Il ddl Sicurezza cancella l’umanità della pena di Giovanni Maria Flick Il Dubbio, 9 novembre 2024 Questo disegno di legge si giudica prima di tutto dal vestito. Dalla complessità e dalla disorganicità. Dalla mancanza di una relazione introduttiva, quasi come se fosse la vergogna di riassumere quello che è contenuto nel disegno di legge. Che poi si snoda in tutta una elencazione di novità. Il disegno di legge non tocca nulla per quanto riguarda depenalizzazione e interventi migliorativi per rendere il carcere più umano. In questo senso è fondamentale il discorso del dovere di contenere la violenza, che purtroppo diventa l’unica via di fuga a un certo momento da questa realtà per chi vi è costretto, senza violare la dignità e l’integrità della persona. E senza un discorso di proporzione, un discorso cioè vendicativo a carattere collettivo rispetto a ciò che capita nel carcere. La risposta penale alla resistenza passiva non risolve, certamente, il sovraffollamento. Di fatto, cancella ogni possibile riferimento a un trattamento individuale e alla libertà di disobbedienza civile, che è uno dei residui di libertà fondamentale che rimane anche nel carcere. Io credo che questo discorso viene sottolineato ancora di più dalla equivalenza proposta tra i detenuti e i migranti. Stessa categoria di soggetti, allargando ad entrambi l’applicazione dell’articolo 4 bis, con una evidente sproporzione tra quelle che sono le ipotesi di reati di violenza e di terrorismo e quella che è la disobbedienza civile di una resistenza passiva. Questo cosa vuol dire? Che fallisce definitivamente, anzi si sanziona ufficialmente, la fine del trattamento individualizzato, finalizzato al reinserimento e alla risocializzazione. Sto parlando di Costituzione e di valori fondamentali previsti dall’articolo 27 della Costituzione. Scompare il principio di proporzionalità tra pena e gravità del fatto, che è un criterio che vale per tutti, dice la Corte Costituzionale. Il legislatore quando fa le leggi, il giudice quando le applica, l’amministrazione quando si comporta in conseguenza. Questo vale anche per la custodia cautelare, che è eccessiva e che è in contrasto col principio della presunzione di non colpevolezza: lo ha detto addirittura il procuratore generale della Cassazione, invitando a una maggior cautela nell’uso di questo discorso. In realtà la custodia cautelare troppo spesso diventa una sorta di anticipazione di pena, della quale la politica - di entrambe le parti, destra e sinistra - si occupa soprattutto in chiave strumentale quando deve protestare contro iniziative che toccano qualcuno dell’altra parte. E allora la restrizione della libertà personale diventa una vera e propria tortura, per una cosiddetta legittima difesa collettiva, che è quella della sicurezza intesa dal provvedimento di cui stiamo discutendo. Cito un esempio emblematico, in questo senso, l’ultima sentenza della Corte costituzionale che ha segnato l’importanza di un residuo di libertà, tra virgolette - il termine è sgradevole anche se l’ha usato la Corte costituzionale -: il diritto all’affettività in carcere, e tutti i problemi che ne derivano e che ne discendono. Io credo che su questo siano d’accordo tutti, sia sull’appello a un impegno che sia non solo dell’Esecutivo, viste le difficoltà note di ottenere delle leggi che non seguano certi binari, sia su un problema di inerzia dello Stato, anche nelle sue strutture operative, e di mancato accoglimento di quelle segnalazioni, sempre più forti, della Corte costituzionale. La sentenza sull’affettività è del febbraio di quest’anno: non mi pare che si sia verificato nulla. Io credo che il carcere soffra di un’aria di sonnolenza e di indifferenza che è cominciata già all’epoca degli Stati generali del carcere, che erano stati gestiti da una maggioranza politica diversa da quella attuale. Allora forse c’è stata troppa accademia o troppa ampiezza del campo, e in pratica si è rimasti, tranne poche cose, a quella che è la flagrante violazione di tutti gli articoli della Costituzione: diritto al lavoro, il 2 e il 3, diritti inviolabili, pari dignità sociale e rimozione degli ostacoli, libertà personale e sue basi che non possono essere compromesse, trattamento non contrario al senso di umanità - e c’è evoluta la bellezza di 75 anni per ricordarsi che il trattamento del carcere deve essere umano e personalizzato -, e poi il diritto alla salute. La via del provvedimento è duplice - ed è brutto, questo. Prima la soglia pan- penalistica: tutto si risolve con le norme penali. Poi, la soglia pan-carceristica: tutto si risolve comunque con un’unica sanzione, il carcere. C’è la tendenza, è stato detto molto bene da chi mi ha preceduto, a costruire la pena non più sul reato in sé, sul fatto - si punisce il fatto determinato dalla condotta di una persona - ma sul soggetto del fatto, l’autore, che si punisce per le sue caratteristiche. I tedeschi parlano di tätertyp, il tipo di autore: è il cosiddetto diritto penale d’autore che guarda alla persona e la punisce soprattutto per ciò che è, non per ciò che fa. Non mi dilungo, perché ho già preso troppo tempo, su quali sono i difetti principali di questo discorso: non c’è proporzionalità delle pene di nuova produzione o di nuova formulazione rispetto ai criteri che erano stati usati in precedenza. C’è un automatismo disseminato a piene mani: divieto di prevalenza delle attenuanti, obbligo di automatismo quando c’è il bilanciamento tra attenuanti e aggravanti. Si mette in crisi il principio di personalità della responsabilità penale che prescrive l’articolo 27 della Costituzione. Una concezione che esprime un autoritarismo che comincia a destare molta preoccupazione, con riferimento al rapporto tra autorità pubblica, pubblico ufficiale e cittadino - cittadino o persona che aspira a diventarlo. Le conseguenze sono note: il principio di umanizzazione della pena sta scomparendo. E a questo punto, io vorrei ricordare proprio quello che è stato detto prima, e concludo: che l’individuo diventa persona attraverso l’articolo 2 della Costituzione, i diritti inviolabili nelle formazioni in cui si svolge la sua personalità. E il carcere è una delle prime formazioni sociali, coattiva, in cui si svolge la personalità. Allora, a questo punto, la domanda che sorge spontanea è: ma è ancora compatibile una pena che è la privazione della libertà personale, non per contenere la violenza, ma come pena fondamentale del sistema carcerario? È ancora compatibile con lo sviluppo della persona, dell’individuo nelle formazioni sociali, tra cui il carcere? Guardate, la persona è caratterizzata da tre componenti fondamentali: la relazione con gli altri, a cominciare dalla relazione affettiva, per proseguire con tutte le altre relazioni; il contesto temporale della propria esperienza vitale, cioè il mio passato, e il progetto del mio futuro, la speranza di un futuro, e la mancanza di questa speranza è alla base di molti, troppi, drammatici suicidi in carcere, soprattutto in questi giorni; e infine un contesto spaziale che in carcere è solo virtuale e che non è reale, la dimensione di spazio dell’individuo è soltanto virtuale. Basta pensare a quella locuzione buffa, che però è consolidata, l’ora d’aria, nella quale si condensa il problema della perdita della dimensione spaziale e della perdita della dimensione temporale. L’ora d’aria. Ecco, io credo che l’obiettivo di sicurezza sociale che è proposto da questo pacchetto di sicurezza è in realtà un obiettivo di sicurezza di tipo autoritario, che dimentica la prima chiave per la risoluzione della sicurezza sociale: l’andare incontro al diverso e alle sue limitazioni per aiutarlo a superarle. Quanto sono ancora attuali le parole pronunciate da Turati nel 1904 sulle carceri-cimiteri dei vivi! di Andrea Bitetto L’Unità, 9 novembre 2024 Seguendo la tripartizione di Locke dei diritti fondamentali - vita, libertà e proprietà - l’Illuminismo aveva riformato le sanzioni penali in modo da stabilire un sistema incentrato sulla correlativa privazione della vita (la pena di morte), della libertà (carcerazione), della proprietà (sanzioni pecuniarie). Il superamento della pena di morte ha richiesto un lungo processo per poter esser condotto fruttuosamente a termine, nonostante le eccezioni di paesi che ancora la prevedono. Dove l’abbandono della pena di morte è stato realizzato il merito deve esser riconosciuto alle istanze umanitarie, anziché alla Dea Ragione che invece, tramite il principio del bene comune, l’aveva legittimata. Non che il bene superiore della vita non venga ancor oggi messo a repentaglio dal sistema sanzionatorio penale: in tutti quei sistemi giuridici, come quello italiano, in cui sia previsto l’ergastolo, la fine della vita è la condizione per la fine della pena. Sulla barbarie dell’ergastolo hanno convenuto tutti, per primi i politici, abolizionisti o meno. Il lugubre gen. Menabrea, che fu anche Presidente del Consiglio, sostenitore dell’ergastolo, affermò: “la pena dell’ergastolo, cos’è in sostanza se non la condanna a una morte lenta, a una morte moralmente più dolorosa?”. Quanto al carcere, sono ancora attuali le parole pronunciate da Turati nel 1904, nel suo intervento alla Camera dei Deputati “I Cimiteri dei vivi”: “Noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura, la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice […] e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento dei malfattori”. Mentre scriviamo, il numero delle persone detenute nelle carceri italiane supera le 62.000 unità, in costante sovraffollamento e in condizioni complessive indegne di un paese civile. Con linguaggio iniziatico e freddamente burocratico, l’Applicativo 15, ovvero il sistema di monitoraggio delle presenze di detenuti, sulla base del quale si valuta la capacità recettiva del sistema detentivo, continua a violare i criteri previsti della sentenza Torregiani: il requisito di almeno 3 mq a persona viene calcolato al lordo dello spazio occupato dalla branda, dai servizi igienici (che poi si tratta del solo wc) e degli altri miseri arredi. Risultato: il sovraffollamento non viene ridotto ma burocraticamente aumentato. Quanto alla generale politica penale, il legislatore italiano è passato dalla massima pre-illuminista “consenso o repressione” a quella persino peggiore di “consenso e repressione”: il voto avrebbe richiesto - questo l’argomento - di intervenire contro l’emergenza criminalità, sventolata come un vessillo, con un atteggiamento repressivo. E il problema del sovraffollamento e della conseguente impossibilità prima di tutto materiale di approntare qualsiasi sistema coerente di tendenziale rieducazione e reinserimento del detenuto? La risposta è in linea con la prassi tridentina, altresì nota come tecnica della dilatazione, del pontefice Paolo III, quello che convocò controvoglia il Concilio di Trento e lo fece durare diciott’anni: procrastinare. La soluzione dei problemi viene semplicemente rimandata. Atteggiamento del tutto coerente con quello definito dalla filosofa slovena Alenka Zupan?i? come “disconoscimento”. Il problema della situazione carceraria non viene negato, ma viene disconosciuto tramite la promessa, del tutto generica, di future soluzioni. Che poi da noi le soluzioni proposte non sono quelle necessarie, ovvero la riduzione dei fatti penalmente rilevanti, la mitigazione delle pene il cui impianto è ancora quello vessatorio e illiberale del Codice Rocco, ma sono quelle che passerebbero attraverso la calce e il mattone: la costruzione di nuove carceri. Non si curano le cause della malattia, ci si premura solo di costruire forse nuovi ospedali. Esistono almeno due progetti già completi di riforma del Codice penale: quello delle commissioni Pisapia e Nordio, sostanzialmente entrambi coerenti con le esigenze di un diritto penale minimo. Ma oggi quello stesso Nordio preferisce assecondare il panpenalismo tanto criticato da editorialista. James Hillman, nel suo Codice dell’anima, ci ha spiegato come crescere sia discendere. Nel raccontare in parallelo le vite di Judy Garland e di Josephine Baker, Hilmann ci ha ricordato che nella vita esiste l’ascesa e la caduta e non importa il cadere ma come si cade. Lo stesso vale per chi commette un fatto di reato. Il carcere così come è oggi e probabilmente così come non può esser diversamente, impedisce a chi cade di poter restituire, con gesti fattivi capaci di dichiarare il pieno attaccamento a questo mondo, le cose che l’ambiente ci ha date. Carceri, la proposta: tablet connessi a Internet per i detenuti adnkronos.com, 9 novembre 2024 Ad avanzarla le Camere Penali Internazionali. Tirelli: “Non servirà per andare su TikTok ma per ricostruire il proprio futuro”. Capece (Sappe): “Pericoloso”. Scandurra (Antigone): “Strada verso sistema più inclusivo”. Tablet con accesso a Internet come strumento educativo e riabilitativo per i detenuti: è la proposta di riforma avanzata dalle Camere Penali Internazionali che verrà presentata giovedì 14 novembre alla Camera dei Deputati in occasione dell’incontro ‘Verso gli Stati Generali della Sicurezza 2025’ (in cui saranno presenti, tra gli altri, Ettore Rosato, segretario del Copasir e rappresentanti di Governo della Difesa e dell’Interno). “La riforma si basa sulla convinzione che l’accesso alla rete sia un diritto umano fondamentale, necessario per lo sviluppo culturale e professionale, e ne promuove l’estensione anche ai detenuti, nel rispetto della dignità e della riabilitazione”, spiegano i proponenti assicurando che la connessione alla rete dei device concessi ai detenuti sarà ovviamente “sotto stretto controllo”. “L’idea è che nel momento in cui si varca la soglia del carcere venga concesso al detenuto, al pari di altri oggetti di uso comune, un mezzo di comunicazione per mantenere un residuo collegamento con la società, che gli permetta di riabilitarsi e ricostruire un nuovo futuro”, spiega all’Adnkronos l’avvocato Alexandro Maria Tirelli, presidente delle Camere penali del diritto europeo e internazionale. “Il principio alla base, che ha come orizzonte una società più inclusiva e giusta - continua -, è la difesa di un diritto, della dignità dell’uomo; non ha senso isolare il detenuto dalla società dove lì domani dovrà tornarci: il tablet non servirà per andare su TikTok ma per studiare, per la formazione professionale, per una crescita personale”. Cassazione sicura: le restrizioni al 41 bis siano giustificate di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 novembre 2024 Un detenuto al 41 bis ha il diritto di ascoltare musica tramite un lettore CD, anche durante le ore notturne, e la restrizione imposta dall’amministrazione penitenziaria è contraria alla costituzione. