possa essere messa a sistema per aumentare la possibilità di intervenire in termini preventivi, per ridurre il malessere generato nell’istituzione totale e poter così smettere di rincorrere l’emergenza”. Milano. Carcere di San Vittore, 44enne suicida: è il secondo caso in un mese di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 12 ottobre 2024 Il sovraffollamento è il doppio della media italiana. L’uomo, detenuto per droga, sarebbe uscito nel 2027. A San Vittore sono detenute 1.022 persone anche se i posti sono 477. La media nazionale di sovraffollamento è 130%, nel carcere milanese al 229%. Gli agenti sono 580: dovrebbero essere 700. Ormai, alla cadenza con la quale i suicidi in carcere vanno susseguendosi senza che ai piani alti della politica se ne tragga qualche spinta all’urgenza di decomprimere il sistema prima che esploda del tutto, c’è solo l’imbarazzo di quale parametro statistico adottare per inquadrare l’ennesima morte autoinflittasi da un recluso: stavolta da P. D. M., un detenuto pugliese di 44 anni che nel carcere di San Vittore, dove era detenuto per reati correlati alla droga e con un fine pena intorno al 2027, si è strangolato con i lacci delle scarpe nel suo letto in cella, senza che i soccorsi di agenti e sanitari nulla abbia potuto per rianimarlo quando è stato trovato alle 5 e mezza del mattino. Si può ad esempio contare che sia il secondo in due giorni a livello nazionale. O invece ricordare che sia il secondo a San Vittore in poco più di un mese, dopo il 18enne egiziano Youssef carbonizzato il 6 settembre nella sua incendiata cella. Oppure fare riferimento al globale macabro pallottoliere italiano, che con i lacci delle sue scarpe segna la 75esima croce del 2024 in un suicidio. O mettere assieme, nella burocratica contabilità dell’istituzione, le morti dei cinque detenuti che a San Vittore si sono tolti la vita negli ultimi 10 mesi avendo chi l’etichetta ufficiale “suicidio”, chi ancora la classificazione “causa da accertare”, chi invece l’indicazione di vittima di inalazione stordente di bombolette di gas. O infine si può tornare poco più indietro nel calendario per constatare che si tratta del dodicesimo morto in tre anni nella Casa Circondariale cittadina. Di cui fanno testo altri numeri, parimenti sempre uguali nella sostanza e sempre ignorati: a San Vittore sono detenute 1.022 persone anche se i posti disponibili sarebbero per 477 reclusi, il sovraffollamento è dunque non al 130% nazionale ma al 229%, e gli agenti di custodia della polizia penitenziaria invece di essere 700 sono solo 580. “Quante persone dovranno ancora uccidersi in carcere perché il governo si ponga il problema dell’impatto che le condizioni inumane e degradanti delle carceri italiane hanno sulla salute umana, a partire da quella mentale?”, chiede l’ex senatore Marco Perduca che ad agosto ha coordinato la diffida inviata dall’”Associazione Luca Coscioni” alle 102 Asl italiane competenti per la salute nei 189 penitenziari italiani. “Oggi - lamenta - tutto si risolve con qualche interrogazione parlamentare, a cui non viene data risposta, o a richieste di indagini conoscitive (del segreto di Pulcinella) in qualche commissione”, da accatastare sopra i tanti rapporti o documenti di uffici giudiziari, Csm, università, associazioni. “Se non si vogliono adottare amnistia o indulto”, conclude Perduca, “almeno si rispettino gli obblighi di legge, perché il diritto alla salute sia in linea con l’ordinamento penitenziario e la Costituzione”. Firenze. “L’acqua calda in cella è un diritto”. Sollicciano, accolto il accolto di un detenuto di David Allegranti La Nazione, 12 ottobre 2024 La richiesta di un detenuto era stata respinta, ora l’appello gli dà ragione. “L’erogazione è nel regolamento dell’ordinamento penitenziario. L’amministrazione ha 90 giorni di tempo per provvedere”. L’acqua calda nelle celle ci deve essere e non è una richiesta che può essere avanzata solo negli alberghi. È un fatto “notorio” che le cimici da letto siano presenti nel carcere di Sollicciano. Le infiltrazioni piovane anche all’interno delle celle, “con caduta di residui di intonaco sui letti” si protraggono da anni. Insomma aveva ragione quel detenuto che aveva presentato, attraverso l’associazione L’Altro Diritto, un ricorso ex 35-bis dell’ordinamento penitenziario in materia di diritti al tribunale di sorveglianza di Firenze. Lo scrive, nero su bianco, in un’ordinanza, il presidente del Tribunale, Marcello Bortolato, che accoglie in toto il reclamo - presentato sempre attraverso L’Altro Diritto - dopo che un magistrato di Sorveglianza dello stesso ufficio, Claudio Caretto, aveva respinto le sue richieste. “Con riferimento alla mancanza di acqua calda nel lavandino che si trova all’interno delle camere detentive, ritiene questo magistrato che la fornitura di acqua calda all’interno della cella non sia un diritto essenziale garantito al detenuto, ma una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere” aveva scritto Caretto. “Pur tralasciando l’espressione usata nel provvedimento impugnato con l’immotivato riferimento al trattamento ‘alberghiero’, giustamente apparsa irridente ed avulsa da un contesto giuridico, nel merito la decisione è errata” scrive il presidente del Tribunale nella sua ordinanza. “La previsione di acqua corrente ‘calda e fredda’ è infatti contenuta” nel Regolamento dell’Ordinamento Penitenziario e addirittura la norma prevede la realizzazione della doccia in ogni camera, pur dilazionandone l’effettuazione nei 5 anni (peraltro abbondantemente decorsi). La mancata fornitura di acqua calda nella cella costituisce indiscutibilmente quell’inosservanza da parte dell’amministrazione di una norma del regolamento”. Quanto al resto, “le condizioni del carcere cittadino sono ormai ben note a questo Tribunale e possono definirsi severamente critiche. Tale circostanza è stata oggetto di plurimi e ripetuti accertamenti in primo luogo da parte dell’autorità sanitaria locale che” nei verbali delle visite effettuate, “danno atto di una situazione ormai cronicizzatasi di evidenti carenze igienico-sanitarie e manutentive desumibili dalle tracce evidenti di infiltrazioni in molte zone di uso comune e all’interno delle sezioni, con formazione di raccolte di acqua a terra e distacchi di intonaco su pareti e soffitti”. Mantova. L’appello della direttrice del carcere: “Imprese e terzo settore diano lavoro ai detenuti” Gazzetta di Mantova, 12 ottobre 2024 Visita alla casa circondariale di Mantova, l’11 ottobre, del presidente della Provincia Carlo Bottani e delle consigliere regionali Alessandra Cappellari e Paola Bulbarelli per incontrare la direttrice Metella Romana Pasquini Peruzzi e fare il punto sulla situazione del carcere, raccogliere proposte e idee per contribuire al miglioramento della vita dei detenuti. “Mi ha fatto molto piacere questa visita - commenta la direttrice - per fare conoscere le attività che vengono portate avanti, nonostante la carenza di personale e risorse economiche non sempre sufficienti. Stiamo facendo molto e dobbiamo fare ancora tanto per migliorare la vita della popolazione detenuta: spero che vi sia una maggiore attenzione da parte del terzo settore e delle imprese mantovane perché possano offrire opportunità lavorative ai detenuti che già possono fruire di una misura alternativa alla detenzione”. Gratitudine e impegno - Gratitudine è stata espressa da Bottani a quanti lavorano in carcere quotidianamente, direttrice, comandante, agenti e volontari che “aiutano i nostri detenuti a vivere nel modo migliore”. Le questioni trattate verranno portate all’attenzione di Regione Lombardia grazie all’impegno di Bulbarelli e Cappellari. “Durante la visita abbiamo ascoltato dai detenuti i problemi - evidenzia Bulbarelli - dobbiamo portare risultati e con Cappellari ci prodigheremo perché la situazione di Mantova arrivi in Regione. È importante coinvolgere le aziende mantovane, il terzo settore e far sì che ci siano risultati. Oggi la richiesta fondamentale è avere più personale”. “In consiglio è stato posto l’accento sul sostegno di Regione Lombardia alle carceri del territorio, nonostante la competenza sia nazionale - ricorda Cappellari - Raccogliamo quelle che sono le istanze del territorio sulla struttura e sul supporto delle aziende non solo sul tema del lavoro dopo la detenzione, ma già per portare nel carcere mansioni che non necessitino di grande competenza. Vogliamo porre l’attenzione anche a livello nazionale in modo che si possa avere una progressione anche per il carcere di Mantova”. Bergamo. Triplicano i detenuti che si sono iscritti all’Università, a dicembre la prima laurea Corriere della Sera, 12 ottobre 2024 Da 4 a 12, solo due donne. Studiano da Giurisprudenza a Filosofia. La direttrice: “Opportunità per iniziare una nuova vita”. Il primo laureato sarà proclamato a dicembre, e continuerà a essere uno studente perché si è iscritto a uno dei corsi di laurea magistrale promossi dall’Ateneo. È uno degli studenti del Polo universitario penitenziario, creato dall’Università degli Studi, che salgono da 4 a 12. Non tantissimi rispetto ad altre carceri ma comunque triplicati e da contestualizzare nella specificità dell’istituto Don Resmini destinato a persone sottoposte alla misura cautelare e non per scontare pene definitive. Due sono donne e 10 sono maschi. I corsi di laurea prescelti sono Economia Aziendale, Giurisprudenza, Diritto per l’impresa nazionale e internazionale, Filosofia, Psicologia, Scienze dell’educazione, Ingegneria delle tecnologie per l’edilizia. “L’istituzione del Polo penitenziario dell’Università di Bergamo all’interno della Casa Circondariale è un’opportunità formativa per le persone detenute che vogliano completare o semplicemente arricchire il proprio percorso di studi, è una scelta consapevole per una possibilità di maturazione e crescita personale - commenta la direttrice del carcere Antonina D’Onofrio -: è un’occasione per aprirsi alla società, un valore che permette di “guardare” con occhi diversi se stessi e il mondo che ci circonda; un’opportunità per iniziare un nuovo percorso di vita all’insegna dell’espressione di “legalità” e della “cultura” ma anche del valore dell’ “umanità”, perché la cultura è attenzione alla persona e ai valori di cui ciascuno è portatore; la cultura è “umanità”. Ringrazio il