Carcere, mancano i fondi per il lavoro dietro le sbarre di Fulvio Fulvi Avvenire, 10 ottobre 2024 Nella polveriera carcere, al momento anche la possibilità di un reinserimento attraverso un impiego sembra essere in salita. Una delle cause principali dell’attuale disagio negli istituti penitenziari, infatti, è rappresentata dalla mancanza di lavoro. La maggior parte dei detenuti vive quasi tutta la giornata senza fare nulla. Solo il 30% è impiegato, in particolare alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, in molti casi per poche ore alla settimana. Su questo terreno, Antigone è tornata ieri a incalzare il Guardasigilli. “Dal suo insediamento, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha più volte parlato dell’importanza del lavoro in carcere per il reinserimento sociale delle persone detenute e per abbattere il tasso di recidiva, ma nella pratica si sta facendo l’esatto opposto - ha denunciato Patrizio Gonnella, presidente di Antigo - ne - tagliando del 50% i fondi a disposizione per il pagamento delle persone detenute lavoranti in carcere”. Il Provveditorato regionale (Prap) del Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta ha rilevato il fabbisogno per mantenere i tassi di occupazione a “2 milioni di euro mentre dal ministero della Giustizia è stato erogato meno del 50% di questa cifra - ha spiegato lo stesso Gonnella -, per questo, il Prap ha invitato le direzioni degli istituti a tagliare il numero di persone lavoranti o comunque di ridurre le ore di lavoro che le stesse svolgono. Questi tagli potranno colpire peraltro categorie specifiche di lavoratori: quelli che prestano assistenza ad altri detenuti disabili o non pienamente autosufficienti, o quelli a supporto dell’area pedagogica come bibliotecari e scrivani”. Intanto, dietro le sbarre l’emergenza continua: due giorni fa si è registrato il 75esimo suicidio in cella dall’inizio dell’anno, uno degli esiti della disperazione che si vive ogni giorno dietro le sbarre. Era un detenuto quarantenne di origini maghrebine che sarebbe uscito tra pochi mesi dal carcere per fine pena: si è impiccato martedì sera nella sua cella della Casa di reclusione di Vigevano, in provincia di Pavia nei cui padiglioni il sovraffollamento ha raggiunto livelli sopra ogni sopportabilità. Nella struttura, infatti, sono 360 le persone ristrette e 218 i posti previsti dal regolamento mentre il numero degli agenti di polizia penitenziaria risulta fortemente sotto organico: ne mancherebbero 75, secondo il segretario generale della Uilpa di settore, Gennarino De Fazio, che denuncia anche la condizione di estremo disagio della categoria: gli addetti alla vigilanza che si sono tolti la vita nei 192 istituti penali italiani nei primi nove mesi del 2024, infatti, sono stati 7. L’emergenza dunque si aggrava. E, poche ore dopo la tragedia di Vigevano, un altro detenuto, nella Casa circondariale di Catanzaro è stato salvato in extremis da due agenti prima che portasse a termine l’estremo gesto. In un mese i decessi per suicidio nelle carceri sono aumentati di 18 unità. Altra cifra rilevata è quella dei tentativi di suicidio che fino a domenica scorsa erano stati 1.597, in aumento di 103. Nell’ultimo report del Garante nazionale delle persone private della libertà personale, aggiornato al 7 ottobre, figurano 61.914 ospiti “stipati” nelle patrie galere (età media 42 anni, 10.000 dei quali sono in attesa di primo giudizio e il 31,64% è straniero) a fronte di una capienza totale consentita di 51.196 posti e di una effettiva disponibilità pari a 46.812. C’è, quindi, un esubero di 15.102 ristretti. E non solo. In un solo mese i detenuti sono aumentati di 114 unità e il tasso medio di sovraffollamento è schizzato al 132,26%. Una situazione fuori controllo in molte regioni, tra cui la Campania (dove è avvenuto il maggior numero di suicidi: 9), la Lombardia, la Puglia e il Lazio, le più disastrate dal punto divista penitenziario. Drammatica, se non impossibile, la vita quotidiana nelle celle di San Vittore, a Milano, dove il tasso di sovraffollamento è arrivato al 228,03% e, secondo l’associazione Antigone, oltre la metà dei 1.180 detenuti che vi sono rinchiusi è affetta da disturbi della sfera psichica. Al Canton Mombello di Brescia la percentuale di “surplus” delle presenze è del 207,14% mentre a Foggia si registra un 205,8%. In totale, nell’81,57% degli istituti di pena viene superato il limite di presenze consentito. L’indagine del Garante sottolinea inoltre la crescente pressione derivante dal numero di nuovi ingressi rispetto alle uscite. Nel periodo tra il 7 ottobre 2023 e la stessa data del 2024, ci sono state 43.146 entrate, mentre 29.574 detenuti sono stati liberati, generando così un saldo negativo di 13.713 unità. Dati allarmanti si registrano anche per quanto riguarda le aggressioni, che sono arrivate a 4.366 (1.623 delle quali a danno del personale di polizia penitenzia) e gli atti di autolesionismo, 9.934 (più 430 rispetto allo stesso periodo del 2023). Le manifestazioni di protesta collettiva sono state invece 1.192 (più 371). Il ministero della Giustizia: “Nessun taglio, anzi aumentati i fondi per il lavoro dei detenuti” gnewsonline.it, 10 ottobre 2024 Nessun taglio dei fondi per i detenuti che lavorano, ma anzi maggiori investimenti rispetto al passato. Nel piano di investimenti straordinario fin qui realizzato dal Governo e dal Ministero della Giustizia per migliorare le condizioni di esecuzione della pena, il previsto budget di bilancio destinato alla retribuzione del lavoro intramurale dei detenuti, che per il 2024 ammonta a 128 milioni di euro, è stato ulteriormente aumentato con 9 milioni di euro versati dalla Cassa delle Ammende. Di questi, 8 destinati ad aumentare le opportunità di lavoro in carcere e 1 milione per la formazione professionale, il cui budget è stato così raddoppiato (da 1.066.151 a 2.066.151 di euro). Non solo: altri 19 milioni di euro sono stati stanziati per gli sgravi fiscali e le agevolazioni alle imprese previsti dalla legge Smuraglia, al fine di incrementare le opportunità di lavoro all’esterno degli istituti penitenziari. Non a caso, risultano aumentati sia il numero complessivo dei detenuti lavoranti (passati dai 19.235, prima dell’insediamento del nuovo Governo, agli attuali 20.071), sia il dato di quelli al lavoro per conto di imprese e cooperative all’interno e all’esterno (passati da 3.225, agli attuali 4.097). In sensibile incremento, infine, anche il numero dei detenuti iscritti ai corsi professionali attivati, salito da 3.824 agli attuali 6.423. L’aumento delle risorse ha riguardato anche il Provveditorato Regionale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta: al Prap di Torino, esclusivamente per la retribuzione del lavoro dei detenuti, nel 2023 sono stati assegnati fondi pari a euro 12.898.178, saliti nel 2024 a euro 13.243.993. Consiglio d’Europa: “L’uso dell’intelligenza artificiale nelle carceri rispetti i diritti dei detenuti” ansa.it, 10 ottobre 2024 Adottata Raccomandazione. Garantire che l’uso dell’intelligenza artificiale da parte dei servizi penitenziari e di libertà vigilata rispetti i diritti umani e la dignità dei detenuti, dei soggetti in libertà vigilata e del personale. Questo l’obiettivo della raccomandazione ai suoi 46 Stati membri adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. In particolare, i governi sono invitati a garantire che i servizi carcerari e di libertà vigilata usino le tecnologie in modo legittimo e proporzionato e solo se contribuiscono alla riabilitazione degli autori di reato. Le tecnologie non devono sostituire il personale penitenziario e di sorveglianza nel lavoro quotidiano e nell’interazione con gli autori di reato, ma piuttosto assisterlo in tale lavoro e aiutare il sistema penale, in particolare nell’esecuzione delle sanzioni e delle misure penali, migliorando la riabilitazione e riducendo la recidiva. Il testo si sofferma anche sugli aspetti etici e organizzativi dell’utilizzo dell’IA nelle carceri, sottolineando che tutti i processi relativi a progettazione, sviluppo, fornitura, uso e dismissione dell’IA usata dai servizi penitenziari devono essere trasparenti e conformi agli standard giuridici nazionali e internazionali. L’IA, si osserva, può contribuire a mantenere la sicurezza nelle carceri, ma il suo utilizzo deve essere strettamente necessario ed evitare effetti negativi sulla privacy e sul benessere dei detenuti e del personale. Il documento sottolinea inoltre che, quando si utilizza l’IA per assistere il processo decisionale, i servizi penitenziari e di libertà vigilata devono adottare misure per evitare pregiudizi nei confronti di individui o gruppi di individui e prevenire la discriminazione. Tutte le decisioni basate sull’uso dell’IA con un potenziale impatto sui diritti umani dovrebbero essere soggette a revisione umana e a meccanismi di reclamo efficaci. Per quanto riguarda la protezione dei dati e il diritto alla privacy, l’IA dovrebbe essere limitata allo stretto necessario, garantendo la riservatezza e l’integrità dei dati personali. L’IA e le relative tecnologie digitali possono aiutare i professionisti a reintegrare gli autori di reato nella società, ma le relazioni umane devono rimanere un elemento centrale della riabilitazione. Di conseguenza, l’IA dovrebbe integrare e non sostituire le interazioni faccia a faccia - con operatori sanitari, avvocati, assistenti sociali, altri professionisti e famiglie - figure essenziali per una riabilitazione efficace. La raccomandazione, infine, sottolinea che l’IA può anche migliorare il reclutamento, la gestione e la formazione del personale penitenziario che d’altra parte vede riconosciuto il suo diritto di essere informato sulle ragioni delle decisioni e di richiedere una revisione umana, se necessario. “Il Csm si occupa di carcere. Il governo? Resta inerte” di Giulia Merlo Il Domani, 10 ottobre 2024 Il consigliere del Consiglio superiore della magistratura Marcello Basilico: “Il bando straordinario per la magistratura di sorveglianza? Torniamo a guardare a un settore fondamentale per la tutela di diritti garantiti dalla Carta. Le misure recenti del governo, come l’intervento sulla liberazione anticipata, avranno un’efficacia solo apparente”. Consigliere Marcello Basilico, al Csm si è decisa la pubblicazione di un bando straordinario per la magistratura di sorveglianza. Inevitabile legarla alla situazione critica delle carceri... La scelta va oltre la contingenza, anche se non vi è estranea. La situazione carceraria è determinata da fattori che riguardano sovraffollamento ed edilizia, tipologia della popolazione detenuta e condizione del personale. Rispetto a questi fattori il ruolo della magistratura è indifferente, vorrei dire che essa li subisce al pari delle altre categorie anche se, ovviamente, in misura incomparabilmente minore. Ma, dopo che per due anni la mobilità dei magistrati ha guardato agli obiettivi del Pnrr, con questo bando il Csm torna a guardare a un settore fondamentale per la tutela di diritti garantiti dalla Carta, ma poco garantiti: quelli dei detenuti, dei loro familiari e, a seguire, quelli legati alle condizioni di lavoro della polizia penitenziaria e del personale amministrativo che opera all’interno di istituti spesso invivibili. Cosa significano più giudici di sorveglianza, per il sistema carcere? Con 1.729 vacanze sui 10.853 magistrati in organico, non potevamo coprire tutti i vuoti presenti negli uffici di sorveglianza. L’incremento parziale però renderà più celeri le procedure e le risposte alle istanze dei detenuti. Soprattutto consentirà ai magistrati di tornare a visitare le carceri, ad ascoltare i detenuti, a parlare coi direttori e il personale, a constatare di persona lo stato della detenzione. Tutto ciò lo abbiamo scritto anche in delibera, perché il carcere ha bisogno della giurisdizione, di un’autorità indipendente che tenga viva quella speranza che la Costituzione vuole accesa per coloro che hanno perduto un bene prezioso quale è la libertà. Come considera la risposta del governo davanti all’emergenza carceri, tra sovraffollamento e suicidi? Insufficiente, se non insidiosa. Sarebbe scorretto scaricare sull’attuale governo ogni responsabilità di una situazione fuori controllo da tempo. Ma le misure recenti, come l’intervento sulla liberazione anticipata, avranno un’efficacia solo apparente. Anzi, dal nostro angolo visuale creeranno maggiori scompensi sul piano della tempestività della risposta giudiziaria alle istanze dei detenuti. Tecnologicamente siamo all’età della pietra. Manca un sistema informatico che permetta di ricostruire i percorsi dei detenuti e di condividere tra magistrato di sorveglianza e singolo istituto di pena le informazioni sui periodi di carcerazione di ciascuno. Come valuta il ddl Sicurezza con i nuovi reati introdotti? La risposta sta già nella domanda, se guardiamo allo stato delle carceri. Tra l’altro si sta accrescendo il solco, già ora profondo e unico nell’Europea occidentale, tra categorie sociali a rischio di incarcerazione e categorie che ne vanno esenti anche quando delinquono. La sola idea che un colletto bianco, anche quando sia stato condannato per gravi reati economici, tributari o contro l’amministrazione pubblica, debba scontare la pena in una cella a contatto con un’umanità degradata viene vissuta in Italia come una stravaganza. Colpa dello stato vergognoso dei nostri istituti, ma anche colpa dell’idea che nel carcere debbano essere confinati gli ultimi della società, quelli per i quali la sofferenza conta meno. Intanto il governo tira dritto sulla separazione delle carriere. Teme le conseguenze? Certo che le temo. Intanto non parliamo più di “carriere”, per favore, perché i magistrati non ne hanno! La Costituzione li vuole distinti tra loro solo per funzioni. Quelle tra pm e giudice sono già separate di fatto. È ovvio quindi paventare che la riforma finisca nei fatti per limitare l’indipendenza dei pubblici ministeri. Timore confermato dall’insofferenza che parte della politica mostra verso le indagini e le decisioni dei giudici che vadano contro l’ordine costituito o gli obiettivi di governo. Se aggiungiamo l’intervento che si vorrebbe compiere sul Csm, cioè sull’organo deputato a garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, l’equazione diventa quasi matematica. Suor Cesarina e una storia che ci riguarda di Michele Brambilla Il Secolo XIX, 10 ottobre 2024 Suor Cesarina è una religiosa di 88 anni che dedica l’esistenza ai derelitti, fra i quali vanno considerati - anche se qualcuno storcerà il naso - pure i carcerati. Mentre entrava a Marassi, suor Cesarina è stata fermata perché si è scoperto che all’interno di un peluche che stava portando a un detenuto c’era un piccolo smartphone, e come tutti forse sapranno è vietato introdurre nelle carceri oggetti che possono permettere di comunicare all’esterno. La suora, che è stata denunciata, assicura di essere in buona fede: “Una parente del detenuto mi aveva chiesto di portare il peluche, non sapevo che cosa ci fosse dentro”, ha detto, e tendiamo a crederle perché Gesù dice “ero carcerato e siete venuti a farmi visita”, non “ero carcerato e siete venuti a portarmi un cellulare”. Comunque la notizia ci dà l’occasione di parlare di una cosa che non frega niente a nessuno: le carceri. I politici le ignorano, perché non portano voti. E anche tutti noi ci disinteressiamo perché pensiamo che il problema non ci riguardi. E così le nostre carceri sono fra le peggiori al mondo: sovraffollate di gente che marcisce in cella 22 ore al giorno (sono due le ore d’aria) a non far niente. Condizioni che non solo sono contrarie alla Costituzione e a un minimo senso di umanità, ma anche al quieto vivere di noi che stiamo fuori, perché il detenuto così si incattivisce, si convince di essere vittima e non colpevole, e quando esce, evitato da tutti, torna a delinquere. Nelle pochissime carceri in cui si è concesso ad alcune imprese di portare i propri reparti di produzione, i detenuti - assunti in regola - pagano le tasse, mandano i soldi a casa, si sentono utili e quando escono hanno un lavoro. I dati confermano che la recidiva di chi esce dal carcere scende così da un 70 per cento ufficiale (ma 98-99 reale, perché molti reati non vengono scoperti) all’1 o 2 per cento. Buttare via la chiave serve solo a riempire ancora di più le carceri e a incrementare la spirale di odio e risentimento. E quindi anche se non abbiamo il cuore di suor Cesarina, fosse anche solo per la nostra “sicurezza”, dovremmo capire che il dramma dei carcerati è un dramma che ci riguarda. Consulta, i dubbi di FdI sugli alleati. Sì alla stretta sulle intercettazioni di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 10 ottobre 2024 La Lega dopo il voto fallito: non abbiamo colpe. Limite di 45 giorni alla validità degli ascolti. Le intercettazioni non potranno durare più di 45 giorni. Il Senato approva con 83 sì, 49 no e 1 astenuto il disegno di legge del senatore di FI, Pierantonio Zanettin e l’opposizione va all’attacco. “Se la Camera confermerà questa norma - evidenziano parlamentari del centrosinistra e magistrati - migliaia di inchieste sono a rischio”. Esulta invece la maggioranza che ha votato compatta con Italia viva. Dopo le frizioni sulla mancata elezione del consigliere giuridico Francesco Saverio Marini, il centrodestra si ricompatta dunque su un altro provvedimento in materia di giustizia. Ma la polemica è infuocata. I senatori del M5S sottolineano come siano a rischio anche le indagini sulle violenze alle donne, a cominciare dal reato di stalking (“che dura molto più di 45 giorni”). Il Pd contesta parlando, come fa il capogruppo in commissione Giustizia, Alfredo Bazoli, di “termini draconiani”. “Va bene il tetto alle intercettazioni - dice Bazoli - ma il limite di 45 giorni è troppo stretto” perché “così sono a rischio anche le indagini per omicidio, strage, corruzione, bancarotta fraudolenta e violenza sessuale”. Solo per citarne alcuni. Oltre alle intercettazioni, a tenere banco nel dibattito politico è ancora la mancata elezione, martedì, del giudice costituzionale che deve prendere il posto di Silvana Sciarra. Giorgia Meloni, raccontano, è ancora molto arrabbiata. Restano i sospetti su chi potrebbe aver fatto qualche gioco strano, nel suo o in partiti alleati, che scrollano le spalle: “Ma che cosa vogliono da noi? - cerca di sfuggire alla domanda un parlamentare leghista di peso. Colpa nostra? Ma che dicono? Hanno fatto tutto da soli, se la sono scritta e se la sono suonata. Hanno scelto il chi, il come e il quando. E adesso sarebbe colpa nostra?”