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla Casa Circondariale di Sassari, dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) e dal Ministero della Giustizia contro una decisione del Tribunale di Sorveglianza di Sassari riguardante l’applicazione del regime 41- bis. La sentenza numero 39742 sottolinea ancora una volta un principio fondamentale, già più volte ribadito dalla Corte costituzionale: le restrizioni imposte ai detenuti sottoposti al regime speciale devono sempre essere giustificate da reali esigenze di sicurezza e ordine pubblico, evitando qualsiasi “surplus di afflittività” non giustificato. Il caso trae origine dalla richiesta del detenuto Valentino Gionta di poter utilizzare un lettore di compact disc durante le ore notturne, autorizzazione precedentemente accordata dal Magistrato di Sorveglianza e confermata dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari. L’Amministrazione Penitenziaria aveva imposto un divieto in orario notturno per motivi di sicurezza, temendo che l’uso del dispositivo potesse essere strumentalizzato per aggirare la sorveglianza. Questo divieto notturno è stato ritenuto eccessivo e irragionevole dalla magistratura, che ha osservato come l’uso del lettore, già limitato ai CD musicali censurati, non costituisse un reale pericolo per la sicurezza dell’istituto. Contro tale decisione, il DAP e il Ministero della Giustizia hanno presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che la limitazione notturna fosse necessaria per la sicurezza interna, poiché il personale di sorveglianza è ridotto durante quelle ore e non potrebbe garantire un controllo adeguato sul corretto uso del dispositivo. Tuttavia, la Cassazione ha rigettato il ricorso, affermando che le limitazioni devono essere motivate da esigenze di sicurezza specifiche e legate all’applicazione del regime 41 bis. Nella sentenza, la Corte Suprema ha evidenziato che le restrizioni del regime speciale hanno lo scopo di impedire i collegamenti tra il detenuto e la criminalità organizzata. Tali misure devono avere una base ragionevole e non possono semplicemente ridurre le libertà del detenuto in maniera arbitraria o non necessaria. In questo caso, l’uso del lettore CD per ascoltare musica durante la notte non è stato considerato un pericolo tale da giustificare la limitazione imposta dall’Amministrazione, dato che altri dispositivi (come radio e televisori) sono permessi. La Corte ha chiarito che il controllo e la sicurezza devono essere bilanciati con la tutela dei diritti residui del detenuto. La sentenza della Cassazione richiama le precedenti pronunce della Corte Costituzionale, che ha più volte sottolineato come le restrizioni imposte dal 41- bis non debbano mai eccedere quanto strettamente necessario a garantire l’ordine e la sicurezza. La Consulta ha infatti specificato che limitazioni non giustificate diventano meri atti di punizione, incompatibili con i principi costituzionali. In tal senso, l’obiettivo del regime differenziato non deve essere quello di punire ulteriormente il detenuto, ma piuttosto quello di prevenire il rischio di collegamenti con ambienti criminali esterni. La decisione della Cassazione ribadisce quindi la definizione dei limiti entro i quali l’Amministrazione Penitenziaria può esercitare il proprio potere discrezionale nei confronti dei detenuti sottoposti al regime 41 bis. Il rigetto del ricorso sottolinea l’importanza del rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza nelle decisioni che incidono sui diritti dei detenuti, evidenziando come la sicurezza e l’ordine interno debbano essere perseguiti senza arrivare a restrizioni inutilmente punitive o sproporzionate. Detenuti al 41-bis, limitazioni alla corrispondenza sempre da motivare di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2024 Per la Cassazione, sentenza n. 41191 depositata oggi, che ha accolto il ricorso di un boss, lo strumento ordinario è il “visto di censura”. Nel caso di detenuto sottoposto al regime del 41 bis, le “limitazioni” nella corrispondenza non possono essere la norma ma vanno adottate solo in presenza di precise esigenze di sicurezza; lo strumento ordinario previsto è infatti quello del “visto censura” che per essere superato da una misura più afflittiva, va motivato in modo “stringente”. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, sentenza n. 41191 depositata oggi, accogliendo il ricorso di un boss di camorra. Il Tribunale di Napoli, invece, aveva ritenuto del tutto legittime sia le limitazioni alla ricezione di quotidiani dell’area geografica di provenienza del detenuto, sia il limite alla possibilità di inoltrare o ricevere (in via generale) missive da qualsiasi altro soggetto sottoposto al regime del 41 bis ord.pen., considerate le “finalità perseguite dal regime differenziato”. Contro questa decisione, il detenuto ha proposto ricorso attaccando il divieto “generalizzato” di scambi epistolari con soggetti sottoposti al medesimo regime, in quanto la legge non consentirebbe un simile divieto “preventivo e generalizzato”, prevedendo piuttosto la sottoposizione al “visto di controllo”, dunque a una attività di analisi dei contenuti delle missive, a chiunque dirette. Per la Prima sezione penale il ricorso è fondato. L’articolo 18 ter ord.pen., si legge nella decisione, consente sia “limitazioni” alla corrispondenza epistolare che la “sottoposizione” al visto di controllo, sì da inibire forme di possibile prosecuzione o realizzazione di attività illecita. Il testo dell’articolo 41 bis ord.pen., in rapporto alla finalità di prevenire contatti con l’ambiente criminale di provenienza, indica come contenuto “necessario” del provvedimento applicativo la “sottoposizione a visto di censura della corrispondenza”. Del resto, osserva la Corte, il soggetto sottoposto al regime differenziato continua ad avere “contatti con gli altri detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità”, parimenti sottoposti al regime differenziato. Pertanto, prosegue il ragionamento, non “appare del tutto in linea” con il contenuto della legge “prevedere in assoluto e in via generale un “divieto” di corrispondenza epistolare tra soggetti - tutti - sottoposti al regime differenziato, posto che proprio il contenuto “strutturale” della disposizione di cui all’art. 41 bis ord.pen. induce a ritenere che lo strumento di controllo tipico è rappresentato dal “visto di censura”, con verifica caso per caso del contenuto della comunicazione”. In definitiva, le ‘limitazioni’ previste dall’18 ter comma 1 lettera a), con riguardo alla corrispondenza, possono essere adottate “solo in presenza di specifiche esigenze di sicurezza, da motivarsi in modo stringente, che rendano - in ipotesi - non sufficiente lo strumento ordinario del visto di censura”. La Cassazione ha così disposto l’annullamento del provvedimento con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Napoli. Sempre la Cassazione con la sentenza n. 14870/2020 aveva affermato che è illegittimo il provvedimento con cui il magistrato di sorveglianza disponga il trattenimento di corrispondenza inviata da un detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen. ad altri detenuti sottoposti al medesimo regime sul fondamento di elementi diversi dal contenuto della singola missiva (nella specie, il mero rilievo della pericolosità del mittente), potendo il controllo riguardare esclusivamente la presenza o meno nel testo della stessa di elementi grafici che ne alterino l’apparente significato al fine di veicolare messaggi in violazione delle specifiche previsioni relative al suddetto regime. E con la decisione n. 48365/2012, la Suprema corte aveva chiarito che la libertà di corrispondenza dei detenuti in regime speciale può essere limitata, in virtù di quanto stabilito dall’art. 15 della Costituzione, solo con un provvedimento dell’autorità giudiziaria, specificamente motivato in ordine alla sussistenza dei presupposti indicati dai commi da 1 a 4 dell’art. 18 ter della l. n. 354 del 1975, come modificato dalla legge n. 95 del 2004. Nella specie, la Corte aveva ritenuto meramente apparente la motivazione dell’ordinanza del tribunale di Sorveglianza che, senza far riferimento a esigenze di indagine o a pericoli per l’ordine e la sicurezza pubblici, aveva disposto il trattenimento di una corrispondenza sul presupposto della cripticità del linguaggio utilizzato e della presenza in essa di disegni dal significato indecifrabile. Sardegna. Colonie penali, un modello vincente da potenziare e diffondere consregsardegna.it, 9 novembre 2024 “Le Colonie penali sono da sostenere e valorizzare, sono un modello positivo per la riabilitazione e il reinserimento delle persone recluse nella società una volta finita la detenzione”. Così il Presidente del Consiglio regionale Piero Comandini ha aperto i lavori del convegno “Le colonie penali sarde. Un modello vincente da potenziare e diffondere” organizzato dalla Garante regionale per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Irene Testa. Il Presidente ha sottolineato la grande collaborazione che esiste tra l’Assemblea e la Garante per i detenuti con cui dall’inizio della legislatura il dialogo è costante: “Sono molto orgoglioso - ha detto il Presidente - che il convegno di oggi, ospitato nel Palazzo, sia stato dedicato alla memoria di Patrizia Incollu, direttrice della Casa circondariale Badu e Carros di Nuoro, e di Peppino Fois, assistente capo di Polizia Penitenziaria, scomparsi in un incidente stradale il 19 ottobre del 2023. Due persone che hanno creduto nel loro lavoro mettendo sempre in primo piano la riabilitazione del detenuto”. “Sul tema carceri - ha detto - la Sardegna, come il resto d’Italia, deve fare ancora tanto. Il problema vero comincia quando il detenuto esce dal carcere. Proprio in quel momento si vede la capacità di un paese civile di reinserimento nella società”. Milano. Don Mazzi: “Aboliamo il carcere minorile e creiamo un pronto soccorso per chi sbaglia” di Luca Cereda Famiglia Cristiana, 9 novembre 2024 Alla Cineteca MIC di Milano il 7 novembre si è tenuta una giornata di incontro, dibattito e ragionamento intorno al tema della devianza giovanile e dell’offrire un’alternativa al carcere per adolescenti che hanno commesso reati. “Il carcere minorile va abolito così com’è”. A dirlo alla sua maniera, franca, schietta e incisiva è don Antonio Mazzi, il 94enne fondatore e presidente di Fondazione Exodus. Che aggiunge: “Il sistema della giustizia minorile deve invece essere pensato come un “pronto soccorso” per i ragazzi che devono starci, al massimo, qualche ora e poi devono essere indirizzati in strutture rieducative organizzate in piccoli gruppi. E sia chiaro”, tuona il presidente di Fondazione Exodus “i ragazzi non devono scontare nessuna punizione o pena, ma confrontarsi con i loro errori per cercare di capirli e ripartire da quella consapevolezza”. Secondo Mazzi i ragazzi devono ragionare sugli errori fatti e immagazzinare esperienze di vita positive, non pene, “dobbiamo anche cambiare linguaggio che usiamo nella giustizia e nell’educazione se vogliamo una trasformazione reale, quindi la parola pena va abolita. Aggiungo che ipotizzare un numero dispari di ragazzi per ogni struttura non è una scelta casuale, le coppie non vanno mai bene e lo sappiamo dalla nostra esperienza: molti dei ragazzi che abbiamo a Exodus in comunità arrivano proprio dal carcere”, spiega don Mazzi. Che aggiunge: “Se fosse stata data loro l’opportunità di fare un percorso direttamente fuori dal carcere le cose sarebbero andate meglio perché resto convinto che gli errori che i ragazzi fanno da giovani non devono essere considerati dal punto di vista penale, ma solo rieducativo”. Ed è proprio per contrastare una visione di carcere e giustizia per minori ormai molto radicata, che Fondazione Exodus ha avviato nel 2020 il progetto “Pronti, Via!”, selezionato e sostenuto dell’impresa Sociale Con i Bambini, nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Un intervento quadriennale per dare una risposta psico-socio-educativa a minori sottoposti a misure restrittive da parte della Autorità giudiziaria, attraverso il modello “Carovana”, una intensa esperienza educativa itinerante che fa parte del Dna di Exodus e che mira a diventare proposta strutturata integrata dei servizi giustizia minori. In pratica i ragazzi scontano una parte della loro pena in viaggio, anziché in carcere. La realizzazione dell’idea di don Mazzi. Il progetto è nato “per creare delle soluzioni diverse per questi ragazzi che sbagliano, per fargli concretamente vedere che gli errori si possono riparare, non con misure repressive ma trovando delle modalità educative attraverso il viaggio, attraverso l’avventura educativa di un viaggio”, spiega Franco Taverna, coordinatore della Fondazione e referente nazionale del progetto alla Cineteca MIC di Milano dove il 7 novembre Exodus insieme a Coni Bambini ha realizzato un convegno per parlare, far conoscere e ragionare su questi temi. A questo punto è necessario fare un passo indietro. Precisamente al 25 marzo 1985. Dal Parco Lambro di Milano don Mazzi partiva il primo progetto educativo itinerante, “Exodus”, racconta Taverna, “nasce con una carovana. Perché Exodus è una carovana, vera, concreta, sudata e metaforica. Nel 1985 il tema era quello delle sostanze, oggi quello della devianza. Ma allora come oggi siamo partiti con una proposta che ha rotto gli schemi di intervento allora consolidati. Nuova, provocatoria, coraggiosa per nove mesi ha fatto tappa in tutta la Penisola. Una carovana a suo modo vincente che ha dimostrato che un altro modo di affrontare il dramma della droga era possibile, che con l’avventura e la relazione educativa gli adolescenti e i giovani perduti potevano ritrovarsi. Ecco, io penso che anche oggi avevamo bisogno di una proposta allo stesso modo nuova e dirompente, che davanti al forte disagio e alle domande di aiuto avanzate dalle ragazze e dai ragazzi non resti chiusa nel lamento dei tempi difficili ma che si metta al loro fianco ascoltandoli e camminando insieme su sentieri non ancora esplorati”. E così Pronti, Via! è un progetto di rottura afferma Franco Taverna, che coordina a livello nazionale il progetto Pronti,Via! che ha coinvolto anche i Centri per la Giustizia Minorile di Lombardia, Lazio, Puglia e Sicilia e le Cooperative Ex.it e Pegasus (Lombardia) Gli Aquiloni (Lazio) e Etnos (Sicilia): “Dopo la pandemia che ha innestato ulteriori complessità nella vita degli adolescenti e delle loro famiglie, la disuguaglianza sociale è aumentata, i servizi socio-educativi sono particolarmente sollecitati e faticano a comprendere e ad agire. Le manifestazioni di grave disagio da parte di ragazzi e giovani si sono moltiplicate, sia nella forma della violenza contro sé stessi che verso gli altri. Di fronte alle nuove forme di espressione della sofferenza il mondo educativo e formativo della scuola si trova molto impreparato e con pochi strumenti. Allo stesso modo anche il sistema rieducativo di contenimento, in capo alla giustizia minorile, è in affanno: solo nell’ultimo anno sono scoppiate numerose rivolte e fughe in diversi Istituti di pena minorile in Italia, a Milano, Torino, Roma, Bologna, evidenziando problemi cronici legati alle condizioni carcerarie, ma anche nuovi acuti problemi di adeguatezza del personale davanti alle crisi legate alla salute mentale oltre che ai necessari supporti educativi e psicologici”. “In questi 5 anni di strada abbiamo appreso molto”, continua Taverna; “Pronti, Via! è nato dalla necessità di costruire percorsi alternativi alla detenzione o alla “messa alla prova” territoriale per minori che hanno commesso reati. Fin dall’inizio una bella e impegnativa proposta educativa vissuta in gruppo, camminando su sentieri del Nord, del Centro e del Sud Italia. Un intervento quadriennale per dare una risposta psico-socio-educativa a minori sottoposti a misure restrittive da parte dell’autorità giudiziaria, proprio attraverso il “modello carovana” e che mira a diventare proposta strutturata integrata dei servizi giustizia minori. Invece di chiuderli dentro ci siamo chiusi fuori, tutti insieme”. La Carovana è un’avventura faticosa e insieme affascinante, come la vita. Lo sa bene anche Alex che ha partecipato a questa esperienza: “Sono nato a Brescia, nel 2002. Ho 17 anni. Ho fatto un sacco di casini in giro. Mi hanno denunciato per il furto di una bici, ma la bici non l’ho rubata. Poi mi hanno denunciato perché ho rubato in un supermercato, questo è vero. E ancora mi hanno denunciato per una rissa, anche questo è vero. La carovana mi ha cambiato il modo di vedere il mondo e anche me stesso”. Alla sua testimonianza fa eco Omar: “Ho fatto la carovana due anni fa. Ora grazie a un educatore ho iniziato la scuola alberghiera e mi piace molto”. Il progetto prevede che vengano realizzate non meno di sette carovane per 100 ragazzi con un’età compresa tra i 14 e i 18 anni. La gestione complessiva è affidata a una équipe di Coordinamento che è composta da un coordinatore responsabile, un formatore, uno psicologo e una psichiatra. A questa è affidato il compito della Formazione degli operatori e costituzione delle équipes educative per ogni carovana, assicurando il consolidamento e il miglioramento di competenze e conoscenze per tutta la durata del progetto. All’incontro promosso dalla fondazione milanese è intervenuto anche Silvio Premoli, professore ordinario di Pedagogia generale e sociale dell’Università Cattolica di Milano e garante per l’infanzia e l’adolescenza città di Milano, una figura istituita nel 2014 che ricorda: “La carenza di educatori è una vera e propria emergenza nazionale. Senza di loro non si può avere a che fare in modo efficace con i ragazzi. L’emergenza attuale deve essere affrontata con un confronto franco tra tutti gli stakeholders, con tempestività e collaborazione tra la politica, gli atenei e il Terzo settore. Ascoltando sempre i ragazzi perché sono loro al centro, non solo di progetti e iniziative educativa, ma di un percorso che riguarda le loro vite e che li deve rendere protagonisti”. Protagonisti di nuovi percorsi nelle loro vite e di occasioni per ricucire lo strappo di un reato. ““Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”, è anche il titolo di un documentario e progetto divulgativo che dal 2003 sensibilizza sui temi della giustizia, le regole, i conflitti, la trasgressione, il carcere, la convivenza civile e la lotta alle mafie”, spiega Francesco Cajani, procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano che ricorda anche come tra le attività più significative del progetto ci sia l’organizzazione di