Magnifico Rettore, Prof. Sergio Cavalieri per la proficua collaborazione instaurata con questa direzione che nel corso dell’anno accademico 2024/2025 ha permesso a 12 detenuti di iscriversi a percorsi universitari che consentono loro attraverso l’elemento trattamentale dell’istruzione la maturazione della propria persona in termini di rieducazione e di reinserimento sociale”. “L’Università offre a questi detenuti una concreta possibilità di apprendimento, abbattendo quelle barriere che nella quotidianità esistono per chi sia iscritto da detenuto - spiega il rettore di Unibg Sergio Cavalieri. E questo anche nella quotidianità, ad esempio, nel reperimento dei libri di testo, che siamo riusciti a garantire quasi interamente a titolo gratuito. Ciò in linea con l’idea di un’Università che vuole offrire il proprio contributo al progresso sociale, alla piena dignità di chi ha commesso un reato e sta vivendo un percorso di recupero in vista di un riscatto, di una vita diversa al termine della detenzione. Il nostro - ricorda è un forte impegno rivolto al sociale nel segno di una consapevole responsabilità collettiva, che tiene insieme didattica, ricerca, terza missione”. “Diversamente dai precedenti anni - ricorda la professoressa Anna Lorenzetti, delegata del rettore al Polo universitario penitenziario e docente di diritto costituzionale - vi è una maggiore varietà di iscrizione ai corsi universitari e grazie alla preziosa collaborazione degli uffici e dei docenti coinvolti stiamo attivando percorsi di sostegno mirati, sotto forma di tutorati”. Napoli. Da mare dentro a male fuori: le criticità della giustizia minorile di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 ottobre 2024 Il prossimo 15 ottobre, presso il Consiglio Regionale della Campania, si terrà un importante convegno dal titolo “Minori: Mare dentro, male fuori”. Organizzato dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, il professor Samuele Ciambriello, in collaborazione con la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali e l’Ordine degli Assistenti Sociali della Campania, l’evento si svolgerà dalle 10,00 alle 17,00. Dopo i saluti istituzionali di Gennaro Oliviero, Presidente del Consiglio regionale della Campania, Gilda Panico, Presidente dell’Ordine degli Assistenti Sociali, e Bruno Mellano, membro del Coordinamento della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali, la prima sessione, presieduta da Ciambriello, sarà dedicata alla Giustizia Minorile. Interverranno, tra gli altri, Antonio Sangermano, Capo dipartimento di giustizia minorile e di comunità, e i magistrati Margherita Di Giglio, Piero Avallone e Maria De Luzenberger. A partire dalle 12,00, Giuseppe Fanfani, Garante dei detenuti della regione Toscana, presiederà la seconda sessione. Tra gli interventi più attesi, quello di Nicola Palmiero, Direttore del Centro per la Giustizia Minorile della Campania. Nel pomeriggio, Valentina Calderone, Garante dei diritti dei detenuti del comune di Roma, modererà una tavola rotonda dedicata al disagio giovanile e alla microcriminalità. Il Garante Ciambriello ha sottolineato l’urgenza di un cambiamento nel sistema di giustizia minorile, sempre più orientato verso un modello carcerario. “Da ottobre ad oggi abbiamo assistito a un aumento significativo del numero di adolescenti reclusi negli istituti penitenziari minorili”, ha dichiarato Ciambriello. “Questo convegno rappresenta un’opportunità per riflettere su come garantire una maggiore dignità ai giovani detenuti e promuovere percorsi di recupero e reinserimento”. L’obiettivo è quello di superare un modello esclusivamente custodialistico e di favorire un approccio più attento ai bisogni individuali dei minori, attraverso l’implementazione di buone pratiche e l’adozione di misure preventive. Piacenza. Carcere: il lavoro come antidoto di Sabrina Cliti cattolicanews.it, 12 ottobre 2024 I detenuti aspettano e aspettano, sognando un “fuori” che probabilmente non li accoglierà a braccia aperte, perché il mondo è cambiato mentre loro contavano gli anni, i mesi, le settimane e i giorni: dice così, nel film “Bravi Ragazzi”, il protagonista Antonio (Albanese), che propone la cultura come strumento per dare senso a questo tempo sospeso. Cultura e lavoro: ne parlano come di “un efficace antidoto all’angoscia dello scorrere del tempo in carcere” anche due detenuti che oggi preparano e vendono marmellate nel laboratorio agroalimentare dell’Istituto penitenziario di Piacenza e che hanno portato la loro esperienza in Università Cattolica durante l’incontro, organizzato dalla facoltà di Economia e Giurisprudenza, “La partnership pubblico-privata nell’organizzazione del lavoro penitenziario. Nuovi percorsi ed esperienze di risocializzazione”. Un’iniziativa formativa che si inserisce nel contesto del più ampio progetto didattico, denominato “Sportello giuridico a favore delle persone private della libertà personale presso il carcere di Piacenza”, avviato lo scorso anno accademico presso la sede piacentina dell’Università Cattolica, con l’attiva e assidua partecipazione di trenta studentesse di Giurisprudenza. Un momento di riflessione promosso da Francesco Centonze, Ordinario di Diritto penale della laurea magistrale in Giurisprudenza a Piacenza, per far conoscere agli studenti la recente intesa stipulata dal CNEL e da Assolavoro (siglata nell’ambito di un accordo già avviato tra il CNEL e il Ministero della Giustizia), in cui il lavoro, la formazione e lo studio in carcere vengono promossi come strumenti di reinserimento sociale e di riduzione della recidiva. “Ancora oggi il carcere è un’istituzione poco conosciuta e, per certi versi, piuttosto isolata dalla società; in questa prospettiva l’accordo tra CNEL e Assolavoro deve essere accolto con particolare favore per la sua capacità di valorizzare, grazie a una partnership pubblico-privata, l’organizzazione di un lavoro penitenziario di tipo formativo e professionalizzante, con benefici che toccano non solo la popolazione detenuta, ma anche le imprese private coinvolte e l’intera collettività”. Un ricco panel di relatrici (Maria Gabriella Lusi, Direttrice della Casa Circondariale di Piacenza, Roberta Casiraghi, Docente di Procedura penale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Marina Di Lello Finuoli, Docente di Diritto penale II presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, e Lucia Zaietta, Sustainability & Foundation Manager presso Vodafone Italia) che hanno raccontato alcuni progetti lavorativi attualmente attivi presso le realtà carcerarie italiane. “Noi lavoriamo sulla centralità della persona, per ogni individuo cerchiamo di costruire una dimensione di vita all’interno del carcere, che possa essere di utilità per il dopo pena” ha spiegato la direttrice Maria Gabriella Lusi introducendo l’esperienza dell’area “Le Novate al lavoro”, con spazi ad hoc dedicati all’attività lavorativa dei detenuti, un call center, con 30 postazioni di lavoro e un laboratorio agroalimentare attivato dall’amministrazione penitenziaria di Piacenza insieme alla cooperativa “L’orto botanico”. Il lavoro penitenziario deve però inserirsi nell’ambito di una progettazione pedagogica “che - prosegue la direttrice del carcere - consenta di dar valore alla singola persona per restituirla alla società, in modo che il rischio recidiva sia il più lontano possibile”. Alcune concrete opportunità di reinserimento sociale per i detenuti sono state descritte da Lucia Zaietta Sustainability & Foundation Manager di Vodafone Italia: nel carcere di Milano-Bollate ci si occupa di assistenza tecnica di secondo livello per l’attivazione di linea fissa e di smaltimento rifiuti elettronici - modem e terminali usati. E se in origine il lavoro era un elemento di correzione e disciplina del sistema penitenziario, oggi, come spiegato dalla docente di Diritto penale II in Cattolica Marina Di Lello Finuoli, questa concezione è superata grazie all’avvento della nostra Carta Costituzionale: “le pene devono tendere alla rieducazione del reo e il lavoro diviene la via privilegiata per dare attuazione a un principio fondamentale del diritto penale”. Un concetto rinforzato nell’intervento di Roberta Casiraghi, Docente di Procedura penale che “il lavoro consente ai detenuti di allargare le proprie competenze professionali, così da avere più chances di inserimento nel mondo del lavoro una volta liberi, limitando il rischio di recidiva. I detenuti che nel corso della permanenza in carcere hanno avuto modo di apprendere una professione raramente torneranno a delinquere”. I dati lo confermano con chiarezza: “Se il 62% dei condannati conta almeno una carcerazione precedente e addirittura il 15% ne conta almeno 5, va sottolineato che questo dato scende drasticamente al 2% per coloro che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale”. La strada da seguire è tracciata. Pontremoli (Ms). Farsi prossimi al mondo del carcere ilcorriereapuano.it, 12 ottobre 2024 È a Pontremoli uno dei due istituti penali femminili minorili (IPM) presenti in Italia. È qui che lo Stato persegue l’obiettivo di rieducare minorenni che hanno commesso reati. A Pontremoli, salvo qualche eccezione, le ragazze rimangono da qualche settimana ad alcuni mesi e per ciascuna di loro si studia un particolare percorso, attraverso modalità sia interne che, per quanto possibile, esterne alla struttura. In questo contesto opera don Giovanni Perini. Assieme ad una quindicina di volontari don Giovanni varca con assiduità le porte dell’istituto per incontrare le ragazze, ognuna con il proprio “vissuto”, la propria storia, la propria cultura. Il sacerdote e chi opera con lui sono il volto di una Chiesa locale che guarda con attenzione e si fa prossima al mondo del carcere, come testimonia la presenza del Vescovo Fra’ Mario a diverse delle iniziative pubbliche dell’IPM. Sono infatti numerose le attività che, grazie all’intervento di volontari, l’Istituto svolge: dalla scuola di chitarra all’interesse per il cucito, dalle visite di conoscenza del nostro territorio e di varie realtà che esso ospita all’esperienza recitativa che ogni anno permette alle ragazze di recitare in uno spettacolo teatrale pubblico. Oltre, ovviamente ai percorsi di scuola secondaria, che si svolgono dentro l’istituto, nel caso della scuola media, o sul territorio, nel caso