. Tanta è ancora la tensione che non è chiaro come si procederà nei prossimi giorni. A caldo, martedì, dalle presidenze delle Camere era filtrato che si sarebbe continuato a votare a intervalli regolari fino a quando il giudice mancante non fosse stato eletto, ma nessuno sa tradurre con certezza cosa significhi. Il sottosegretario alla presidenza Giovanbattista Fazzolari assicura: “L’Aventino? Non ci riguarda. Però speriamo che da oggi nessuno dirà più che è la maggioranza che impedisce la nomina del giudice della Corte costituzionale”. Come se ne esce, quindi? Dai vertici di FdI si fa capire che disponibilità a concedere un giudice su quattro all’opposizione (3 scadranno a dicembre) c’è, ma questo non significa “che loro possano dire a noi come indicare i nostri. Ce li scegliamo da soli, altro che rose da presentare. L’opposizione avrà le sue garanzie”. La Corte costituzionale ha sempre più potere: deve essere “impolitica” di Mariano Croce Il Domani, 10 ottobre 2024 Dalla fine del Novecento, le Corti più alte hanno assunto un ruolo tanto decisivo da indurre alcuni studiosi a parlare di “giuristocrazia”. Un fenomeno che imbriglia il legislatore e lo trasforma in notaio. È necessario che la Consulta si avveda del suo compito indifferibile di custode ed esegeta della super-legalità. Da tre decenni in qui, la composizione della Corte costituzionale è ben più che una questione di pienezza democratica: ne va piuttosto della vita politica del Paese. La “giuristocrazia” - Dalla fine del Novecento, infatti, le Corti più alte hanno assunto un ruolo tanto decisivo da indurre alcuni studiosi a parlare di “giuristocrazia” - un governo dei giudici a proiezione globale. Il ventunesimo secolo si caratterizza in effetti per il trionfo di una politica nuova, segnata dalla messe di Carte dei diritti, prodotte a livello sovranazionale, di cui le Corti costituzionali nazionali diventano esegeti e custodi. La crescita esponenziale dei poteri dei giudici non è certo l’esito di manovre sediziose. All’opposto, è riconducibile a due processi distinti ma correlati. Da una parte, dal secondo Novecento a oggi, si è assistito all’espansione senza precedenti del novero e della portata dei diritti. Dall’altra, in numero via via crescente, singoli cittadini, gruppi organizzati e associazioni si rivolgono ai tribunali nazionali e sopranazionali perché questi prendano in carico rivendicazioni che la politica parlamentare trascura (alcune volte per mancanza di energie, altre volte per una studiata elusione delle questioni più delicate e divisive). Questa dinamica duplice di espansione dei diritti e della loro rivendicazione per via giudiziaria sta trasformando, in modo forse irreversibile, la funzione delle Corti costituzionali: non più arbitri ultimi della legalità, ma di fatto supplenti del legislativo, talora persino legislatori eccezionali. Non sorprende quindi che vada riemergendo una nozione in voga più di cento anni fa, quando in tutta Europa ci si cominciava a chiedere quale fosse la pietra d’angolo dello Stato costituzionale: se il potere decisorio dell’esecutivo o il sindacato di costituzionalità delle Corti. Si tratta della nozione di “super-legalità”, vale a dire la supremazia di un insieme di principi e valori considerati persino più stringenti che non il diritto positivo di produzione parlamentare. Una legalità che appunto “sta sopra” alle leggi positive e alla stessa Costituzione, perché di queste ispirazione vitale e chiave interpretativa. Oggi le Corti costituzionali, in un dialogo tra loro sempre più fitto, sono diventate filtri e tutrici della super-legalità incarnata dalle Carte dei diritti. I vari cataloghi vengono elaborati da istituzioni e agenzie sovra-statali, e poi applicati, interpretati e sovente ridefiniti dalle Corti. Per i difensori più strenui del principio di sovranità parlamentare, tale dinamica è un azzardo per l’equilibrio politico degli stati democratici. Si tratta di un processo che finisce giocoforza per esautorare i parlamenti delle loro tradizionali competenze e affidarne di nuove a istituzioni prive di mandato popolare. E questi critici non hanno tutti i torti. I giudici costituzionali, dopo un lungo iter che coinvolge i tribunali ordinari, definiscono una cornice serrata entro cui il legislatore deve muovere. La giuristocrazia imbriglia e disciplina il legislatore, trasformandolo in una sorta di notaio, quando non glossatore di leggi di fatto già imbastite dal potere giudiziario. Gli equilibri tra i poteri dello stato vanno cambiando, nonostante i diffusi rigurgiti da esecutivo corpulento, che sanno molto di ideologia da social. Per questa ragione, è decisivo che la Corte costituzionale, oggi più che mai, assuma una postura “impolitica”, che si avveda cioè del suo compito indifferibile di custode ed esegeta della super-legalità. Un atteggiamento meno consapevole, per quanto possa sembrar favorire ora questa ora quella forza politica, rischierebbe di soverchiare i poteri residuali delle istituzioni parlamentari e governative. Che la Corte sia impolitica: né anti-politica, virus che ammala la cultura pubblica in ogni dove, né a-politica, perché non c’è nulla a questo mondo che possa davvero vantare neutralità. Impolitica, dunque, ossia capace di limitare sé stessa a un compito che quanto più risulta erculeo tanto più richiede circospezione e misura. La Corte lasci che la politica sbrogli da sé i propri pasticci nelle sedi deputate, senza favorirne il miopico breve-termismo. Ai membri delle Corti più elevate si richiede allora un’ispirazione quasi monacale: la capacità di vivere da anacoreti dei deserti, che rifiutano l’accordo col secolo per procurarsi un punto archimedeo impervio agli istinti rapaci della politica mondana, sempre più immonda. Ddl sicurezza, l’introduzione di nuovi reati è davvero a costo zero? di Riccardo Bessone Il Domani, 10 ottobre 2024 Con il testo, approvato alla Camera e in discussione al Senato, si introducono nuovi reati e aggravanti di pena. Misure del genere vengono considerate dal governo a “costo zero”, ma indirettamente hanno un grande impatto sul sistema giudiziario e sulle carceri. Dopo essere stato approvato dalla Camera, il ddl sicurezza è approdato al Senato, dove attualmente è al vaglio delle commissioni. Se dovesse passare anche a palazzo Madama, il testo introdurrebbe una trentina di nuovi reati, aggravanti e ampliamenti di pena, come già successo nel recente passato, per esempio con il decreto rave e il decreto Caivano. Il governo Meloni continua a essere propenso a intervenire nelle problematiche del nostro paese attraverso l’aumento delle pene e l’introduzione di nuovi reati. Misure che vengono considerate generalmente a “costo zero”, dal momento che non richiedono nell’immediato uno stanziamento di fondi da parte del governo, ma solo la scrittura all’interno del codice penale. Interventi educativi nelle periferie per non lasciare abbandonati a sé stessi i ragazzi che ci vivono, per esempio, avrebbero un costo maggiore anche soltanto perché necessitano dell’assunzione di nuovo personale o dell’attribuzione di ulteriori fondi ai servizi educativi già presenti sul territorio. Ma l’introduzione di nuovi reati e aggravanti è davvero a “costo zero”? Il 25 gennaio si è tenuta la cerimonia di apertura dell’anno giudiziario alla Cassazione. In questa occasione, la presidente della Corte Margherita Cassano ha riferito che, in seguito alla riforma dell’ex ministra della giustizia Cartabia - inserita tra le riforme fatte grazie e per il Pnrr - i dati relativi al funzionamento del sistema giudiziario erano in netto miglioramento. Le pendenze civili nel 2023 sono diminuite dell’8,2 per cento nei tribunali e del 9,8 per cento nelle Corti d’appello e anche i tempi dei procedimenti, sempre nel civile, sono scesi in diverse categorie. In ambito penale le pendenze sono scese del 13 per cento nei tribunali e del 6,5 per cento nelle Corti d’appello, così come i tempi, che sono anch’essi diminuiti. In Cassazione l’indice di ricambio dei procedimenti è salito al 141 per cento rispetto al 121,3 per cento del 2022. I numeri del 2023 risultano quindi in netto miglioramento e fanno ben sperare per il raggiungimento degli obiettivi previsti per ricevere i fondi del Pnrr. Fondamentale per il raggiungimento di questi obiettivi è stato, secondo Cassano, “aver superato l’ottica carcerocentrica, introducendo la giustizia riparativa e forme risarcitorie e restitutorie per i reati di minore gravità”. Privilegiando tra le altre cose le misure alternative alla detenzione, si è registrato quindi un netto passo avanti nella semplificazione della macchina giudiziaria e nell’accorciamento dei tempi dei procedimenti, annoso problema della nostra giustizia. Seguendo questo ragionamento, le misure introdotte (o in via di introduzione) dall’attuale governo andrebbero in una direzione opposta alla semplificazione del sistema. Con l’introduzione di nuovi reati, in particolare per crimini minori, aumenterebbero probabilmente i procedimenti in corso. Non è detto che vengano così vanificati i miglioramenti in corso, ma l’eventuale aumento di procedimenti potrebbe parzialmente comprometterli. “L’impatto di politiche penali improntate a rigore repressivo per taluni settori della società e a un abbassamento dei livelli di tutela dell’individuo nelle relazioni con i pubblici poteri si misurerà a breve in un appesantimento della macchina giudiziaria - ha dichiarato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia - che non creerà di certo maggiore sicurezza, e in una sua irragionevole inefficacia nel reprimere condotte di approfittamento che, secondo il comune sentire, esigono una reazione sanzionatoria”. Un’altra grande questione legata alla giustizia è la situazione delle carceri. Storicamente sovraffollati, gli istituti penitenziari italiani hanno raggiunto, a marzo del 2024, un numero di persone detenute pari a 61.049, a fronte di una capienza di 51.178 posti. Le carceri italiane sono quindi piene quasi al 120 per cento, con la percentuale maggiore di detenuti rappresentata da chi ha una pena tra uno e tre anni. Si registra inoltre un aumento di chi ha pene superiori ai tre anni, ma secondo il ventesimo rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione “la causa di tutto questo non è certo un aumento della criminalità per i fatti più gravi, che, come abbiamo visto altrove, è anzi in calo. Il fenomeno dipende invece dall’innalzamento delle pene, una tendenza che si registra da anni, e che comporta, oltre all’invecchiamento della popolazione detenuta, anche una crescita delle presenze in carcere che prescinde dall’aumento degli ingressi. Se non fosse che gli ingressi sono invece anche loro in aumento”. Il sovraffollamento, inoltre, interessa ora anche le carceri minorili, che dal decreto Caivano in poi, accolgono oltre 60 persone in più rispetto alla loro capienza. Un aumento delle pene e dei reati, con una tendenza a penalizzare sempre più alcuni comportamenti, come quelli legati a piccoli reati come spaccio e droga, o a criminalizzarne altri, come le varie forme di espressione del dissenso che sarebbero colpite dal ddl sicurezza, va soltanto ad aumentare la possibilità di ulteriore sovraffollamento. A maggior ragione se il modo ipotizzato per affrontare questo problema è l’ampliamento degli istituti carcerari. Secondo Alessio Scandurra, che ordina l’Osservatorio di Antigone sulle carceri per gli adulti, questo è un problema, e un costo, anche culturale: “Sottolineare come emergenze fenomeni sociali che emergenze forse non lo sono, che gravi forse non lo sono, come prima cosa mi fa dire che ci fa orientare gli apparati delle forze dell’ordine, la sicurezza e a cascata la macchina giudiziaria su cose che magari fanno tanto rumore sui giornali, ma che non sono le emergenze di questo paese. Questo mi sembra un costo sociale e in termini di sicurezza”. Questi allarmi riguardano spesso la microcriminalità (spaccio, furti, ...), che ha una grande influenza sulla percezione di sicurezza delle persone. Gli omicidi, per esempio, sono in netto calo: il ministero dell’Interno un anno fa circa sottolineava che tra il 2007 e il 2022 i casi sono più che dimezzati, passando da 632 a 314. “Una stretta sulla piccola criminalità vuol dire tanti numeri di detenzione. Mentre iniziative su altri tipi di reati hanno un impatto numericamente più basso, i piccoli spacciatori sono tanti e sono ovviamente visibili - dice ancora Scandurra -. È una piccola criminalità diffusa, più o meno alla luce del sole, rispetto alla quale la repressione è anche facile se si indica come priorità e si stringono le pene su quel tipo di criminalità si fanno con facilità grandi numeri di detenzione”. Questo va a incidere poi sul numero dei detenuti e, di conseguenza, sui costi. O meglio, il costo quotidiano per ogni persona detenuta si riduce con l’aumento dei numeri, ma allo stesso tempo richiede poi più personale, più medici, più farmaci. I dati del ministero della Giustizia restituiscono un trend di crescita costante del bilancio dell’amministrazione penitenziaria negli ultimi anni. A incidere sui costi e la vita delle carceri è inoltre la tipologia di persone detenute che arrivano con un’attenzione maggiore sui piccoli reati. Ancora Scandurra: “Essendo quello degli spacciatori l’ultimo anello della distribuzione della droga, è anche il livello frequentato da criminali più piccoli e spesso dalle persone più fragili, prive di altre prospettive. Se ne porti di più in carcere fai anche crescere un tipo di utenza particolarmente fragile, con una domanda di salute mentale particolarmente forte, che chiederebbe risorse e investimenti sanitari”. Il risultato è un carcere “che funziona sempre meno, che produce più recidiva, che ovviamente è un enorme costo per la collettività: per me che posso essere vittima di nuovo reato, per il sistema giudiziario”. Senza contare che una persona con fragilità psicologiche che vive nelle condizioni che ora offrono le carceri, non uscirà probabilmente con meno fragilità. Al contrario queste potrebbero esserne acuite. Infine, non irrilevante è la dimensione edilizia, indicata come una via per risolvere i problemi di sovraffollamento. Così “scatta la retorica delle nuove carceri, che poi storicamente non vengono costruite. Ma è un tema da tenere d’occhio - secondo Scandurra - C’è sempre il rischio di avere più detenuti di quelli che avrebbe senso avere e per questo ti impicchi a un sistema penitenziario sempre più grande, che però poi devi mantenere. Nuove carceri le devi poi riempire di personale sanitario, di polizia, educativo. Già non siamo in grado di mantenere le strutture che abbiamo già, in termini di manutenzione e mantenimento del personale. Il bilancio dell’amministrazione penitenziaria è un bilancio colossale, rispetto a quello del sistema delle alternative alla detenzione che è veramente risibile”. Se nell’immediato l’introduzione di nuovi reati viene considerata a “costo zero”, ci sono poi effettivamente dei costi successivi che gravano sul sistema e che non fanno altro che peggiorare una situazione già critica. Sorpresa: l’abolizione dell’abuso d’ufficio ora salva i magistrati di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 10 ottobre 2024 Pioggia di archiviazioni al Csm per le toghe incappate in denunce per il reato cancellato dal ddl Nordio. Mentre nei Tribunali si infiamma il dibattito. Sicuramente sarà stata una coincidenza. Può succedere. In caso contrario, quanto accaduto al Consiglio superiore della magistratura ha tutti i contorni di una vera beffa. Con il voto all’unanimità del plenum, il Csm ha infatti provveduto ad una maxi archiviazione per una ventina di toghe che erano incappate, loro malgrado, in un procedimento penale per abuso d’ufficio. A far iscrivere giudici e pm nel registro degli indagati erano stati alcuni cittadini i quali avevano ritenuto che il comportamento tenuto da costoro, con cui verosimilmente erano entrati in contatto per ragioni giurisdizionali, configurasse gli estremi dell’allora reato di abuso d’ufficio. Il Csm era stato notiziato dell’avvio delle indagini penali in quanto organo di autogoverno delle toghe. Tralasciando gli eventuali risvolti disciplinari, la pendenza di un procedimento penale impatta sulla vita professionale del magistrato che, ad esempio, non può ottenere un incarico fuori ruolo oppure far parte di una commissione ministeriale. La pendenza di un procedimento è poi oggetto di valutazione ai fini della progressione di carriera, venendo comunque esaminata in caso il magistrato faccia domanda per un posto direttivo o semi direttivo. Palazzo Bachelet, con una motivazione “stampone”, ha deciso dunque di azzerare tutto. “Proposte di archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare a seguito dell’intervenuta abrogazione del reato di cui all’art. 323 c.p. ai sensi della L. n. 114/2024 (G.U. n. 187 del 10.08.2024), non emergendo peraltro ulteriori profili di competenza del Consiglio”, è quanto si legge nell’ordine del giorno. La condotta tenuta dal Csm, va detto, è ineccepibile in quanto il reato di abuso d’ufficio è stato abrogato ormai da due mesi e non aveva senso insistere oltre. La decisione dell’organo di autogoverno delle toghe stride, però, con ciò che sta accadendo in decine di uffici giudiziari del Paese dove diversi pm chiedono ai tribunali di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’abolizione del reato di abuso d’ufficio davanti alla Consulta. Per i pm, infatti, la sua abrogazione avrebbe comportato il mancato rispetto dei vincoli derivanti dal diritto internazionale ed in particolare della Convenzione Onu di Merida contro la corruzione del 2003. Il Tribunale di Firenze è stato il primo a spedire gli atti alla Consulta, parlando sostanzialmente di scelta legislativa arbitraria. La Corte costituzionale dovrà ora valutare l’ammissibilità delle questioni di legittimità e, in caso positivo, la loro fondatezza. Obiettivo neppure tanto nascosto è quello di “risuscitare” un reato abrogato dal Parlamento. In attesa della decisione della Consulta, l’effetto di tali pronunce è il dilatarsi dei tempi processuali, con rinvii, riserve e sospensioni dei dibattimenti. L’ultimo caso in ordine di tempo di un pm che ha sollevato la questione di legittimità è avvenuto la scorsa settimana durante l’udienza preliminare al tribunale di Cagliari che vede imputato per abuso d’ufficio l’ex presidente della Regione Sardegna Christian Solinas (Lega). Il giudice ha preso tempo fissando una nuova udienza il prossimo 8 novembre per le repliche della difesa. Tornando invece ai nomi che il Csm ha archiviato spicca quello di Luigi Patronaggio, già procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento, attualmente procuratore generale presso la Corte di Appello di Cagliari, e Simona Faga, già sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento, attualmente sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, denunciato da Giuseppe Arnone. Pratica archiviata dal Csm, a seguito di precedente archiviazione del giudice, per Massimo Palmeti, procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Enna. A denunciarlo era stata la giudice catanese Maria Fascetto Sivillo. Fra i nomi noti quello di Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Catania iscritto a seguito di denuncia di Salvatore Celano, per fatti relativi ad indagini svolte quale procuratore aggiunto presso il Tribunale di Messina. Il cambio di sede ha comportato l’archiviazione di una eventuale pratica per incompatibilità ambientale. “Trovo singolare che si possa abrogare una legge che abroga un reato”, aveva affermato il ministro Carlo Nordio rispondendo a chi gli chiedeva un commento al riguardo. Per Nordio, poi, il ricorso era manifestamente inammissibile: “Non si può dichiarare anticostituzionale una legge che elimina il reato a meno che si attenda che ci sia un vuoto normativo”. In attesa allora che la Consulta si esprima, i beneficiati dell’abolizione del reato di abuso d’ufficio paiono essere proprio le toghe e non i famigerati “colletti bianchi”, come da più parti indicato, ad iniziare dall’Associazione nazionale magistrati. “Il pm imparziale? È solo un’illusione, in realtà il suo vero volto è partigiano” di Valentina Stella Il Dubbio, 10 ottobre 2024 Parla l’avvocato Oliviero Mazza, ordinario di Diritto processuale penale all’Università degli studi Milano-Bicocca. La condanna in primo grado a otto mesi per i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro per rifiuto di atti d’ufficio, non avendo depositato atti favorevoli alle difese nel processo Eni/ Shell-Nigeria, ci porta ad interrogarci sulla cultura del pubblico ministero. Ne parliamo con l’avvocato Oliviero Mazza, ordinario di Diritto processuale penale all’Università degli studi Milano-Bicocca. Cosa pensa della condanna dei due pm milanesi? Difficile rispondere sulla base del solo dispositivo di condanna, senza conoscere la motivazione e soprattutto gli atti del processo. Ma accetto la sua provocazione intellettuale. Diciamo