un workshop in carcere, avvalendosi dell’esperienza del Gruppo della Trasgressione, fondato dallo psicoterapeuta Angelo Aparo, che fa incontrare i detenuti che ne fanno parte ogni settimana e ha anche l’obiettivo di accompagnare per mano una trentina di ragazzi (di età compresa fra i 18 e i 22 anni) alla scoperta di volti, realtà e luoghi significativi della realtà milanese. Ed è proprio Aparo, tra i relatori dell’incontro al MIC, che invita sul palco anche Matteo, detenuto nel carcere milanese di Opera e membro del Gruppo della Trasgressione che ha partecipato alla Carovana del progetto Pronti Via!: “Sono andato due giorni alla tappa di Genova a portare la mia testimonianza di detenuto 43enne. Sono tornato in carcere a Milano arricchito da quell’incontro, dalla storia di un ragazzo migrante che è scappato attraverso il mare senza saper nuotare che quel giorno, nel mare ligure ha sfidato le sue paure e imparato a farlo. È stato il primo giorno che ho visto il mare da sobrio e senza stupefacenti in corpo. Ne sono uscito pieno di vita, io, che ero stato chiamato a fare da relatore e a trasmettere la mia esperienza”. La magistrata di sorveglianza presso il Tribunale di Milano, Roberta Cossia alla luce di una questo commenta: “Sono felice quando persone come Matteo dal carcere possono uscire e fare queste esperienze arricchenti. Ma il problema è che questo possono farlo grazie a enti del Terzo settore e associazioni, quando dovrebbe essere lo Stato ad avviare o comunque supportare questi progetti”. Un passo in questa direzione è l’esperimento - riuscito - “del ‘Reparto La Chiamata’ del carcere di San Vittore a Milano, dove”, specifica in conclusione Aparo “i giovani adulti reclusi sono mai così tanti. In questo spazio accogliamo giovani tra i 18 e i 25 anni in carcerazione preventiva, quindi non ancora condannati in via definitiva, iniziando già in quel momento, un percorso”. Anticipando quindi il dettame dell’articolo 27 della Costituzione che troppo spesso in carcere non viene applicato. Siena. Carceri, il ministro Nordio: “Non abbiamo la bacchetta magica” di Laura Valdesi La Nazione, 9 novembre 2024 Tocca i temi ‘caldi’ a margine del convegno organizzato dall’Ordine degli avvocati di Siena con Ateneo e Comune “Politica e magistratura? Stiamo cercando di conciliare al massimo le tensioni degli ultimi tempi”. “Il ministro Carlo Nordio non se l’è fatto dire due volte e ha accettato”, svela Antonio Ciacci, presidente dell’Ordine degli avvocati di Siena. Il ‘gancio’ per portare in città il titolare del dicastero è stato l’ex procuratore Salvatore Vitello, per sette anni nella nostra città, che ieri ha moderato l’evento alla cripta di San Francesco dell’Università sulla ‘Funzione della pena e i percorsi di risocializzazione’. “Un tema che interessa tutta la società civile e nel corso dell’evento verrà raccontata dal professor Gianluca Navone anche la bella storia di un detenuto di Ranza che si è laureato, conseguendo la triennale, nonostante l’ergastolo ostativo. Ha trovato uno scopo per vivere in quella che è considerata la morte civile. Una bella testimonianza, al di là degli slogan, che si può operare a favore del recupero dei detenuti”, premette Ciacci prima che l’arrivo del ministro monopolizzi la scena. “Per quanto riguarda il sovraffollamento delle carceri - va subito dritto al cuore del tema il ministro Nordio - stiamo agendo in tre direzioni. Per i detenuti tossicodipendenti, che spesso sono più ammalati che criminali, stiamo pensando a delle forme di detenzione differenziata nelle comunità, per quanto riguarda gli stranieri, un terzo della nostra popolazione carceraria, la strategia è di far espiare la sanzione residua, o quantomeno in parte. Sono più di 25mila in Italia e se riuscissimo a riportarne a casa anche un terzo sarebbe un’ottima deflezione. Infine la custodia cautelare: anche qui più del 20% dei carcerati è in detenzione preventiva e non in espiazione di una condanna definitiva e quindi intervenendo sulla limitazione della custodia cautelare che può essere resa alternativa con forme che già esistono”. Ripete a margine, più tardi nelle conclusioni quando sono già le 19,30, che “occorre poi creare spazi all’interno delle carceri perché costituiscono i presupposti per lavoro e sport che sono fondamentali per la rieducazione dei detenuti e per rendere meno tesa l’atmosfera carceraria e da ultimo stiamo lavorando anche per trovare lavoro ai detenuti una volta usciti, con il progetto ‘Recidiva 0’”. Le condizioni in cella evocano subito i disagi del carcere fiorentino di Sollicciano. “Ci sono situazioni che si sono sedimentate nell’arco di decenni e sarebbe ingannevole affermare che abbiamo la bacchetta magica per risolverle in poco tempo”, osserva il ministro Nordio. Che rilancia: “Quando le situazioni sono radicate per varie ragioni la soluzione non è facile però ce la stiamo mettendo tutta”. Ma il tema ‘caldo’, convitato di pietra, resta quello delle tensioni fra il ministro e l’Associazione nazionale magistrati. Non solo per la separazione delle carriere - “Si va avanti”, dice all’indomani del primo voto in commissione affari costituzionali della Camera - ma anche per la richiesta di Nordio di un passo indietro della magistratura dopo l’”esondazione” da parte delle toghe, secondo il titolare del dicastero della giustizia. “Stiamo cercando di conciliare al massimo quelle che sono state le tensioni oscillanti di questi ultimi tempi”, non si è sottratto ieri Nordio, sollecitato sui rapporti tra magistratura e politica. “Domenica interverrò da remoto al congresso di Magistratura Democratica e - annuncia - porterò un leitmotiv di collaborazione anche se abbiamo idee diverse su tanti punti. Penso che dovremo trovare una convergenza soprattutto sul funzionamento della giustizia che è la cosa sulla quale è irragionevole dividerci. In questo senso le prospettive sono buone, dieci giorni fa ho ricevuto i vertici dell’associazione nazionale magistrati e, accantonando gli argomenti sui quali non siamo d’accordo, abbiamo cercato di concentrare le nostre forze sugli argomenti che ci uniscono: l’efficienza della giustizia e l’assunzione dei magistrati e, infine, sull’intelligenza artificiale che rivoluzionerà la giustizia”. La Spezia. “Sovraffollamento e scarse attività all’interno, la vita infernale nelle carceri” di Fabio Lugarini cittadellaspezia.com, 9 novembre 2024 In mattinata la visita alla Casa circondariale Villa Andreino, seconda tappa in Liguria dopo quella di ieri al carcere genovese di Marassi. Poi il convegno organizzato in occasione della presentazione del libro La fine della pena - dedicato a Mariateresa Di Lascia, fondatrice dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”. La storica Ong italiana, attiva internazionalmente, il cui principale obiettivo è l’attuazione della moratoria universale della pena di morte e più in generale la lotta contro la tortura insieme alla Camera penale della Spezia, porta anche nel levante della Liguria un’iniziativa che ha toccato tutta Italia e che ha visto l’organizzazione di circa duecento visite effettuate nelle carceri italiane tra il 2023 e i primi dieci mesi del 2024 nell’ambito della campagna denominata “Grande Satyagraha 2024: forza della verità sulle condizioni delle carceri”. All’evento, organizzato per dare conto anche della visita all’istituto penitenziario, davanti ad una cospicua platea di avvocati, c’erano, tra gli altri, Fabio Sommovigo, presidente della Camera penale della Spezia, Rita Bernardini e Sergio D’Elia, presidente e segretario di “Nessuno tocchi Caino”, la senatrice Raffaella Paita, i garanti dei detenuti della Regione e della Spezia Doriano Saracino e Agostino Codispoti, i consiglieri regionali Davide Natale e Carola Baruzzo. Gira l’Italia da mesi l’attivista Rita Bernardini che inquadra il contesto nazionale anche su quello particolare che, riguarda nella fattispecie, il carcere di Via Fontevivo: “Ci sono anche qui gli stessi problemi che abbiamo riscontrato in tutta Italia: oltre al sovraffollamento ci sono persone detenute che hanno problemi di integrazione perché sono dipendenti da sostanze stupefacenti in modo problematico, ci sono casi psichiatrici. Difficile seguirli in carcere in una situazione che, per quanto si sforzi l’amministrazione, genera poche attività. Abbiamo trovato sezioni praticamente chiuse dove la giornata non passa, poi, certo, l’amministrazione fa in modo che all’interno ci siano le scuole, anche le superiori come ad esempio l’istituto Alberghiero. Ma i lavori sono pochi, ci sono diversi articolo 21 oppure persone semi-libere che lavorano fuori di giorno per poi rientrare la sera”. Una situazione ancor più difficile a livello nazionale con numeri sconvolgenti e circostanze tristi, anche solo rimanendo nell’ultimo anno di monitoraggio: “Parliamo di 80 suicidi in carcere fra i detenuti, sette fra gli agenti della Polizia penitenziaria. Il sovraffollamento è arrivato al 133%, le morti anche per malattie varie sono 217 che è il numero più alto mai raggiunto nella storia penitenziaria italiana. Però non si sta facendo niente. Ringraziamo Papa Francesco per essersi espresso a favore di un provvedimento di clemenza che è più che mai utile perché molti detenuti sono vicinissimi a fine pena e rimanere in carcere senza cure significa uscire peggiori di come si è entrati. Occorrerebbe un po’ di saggezza anche da parte del nostro governo”. L’impegno della Camera Penale spezzina è sottolineato dal presidente Fabio Sommovigo. Da una parte un focus sulle condizioni di vita dei detenuti, dall’altra anche quelle dei cosiddetti ‘detenenti’, gli operatori penitenziari costretti, per la cronica carenza di organici più volte acclarata dai sindacati di categoria, a turni massacranti e vittime anche loro delle condizioni in cui versano le carceri dovute al peso sempre più intollerabile del sovraffollamento: “Una visita ispettiva per valutare le condizioni della detenzione che in questo momento è una delle massime emergenze del Paese. Parliamo di ottanta suicidi da inizio anno, siamo vicini al record assoluto: le condizioni detentive sono di costante violazione da parte dello Stato della legge e della Costituzione. Succede ogni giorno. Il carcere di Spezia è in una posizione migliore rispetto alla media delle carceri italiani per una fortunata sinergia messa in piedi fra la direzione, gli educatori e il personale della polizia penitenziaria che tentano di salvare qualcosa all’interno di un disastro che tuttavia riguarda anche la nostra realtà”. In questa situazione la Camera penale è costantemente attenta alla divulgazione del problema nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica: “E in questo momento - continua Sommovigo - siamo impegnati anche in altre attività come la mobilitazione contro il ‘pacchetto sicurezza’ che sta tentando di ristrutturare in senso autoritario il rapporto fra il cittadino e lo Stato e anche, in particolare, all’interno delle carceri, dei Cpr, e in tutte quelle situazioni c’è più debolezza, più fragilità sociale. Da questo punto di vista cerchiamo un contatto con la cittadinanza per sottolineare questi problemi”. Un richiamo al governo, ad un pacchetto sicurezza che, qualora trovasse attuazione esecutiva, porterebbe ad un ripensamento sostanziale dei rapporti: “Il carcere in questo momento è uno strumento di esclusione dal contesto sociale dei soggetti marginali, dei soggetti più in difficoltà. Di contenimento anche della povertà e il pacchetto sicurezza tende a colpire la contestazione politica, le opinioni divergenti e le classi sociali meno abbienti, rendendole ancora più marginali e spingendole sempre di più verso un sistema di diritto penale illiberale ma presentato come panacea in modo del tutto ingiustificato perché il diritto penale non risolve i problemi sociali ma li aumenta ma è un facile strumento propagandistico per dire “metteremo quello o quell’altro in carcere”, soluzione che negli ultimi anni, da destra e da sinistra, si finisce sempre per proporre quando non si hanno altri tipi di soluzioni. Un sistema penale molto lontano da quello liberale che dovrebbe essere ispirato dalla Costituzione”. Roma. Don Ceccolini, cappellano a Casal del Marmo: “Il carcere pieno di ragazzi soli e poveri” di Ilaria Dioguardi vita.it, 9 novembre 2024 “Sono giovani che non hanno figure di riferimento sia in famiglia che nei luoghi educativi: nella scuola, nelle parrocchie e in tutti gli ambiti che i ragazzi frequentano all’esterno”. L’intervista al prete dell’istituto romano. “Sono 13 anni che sono presente nel carcere penale minorile Casal del Marmo di Roma. Dal 2017 sono cappellano, gli anni precedenti lo frequentavo da seminarista. C’è stato un lento inevitabile declino”. A parlare è don Nicolò Ceccolini, classe 1987. Don Ceccolini, perché parla di un “lento e inevitabile declino”? Sembra non aver fine questo declino delle carceri. Quando ho cominciato, ho visto il primo cambiamento dopo l’introduzione all’interno del carcere minorile dei giovani adulti. Nel 2014 c’è stata una modifica di legge che ha previsto la presenza dei ragazzi con i reati da minorenni, che però potevano rimanere fino a 25 anni (il decreto-legge n. 92 del 2014, ndr). Questo ha creato un primo scossone per il fatto di avere, a volte, la maggior parte dei giovani adulti nei circuiti dei minori. Inoltre, si sono ritrovati tutti questi ragazzi neo maggiorenni senza far nulla tutto il tempo. La scuola secondaria di primo grado spesso l’avevano terminata in una precedente carcerazione. A Casal del Marmo ci siamo inventati un’attività, per alcuni di loro. Quale attività? Ci siamo inventati un pastificio adiacente al carcere minorile, pastificio Futuro, per poter dar lavoro ai ragazzi neo maggiorenni. Attualmente sono occupati cinque giovani, affiancati da un’equipe educativa, è gestito dalla cooperativa Gustolibero. Il pastificio è aperto dal lunedì al venerdì, mezza giornata, nel punto vendita le persone possono venire ad acquistare i prodotti. I ragazzi curano tutta la produzione e la vendita. Si riescono a fare delle attività oggi, in carcere? Pur con tutta la buona volontà (penso anche ai direttori che si sono alternati in questi anni), senza la possibilità della sicurezza, del numero di agenti sufficiente per garantirle, le attività sono tutte ferme. Riusciamo a far fare delle attività formative, come il corso di parrucchiere e di giardinaggio, grazie alla formula dell’Articolo 21 che abbiamo dovuto richiedere con forza, altrimenti non si può far nulla. All’interno del carcere, prevede che i ragazzi non abbiano gli agenti che li accompagnano, ma sono affidati agli operatori per andare a svolgere le attività. Don Nicolò Ceccolini Quanti sono i ragazzi nell’istituto? Sono circa 65 (la capienza di Casal del Marmo è di 56, ndr). Il sovraffollamento c’è soprattutto al femminile, dove in pochi giorni sono passate da otto ragazze a 16. Il sovraffollamento è anche una conseguenza del Decreto Caivano? Una stretta sicuramente c’è stata, è innegabile un innalzamento dei numeri rispetto a un anno fa. Però io non darei tutta la colpa al Decreto. Penso che le regole ci vogliono. I ragazzi, se arrivano in carcere, è perché prima non hanno avuto regole. A volte, si chiede al carcere di assolvere quello che non è stato fatto prima, si buttano addosso al carcere dei compiti che non può assolvere. Noi abbiamo anche diversi ragazzi psichiatrici, certamente non è quello il luogo dove tenerli. E poi c’è negli istituti minorili (soprattutto da Roma in su) un grande numero di minori stranieri non accompagnati; questo è un fattore che ha creato durante la scorsa estate (e che ancora sta creando) i problemi principali: risse, incendi, evasioni. A me viene sempre in mente un’immagine. Quale? L’immagine dell’iceberg. I reati commessi da questi ragazzi sono la punta dell’iceberg. C’è tutto un sommerso, una vita vissuta prima che li porta a compiere quel reato. Sono tutti giovani che prima di incontrare il carcere fisicamente, prima di ritrovarsi nelle quattro mura, l’hanno già incontrato prima, in tante altre forme. In quali forme? Prima di tutto nella solitudine, che è una delle costanti. Non hanno figure di riferimento sia in famiglia che nei luoghi educativi: nella scuola, nelle parrocchie e in tutti gli ambiti che i ragazzi frequentano all’esterno. Vivono in una grande assenza di figure paterne, materne che l’introducano alla vita. La seconda, è una povertà, che non è solo materiale: una seconda prigione. Ovviamente c’è anche quella materiale: i minori stranieri che arrivano spesso non hanno i vestiti e non hanno nulla. Però mi riferisco soprattutto ad una mancanza di stima, al fatto di non essere