delle superiori. Per le ragazze è importante non soltanto il percorso durante la permanenza nell’IPM, ma anche la prospettiva di vita una volta terminata la pena. Per questo sono importanti la connessione tra Istituto e territorio, il ruolo dei volontari e delle istituzioni. Don Giovanni racconta l’esperienza di una giovane che, raggiunta la maggiore età e avviandosi al termine dell’anno scolastico, è stata accolta presso una famiglia della zona e, grazie ad un particolare percorso di inserimento, offre un po’ del proprio tempo operando in un settore dell’attività scolastica, in un bar e in una RSA. La Chiesa locale, dunque, c’è e fa la sua parte. Anche dal punto di vista spirituale. Nell’istituto si vive un momento settimanale di preghiera, ascolto e condivisione. Durante questi momenti per le ragazze è possibile aprirsi al dialogo e al confronto, parlare liberamente e relazionarsi anche tra loro. Questi incontri si articolano anzitutto sulla Parola di Dio ma permettono di “ampliare gli orizzonti” poiché, oltre chi professa la religione cristiana, ci sono ragazze che sono di altre religioni. Per i continui avvicendamenti delle ragazze ospiti nell’Istituto, non sono possibili percorsi pastorali “a lungo termine” ma questo serve, ci dice don Perini, “per imparare ad abbandonarsi alla volontà di Dio e all’imprevedibilità della vita e per donarsi gratuitamente”. Alla domanda su quanto questo ruolo - che il sacerdote ricopre su base volontaria - stia arricchendo la sua esperienza umana e di prete, don Giovanni annuisce, affermando che prova ad essere soltanto “strumento della presenza del Signore che agisce con vie lontane da noi”. Bolzano. Detenuti in campo per la rieducazione di Elena Mancini salto.bz, 12 ottobre 2024 Lo sport come vettore per il reinserimento sociale di chi è in carcere. Oggi sul Talvera il torneo di calcetto ha visto protagonisti 11 reclusi che si sono sfidati con le squadre di avvocati, operatori penitenziari ed Excelsior. Una partita che va oltre il risultato sul tabellone: oggi (11 ottobre) il campo sportivo dell’FC Bozen ha ospitato il torneo “IN e OUT”, che ha ha trasformato il calcio in uno strumento potente di rieducazione e responsabilità. In campo, detenuti, agenti della polizia penitenziaria, avvocati e la squadra Excelsior G.S. si sono affrontati non solo come avversari, ma come protagonisti di un progetto che punta alla reintegrazione sociale dei detenuti. “Un calcio al passato - Lo sport dà il meglio di sé quando ci unisce” non è stato solo uno slogan, ma un messaggio concreto che ha messo in luce come lo sport possa rappresentare un’opportunità per chi cerca di ricostruire il proprio futuro. “In tre settimane abbiamo organizzato tutto - ha spiegato il direttore della Casa Circondariale di Bolzano Giangiuseppe Monti - non è stato semplice, abbiamo dovuto ottenere i permessi dalla magistratura e coinvolgere il territorio”. L’iniziativa ha visto la partecipazione di 11 detenuti della Casa circondariale di Bolzano, i cosiddetti “permessati”, detenuti che beneficiano di un permesso premio concesso dalla magistratura di sorveglianza per il loro percorso di responsabilizzazione in carcere. “Iniziative come queste lasciano un segno concreto, riconoscendo il lavoro che svolgono in carcere. Speriamo che i detenuti che hanno partecipato oggi possano diventare un modello per i loro compagni che non sono qui”, ha commentato il direttore. Sugli spalti, una classe del liceo Pertini, alcuni curiosi e i familiari dei detenuti hanno assistito al torneo. Tra una partita e l’altra, si è creato uno spazio di convivialità raro e prezioso per chi vive dietro le sbarre: qualcuno ha esultato per un gol, mentre altri hanno approfittato dell’occasione per abbracciare una fidanzata o scambiare qualche parola con un familiare. La maggior parte dei detenuti in campo sono giovani sotto i 35 anni, condannati a pene brevi inferiori ai cinque anni, per questo l’obiettivo di rieducarli e farli uscire dal giro della criminalità è ancora più importante. Dopo la “giornata premio” i detenuti torneranno nella struttura in via Dante, attualmente in fase di ristrutturazione: “Abbiamo iniziato con i lavori di rifacimento di tetto e facciata, che costeranno circa 1,5 milioni di euro. Stiamo finalmente demolendo le vecchie docce detentive e, entro un mese, avremo delle docce nuove”, ha spiegato il direttore. Ma ovviamente la speranza è che il progetto del nuovo carcere vada in porto. “Noi ovviamente ce lo auguriamo - commenta il direttore - l’attuale struttura è quella di inizio ‘900, ma la decisione spetta a Ministero e Provincia. Noi lavoriamo nella struttura che ci viene messa a disposizione e cerchiamo di farlo al meglio”. Avere una struttura più grande significa anche meno sovraffollamento, una questione importante per Monti. “Il merito più tangibile del mio incarico è stato alleggerire il numero dei detenuti - spiega il direttore - quando ho preso servizio erano tra i 120 e i 130, mentre oggi siamo a 100-105. Avere meno detenuti vuol dire possibilità di lavorare meglio e garantire una qualità di condizione detentiva maggiore”. L’obiettivo sia dentro che fuori dal carcere è quello di mostrare a chi è recluso un’alternativa. “Soltanto attraverso il coinvolgimento attivo riusciamo a stimolarli - aggiunge, che conclude Monti - Facciamo corsi di arte, teatro, giustizia riparativa… proviamo a lavorare su tanti fronti. È la prima volta che facciamo un’iniziativa di questo tipo e speriamo di farne molte altre”. Il torneo si è concluso con la vittoria dell’Excelsior G.S., grazie a un gioco solido e ben organizzato. Gli avvocati si sono classificati al secondo posto con una prestazione determinata, mentre i detenuti, pur arrivando terzi, hanno mostrato un grande spirito di squadra, incarnando al meglio il valore rieducativo dell’evento. A chiudere la competizione, la squadra della polizia penitenziaria, che ha partecipato con sportività, rendendo il torneo un’occasione di dialogo e confronto tra realtà diverse. Cerimonia conclusiva del Premio letterario “Carlo Castelli”. Le testimonianze Ristretti Orizzonti, 12 ottobre 2024 Il tempo si è fermato per un po’ nella Casa Circondariale di Montorio, a Verona, durante la cerimonia di premiazione del concorso letterario Carlo Castelli. Il silenzio ha accompagnato il profondo rispetto dei presenti verso chi ha messo da parte la vergogna e con dignità ha deciso di soffermarsi su come la vita, tra le mura del carcere, riesca a sopravvivere, a ritrovare un pizzico di gioia e a mantenere salda la speranza di un domani migliore nonostante non arresti il dolore della colpa. Tre i ristretti che hanno voluto rilasciare le loro testimonianze restituendo ai presenti la possibilità di entrare, anche solo per pochi minuti, in un mondo di dolore, di sofferenza, di privazione, ma anche di timore quando raccontano i momenti vissuti dopo la concessione del primo permesso, “Ho attraversato più di 10 cancelli o porte, li ho contati. Il mio cuore batteva a mille e avevo un po’ di paura…”, ha affermato Ndrec Laska. Il mondo fuori spaventa e a stento si riesce a guardarlo: “Attraverso l’ultima porta, salgo in macchina e passo più della metà della strada con la testa bassa, poi ho cominciato a vedere…”. Si temono le reazioni, ritornano alla mente le sofferenze arrecate, anche ai propri cari, e prevale un forte senso di angoscia che piano piano lascia nuovamente spazio alla speranza di una vita nuova. Una vita che ritrova l’opportunità e la possibilità di essere nuovamente vita tra gli spazi ristretti di un luogo da cui bisogna necessariamente trarre forza per non essere risucchiati dal lento scandire di giornate che sembrano tutte uguali. Si rischierebbe di impazzire: “Ho pensato che se mi lasciavo trascinare, senza fare niente, il tempo non sarebbe passato mai, sarei impazzito!”, ha dichiarato Gianantonio Farinelli. Cresce così il bisogno e la consapevolezza di trarre beneficio da un nuovo vissuto segnato dalla condizione di privazione della libertà. Sostenuti instancabilmente dal personale preposto, dai volontari, inseriti in attività rieducative mirate, le persone in stato di detenzione iniziano lentamente a ritrovare se stessi, a riavvicinarsi alla propria coscienza, a mettersi alla prova, a scoprire nuovi talenti e a rispolverare quelli di un tempo: “Ho avuto l’opportunità in questo Istituto di riprendere in mano una chitarra. Quando suono e canto le mie canzoni non mi sento in carcere e condivido il mio universo di emozioni. La musica mi ha sempre salvato nella vita”, continua Gianantonio che, al termine del suo discorso, si è potuto esibire suonando i brani composti negli anni di reclusione. In carcere, anche le cose più semplici diventano un mezzo e un modo possibile da cui ripartire, ricominciare a camminare e a guardare la vita con speranza: “Un domani ci sarà un qualcosa di buono”, ha detto Alberto Brianti che nella sua testimonianza ha raccontato come anche la visione di un film, dietro le sbarre, ha acquisito maggiore valore e lo ha aiutato a comprendere che si possa vivere “Una vita senza eccessi riuscendo a nutrirsi delle cose più normali - sono le cose normali che ti regalano la felicità - cosa che io spesso ho dimenticato per colpa della mia vita poco regolare… Solo quando guardi fuori, attraverso le sbarre, ti rendi conto di tutto quello che ti manca davvero…”. A chiusura della due giorni del Premio Carlo Castelli, nel Teatro Nuovo di San Michele, il racconto di Giovanni ha catturato l’attenzione dei presenti. Vincitore del premio Carlo Castelli nel 2009, con il racconto “La storia di Frank”, Giovanni ha raccontato come sia riuscito a riavere pace e a parlare al mondo delle scuole raccomandando ai ragazzi di non delinquere. Il Premio Carlo Castelli è un evento organizzato e promosso dal Settore Carcere e Devianza della Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV, con il patrocinio di Camera, Senato, Ministero della Giustizia e con il riconoscimento della medaglia del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. L’appuntamento coinvolge detenuti provenienti da penitenziari di tutta Italia, offrendo loro un’opportunità unica di esprimersi attraverso la scrittura. Ogni anno, un carcere o un Istituto Penitenziario Minorile (IPM) viene scelto come sede della cerimonia, durante la quale vengono letti e