che se i fatti materiali, anche a prescindere dall’elemento psicologico e dalla colpevolezza, venissero accertati in via definitiva, questa sarebbe la più plateale smentita della tanto decantata cultura della giurisdizione del pm. Stiamo parlando, infatti, di esponenti di spicco della seconda procura d’Italia impegnati nel processo a carico dei dirigenti dell’Eni, la più grande azienda pubblica. Come sostiene Nello Rossi, storico esponente di Magistratura democratica, il ruolo del pm è caratterizzato da una vera e propria “cultura della discrezionalità” non solo dell’azione penale, ma anche della investigazione. Malgrado la retorica imperante lo descriva come organo di giustizia assimilabile al giudice, parte imparziale interessata solo alla ricerca della verità, il pm mostra, nel corso delle indagini preliminari, il suo vero volto di investigatore partigiano, impegnato in scelte discrezionali che riguardano anche la selezione dei materiali raccolti mediante la sapiente gestione dei fascicoli, in base a regole che rasentano gli arcana imperii. Questo è un dato di esperienza ormai assodato. Se arrivasse a sentenza definitiva, si tratterebbe però di un caso isolato. Lei ricorda altri magistrati condannati per aver nascosto prove utili alla difesa? Condannati no, o quantomeno non lo ricordo, ma sono innumerevoli i casi delle prove nascoste per effetto della suddivisione delle maxi indagini in mille rivoli processuali, senza possibilità per la difesa di avere ben chiaro il quadro d’insieme. Se l’omesso deposito di atti di indagine integra una incontestabile patologia, il gioco della composizione e scomposizione dei procedimenti rientra, invece, in una discrezionalità ritenuta “fisiologica” che si pone, però, agli antipodi del fair play processuale di cui si vorrebbe accreditare la figura del pm. La selezione e il conseguente occultamento alla difesa delle informazioni ottenute nel corso delle indagini passano proprio attraverso la frammentazione dei procedimenti e il mancato deposito degli atti nei relativi fascicoli. Di fronte a questi fenomeni la difesa è disarmata perché non ha la possibilità di conoscerli. Forse sarebbe il caso di rivedere alcune previsioni del codice che vengono invocate a copertura di tali scelte discrezionali e incontrollabili, come gli articoli 130 e 130- bis norme att. cpp. L’articolo 358 c. p. p. prevede che il pm cerchi anche prove a discarico dell’indagato. Dalla sua esperienza questo avviene? Direi proprio di no, il pm può al limite raccogliere le prove a discarico in cui si imbatte casualmente nel corso delle indagini. Non potrà mai verificare al tempo stesso l’ipotesi di colpevolezza e quella di innocenza, sarebbe una pericolosa schizofrenia investigativa. È coerente con il processo accusatorio che il pm svolga un ruolo schiettamente di parte, è una parte partigiana che incontra il solo limite di non nascondere prove utili alla difesa che gli capitino sul tavolo, ma che certo non può essere onerato di una supplenza difensiva. Potrebbe citarci dei casi in cui il pm - si passi il termine - si “innamora” della sua tesi, è vittima di una visione a tunnel, che non gli permette di guardare altrove cercando a tutti costi di far condannare un innocente? Credo che sia la prassi quotidiana, ma ripeto è fisiologico e coerente con un sistema accusatorio che non può più reggersi sulla figura dell’accusatore- giudice tipica del codice Rocco. La separazione delle funzioni deve essere netta, la dialettica processuale impone ruoli distinti e contrapposti fra le parti, in condizioni di parità dinanzi al giudice terzo che dovrebbe essere separato anche sul piano ordinamentale dal pm. Nonostante Falcone venga citato molto spesso, c’è una sua frase però che non si sente citata spesso: “Attenzione”, diceva rivolto ai magistrati, “a non confondere i processi con le crociate”. Aveva ragione? La laicità dell’accusa è un valore democratico. Il pm non deve mai agire per interesse personale, ma con il necessario distacco e disinteresse per il risultato del processo. In quest’ottica si colloca anche la restrizione del potere d’appello. Proprio nell’impugnazione di merito si sono infatti registrate le peggiori personalizzazioni, favorite anche dalla possibilità che il pm di primo grado si faccia applicare al giudizio d’appello. Non c’è però il rischio di scambiare l’apparenza con la sostanza? Se non erro mancano statistiche sulle richieste di archiviazione e relativo accoglimento. La discrezionalità dell’azione, e quindi anche dell’inazione, è un dato di fatto, sebbene rappresenti ancora un numero oscuro che andrebbe studiato. Il potere d’accusa è immenso, ma manca del tutto di responsabilità. In una democrazia non può esistere un potere senza responsabilità, altrimenti si rischia l’arbitrio. Non dobbiamo nemmeno dimenticare che dopo la riforma Cartabia ogni procura deve definire su base locale i criteri di priorità nell’azione penale, tenendo conto dei criteri generali stabiliti dal Parlamento con una apposita legge che non è stata ancora approvata. Questo rapporto fra Parlamento e procure dovrà prima o poi trovare compimento e allora si porrà con forza il tema della natura politica dell’attuazione a livello locale di scelte politiche nazionali. L’azione discrezionale, improntata a criteri di priorità, implica scelte politiche che un procuratore della Repubblica non potrebbe compiere senza assumersi responsabilità, appunto, politiche quantomeno nei confronti del Parlamento che gli ha dettato le direttive di ordine generale. Gogna per i politici, silenzio sui pm condannati. Parla Gaetano Pecorella di Ermes Antonucci Il Foglio, 10 ottobre 2024 La condanna dei magistrati milanesi De Pasquale e Spadaro è passata in sordina. “Non mi si dica che Toti fosse più pericoloso rispetto a un procuratore che resta al suo posto e nasconde le prove agli imputati”, dice il giurista ed ex parlamentare. “Siamo di fronte a un caso di estrema importanza, perché mostra come magistrati di alto livello possano essere condannati per aver nascosto prove a favore della difesa, una condotta che ritengo più grave della corruzione perché riguarda il buon funzionamento della stessa giustizia. Insomma, si tratta di un caso emblematico che dovrebbe avere uno spazio nel dibattito pubblico che invece non sta assolutamente avendo”. Gaetano Pecorella, avvocato, giurista ed ex parlamentare, esprime al Foglio la sua perplessità sul silenzio (o quasi) che ha avvolto la notizia della condanna dei pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, per aver occultato prove a favore degli imputati, poi comunque assolti, del processo Eni-Nigeria. La notizia della condanna di De Pasquale e Spadaro è stata data dagli organi di informazione quasi con seccatura. Nessuna indignazione, nessuna riflessione su ciò che è avvenuto attorno a uno dei processi più importanti degli ultimi anni ai danni di uno dei principali gruppi industriali italiani, nessun interrogativo sul ruolo rivestito dai due magistrati (che restano in servizio). Insomma, i toni sono ben lontani da quelli che giornali e televisioni sono abituati a mostrare quando a essere condannati, ma anche solo indagati, sono politici. Si pensi al caso giudiziario che ha riguardato il governatore della Liguria, Giovanni Toti, raccontato sui giornali per mesi, tutti i giorni e in ogni suo dettaglio, con continue fughe di notizie coperte da segreto. “E’ assolutamente più grave che un magistrato violi le regole del processo rispetto alla possibilità che un politico faccia trattamenti di favore a un imprenditore, eppure la notizia della condanna dei due pm è stata data quasi di sfuggita”, riflette Pecorella. “Evidentemente un’indagine a carico di un politico serve a stigmatizzare l’intera classe politica, a dire che ‘i politici sono tutti corrotti’, mentre lo stesso non si può fare nel caso dei magistrati. Anche se la stessa cosa, l’occultamento delle prove, potrebbe essere accaduta in procedimenti con meno rilevanza nazionale”. La differenza di trattamento per Pecorella “dipende dalla volontà dei magistrati che portano avanti i processi”: “Nel caso del politico, i magistrati hanno interesse che la politica venga degradata e quindi forniscono notizie all’esterno affinché si crei attenzione nell’opinione pubblica e i cittadini dicano che i politici sono corrotti. Se invece si tratta di un magistrato, le toghe non hanno interesse a fare la stessa cosa e a far sapere che esistono magistrati pericolosi per la giustizia”. Ne consegue che, nel caso dei politici indagati, l’indignazione è altissima: “Si pretende che un politico indagato si autosospenda o si dimetta, quando può fare ben poco di male, mentre un magistrato da solo può fare un danno ai cittadini assai più rilevante”, sottolinea Pecorella. “Non mi si dica che Toti, restando al suo posto di governatore, fosse più pericoloso rispetto a un procuratore che resta al suo posto e nasconde le prove agli imputati”. “Nel nostro paese vige il principio di presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva - ricorda Pecorella - di conseguenza non è in coerenza con la Costituzione che, ancor prima di un giudizio di condanna, si chiedano delle misure cautelari che vanno a colpire il ruolo stesso ricoperto dal politico, anche perché in questo modo è la procura a decidere chi può governare una Regione, chi può stare in Parlamento o chi può fare il ministro in un governo”. “Ovviamente anche De Pasquale e Spadaro per me sono innocenti fino alla sentenza di condanna definitiva. Per questo penso sia ingiusto chiedere che vengano sospesi dalla loro funzione o che si dimettano”, afferma l’ex parlamentare di Forza Italia. “Insomma, i fatti gravi sono due: da un lato, la violazione della presunzione di innocenza, dall’altro che questa venga rispettata soltanto nei confronti dei magistrati e non anche per gli altri soggetti che hanno cariche pubbliche”, conclude Pecorella. Un pm accusa: “Iscrivere indagati è discrezionale. Se c’è abuso, la legge lo permette” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 ottobre 2024 Si può essere indagati per concorso esterno in associazione mafiosa, senza che sussista una valida notizia di reato (tanto da poi chiederne inevitabilmente l’archiviazione) e soprattutto senza che esistano altri soggetti di tale associazione? Sì, è possibile. Nonostante potrebbe rivelarsi potenzialmente un abuso, un pm ha una enorme discrezionalità. Può farlo. Poco importa che, ad esempio, tale ipotesi di reato possa permettere l’utilizzo dei trojan che, proprio per la loro potente invasività, è permesso esclusivamente per reati gravissimi come quelli di mafia. Di fatto, un pm può ipotizzare qualsiasi reato, anche gravissimo, semplicemente a carattere esplorativo. Non solo. Una interessante critica a questa discrezionalità proviene proprio da un pubblico ministero di Catania. Nella richiesta di archiviazione nei confronti di alcuni magistrati di Caltanissetta e della direzione nazionale antimafia, scrive: “Allo stato, l’iscrizione di una notizia di reato a carico di una persona sul cui operato il magistrato non nutra alcun sospetto, effettuata col solo intento (in ipotesi) di danneggiare un nemico politico o un odiato vicino di casa, sarà condannata all’irrilevanza penale: perché il potere di iscrivere un nome nel registro degli indagati è (ampiamente) discrezionale, così che in una condotta come quella esemplificata nessuna violazione di norma vincolante potrà essere riscontrata”. Da precisare che, nel caso specifico, i pm nisseni non risultano assolutamente legati in qualche modo da speciali rapporti di inimicizia o avversione che possano aver determinato tali decisioni. Parliamo del caso dell’avvocato Ugo Colonna, legale dell’ex pentito Maurizio Avola, che era stato indagato (poi archiviato) per concorso esterno in associazione mafiosa. L’ipotesi di indagine era partita dal presupposto che, in concorso con Avola (con la complicità dei giornalisti Michele Santoro e Guido Ruotolo) e dietro una regia composta da “entità”, l’avvocato avesse contribuito a deviare le indagini sulla strage di Via D’Amelio. Ipotesi che non ha trovato alcun riscontro oggettivo, tanto che hanno richiesto archiviazione e riaperto le indagini per calunnia aggravata. Per competenza se ne sta occupando la procura di Roma da oramai ben due anni. Ricordiamo che Avola ha rilevato di aver partecipato attivamente alla strage di Via D’Amelio assieme al gruppo dei catanesi, in particolare con Aldo Ercolano e Eugenio Galea, i quali negano la cosa e i pm nisseni gli credono. L’avvocato Colonna ha denunciato i magistrati nisseni e la procura di Catania li ha indagati per l’ipotesi di abuso d’ufficio e rivelazione di segreto d’ufficio a dei giornalisti. Il pubblico ministero, dopo aver indagato e sentito tutti i soggetti coinvolti, ha chiesto l’archiviazione perché “le ipotesi di reato astrattamente configurabili nei fatti come accertati non appaiono indiscutibilmente fondate in diritto, né - tanto meno - provate in fatto. Una di esse - l’abuso d’ufficio - è stata nelle more del procedimento abrogata dalla legge 114/ 2024, di tal che i fatti in essa astrattamente sussumibili non sono più previsti dalla legge come reato”. E sottolinea che “appare in ogni caso difettare, allo stato, qualunque prospettiva investigativa utile al fine di reperire elementi di sicuro riscontro alle ipotesi formulate e a sostenere l’accusa in giudizio, circostanza che fa propendere per un quadro probatorio insostenibile in dibattimento, in quanto l’analisi dei risultati investigativi lascia prevedere che gli elementi a carico degli indagati sarebbero - in caso di rinvio a giudizio - manchevoli e comunque certamente insufficienti ai fini di una pronuncia di condanna”. Quindi non è stato intravisto alcun abuso. Però nel contempo, il pm catanese Francesco Puleio, per quanto riguarda il tema di iscrizione nel registro delle notizie di reato, mette in risalto comunque la problematica del potere ampiamente discrezionale conferito ai magistrati. In sostanza ammette che tale potere può creare situazioni discutibili, ma che non possono essere eventualmente punite visto che la legge lo permette. Il pm, nella richiesta di archiviazione, sottolinea che i magistrati godono di un’ampia discrezionalità tecnica nell’esercizio delle loro funzioni, specialmente quando si tratta di decisioni che coinvolgono i diritti fondamentali delle persone. In particolare, riguardo all’iscrizione nel registro delle notizie di reato (Mod. 21), il potere conferito ai magistrati è estremamente discrezionale. Questo significa che anche un eventuale abuso di tale potere difficilmente potrebbe configurarsi come penalmente rilevante. Infatti, le norme che regolano questa materia raramente sono così rigide da non lasciare alcun margine di discrezionalità al magistrato. Nel caso specifico dell’iscrizione di un nominativo nel registro degli indagati, la recente evoluzione normativa ha notevolmente ridotto le possibilità di applicare l’art. 323 c. p. (abuso d’ufficio) a eventuali abusi commessi dai magistrati. Il pm evidenzia che, sebbene esistano forme di abuso teoricamente possibili (come l’esercizio dell’azione penale per motivi personali o politici), la scelta su come condurre le indagini e se esercitare l’azione penale è caratterizzata da un margine di discrezionalità talmente ampio da risultare praticamente insindacabile. Inoltre, viene sottolineato che mentre l’ordinamento prevede un rimedio per la mancata iscrizione di un soggetto nel registro (attraverso l’intervento del Gip), non esiste una previsione analoga per l’iscrizione indebita. Quest’ultima, essendo un atto a valenza interna, può essere eventualmente annullata solo dal successivo sviluppo del procedimento, come un’archiviazione o un’assoluzione. In conclusione, il pm sostiene che, allo stato attuale, anche un’iscrizione effettuata con l’unico intento di danneggiare qualcuno, senza reali sospetti, rimarrebbe penalmente irrilevante, proprio a causa dell’ampia discrezionalità concessa al magistrato in questa materia. Nel caso specifico, ribadiamo, non risulta che i togati nisseni indagati dalla procura di Catania siano legati in qualche modo da speciali rapporti di inimicizia o avversione che possano aver determinato tali decisioni; né vi sono elementi da cui emerga un accordo dei predetti pubblici ufficiali per il perseguimento deliberato di un ingiusto danno a Colonna e al suo assistito. Però, rimane il fatto, come evidenzia il pm catanese Puleio, che dalla nota della Dia (usata per ipotizzare il concorso esterno in associazione mafiosa), non emerge nulla di penalmente rilevante. Esiste, quindi, un problema che non riguarda solo il caso Colonna, ma è generale. L’avvocato ha la scorza dura, ha saputo difendersi e non è la prima volta che ha subito situazioni simili. Da ricordare quando fu incarcerato ingiustamente (scarcerato subito dopo) per aver mosso critiche tramite un articolo di giornale nei confronti dell’allora procura di Messina. Fu grazie a lui che si è potuto avviare un processo contro togati messinesi collusi, forze di polizia e presunti pentiti. Un verminaio che uscì allo scoperto grazie anche alle sue denunce. All’epoca, però, esisteva una classe politica diversa. L’allora deputato e vicepresidente della commissione Antimafia Niki Vendola, di Rifondazione Comunista, Angela Napoli, dell’allora Alleanza Nazionale, e Ottaviano Del Turco del Partito democratico, trasversalmente difesero Colonna, così come tanti magistrati. Oggi è diverso, silenzio totale da parte di esponenti politici (tranne il M5S che accusa Avola di depistaggio sposando le tesi in voga da anni), ma nonostante tutto l’avvocato riesce ancora a lottare e non farsi sopraffare dalle pesanti accuse subite. Ma le altre persone, che magari non hanno le spalle larghe? Essere accusati di reati gravi solo per una questione meramente esplorativa, anche se poi archiviati, rimane una macchia indelebile. Oltre all’invasività delle intercettazioni che possono, appunto, essere utilizzate esclusivamente per reati gravissimi. L’abuso, se c’è, è di fatto legittimato dalla legge. “Dl Omnibus” in Gazzetta, carcere per chi non denuncia la pirateria online di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2024 La legge 7 ottobre 2024 n. 143 di conversione, con modificazioni, del Dl 113/2024 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 236 dell’8 ottobre 2024 ed è in vigore da oggi. Entra in vigore oggi la conversione del cosiddetto “decreto omnibus”. La legge 7 ottobre 2024, n. 143 di conversione, con modificazioni, del Dl 113/2024 che contiene “misure urgenti di carattere fiscale, proroghe di termini normativi ed interventi di carattere economico” è stata infatti pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 236 dell’8 ottobre 2024. Sullo stesso numero del bollettino ufficiale è stato pubblicato anche il testo coordinato con le modifiche del Dl 113/2024. Tra le novità più di interesse per i legali vi sono gli articoli 2-ter; 2-quater; 6-bis e 6-ter, tutti introdotti al Senato. L’articolo 2-ter riduce della metà le soglie per l’applicazione delle sanzioni accessorie quando è irrogata una sanzione amministrativa per violazioni riferibili ai periodi d’imposta e ai tributi oggetto della proposta di concordato preventivo biennale non accolta dal contribuente ovvero, in relazione a violazioni riferibili ai periodi d’imposta e ai tributi oggetto della proposta, nei confronti di un contribuente decaduto dall’accordo di concordato preventivo biennale per inosservanza degli obblighi previsti dalle norme che lo disciplinano (comma 1). Tali disposizioni si applicano anche nei confronti dei contribuenti che, per i periodi d’imposta dal 2018 al 2022, non si sono avvalsi del regime di ravvedimento di cui all’articolo 2-quater ovvero che ne decadono (comma 2). L’articolo 