considerati, di non essere importanti per qualcuno. La terza, che è anche una conseguenza delle altre due, è una mancanza di speranza. Questi ragazzi sono tutti concentrati sul presente, sull’attimo, senza vedere che c’è un domani. Negli ultimi mesi sono state tante le tensioni e le rivolte negli istituti penali, soprattutto minorili, anche a Casal del Marmo... Casal Del Marmo di Roma e il Beccaria di Milano sono forse i due istituti che sono stati più in difficoltà in questi mesi. Ho visto che, davanti alle difficoltà poste dai ragazzi, gli adulti si sono sgretolati. Secondo me, per rimettere in piedi questi istituti, prima che lavorare con i ragazzi detenuti, bisogna lavorare col personale, con gli adulti: è necessario fare squadra. Bisogna ripensare il ruolo degli educatori, a volte mi sembrano troppo dei burocrati: si fanno i colloqui 10 minuti per uno, si scrive la relazione, si fa la “domandina”. Bisogna riscoprire una dimensione di gratuità, anche nella figura educativa, che deve essere una persona che sta coi ragazzi anche semplicemente per passare del tempo con loro. Per quello che posso, cerco di dare la priorità a questo, a puntare sull’umanità, sul rapporto personale. Come riesce ad instaurare un rapporto con questi ragazzi? Il dialogo è fondamentale. Una volta che si conquista la fiducia, poi si crea un clima molto familiare e si creano dei rapporti molto belli. Vedo che noi adulti siamo un po’ smarriti, impreparati davanti a queste nuove sfide. Il carcere è la lente di ingrandimento sulla nostra vita, sulla vita di tutti. Lì vediamo in piccolo le dinamiche fuori. È un concentrato di quello che c’è all’esterno. Per me un ragazzo che entra in carcere è una sconfitta di tutti. Poi, dentro si cerca di fare un lavoro, di aiutarli a riprendere in mano le proprie vite, a capire quello che è successo. Tra gli ultimi ragazzi che sono arrivati da noi, di 15-16 anni, italiani, c’è stato un aumento di reati per una violenza gratuita, improvvisa, senza ragioni che hanno avuto fuori. E che li ha portati dentro. Ci parla delle soddisfazioni e dei fallimenti che ha vissuto in questi anni? Una delle soddisfazioni più grandi è vedere ragazzi e ragazze che si stanno ricostruendo una vita. C’è una ragazza che è arrivata sette anni fa, che si è diplomata all’interno del carcere, ha preso la maturità. Si è iscritta all’Università La Sapienza di Roma e si è laureata in psicologia del marketing. Ora ha un contratto di lavoro. Anche nei momenti più bui, si può vedere che c’è una luce. Quando i ragazzi compiono dei reati, mi rendo conto che in loro si spegne la luce. L’accompagnamento all’interno del carcere serve per accendere una luce più grande rispetto a quella che si è spenta. E i fallimenti? Più che fallimenti, c’è la fatica della percezione di dover ricominciare ogni giorno. Con i miei ragazzi non posso dire che ieri ho fatto un passo, quindi oggi ripartiamo da lì e andiamo avanti: dobbiamo ricominciare dall’inizio. A volte ci sono episodi di una fiducia che è stata tradita, però in qualche modo lo metto in conto: la fiducia gratuita che tu offri, dentro una relazione può essere tradita. Ma se non c’è questa fiducia, non c’è educazione. Ogni giorno porta una possibilità nuova: mi dà tanta gioia, tanta forza. Se ieri la porta era chiusa, oggi può esserci un piccolo spiraglio: con questo spirito affronto le difficoltà in carcere. Poi è chiaro che è una semina a perdere, i risultati immediati non ci sono. Io devo preoccuparmi di seminare dentro il cuore di un ragazzo un seme buono. Se poi porterà un frutto, questo non dipenderà da me. Ci sono ragazzi che rimangono in contatto con lei, dopo essere usciti dal carcere? Sì, ci sono. Qualche giorno fa ho ritrovato delle lettere che avevo ricevuto anni fa, scritte da ragazzi molto duri, incattiviti con la vita. Rileggevo delle frasi, come: “Pensavo che tu eri come tutti, per quello inizialmente avevo questo atteggiamento aggressivo, ma poi mi sono ricreduto sul fatto che c’è qualcuno che mi vuole bene”. Sono parole che ti riempiono il cuore e ti fanno andare avanti. Lavorare sul fuori è molto importante, stiamo lavorando ad un progetto proprio per questo. Quale progetto? In collaborazione con la Diocesi di Roma, realizzeremo un centro a Primavalle, un punto di aggregazione per gli adolescenti del territorio. Penso che, nel mare della solitudine in cui i ragazzi vivono, sia importante poter avere una casa dove venire ed essere aiutati. Spero che si possa inaugurare entro il 21 ottobre dell’anno prossimo perché sarà dedicato a don Pino Puglisi. Bologna. In piazza per le carceri: Comune e Ordine degli avvocati chiamano alla mobilitazione Corriere di Bologna, 9 novembre 2024 Si terrà il 15: “Roma agisca”. “Sensibilizzare la cittadinanza e chiedere al governo di adottare misure urgenti e di ritirare provvedimenti che stanno aggravando la condizione delle carceri in Italia”. È l’obiettivo, decisamente ambizioso, di una manifestazione pubblica in cantiere a Bologna per il 30 novembre: a promuovere l’iniziativa è il Comune, raccogliendo una sollecitazione partita dall’Ordine degli avvocati. Dell’evento si discuterà in un incontro convocato per il 15 novembre al Katia Bertasi: l’occasione “per conoscere, condividere e aderire a una manifestazione cittadina sulle carceri che come Comune intendiamo promuovere il 30 novembre alle 10.30 in piazza Lucio Dalla”, si legge nell’invito che sta circolando in questi giorni tra le associazioni e le realtà che in città si interessano dei temi legati al carcere. “Crediamo nell’importanza di favorire una mobilitazione civile per difendere i principi costituzionali della pena e i diritti umani delle persone che oggi sono drammaticamente a rischio”, continua la comunicazione firmata dall’assessore al Welfare, Luca Rizzo Nervo, dalla consigliera comunale Antonella Di Pietro (Pd) e da Rita Monticelli, delegata del sindaco Matteo Lepore per i diritti. “C’è una grande emergenza nelle carceri in Italia - prosegue l’invito - e a dirlo sono i numeri: 78 suicidi dall’inizio del 2024, un trend destinato a crescere. Mancano risorse per affrontare i sempre più gravi disagi e il malessere che è sempre più in aumento. Gli stessi tagli e i decreti adottati incentivano contesti disumani e tragici”. Per questo, “riteniamo necessario avviare a Bologna un percorso che possa dare vita alla creazione di una rete di città per la riforma del sistema penitenziario”. “Troppo spesso la tendenza è quella di associare alla pena la punizione ed è ancora più grave quando tale associazione viene promossa nelle sedi istituzionali”, si legge ancora nella comunicazione. Emerge “una deriva securitaria e oscurantista”, scrivono ancora Rizzo Nervo, Di Pietro e Monticelli ringraziando l’Ordine degli avvocati “per aver suggerito questa iniziativa”. Dall’11 al 15 novembre, intanto, in Tribunale si svolgerà una raccolta di indumenti per i detenuti della Dozza e del carcere minorile del Pratello: l’iniziativa è organizzata da Ordine degli avvocati, Giunta distrettuale dell’Associazione nazionale magistrati, Camera penale, Associazione italiana giovani avvocati e Associazione volontari per il carcere. “Non può esserci giustizia senza dignità. Lo stato dei nostri penitenziari ci mostra una fotografia sconfortante, in cui non è garantita la dignità dei detenuti e l’umanità della pena”, scrivono i promotori. Si tratta di “un piccolo gesto di solidarietà che però può essere un grande aiuto per chi si trova in condizioni particolarmente difficili”, sottolinea Ettore Grenci, referente della commissione Diritti umani dell’Ordine degli avvocati. Gli abiti da donare dovranno essere nuovi, “con preferenza per abbigliamento intimo invernale”. Catania. Prison of Peace, il corso per migliorare la convivenza nelle carceri meridionews.it, 9 novembre 2024 Il 6 novembre scorso alle ore 18.30 presso l’auditorium Mario De Mauro dell’Istituto Francesco Ventorino, si è tenuta la presentazione del corso Prison of Peace organizzato dalla Fondazione Francesco Ventorino in collaborazione con Libra Ets ed il Centro Servizi per il Volontariato Etneo. Come evidenziato da Arianna Fezzardi, psicologa e responsabile dell’associazione LIBRA di Mantova, e da Dimitra Gavriil, giurista e mediatrice, responsabile del progetto Prison of Peace per l’Europa, il corso, le cui lezioni si stanno tenendo sino all’8 novembre presso la sede della Fondazione Ventorino, ha lo scopo di insegnare metodi non violenti di risoluzione dei conflitti per migliorare la convivenza tra detenuti e gli operatori penitenziari. Ciò attraverso la pratica e gli esercizi di ascolto attivo, al fine di affinare le competenze relazionali dei partecipanti, la capacità di problem solving, per abbassare la tensione di relazione, gestire le emozioni forti, fino a diventare quella terza parte neutra in grado di supportare due o più persone in conflitto tra loro a trovare una soluzione ai possibili contrasti che possono nascere anche dentro le mure del carcere. Appare sempre più evidente che il sistema giudiziario e delle carceri in particolare non riesce più ad assicurare il pieno rispetto dei diritti sanciti anche per i detenuti dall’articolo 27 della Costituzione (le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato), men che mai si riesce ad abbassare la recidiva, che ha raggiunto ormai percentuali elevatissime, fino a sfiorare l’80 per cento. L’esperienza di Prison of Peace, che nasce in California su iniziativa di alcune detenute, ha dimostrato invece che, per coloro che hanno partecipato al corso, la percentuale di recidiva si azzera quasi totalmente. Prison of Peace si inserisce nell’ambito dei programmi di giustizia riparativa, che la Fondazione Ventorino sostiene come possibilità di gestione dei conflitti derivanti dai reati, oltre che come tentativo di dare un’altra possibilità al detenuto. L’attuale sistema penale infatti, pur con il ricorso agli strumenti alternativi alla detenzione, non risolve alla radice il problema dell’incontro fra la vittima e colui che ha commesso il reato in quanto chi ha subito un reato resta comunque fuori o comunque marginalizzato dalla possibilità di ricomposizione libera e volontaria della frattura creatasi. La Fondazione Francesco Ventorino, oltre a gestire la scuola paritaria dove si svolgerà l’incontro, gestisce anche a titolo gratuito la scuola per l’infanzia (Mammola) a San Giovanni Galerno, che rischiava di chiudere per l’assenza di fondi da parte del Comune di Catania e la casa di accoglienza sita a Motta Sant’Anastasia intitolata al beato Rosario Livatino, che ospita diversi detenuti che possono usufruire degli arresti domiciliari, ma che per varie ragioni (assenza di una propria abitazione, impossibilità di usufruire di tale pena alternativa in quanto la propria casa coincide con il luogo dov’è stato commesso il reato) non possono utilizzare tale strumento. Tutte le opere di solidarietà gestite dalla Fondazione sono finanziate con risorse proprie o tramite il ricorso al fundraising. Alla presentazione del corso erano presenti fra gli altri il responsabile per la pastorale per le carceri dell’Arcidiocesi di Catania, Alfio Pennisi, il presidente della Fondazione Francesco Ventorino, Michele Scacciante ed il vice presidente, Dario Sortino, il presidente dell’Ordine degli avvocati, Antonino Di Stefano ed il Presidente dell’associazione di promozione sociale Difesa e Giustizia, avvocato Massimo Ferrante. Palermo. “Dal penale al sociale”: dibattito all’Epyc a partire dal Libro bianco sulle droghe blogsicilia.it, 9 novembre 2024 “La droga è il business più remunerativo della criminalità organizzata ma quello delle droghe è un tema che deve essere affrontato a 360 gradi: traffico, mafia, prevenzione, dipendenza, servizi, cura, sanità, carceri, comunità. Serve una nuova politica sulle droghe. Decarcerizzazione, depenalizzazione, legalizzazione e liberalizzazione non sono ancora dietro l’angolo nel nostro Paese. Per questo chiediamo che sul territorio, nella collaborazione tra istituzioni, servizi, terzo settore ed enti locali si possano portare aventi sperimentazioni e costruire progettualità alternative”. Lo affermano per la Cgil Palermo la segretaria Laura Di Martino, per Arci Palermo Fausto Melluso, per Antigone Sicilia Giorgio Bisagna che intervengono questo pomeriggio al dibattito “Dal Penale al Sociale” all’Epyc centre, alla presenza di magistrati, esponenti delle istituzioni, da Comune a Università. Scopo del confronto, discutere anche a Palermo delle cosiddette pene alternative al carcere per i detenuti cosiddetti “tossicodipendenti” e sollecitare da parte delle istituzioni un servizio socio sanitario integrato e azioni a sostegno di chi ha una dipendenza da sostanze e alle famiglie. L’iniziativa, organizzata da Cgil Palermo, Arci Palermo e Antigone Sicilia intende avviare, partendo dall’analisi del XV Libro bianco sulle droghe, presentato oggi a Palermo per l’occasione, una discussione per individuare le priorità e le azioni necessarie e urgenti in città. Concluderà il dibattito, la responsabile nazionale dipendenze e carceri della Cgil Denise Amerini. Gli ingressi in carcere per droga tornano a salire: secondo i dati del Libro Bianco 2024, dei 40.661 ingressi in carcere nel 2023, 10.697 sono stati causati da detenzione a fini di spaccio. Si tratta del 26,3 per cento degli ingressi (era il 26, 1 per cento nel 2022). E in generale, il 34 per cento dei detenuti è in carcere per la legge sulle droghe (il doppio della media europea 18 per cento). I dati ufficiali ci dicono di una popolazione detenuta che al 30 settembre 2024 è di 61.862 presenze su una capienza regolamentare di 51196 posti. Nel libro bianco sono presenti approfondimenti per rispondere alla proposta di spostare i tossicodipendenti dal carcere alle comunità chiuse. L’incontro serve anche per fare il punto sulla situazione nelle carceri di Palermo. “Sembra che di fronte al sovraffollamento delle carceri l’unica risposta del governo è inasprire le pene e pensare al massimo a una nuova forma di esternalizzazione della custodia dei tossicodipendenti, le comunità, di cui vorremmo conoscere le finalità - aggiungono Di Martino, Melluso e Bisagna - Servono strutture adeguate perché le alternative al carcere per le persone che usano droghe sono possibili, senza far diventare le comunità delle carceri private”. Durante il dibattito, al centro dell’attenzione anche la legge approvata all’Ars “dalla dipendenza all’interdipendenza”, frutto di un lavoro collettivo e partecipativo di realtà di base. “Una legge unica in Italia per i contenuti e i linguaggi usati, che escono dallo stigma e dalla criminalizzazione che troppo spesso descrivono le persone e le sostanze che ne fanno uso - prosegueono Cgil, Arci e Antigone - Importante è aver finalmente previsto servizi come le unità di strada, i drop in, il drug checking,. Fondamentali sono state le manifestazioni cittadine, il grido d’allarme del cardinale Lorefice e la lotta di Francesco Zavatteri. I soldi stanziati sono un primo passo. L’integrazione sanitaria continua a non esistere nella nostra regione Abbiamo finalmente una legge che però deve essere attuata”. Infine, il tema della diffusione di una cultura del lavoro all’interno delle carceri, che per la Cgil, Arci e Antigone deve essere riconosciuto, tutelato e retribuito. “Oggi - continuano - meno del 20 per cento dei detenuti presenti nelle carceri lavora, per poche ore al giorno o al mese, spesso per compiti necessari alla gestione degli istituti. Troppo pochi. Anche a Palermo abbiamo qualche esempio di buono”. Roma. Dap-Fondazione Lazio, accordo per promuovere sport nelle carceri ansa.it, 9 novembre 2024 L’intesa punta a coinvolgere detenuti in attività sportive. Coinvolgere i detenuti in un percorso di carattere sportivo e formativo per migliorare la socializzazione negli istituti. È questo l’obiettivo dell’intesa stretta tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e la Fondazione S. S.Lazio 1900, sottoscritto a Formello dal capo del Dap, Giovanni Russo, e Cristina Mezzaroma, presidente della Fondazione S.S Lazio 1900. L’intesa prevede una serie di attività negli istituti penitenziari del Lazio, coinvolgendo atleti, ex atleti ed esponenti della polizia penitenziaria insieme a professionisti appartenenti a staff tecnici messi a disposizione dalla società. “Lo sport, insieme al lavoro - afferma Russo - costituisce la più importante leva per favorire la rieducazione e il reinserimento del detenuto nella società. Abbiamo sottoscritto numerosi accordi finalizzati alla promozione dell’attività sportiva e motoria in generale, sia alla diffusione fra la popolazione reclusa dei principi che sottendono