premiati i racconti selezionati da un’apposita giuria. Il tema di quest’anno, intitolato “Perché? - Ti scrivo perché ho scoperto che c’è ancora un domani” ha invitato a riflettere sul valore della speranza e sul riscatto possibile. “La speranza è un bene prezioso, una luce che accompagna e sostiene, soprattutto nei momenti più difficili”, afferma Paola Da Ros, Presidente Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli. “E in questo luogo, dove la libertà è limitata, il nostro desiderio è che nessuno perda mai questa luce” e aggiunge: “Il Premio Carlo Castelli non si limita a offrire uno spazio di riflessione e espressione per i detenuti, ma prosegue nel tempo, grazie ai progetti di reinserimento sociale sviluppati in collaborazione con le istituzioni. Con il contributo in denaro che eroghiamo per ciascuno dei tre premi oltre alla somma che spetta al vincitore, ogni anno realizziamo tre progetti. Il primo premio di questa edizione finanzierà un importante progetto di reinserimento nel mondo del lavoro per i ristretti del carcere di Brescia che hanno finito di scontare la loro pena; il secondo aiuterà i giovani dell’Istituto per Minori di Catania, il terzo premio andrà a favore delle attività dell’Ufficio Distrettuale di Esecuzione Penale Esterna di Pisa”, dichiara la Presidente Paola Da Ros. Le infinite tinte di una vita al buio di Andrea Pugiotto L’Unità, 12 ottobre 2024 “Lunedì 25 settembre 2023. Da oggi sono totalmente cieco”, attraverso il resoconto della propria esperienza, intenso e vivido, Manconi apre la scatola nera della cecità, svelandola a sé e al lettore. 1. La cecità generale causa disastri collettivi, come racconta l’omonimo romanzo di José Saramago, tra i suoi più distopici e inquietanti. Ma cosa accade quando la cecità si fa esperienza personale? Che cosa accade a chi, progressivamente, cede ogni giorno un nuovo palmo della propria trincea visiva, vedendola chiudersi in un angolo sempre più stretto, fino al buio totale? “Lunedì 25 settembre 2023. Da oggi sono totalmente cieco”, annota Luigi Manconi nel suo ultimo libro (La scomparsa dei colori, Garzanti, 2024). È il punto d’arrivo di una parabola durata quindici anni, durante i quali la sua vista è scivolata da una forte miopia, all’ipovisione, alla quasi cecità, fino a scoprirsi “una persona immersa per sempre nel buio”. Come in una fiaba capovolta, è lo specchio a restituire a Manconi la piena consapevolezza del suo definitivo stato, assorbendo in sé i tratti del suo viso senza restituirne più alcun riflesso: “Ora non ci sono più”. Non è, il suo, il diario quotidiano di un cieco. È molto di più e di diverso. Attraverso il resoconto della propria esperienza, intenso e vivido, Manconi apre la scatola nera della cecità, svelandola a sé e al lettore. 2. Per entrambi, infatti, è un’esperienza inedita e radicale, come entrare in una terra incognita ai più. Come può un cieco continuare a scrivere o a disegnare? Come legge un cieco che non abbia voluto convertire il proprio alfabeto al codice braille? Se sogna, lo fa a colori o in bianco e nero? E come ricorda, prima e dopo la cecità? Come riesce a guardare, con immutata passione, una partita di calcio o un incontro di basket? Cosa vede chi non vede? Come si vede chi non vede? E cosa si vede di chi non vede? È sempre un’impresa difficile capire quanto ci accade mentre ci sta accadendo, eppure Manconi se ne rivela capace, riuscendo a descrivere cose non facili da descrivere. Anche quando privata dello scacco della sorpresa, perché esito atteso del decorso di una malattia, la cecità resta comunque un evento di proporzioni sismiche, squassante, trasformativo del proprio campo di esperienza e del proprio orizzonte di aspettative. C’è di che precipitare in picchiata: per tutti, infatti, il buio è il luogo del terrore primario, quello che da bambini abbiamo sempre cercato di evitare. Nel buio, il tempo si dilata. Lo spazio si restringe. Ogni cosa e ogni gesto, prima normali fino alla banalità, si trasformano in problemi piccoli, grandi, enormi, inutili. La vita quotidiana diventa lo spigolo duro contro il quale sbatte una tibia sempre più contusa (“Zio Tibia”, è l’affettuoso appellativo che “per una bizzarra sineddoche, ho deciso di trasferire da quell’osso all’intera mia figura”). Come reagire? Ingaggiare una lotta omerica contro il proprio destino di cecità, ingegnandosi in mille modi per mimare una vita normale. Rinchiudersi dentro il proprio carapace, in una condizione sempre più autistica, avara di relazioni, ripiegata su sé stessa. Prendere in seria considerazione l’ipotesi di farla finita, per non sentirsi postumi in vita, non avendo molto da perdere dopo la vista. Manconi non ne fa mistero: questo sciame di emozioni non gli è sconosciuto. Alternandosi negli anni, sono stati d’animo che lo hanno trafitto da parte a parte. 3. Il lettore rintraccia questa altalena emotiva nei differenti spartiti narrativi del libro. C’è, innanzitutto, l’umorismo intelligente. Tocca il suo apice nella comica descrizione del rapporto con gli oggetti ormai indispensabili (il primitivo cellulare Nokia, il modernissimo dispositivo Alexa), con i quali Manconi ingaggia autentici corpo a corpo, come già nel corso della sua vita precedente con gli occhiali, ora dismessi (“Fu Pif a decretare il fatidico “il Re è nudo”, chiedendomi: “Ma se sei cieco perché porti gli occhiali?”. Pensai e dissi: “In effetti…”. Tolsi le lenti, le misi nella tasca interna della giacca e non le usai più”). C’è, poi, il dramma mai piagnucoloso reso attraverso i particolari, e i dettagli dei particolari. Tra essi, la corsa contro il tempo di una cecità sempre più prossima (nel tentativo, spinto fino allo stremo, di vedere “quei film che avvertivo dolorosamente di non aver voluto o potuto vedere”, prima che sia troppo tardi per farlo). O l’irreversibilità della perdita di gesti dismessi fino a disimpararli (come il semplice premere sull’interruttore della luce per accenderla o spegnerla). O, ancora, lo smarrimento della propria immagine (oltre ai capelli bianchi e al grande naso, “cosa ricordo e so io della mia faccia? Del mio volto non so altro, e quello che sapevo l’ho dimenticato”). O la presa di coscienza, quasi violenta, che il deficit visivo ti rende disabile anche nelle mani e nei piedi, perfettamente sani eppure impediti nella loro funzione. Fino alla scoperta della progressiva rinuncia all’indipendenza quale valore assoluto (“quasi che una vita precedente, interamente vissuta nell’affermazione dell’autonomia, cambiasse drasticamente di segno. Lentamente, ma drasticamente”). C’è anche il reportage, nella forma dei dialoghi con altri ciechi o prossimamente tali (Sergio Staino, Edith Bruck, Maurizio Maggiani): trascrizioni di incontri quasi carbonari tra chi condivide la stessa vulnerabilità fino a provarne un inesplicabile piacere (“È l’effetto tranquillizzante del corporativismo: termine qui ancora più pertinente in quanto la condivisione parte proprio da una comune dipendenza dal corpo, il proprio corpo, e dal suo deficit”). C’è infine - come sempre nei libri di Manconi - l’autobiografismo, qui con tutto il suo carico di premonizioni. Come la curiosità infantile per Annibale Frossi, occhialuto calciatore dell’Ambrosiana-Inter e della Nazionale, capocannoniere nelle Olimpiadi del 1936. O la passione adolescenziale per l’eroica figura di Michele Strogoff, che i tartari malvagi cercarono di rendere cieco. O l’ascolto liceale, ripetuto fino a sfinire il giradischi, di Stand by me, la cui cover italiana cantata da Adriano Celentano (Pregherò) racconta di una donna cieca, invitata a non “odiare il sole/perché non puoi vederlo/ma c’è/ ora splende su di noi/su di noi”. Come in un’ideale rivincita, ne esce così un libro composto da un arcobaleno di tinte narrative, a dispetto del suo titolo. 4. “Io non sono ipovedente, bensì cieco. E come tale voglio essere considerato e, di conseguenza, chiamato”, scrive Manconi. Questa rivendicazione lo legittima a due atteggiamenti preclusi a chi cieco non è: rifiutare false verità consolatorie e sbugiardare molte menzogne convenzionali. Quanto alle prime, infatti, Manconi non nutre più aspettative di guarigione: il proverbiale “chi vivrà vedrà”, suona per lui come uno sberleffo. Quanto alle seconde, hanno a che fare con la difficoltà per il normodotato di trattare la disabilità: un mix - comunque inadeguato - di pietismo, imbarazzo, insipienza, eccesso di cura, fino all’inavvertita “cosificazione” del cieco (“Chi porta Luigi qui? Dove lo mettiamo?”). Ne esce una lezione politica contro quel paternalismo giuridico che continua a precludere, nel nostro paese, scelte legislative rispettose dell’autodeterminazione del malato, di cui si nega l’autonomia “ovviamente, “per il suo bene”“. 5. Alla fine, l’impatto emotivo della cecità produce nuova conoscenza e un’inedita consapevolezza di sé, come svela l’epilogo del libro. Nessuna furia cieca, perché davanti alla cecità come destino c’è poco da lamentarsi, ancor meno da recriminare: “quel che è stato è stato. Quel che ho fatto ho fatto. E di quel che non ho, faccio a meno” (così Philip Roth in Nemesi). Meglio riservare la propria collera verso le ingiustizie collettive - ci dice Manconi - senza rimanere a bordocampo, nonostante il proprio limite. Quel limite, semmai, va assunto e non eluso, perché la sua negazione provoca angoscia e illusoria onnipotenza. E così, dietro la debolezza reale della cecità, si svela quella fragilità apparente, ora nutrita da “una certa mitezza e una qualche moderazione”, di cui Luigi Manconi è testimonianza incarnata. Pena di morte e aborto due lati della stessa medaglia: ecco cosa vi sfugge di Bergoglio di Fabrizio Mastrofini L’Unità, 12 ottobre 2024 Quando Francesco ha parlato di “sicari”, a proposito dei medici che interrompono la gravidanza, lo ha fatto in un contesto in cui ha spiegato che la Chiesa difende la vita sempre: quando si tratta di neonati, quando si tratta di condannati a morte, quando si tratta di migranti che vengono scacciati. Visione antiquata forse, ma il Papa fa il Papa. E lui lo ha fatto finora con grande spirito rivoluzionario, dalle aperture alle minoranze alla sensibilità ambientalista. Non chiediamogli troppo. Ogni tanto Bergoglio non piace, a sinistra. A destra non piace quasi mai. A sinistra, quando fa il papa, si grida allo scandalo o - come indica Grazia Zuffa su l’Unità del 9 ottobre - cancellerebbe mezzo secolo di femminismo. Perché? Perché ha dato del “sicario” al medico che pratica l’interruzione di gravidanza. E poi perché non avrebbe risposto nel merito delle richieste di una lettera di studenti e professori all’Università Cattolica di Lovanio, nel corso del viaggio recente in Belgio, in cui chiedevano di affrontare le responsabilità storiche della Chiesa nel colonialismo, così come il ruolo delle donne e l’accoglienza alle minoranze di genere, in particolare in merito all’omosessualità. E invece non è così. Per la prof.ssa Zuffa, che a spada tratta affronta temi complessi, e per studenti e docenti a Lovanio, la valutazione sarebbe una sonora bocciatura. Perché su tutti i temi, la Chiesa con Bergoglio (e ben prima di lui), si è espressa eccome. Intanto partiamo dal tema del “sicario”. Qui il papa fa il papa. Che altro potrebbe o dovrebbe fare? Ma ignorare i contesti è grave; ed i contesti sono molto interessanti. Perché ha parlato di “sicario” il 29 settembre, mentre 16 giorni prima, il 13 settembre, nel viaggio di ritorno dall’Asia e Oceania, rispondendo a una domanda sui due candidati alla presidenza Usa (“che consiglio può dare a un elettore cattolico che deve decidere fra un candidato che è favorevole all’interruzione della gravidanza, e un altro che vorrebbe deportare 11 milioni di migranti?”), aveva espresso un’idea da sottolineare. Diceva: “Ambedue sono contro la vita, sia quello che butta via i migranti sia quello che uccide i bambini. Ambedue sono contro la vita. Non si può decidere, io non posso dire, non sono statunitense, non andrò a votare lì, ma sia chiaro: mandare via i migranti, non dare ai migranti capacità di lavorare, non dare ai migranti accoglienza è peccato, è grave”. E concludeva: “La Chiesa non è chiusa perché non permette l’aborto: la Chiesa non permette l’aborto perché è uccidere, è un assassinio, è un assassinio. E su questo dobbiamo avere le cose chiare. Mandare via i migranti, non lasciarli sviluppare, non lasciare che abbiano la loro vita è una cosa brutta, è cattiveria. Mandare via un bambino dal seno della mamma è un assassinio, perché c’è vita. E in queste cose dobbiamo parlare chiaro. Ambedue le cose sono chiare. L’orfano, lo straniero e la vedova: non dimenticare quello”. Se leggiamo i “sicari” in controluce con due settimane prima, vediamo le affermazioni in un’altra ottica. Il papa fa il papa, però difende la vita sempre e si batte contro la schizofrenia - per esempio in Italia - di chi difende la 194 guardandola solo nella parte che prevede l’interruzione di gravidanza e omettendo che esiste una seconda parte che impegna lo stato a fare in modo che vengano superate le cause che possono portare alla stessa interruzione di gravidanza. Ovviamente, silenzio totale sull’inadempienza di questa visuale della legge. La stessa schizofrenia che agisce ad esempio negli Usa. La difesa della vita, per i cattolici, lì è a senso unico: contro l’aborto, ma guai a parlare di limitare il possesso di armi (diritto costituzionalmente protetto, peccato che la norma è del XVIII secolo quando non c’erano mitragliette alla portata di tutti) e guai ancora di più a dire che i cattolici sono contro la pena di morte, bandiera fallita di tutte le legislazioni repressive che uccidono nel nome dello stato e tanto non cambia mai niente. Schizofrenie, dunque, ovvero visioni a senso unico. Per il resto delle questioni, domina l’ignoranza. Si può dirlo chiaro? Ignoranza colpevole per universitari e docenti di Lovanio. E forse anche di casa nostra. Le responsabilità storiche della Chiesa nel colonialismo (quale, dove, come?) sono state affrontate ad esempio dai vescovi latinoamericani nella Conferenza di Santo Domingo del 1992. Sempre in quell’anno possiamo ricordare le parole chiare, cristalline, lapalissiane di Giovanni Paolo II nella visita alla “porta degli schiavi” a Goreé, in Senegal, il punto di partenza dei grandi velieri che praticavano la tratta verso l’America. Quindi sul primo argomento: non sufficienza. Sul secondo: il ruolo della donna nella Chiesa, la medesima Zuffa distingue tra Chiesa e papa Francesco. Bè, troppo facile ed anche sbagliato concettualmente. Secondo argomento: non sufficienza. Terzo: accoglienza delle minoranze, in particolare le persone omosessuali. Qui basterebbe citare il documento del Dicastero per la Dottrina della Fede “Fiducia Supplicans” del 2023 sulla benedizione, che tante polemiche roventi ha suscitato per avere incluso anche persone in situazioni “irregolari”. Terzo argomento: non sufficienza. Quindi andiamo verso una sonora bocciatura. Ma per i temi di cui parliamo, l’ignoranza non è ammessa, né da parte dei credenti, né da parte dei cosiddetti laici. Perché qualcosa sta cambiando. Lentamente, è vero, ma si tratta di processi complessi e il peso di teologie e mentalità anchilosate si fa sentire. Però occorre scrutare i segni del cambiamento, indicati nelle Encicliche di papa Francesco e in altri testi. Oltre a quelli citati qui, si può consultare il volume “Etica Teologica della Vita” pubblicato dalla Libreria editrice vaticana (quindi non una stampa clandestina) che raccoglie un dibattito a tutto tondo tra teologi morali e promosso dalla Pontificia Accademia per la Vita. Non procedo oltre. Chi ha voglia di informarsi sul serio, scoprirà che le facili distinzioni destra/sinistra vanno a rotoli. Bergoglio fa il papa e chiedergli di superare i suoi limiti più di così, è irragionevole e psicologicamente sbagliato. Lo sa lui stesso: ripete a tutto spiano che il suo compito è “innescare processi”. Cosa potrebbe fare di più, soprattutto se pensiamo che spesso alcuni suoi predecessori hanno lavorato per bloccare i processi di trasformazione e cambiamento? Migranti. I diritti finiscono a 18 anni, così lo Stato scarica i giovani stranieri di Francesca Moriero e Francesco Tedeschi Il Domani, 12 ottobre 2024 La legislazione del nostro Paese stabilisce numerose tutele che, tuttavia, decadono con la maggiore età. Così centinaia di ragazzi, non importa quanto meritevoli o motivati, vengono abbandonati a loro stessi. Compiuti i diciotto anni, lo scorso gennaio, Abdo, egiziano, ospitato presso una Comunità per minori stranieri non accompagnati a Genova, è stato allontanato dalla struttura e sbattuto in mezzo alla strada. La legislazione italiana stabilisce maggiori diritti per i minori stranieri, ma questi decadono alla maggiore età. E questo nonostante la legge preveda anche - soprattutto in caso di mancanza di alternative - di poter proseguire il percorso di tutele e concludere quantomeno l’inserimento lavorativo e scolastico di questi ragazzi. Non accade solo in Liguria. Partendo dalla storia di Abdo, abbiamo raccolto testimonianze simili a Torino, Milano, Trieste, Udine, ma anche in Sicilia e Toscana. In molte parti d’Italia i giovani stranieri, non importa quanto meritevoli o motivati, vengono abbandonati sotto diretto impulso degli enti locali o dei servizi sociali. Nel caso di Abdo è stato il servizio centrale di Rete Sai, ovvero la rete di enti locali che gestisce i progetti di accoglienza sul territorio nazionale che dipende dal ministero dell’Interno. “Non mi risulta questo preciso caso, e neppure che questo accada altrove”, dice Virginia Costa, responsabile del servizio centrale di Rete Sai. Attualmente la Rete ha in carico circa 6.200 minori, ovvero un terzo dei 20mila sparsi per tutto il territorio nazionale. “Ci siamo presi in carico anche di fare una verifica, dopo che ci sono arrivate segnalazioni dal tavolo dedicato ai minori stranieri” a cui partecipano anche Anci e le maggiori ong attive nel settore, come Oxfam o Save the Children. “Né a Sai né al Coordinamento delle comunità accoglienti risulta che accada”, dice Costa, “abbiamo avuto modo di spiegarlo al Tavolo, le comunità devono agire in sintonia con le indicazioni dei comuni: un maggiorenne non può stare in una comunità destinata ai minorenni. Esiste una ratio dietro questo provvedimento e deve essere valorizzata”. Valorizzata come nel caso di A., egiziano e neo maggiorenne, bisognoso di cure in quanto paziente psichiatrico, al quale il tribunale di Torino ha negato il prosieguo. “Ci sono capitati più volte casi simili in Toscana dando supporto legale”, racconta un membro di un’importante ong attiva nel settore. “A Firenze, ad esempio, un ragazzo, due giorni dopo aver compiuto diciotto anni, è stato mandato dalla struttura ospitante all’albergo popolare, senza alcun tipo di accompagnamento e tutela, previsto per legge. Con la connivenza e la richiesta del comune di Firenze”. Dal momento che esiste una carenza di spazi dedicati ai minori, il comune esercita pressione affinché vengano allontanati, “e le strutture assecondano perché spesso non hanno piena consapevolezza delle leggi o sono banalmente sudditi dei servizi sociali del comune o del servizio centrale. Come organizzazione abbiamo più volte segnalato questa prassi, ma dal servizio centrale in alcuni casi abbiamo ricevuto risposte assurde, e solo con un valido supporto legale siamo riusciti a risolvere la situazione”. Ordine sparso - “Si tratta di un argomento delicato”, dice Lamberto Bertolé, assessore a Welfare e salute del comune di Milano. Soprattutto per gli enti locali. Prima della legge Zampa la formazione e l’istruzione dei minori erano completamente a carico dei comuni. Grazie alla legge è stato istituito un fondo apposito completamente a carico del ministero del Lavoro. Fondo che però viene a mancare al compimento della maggiore età, passando completamente nei bilanci dei comuni. “Questo influenza la scelta dei prosiegui accettati”, dice Bertolé, “se un comune non ha il bilancio per poter accettare la domanda non lo farà. Per questo motivo dentro le comunità si ha fretta di concludere la scuola e l’inserimento. Gli stessi ragazzi, dopo aver passato 3 anni dentro un istituto, premono per andarsene, perché vogliono costruirsi la propria vita”. Dall’altra parte, dice Barbara Lucchesi, coordinatrice del servizio per minori stranieri non accompagnati del comune milanese, “nonostante ci sia un’unica legislazione a cui fare riferimento, i comuni, le prefetture o le questure si muovono in ordine sparso, applicando procedure diverse”. Motivo per cui, nonostante ci siano tribunali molto avanti nella