2-quater consente ai soggetti che hanno applicato gli indici sintetici di affidabilità fiscale e che aderiscono, entro il 31 ottobre 2024, al concordato preventivo biennale di adottare il regime di ravvedimento di cui al presente articolo versando un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi e delle relative addizionali nonché dell’imposta regionale sulle attività produttive (comma 1). L’articolo indica il metodo di determinazione della base imponibile nonché delle aliquote delle imposte sostitutive (commi da 2 a 6); specifica che l’imposta non può comunque essere inferiore a 1.000 euro (comma 7); specifica le modalità di versamento e alcune fattispecie specifiche di decadenza dal beneficio (commi da 8 a 12); indica il periodo di imposta di riferimento (comma 13); stabilisce delle proroghe per i termini di decadenza dell’accertamento (comma 14); rinvia a un provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate la determinazione dei termini e delle modalità di comunicazione delle opzioni di cui al presente articolo (comma 15); reca la quantificazione degli oneri derivanti dal presente articolo e indica le fonti di copertura finanziaria (comma 16). L’articolo 6-bis contiene alcune modifiche alla legge n. 93 del 2023 che aveva previsto una serie di misure per prevenire e reprimere la diffusione illecita di contenuti tutelati dal diritto d’autore mediante le reti di comunicazione elettronica. L’articolo 6-ter, modificando la legge n. 633 del 1941, prevede, “per un più efficace contrasto della pirateria online”, specifici obblighi di segnalazione e di comunicazione - la cui violazione è sanzionata con la pena della reclusione fino a un anno - per i prestatori di servizi di accesso alla rete, i soggetti gestori di motori di ricerca e i fornitori di servizi della società dell’informazione, inclusi i fornitori e gli intermediari di vpn o comunque di soluzioni tecniche che ostacolano l’identificazione dell’indirizzo Ip di origine, gli operatori di content delivery network, i fornitori di servizi di sicurezza internet e di Dns distribuiti, che si pongono tra i visitatori di un sito, e gli hosting provider che agiscono come reverse proxy server per siti web. In particolare, l’obbligo per operatori e fornitori di segnalare immediatamente, all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria, fornendo tutte le informazioni disponibili, condotte penalmente rilevanti ai sensi della legge per la protezione del diritto d’autore, dell’articolo 615-ter c.p. (Accesso abusivo a un sistema informatico o telematico) o dell’articolo 640-ter c.p. (Frode informatica) ha creato forte disappunto. Per Asstel-Assotelecomunicazioni infatti “l’approccio di ‘sistema’ e collaborativo attuato fino ad oggi, che ha consentito di dotare l’Italia di un importante strumento di legalità nell’ambiente online, non deve essere ostacolato dall’attribuzione agli Operatori di responsabilità di natura penale che non sono coerenti con la natura di fornitori di servizi di accesso alla rete e con i principi generali dell’ordinamento delle comunicazioni stabiliti a livello Comunitario”. Molto critica anche l’Aipp. Per il presidente Giovanni: “Con queste modifiche viene sottratta ad Agcom la possibilità di fissare un limite tecnico al numero di oscuramenti contemporanei, un compromesso che avevamo concordato all’interno dei tavoli tecnici, e finalizzato ad assicurare che tutti gli operatori, indipendentemente dal dimensionamento e dal tipo di rete, potessero effettivamente contribuire all’attività di filtraggio”. E con riguardo alla nuova ipotesi di reato in capo a tutti i prestatori di servizi, inclusi i fornitori di accesso alla rete, che non segnalano tempestivamente alla Autorità giudiziaria o alla Polizia condotte illecite da parte dei propri utenti: “La conseguenza indiretta di questo provvedimento sarà quella di gravare gli operatori di accesso ad Internet della sorveglianza attiva del traffico, rischiando di violare sia le normative nazionali, sia quelle europee, e mettendo a rischio il principio di ‘mere conduit’ su cui si fonda la nostra attività”. Corte Europea dei diritti dell’Uomo. In cella senza cure, Italia condannata per trattamenti inumani di Angela Stella L’Unità, 10 ottobre 2024 Il caso di un detenuto affetto da patologie ortopediche e neurologiche. In carcere, senza cure adeguate, non camminava più. Ora si appoggia a una stampella. La Cedu: “Trattamenti inumani”. L’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione (Proibizione della tortura - Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti). È quanto si legge in una sentenza del 3 ottobre che riguarda il diritto alla salute in carcere. Il ricorso riguardava, infatti, la presunta incompatibilità dello stato di salute del ricorrente con la detenzione e la mancata prestazione di cure mediche adeguate in carcere. L’uomo aveva ricevuto varie condanne penali per reati gravi ed era stato condannato a una pena cumulativa di 30 anni di reclusione. Il ricorrente soffriva di malattie ortopediche e neurologiche, costituite principalmente da ernia del disco spinale ricorrente, artrite spinale e dolore lombare acuto, che comportavano una mobilità compromessa. Era stato sottoposto a tre interventi chirurgici e, dopo l’ultimo nel 2006, gli era stata prescritta fisioterapia. Dal 1987, alcuni periodi di detenzione si erano alternati a periodi durante i quali era stato rilasciato per motivi di salute. Era stato detenuto nelle carceri di Ferrara, Torino, Bologna. I medici che avevano svolto su di lui gli accertamenti clinici avevano certificato una “cronicizzazione dei disturbi motori”. Una situazione clinica tale da richiedere delle cure continue e cicli di fisioterapia costanti. Cure che, però, non sarebbero state somministrate in maniera adeguata all’interno degli istituti di pena dove era recluso. Per questo erano state presentate nel corso degli anni diverse istanze dal suo legale, l’avvocato Carlo Gervasi del foro di Lecce, per ottenere un trattamento consono alle esigenze di salute: in particolare, una detenzione domiciliare, così da poter dare avvio al ricovero in una struttura specializzata. Ma venivano accordati solo brevi periodi di sospensione dell’esecuzione della pena. “È pacifico - scrive la Cedu - che il ricorrente soffriva di patologie ortopediche e neurologiche. Inoltre, precedenti referti medici e decisioni giudiziarie avevano indicato la necessità di una fisioterapia regolare, se non costante, al punto che era stato ritenuto necessario un periodo di detenzione domiciliare. I referti emessi prima del ritorno del ricorrente in carcere nel novembre 2011 indicavano specificamente che aveva bisogno di fisioterapia di mantenimento due volte a settimana. (…) Nonostante queste indicazioni unanimi durante i due anni in cui è rimasto in carcere, sembra che il ricorrente abbia avuto accesso solo a dieci sedute di fisioterapia”. Non abbastanza per non peggiorare il suo stato di salute. Si legge quindi in conclusione che la Corte ha ritenuto che in uno specifico periodo di detenzione “il ricorrente non ha ricevuto cure adeguate durante la sua detenzione. Vi è stata pertanto una violazione dell’articolo 3 della Convenzione”. Lo Stato italiano dovrà risarcire l’ex detenuto con 8 mila euro. Come ci ha spiegato l’avvocato Gervasi “non è tanto importante il risultato singolo, quanto le strade che apre, essendo questa sentenza la prima in tal senso. L’elemento importante di questa decisione della Cedu è che viene rilevata l’inadeguatezza dell’assistenza per il detenuto in carcere. Non basta tenere sotto controllo la malattia, altrimenti il detenuto peggiora. In questa specifica circostanza, il mio assistito era entrato in piedi in carcere e ne è uscito in sedia a rotelle. Da due anni è libero e ha ripreso a curarsi e ora cammina con una stampella”. Conclude l’avvocato: “la giustizia italiana è lenta, ma anche quella della Cedu non è da meno. Io avevo presentato il ricorso nel 2013 e solamente adesso è arrivata la decisione”. Intanto è da registrare ancora un suicidio in carcere. Un detenuto si è tolto la vita due sere fa nella casa di reclusione di Vigevano (Pavia), impiccandosi nella sua cella. A darne notizia è stato Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria. La vittima è un magrebino di circa 40 anni, con un residuo di pena vicino a un anno. “Si è trattato del 74esimo detenuto suicida dall’inizio dell’anno - ha sottolineato De Fazio -, cui bisogna aggiungere 7 appartenenti alla polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Una strage senza fine e senza precedenti, rispetto alla quale la politica non pone alcun argine concreto”. Nonostante questa situazione, non si è ancora insediato il nuovo Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Riccardo Turrini Vita. L’iter non sarà brevissimo: occorre attendere il parere non vincolante delle Commissioni parlamentari competenti, poi il decreto del Presidente della Repubblica. Corte di Cassazione. Messa in prova, la riparazione non può essere solo simbolica di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2024 Il risarcimento deve rappresentare il massimo sforzo economico. Per ottenere la sospensione del processo con messa alla prova è necessaria la riparazione del danno: un risarcimento che non può essere simbolico ma deve essere l’espressione del “massimo sforzo” economico da parte dell’imputato. La Corte di cassazione, con la sentenza 37187, accoglie il ricorso del Pm, contro il via libera alla probation nei confronti di un condannato per il reato di ingiuria da parte del Tribunale militare. La Suprema corte, nel chiarire che per la messa alla prova si applicano le regole del Codice di rito penale ordinario, e dunque la disciplina dell’istituto è esattamente la stessa, esclude la possibilità di accedere al beneficio con un risarcimento, nello specifico di 150 euro, solo simbolico. I giudici di legittimità sottolineano, infatti, che ai fini della messa alla prova la prescrizione relativa alla determinazione del danno (articolo i68, comma 2 del Codice penale è particolarmente rilevante e si basa soprattutto sulla gravità del fatto. Nel caso esaminato, sottolinea la Cassazione, il danno è stato quantificato, illegittimamente, in termini simbolici. Il giudice non ha motivato, come era obbligato a fare le ragioni della sua scelta né indicato i criteri utilizzati, sia rispetto alla reale entità del pregiudizio arrecato alla persona offesa, sia rispetto alle possibilità materiali dell’imputato “al fine di riscontrare se la somma di cui ha imposto la corresponsione sia espressione del “massimo sforzo” esigibile e si ponga in rapporto di proporzione e di adeguatezza con la materialità del reato e le sue conseguenze”. Il presupposto per ottenere la messe alla prova è duplice “nel senso - si legge nella sentenza - che l’attività riparatoria deve essere tale per cui questa è finalizzata a eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato e, anche, nei limiti del possibile, a risarcire il danno cagionato alla persona offesa che, pertanto costituisce condizione imprescindibile per l’accesso all’istituto”. I giudici di legittimità insistono anche - ai fini della concessione del beneficio - sull’idoneità del programma di trattamento, ai fini del recupero sociale del soggetto interessato, e sulla necessità di formulare una prognosi favorevole per l’imputato in merito al fatto che, per il futuro, si asterrà dal commettere altri reati. Previsione quest’ultima che accomuna la nuova causa di estinzione del reato alla sospensione condizionale della pena. Una valutazione che può essere fatta utilizzando tutti gli strumenti in grado di offrire i dati sui quali il giudice potrà basarsi: dalla polizia giudiziaria, ai servizi sociali. Lombardia. Più risorse per l’accompagnamento dei giovani carcerati di Elisabetta Martini lombardiaquotidiano.com, 10 ottobre 2024 Più risorse per l’accompagnamento dei giovani carcerati, percorsi di formazione per il personale, case popolari per gli agenti di polizia penitenziaria, maggiori risorse alle comunità terapeutiche. Questi i contenuti salienti dell’ordine del giorno sul problema dei giovani detenuti nelle carceri lombarde sottoscritto da tutti i capigruppo e approvato oggi all’unanimità dall’Aula del Consiglio regionale. Il documento è frutto di un lavoro di sintesi tra due testi: quello presentato dalla maggioranza a prima firma Alessia Villa (FdI) e quello delle minoranze, primo firmatario Luca Paladini (Patto Civico). L’opportunità di un pronunciamento sul tema era emersa nella Commissione speciale “Tutela dei diritti delle persone private della libertà personale e condizioni di vita e di lavoro negli istituti penitenziari” presieduta dalla stessa Alessia Villa a seguito dei gravi fatti avvenuti nei mesi scorsi in particolare nel carcere minorile Beccaria di Milano e a seguito dei numerosi suicidi che hanno visto protagonisti giovani detenuti in alcuni istituti di pena lombardi. Il testo approvato impegna la Giunta e gli Assessori competenti a intraprendere ulteriori azioni e misure, nonché a prevedere all’interno del bilancio previsionale di Regione Lombardia maggiori risorse finalizzate a potenziare percorsi di accompagnamento, reinserimento sociale e lavorativo delle persone private della libertà personale, in particolar modo nei confronti di minori e giovani adulti; a valutare l’attivazione, d’intesa con il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, di corsi di formazione rivolte agli agenti di polizia penitenziaria, agli educatori e più in generale a coloro che operano all’interno delle carceri per affrontare e gestire in modo più consapevole ed efficace le dinamiche che si sviluppano all’interno degli istituti penitenziari (ad esempio corsi di lingua araba o slava, corsi per interpretare i comportamenti dei moltissimi minori e dei giovani adulti stranieri che popolano le carceri lombarde, corsi di primo soccorso, corsi per spegnere un incendio in una cella); a riservare immobili di edilizia residenziale pubblica o di housing sociale al personale penitenziario così da consentire di affittare alloggi a prezzi calmierati; a intervenire presso il Governo affinché vengano stanziate risorse destinate ad ampliare la capacità delle comunità terapeutiche di accogliere i detenuti che possono espiare la condanna, o parte di essa, in strutture alternative al carcere. L’Aula ha approvato con 47 voti a favore e 22 contrari anche il documento originario della maggioranza in cui si sollecita il Governo ad avviare la costruzione di nuove carceri in Lombardia e si sollecita la definizione di accordi con i Paesi di provenienza dei detenuti stranieri perché questi possano scontare la pena nei Paesi di origine. Respinto invece il testo originario delle minoranze (44 contrari e 25 favorevoli); molti contenuti di questo documento sono comunque confluiti in quello unitario approvato all’unanimità. “Non solo certezza della pena, servirebbe, per quanto possibile, anche una certezza del reinserimento e recupero del condannato - ha commentato Alessia Villa - ancora di più se parliamo di ragazzi che, una volta scontata la pena, hanno ancora una parte importante della loro vita da trascorrere in mezzo alle nostre comunità. Nel nostro documento abbiamo dedicato particolare attenzione ai “giovani adulti” che per effetto delle nuove norme scontano la pena negli istituti di detenzione minorile fino al compimento del 25esimo anno: come dimostrato dai progetti già sostenuti da Regione Lombardia, questi ultimi hanno ancora la possibilità di essere riorientati anche se alle spalle hanno percorsi di devianza determinati spesso dai contesti di appartenenza. Tutto questo lo si può fare solo e soltanto offrendo attività diversificate, in primis quelle lavorative e formative, senza però dimenticare anche quelle ricreative, culturali e sportive. Dobbiamo dare orizzonti di speranza a chi molto spesso non vede più un futuro” “Oggi - ha dichiarato Luca Paladini (Patto Civico) - abbiamo fatto un lavoro importante trovando un punto di caduta su un testo condiviso anche se non rispecchia del tutto la nostra visione del problema. Siamo lieti tuttavia che il lavoro avviato in Commissione Speciale Carceri abbia prodotto un risultato tangibile che tiene conto dell’esigenza prioritaria di ricostruire percorsi di vita positivi per i giovani detenuti attraverso il lavoro, lo studio, l’attività sportiva e ricreativa. In tale senso a nostro avviso occorre rispondere al tema del sovraffollamento carceriario innanzitutto tramite il ricorso alle pene alternative, all’affidamento in prova, alle comunità di accoglienza esterne agli istituti di pena”. Nel suo intervento Paladini ha ricordato come in Lombardia, alla data del 23 settembre 2024, l’indice di sovraffollamento regionale superava il 153%, con picchi allarmanti superiori al 200% nelle case circondariali di San Vittore (227,89% in ambito maschile e 180,46% in quello femminile) e Canton Mombello (204,95%); situazioni superiori al dato regionale si sono registrate anche nelle carceri di Busto Arsizio, Como, Lodi, Varese, Bergamo, Mantova e delle case di reclusione di Vigevano e Brescia. Nel lungo e articolato dibattito sviluppatosi in Aula sono intervenuti Luca Marrelli (Lombardia Ideale), Paola Bocci (PD), Lisa Noja (Azione Italia Viva), Christian Garavaglia (FDI), Paola Pollini (M5Stelle), Roberta Vallacchi (PD), Diego Invernici (FDI), Miriam Cominelli (PD), Massimo Vizzardi (Azione Italia Viva), Andrea Sala (Lega), Onorio Rosati (AVS), Giulio Gallera (Forza Italia), Carmela Rozza (PD), Giacomo Zamperini (FDI), Samuele Astuti (PD), Maira Cacucci (FDI), Giuseppe Licata (Azione Italia Viva), Davide Casati (PD), Nicolas Gallizzi (Noi Moderati), Michela Palestra (Patto Civico), Martina Sassoli (Lombardia Migliore), Alessandro Corbetta (Lega), Claudia Carzeri (Forza Italia) e Pierfrancesco Majorino (PD): per la Giunta l’Assessore al Welfare Guido Bertolaso e il Sottosegretario Mauro Piazza. A margine dei lavori d’Aula il Difensore regionale e Garante dei detenuti Gianalberico De Vecchi ha ricordato come Regione Lombardia da quest’anno, anche su sua sollecitazione, prevede in via definitiva per i detenuti l’esenzione dal pagamento della tassa regionale per il Diritto allo Studio Universitario: un provvedimento che punta a incentivare i percorsi formativi nel contesto penitenziario e che era stato adottato per la prima volta nello scorso anno accademico. Friuli-Venezia Giulia. La Regione a tutela della salute dei detenuti di Andrea Aletto diariofvg.it, 10 ottobre 2024 La Regione Friuli-Venezia Giulia rinnova il Protocollo di collaborazione tra sanità e amministrazione penitenziaria, con l’obiettivo di migliorare l’assistenza sanitaria e garantire percorsi di accoglienza psicologica per i nuovi detenuti. La Regione Friuli-Venezia Giulia conferma il proprio impegno nella tutela della salute di detenuti, internati fragili e minorenni sottoposti a procedimento penale. Durante la riunione dell’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria, tenutasi ieri 9 ottobre, l’assessore regionale alla Salute, Riccardo Riccardi, ha sottolineato l’importanza di un intervento sinergico per migliorare l’efficacia dei servizi sanitari all’interno degli istituti penitenziari. Questa collaborazione tra il sistema sanitario regionale e l’amministrazione penitenziaria ha permesso di ottenere risultati significativi, ma resta ancora molto da fare. Monitoraggio costante delle condizioni di salute - L’Osservatorio permanente svolge un ruolo cruciale nel monitorare la situazione sanitaria delle carceri del Friuli-Venezia Giulia. Oltre a segnalare eventi di rilievo sanitario e criticità all’interno degli istituti penitenziari, l’Osservatorio valuta l’efficacia degli interventi sanitari attuati, con l’obiettivo di migliorarne