Carceri al collasso, ma il Governo che fa? Crea nuovi reati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 novembre 2024 Ormai non fa più notizia, ma martedì scorso si è suicidato un altro detenuto, questa volta al carcere veneziano di Santa Maria Maggiore. Si tratta di un 41enne, marocchino, arrestato con l’accusa di rapina e resistenza a pubblico ufficiale, fine pena provvisorio fissato a febbraio del prossimo anno, ma - come scrive Gennarino De Fazio della Uil polizia penitenziaria - “ha deciso di non attenderlo o, forse, a suo modo di vedere di anticiparlo, impiccandosi nel primo pomeriggio”. La scorsa settimana, si è suicidato al carcere campano di Santa Maria Capua Vetere un uomo di 53 anni che, a causa del cosiddetto cumulo di pena, si era ritrovato a scontare 10 anni di carcere per piccoli furti dovuti alla sua tossicodipendenza. Giungiamo così a 79 suicidi, anche se, secondo i dati ufficiali del Dap, siamo a 75. Resta il fatto che siamo a un passo dal superare il tragico record annuale del 2022 di 85 suicidi, mentre lo scorso anno sono stati 70. L’unica soluzione rimasta, come è indicato nell’appello pubblicato recentemente su Il Dubbio, è un provvedimento generalizzato di clemenza, nella misura minima necessaria di due anni di amnistia e di indulto. I dati aggiornati confermano che è stato sfondato il muro dei 62mila detenuti: un sovraffollamento record. Dai dati analizzati dal Garante nazionale delle persone private della libertà, si rileva che delle 75 persone morte per suicidio, 73 erano uomini e 2 donne. Riguardo alla nazionalità, 42 erano italiane (pari al 56%) e 33 straniere (pari al 44%), provenienti da 15 diversi Paesi. Il dato più significativo è che le sezioni maggiormente interessate sono quelle a custodia chiusa, con 64 casi (pari all’ 85%), mentre in quelle a custodia aperta sono stati registrati 11 casi (pari al 15%). L’analisi del Garante nazionale evidenzia l’impatto del sovraffollamento nelle carceri italiane sugli eventi critici, ossia quegli episodi che riflettono il disagio dei detenuti e l’instabilità all’interno degli istituti penitenziari. L’analisi mostra una preoccupante correlazione: con l’aumento della popolazione carceraria, si è osservato un incremento significativo di episodi critici, come aggressioni, atti di autolesionismo, tentativi di suicidio, suicidi, omicidi e aggressioni fisiche nei confronti del personale penitenziario e amministrativo. Esaminando i dati relativi al periodo 1° gennaio 4 novembre del biennio 2023- 2024, emergono alcune cifre allarmanti. In questo arco di tempo, il numero totale degli eventi critici è cresciuto notevolmente. Gli atti di aggressione sono passati da 4.520 nel 2023 a 4.869 nel 2024, registrando un aumento di 349 casi. Ancora più preoccupante è il dato relativo agli atti di autolesionismo, che sono aumentati di 448 unità, passando da 10.606 a 11.054. Le urgenze sanitarie, ovvero i trasferimenti urgenti in ospedale con o senza ricovero, sono aumentate di 724 episodi, da 12.007 a 12.731. Alcune categorie di eventi critici mostrano una diminuzione: per esempio, gli atti di contenimento sono scesi da 712 a 695, mentre i decessi per cause naturali sono passati da 130 a 115. Tuttavia, è rilevante il drastico aumento dei suicidi, che da 55 sono arrivati a 75, e delle manifestazioni di protesta collettiva, salite da 897 a 1.284. Anche le rivolte, seppure rare, hanno triplicato la loro frequenza, passando da 2 episodi nel 2023 a 6 nel 2024. Inoltre, le violazioni delle norme penali interne sono in crescita: dalle 10.470 del 2023 sono arrivate a 12.783 nel 2024, con una particolare incidenza delle aggressioni fisiche al personale della Polizia Penitenziaria, che sono aumentate di 354 casi, e al personale amministrativo, aumentate di 20 unità. Questi dati forniscono un quadro allarmante della situazione nelle carceri italiane, confermando come il sovraffollamento possa contribuire in modo