alla cultura sportiva. Ringrazio la Lazio per aver voluto condividere i nostri stessi obiettivi”. Il programma punta a incidere sulla socializzazione negli istituti, oltre a fornire le giuste motivazioni per la risocializzazione una volta usciti dal carcere. Soddisfatta anche Mezzaroma, che si è detta “onorata di aver sottoscritto questa collaborazione. Sentiamo la responsabilità di dover essere all’altezza del progetto, visto che è la prima volta che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria volge lo sguardo verso una società sportiva o una fondazione legata ad essa. Siamo consapevoli di poter svolgere al meglio il nostro compito, in quanto la fondazione, con le sue sezioni, e Lazio calcio in particolare, sono da sempre in prima linea nella formazione, educazione e trasmissione dei valori umani, come il rispetto, da sempre rappresentati dai colori biancocelesti”. La logica del nemico divora anche il giornalismo di Massimo Donini L’Unità, 9 novembre 2024 L’eterno scontro tra la politica e la magistratura, quello sui vaccini, fino alle guerre in Ucraina e in Medio Oriente: la stampa filogovernativa deve saper governare le strumentalizzazioni e i conflitti ingaggiati anche da rappresentanti delle istituzioni. Sono diversi i contesti della democrazia populista, di quella maggioritaria e della democrazia costituzionale. Tutti e tre coinvolti dal tema che affrontiamo. Il termine democrazia populista è qui utilizzato in senso neutro, secondo la scienza della politica, non in quello negativo che utilizziamo parlando invece del populismo penale o di quello giudiziario come religione di massa. Sono due profili collegati ma distinti (cfr. sul primo Donini, Populismo e ragione pubblica, Mucchi, 2019; sul secondo Id., Populismo penale e ruolo del giurista, Sistema penale 7.9.2020). Infatti, il contesto del giornalismo in generale, anche di sinistra, è obiettivamente quello della democrazia populista in una accezione che vede l’estensione dei temi della Costituzione, della tecnica del diritto e dei diritti, nello spazio pubblico di destinatari potenzialmente molto allargati, preparando un discorso evocabile anche in un eventuale talk show. È populista il discorso sui diritti non solo (negativamente) se si appella alla maggioranza o alla sua rappresentatività nella figura del leader, impiegando argomenti per una massa di ascoltatori-lettori plaudenti a brevi input assertivi fondati su emotività ed effetti speciali, abbacinati mediante una sacralizzazione maggioritaria del potere; ma è populista anche (più positivamente) il messaggio che ha come interlocutrice quella stessa platea, alla quale vengono invece esibiti altri argomenti di contrasto che veicolano i valori dei diritti costituzionali e sovralegislativi: creando così lo spazio dialettico per un populismo non meramente maggioritario all’interno di quest’ultimo. Il che è oggi reso più comprensibile a tutti per il fatto che la maggioranza politico-elettorale è numericamente una minoranza, e non può certo vantare basi sacrali di legittimazione. Ciò premesso, il giornalismo costituisce in modo direi naturale il background, la base culturale e lessicale di tutti e tre quei livelli, se si vuole che anche la democrazia costituzionale raggiunga l’estensione di quella maggioritaria e di quella populista nello spazio pubblico. Per il resto, mi limito a definire maggioritaria la democrazia basata sul consenso, più che sui vincoli giusrazionali e normativi imposti al Parlamento da fonti sovralegislative; costituzionale la democrazia che si richiama ai vincoli alla stessa legislazione, a ciò che è sottratto a decisioni puramente maggioritarie e trova deposito nei testi costituzionali ed equiparati, pertanto anche dell’Unione europea e di fonti sovranazionali; mentre è populista la democrazia che muove dalla crisi di rappresentatività delle democrazie nel mondo e si appella direttamente al consenso non solo elettorale, ma anche esterno alle competizioni politiche formali, per orientare l’opinione pubblica attraverso strumenti e veicoli di comunicazione estranei alle discipline scientifiche o accademiche, o lessicalmente da quelle divergenti, ma capaci di catturare attenzione e partecipazione di soggetti che sono o potranno diventare elettori o anche soltanto sostenitori di una parte politica. La parte metodologica di questa riflessione finisce qui. Affrontiamo ora quella dei contenuti. Il primo punto riguarda il senso della politica come luogo del bene pubblico, della ricerca di un bene comune, non della perenne lotta tra amici e nemici. La logica amico-nemico come “essenza” della politica, notoriamente descritta in un famoso scritto di Carl Schmitt, può affascinare sul piano descrittivo, ma non deve diventare una pratica deontologica dell’azione. Anche la sua quotidiana emersione nei discorsi e nel vissuto della leader di Governo appare spesso una pratica subìta e sofferta, ma non certo espressione di una visione cristiana (v. Tommaso D’Aquino, J. Maritain e il bene comune, esteso alle moltitudini, e non solo ai cives), e neppure istituzionale (v. il costituzionalismo moderno) della politica, che è terreno di protezione dei diritti universali e non solo di cittadinanza. L’esaltazione, oggi sempre ricorrente, del sistema maggioritario come luogo della perenne contrapposizione tra poli, se diventasse l’adesione a una filosofia à la Schmitt, dovrebbe essere solo per questo rifiutata. Non può connotare un governo, che è organo anche co-legislativo che coopera con il Parlamento in questa funzione istituzionale. Anche una concezione marxista o gramsciana della politica, anche la lotta di classe, o la lotta tout court, depurata di momento) e magistratura è un corollario di quanto appena detto. Non si è mai visto che ministri o capi del governo iniziassero un conflitto generalizzato contro singoli atti giurisdizionali che non fanno altro che ripetere la standard view di centinaia di provvedimenti analoghi sul possibile contrasto tra un atto legislativo e il diritto dell’Ue, chiedendo una decisione della Cgue attraverso un rinvio pregiudiziale ex art. 267 Tfue e che lo facessero attraverso una personalizzazione polemica contro singoli magistrati. Hai visto mai? È la regola, è normale quel ricorso, non è né di sinistra né di destra. E non diventa di sinistra perché nella situazione concreta l’istituzione governativa ha prodotto la legge a sostegno di una sua politica. È sempre così quando si chiede una sentenza alla Corte di giustizia: la personalizzazione delle leggi appartiene alla logica amico-nemico e la sua appropriazione da parte di alcuni partiti schierati (o eventualmente di qualche componente della magistratura) contro gli altri rispecchia una patologia di sistema. Il giornalismo deve sapere governare queste strumentalizzazioni, offrendo una diversa cultura delle istituzioni. Lo chiediamo ai giornalisti filogovernativi. È una mission del giornalismo. Quanto è successo nella vicenda dell’abrogazione del falso in bilancio (orientata contro i processi, più che contro gli illeciti) e ora nelle reazioni innescate dalla questione Albania, può essere descritto correttamente solo distinguendo tra una democrazia costituzionale e maggioritaria e una democrazia populista. Anche un quotidiano come il Corriere della sera comincia a percepire che l’azione di governo contro la magistratura “comunista”, ora che quell’azione trova l’opposizione critica anche dell’avvocatura, appare divenuta una strategia e non una risposta comprensibile a una patologia dei giudici (M. Franco, “Se lo scontro sulla giustizia diventa una strategia”, 5.11.24, p. 21). Lo stesso vale per l’interminabile querelle sulla separazione delle carriere, che non deve costruire una immagine della magistratura come nemico delle istituzioni. I giornali vendono polemiche perché non fanno cultura. Tutti esperti di tutto, la democrazia penale ha divorato le competenze, in nome di una gestione populistica del consenso, che non è amico di quella verità che il giornalismo deve difendere. Al lessico condiviso, invece, deve appartenere la distinzione tra le conseguenze politiche di un provvedimento, e la base normativa che lo sostiene legittimamente. Il sindacato politico delle decisioni arroventa il clima in modo strumentale, facendo della magistratura il possibile terreno di simonie politiche: uno dei peccati più gravi è quello di vendere la Giustizia a un prezzario stabilito fuori di essa e capace di desacralizzare tutto il suo contesto. È vero che in una visione laica la giustizia può essere, fin dalla base costitutiva dello Stato, dal patto sociale, contrattualizzata. Ma quando la Giustizia è solo ormai merce di scambio delle logiche bellicose dei partiti armati l’un contro l’altro, anche la designazione di giudici costituzionali può diventare commercio e la lettura delle loro decisioni ossequio ai loro mandanti. Sarebbe la fine del diritto costituzionale e di quel poco o tanto di sacrale che la Carta fondamentale, anche la lex e soprattutto il ius, deve e può conservare solo in un quadro super partes. Il giornalismo ha il dovere di preservare questi fondamentali. Il retroterra culturale diffuso, invece, che ha cominciato a vacillare con il Covid e l’intolleranza per ogni riserva critica su vaccini, gestione delle informazioni e limitazioni dei diritti fondamentali, è esploso in una chiamata collettiva al consenso e all’intolleranza con le guerre nelle quali siamo coinvolti direttamente. La logica del nemico ha prevalso su tutto. Abbandonando quella dei diritti fondamentali. Qui ci avviciniamo al nocciolo di tutto il discorso. Sono grandi le responsabilità del giornalismo. Bellicisti e realisti vs. pacifisti e idealisti, è una battaglia persa per i secondi. Ma c’è un tema che supera ogni contrapposizione, che avvince ogni azione politica, partitica e statale. La tutela dei diritti fondamentali, base del costituzionalismo e del diritto dell’Occidente, è un vincolo per la politica internazionale. Ci deve essere passione nel suo sostegno, non tiepidezza. Alcuni di noi hanno rievocato Kant e il saggio Per la pace perpetua quale momento topico dell’idea di una giurisdizione universale, oggi base della Corte dell’Aia. Non è una panpenalizzazione della politica. È una prevenzione generale contro la logica dello sterminio e non solo del genocidio, reato difficile sempre preso a pretesto per buttare tutto alle ortiche, quando ce ne sono moltissimi altri di crimini contro l’umanità. Al lessico comune deve appartenere il rispetto e la passione per la protezione delle moltitudini, e non solo delle cittadinanze quale limite al diritto di guerra attraverso il diritto umanitario. E infine, but not least, una questione millenaria relativa alle prassi politiche israeliane (una storia di stermini, dal tempo degli Assiri in poi). Da quando, negli anni ‘70 del Novecento, si è diffusa l’idea che dire antisraeliano doveva significare antisemita, i linguaggi e le menti si sono confusi. È divenuto un verbo occidentale, ma dopo il 7 ottobre 2023 e la guerra illimitata di Netanyahu non è più possibile mantenere quel precetto dell’intolleranza. Deve ritornare nel lessico condiviso l’idea che non si è antisemiti se si critica e rifiuta una politica israeliana lesiva dei diritti fondamentali. Fatto oggi riconosciuto da tutti nel mondo. Da queste poche premesse può iniziare la leggibilità dei giornali, un’impresa per molti di noi quasi impossibile da tre anni: perché è l’ABC, dal quale possiamo partire per dividerci a destra e a sinistra, quando è davvero necessario coltivare il conflitto per raggiungere il bene comune e non una vittoria elettorale. Lo sketch dell’ambulante, che dà i numeri sul bilancio statale agitando la calcolatrice per ostentare sicurezza, si è rivelato un fiasco per nulla divertente. “Ho fatto un casino”, ha ammesso la stessa Meloni, che con il primato della politica pensava di poter scalfire finanche il sacro legame tra il minuendo e il sottraendo. Le cifre riluttanti non hanno obbedito alla sua voce squillante mentre ordinava alla macchina di compiere una operazione irrazionale. La premier, maltrattando l’aritmetica, lascia precipitare nel grottesco anche il governo, nonostante il vaniloquio di avere incamerato i migliori risultati “dai tempi di Garibaldi”. A due anni dalla marcetta che da Colle Oppio l’ha condotta a Piazza Colonna, non è affatto lievitata la statura politica di Giorgia Meloni. Una diffusa narrazione edificante la celebra come una fuoriclasse che solamente il perfido destino costringe a convivere con una sciatta classe dirigente. Oltre alle reti amicali e coniugali, la Fiamma, che famelica la segue nelle stanze romane con il mandato di acciuffare l’egemonia culturale, in effetti recluta l’élite soprattutto attraverso le “Frattocchie dei patrioti”, ovvero il programma Otto e mezzo, che ha imposto nello spazio pubblico maître à penser e grand commis del calibro di Sechi, Giuli, Bocchino, Specchia. Che il personale politico raccattato sia di poco pregio, e non garantisca neppure l’amministrazione corrente degli enti o l’imbastitura di una qualche opinione rispettabile, non significa che si possa abbuonare la responsabilità fondamentale che ricade sulla leadership. E’ proprio l’apice della nomenclatura a non possedere gli strumenti minimali per esperire degnamente la direzione statale. La leggenda raccontata in maniera compulsiva da Paolo Mieli e Antonio Padellaro, secondo cui bisogna appoggiare la “madre e cristiana” in quanto è lei il più saldo argine alla deriva verso l’estremismo, altera il principio di realtà. La destra, con una sfilza di reduci in carriera, è animata solo dall’ambizione di completare la conquista militare delle postazioni di comando per strapazzare gli equilibri dei poteri repubblicani. I limiti della concreta capacità di governo appaiono eclatanti davanti al flop degli sforzi, invero nemmeno abbozzati, per il recupero di competitività dell’apparato economico poiché, in luogo della innovazione sia pure di marca conservatrice, nelle singole misure i nero-verdi perseguono la mancia architettata al fine unico di accontentare le variegate corporazioni a rimorchio. Non la crescita, indispensabile per sopravvivere dopo il trentennio di stagnazione, ma l’impennata delle fattispecie di reato viene inseguita da Palazzo Chigi come la tattica più redditizia per il reperimento del consenso. Il carcere promesso con la escogitazione di fantasiosi crimini quotidiani nasconde il vuoto nello svolgimento della funzione pubblica in un sistema-Paese scivolato via via nella bassa classifica del nuovo capitalismo. La marginalizzazione nell’economia-mondo e la vistosa eclissi della grande impresa non allarmano l’inconcludente timoniera perché comunque i piccoli guadagni non latitano, e con la ossessiva caccia al migrante si aprono sentieri di fuga dalle taroccate ricette della Melonomics. La propaganda delle percentuali impetuose che farebbero dell’Italietta la locomotiva dell’Occidente, la favola dei record occupazionali raggiunti non resistono agli impietosi indici che mostrano il freno del Pil e le macroscopiche condizioni di sofferenza in diverse fette della società. E così, a causa di questa frana nelle politiche, con l’overdose securitaria e le esercitazioni navali per le deportazioni in Albania, l’esecutivo riscalda il risentimento dei ceti popolari cui al contempo nega i cruciali diritti di cittadinanza (sanità, scuola, pensioni, trasporti). Colpisce la copertura assicurata purchessia dai poteri forti all’attuale maggioranza, custode della rapacità di una struttura micro-corporativa che fa del sommerso la variabile indipendente. Anche l’Assemblea di Confindustria è stata sedotta dalla destra radicale che prenota una battaglia ideologica campale contro il Green Deal. Il cosiddetto gotha dell’economia, della finanza e dei media già aveva accolto in modo trionfale la solita (cioè inconsistente) esibizione di Meloni a Cernobbio. A scuoterlo non bastano neanche il collasso degli investimenti, lo spreco delle scarse risorse nel rientro dei capitali all’estero e in continue sanatorie, il ritiro dello Stato dal welfare con le aziende che lucrano sulle case di cura, il congelamento degli stipendi che arrancano dietro una inflazione che alleggerisce il carrello della spesa. Con la politica economica dei concordati preventivi e dei condoni fiscali a raffica, solleticando gli animal spirit davvero incontrollabili, il governo unisce tutte le categorie professionali in opposizione agli interessi del lavoro dipendente e della crescita. Per mantenere il sostegno particolaristico, rinuncia a gestire le dinamiche industriali in conformità a un piano di più lungo