gestione di questi casi, come quello di Milano, in altri il processo è fermo. “Alcune domande di prosieguo non vengono accettate se non dopo mesi, in alcuni casi anche anni. E nel frattempo? Senza prosieguo non si possono avere i documenti e senza il permesso di soggiorno non si riesce a trovare lavoro”. La legge Zampa prevede anche che la richiesta sia firmata e motivata dallo stesso minore. Ma poco importa, se non risulta avallata dai servizi sociali difficilmente viene accettata. Si tratta dell’applicazione arbitraria di una normativa molto chiara. M. tifa per il Real Madrid. Gioca a calcio, e da un anno aspetta che la sua richiesta di prosieguo amministrativo venga accettata dal tribunale di Genova. “Avevo 14 anni quando sono partito. Ci ho messo anni ad arrivare. Ho provato a superare la frontiera di Tangeri per ben cinque volte. L’ultima volta ce l’ho fatta. Sono arrivato in Spagna, con un camion. E con un altro camion sono arrivato a Genova, il 5 marzo”. Sta per compiere 19 anni. Ma senza il prosieguo non può lavorare. “Abbiamo fatto richiesta subito per l’affido fino a 21 anni appena diventato maggiorenne”, dice don Mario Canepa, rettore e guida educativa della comunità Trefontane in provincia di Genova dove il ragazzo è ospitato. “Facciamo queste richieste perché altrimenti non avrebbe tempo né modo di fare tutte le cose per bene. C’è stato un problema in tribunale, dicono, e questo fa tardare le pratiche. Fino a che non c’è quello non può fare nulla. Ed è un peccato perché sa già l’italiano, è bravo”, dice don Canepa. “In 20 anni non ho mai allontanato un minore. Mai. Però, in generale, accade e ognuno fa quello che vuole; non voglio fare i conti in tasca agli altri, c’è chi non riesce a tenere un ragazzo perché non ha le risorse. Un ragazzo cinese qui da noi ha preso il diploma, ha studiato, ha lavorato ed è cresciuto in questa comunità. Altro che fino ai 18 anni, è rimasto fino a che non ne ha compiuti 22. Molti dei ragazzi che crescono qui poi decidono di fermarsi, diventare loro stessi educatori e aiutare gli altri. Gli educatori costano, il personale costa, ma questi ragazzi devono essere accompagnati altrimenti il rischio di perdersi è molto alto”. Secondo l’assessore Bertolé manca una regia nazionale che sia in grado di garantire qualità nei percorsi. “L’accoglienza diffusa che coinvolge i comuni è prevista per un minore su tre, e questo non funziona. Come Anci ci stiamo occupando di chiedere una completa applicazione della legge Zampa, e non invece la versione emergenziale applicata attualmente”. Manca la volontà di risolvere le carenze croniche di un sistema di accoglienza che non riesce a gestire 20mila ragazzi, se non in maniera emergenziale. E si limita ad accelerare il ricambio di minori all’interno delle comunità per mantenere sostenibile l’intero sistema, anche se a loro discapito. Il Centro migranti in Albania apre in sordina. Avvocati a distanza e rebus respingimenti di Niccolò Zancan La Stampa, 12 ottobre 2024 L’arrivo dei primi ospiti a bordo della nave militare “Libra” è previsto a inizio settimana. Donne e bambini continueranno a sbarcare a Lampedusa”. “Siamo pronti”, dice l’ambasciatore d’Italia a Tirana Fabrizio Bucci. “Mancano alcuni dettagli, ma da oggi i due centri di trattenimento per migranti in Albania sono ufficialmente aperti”, dice il dirigente della polizia Massimo Scannicchio. Pochi giornalisti convocati all’ultimo istante. Sono quasi tutti reporter albanesi che seguono questa storia con molto interesse. Perché nessuno riesce a capire davvero come andrà a finire. Come funzioneranno i primi centri per migranti gestiti da un governo europeo in terra straniera? Scannicchio ha un passato da dirigente all’Ufficio stranieri della questura di Verona e poi alla direzione Anticrimine di Roma. È stato da poco assegnato al nuovo incarico come primo dirigente “per l’attuazione del protocollo per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria fra Italia e Albania”. I centri con le gabbie e i container costruiti dal governo italiano sono due. Uno è al porto di Shëngjin, a nord, verso il confine con il Montenegro. È un hotspot come quello di Lampedusa, deve servire solo per le pratiche di identificazione: 200 posti. L’altro, più grande, è a Gjadër, a venti chilometri di distanza. È stato costruito in una zona completamente isolata, vicino a un aeroporto militare abbandonato e un paese contadino di trecento abitanti. È lì che stanno sfilando le autorità italiane, mentre le ruspe continuano a scavare. “Per adesso apriamo per 400 migranti, ma nell’arco di qualche settimana i lavori saranno ultimati. A regime la capienza totale del centro di trattenimento sarà di 880 posti”. E la parte riservata ai rimpatri, cioè il Cpr? “Conta 144 posti”. C’è anche un piccolo carcere interno, per la precisione: 20 posti. Con chiavistelli e sbarre alle finestre. Poi Scannicchio aggiunge una frase che ha il potere di spiegare la totale incertezza del piano. “Chiaramente questi sono numeri che vanno intesi secondo una scaletta operativa che non possiamo prevedere nel corso del tempo. A seconda dell’esito delle varie procedure, procedure varie e di varia durata, libereremo dei letti per altri arrivi. È difficile calcolare il numero totale adesso. È un’attività dinamica. A secondo delle situazioni specifiche che emergeranno”. Sono già stati spesi 56 milioni di euro per il progetto Albania, altri 120 milioni verranno stanziati nel 2025. Il governo italiano intende gestire le domande dei richiedenti asilo in video collegamento con Roma. Sempre a Gjadër intende organizzare le espulsioni dei migranti che non otterranno la protezione internazionale. Uno studioso come Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà, ex vice presidente dell’Associazione per gli Studi giuridici sull’immigrazione, ritiene che questo sia una specie di esperimento oscuro: “Per una gestione dei migranti connotata dall’indebolimento radicale delle garanzie e del loro confinamento assoluto. L’Albania è la creazione di “un altrove” dove le regole, sulla carta, sono le stesse di quelle previste in Italia. Ma in realtà sono del tutto sterilizzate”. Con gli avvocati a distanza. Con le pratiche gestite dentro agli schermi. Con problemi di traduzione e l’indebolimento del diritto di difesa. Quando arriveranno i primi migranti? Nessuno lo sa dire con certezza. Ma la nave che dovrebbe fare i trasbordi potrebbe essere la nave “Libra” della Marina Militare, ed è data in partenza domenica mattina. Insomma, manca poco: dopo annunci e ritardi, adesso è vero. Presto i primi migranti recuperati in mezzo al mare con il sogno di salvarsi in Europa si ritroveranno in terra d’Albania a verificare sulla loro pelle l’esperimento italiano. Le donne i bambini verranno sempre fatti sbarcare a Lampedusa, questo prevede il protocollo. Verso Shëngjin e Gjadër potranno essere portati solo maschi adulti soccorsi dalle navi della guardia costiera, della guardia di finanza e della marina militare, non quelli salvati dalle Ong. Tutti dovranno avere un requisito iniziale: arrivare da Paesi definiti “sicuri”. Ma proprio questa definizione è uno dei problemi. Perché l’Italia classifica come sicuri anche Egitto, Tunisia e Bangladesh, mentre una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea sostiene il contrario. Quando arriveranno in Albania sperimenteranno la burocrazia italiana in trasferta. Resta, alla fine, la domanda a cui nessuno sa rispondere. Il vero mistero di tutta questa faccenda. In caso di respingimento, cosa sarà di quelle persone? Torneranno in Italia, saranno rimpatriate direttamente dall’Albania, oppure verranno abbandonate al loro destino? Quanto è lontana l’Europa dalle gabbie di Gjadër? Migranti. Cpr in Albania, appalti senza gara: oltre 60 milioni a ditte sconosciute di Marika Ikonomu e Giovanni Tizian Il Domani, 12 ottobre 2024 Dai documenti ottenuti da Domani risultano commesse anche da 10 milioni assegnate senza alcun bando. Lo scudo della Difesa è un ostacolo ai controlli dell’Anac. Timori per possibili verifiche della Corte dei conti. L’unica regola è fare presto. Pertanto l’imperativo governativo esclude il rispetto del codice degli appalti per come i comuni mortali lo conoscono. D’altronde l’Albania è lontana dall’occhio vigile delle autorità di controllo. È il buco nero dei centri di detenzione per migranti. Il grande piano di cui il governo di Giorgia Meloni va più fiero. Presentato dopo il naufragio di Cutro, il progetto dei centri albanesi è stato venduto all’opinione pubblica come la soluzione all’invasione inventata dalla narrazione sovranista. Centri pericolosi per il rispetto dei diritti umani, e per le casse pubbliche. I contratti di affidamento diretto, ottenuti da Domani, raccontano di procedure inusuali per chi maneggia commesse pubbliche di una certa importanza e valore. Si tratta di decine di appalti assegnati senza gara a partire da fine marzo fino a settembre. Affidamenti diretti, appunto, che sommati valgono oltre 60 milioni di euro. Denaro che, risulta dagli atti, è stato gestito principalmente dal ministero della Difesa, tramite l’articolazione SegreDifesa, in particolare dalla divisione Direzione dei Lavori e del Demanio, guidata dal generale ispettore Giancarlo Gambardella: nominato lo scorso 28 dicembre, è la persona che per conto del governo dovrà curare tutta la partita Cpr. La caccia alle aziende anche albanesi per realizzare il sogno di Meloni e Piantedosi è iniziata ad aprile. I primi due affidamenti, per esempio, portano la data del 15 aprile 2024: “Fornitura in opera di strutture prefabbricate alloggiative metalliche modulari di tipo 3 presso la località di Gjader” e “Fornitura in opera di strutture prefabbricate alloggiative metalliche modulari di tipo 1 presso la località di Gjader e Shengjin”. In totale, confermano dalla Difesa, sono stati spesi per i moduli prefabbricati 25 milioni di euro, affidati senza gara a quattro aziende diverse. Gjader e Shengjin sono le località che ospiteranno i due centri, l’uno funzionale all’altro. A Gjader è stata realizzata la struttura di trattenimento, il centro di permanenza vero e proprio, eretto sul sedime di una ex base militare abbandonata. Qui i migranti verranno spediti in autobus dall’hotspot di Shengjin, allestito in un’area del porto della cittadina turistica albanese, che