la qualità. Il sovraffollamento delle carceri, la carenza strutturale e la presenza di situazioni di disagio tra i detenuti sono sfide comuni in molte regioni italiane, e la nostra regione non fa eccezione. Rinnovo del protocollo di collaborazione - Uno dei temi centrali dell’incontro è stato il rinnovo del Protocollo di collaborazione tra sistema sanitario e penitenziario, che sarà stipulato tra la Regione e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Questo accordo prevede l’erogazione di servizi di assistenza sanitaria specifici per i detenuti, come programmi di presa in carico integrata, continuità nei percorsi di cura, e attività di prevenzione e promozione della salute. Supporto psicologico ai nuovi detenuti - Negli ultimi mesi, le tre Aziende sanitarie regionali hanno avviato percorsi di accoglienza psicologica per i nuovi detenuti, con l’obiettivo di facilitare l’inserimento e ridurre il rischio di disagio psicologico. Questo tipo di supporto è fondamentale per garantire un’adeguata assistenza a chi vive situazioni di particolare fragilità all’interno degli istituti penitenziari. Problemi di sovraffollamento e strutture inadeguate - L’Osservatorio ha evidenziato come il sovraffollamento e le condizioni strutturali di molti istituti siano problematiche di interesse nazionale. Tali questioni rappresentano una sfida anche per la nostra regione, che necessita di una azione coordinata tra sistema sanitario e amministrazione penitenziaria. Solo attraverso questa cooperazione sarà possibile garantire il rispetto delle esigenze di sicurezza e la tutela della salute dei detenuti. Calabria. Rems, una realtà su cui c’è ancora da lavorare di Claudia Benassai Gazzetta del Sud, 10 ottobre 2024 La questione è stata anche più volte sollevata dagli istituti penitenziari calabresi che devono sobbarcarsi la custodia di persone che non sono gestibili. Risultato? Un malato psichiatrico spesso viene semplicemente trasferito. Il più delle volte senza essere curato. Ma è solo una parte della matassa. Per Luca Muglia, garante regionale dei diritti delle persone detenute della Calabria, non è purtroppo neanche la parte peggiore della questione e sulle Rems insiste affermando che nonostante le migliorie bisogna lavorare. Per eliminare i tempi di attesa stimati in 2 anni. Altra questione? Cercare di trovare psichiatri che vogliano lavorare in carcere magari studiando nuovi incentivi, non solo economici, con il dipartimento regionale di Tutela della Salute. Le Rems in Calabria sono solamente due: a Girifalco e a Santa Sofia D’Epiro. Più volte, però, lei ha denunciato la necessità di fare di più. E soprattutto di avere più strutture di questo tipo, per eliminare le attese e per consentire ai detenuti che hanno patologie psichiatriche una soluzione più consona. Si sta muovendo qualcosa? “La situazione è migliorata in quanto le Rems di Santa Sofia d’Epiro e Girifalco sono a pieno regime e ospitano 20 pazienti ciascuna. Alla data del 31 luglio non vi erano in Calabria persone detenute in carcere sine titulo in attesa di un collocamento in Rems, mentre le persone in stato di libertà in attesa erano 27. Il dato meno buono riguarda, invece, il fatto che il tempo medio di permanenza in lista di attesa supera 2 anni. Trattandosi di persone ritenute socialmente pericolose, è facile intuire quali possano essere i rischi a carico degli interessati, delle famiglie e della collettività. L’auspicio è nella Rems di Girifalco, struttura di eccellenza, possa essere attivato il secondo modulo che consentirebbe di ospitare altri 20 pazienti. Quanto a Santa Sofia d’Epiro, parliamo di una Rems datata nel tempo che necessita di urgenti adeguamenti tecnico-strutturali più volte richiesti e non ancora realizzati. Sarà importante, infine, attivare quanto prima il “punto unico regionale” (PUR), già istituito dalla Regione Calabria, che ha l’obiettivo di supportare l’autorità giudiziaria al fine di dare esecuzione ai provvedimenti applicativi di misure di sicurezza detentive”. Le è stato segnalato qualche caso che meriterebbe di essere attenzionato? Qual è al momento la situazione in Calabria? “L’internamento in Rems riveste carattere eccezionale, applicabile solo nei casi in cui sono acquisiti elementi dai quali risulti che è la sola misura idonea ad assicurare cure adeguate ed a far fronte alla pericolosità sociale dell’infermo o seminfermo di mente. Detto questo, le difficoltà che ho riscontrato sono due. Da una parte, le problematiche psichiche gravi, accompagnate dal rifiuto del paziente di assumere la terapia, hanno comportato in alcuni casi il ricorso al trattamento sanitario obbligatorio (TSO), procedura a dir poco invasiva. Ciò è accaduto, peraltro, sia per pazienti in Rems che per persone detenute negli istituti penitenziari. Dall’altra, il programma individualizzato prescritto dalla legge, finalizzato ad incoraggiare le attitudini e valorizzare le competenze che possano essere di sostegno al reinserimento sociale, nel caso di persone inferme di mente risulta assai complesso e difficile. Da qui l’importanza dei progetti post Rems che intervengono in tale direzione, contribuendo anche a non vanificare il lavoro riabilitativo svolto”. Lo scorso agosto, all’interno della casa circondariale di Poggioreale, in Campania, si è verificato un episodio terribile di cannibalismo. Un detenuto affetto da un disturbo psichico, diagnosticatogli all’ospedale di Torre del Greco, ha aggredito un altro detenuto. Prima lanciando del detersivo nei suoi occhi e poi ha letteralmente staccato e mangiato parte di un dito dell’altro detenuto, anche lui, tra l’altro, affetto da problemi psichici. Si sono verificati anche in Calabria casi simili? “Fortunatamente no. Va detto, tuttavia, che gli eventi critici registrati nel primo semestre 2024 documentano come in Calabria siano ormai all’ordine del giorno gli atti di autolesionismo o i tentativi di suicidio posti in essere da detenuti con patologie psichiatriche, così come le aggressioni ai danni di altri detenuti, del personale medico o della polizia penitenziaria causate da un disagio psichico. Parliamo di detenuti con patologie gravi o affetti da disturbi della personalità, dell’umore, traumatici e psicotici, talora con doppia diagnosi, che andrebbero curati in strutture adeguate. Premesso che in Calabria l’unico reparto di Articolazione per la tutela della salute mentale (ATSM) è quello della Casa circondariale di Catanzaro e che lo psichiatra è presente in pochi istituti penitenziari, il carcere finisce di fatto per aggravare lo stato di salute di queste persone. “L’assenza del servizio di psichiatria in carcere produce effetti pesanti. Si corre il rischio di creare sezioni “ghetto” riservate ai detenuti cosiddetti psichiatrici che non possono ricevere alcuna terapia”. In Italia le malattie psichiatriche vengono spesso sottovalutate e, ancor di più, i soggetti psichiatrici che devono scontare una pena. Ha avuto anche lei questa percezione? “Assolutamente sì. La lettura involge due piani diversi, ma estremamente connessi: la difesa sociale e il diritto alla salute. L’obiettivo dovrebbe essere, infatti, quello di conciliare le esigenze di sicurezza con il diritto alla cura ed al reinserimento sociale dei pazienti psichiatrici autori di reato. Occorre rammentare, al riguardo, che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità la salute mentale è un diritto umano fondamentale e che le persone afflitte da tali problematiche all’esito dell’esecuzione della pena ritorneranno a vivere e ad interagire nella società. Garantire in modo adeguato il diritto alla cura mentale ed al reinserimento significa, quindi, tutelare anche le esigenze di difesa sociale della collettività, riducendo sensibilmente il pericolo di recidiva”. Genova. Roberto Molinari ucciso in carcere, l’esposto del Garante dei detenuti Il Secolo XIX, 10 ottobre 2024 “Chi doveva vigilare era al corrente delle minacce”. Indagine della procura. L’indagine è partita dopo l’esposto di Doriano Saracino, garante regionale dei detenuti, che aveva raccolto le segnalazioni di altri carcerati. La procura di Genova ha aperto un fascicolo per omissioni di atti d’ufficio e morte come conseguenza di altro reato per l’omicidio di Roberto Molinari, detenuto nel carcere di Marassi e ucciso dal suo compagno di cella Luca Gervasio nel 2023. L’indagine è partita dopo l’esposto di Doriano Saracino, garante regionale dei detenuti. Nella denuncia, il garante ha spiegato di avere ricevuto la segnalazione da parte di altri carcerati, che non hanno mai condiviso la cella e che dunque non si conoscono, di minacce da parte di Gervasio a Molinari già nei giorni precedenti al delitto. I carcerati avevano provato a segnalare la vicenda a chi vigilava. Nessuno, però, si sarebbe attivato per sistemarli in celle diverse. Secondo quanto era emerso nel corso delle indagini della squadra mobile, Molinari era stato colpito “per non fare la spia”. La vittima, il 10 settembre 2023, tre giorni prima dell’omicidio, era stato aggredito in cella ed era finito in infermeria dove però aveva detto di essersi ferito cadendo dal letto a castello. Il medico non gli aveva creduto e nel referto aveva scritto che le lesioni erano compatibili con una aggressione. Per questo il comandante della polizia penitenziaria aveva fissato per il 13 l’audizione dei due detenuti. La notte della prima aggressione, un agente era entrato nella stanza dei due e aveva chiesto a Gervasio “perché dici a Molinari di non fare la spia? Vuol dire che hai fatto qualcosa”. Il 13 mattina, però, Molinari venne trovato morto, massacrato con almeno otto colpi inferti con la gamba di un tavolino di legno. L’omicidio era stato in parte ripreso dalle telecamere esterne dei corridoi della sezione. Luca Gervasio in passato era stato dichiarato semi infermo di mente per tre volte. Terni. Detenuto al 41-bis in sciopero della fame e della sete da giorni di Marta Rosati umbria24.it, 10 ottobre 2024 L’ergastolano 50enne chiede la tutela dei propri diritti umani, in passato è stato autore di atti di autolesionismo e ha tentato il suicidio. Da una settimana rifiuterebbe cibo e bevande, l’ergastolano 50enne, detenuto al 41-bis del carcere di Terni, condannato per associazione mafiosa, omicidio e altri reati in materia di armi. Nel penitenziario di Sabbione dal 2015, il soggetto in questione proviene da altre strutture carcerarie nelle quali si è reso protagonista di atti di autolesionismo, fino a un vero e proprio tentativo di suicidio. La sua, come hanno avuto modo di apprendere i suoi legali di fiducia, gli avvocati Rita Petricca e Teresa Lucio del Foro di Terni, è “una forma di protesta contro alcune condizioni di reclusione in regime di carcere duro ritenute lesive dei propri diritti umani”. “Acqua fredda, impossibilità di lavorare oltre una mezz’ora al mese, doccia negata al termine del lavoro svolto e assenza di porta per consentire la fruizione riservata del bagno” sarebbero alcune delle ragioni alla base della protesta. Posta la rigidità del regime carcerario del caso, il detenuto in questione (e non è l’unico dei circa 25 presenti nella sezione ternana del 41-bis), attraverso i propri legali, denuncia “inadempimenti da parte della direzione penitenziaria che costituirebbero condotte illecite contrarie ai principi stabiliti dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Contestualmente allo sciopero della fame e della sete in atto da parte dell’ergastolano recluso a Terni, emerge che sovente i detenuti, avanzando anche richiesta del rimedio risarcitorio ai sensi della legge 354/1975, presentino reclami al magistrato di sorveglianza. Tuttavia, si verificherebbero situazioni di inottemperanza da parte dell’istituto penitenziario, nonostante le ordinanze dell’autorità di vigilanza. Numerose in questo senso sarebbero di conseguenza le istanze di ottemperanza. Sottoposti al particolare regime detentivo, perché condannati per gravi reati di criminalità organizzata, i detenuti in questione chiedono, almeno per quanto attiene l’applicazione della porta del bagno, il diritto alla dignità e alla riservatezza. Dai vertici dell’istituto ternano, sollecitati da Umbria24, non una parola. Il penitenziario di Sabbione è stato peraltro recentemente messo sotto la lente dalla politica nazionale per gli annosi problemi di carenza organico e sovraffollamento (che di certo non coinvolge il 41-bis). Giovedì il governo risponderà a un’interrogazione del senatore umbro Walter Verini (Pd), che più volte ha fatto visita alla casa circondariale di Sabbione e sollecitato il ministero della Giustizia verso provvedimenti risolutivi. Le problematiche che si riscontrerebbero alla sezione del carcere duro di Terni non risulta che siano state sin qui oggetto di verifica da parte dei parlamentari intervenuti. Ma lo sciopero della fame e della sete da parte di un soggetto che ha già tentato di togliersi la vita in altro istituto, e in un anno segnato da numerosi suicidi in carcere, è probabilmente un caso destinato a far discutere. Monza. Botte al detenuto, i testimoni: “Urlava e sbatteva la testa al muro” Il Giorno, 10 ottobre 2024 Agenti penitenziari a Monza accusati di lesioni su detenuto collaboratore di giustizia. Versioni contrastanti su presunta aggressione durante trasferimento in cella. Prossima udienza a novembre. “Era seminudo, sbatteva la testa contro le sbarre, diceva che era stato picchiato e che sarebbe venuto con il fratello e ci avrebbe caricato su un furgone per tagliarci la testa uno per uno”. A riferirlo ieri in aula davanti ai giudici del Tribunale di Monza alcuni colleghi dei 4 uomini e 1 donna della polizia penitenziaria accusati a vario titolo di lesioni aggravate, falso, calunnia, violenza privata, abuso d’ufficio e omessa denuncia per avere picchiato il 3 agosto 2019 Umberto Manfredi, 52enne, collaboratore di giustizia nel processo ai Casalesi in Veneto, mentre si trovava all’interno della Casa circondariale monzese. Il detenuto si è costituito parte civile al dibattimento insieme all’associazione ‘Antigone’ per la tutela delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. Secondo l’accusa il detenuto è stato colpito a pugni e schiaffi da un agente, mentre altri lo tenevano fermo, per poi farlo cadere dalla barella una volta arrivati in cella, dove è stato lasciato dolorante e con il volto tumefatto. C’è un video dell’accaduto estratto da alcune telecamere interne al carcere, che mostra l’agente che schiaffeggia il detenuto ma, secondo la difesa degli imputati, le telecamere non hanno ripreso, per un cono d’ombra nella registrazione, il momento precedente in cui il detenuto avrebbe sferrato un calcio al volto di un agente. A dire degli imputati le lesioni non sono state causate da una violenta aggressione da parte degli agenti, che sostengono di avere soltanto ‘contenuto’ il detenuto dopo che ha opposto resistenza, ma dalla caduta dopo il trasferimento in cella e da un’azione di successivo autolesionismo messo in atto dal detenuto. “Quel giorno ero in servizio e ho incrociato la direttrice del carcere che sentiva degli schiamazzi e mi ha chiesto di accompagnarla a vedere - ha dichiarato un ispettore - Arrivati davanti alla cella, le ho detto di non avvicinarsi perché il detenuto era seminudo. Aveva già fatto autolesionismo”. Viterbo. Ex direttore del carcere assolto da omicidio colposo, la Procura Generale fa appello di Silvana Cortignani tusciaweb.eu, 10 ottobre 2024 Caso Hassan Sharaf, appello della Procura Generale contro la sentenza di assoluzione dall’accusa di omicidio colposo dell’ex direttore del carcere di Mammagialla e della difesa contro la condanna a due mesi e venti giorni di reclusione di Pierpaolo D’Andria per omissione di atti d’ufficio con sospensione della pena. Ai familiari è stato riconosciuto in primo grado un risarcimento da quantificare in sede civile. Risarcimento simbolico di un euro, come chiesto, all’associazione Antigone onlus, che si è costituita parte civile al processo. Sei gli imputati, di cui la procura generale di Roma, nella persona del magistrato Tonino Di Bona, aveva chiesto il rinvio a giudizio. La sentenza in abbreviato del gup Savina Poli del tribunale di Viterbo dello scorso 27 marzo viene impugnata nella parte in cui esclude la responsabilità a titolo di colpa dell’ex direttore della casa circondariale di Viterbo per la morte di Sharaf. D’Andria è assistito dall’avvocato Marco Russo. Parti civili con gli avvocati Michele Andreano e Giacomo Barelli i familiari del 21enne egiziano che si è impiccato in una cella di isolamento di Mammagialla il 23 luglio 2018 ed è morto dopo una settimana di agonia, il 30 luglio di sei anni fa, al reparto rianimazione dell’ospedale di Belcolle. Per il magistrato del Riello la condotta omissiva di D’Andria non sarebbe causalmente collegata all’evento ed il rischio suicidario non sarebbe risultato prevedibile. L’omesso trasferimento di Sharaf presso una struttura carceraria per minorenni non avrebbe acutizzato il rischio suicidario in quanto tale evento non costituirebbe “concretizzazione dello specifico rischio che le norme violate miravano ad evitare”. Secondo la procura generale, vi sarebbe una equiparazione dell’effetto delle sanzioni disciplinari dell’istituto minorile rispetto a quelle irrogate nel penitenziario per maggiorenni, non tenendo conto né del regime carcerario più mite dell’istituto minorile, né delle condizioni specifiche del detenuto presso l’istituto di Mammagialla, che lamentavano un regime detentivo rigoroso e severo. Il giudice di primo grado, inoltre, sempre secondo la procura generale, avrebbe ritenuto che l’evento non fosse prevedibile per l’imputato, nonostante gli si contestasse di non aver impartito disposizioni idonee per il monitoraggio dello stato di salute del detenuto e della prevenzione del rischio suicidario. Palermo. Il Garante dei detenuti: assicurare la salute mentale a chi è in carcere Giornale di Sicilia, 10 ottobre 2024 “In occasione della giornata mondiale della salute mentale, prevista per giovedì 10 ottobre, sarebbe auspicabile che l’Asp di Palermo, oltre a promuovere l’iniziativa in piazza, per far conoscere i servizi offerti dal dipartimento di salute mentale, si preoccupasse di chi non potrà mai usufruirne come la popolazione carceraria. Si tratta di centinaia di persone con problemi psichiatrici già diagnosticati prima dell’ingresso in carcere e persone entrate in crisi all’interno degli istituti di pena”. Lo dice Pino Apprendi, Garante dei detenuti di Palermo. “Il direttore generale dell’Asp Daniela Faraoni se è in possesso dei dati delle carceri di Pagliarelli, dell’Ucciardone e dell’istituto minorile sa bene che - aggiunge Apprendi - la centralità della salute mentale e del benessere in tutte le fasi della vita, i laboratori d’inclusione sociale e i percorsi condivisi, che saranno trattati, sono argomenti negati a chi è ristretto”. Per iniziativa è dell’Asp di Palermo oggi, dalle ore 10 alle 18, in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale sarà in Piazza Politeama per accogliere i cittadini. Nella strada chiusa al traffico che collega via Libertà con via Ruggero VII sarà allestito un vero e proprio villaggio con uno spazio dedicato, tra l’altro, al dibattito ed all’informazione, un info point, un punto di ascolto e orientamento e laboratori di inclusione sociale. Alle ore 12.00, con il coordinamento dei Dipartimenti di Salute mentale italiani e il Collegio Nazionale che li riunisce, e al quale aderisce anche il DSM delle Asp di Palermo, Catania e Messina, si collegheranno in diretta streaming le 100 piazze italiane rappresentative degli operatori dei DSM di tutta Italia, ma anche degli utenti, delle loro famiglie e dei partner della rete della salute mentale al fine di accendere i riflettori e sensibilizzare la cittadinanza, i media e i decisori