periodo. Incassare qualcosa dal turismo povero, favorire gli affitti brevi, blandire i balneari rappresentano rimedi che non stimolano lo sviluppo, il quale esigerebbe piuttosto lo smantellamento della coalizione micro-padronale che invoca ricavi facili nel declino del meccanismo produttivo. Al sindacato, che reclama incrementi in busta paga - e non semplici tagli delle aliquote a carico della collettività - e proclama lo sciopero generale in replica alla manovra, Repubblica intima di far cessare le “inutili” ostilità. Finché per sinistra si intende un chiacchiericcio sulla questione morale e una certa attenzione alle sole libertà civili, tutto fila liscio. Appena però in nome del salario si intaccano i colossali interessi costituiti attorno al profitto, ecco che la stampa “amica” appicca il fuoco di sbarramento. Come diceva Marx, “oggi perfino l’ateismo è culpa levis, in confronto alla critica dei rapporti tradizionali di proprietà”. Il radicalismo sui valori è percepito dalle sentinelle del mercato tutt’al più come un peccato emendabile, imperdonabile rimane invece il sospetto che accompagna ogni pratica di contestazione ancora connessa alla messa in discussione delle regole auree dell’accumulazione (già Machiavelli rammentava gli scontri aspri che scaturirono dall’ipotesi di creare un catasto per la registrazione degli averi). Dinanzi ai reiterati fallimenti di governo, il vincolo esterno ciclicamente si ridesta e le istituzioni sono indotte ad apparecchiare il tavolo per il podestà forestiero. Più che la falsa attesa rigeneratrice di una ennesima sospensione tecnica, la sinistra dovrebbe costruire un’alternativa politica e sociale. Sui nodi strategici della transizione ecologica e digitale, che il padronato filogovernativo al pari di Meloni considera il frutto di un “approccio autodistruttivo”, è possibile prospettare imponenti interventi pubblici per rilanciare gli investimenti e riprendersi dai guasti dell’infinito ristagno. Per una svolta di sistema occorre infatti la politica, non una “casinista” a digiuno di economia che straparla di faccende sconosciute e brandisce la calcolatrice come in una vecchia scena di Carlo Verdone. Quel bombardamento mediatico che colpisce chi per mestiere si occupa degli ultimi di Ilario Nasso* L’Unità, 9 novembre 2024 Chiedereste al chirurgo, in sala operatoria, per quale squadra tifi? Interroghereste sulla pancetta o il guanciale nella carbonara il pilota del vostro aereo, decidendo di conseguenza se rimanere a bordo? Rinuncereste a essere tratti in salvo da un’alluvione, se il soccorritore non fosse eterosessuale? Di chi incrociamo in fasi particolari della vita ci dovrebbe interessare la professionalità, l’intelligenza, la serietà: non l’intimità. Ecco perché fare confusione di piani - fra servizio reso alla collettività e sfera soggettiva dell’incaricato - non è solamente illecito: è innanzitutto stupido. Qualora, poi, lo spiattellamento in pubblico del vissuto, delle relazioni, delle idee di una persona si faccia metodico, gratuito, unilaterale, dietro non c’è solo idiozia, ma strategia. E quando quella persona esercita la funzione pubblica di magistrato lo scopo diventa chiaro: negare al malcapitato il ruolo che pure riveste legittimamente fra le istituzioni, per additarlo a chiunque come sbagliato e incapace. Pertanto, lo squallore mediatico cui stiamo nuovamente assistendo - con giudici scandagliati negli affetti, profilati nelle opinioni, schedati nei trascorsi lavorativi, dileggiati nelle scelte di vita, mostrificati nella rappresentazione del lavoro quotidiano - non costituisce (soltanto) diffamazione o squadrismo, ma un’istigazione (nemmeno tanto sottile) alla guerra civile: ingaggiata da esponenti del “quarto potere” (giornalistico) nei confronti di quello giudiziario, con l’induzione o il tornaconto di detentori del potere politico. Mentre la critica tecnica di una pronuncia giudiziaria è sempre utile, essa getta la maschera e rivela la propria vocazione appena assume le sembianze di scorribanda velenosa e insultante nella vita privata e nelle convinzioni del decisore. Il trasferimento istantaneo del discorso dall’atto (in questo caso giudiziario) al suo autore è pura reazione: ossia il notorio miscuglio di mancanza di argomentazione, ferocia dei toni, manganellate verbali, e - in definitiva - orrore per l’altro. E proprio qui si chiude il cerchio. Il bombardamento colpisce chi - per mestiere - si occupa degli ultimi: profughi, minoranze, non abbienti. È la coltivazione - con la stampa brandita come arma impropria - di un’idea di società in cui l’affermazione del primato del diritto (nel caso singolo) è oltraggio alla nazione, e non piuttosto sincero patriottismo costituzionale. Il metodo di questa operazione di sconquasso è spacciare la giustizia italiana per una corte... dei miracoli. Il fatto esaminato e il diritto applicato non interessano: conta esclusivamente insinuare che a giudicare sia stato (o sarà) uno svitato, un difettoso, un barricadiero. Torna imprescindibile, allora, ristabilire i fondamentali. Una sentenza - tra confronto processuale, motivazione obbligatoria, impugnazioni successive - è l’espressione di autorità più controllabile e rivedibile che esista. Il giudice non è un burocrate né un emissario di palazzo. Una giustizia ridotta a ratifica di desideri governativi è stravolgimento costituzionale. Ancora: la giurisdizione è compimento motivato di scelte. È tutela - spesso l’ultima invocabile, oppure l’unica accessibile... agli ultimi - dalla prepotenza e dall’arbitrio. È, quindi, riaffermazione - ragionata, ma instancabile - di diritti inviolabili: se necessario, anche contro leggi - da qualsiasi maggioranza create - che provino a disconoscerli. Il vero giudice antidemocratico, allora, è il giudice supino e addomesticato ai potenti. È il giudice contiguo - ma rigorosamente in silenzio! - al governante e ai propositi di quest’ultimo. È il giudice afasico e nascosto, che sentenzia meccanicamente e acriticamente. Una comunità attenta alla qualità dello stare assieme abbia il coraggio - e oggi avverta l’urgenza civica - di difendere l’indipendenza dei propri giudici e la pienezza delle loro attribuzioni: patrimonio collettivo non per culto di autoreferenzialità, ma per precisa, universale, attualissima esigenza democratica. *Magistrato iscritto a Nessuno tocchi Caino La coraggiosa autobiografia intellettuale di Cassese invita a superare i confini disciplinari di Giorgio Caravale Il Foglio, 9 novembre 2024 Il suo libro evita il compiacimento e l’autoglorificazione e descrive attraverso la propria vicenda un pezzo di storia recente e meno recente mantenendo sempre equilibrio e distanza. Sabino Cassese, uno dei maggiori giuristi italiani viventi, ha preso il coraggio a due mani pubblicando una vera “autobiografia intellettuale” (Varcare le frontiere, Mondadori). Parlare di sé, ricostruire la propria vicenda biografica è operazione delicata, piena di insidie: occorre evitare il compiacimento e l’autoglorificazione, e raccontare attraverso la propria vicenda un pezzo di storia recente e meno recente mantenendo equilibrio e distanza. Cassese riesce a farlo molto bene in queste pagine, regalandoci uno spaccato di storia repubblicana e insieme un’equilibrata riflessione sul contributo da lui offerto ai tanti ambiti professionali nei quali si è trovato coinvolto: riflette sui temi di studio scelti e le fasi principali della sua attività di studioso, sulle letture (fatte e consigliate), i maestri, i compagni di viaggio, il metodo di insegnamento, i numerosi incarichi pubblici. Il titolo scelto non avrebbe potuto essere più azzeccato. Cassese ha abitato quotidianamente le frontiere: disciplinari, nazionali, professionali, facendo fruttuosamente dialogare la scienza giuridica con la storia e la politologia, coltivando rapporti stretti con colleghi francesi, inglesi, americani, tedeschi, costruendo ponti tra discipline diverse, sempre animato da un’appassionata cultura umanistica. E’ il miglior erede della grande tradizione italiana dei giuristi intellettuali, da Arturo Carlo Jemolo a Stefano Rodotà, studiosi ascoltati non solo nell’ambito del loro settore accademico ma dall’intera società in virtù della loro costante presenza nella vita pubblica. E di impegni pubblici al di fuori dell’accademia è costellata la vita di Cassese, dalla scuola dell’Eni di Enrico Mattei (e Giorgio Ruffolo), agli incarichi nel settore bancario, all’esperienza di ministro, a quella di membro della Corte costituzionale, passando per un’assidua e intensa collaborazione con giornali e settimanali nazionali sui più diversi temi dell’attualità: incarichi e impegni che non hanno peraltro sottratto energie alla sua attività accademica, di insegnamento e ricerca, l’hanno anzi alimentata con linfa nuova. Il suo libro è anche un duro atto di accusa nei confronti dei suoi colleghi giuristi, “gravemente disattenti nei confronti dei grandi problemi del mondo contemporaneo”, prigionieri dell’idea dell’unicità del metodo giuridico, accademici isolati che “coltivano un sapere frammentato”, incapaci di rendersi conto che i “sistemi complessi non sono riducibili alle parti che li compongono”, lanciati senza adeguata preparazione in campi sconosciuti, adusi a “filosofeggiare sul diritto più che studiarlo”. Più in generale, è un atto di accusa nei confronti del mondo universitario italiano, “lontano dal vasto mondo delle iniziative culturali”, popolato da donne e uomini intrappolati nei burocratismi, incapaci di rinnovarsi. Attirati dall’”apparenza piuttosto che dall’essenza delle cose”, essi “assistono senza capire, all’impegno esterno dei migliori propri docenti”, quando invece le università potrebbero “mobilitarne le forze per ridiventare esse stesse centri di cultura e di promozione di cultura aperti all’esterno”. Gli accademici giuristi, scrive Cassese, dovrebbero piuttosto cambiare strada impadronendosi degli strumenti della comparazione, superando i confini disciplinari e collaborando con altre competenze. Se c’è una possibilità di sviluppare saperi originali e nuovi modi di guardare le cose antiche questa risiede in un coraggio intellettuale che attualmente manca agli accademici italiani. Cassese non risparmia giudizi taglienti anche nei confronti della Corte costituzionale, un organo dove ha servito per nove anni rinunciando, con malcelata sofferenza, a “esprimersi sui problemi contemporanei del suo paese”. Un organismo avvolto da una segretezza che spesso confina con l’oscurità, del quale Cassese ha già messo a nudo i meccanismi grazie a un ricchissimo diario di lavoro pubblicato qualche anno fa dal Mulino. Ebbene, la Corte emerge dalla sua ricostruzione come un’istituzione poco coraggiosa, spesso adusa ad adagiarsi sulle inammissibilità, ovvero sulle troppe decisioni di non decidere (“una domanda frequente tra i giudici è ‘come ne usciamo?’ anziché ‘come decidiamo?’”). Anche in questo caso successi e fallimenti, raccontati con immediatezza. Così come ricostruisce con grande onestà la sua esperienza di ministro della Funzione pubblica nel governo Ciampi (1993-94), descrivendo puntualmente le resistenze incontrate dalla sua azione riformatrice. Tutti da gustare, infine, gli ultimi capitoli, pieni di lucide, a tratti impietose ma mai pessimistiche riflessioni sull’Italia di oggi e di domani. Non è mio padre. Storie di orfani due volte di Alice Dominese L’Espresso, 9 novembre 2024 Olga è stata uccisa dal marito. Il figlio Giuseppe Delmonte non l’ha più voluto incontrare. Ora, con la sua associazione, aiuta altri ragazzi e ragazze che sono vittime di una doppia violenza. Quando Giuseppe Delmonte è rimasto orfano era il 1997 e lui aveva 18 anni. Sua madre Olga è stata uccisa nella provincia di Varese dall’ex marito, dopo cinque anni di stalking. Il padre di Giuseppe da allora è in carcere. “Io e i miei fratelli - dice lui - eravamo soli e attorno a noi c’era il nulla. Non esisteva nemmeno il termine femminicidio. Come orfani non abbiamo ricevuto nessun aiuto dallo Stato e per vent’anni non ho più parlato di quello che è successo”. Poi l’incontro con uno psicoterapeuta che lo ha aiutato ad affrontare il trauma. “Sono andato in carcere da mio padre e non l’ho trovato diverso: continuava a giustificare ciò che aveva fatto perché mia madre lo stava lasciando. Da allora non l’ho mai più voluto vedere”, prosegue Delmonte. Mentre racconta la sua storia, nella sua voce non c’è esitazione. Quando inizia a parlare degli studenti che incontra nelle scuole durante le sue attività di sensibilizzazione, però, si emoziona: “Non posso raccontare tutte le violenze fisiche e psicologiche che mia madre e io abbiamo subìto da parte di mio padre, perché sono inaudite, ma quando porto la mia testimonianza nelle aule non vola una mosca. Tanti ragazzi e ragazze dopo gli incontri mi cercano e si confidano raccontando che anche la loro madre viene picchiata e non riesce a denunciare”. Ad aprile 2024 Delmonte ha fondato “Olga”, un’associazione che coinvolge psicologi, avvocati e forze dell’ordine proponendo attività di prevenzione e formazione nelle scuole contro la violenza di genere. A condurre iniziative di questo tipo in Italia è anche la rete di associazioni coordinata dall’impresa sociale “Con i Bambini”. Da alcuni anni ha intercettato il vuoto attorno agli orfani di femminicidio e li affianca offrendo sostegno psicologico, legale ed economico. Nel 2018 l’Italia è stato il primo Paese in Europa ad adottare una legge appositamente dedicata a loro. La normativa, che “tutela gli orfani a causa di crimini domestici”, offre loro la possibilità di cambiare cognome, di ricevere la pensione di reversibilità e l’eredità della madre, che prima di questa legge spettavano all’uomo che l’aveva uccisa. Sono previsti, inoltre, l’accesso a borse di studio e un indennizzo per le famiglie affidatarie pari a 300 euro al mese. Nonostante queste disposizioni, attualmente non esiste un censimento ufficiale degli orfani di femminicidio e i servizi sociali faticano ad assisterli nel lungo periodo. I dati disponibili sono parziali e relativi ai minori che la rete di associazioni è riuscita a individuare in questi anni di ricerca sul campo, spiega Simona Rotondi, referente di “Con i Bambini”. A giugno 2024 gli orfani under 21 individuati erano 417, ma in questo conteggio resta sommersa la maggior parte dei cosiddetti orfani storici, mai raggiunti dai servizi sociali e dal terzo settore. In 50 dei 70 casi esaminati, gli orfani hanno assistito alla violenza fisica, psicologica e sessuale subita dalla madre e il 36 per cento era presente al momento del suo omicidio. Questi abusi, che rendono gli orfani vittime di violenza assistita, avrebbero potuto essere dei campanelli di allarme. Tuttavia, secondo la relazione dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, in due terzi dei casi il nucleo familiare non era seguito né noto ai servizi sociali del territorio prima del femminicidio. Secondo l’analisi di “Con i Bambini”, il 42 per cento degli orfani oggi vive in una famiglia affidataria, il 10 per cento in comunità e un altro 10 per cento con una coppia convivente. Solo il 5 per cento è stato dato in adozione. Poco più della metà delle famiglie affidatarie ha ricevuto un aiuto economico da parte dell’ente pubblico, ma l’83 per cento di loro arriva comunque a fine mese con grande difficoltà, spesso per la necessità di circondarsi di specialisti per supportare i minori. A pesare psicologicamente sugli orfani è anche la negazione di quanto successo. In una decina di casi di femminicidio esaminati tra il 2015 e il 2022, i figli e le figlie rimasti orfani, per esempio, non erano a conoscenza dell’accaduto o lo erano solo in parte. Non tutti gli orfani, poi, sono consapevoli di essere stati a loro volta vittime di padri violenti. Anna Maria Zucca, referente del progetto “Sos”, che offre sostegno a orfani e orfane di femminicidio tra Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria, spiega che riconoscere di aver assistito a situazioni di violenza è difficile e che solo dopo molto tempo le vittime capiscono di averne a lungo sminuito la gravità. Nell’esperienza di Salvatore Fedele, referente del progetto “Respiro” nel Sud Italia, gli stessi orfani sono vittime della cultura patriarcale e arrivano in alcuni casi a empatizzare con il comportamento del padre. Proprio il rapporto tra gli orfani e i padri in carcere è altamente problematico. Gli autori di femminicidio non sono sempre disposti ad affrontare un percorso di rieducazione e questo influisce anche sulla relazione già compromessa con i figli. Al contempo, in carcere manca il personale necessario a fornire un percorso riabilitativo pensato