dista mezz’ora di auto. Se a Shengjin è filato tutto liscio, lo stesso non si può dire per Gjader. Le criticità evidenti erano state segnalate in diverse relazioni: dall’assenza di impianti alla necessità di bonificare l’area da possibili ordigni inesplosi. Che fosse complessa l’operazione Gjader lo dimostrano anche i costi. Un altro affidamento degno di nota è del valore di 10 milioni di euro per la “realizzazione di impianti elettrici a Gjader”. Chi è la fortunata azienda? Impossibile saperlo. Così come resta anonima l’impresa cui sono stati affidati i “Lavori di realizzazione rete di raccolta e scarico delle acque meteoriche e sistema di telerilevamento” pari a 1,3 milioni di euro. E anche quella che, per oltre 7 milioni, si è aggiudicata gli “scavi, riporti e realizzazione di recinzioni, cancelli e canali”. Il 12 luglio, poi, sono stati affidati i “Lavori per la realizzazione opere accessorie e di rifinitura presso Gjader” al prezzo di 1,4 milioni. Una settimana prima Segredifesa aveva ingaggiato altre due aziende: spesa totale 12 milioni per due affidamenti che vanno dagli “impianti speciali” a opere in “calcestruzzo” agli impianti “idrici e fognari”. Spesa notevole anche quella da oltre 9 milioni per realizzare “pali per campo prove”, ossia fondazioni per stabilizzare le strutture. L’elenco potrebbe continuare con affidamenti sotto il milione ma comunque sopra la fatidica soglia di 500mila euro, superata la quale andrebbe fatta una gara. Di certo nel cantiere di Gjader ha lavorato manovalanza kossovara e albanese. C’è poi la poca trasparenza sulle aziende scelte sul territorio. Non esiste un elenco pubblico. Come se in quel cantiere non vigesse la normativa sulla trasparenza in vigore nel nostro paese. Eppure l’area dei lavori, secondo il protocollo firmato da Meloni e il premier albanese Edi Rama è territorio italiano: i centri, infatti, operano in regime di extraterritorialità. “L’unica azienda albanese affidataria è stata sottoposta a controlli tramite Banca dati antimafia”, dicono dalla Difesa, che assicura che, nonostante l’assenza di gare, gli “operatori sono stati selezionati sulla base della comprovata esperienza nel settore”. Questa pratica di affidare senza gara per rispettare l’imperativo del “fate presto” ha creato non poche preoccupazioni all’interno degli uffici della Difesa: cosa succederebbe con una eventuale verifica della Corte dei Conti o di altri organi deputati al controllo? Le deroghe applicate sono giustificate. “Gli affidamenti oltre la soglia si sono resi necessari in considerazione dei tempi ristretti per la realizzazione delle stesse”, è la replica della Difesa, che aggiunge: “Qualsiasi tipo di affidamento tramite gara competitiva sarebbe stato incompatibile con le tempistiche”. Tuttavia è proprio la decisione di spostare l’intero pacchetto Albania sotto il controllo del ministero della Difesa che ha permesso di non dover sottostare ai limiti del codice degli appalti e di non essere sottoposti al controllo dell’Autorità anticorruzione (Anac), confermano fonti qualificate dell’organismo. I centri per migranti “opere destinate alla difesa e sicurezza nazionale”. Come fossero basi navali o missilistiche, arsenali. Chi può allora monitorare sulle modalità di spesa di oltre sessanta milioni di euro con affidamenti diretti è il Copasir, Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica con funzioni di vigilanza sull’operato dell’apparato di intelligence. Ma solo a certe condizioni: potrebbe occuparsene se dovessero emergere questioni relative alla sicurezza nazionale in senso lato. Ma non ci sono norme che prevedono l’obbligo di una rendicontazione o una comunicazione da parte del ministero della Difesa al comitato. Le deroghe e la competenza della Difesa però non impediscono alla Corte dei conti di garantire un controllo sulla spesa: c’è una specifica sezione della magistratura contabile che si occupa di contratti secretati e atipici. Far ricadere, dunque, la partita Cpr sotto il cappello della Difesa ha permesso al governo di sviare da quelli che sono i limiti e i controlli ordinari, che sarebbero stati previsti, ad esempio, se la competenza fosse rimasta al Viminale. Tutto questo per “fare presto”. Il circo delle inaugurazioni - “Partirà probabilmente tra qualche giorno”, ha annunciato ieri Meloni. L’ordine di accelerare è arrivato dalle alte sfere del governo. Ma è difficile immaginare che né la premier né il ministro dell’Interno fossero a conoscenza del cronoprogramma ufficiale dei lavori: le relazioni interne della Difesa, pubblicate da Domani a marzo scorso, indicavano la fine tra metà ottobre e l’inizio di novembre. Perché allora il governo ha dato in pasto ai media veline che davano come giorno dell’inaugurazione prima maggio, poi agosto, poi settembre e infine un giorno imprecisato della prossima settimana? In un ciclo continuo di avvisi su aperture imminenti puntualmente smentite dalle immagini di cantieri senza ancora opere strutturali, siamo così arrivati alla fine di ottobre: i centri sono “da oggi operativi”, ha detto ieri l’ambasciatore italiano. In realtà dovrebbero essere realmente operativi dal 18 ottobre. Con buona parte di Gjader ancora da ultimare. Senza contare che a intralciare i piani del governo c’è una recente sentenza della Corte di giustizia dell’Ue che ha messo in discussione tutto il progetto dei centri in Albania. Così il grande piano di deportazione, con tutti i milioni spesi in appalti, potrebbe trasformarsi in una grande beffa albanese per Meloni. Droghe. Mantovano e le vecchie leggende metropolitane di Leonardo Fiorentini* L’Unità, 12 ottobre 2024 Secondo il sottosegretario il Thc trasforma i nostri figli in mostri: uno stereotipo proibizionista degli anni 70 smentito dagli studi. La scorsa settimana, il sottosegretario Alfredo Mantovano ha partecipato a un’audizione presso la commissione parlamentare per l’Infanzia e l’Adolescenza. L’incontro ha riguardato un’indagine conoscitiva sul “degrado materiale, morale e culturale nella condizione dei minori”. Basterebbe il titolo dell’indagine per giudicare l’approccio ai giovani della destra italiana. Il focus della convocazione era la diffusione di alcool, nuove droghe, aggressività e violenza tra i giovani: Mantovano ha così potuto esprimersi in piena libertà, spaziando fra miti e leggende e rispolverando anche vecchi e cari capri espiatori. “Mi trovavo insieme ai miei amici K e C, avevo degli spinelli con me che fumai davanti a loro, all’improvviso forse preso da euforia ho proposto loro di picchiare una guardia giurata che da poco era passata davanti a noi”. Così, a freddo, citando uno dei minori accusati di un terribile omicidio, il sottosegretario anticipa il livello del suo contributo. Salta subito alla mente la propaganda proibizionista americana degli anni 30 e 40 del secolo scorso. Siamo tornati alla molecola, in questo caso il Thc, che trasforma i nostri figli in mostri. Nulla sulla condizione familiare, sociale e scolastica di quei quindicenni cresciuti in un quartiere degradato, colpevoli di un crimine efferato. Evidentemente per la destra di governo è sufficiente per risolvere la questione minorile tornare alla “droga che provoca la maggior parte della violenza nella storia dell’umanità” di Anslinger, il padre del proibizionismo della cannabis. Del resto, Meloni lo ha dimostrato con Caivano: dietro l’elemosina di qualche milione investito in una città fatta simbolo, ha nascosto l’abbandono completo del resto delle periferie italiane. Ha creato l’allarme e inasprito pene e trattamento penale dei minori, nonostante i reati da loro commessi siano in calo. Meno reati, più repressione: tanta da riempiere gli Istituti Penali per i Minori (Ipm), come ha dimostrato il recente rapporto di Antigone “A un anno dal decreto Caivano”. Mettendo in crisi il sistema della giustizia minorile italiana, una delle poche cose che funzionavano. Se il Thc è il nemico, la pianta di cannabis da cui deriva è il demonio. Così “la [cannabis] naturale non può superare il 2,5%” - testuali parole di Mantovano. Torniamo al mito della cannabis di una volta, che non era così potente, e della “innaturalità” della crescita del Thc. Detto che alcuni studi degli anni 70 riportano livelli paragonabili a quelli medi riportati dalla relazione del Governo, per destare maggiore allarme Mantovano riporta che i “sequestri di hashish - ovvero di un concentrato - è passata dal 17% del 2018 al 25% del 2023”. Il sottosegretario nel suo ragionamento omette di ricordare che le piante di naturalissima cannabis terapeutica, coltivate dal Ministero della Difesa a Firenze, producono infiorescenze al 20% di Thc. Ma il punto è un altro: l’audizione è stata una confessione implicita del fallimento dell’approccio ideologico proibizionista. Nonostante 34 anni di applicazione della legge antidroga, che punisce con pene draconiane il semplice spaccio (fino a 20 anni di carcere) e riempe le nostre carceri (il 34% dei detenuti è per droghe), il mercato illegale riesce addirittura ad aumentare la qualità delle sostanze da strada. Nonostante l’aumento delle pene anche per i fatti di lieve entità voluto dal Governo Meloni nel decreto Caivano, aumentano le quantità di droghe sequestrate, e quindi quelle in circolazione. Nonostante l’aumento della repressione penale e amministrativa i consumi di sostanze non scendono. Risulta evidente, per chiunque valuti pragmaticamente la questione, che questo approccio non solo non è efficace, ma produce danni alle persone e alla loro salute, così come alla società. Non è un caso che le uniche politiche capaci di diminuire il consumo di sostanze fra gli adolescenti siano state tre: il lockdown forzato dalla pandemia, grandi investimenti in politiche di integrazione sociale e prevenzione ed infine il processo di regolamentazione legale della cannabis per gli adulti. Escludendo il primo, gli altri due sono talmente complementari che ci sarebbe da chiedersi perché non se ne parli. La risposta è tutta nelle parole di Mantovano che, in cerca di capri espiatori, ha espresso preoccupazione per come media e cultura popolare trattano la questione cannabis, prendendosela con i testi di Sfera Ebbasta e ancora con Marco Giallini, colpevole - nei panni del poliziotto Rocco Schiavone - di fumarsi una canna a fine turno. Solo l’estraniarsi dalla realtà, la