politici su tre temi: potenziamento delle risorse per dare risposta a nuovi bisogni assistenziali; riorganizzazione dei servizi con maggiore integrazione e modelli innovativi; rapporto tra giustizia e sanità (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza REMS). Milano. Pazienti psichiatrici e detenuti, un incontro “ad alto impatto” di Sara De Carli vita.it, 10 ottobre 2024 Il progetto “Emozioni all’Opera” dal 2019 fa incontrare i detenuti di Opera e gli utenti del Centro diurno psichiatrico di Fondazione Sacra Famiglia. Al Salone della Csr e dell’innovazione sociale ha vinto il “Premio Impatto 2024” per la categoria Terzo settore. Ardito, improbabile, unico nel suo genere, surreale: anzi, meraviglioso. Sono questi gli aggettivi che descrivono il progetto “Emozioni all’Opera”, che per due anni ha coinvolto una ventina di detenuti del carcere di Opera e sei utenti del Camaleonte, il centro diurno psichiatrico di Fondazione Sacra Famiglia, portandoli due volte al mese dentro il carcere. È l’unico esempio in Europa di un percorso di recupero e socializzazione che coinvolge pazienti psichiatrici e detenuti di un carcere di massima sicurezza. “Ci differenzia la pena, ma ci accomuna la sofferenza”, hanno detto i partecipanti, raccontando il progetto in un intenso spettacolo messo in scena proprio carcere di Opera un anno fa. Vincitore del Premio Impatto 2024 - Il progetto, avviato nel 2019 in collaborazione con l’associazione In Opera, prosegue tuttora e per il valore che ha creato è stato premiato dal Salone della Csr e dell’innovazione sociale: Fondazione Sacra Famiglia infatti è uno dei due vincitori del “Premio Impatto 2024” per la categoria Terzo settore, assegnato il 9 ottobre. La giuria, composta da esperti e da membri del Comitato scientifico del Salone della Csr, lo ha scelto tra 75 candidati al Premio, in base alla qualità della metodologia, ai risultati, al coinvolgimento degli stakeholder. “Questa iniziativa, decisamente fuori dal comune, ha permesso a persone diverse di sperimentare relazioni autentiche e vere amicizie”, commenta il presidente di Sacra Famiglia, monsignor Bruno Marinoni. “Questa autenticità è emersa nell’incontro tra due istituzioni apparentemente artificiali, come il carcere di Opera e Sacra Famiglia, dove invece le relazioni sono più vere e immediate perché non c’è niente da dimostrare, niente da perdere. Questo ha permesso, paradossalmente, di vivere un’esperienza di libertà anche in carcere”. “Questa iniziativa, decisamente fuori dal comune, ha permesso a persone diverse di sperimentare relazioni autentiche e vere amicizie”, commenta il presidente di Sacra Famiglia, monsignor Bruno Marinoni. “Questa autenticità è emersa nell’incontro tra due istituzioni apparentemente artificiali, come il carcere di Opera e Sacra Famiglia, dove invece le relazioni sono più vere e immediate perché non c’è niente da dimostrare, niente da perdere. Questo ha permesso, paradossalmente, di vivere un’esperienza di libertà anche in carcere”. Emozioni e cura - Gli utenti del centro psichiatrico Il Camaleonte di Fondazione Sacra Famiglia, dicevamo, si incontrano due volte al mese con un gruppo di circa 20 detenuti, di origini italiane e straniere. Le attività ricalcano l’impostazione dei percorsi terapeutici del Camaleonte, centrati su momenti di scambio tra i due gruppi. In passato si è lavorato molto sul tema delle emozioni, quest’anno si è scelto invece di mettere al centro la cura. I due gruppi in questo modo possono conoscersi e confrontarsi, al di là di ogni pregiudizio e stigma, partendo proprio dalle proprie emozioni. Per la prima volta, inoltre, nel gruppo di Sacra Famiglia ci sono due donne: Elena e Natascia. “Quando vado lì mi sento a mio agio, mi sento benissimo. Loro vivono in carcere, io vivo in comunità: in comune abbiamo il fatto di non essere a casa. E poi anche io ho sbagliato”, riflette Elena. “Noi non siamo le nostre etichette. Io non sono la mia malattia e loro non sono la loro colpa”, dicono Sergio e Luca, ricordando il percorso degli anni passati e i cartelli che avevano portato sul palco. Natascia racconta che all’inizio, quando le hanno proposto di partecipare al progetto, era “ostile”, ma poi “quando ho incontrato le persone, ho cambiato idea”. L’impatto? Lo misuriamo ogni giorno - Barbara Migliavacca, responsabile del centro diurno psichiatrico Il Camaleonte sottolinea che “ricevere questo premio è emozionante per tutti coloro che vivono questo progetto e contribuiscono a realizzarlo. L’impatto lo misuriamo ogni giorno in termini di riabilitazione e crescita dell’autostima, perché soltanto ritrovando il senso di sé nella relazione ogni persona può crescere, migliorarsi e, nel caso dei nostri pazienti, fare passi avanti nel proprio percorso di cura”. Livorno. Pianosa, un’isola che rinasce grazie ai detenuti di Roberta Barbi vaticannews.va, 10 ottobre 2024 Sono una ventina, compongono la sezione distaccata della casa di reclusione di Porto Azzurro, all’Elba, e sulla piccola isola che è parte del Parco naturale dell’arcipelago toscano si occupano dell’accoglienza dei turisti lavorando in diverse cooperative. Nell’estate 2024, la prima in cui il carcere Agrippa è stato riaperto per le visite guidate, registrato il record di oltre seimila presenze. In questo piccolo angolo di paradiso c’è un detto: “Quello che accade a Pianosa, rimane a Pianosa”. Da qualche anno, però, non è più così, perché se si ha avuto la fortuna di essere tra le 300 persone - gli accessi sono contingentati - che quotidianamente possono sbarcare su quest’isola, l’esperienza naturalistica, storico-culturale ma anche sociale vissute sono tali che è doveroso raccontarle. Soprattutto da quando ad accogliere i turisti all’albergo Milena o al bar-ristorante Brunello - gli unici presenti sull’isola - sono i detenuti della sezione distaccata della casa di reclusione di Porta Azzurro all’Elba che a Pianosa vivono e lavorano, unici abitanti assieme al personale della polizia penitenziaria, e unici esseri umani ad avere libertà di movimento. La storia del carcere di Pianosa inizia nel 1858, quando su questa sperduta isola nel mezzo del Mar Tirreno viene creata una colonia penale agricola che fornisce prodotti naturali e zootecnici anche di trasformazione, tanto che viene aperto un caseificio e un allevamento di polli, poi viene costruito il primo edificio penitenziario per ospitare i 350 detenuti dediti alle colture. In realtà il posto ha già una vocazione per così dire carceraria, perché all’epoca della Roma imperiale era stato il luogo eletto per l’esilio di Postumio Agrippa, nipote di Augusto, al quale il successivo istituto penitenziario sarà intitolato. Alla fine dell’800 l’isola diventa un sanatorio per i ristretti affetti da tubercolosi e bisogna arrivare fino agli anni Settanta del ventesimo secolo per la costruzione del carcere di massima sicurezza dove verranno portati mafiosi e brigatisti e dove s’instaurerà un’importante sezione del regime del 41 bis - il cosiddetto carcere duro - dopo l’istituzione dello stesso e gli attentati di mafia ai giudici Falcone e Borsellino. Nel 1996, infine, la chiusura: l’ultimo detenuto lascia l’isola per essere trasferito “in continente” e contemporaneamente viene istituito l’ente Parco nazionale dell’arcipelago toscano. Bisogna aspettare il 2024 perché il braccio Agrippa dell’istituto di pena venga ristrutturato e aperto al pubblico, cosa che è avvenuta nel giugno scorso grazie a uno stretto lavoro di sinergia tra il Parco, l’Agenzia del Demanio e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria: “Siamo tutti parte dello Stato, fare rete è importantissimo quanto naturale - dichiara ai media vaticani Giampiero Sammuri, presidente del Parco nazionale dell’arcipelago toscano - le nostre guide si occupano essenzialmente della custodia del delicato ecosistema dell’isola, ma non solo, sono formate a livello storico e culturale e queste ultime proposte di visita guidata lo hanno dimostrato. La prima stagione è stata un record di presenze, circa seimila, per parecchi giorni di fila abbiamo registrato il tutto esaurito”. Nella sezione distaccata a Pianosa della casa di reclusione di Porto Azzurro, vivono 21 detenuti tutti in articolo 21, cioè con il beneficio del permesso di lavoro esterno. Tra le tante cose originali che si sono trovati a fare sull’isola, c’è stata anche la guardia ai nidi di tartarughe: “Si tratta di un modello innovativo di esecuzione penale, che è soprattutto dedicato all’agricoltura ma non solo - racconta Martina Carducci, direttrice della casa di reclusione di Porto Azzurro - il nostro istituto di pena predilige in modo particolare, fra le attività trattamentali, quelle finalizzate al reinserimento lavorativo dei ristretti”, i quali qui, buona parte dell’anno, devono rapportarsi con professionisti e avere contatti con il pubblico: “Questo ha un effetto benefico sul loro percorso riabilitativo - prosegue la direttrice - e ha un effetto benefico sull’isola perché la curano e la valorizzano”. Dall’agricoltura sostenibile alla manutenzione degli spazi, il progetto d’inclusione sociale che coinvolge Pianosa è molto articolato e si fonda sull’occupazione del personale detenuto e sul circuito dell’economia carceraria. Ne è un esempio luminoso la cooperativa Arnera, originaria della provincia di Pisa, che gestisce le uniche due strutture ricettive dell’isola: l’albergo Milena e il bar-ristorante Brunello: nel primo i ristretti vengono impiegati in attività di pulizia come rifare le camere, nel secondo lavorano come baristi, aiuto cuochi, camerieri e addetti al lavaggio: “In genere non sono formati - è la testimonianza di Marco Cioni, coordinatore della cooperativa sociale Arnera - ma fanno presto a imparare perché sono ricettivi. Per loro stare a Pianosa è un privilegio perché hanno libertà di movimento, possibilità di formarsi e rapportarsi con l’esterno, guadagnano e così possono mandare a casa qualcosa rimediando almeno in parte alla loro assenza, e hanno accesso al cellulare quindi possono mantenere i contatti con i loro affetti”. Oltre ad Arnera, sull’isola lavorano anche la cooperativa Don Bosco e Linc, organizzazione elbana che lavora per l’empowerment di comunità in tutta la provincia livornese. “Il reinserimento sociale deve stare a cuore di tutte le cooperative perché se si trascura questa fase spesso si rovina tutto il lavoro fatto - aggiunge Cioni - ai miei operatori spiego sempre che devono considerare i detenuti solo per la parentesi che stanno vivendo, senza indagare il loro passato o il loro futuro, perché l’uomo non è il reato che ha commesso”. Tra le difficoltà, ovviamente, la più ardua è scardinare la mentalità carceraria che i ristretti si portano dietro: “Pensare che ci si possa salvare da soli, non fidarsi degli altri, relazioni solo di tipo strumentale: spesso abbiamo a che fare non solo con le persone, ma con tutti i loro atteggiamenti di difesa”, conclude il coordinatore di Arnera. “Border light” è la mostra del fotografo elbano Roberto Ridi che racconta Pianosa attraverso la sua natura, i suoi spazi e non luoghi, ma soprattutto attraverso i volti dei suoi abitanti che, come abbiamo detto, sono i detenuti e il personale penitenziario: “Non era la prima volta che lavoravo con loro, fanno fatica a fidarsi, ma un bravo fotografo deve instaurare un contatto con la persona che ritrae - riferisce a Roberto Ridi - ci vuole molto rispetto per riuscire a comunicare quello che le persone hanno dentro, le loro vite”. Per realizzare questi scatti, per i quali ha scelto il bianco e nero, il fotografo ha vissuto con la popolazione carceraria e con gli agenti, approfondendo il rapporto che ognuno di loro stabiliva con la natura, un elemento da cui a Pianosa non si può prescindere: “Qui natura e carcere sono un tutt’uno, io ho cercato di raccontarlo senza interferire con la vita dell’isola e concentrandomi sulla chiave di lettura del reinserimento al lavoro che è fondamentale”. La mostra, esposta per un paio di mesi a Pianosa, fino al 13 ottobre sarà visibile nella Sala della Gran Guardia presso il Comune di Portoferraio all’isola d’Elba, prima di essere portata altrove. Grazie alla Fondazione Acqua dell’Elba ne è stata ricavata anche una pubblicazione a tiratura limitata: 300 copie firmate disponibili in libreria. Venezia. Il racconto di un’estate di servizio in carcere. Presenza che si fa speranza, alla Giudecca di Paola Girelli lavitadelpopolo.it, 10 ottobre 2024 Con un’amica che svolge il suo servizio nel carcere di Santa Bona a Treviso, si parlava della realtà carceraria, delle problematiche a essa legate e delle azioni di speranza possibili. Poi, durante una cena mi ha presentato una proposta: partecipare al progetto “Con i miei occhi. Cercatori di perle”, legato a un campo di servizio svolto da un gruppo di giovani con le suore di Maria Bambina di Venezia, che prevedeva la presenza di volontari nel carcere femminile della Giudecca per una settimana. Una settimana in cui, attraverso alcuni laboratori attivati con le donne presenti, si potesse “promuovere la conoscenza e l’apprezzamento delle diverse culture culinarie presenti nel carcere, fornire alle ospiti competenze pratiche, favorire l’integrazione e la collaborazione, creando un ambiente inclusivo e di supporto reciproco, migliorare il benessere psicologico attraverso attività creative e gratificanti”. È iniziata così questa esperienza. Carcere, il termine stesso richiama alla mente immagini e sentimenti più svariati, personalmente un senso di timore, ansia, paura dell’ignoto, dell’assenza di libertà, sofferenza, reclusione, colpa, pena. Quando, poi, entri e lasci tutto ciò che porti con te nelle cassette di sicurezza, ti rendi conto che ciò che puoi portare sei solo tu. Solo te stesso, ed è questo che puoi offrire a chi incontri. Non conosci niente di queste persone e loro di te, ti è chiesto solo di lavorare insieme per creare piatti tipici da offrire a tutte le residenti. Così, cuocendo il riso, preparando il ragù, friggendo gli arancini, preparando le “sarmale”, sbucciando le patate o cuocendo le zucchine, ti confronti sulla diversità dei modi di cucinare, sul valore evocativo dei piatti per ciascuno di noi, sulle tradizioni familiari e regionali, sui ricordi, sulle piccole cose della vita: nascono relazioni semplici che possono dare un tocco diverso al vissuto quotidiano. Alla presenza di giovani agenti della polizia penitenziaria che sorvegliano, ascoltano, a volte intervengono o sono chiamate a fare da assaggiatrici, trascorrono le ore del laboratorio. Condividere, a fine giornata, i prodotti elaborati con le altre donne, andare nelle sezioni a distribuire quanto realizzato è stato un rendersi conto di quanto un semplice assaggio può rivelarsi importante per ciascuna di loro e farle sentire importanti, partecipi di quanto si stava facendo. Il giorno di Ferragosto è stato preparato un menù speciale e sono state invitate le donne a partecipare liberamente. Buona è stata la partecipazione, il modo di vestire curato ha dato valore al momento. Mi ha fatto riflettere sulla dignità di ogni persona: dignità che “proprio perché intrinseca, rimane al di là di ogni circostanza” , dignità che, assetata di segni di speranza, cerca di dare un senso, un ordine allo scorrere del tempo, anche in questo luogo. Provenienze, esperienze, età, lingue diverse riunite nello stesso luogo e obbligate dal destino a vivere insieme, devono far trovare delle strategie per affrontare il quotidiano; ma che cosa può creare relazione, unione? Oltre le occasioni di laboratorio, la musica, per esempio: è un messaggio che non ha frontiere e supera tutte le barriere, danzare insieme sulle note di uno stesso ritmo si inserisce in quella comunicazione non verbale che ci lancia messaggi e allo stesso tempo ci permette di cogliere la specificità di ciascuna. Abbiamo, così, condiviso momenti ricreativi che hanno portato a tutte serenità e leggerezza. Le messe del sabato sera e quella della festa dell’Assunta sono stati due momenti intensi, dove insieme abbiamo pregato, cantato, condiviso la Parola. Come non mai ho sentito forte il valore di un amore che non si ferma davanti a nulla, che non chiude gli occhi, che sa stare nelle situazioni, anche le più difficili, e che non ti lascia solo. Semplicità, carità e speranza sono le parole che credo possano far capire meglio questa esperienza. Semplicità per andare incontro all’altro sospendendo ogni giudizio e mettendosi in ascolto. Carità che riconosce quella fraternità che ci fa tutti ospiti non infallibili di questo mondo e ci spinge ad adoperarci per creare nuove occasioni di dono, di stare con l’altro, di aprirci a un abbraccio. Una donna nel momento di incontro di verifica finale ha detto “Grazie perché la vostra presenza ravviva la nostra speranza”. Tante queste speranze: che nonostante gli errori si possa riprendere in mano la propria vita, che si possa sperimentare una giustizia riparativa e non solo punitiva, che si possa trovare una nuova via di riscatto e un reinserimento positivo nella società e la speranza di non essere lasciate sole. L’impegno e l’entusiasmo delle ragazze che con me hanno partecipato all’esperienza come volontarie sono state, infine, immagine positiva di persone che hanno voglia di vivere in pienezza questa vita, certi che è donando che si riceve, che guardando con i Suoi occhi, gli occhi dell’amore, tutto diventa prezioso e a ognuno rimane il compito di divenire “Cercatori di perle”. La verità nello sguardo grottesco sui mafiosi, i registi di “Iddu”: “Non sono mostri, ci assomigliano” di Hakim Zejjari Il Domani, 10 ottobre 2024 Oggi, 10 ottobre, esce al cinema “Iddu”, con Elio Germano e Toni Servillo: è la storia delle complicità nella latitanza di Matteo Messina Denaro, nel cui covo sono stati trovati libri di Baudelaire, Vargas Llosa e Dostoevskij. I registi: “Un boss con una vita borghese, in un mondo insensato, tragico e ridicolo, senza nessuna salvezza possibile”. “La malvagità serve al mondo intero” canta Colapesce sui titoli di coda di “Iddu”, terzo film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza in concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Uno spiazzante ritornello dolceamaro che chiarisce le ragioni dell’incredibile latitanza durata tre decenni di Matteo Messina Denaro, l’ultimo padrino d’Italia. Come affrontare un episodio così insensato della storia italiana se non attraverso l’arma del grottesco? Una scommessa vinta per i due autori siciliani che insieme a due fuoriclasse come Elio Germano e Toni Servillo giocano con i generi cinematografici sulla scivolosa corda del tragicomico. Sarà per questo che il film, in sala dal 10 ottobre, non ha ricevuto finanziamenti pubblici? Perché una trilogia sulla mafia, per non cadere nel silenzio, nell’omertà? Antonio Piazza: Sì, la scelta è quella di continuare a porsi delle domande, avere sempre uno sguardo critico per combattere la rimozione della realtà. La latitanza trentennale di Matteo Messina Denaro è senza alcun dubbio una delle pagine più nere della nostra storia repubblicana e, come altre pagine oscure italiane, è probabilmente destinata a rimanere senza verità. È vero che dopo il suo arresto sono venute fuori tante notizie che hanno permesso l’arresto di fiancheggiatori: autisti, vivandieri o il suo medico, ma non sono certo queste figure che hanno consentito che la sua latitanza durasse così a lungo. È evidente che questa storia incrocia altri mondi di servitori infedeli dello Stato… politici, imprenditori. Fabio Grassadonia: Con la nostra trilogia abbiamo provato a raccontare alcune esperienze di vita che abbiamo vissuto da siciliani cresciuti negli anni 80-90. La scommessa era anche quella di declinare quel periodo complicato attraverso generi cinematografici diversi. Facendo ricerche su Matteo Messina Denaro è emerso