anche in funzione del benessere degli orfani. Circa il 54 per cento di loro sceglie di non rivedere più il padre recluso, altri lo incontrano con il via libera del tribunale per i minori. “Si verificano così casi in cui i figli fanno visita al padre, ma né loro né lui sono pronti all’incontro - riferisce un operatore - l’uomo non ammette al figlio di avere sbagliato e di essersi comportato male nella relazione con la madre. Chi non ha una sentenza passata in giudicato poi non lo farà mai, perché spera sempre in un accorciamento della pena”. Migranti. Decreto paesi sicuri, Meloni non molla “L’Europa è con me” di Valentina Stella Il Dubbio, 9 novembre 2024 La premier: “Partner preoccupati per le sentenze”. Lega e Forza Italia ai ferri corti sul provvedimento. “C’era un po’ di curiosità circa tutto questo dibattito che riguarda il tema dei Paesi sicuri perché poi chiaramente quello che accade in Italia coinvolge anche gli altri. Quindi c’era un po’ di preoccupazione su questo tema: secondo alcuni, i Governi non sono nella condizione di poter definire cosa sia un Paese sicuro”. Lo ha dichiarato ieri la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, al suo arrivo al vertice informale dell’Ue. Il tema delle politiche migratorie resta dunque importante nel dibattito politico, non solo italiano. Tanto è vero che, proprio per dare una risposta alle sentenze sui migranti trasferiti in Albania, la Lega al Senato ha chiesto durante l’ufficio di presidenza della commissione Politiche Ue di aprire un’indagine conoscitiva relativa al principio di primazia del diritto dell’Ue rispetto al diritto nazionale. L’iniziativa arriva dopo che nella Commissione Affari costituzionali della Camera sono stati dichiarati inammissibili per estraneità di materia due emendamenti sullo stesso tema presentati dal Carroccio al ddl costituzionale sulla separazione delle carriere. Per questo il senatore leghista Claudio Borghi ha chiesto di “indagare” sul rapporto tra normativa nazionale e normativa europea. La richiesta però non è stata accolta con lo stesso entusiasmo dalle altre due forze di maggioranza, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Infatti, dopo una mediazione messa in atto dal vice presidente della Commissione, il senatore azzurro Pierantonio Zanettin, si è deciso di optare per il più blando strumento del cosiddetto “affare assegnato”. Insomma una vittoria di Pirro quella della Lega, anche perché, come già ci aveva anticipato l’onorevole di FI Tommaso Calderone nel commentare gli emendamenti al ddl su riforma ordinamento giudiziario, non c’è la volontà politica da parte di Fi di mettere in discussione i rapporti con la Ue. Come conferma al Dubbio proprio Zanettin: “non è oggi nell’agenda del Governo né tantomeno di Forza Italia la revisione sia dei trattati europei sia della Costituzione, anche se un partito della maggioranza può inserirla nel suo programma e chiederne di discuterne”. In merito all’affare assegnato, conclude il capogruppo di Fi in Commissione giustizia, “della questione discuteremo anche in riferimento alla giustizia, come ad esempio per quanto concerne l’intercettazione e la trascrizione delle comunicazioni telefoniche di terzi estranei alle indagini, come avvenuto nel caso Contrada”. L’idea di Borghi ovviamente non è stata accolta con favore dalle opposizioni. Filippo Sensi del Pd ha scritto su X: “In ufficio di presidenza Affari europei in Senato, la richiesta della Lega di indagine conoscitiva sulla gerarchia delle fonti (traduco: una vendetta contro la magistratura) è stata derubricata a semplice affare assegnato. Noi contrari a tale perdita di tempo, soldi, dignità”. “Dato che a Claudio Borghi non è riuscita l’operazione di far uscire l’Italia dall’euro, ora ha deciso di sperperare gli euro degli italiani chiedendo al Senato una delle indagini conoscitive più stupide che la Storia della Repubblica Italiana ricordi: scoprire se è vero che esiste il primato del diritto dell’Unione europea rispetto al diritto nazionale” ha detto il parlamentare di +Europa Riccardo Magi, che ha concluso: “Alla fine a Palazzo Madama hanno deciso di derubricare questa indagine ad “approfondimento”, eppure basterebbe comprare un manuale di diritto per svelare l’arcano. Il problema vero è che questa maggioranza sta facendo uno sconsiderato tentativo di rovesciare il diritto pur di continuare a deportare persone in Albania e spingendo sempre più il nostro Paese verso una democratura di stampo orbaniano”. E proprio il premier ungherese Viktor Orban ha fornito due giorni fa durante una conferenza stampa, con a fianco quell’Edi Rama co-protagonista del tanto contestato modello Albania sui rimpatri, un assist a Giorgia Meloni: “L’Ungheria è come l’Italia. Siamo in una trappola giudiziaria. Per fermare i migranti bisogna ribellarsi ai giudici”. Intanto ieri gli otto migranti sono arrivati nel centro di Gjader. Ci saranno quindi altri provvedimenti della nostra magistratura e probabilmente nuovi scontri con la maggioranza ed il Governo se i trattenimenti non dovessero essere confermati. Migranti. “Primato del diritto italiano su quello Ue? Inutile propaganda” di Valentina Stella Il Dubbio, 9 novembre 2024 Intervista a Salvatore Curreri, ordinario all’università di Enna, sul dl Paesi sicuri e il primato del diritto Ue su quello italiano. Su richiesta della Lega al Senato verrà attivato il cosiddetto affare assegnato, uno strumento meno rigido dell’indagine conoscitiva, in merito al “rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea”. Ne parliamo con Salvatore Curreri, ordinario di Diritto costituzionale e pubblico comparato presso l’Università di Enna. Cosa ne pensa della proposta del Carroccio? A me pare un’iniziativa che risponde solo a esigenze propagandistiche. A livello giuridico mi sembra un’operazione assolutamente inutile: la messa in discussione del primato del diritto dell’Unione europea contrasta tanto con i principi fondamentali su cui la Ue si regge, tanto con la nostra Costituzione. Non è vero che il principio della supremazia del diritto europeo, come afferma con una certa arditezza il senatore Borghi, è “meramente giurisprudenziale”, cito testualmente. Si spieghi meglio... È vero che ci sono state delle sentenze risalenti al 1963 e 1964 della Corte di giustizia che hanno fatto da apripista a questo principio, per cui è vero che questo principio ha avuto un’origine giurisprudenziale, ma oggi questo principio lo si trova affermato nel diritto dell’Unione, perché l’adesione alla stessa Ue porta all’accettazione della sovranità della Ue nelle materie ad essa attribuite sul diritto nazionale e poi soprattutto trova conferma della nostra Costituzione. Dapprima nell’articolo 11, che è stato sempre interpretato come una disposizione che giustifica la prevalenza del diritto dell’Unione Europea sul diritto nazionale. Però non si parla esplicitamente del diritto europeo... È vero, anche per la semplice e banale considerazione che nel 1948, quando la nostra Costituzione fu scritta, l’Ue non esisteva. Quando il Costituente scrisse questo articolo in realtà pensava alle Nazioni Unite, ma tutti sanno che le disposizioni devono essere interpretate al di là dell’intenzione di chi le ha scritte. Quando noi progressivamente abbiamo ceduto, soprattutto dopo il trattato di Maastricht del 1992, fette sempre più consistenti della nostra sovranità alla Ue, lo abbiamo fatto perché l’Ue risponde a quei criteri indicati nell’articolo 11, cioè un ordinamento che assicura, in condizione di parità, la pace e la giustizia tra le Nazioni, e quindi questo giustifica la cessione della sovranità. E poi c’è l’articolo 117... Esso costituisce l’epilogo finale. Quando nel 2001 abbiamo riformato il Titolo V, con una riforma che riguardava in realtà il rapporto tra Stato e Regioni, abbiamo però inserito che la potestà legislativa non solo regionale, ma anche ovviamente quella statale, deve essere esercitata nel rispetto sia degli obblighi internazionali che dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. Quindi abbiamo costituzionalizzato espressamente questa prevalenza. Pertanto, chiedere un’indagine su quello che è il fondamento su cui si basa la Ue mi sembra un modo, un po’ forse tartufesco, di aggirare il problema principale che è quello di adesione del nostro Paese alla Ue. L’unico modo per eliminare il primato della Ue rispetto all’Italia sarebbe quello di modificare il 117? La supremazia del diritto europeo è la condizione essenziale perché uno possa far parte dell’Unione Europea. Pensare di voler eliminare questo vincolo significherebbe sostanzialmente intraprendere un percorso di uscita dalla Ue. Poi si può fare un’altra cosa, ed è forse questo l’obiettivo del senatore Borghi. Ossia? Nella sua proposta si fa riferimento al principio di attribuzione: l’obiettivo potrebbe essere quello di rivedere le materie su cui l’Unione Europea ha sovranità e in cui si decide Bruxelles e magari far ritornare quelle stesse materie, tra cui per esempio l’immigrazione, sotto la legislazione nazionale. Ci si scontra con un’altra contraddizione però. Quale? Il trasferimento di determinate materie a livello di Ue risponde a un altro principio costituzionale che è il principio di sussidiarietà dell’articolo 118, in base al quale gli Stati si rendono conto che per affrontare efficacemente e per dare una disciplina appunto efficiente a determinati fenomeni, il livello nazionale è assolutamente insufficiente. Bisogna agire a un livello superiore, questo è quello che fonda poi in realtà il trasferimento di competenze europee. Secondo lei converrebbe al nostro Paese riappropriarsi del tema immigrazione? Affrontare il problema dell’immigrazione a livello nazionale diventa anche paradossalmente contrario ai nostri interessi, perché significherebbe che noi dovremmo gestire da soli, senza nemmeno poter chiedere la solidarietà a livello europeo, questo fenomeno. E sappiamo che l’Italia è Paese di primo sbarco. Anche questa messa in discussione delle competenze della Ue potrebbe risolversi in un boomerang. Dl Paesi sicuri: la norma primaria vincola di più i giudici oppure no? Qualunque studente di primo anno di giurisprudenza sa perfettamente che nella gerarchia delle fonti la supremazia del diritto europeo è tale per cui prevale sia che la fonte nazionale sia secondaria, sia che la fonte sia primaria, come un decreto legge. Questo il governo lo sa perfettamente. Magari questo giochetto di trasformare la fonte di disciplina, la fonte che identifica i Paesi sicuri, da una fonte secondaria come un decreto interministeriale a una fonte primaria, può magari essere venduta all’opinione pubblica come una sorta di rafforzamento e, quindi, come un tentativo per far prevalere il diritto nazionale, ma in realtà proprio perché abbiamo detto che il 117 ci dice che la potestà legislativa va esercitata nel rispetto dei vincoli comunitari, qualunque fonte legislativa che contrasta con i vincoli dell’ordinamento comunitario è illegittima. Tenga conto poi che proprio sulla materia dei migranti deve essere rispettato anche l’art. 10. In che modo? Per quanto riguarda la condizione giuridica dello straniero, ci dice che va regolata per legge, ma in conformità alle norme e ai trattati internazionali. Riconosce il diritto di asilo. Si può anche tentare di sottrarsi all’abbraccio ritenuto soffocante dell’Unione Europea su questa materia, ma ci si scordi di ritenere che il legislatore nazionale da questo punto di vista possa fare quello che vuole in materia di diritti dei migranti, perché c’è una Costituzione da rispettare, c’è il diritto di asilo, e ci sono comunque altre norme. Pensi per esempio alla Convenzione di Ginevra: non è una convenzione di diritto europeo, ma una convenzione internazionale che disciplina lo status di rifugiato. In ogni caso quella convenzione deve essere rispettata ai fini della valutazione del diritto di asilo del migrante. Migranti. Parla l’avvocato Francesca Cancellaro: “Togliere la zona Sar a Libia e Tunisia” di Angela Nocioni L’Unità, 9 novembre 2024 “La Corte costituzionale valuterà il contrasto del decreto Piantedosi con gli articoli 11 e 117 della Costituzione, quelli che vincolano l’Italia al rispetto degli obblighi internazionali assunti”. Dopo quasi due anni dalla entrata in vigore dal decreto Piantedosi che spazza via le navi della flotta civile dal Mar mediterraneo e lascia senza testimoni le scorribande dei miliziani della Guardia costiera libica (mai fanno soccorsi, ma soltanto catture di naufraghi) il tribunale di Brindisi il 10 ottobre ha rimesso alla Corte costituzionale la questione della illegittimità costituzionale della legge che porta il nome del ministro dell’Interno. Su quelle norme che fermano nei porti le navi di soccorso delle ong impegnate nei salvataggi, ricattandole di fatto con la minaccia della confisca dell’imbarcazione, dovrà esprimersi la Consulta. Il rinvio alla Corte è avvenuto nel corso di uno dei giudizi avviati dalla ong Sos Mediterranée contro un fermo della nave Ocean Viking. L’avvocata Francesca Cancellaro è una dei legali che hanno firmato quel ricorso. Quali sono le norme del decreto Piantedosi sulle quali è stata sollevata la questione di legittimità? La norma che sanziona con il fermo amministrativo la nave che non ubbidisce ai comandi dell’autorità competente per il soccorso, anche se straniera. La questione che è stata sollevata dal tribunale di Brindisi riguarda l’articolo 1, comma 2 sexies del D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, convertito in legge 18 dicembre 2020, n. 173, come modificato dal D.L. 2 gennaio 2023, n. 1, convertito con modifiche dalla l. 24 febbraio 2023, n. 15, in riferimento agli articoli 3, 11, 25, 27 e 117 della Costituzione, nella parte in cui, dopo aver inflitto la sanzione principale del pagamento di una somma da 2.000 euro a 10.000 euro nei confronti di chi non si “uniforma alle indicazioni” fornite dalla “competente autorità nazionale per la ricerca e il soccorso in mare nonché dalla struttura nazionale preposta al coordinamento delle attività di polizia di frontiera e di contrasto dell’immigrazione clandestina o non si uniforma alle loro indicazioni”, prevede che “alla contestazione della violazione consegue l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria del fermo amministrativo per venti giorni della nave utilizzata per commettere la violazione. Quella legge è spesso stata definita pericolosamente ambigua da chi fa operazioni di salvataggio in mare, ci spiega in cosa si traduce in concreto quell’ambiguità? La legge punisce l’inottemperanza da parte del comandante alle indicazioni fornite dal competente centro per il soccorso marittimo nella cui area di responsabilità si è svolta l’operazione di soccorso. Ciò si traduce nel rinvio in bianco all’ordine impartito da tale autorità straniera, anche quando questo ordine che non è neppure formalizzato in un atto amministrativo (come nel caso di specie, l’amministrazione si basa su una comunicazione via e-mail della cosiddetta Guardia costiera libica). Si tratta di una disposizione evidentemente ambigua perché, come si legge nell’ordinanza, la descrizione della condotta sanzionata è affidata al rinvio in bianco alle determinazioni di altra autorità, senza alcuna indicazione dei criteri di offensività e punibilità rilevanti ed al fine perseguito da quelle prescrizioni poi disattese. In altre parole: sono le autorità libiche che di volta in volta vanno a determinare il contenuto della violazione del Decreto Piantedosi, questo contenuto non è previsto con precisione dalla legge. È possibile che l’aver sollevato la questione di legittimità delle norme del decreto Piantedosi davanti alla Consulta apra le porte formali alla messa in discussione della revoca della zona Sar alla Tunisia e della zona Sar alla Libia? Me lo auguro. Ogni paese stabilisce la propria “zona Sar” (“Search and Rescue”), nella cui area di competenza è tenuto a prestare soccorso. L’istituzione di una zona Sar impone allo Stato precisi doveri, non è funzionale all’attribuzione di diritti e potestà in capo al Paese. La Consulta sarà anche chiamata a valutare il contrasto del decreto Piantedosi con gli articoli 11 e 117 della Costituzione - sono gli articoli che vincolano l’Italia agli obblighi internazionali assunti - nella misura in cui, riconoscendo la valida esistenza di una “zona Sar” libica e la legittimità degli ordini impartiti da quell’autorità nelle operazioni di soccorso, contrasta con obblighi imposti all’Italia dal diritto internazionale consuetudinario e convenzionale. Il presupposto è che lo Stato libico costituisca un “porto sicuro” per i naufraghi e i sopravvissuti