negazione delle evidenze - non solo scientifiche - e l’affermazione ipocrita di principi etici e morali da imporre agli altri, possono spiegare le mosse del governo Meloni. Che ora si trova sotto osservazione anche a Bruxelles sia per il decreto Schillaci sul Cbd trasformato in medicinale stupefacente, che per la criminalizzazione delle infiorescenze di cannabis light introdotta nel DdL Sicurezza. La commissione europea “sta valutando la conformità di tali misure con i Trattati e con il diritto derivato dell’Unione” come ha confermato ieri la commissaria Kyriakides rispondendo ad una interrogazione del M5S. *Forum droghe Quel Nobel per la Pace contro l’incubo atomico di Domenico Quirico La Stampa, 12 ottobre 2024 Nel dedalo di contingenze che cavano il fiato, assediati da un panorama internazionale colato a picco nelle dissipazioni guerresche, confidavamo nei signori giurati del Nobel per la pace, li volevamo pretoriani di una forza morale capace di cimentarsi con giorni correnti tutti stampati in rosso scarlatto, dove ognuno ha martiri quotidiani per la propria parte. Lo so: è un premio che striminzisce sui giornali in poche ore, un perbene malinconico. Giusto. Ma serve a ricordare che la pace è possibile se solo qualcuno volesse mobilitarla. Forse non muore anche se sembra estinta in ogni meridiano e parallelo sotto la stretta di dita ferree. Non è premiare un romanziere o un biologo: i cinque scelti da parlamento norvegese hanno il compito di invocare una palingenesi trasformatrice del mondo come un nuovo diluvio. Deve essere, la scelta, non episodio ma sacrosanta eresia. Dopo aver letto in passato nomi che rasentavano la sconvenienza come Arafat, Begin, Kissinger o Abiy Ahmed Ali ho dubitato non della pace ma dei giurati. L’assegnazione ieri alla organizzazione che riunisce i superstiti delle bombe atomiche sganciate dagli americani su Hiroshima e Nagasaki è una occasione mancata, un Nobel stanco, inespressivo, scorciatoia per evitare i guai del calarsi davvero nel presente. In fondo non è la solita razione di segatura quotidiana, una ortodossia della quiete, l’assuefazione a niente che tenga per più di cinque minuti? Nei cieli ci sono missili e aeroplani, milioni di uomini stanno rintanati nelle trincee, dentro le case le baracche i bunker non c’è più luogo che abbia in Europa in Africa nel Vicino Oriente silenzio e quiete. Era obbligatoria una scelta dura, implacabile, un grido di pacifismo non quietista ma rivoluzionario. Perché cosa c’è di più rivoluzionario della pace, che significa spazzar via l’andamento politico del mondo? Ecco: bisognava non assegnarlo, astenersi polemicamente, uno schiaffo ai piazzisti della morte redditizia, politici, banchieri pescecani in cravatta e consiglio di amministrazione, come è avvenuto durante la prima e la seconda guerra mondiale o negli anni più aspri della guerra fredda. Quando premiar la pace era impossibile, perfino indecoroso. Ricordare la tragedia e l’impegno dei giapponesi superstiti sarebbe stato tutto questo ma nel 1945! Quando per la prima e unica volta l’apocalisse fu usata per applicare una nuova dimensione del delitto contro l’umanità. Nel 1945 invece fu assegnato a Corder Hull, un politico di quella democrazia americana che il Delitto aveva commesso; non per accelerare la pace, come si giustificò a posteriori, ma per dimostrare di fronte ai futuri nemici, che stava già individuando, che la potenza aveva un nuovo monopolio. Sì. Lo so. la scelta dei testimoni dell’unica apocalisse realizzata dovrebbe ricordarci che la Bomba non è più l’arma non arma, pura deterrenza reciproca da custodire nei silos, quando dire che il mondo si preparava al conflitto senza ritorno era per fortuna improprio e l’avvenire inconoscibile era sbarrato comunque da questa contraddizione. Oggi il possibile suicidio del mondo si sente, si annusa per la mancanza assoluta di un ordine internazionale convincente. Per l’atomica si usa di nuovo la parola fatalità, con la stessa disinvoltura rassegnata con cui si parlava della fatale conseguenza dell’attentato di Sarajevo. Oggi la Bomba viene maneggiata come una normale possibilità strategica e tattica dotata anche di teorie giustificatrici. Ma il problema non è la Bomba, il problema è la Guerra: le guerre piccole grandi moderne vecchie ideologiche fanatiche nazionalistiche imperialistiche economiche e territoriali. Dove il terrore grugnisce, fiuta la direzione del vento. È contro questa Guerra normale e globale a cui ci stiamo abituando e rassegnando, contro questa Guerra giusta, giustificata, auspicata come nuova igiene del mondo, nostalgia di barbarie, che i cinque giurati di Oslo avrebbero dovuto lanciare un urlo furioso, un esplicito stato di accusa. Il Nobel dovevano assegnarlo ad altri sopravvissuti, ai sopravvissuti di Gaza e del sette ottobre, del Libano e dell’Ucraina, del Sahel e del Congo, del Sudan e del Tigrai e di Siria, i luoghi dove stiamo organizzando il nostro naufragio: sfiniti e irriducibili, le pieghe fiamminghe dei loro visi che ci impietriscono, il cui dolore va al di là delle immagini, dissodando ciascuno patiboli per nulla nuovi, già incrostati di altri calvari, sangue su sangue, fame su fame, gli urli, lo strazio, i petti squarciati. Stati Uniti: “L’isolamento dei condannati fa danni”. L’Italia: “Il 41-bis non si tocca” di Valerio Fioravanti L’Unità, 12 ottobre 2024 Due sentenze storiche contro l’isolamento nel braccio della morte: “Gravemente compromessa la salute mentale”. In Italia, invece, il 41 bis non si tocca. Per poter chiedere una condanna a morte il pubblico ministero negli Stati Uniti deve dimostrare due cose: che il reato sia “tra i più gravi dei gravi” e che l’imputato, finché resta in vita, rappresenti ancora un pericolo per la società. Ovviamente tutti gli avvocati difensori argomentano che se una persona viene condannata all’ergastolo, e messa in un supercarcere, non può più essere “un pericolo per la società”. Ma, con un pizzico di ipocrisia, la Corte Suprema (che negli Usa è un misto di Corte di Cassazione e Corte Costituzionale) autorizza da sempre i pubblici ministeri a considerare “società” anche un reparto di massima sicurezza, quindi il condannato potrebbe essere pericoloso per gli altri condannati. È un corto circuito: gli assassini, a cui potrebbe essere risparmiata la vita “accontentandosi” dell’ergastolo, vengono tutti uccisi perché se no potrebbero uccidersi loro l’uno con l’altro. E siccome lo Stato, applicando quel pizzico di ipocrisia di cui sopra, ci tiene molto che qualcun altro non possa uccidere il suo reo prima che possa farlo lui, la soluzione è tenerli tutti in isolamento. Chi segue le pagine di Nessuno tocchi Caino, sa che sul tema “pena di morte” gli Stati Uniti sono divisi quasi perfettamente a metà. Metà degli Stati l’ha abolita, e della metà che l’ha ancora in vigore, solo metà la usa veramente, e della metà della metà che la usa, solo metà ne fa un uso regolare, e non sporadico. Sostanzialmente le circa 20 esecuzioni annue vengono effettuate solo da alcuni Stati del Sud: Texas, Oklahoma, Florida, Missouri, Georgia, Alabama. Negli Stati che usano la pena capitale poco o nulla, si crea una situazione paradossale: le persone non vengono giustiziate, ma rimangono comunque nel braccio della morte a tempo indefinito. E nel braccio della morte si sta quasi sempre in totale isolamento: 22 ore al giorno chiusi in cella, e 2 ore in un cortile interno dove camminare, e qualche volta a settimana in un cortile vero e proprio, uno da cui si possa vedere il cielo, ed eventualmente (non sempre) calpestare dell’erba, e non il solito cemento. Recentemente due sentenze “federali” (ossia di corti importanti, non quelle locali; i giudici federali vengono nominati dal governo, quelli locali quasi sempre sono eletti dalla comunità) hanno “colpito” la pratica dell’isolamento a tempo indeterminato. Voglio dirlo subito: queste due sentenze sono state sollecitate dalla “società civile”, ossia da associazioni che si occupano del disagio mentale e della malattia mentale. In collaborazione con associazioni di avvocati che perseguono il rispetto dei diritti civili di ogni cittadino, e quindi anche del cittadino-detenuto, e anche del cittadino “da giustiziare”, hanno preso le linee guida del trattamento psichiatrico dei pazienti “normali”, e ne hanno chiesto l’applicazione, modificando quello che c’è da modificare, anche ai condannati a morte. Quando si tratta di cittadini normali, tutti sono d’accordo su uno dei protocolli terapeutici: “l’isolamento può causare disturbi cognitivi dopo anche pochi giorni in una persona senza una malattia mentale preesistente. Ovviamente se tale confinamento viene prolungato, l’esito è particolarmente nocivo per una persona con salute mentale gravemente compromessa”. C’è voluto del tempo, si sono dovuti superare gli iniziali dinieghi delle amministrazioni penitenziarie locali e delle corti locali, ma nelle scorse settimane, quasi contemporaneamente, in Tennessee e Pennsylvania, nei casi rispettivamente di una donna, Christa Pike, tenuta in isolamento per 28 anni, e Roy Williams, isolato da 26, le corti hanno stabilito che a queste persone, entrambe “gravemente compromesse dal punto di vista psicologico, cognitivo ed emotivo”, deve essere consentito di lavorare, e socializzare con altri detenuti della “popolazione generale” e, se vogliono, “partecipare a programmi educativi o religiosi”. A fondamento di queste due decisioni sono stati messi l’Ottavo Emendamento della Costituzione (contro pene inusuali e crudeli), la legge ADA (Americans with Disabilities Act) contro la discriminazione delle persone con disabilità, e la Raccomandazione delle Nazioni Unite secondo cui l’uso dell’isolamento “dovrebbe essere proibito nel caso di prigionieri con disabilità mentali o fisiche, quando le loro condizioni sarebbero esacerbate da tali misure”. Nei bracci della morte USA ci sono 2.200 detenuti, e per 2 di loro sta scattando ora un minimo di meccanismo di protezione. Può sembrare poco. In Italia, nei dati diffusi ad aprile, abbiamo 721 detenuti in 41 bis, anche loro in isolamento quasi totale, verosimilmente tutti, chi più e chi leggermente meno “gravemente compromessi dal punto di vista psicologico, cognitivo ed emotivo”. Sembra però che non abbiamo una ‘società civilè sufficientemente civile da occuparsene.