un mondo insensato, tragico e ridicolo, e la dimensione grottesca si è rivelata la chiave narrativa che cercavamo per il nostro terzo capitolo sulla mafia. Quanto è importante umanizzare la figura del mafioso, ricordare che è un “mostro” che comunque ci può assomigliare? F.G.: Per noi è fondamentale, da narratori non possiamo approcciarci a fatti e personaggi reali con un pregiudizio o un atteggiamento manicheo in cui si è o buoni o cattivi. Denaro è particolarmente interessante perché è molto diverso dalle figure dei mafiosi corleonesi tradizionali. Era un uomo intelligente con una vita e frequentazioni borghesi, ma anche se è diventato un grande lettore e un appassionato di cinema durante la sua latitanza, era un narciso patologico totalmente plasmato da quella figura di mafioso ultra ortodosso che era suo padre. A.P.: Va ricordato quello che diceva Giovanni Falcone: attenzione a chiamarli mostri, a usare termini come cancro o come piovra, perché questi signori ci assomigliano. Matteo Messina Denaro ne è l’esempio perfetto, il suo essere diverso dalla figura del brutale assassino corleonese, le sue abitudini e le sue frequentazioni rendono la sua personalità ancora più disturbante… non bisogna dimenticare che è era in prima linea nella strategia stragista di attacco allo Stato degli anni 90. Vi sorprende che Salvatore Vaccarino, figlio dell’ex sindaco di Castelvetrano, abbia rifiutato così sfacciatamente di proiettare il vostro film al cinema Marconi? Pare che al suo posto ci sarà il docufilm “Falcone e Borsellino, il fuoco della memoria”... F.G.: No, non ci sorprende… il proprietario di un cinema ha tutto il diritto di scegliere cosa vuole proiettare nella sua sala. Sappiamo che il sindaco Giovanni Lentini ha deciso di proiettare Iddu in un teatro. Intanto le proiezioni previste al cinema di Mazara vicino a Castelvetrano, sono già sold out e ringraziamo chi farà chilometri per vedere il nostro film. In questo film si scopre che la mafia, oltre a far scorrere sangue, fa scorrere litri di inchiostro con i pizzini. Che cosa sono? Armi di potere, di scambio? A.P.: I pizzini sono un sistema di scambio tra mafiosi, bigliettini scritti, spesso in codice, per dare informazioni o impartire direttive, uno strumento arcaico di comunicazione che però torna utile nell’epoca delle intercettazioni e della tecnologia. Nei pizzini di Denaro ci ha colpito la sua capacità di variare i toni e lo stile rispetto al suo interlocutore. La sua necessità di comunicare con il mondo durante la latitanza lo costringeva a scriverne centinaia, trasformandolo in uno scrittore epistolare. Chissà quanto le sue letture avranno arricchito la sua lingua? Pare che abbiano ritrovato nel suo covo libri di Baudelaire, Vargas Llosa o anche Dostoevskij. Hanno scoperto anche 212 DVD tra cui film di Antonioni, Coppola o anche di Rocco Papaleo, ah! e tutta la prima stagione di Sex and the City. Purtroppo queste letture, visioni e scritti non hanno contribuito a umanizzarlo, anzi non hanno fatto altro che nutrire il suo ego ipertrofico. Una latitanza che dura quasi trent’anni, non può essere che grottesca, per questo avete usato l’arma della farsa e del cinema di genere per raccontarla? F.G.: Una tragedia che continua a ripetersi inesorabilmente nel tempo e nella forma non può che diventare ridicola. A.P.: Sembra che abbiamo forzato la mano usando il cinema di genere ma non è così, tutto quello che è raccontato nel film è realmente accaduto. È ovvio che ci siamo presi delle libertà ma la componente tragica e allo stesso tempo ridicola del mondo che volteggiava attorno a Messina Denaro è tale che ci sembrava naturale ritrarla nel film, anche il suo iper narcisismo scollegato dalla realtà lo rende una figura grottesca. F.G.: Sì, lui era il perfetto reagente che porta a galla quello che si cela nel fondo di una palude. Tra i tre generi che avete scelto per raccontare la mafia, qual è quello in cui vi siete sentiti più a vostro agio? Il noir di Salvo, la favola horror di Sicilian Ghost Story o il grottesco come in questo caso? F.G.: È stata un’evoluzione: per Sicilian Ghost Story, mettevamo mano a un dolore profondo che ci portavamo dietro da anni, sentivamo il bisogno di rendere un omaggio d’amore al piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito e ucciso dalla mafia, attraverso il linguaggio della favola nera. In Iddu c’era la spinta corrosiva di raccontare gli aspetti paradossali di un mondo bloccato all’interno di una circolarità maligna. A.P.: È un universo in cui, contrariamente ai nostri film precedenti, non c’è nessuna salvezza possibile. F.G.: Tutti i protagonisti sono già fantasmi, morti che camminano senza saperlo. Quali sono i film che vi hanno dato voglia di diventare registi? A.P.: In questo siamo piuttosto diversi. Anche se ormai il suo nome è tabù, sono un appassionato di Roman Polanski, è un maestro nel raccontare il lato oscuro e perturbante della vita. Film come Rosemary’s baby o Chinatown continuano a darmi voglia di fare cinema. Anche nei suoi film più inquietanti c’è sempre un lato assurdo e tragicamente ironico. F.G.: Sono cresciuto con i film di John Ford e Howard Hawks perché mio padre era appassionato di cinema classico americano. Ma è stata la scoperta del cinema di Michael Cimino e di Milos Forman a forgiare il mio desiderio profondo di fare cinema. Lavorate in coppia, sperimentate il cinema di genere e continuate a raccontare la vostra Sicilia, vi sentite atipici nel panorama del cinema italiano? A.P.: Sì, ma non ne soffriamo affatto, è solo una questione di posizionamento, non ci sentiamo mai al centro, ma piuttosto in periferia… quando ci chiamano al festival di Cannes o in concorso a Venezia è comunque sempre una sorpresa, anche se siamo al nostro terzo film. F.G.: Non ci siamo mai sentiti vittime anzi…siamo stati fortunati, abbiamo iniziato con il compianto Massimo Cristaldi, un produttore che ci ha incoraggiato da subito, dandoci grande fiducia e libertà, poi abbiamo incontrato Nicola Giuliano della Indigo Film che ci ha messo nelle condizioni di lavoro ideali. Credo che il giorno in cui ci sentiremo figure centrali del cinema italiano cambieremo lavoro, la centralità è un concetto che ci respinge. Minori e reati, la seconda possibilità: i percorsi per chi ha sbagliato di Marco Birolini Avvenire, 10 ottobre 2024 Viaggio nel disagio giovanile del Nord: a Torino i salesiani riaprono la porta a chi accetta di rispettare le regole. In Veneto le baby gang incontrano le loro vittime. “A inizio settembre qui davanti c’è stata una rissa furibonda tra adolescenti, con pugni violentissimi. Lì per lì abbiamo chiamato i carabinieri, poi abbiamo scelto come sempre la via del dialogo”. Don Stefano Mondin è il direttore della Casa salesiana Michele Rua, un fortino della solidarietà piantata nel mezzo di Barriera di Milano, uno dei quartieri più problematici di Torino. Di fronte al disagio giovanile che lo circonda, il sacerdote sceglie la via più semplice e pragmatica: incontra e ascolta. Poi riapre la porta, purché si accetti di ammettere gli errori e rigare dritto. “Alla rissa hanno preso parte alcuni ragazzi che frequentano il nostro oratorio, tra i 14 e i 17 anni, quasi tutti italiani. Sono stati i primi a rendersi conto che avevano esagerato e perciò in seguito sono venuti a scusarsi. Li abbiamo riammessi, ma prima c’è stato un confronto molto franco su quanto era accaduto”. Il passo successivo, in questi casi, prevede il coinvolgimento delle famiglie, non sempre sconosciute alla giustizia. Con tatto, don Mondin lascia tra parentesi i precedenti dei genitori, facendo capire che a lui sta a cuore solo il futuro dei ragazzi. Un messaggio che viene recepito e apprezzato anche in ambienti che, per dirla con un eufemismo, vivono ai confini della legalità: prevale la volontà di tenere i figli alla larga da certi giri. E quindi la mano tesa del sacerdote viene accettata. In questo modo l’opera di reinserimento si semplifica: se anche papà, che magari non è uno stinco di santo, ti dice di stare a sentire il prete, tutto diventa più semplice. A quel punto i salesiani concedono la seconda possibilità. Non gratis però. “Chiediamo di rispettare le regole, e li inseriamo nelle nostre attività: sport, ma anche volontariato. Qualcuno si adegua malvolentieri, solo per poter rimanere dentro la nostra realtà. Altri invece capiscono e la cosa funziona davvero. Il passo successivo è l’inserimento lavorativo, grazie anche alla sensibilità delle aziende che condividono i nostri percorsi”. Il punto di partenza, però, resta sempre la consapevolezza di aver sbagliato. “Chi è venuto da noi dopo la rissa lo ha fatto perché aveva compreso di averci deluso. Il rapporto umano è alla base di tutto: se c’è quello, è possibile ricucire e ripartire”. Patti chiari e amicizia lunga, però. “Certi limiti non si possono oltrepassare: da noi non si può assolutamente entrare con il coltello. Era capitato tempo fa, da uno zaino ne era spuntato uno. Il ragazzo è stato subito allontanato: devono capire che la violenza fine a se stessa, addirittura premeditata, non può trovare spazio”. Un altro approccio efficace è quello della giustizia riparativa, che aiuta chi ha commesso un reato a prender coscienza del danno provocato alla vittima, per poi tentare di ricucire lo strappo. Sforzi di cui, poi, terrà conto anche il giudice. “Per funzionare, questo percorso deve essere ritagliato in modo “sartoriale” sul reo, e deve coinvolgere apparati giudiziari, servizi sociali, comunità locali e associazioni” dice Silvio Masin, coordinatore del progetto “Tra Zenit e Nadir”, sviluppato dalla Fondazione Don Calabria e sostenuto da “Con i bambini”. L’iniziativa, che si concluderà a marzo 2025, ha intercettato quasi 500 giovani autori di reati (età 16-19 anni) tra Lombardia, Veneto e Trentino. A Verona, il progetto ha coinvolto le baby gang: i membri hanno preso parte a laboratori pensati per riflettere sui gesti compiuti ed esprimere le proprie emozioni. “Quando ci sono le condizioni, c’è l’incontro la vittima, per capire che commettere un reato non significa solo trasgredire una norma. In questi casi anche chi ha subito trae beneficio dal faccia a faccia, primo perché trova il coraggio di affrontare il responsabile, che a sua volta deve mettersi in ascolto. Poi capita che ne nasca un accordo sulle modalità di riparazione, come ad esempio l’impegnarsi in attività di volontariato. C’è anche chi riannoda i fili di un’amicizia che era stata spezzata proprio dal reato”. La riparazione avviene in modo concreto, non solo a parole. “Chi rompe una panchina e un’altalena magari accetta di tornare nel parco per aggiustarle. Nel caso di Verona, i ragazzi delle baby gang hanno scritto una lettera aperta al Comune e alla cittadinanza per ammettere i torti, chiedere scusa e spiegare come erano arrivati al punto di compiere determinate azioni”. Anche l’arte aiuta: a Venezia la rielaborazione del vissuto microcriminale ha prodotto quadri e video. Quel che conta è fermarsi a pensare. “Molti di questi ragazzi - sottolinea Masin - non avevano mai incontrato prima adulti che li invitassero a riflettere sul passato, sul presente ma anche sul futuro”. Alzare la testa e guardare oltre la violenza: ecco un modo per cambiare strada e capire cosa fare da grandi. Giornata mondiale della salute mentale: parlarne è prima di tutto una sfida culturale di Vera Cuzzocrea Il Fatto Quotidiano, 10 ottobre 2024 Il 10 ottobre si celebra la giornata mondiale della salute mentale: l’obiettivo è aumentare la consapevolezza, a fronte di un peggioramento del malessere. A lungo considerata solo marginalmente nelle iniziative di salute globale, in alcuni Paesi la maggior parte della popolazione affetta da disturbi psichici non riceve alcun tipo di trattamento, in altri non ne riceve a sufficienza e le richieste di aiuto superano la disponibilità delle risorse. La pandemia ha rimesso al centro l’interesse delle politiche pubbliche il tema della salute mentale, anche a fronte dell’esplosione delle traiettorie di disagio, in particolare tra adolescenti, che famiglie e territori spesso non sono in grado di gestire. Soprattutto senza un’adeguata e tempestiva rete di supporto a livello sociale, sanitario e scolastico. La maggiore fruibilità, economica e logistica, ha poi attratto l’utenza verso occasioni di supporto in rete che hanno intercettato un bisogno specifico di ascolto, complice forse anche un atteggiamento meno stigmatizzante verso la stessa professione psicologica. Lo stato di sofferenza causato ad esempio da ansia, depressione, disturbi alimentari, dipendenze, etc. non è sempre ben compreso o adeguatamente considerato nemmeno da chi ne soffre. Che potrebbe minimizzare o non avere gli strumenti per orientarsi adeguatamente verso le possibili strategie da adottare. Magari affidandosi a pseudo “cure” fai da te o rivolgendosi a spazi e interlocutori non professionali o con la necessaria competenza. Il tema della salute mentale da questo punto di vista è un po’ come il titolo del film di Muccino A casa tutti bene: dietro l’apparente benessere si cela il disagio psicologico e la fatica più o meno pronunciata di vivere, anche in relazione. Eppure i disturbi mentali, trasversali alle diverse tappe evolutive, impattano negativamente sul fare quotidiano, a scuola come nel lavoro, in carcere, dentro e fuori le mura domestiche, nei rapporti tra le persone e tra le persone e le comunità. E sull’economia pubblica. Con costi elevati di gestione, non solo emotivi ma anche sociali. Interventi di prevenzione primaria e promozione della salute mentale costerebbero meno producendo un maggiore benessere collettivo. Ecco perché parlare di salute mentale è prima di tutto una sfida culturale. Per ridurre i pregiudizi e potenziare la richiesta di aiuto. Che però deve trovare un sistema di welfare capace di accoglierla, pensando soprattutto alle fasce più vulnerabili della popolazione. L’orientamento è verso un approccio integrato e personalizzato, a partire dall’ascolto dei bisogni psicologici emergenti e delle risorse disponibili. Guardando ad azioni maggiormente inclusive, eque e universali, supportate da evidenza scientifica e capaci di guardare alla persona, dal bambino all’anziano, alle sue esigenze di tutela, ad azioni in grado di rafforzare le capacità di empowerment di fruitori (utenti e caregivers) e dei servizi stessi. È quanto sottolineato dall’Oms nel Piano d’azione globale per la salute mentale 2013-2030. Strumento strategico, trasversale a tutte le traiettorie di sviluppo atte a migliorare gli interventi sulla salute mentale, è il lavoro multiagency, possibile attraverso la partnership tra enti pubblici e privati, che implica l’implementazione di buone pratiche di lavoro di rete tra differenti ambiti: sociale e sanitario, ma anche educativo, scolastico e giudiziario. Federico Butera ne Il castello e la rete (1990) ben definisce il concetto di lavoro di rete quale motore e strumento di un attore collettivo nuovo basato su meccanismi sociali come cooperazione, comunicazione, conoscenza e comunità. E lo strumento formativo è fondamentale per costruire il pensare e il fare integrato promuovendo una solida autoefficacia percepita individuale e collettiva (Bandura, 2000). Lo sottolinea anche la Regione Lazio nel Piano di azioni per la salute mentale 2022-2024 investendo 2,5 milioni di euro con il progetto AiutaMente Giovani nella tutela della salute mentale e prevenzione del disagio psichico e invitando i servizi territoriali alla realizzazione di percorsi di formazione congiunta. Perché la salute mentale è una componente fondamentale della salute pubblica. E chi gestisce il bene pubblico deve investire maggiormente in politiche e servizi in grado di intercettare precocemente il bisogno e prendersene cura, promuovere reti di protezione e supporto comunitario, progettualità volte a promuovere lo star bene consapevole durante tutto il ciclo di vita. La salute mentale deve essere messa al centro dell’agenda politica che non può essere irresponsabilmente disimpegnata. Perché non è vero che stiamo tutti bene. “Gli stranieri nati qui? Italiani. Ci vuole la legge sulla cittadinanza” di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 10 ottobre 2024 Luzi, comandante generale dei Carabinieri: “La norma del 1992 è obsoleta”. Una legge sulla cittadinanza “non più aderente al cambiamento che c’è stato” e, dunque, da ripensare ex novo nel senso dell’integrazione. Periferie dove non basta la risposta securitaria, “perché servono scuole, decoro urbano, qualità di vita dei quartieri”. Un Paese stressato da Covid e guerre, “due macigni”. Arrivato alla guida dei carabinieri a metà gennaio 2021, Teo Luzi è prossimo al passo d’addio (andrà via a novembre). E lascia con la stessa attenzione al sociale che l’ha accompagnato in quasi quattro anni da comandante generale dell’Arma. Com’è l’Italia oggi? “Dovessi indicarle il sentimento prevalente tra i nostri compatrioti, direi: la preoccupazione. Che sfocia in tensioni, litigiosità… nei condomini, tra i banchi, sul lavoro. Nelle nostre sale operative si riversano episodi talvolta inspiegabili”. Parlando l’altro giorno ai suoi cadetti dell’Accademia di Modena ha proposto loro un antidoto: l’altruismo. Parola desueta. “Questo è un mondo sempre più egoista, è vero. Ma ai ragazzi ho parlato di assistenza reciproca, anche nelle piccole difficoltà quotidiane. La capacità di ascolto dei carabinieri è una forma di altruismo”. Ed è uno strumento di lavoro per non perdere di vista uno snodo decisivo della nostra convivenza democratica: le periferie. I problemi di sistema in Germania e Francia lo dimostrano. È così anche per l’Italia? “Assolutamente sì. Le periferie sono un vulnus nell’equilibrio sociale delle democrazie occidentali, bisogna garantire a chi ci vive la stessa qualità di vita di chi abita altrove. Sono aree che in Italia richiedono molta attenzione. Ma in Francia ne richiedono ancor di più: da noi non esistono banlieue dove le forze di polizia non possono entrare. Tanto è stato fatto. Ma molto ancora c’è da fare per rimuovere ostacoli che danno l’idea di vivere in serie B”. Quali ostacoli ad esempio? “Penso alla qualità dell’istruzione. Alle strutture sportive. Alle strade e alle piazze. Penso a Caivano…”. Ci sarei arrivato. Sia sincero: è tutta realtà o anche spot? “Sono stati fatti passi importanti, a 360 gradi. E non è solo un problema di polizia ma di socialità complessiva. L’Arma si è impegnata prima che arrivasse l’attenzione mediatica su Caivano. La Compagnia lì è nata nel 2021, voluta dall’allora ministro Lamorgese. Si è lavorato sulle scuole, anche in sinergia con noi. Non è un’isola felice, certo. Ma la qualità di vita è assimilabile al resto del territorio nazionale. E il modello Caivano va esportato in altre aree”. Quali sono quelle che vi preoccupano di più e su cui state intervenendo? “A mente, Palermo, lo Zen: dove siamo riusciti a far accettare la stazione dei carabinieri nel quartiere, cosa non banale. I nostri lì fanno attività sociale: un tempo io allo Zen non potevo entrare. Bari, San Paolo. Librino a Catania. A Nord, Genova, il quartiere di Diamante. Pilastro a Bologna. Poi Cagliari Sant’Elia. Tor Bella Monaca a Roma. Lì abbiamo lavorato molto sulle occupazioni abusive. È un tema fondamentale”. La casa contesa tra ultimi e penultimi... “Parliamo di migliaia di case occupate abusivamente, lo Stato non mette abbastanza attenzione al tema. Dietro un’occupazione c’è chi gestisce, si alimenta la criminalità territoriale. Serve una politica più concreta”. Però ora il governo ha sterzato, si colpiscono più duramente le occupazioni. “E io sono assolutamente d’accordo. Poi capisco che servono anche soluzioni, ma quando questa soluzione è abusiva è il peggio: alimenta il distacco della percezione pubblica rispetto allo Stato”. A Casal di