soccorsi. Come riconosciuto dalla giurisprudenza nazionale (sentenza della Cassazione n. 4557/2024 nel caso Asso 28), la Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra e sono accertate dagli organismi internazionali le condizioni inumane e degradanti presenti nei suoi centri di detenzione per i migranti, al punto che ha condannato in via definitiva del comandante di un’imbarcazione battente bandiera italiana che aveva riportato i naufraghi in quel Paese. Quali potrebbero essere i passi formali per togliere alla Libia e alla Tunisia le rispettive zone Sar? Le può revocare soltanto l’Oim? Quali sono gli atti formali con cui si può avviare il procedimento e chi può farlo? Secondo la convenzione Sar del 1979, gli Stati possono istituire le proprie zone di ricerca e salvataggio in mare, a patto che siano rispettati certi obblighi: “stabilire centri di coordinamento dei soccorsi (Maritime rescue coordination center, Mrcc)” che siano “operativi 24 ore su 24 e con personale costantemente addestrato con una conoscenza a scopi lavorativi della lingua inglese”. Le persone salvate in quelle zone devono essere riportate in un porto sicuro, secondo le regole della convenzione. Certamente la Libia e la Tunisia non soddisfano questi requisiti. L’Oim dovrebbe avere un ruolo più definito nel verificare le informazioni che pubblica legate alle zone di ricerca e salvataggio e gli Stati potrebbero e dovrebbero porre il tema in sede internazionale, così come hanno tentato di fare negli ultimi anni associazioni non governative e società civile. Più in generale, l’Oim dovrebbe giocare un ruolo nel contrasto a fenomeni di abuso da parte degli Stati. Quali norme vengono violate dalla deportazione di migranti in Albania? Credo che anche su questo versante sia necessario ragionare sui molteplici profili di illegittimità costituzionale. Si tratta di rinunciare all’effettività di tutte le garanzie sostanziali e processuali che il sistema europeo garantisce. L’idea che queste pratiche di esternalizzazione possano diventare un primo esperimento verso una strutturale gestione del fenomeno migratorio non può passare a livello politico ma ancora prima a livello legale. Cei. “Integrare i migranti, non nasconderli. Basta tempi lunghi sulla cittadinanza di Giacomo Gambassi Avvenire, 9 novembre 2024 Il Consiglio dei giovani del Mediterraneo a Palermo per riflettere su pace e accoglienza. Baturi: sempre dalla parte dei deboli. Perego: l’ordine è respingere, come testimonia il caso Albania. “Noi siamo sempre dalla parte dei più deboli”. Il segretario generale della Cei, l’arcivescovo Giuseppe Baturi, inaugura a Palermo l’evento “Non c’è pace senza accoglienza”. E quando dice “noi”, intende la Chiesa, compresa quella italiana, e il mondo cattolico. Il suo è un invito alla “solidarietà”, una delle declinazioni della parola “accoglienza” che, aggiunge Baturi, richiede anche “cultura” e “amicizia” facendosi prossimi “alle sorelle e ai fratelli incontrati per strada”. Poi il monito: “La fede non è esclusione, ma capacità di includere”. L’arcivescovo originario di Catania dà il benvenuto - in videocollegamento - ai ragazzi giunti nel capoluogo siciliano dalle diverse sponde del grande mare che formano il Consiglio dei giovani del Mediterraneo. È il laboratorio di fraternità e di impegno ecclesiale e civico voluto dalla Cei dopo il “summit” dei vescovi e dei sindaci del Mediterraneo a Firenze nel 2022. A formarlo quaranta delegati, tutti under 35, delle Chiese legate al bacino che tornano a incontrarsi per lanciare il loro grido di apertura agli ultimi in vista del Giubileo. “La nostra esperienza di giovani di tre continenti diversi dimostra che la coesistenza è possibile, nonostante le differenze di contesti da cui proveniamo: differenze economiche, sociali, politiche”, racconta Gabriel Cassar Tabone, originario di Malta, in rappresentanza dei tredici ragazzi presenti a Palermo. Un appello che arriva mentre nella Penisola la questione migranti divide. “Oggi la parola d’ordine è “respingimenti”. Ne sono un segno i campi che l’Italia ha realizzato in Albania e che sono come prigioni”, spiega l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Gian Carlo Perego, presidente della Commissione episcopale Cei per le migrazioni e della Fondazione Migrantes. È lui che conclude la prima delle tre giornate di lavori, ospitata dalla Facoltà Teologica di Sicilia. E che denuncia un “Mediterraneo che sanguina”. Per “i morti: 50mila in fondo al mare in trent’anni”; per “i respingimenti in Tunisia e Libia che riportano le persone nei campi o nei deserti”; per “le guerre o le dittature con sofferenze, torture e morti”. Eppure, aggiunge l’arcivescovo, “attorno a noi sentiamo ripetere: “bombardiamo”, “ignoriamo”, “chiudiamoci”, “non riconosciamo”. Invece un solo vocabolo dovremmo pronunciare: “vergogniamoci”. Perego ribadisce che le “navi delle Ong non possono essere ostacolate: salvano la gente”. E chiama in causa anche l’Europa: per il nuovo “patto sull’immigrazione che porterà un’ulteriore limitazione dei diritti dei richiedenti asilo e rifugiati” e per il “trattamento differenziato” fra gli ucraini in fuga dalle truppe russe e “gli altri richiedenti che scappano da crisi e guerre nel mondo, non meno cruente e drammatiche”. Poi, guardando al Consiglio, dice che “sono questi ragazzi a chiedere di costruire una cultura dell’incontro, come indica papa Francesco”. Da qui la necessità di “lavorare di più anche nelle parrocchie italiane dove, secondo un’indagine Cei, la metà dei fedeli assidui è contraria all’accoglienza”, rivela Perego. “E perché allungare i tempi per ottenere la cittadinanza italiana? Dovremmo essere felici di avere nuovi cittadini. Ed è la solidarietà che porta alla pace, quindi anche alla sicurezza delle nostre città”. A Palermo i giovani del Mediterraneo si ritrovano sui passi di due “testimoni”. Il primo è don Pino Puglisi, il prete assassinato da Cosa Nostra nel 1993, che “aveva spalancato le porte della parrocchia a bambini e anziani, a poveri ed ex detenuti e che in nome dell’accoglienza è stato ucciso per mano mafiosa”, afferma Maurizio Artale, presidente del Centro d’accoglienza Padre Nostro che il sacerdote beato aveva fondato nel suo quartiere: Brancaccio. E l’altro è Giorgio La Pira, nativo della Sicilia e profeta della riconciliazione fra i popoli, che vedeva “nell’accoglienza una delle sfide più alte per il Mediterraneo”, sottolinea Patrizia Giunti, presidente della Fondazione La Pira che, con l’Opera per la gioventù La Pira, il Centro internazionale studenti La Pira e la Fondazione Giovanni Paolo II, forma a Firenze la rete Mare Nostrum cui la Cei ha affidato il Consiglio dei giovani. “Lo straniero e il povero non ci fanno paura”, ripete don Mauro Frasi, parroco di Santa Maria al Giglio a Montevarchi, nella diocesi di Fiesole, che racconta della sua “canonica senza chiavi”, con le porte aperte, diventata “casa di tutti”, a cominciare dai dimenticati. “Cari giovani, aiutateci ad avere coraggio e a superare le resistenze ecclesiali e politiche”, dice don Frasi al Consiglio del Mediterraneo. “L’accoglienza dovrebbe essere il cuore di ogni comunità parrocchiale”, sostiene don Massimo Biancalani, parroco di Vicofaro a Pistoia, località finita più volte nel mirino per i migranti. Quindi la provocazione: “I migranti sono una risorsa per il nostro Paese. Dovremmo dire loro: “Benvenuti, venite...”. La Chiesa è in prima linea. “Nei decenni la Caritas Italiana ha contribuito a far crescere un sistema governativo di accoglienza”, chiarisce Manuela De Marco. Parla di “dovere dell’accoglienza” l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, che sprona a ritenere l’”ospitalità un criterio di azione, a maggior ragione se ci si dice cristiani”. Infatti, prosegue, non si tratta “di nascondere i migranti ma di integrarli”. Perché, “là dove c’è povertà, trova terreno fertile la criminalità”. E il vescovo di Acireale, Antonino Raspanti, presidente dell’episcopato siciliano, sollecita “un’accoglienza fatta bene, con ordine e intelligenza. Del resto è facile che chi non crede nell’accoglienza possa usare taluni episodi negativi per esigere di alzare muri”. Migranti. L’assoluzione di Maysoon Majidi non è negli occhi di Diletta Bellotti L’Espresso, 9 novembre 2024 Dal 23 ottobre l’attivista e regista curdo-iraniana Maysoon Majidi è libera, adesso bisogna tentare di scagionare la retorica che, da destra a sinistra, l’ha usata come capro espiatorio. Non a caso si è parlato molto di lei, del suo aspetto e delle sue lotte (edulcorandole) e poco delle ragioni per cui una persona che rischia la vita nel Mediterraneo è criminalizzata. Majidi è stata dieci mesi in carcere dopo essere stata arrestata nel dicembre 2023 sulle coste calabresi con l’accusa di essere una scafista. Il 27 novembre si terrà l’ultima udienza in cui si deciderà il destino di Maysoon. Sulla stessa costa, nella notte tra il 25 e 26 febbraio 2023, nella strage di Cutro, 94 persone morivano in mare. Majidi, come anche Marjan Jamali e altre centinaia di persone sono state recluse nelle carceri italiane con l’accusa di essere scafiste. La retorica razzista sulle persone migranti la conosciamo bene: ha colonizzato l’immaginario comune delle traversate in mare e cosa le causano. Si dimentica che persone come Majidi hanno dovuto pagare, anche tramite l’estorsione e la tortura, decine di migliaia di euro per arrivare in un luogo che ritenevano, spesso erroneamente, sicuro. Mentre invece le politiche introdotte dall’attuale governo, inasprite dal Decreto Cutro e dalla lotta agli scafisti, continuano a trasformare il soccorso in mare in una caccia al crimine, spostando la responsabilità delle politiche migratorie razziste e assassine dei governi su coloro che fisicamente guidano le barche. Nella puntata de “Lo stato delle cose” del 28 ottobre si è parlato del caso Majidi con una fastidiosa attenzione al suo aspetto fisico che si è infatti conclusa “inquadrando gli occhi di Maysoon”. Sul tema, il comitato per la liberazione di Majidi ha scritto: “Serve una contro-narrazione; serve lavorare per cercare di decolonizzare e depatriarcalizzare la maniera in cui analizziamo gli eventi, perché le parole con cui raccontiamo le persone migranti rappresentano la base culturale per le violenze che infine sembrano scandalizzarci tutti - qualora ne venissimo a conoscenza. Cosa che le nostre bolle sociali di certo non assicurano. In questo caso, in cima alla piramide della violenza c’è la Maysoon di turno che finisce in carcere per dieci mesi accusata di colpe che sono solo il frutto di sistemi coloniali e per nulla di una giustizia funzionante; in fondo c’è il Giletti di turno che, se pur nel tentativo di difendere la vittima, non fa altro che continuare ad alimentare la cultura che sorregge i suddetti sistemi”. Oggettificare e sessualizzare le donne, soprattutto le combattenti, per poterle scagionare è qualcosa di estremamente comune. Mentre nei casi in cui non si prestino a essere oggetto e feticcio, si richiede quanto meno il sacrificio: che abbiano patito l’inferno e che lo dimostrino. Maysoon Majidi è sopravvissuta alle carceri iraniane, alla tortura e al Mediterraneo, questo l’ha solo resa degna di una detenzione. Attraverso il suo corpo è diventata poi momentaneamente oggetto mediatico, scagionabile solo per kalokagathia; moralizzando così la bellezza e una bellezza, peraltro, biancheggiante. L’assoluzione non può passare da uno sguardo, così come una colpa non può passare dal tentativo di sopravvivere. “Gli occhi, caro mio, non mentono mai”, lo lasciamo dire a Scarface, qui si preferiscono i processi giusti. L’antisemitismo cieco che fa male anche alla Palestina di Davide Assael Il Domani, 9 novembre 2024 Dopo il Daghestan, anche l’Europa occidentale ha vissuto la sua caccia all’ebreo. Non siamo riusciti ad arginare l’importazione del conflitto. Le immagini di Amsterdam non aiuteranno la causa palestinese, ma porteranno a un incremento dell’islamofobia, che verrà cavalcata dall’estrema destra nostrana. Figuriamoci, Geert Wilders, l’islamofobo europeo per definizione, non aspetta altro. Dunque, dopo le raccapriccianti immagini viste in Daghestan nell’ottobre 2023, la caccia all’ebreo è arrivata anche in Europa occidentale, dove quest’anno si è già registrato un incremento del 500 per cento di attacchi antiebraici. Un gruppo di islamisti armati di coltelli e manganelli ha picchiato e investito con le macchine tifosi del Maccabi Tel Aviv. Il bilancio è pesante: almeno 5 feriti. Ancor di più, però, sconvolgono i ricordi che questi atti evocano. Proprio in Olanda, il Paese di Anna Frank, dove la macchina di morte nazista ha funzionato al meglio per la collaborazione di solerti cittadini. Basterebbe vedere le immagini del tifoso israeliano costretto a terra, preso a calci e pugni e obbligato a urlare “free Palestine” per far capire l’ovvio: è il frutto di un anno di analisi unilaterali del conflitto mediorientale, che ha sottratto l’azione israeliana, che certo può e deve essere criticata in termini militari (quale l’obiettivo della guerra a Gaza che appare un massacro senza scopo?) e politici (quale la visione politica dietro l’azione militare? Quale il futuro della Striscia?), dal circolo di violenza in cui è inserita. Fino a spacciarla per pulizia etnica, genocidio, fantomatici piani di generali che “si dice che”, “qualcuno sospetta che”, “a me pare che” siano, forse, sulla scrivania di Netanyahu. Ignorando che opposizione, presidenza della Repubblica, esercito, intelligence hanno sempre continuato a trattare per un accordo che salvaguardasse la sorte degli ostaggi, mentre oggi si oppongono al disegno criminale del Grande Israele, sostenuto, è bene ricordarlo, da meno del 10 per cento della popolazione israeliana, che oggi ha visibilità e spazio politico perché è stata loro consegnata la golden share del governo. Ma capisco che la tentazione di cedere alla pulsione antisionista (leggi antisemita) sia troppo grande per inoltrarsi in simili analisi, che contemplino l’enorme dialettica interna alla politica e alla società civile israeliana. Meglio riproporre gli antichi stereotipi dell’ebreo vendicatore, chiuso in sé stesso, indifferente alla sorte degli altri. Magari facendoli passare attraverso l’orrida figura di Netanyahu, che pare effettivamente adattissimo allo scopo. Lo scriviamo da tempo, è la perfetta intersezione fra antigiudaismo islamico e occidentale, che ha permesso la penetrazione di propagande politiche organizzate da gruppi fondamentalisti che, dai vertici di Hamas in giù, sapevano bene quali tasti toccare per mobilitare l’opinione pubblica occidentale. Anche sacrificando all’abbisogna i propri popoli, il cui sangue, come ebbe a dire Kaled Meshal appena dopo il 7 ottobre a una giornalista saudita che gli chiedeva conto delle sofferenze provocate al popolo palestinese dal loro folle attacco, serve alla causa. Stesse cose emerse dalle intercettazioni di Yahya Sinwar pubblicate tempo fa dal New York Times, senza che abbiano modificato in nulla le letture di analisti accreditati. Una propaganda non solo infame, ma anche miope: chi pensa che questo porterà qualche vantaggio alla causa palestinese non ha capito quale razza di circolo abbia messo in moto. Come prima conseguenza, porterà a un incremento dell’islamofobia, che verrà cavalcata dall’estrema destra nostrana. Figuriamoci, Geert Wilders, l’islamofobo europeo per definizione, non aspetta altro. Scatteranno persecuzioni nelle moschee, sospetti di ogni tipo nei confronti delle comunità musulmane, espulsioni. Torneranno i discorsi da scontro di civiltà, le retoriche sulle battaglie di Lepanto e di Vienna. Comunità musulmane che hanno già dovuto subire la nuova ondata di infiltrazione propagandistica di imam del terrore, volta a reclutare fra i loro giovani secondo le più classiche tecniche delle organizzazioni terroristiche in perenne ricerca di carne da cannone. Come seconda cosa, rafforzerà la propaganda di Netanyahu, che da sempre scommette sulla sindrome d’assedio per rafforzare la propria barcollante leadership. Ovviamente ha non ha perso l’occasione per annunciare l’invio di un volo militare ad Amsterdam per riportare a casa i concittadini sotto shock. Ipotesi poi rientrata per volere di altri. Alle nostre latitudini avevamo solo un compito di fronte alla catastrofe mediorientale: evitare l’importazione del conflitto. Le immagini di Amsterdam dimostrano che abbiamo fallito. E in tutto questo caos, scandito da attentati e guerriglia urbana sempre più frequente, si attenderà con spirito messianico l’uomo forte in grado di reimporre l’ordine. Ah no, scusate, è già arrivato il cinque novembre scorso.