Principe, terra che davamo per bonificata, ci sono state due “stese” a poche ore dalle elezioni di giugno: rischiamo di tornare indietro in territori che pensavamo recuperati allo Stato? “Io sono un po’ più ottimista. Ora lo Stato ha il controllo. Resta latente una forma, diciamo, culturale della criminalità, le “stese” sono messaggi criminali. Non siamo però agli anni Ottanta. E comunque quando lei parla di condizionamenti, bisogna pensare anche al Nord”. È, per dirla con Sciascia, la risalita della linea della palma? “Beh, la criminalità organizzata rispetto alla politica locale si sente, hanno sciolto Comuni per infiltrazioni mafiose anche al Nord. Lì lavorano con un profilo economico-politico”. E allora da dove viene l’ottimismo? “Abbiamo un quadro normativo avanzato. Una grande sensibilità della magistratura. Pochi Paesi al mondo, oggi, possono affrontare la criminalità organizzata come possiamo fare noi. L’arma del sequestro preventivo è fondamentale”. Non è il massimo del garantismo... “Beh, se i beni provengono dal crimine e lo si dimostra con le indagini…”. La questione migratoria e la questione sociale delle periferie quanto si sovrappongono? “Tanto. Le tensioni nelle periferie non sono risolte. Ci sono aspetti culturali, criminalità etnica. La nostra interposizione abbassa la conflittualità che però rimane latente. E c’è un altro tema…”. Dica... “Quello degli italiani con genitori stranieri, le seconde generazioni. È emerso specie al Nord, in maniera non virulenta come in Francia: ma è una questione su cui bisogna aprire una riflessione”. Cioè? “Bisogna favorire quanto più possibile l’integrazione. Sono italiani”. Favorirla con la cittadinanza? “Sono italiani. Nelle periferie l’integrazione deve essere la regola. Non la fanno le forze di polizia. Si fa con la scuola, l’avviamento al lavoro”. Semplificando: se sono nato in Italia, faccio un certo numero di anni di scuola, devo averla o no la cittadinanza? “Tutti i maggiori Paesi in Europa hanno un meccanismo di integrazione e anche l’Italia deve averlo. Quale sia, lo decida la politica. Ma il meccanismo di integrazione, con equilibrio politico, va trovato: si guardi alla Germania, alla Francia, all’Inghilterra”. Ma qui non c’è... “Non c’è la legge. Ci vuole una legge. Tocca al Parlamento sovrano”. Per dirla chiara: la legge che oggi c’è, quella del 1992, è obsoleta? “Non rispecchia più il cambiamento che c’è stato. Poi come debba essere la nuova, per tutelare la cultura italiana, tocca alla politica dirlo. La contrapposizione non porta da nessuna parte. Io personalmente sono molto aperto: occorre una normativa più moderna”. Quest’Italia è travagliata anche da gravi rigurgiti di antisemitismo. È una questione di sicurezza nazionale? “Lo è. Si batte su un piano culturale. E non lasciando sole le comunità ebraiche. Un nostro generale, Angelosanto, è commissario del governo contro questo fenomeno”. I nostri anziani sono l’anello più debole della società... “Sì, sono molto più vulnerabili, più soli. E quindi sono il bersaglio dei truffatori. Per l’anziano essere truffato è un trauma vero, dà un senso di vergogna, di fine. Così abbiamo messo su col Viminale una campagna d’informazione. Alla messa domenicale, nelle scuole per arrivare ai nonni, sui media. Anche Lino Banfi ci ha aiutato. Lui è per tutti il nonno d’Italia”. Migranti nei Centri in Albania? Solo capoverdiani. Peccato che ne arrivino meno di 5 l’anno di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 10 ottobre 2024 L’alternativa per il Governo? Violare la legge. La sorte del protocollo siglato tra Giorgia Meloni e il premier albanese Edi Rama si complica ancora, stavolta al limite del paradosso. Come il Fatto ha spiegato in dettaglio, l’ennesimo grattacapo è arrivato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue), che ha di fatto cancellato il presupposto per rinchiudere i richiedenti nei centri italiani in Albania, tanto che gli unici africani a poterci finire sarebbero i pochissimi capoverdiani che fanno domanda d’asilo in Italia. A far loro compagnia, se solo attraversassero il Mediterraneo, quelli provenienti dai Balcani, albanesi compresi. Per essere destinati all’esame accelerato delle domande d’asilo e rischiare quindi di finire nei centri in Albania, bisogna infatti provenire da uno dei Paesi che l’Italia considera sicuri. Ma il diritto Ue, hanno chiarito i giudici di Lussemburgo, non ammette eccezioni per aree territoriali o categorie di persone a rischio: un Paese non sicuro per qualcuno non lo è per nessuno. Così, dei 22 Paesi che l’Italia considera “sicuri”, al fine dell’esame accelerato nei centri albanesi ne rimangono solo sette, ma nessuno utile alla causa del governo. Il rischio è che le strutture rimangano vuote. Peggio, che i soldi dei contribuenti italiani siano stati spesi a vuoto. L’Italia ritiene sicuri i Paesi d’origine in base a una norma del primo governo Conte. “La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone”, dice l’art 2-bis del d.lgs 25/2018, il primo decreto sicurezza di Matteo Salvini, allora al Viminale. La Cgue ha invece chiarito che il diritto non lo consente, censurando la norma e buona parte della nostra lista di Paesi sicuri. Basta leggere le schede allegate al decreto interministeriale che contiene la famosa lista, consultabili grazie a un accesso agli atti dell’Asgi. Tra quelli designati sicuri con eccezioni per parti di territorio o categorie di persone, che quindi sicuri non sono, figurano proprio i Paesi dei migranti che l’Italia contava di portare in Albania dopo averli recuperati in acque internazionali. Legalmente sicuri sono invece i Balcani: Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia e la stessa Albania. L’unico Paese africano è Capo Verde. Ma l’arcipelago dell’Oceano Atlantico, circa mezzo milione di abitanti a 500 chilometri dalle coste del continente, è sulla rotta del Mediterraneo occidentale, e chi rischia la vita in mare punta alle Canarie. Non solo: tra le principali destinazioni europee dei capoverdiani ci sono Portogallo, Francia e Paesi Bassi, ma non l’Italia. Nel nostro paese le richieste d’asilo presentate dai cittadini di Capo Verde non sono mai più di 5 l’anno (dati Eurostat). Solo il 2018 ne ha contate di più, tra le 5 e le 10. Secondo i dati del Viminale, invece, tra i primi dieci Paesi d’origine per numero di sbarchi nel 2024, solo Tunisia, Gambia, Egitto e Bangladesh fanno parte della lista dei “sicuri”. Gli ultimi due sono stati inseriti solo lo scorso maggio dal governo Meloni, accusato di dichiarare sicuri Paesi che non lo sono col solo scopo di aumentare le procedure accelerate e riempire così i centri albanesi. Sforzo che la Cgue ha appena vanificato chiarendo che le regole vigenti non ammettono la designazione di Paesi parzialmente sicuri. Come il Bangladesh, primo per sbarchi con 10 mila arrivi nel 2024, dove sono a rischio “persone Lgbtqi+, vittime di violenza di genere, incluse le mutilazioni genitali femminili, minoranze etniche e religiose, persone accusate di crimini di natura politica e condannati a morte”, scrive nella scheda allegata alla lista il ministero degli Esteri. Che “segnala anche il crescente fenomeno degli sfollati “climatici”, costretti ad abbandonare le proprie case a seguito di eventi climatici estremi”. Quanto all’Egitto, quarto con 3.228 sbarchi quest’anno dopo Siria e Tunisia, il ministero non lo considera sicuro “per gli oppositori politici, i dissidenti, gli attivisti e i difensori dei diritti umani o per coloro che possano ricadere nei motivi di persecuzione”. E così la Tunisia, terza con 6.916 sbarchi, che per la Farnesina non è sicura per persone Lgbtqi+, e perfino il Gambia, che di arrivi via mare ne conta appena un migliaio e tuttavia non può considerarsi Paese sicuro perché, dice il nostro governo nella relativa scheda, non lo è per molti, dalle “vittime o potenziali vittime di mutilazioni genitali femminili, tratta e discriminazione di genere, fino ai disabili e ai detenuti”. Magra soddisfazione, se il governo deciderà comunque di procedere al trasferimento di egiziani, tunisini, bangladesi e gambiani nei centri albanesi, a liberarli perché privi del requisito essenziale della provenienza da Paese sicuro dovranno essere i giudici italiani, in particolare quelli del Tribunale di Roma, competente per i trattenimenti in Albania. Non è un optional: la Corte Ue ha infatti stabilito che i giudici nazionali sono tenuti d’ufficio a verificare la legittimità della designazione di un paese come sicuro. Mancando il requisito dell’origine da Paese sicuro, i giudici dovranno liberare i richiedenti con effetto immediato. Ma stavolta Meloni e soci non potranno gridare al sabotaggio della magistratura come per le ordinanze dei giudici di Catania, a meno di non volersela prendere direttamente con la Corte di giustizia dell’Unione europea. Del resto, ha sempre assicurato Palazzo Chigi, “il protocollo Italia-Albania non viola il diritto dell’Unione”. Se il governo decidesse invece di violarlo, alle mancate convalide dei magistrati di Roma seguirebbe l’obbligo, previsto dall’accordo con Tirana, di portare i richiedenti in Italia. Uno strappo inutile, dunque, ma soprattutto costoso, visto che la spesa prevista per i primi cinque anni supera i 700 milioni di euro, e solo per la nave che farà la spola tra le acque internazionali a sud di Lampedusa e il porto albanese di Shengjin si è calcolato di spendere 13,5 milioni di euro in appena tre mesi. Meglio i capoverdiani, a trovarli. La lezione di Assange ai tempi della guerra di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 10 ottobre 2024 Julian Assange è stato finalmente liberato dal carcere inglese ove era detenuto da oltre cinque anni. Tanta è stata l’attesa - in carcere - per la definitiva decisione sulla richiesta del governo americano di estradarlo negli Stati Uniti. Il governo britannico era pronto a soddisfare la richiesta, mentre i vari giudici che si sono susseguiti avevano dato risposte diversificate e non definitive. Alla fine Assange ha patteggiato con il governo degli Stati Uniti, ammettendo ciò che era evidente (aver ricevuto documenti dichiarati segreti) e concordando una pena corrispondente a quanto già trascorso in carcere. Egli così è ora libero ed è stato invitato ed ascoltato dal Consiglio d’Europa. Il Consiglio ha poi approvato una importante Risoluzione (n. 2571(2024), con 88 favorevoli, 13 contrari e 20 astenuti), che tratta della libertà di informazione e la protezione della attività dei giornalisti che la forniscono al pubblico. Essi agiscono come “cani da guardia della democrazia”, essendo evidente che l’opinione pubblica si forma solo se informata su tutto ciò che ha rilievo per il dibattito pubblico. Come si ricorda, la vicenda di Assange ha preso inizio nel 2010, quando con WikiLeak ha fatto conoscere un video intitolato Collateral murders che riproduceva l’uccisione di civili in Iraq da parte di militari americani. Seguì la pubblicazione di migliaia di documenti, autentici ma classificati segreti da parte delle autorità americane. Essi gli erano stati forniti da Chelsea Manning, una militare americana, che ad essi aveva accesso e che venne condannata negli Stati uniti. Era una “wistleblower”, che dall’interno della sua organizzazione aveva fatto uscire documenti comprovanti la commissione di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani fondamentali da parte delle forze americane in Iraq, con la copertura della gerarchia militare e delle autorità civili e politiche. Quei documenti, diffusi da WikiLeak, sono poi stati in parte pubblicati da vari quotidiani e da altri media. Mentre l’Amministrazione Obama aveva evitato di far processare Assange, considerando il danno che ne sarebbe derivato per la libertà di stampa e informazione, la successiva Amministrazione Trump ha proceduto contestando una serie di violazioni della legislazione del 1917 contro lo spionaggio, che prevedono pene per decine di anni di reclusione. E ha richiesto al Regno Unito la estradizione di Assange. La procedura è durata fino a che, nuovamente mutata l’Amministrazione americana, questa ha rinunciato alla maggior parte delle accuse e sono stati possibili il patteggiamento e la liberazione. L’importanza della audizione di Assange da parte del Consiglio d’Europa e della successiva Risoluzione dimostra come sia impensabile che la vicenda sia ora conclusa e, soddisfatti della scarcerazione di Assange, non se ne parli più. La persecuzione che Assange ha subìto per avere svolto il suo ruolo di raccolta e diffusione di notizie di grande interesse pubblico, non trova spiegazione solo nella non considerazione del valore fondante della libertà di informazione da parte americana (e sostanzialmente, al seguito, dal sistema delle autorità britanniche). Si tratta anche della ricerca del cosiddetto “chilling effect”, l’effetto dissuasivo e il clima di autocensura che la paura di incorrere in un simile trattamento produce su tutti i giornalisti e editori. Il Consiglio d’Europa - organo che dal 1949 promuove la democrazia e il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali - nella sua Risoluzione ha ribadito principi che già sono presenti nei suoi documenti sulla importanza della attività libera dei giornalisti. Ma, nell’occasione offerta dalla vicenda di Assange, ha specificamente affrontato il tema di quando si tratta dei giornalisti e dei segreti di Stato che riguardano le guerre. Le vicende di Gaza e dell’Ucraina non sono citate, ma rappresentano lo sfondo attuale su cui si proiettano le affermazioni della Risoluzione, che considerano la brutalità delle guerre e la frequenza di crimini di guerra e contro l’umanità. Esse riguardano la necessità di proteggere i giornalisti, limitare la portata dei segreti e assicurarsi che questi non servano a proteggere un’impellente necessità di sicurezza degli Stati, ma siano invece utilizzati per garantire impunità a chi commette gravi crimini. Nel caso considerato dal Consiglio d’Europa, l’Amministrazione americana sosteneva che la pubblicazione aveva messo in pericolo la vita di persone citate nei documenti. Ma di ciò non risulta alcuna prova e, ancora dopo tanti anni, nessuna persona si è lamentata o ha richiesto risarcimenti. Invece non si ha notizia di indagini e processi contro gli agenti americani che, dai documenti pubblicati da WikiLeaks, risulterebbero aver commesso gravi crimini. Ed è per questo che la Risoluzione richiama quanto aveva già rilevato in occasione della condanna del ricorso americano alle prigioni segrete in Europa a fini di lotta al terrorismo (le c. d. extraordinary renditions): “in certi Paesi, e specificamente negli Stati Uniti, il segreto di Stato è utilizzato per proteggere gli agenti dell’Esecutivo da procedimenti penali per crimini quali i sequestri di persona e gli atti di tortura, o per impedire alle vittime di chiedere risarcimenti”. Per parte sua l’Italia, proprio con riferimento ad una vicenda di quel tipo, non ha dato buon esempio nell’imposizione del segreto di Stato da parte dei diversi governi succedutisi e della Corte costituzionale che ne ha giustificato il comportamento. La violenza e la crudeltà delle guerre di questi tempi si unisce al disprezzo dei belligeranti per le regole del diritto interazionale umanitario. Gli Stati le hanno sottoscritte ed accettate. Le Corti di giustizia, nazionali e internazionali, sono ora ben poco rispettate. Se vengono anche zittiti i giornalisti - nelle loro incursioni negli archivi informatici e prima ancora eroicamente sul terreno degli scontri - allora veramente i passi avanti che l’umanità aveva compiuto con le sue leggi vengono travolti senza più ritegno, lasciando il campo a sfrenati comportamenti selvaggi. Bielorussia. Maria Kalesnikava, da 4 anni ridotta al silenzio in una prigione di Antonella Mariani Avvenire, 10 ottobre 2024 Dallo scorso luglio i portoni delle prigioni della Bielorussia si sono spalancati per 131 prigionieri politici, a gruppi di circa 30, per quattro volte. L’ultima il 16 settembre. Tatsiana Khomich ha sperato che nella roulette del presidente Lukashenko fosse finalmente stata inclusa anche la sorella. Purtroppo così non è stato. Maria Kalesnikava langue dietro le sbarre da 4 anni ed è diventata suo malgrado uno dei simboli dell’opposizione al regime autoritario bielorusso. Maria ha 42 anni, è stata prelevata nel 2020 da agenti mascherati durante una protesta di piazza a Minsk contro la falsificazione delle elezioni presidenziali: caricata su un van, portata al confine con l’Ucraina e minacciata di morte se si fosse rifiutata di attraversarlo. Insomma, la volevano fuori. Lei si è opposta all’esilio, ha stracciato il passaporto e ha affrontato il processo, dove, chiusa in una gabbia, ha sfidato la giuria ballando e ridendo e facendo il gesto per il quale è conosciuta in tutto il mondo: formando con le mani la sagoma del cuore. La condanna per Maria, musicista e direttrice d’orchestra, da molti anni residente in Germania ma appassionata di politica tanto da tornare in patria per supportare l’opposizione alle presidenziali del 2020, poi vinte da Lukashenko con elezioni truccate, è stata durissima: 11 anni di carcere per una serie di capi d’accusa tra cui la cospirazione. Capelli cortissimi platinati, labbra accese di rosso, occhi chiari, Maria è una donna coraggiosa, destinataria di numerosi riconoscimenti internazionali per il suo impegno per la libertà e i diritti nel suo Paese, compreso il Premio Sakharov del Parlamento Europeo per la libertà di pensiero nel 2020. Oggi però nessuno sa com’è il suo aspetto, perché le ultime notizie dirette risalgono al febbraio 2022, quando la famiglia ha ricevuto una lettera, mentre le buste indirizzate a lei dai familiari e dai sostenitori di tutto il mondo vengono fatte a pezzi davanti ai suoi occhi. Dal 2022 è alloggiata nella colonia penale di Homel, nel sud-est della Bielorussia, dove non le permettono di avere alcun contatto con i familiari. La sorella Tatsiana però ha saputo che Maria, chiamata anche Masha, sta deperendo in maniera preoccupante: il suo peso è sceso a 45 chili, troppo poco per una donna alta 1 metro e 75 centimetri, e ha un’ulcera allo stomaco, il che fa pensare che il suo organismo non tolleri il cibo ricevuto in prigione. Da informazioni racimolate da varie fonti, comprese compagne di prigionia, la famiglia ha saputo che Maria è chiusa in una cella minuscola, con un buco sul pavimento come “toilette”. “Penso che sia un momento critico - ha detto a metà settembre Tatsiana in una intervista all’agenzia Reuters da una località estera - perché nessuno può resistere a lungo in queste condizioni. Maria viene torturata psicologicamente ma anche fisicamente”. In un video appello, Tatsiana ha detto che non c’è “molto tempo per salvare Maria”. Nelle carceri bielorusse languono ancora oltre 1.200 prigionieri che le organizzazioni per i diritti umani qualificano come politici. Naturalmente il presidente Lukashenko nega che si tratti di dissidenti ridotti al silenzio. Tra le figure più note, oltre a Maria Kalesnikava, c’è il Premio Nobel per la pace 2022 Ales Bialiatski. Tutti coloro che sono stati rilasciati finora hanno dovuto presentare una richiesta di grazia. Maria scenderebbe mai a patti? “Non ne sono sicura - risponde Tatsiana - ma spero che se le fosse data questa opportunità, ne approfitti”. Tatsiana è molto diversa da Maria: capelli neri ricci, occhi scuri, oggi è la coordinatrice di un Comitato di rappresentanza dei prigionieri politici bielorussi; gira l’Europa per dare voce a chi non può fare udire la propria e per sensibilizzare sulle violazioni dei diritti umani nel suo Paese, alleato della Russia di Putin. Per fare sentire Maria meno sola, la sorella ha lanciato una campagna di scrittura di lettere. In attesa che le porte della prigione si aprano anche per lei.