sostanziale ad acuire le tensioni e a peggiorare le condizioni di sicurezza e di vivibilità all’interno degli istituti di pena. Ma il governo che fa? Risponde con l’introduzione di nuovi reati. Come ha ricordato sull’Huffington Post il garante del Lazio, Stefano Anastasìa, nel frattempo s’avanza un disegno di legge, anch’esso in nome della sicurezza, che potrebbe moltiplicare il numero delle persone detenute, trattenendo in carcere ad libitum i protestatari e aggiungendovi quelli che le proteste le fanno fuori. Sono già 80 i detenuti che si sono tolti la vita. La lettera del vescovo di Caserta e Capua di Fulvio Fulvi Avvenire, 8 novembre 2024 Monsignor Lagnese: “È un grido di dolore che ci ferisce tutti, non possiamo stare a guardare”. 62.110 presenze nelle strutture penitenziarie, 11mila in eccesso. Le carceri scoppiano. E dietro le sbarre si continua a morire. Le persone detenute che si sono tolte la vita dall’inizio dell’anno a oggi negli istituti di pena italiani sono 80, un numero assai vicino, purtroppo, al tragico primato raggiunto nel 2022, quando furono in tutto 84. Segno che nulla è cambiato nonostante l’allarme lanciato da tempo dagli addetti ai lavori sull’emergenza sovraffollamento: in base ai dati del Ministero della Giustizia, il 31 ottobre scorso si è arrivati a 62.110 presenze (6mila sono ristretti senza una condanna definitiva). Si tratta di 248 unità in più rispetto a settembre e di 342 oltre quelli registrati alla fine di agosto. Un aumento costante del saldo entrate-uscite che appesantisce la già difficile situazione esistente nelle 189 strutture carcerarie del nostro Paese, la cui capienza complessiva è, a tutt’oggi, di 51.181 posti (11.000, dunque, sono “in eccesso”). Quasi ovunque i detenuti dormono stipati in quattro, o anche sei, in uno spazio di appena 8-10 metri quadrati, nei casi migliori. Le condizioni della convivenza sono spesso impossibili. Le carenze del personale di sorveglianza creano ulteriori disagi. Si moltiplicano gli atti di autolesionismo e i casi di disagio mentale non si contano più (il 30% avrebbe manifestato disturbi di carattere psicologico o psichiatrico). Gli ultimi due drammi della disperazione sono avvenuti nelle Casa circondariali di Santa Maria Maggiore a Venezia (è il terzo in sei mesi) e di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Le vittime sono un recluso 41enne di origini marocchine che si è impiccato nel bagno della sua cella del carcere del sestiere veneziano di santa Croce, e un casertano di 53 anni finito dietro le sbarre del “Francesco Uccella” dopo un lungo periodo trascorso in libertà per disintossicarsi. L’uomo, tornato dentro per “cumulo di pena” (doveva scontare dieci anni per piccoli furti e ricettazione), lascia la moglie e due figli. Il suicidio è avvenuto nella notte di Ognissanti. “Ancora una volta un nostro fratello non ha trovato nessuna speranza di libertà a cui aggrapparsi se non la morte” ha commentato il vescovo di Caserta e Capua, Pietro Lagnese. “Non possiamo e non dobbiamo ‘abituarci’ a queste notizie - ha proseguito il prelato - in un Paese civile, nessuno dietro le sbarre deve sentirsi condannato a morte ma deve trovare nel tempo della pena motivi di speranza per il futuro, come recita l’articolo 27 della nostra Costituzione. Le carceri, come afferma Papa Francesco, dovrebbero avere sempre una finestra e un orizzonte, anche quando la pena è perpetua. Nessuno può cambiare la propria vita se non vede un orizzonte. È un grido di dolore che ferisce tutti: non possiamo stare a guardare! Non conosciamo i motivi del suicidio del nostro fratello - ha aggiunto monsignor Lagnese - ma possiamo immaginare il senso di solitudine, di paura per il futuro che lo hanno angosciato fino a decidere di compiere un atto così estremo. Questo ci deve interrogare. Certo, è più facile reprimere che educare, creare spazi per rinchiudere nell’oblio i trasgressori della legge piuttosto che offrire loro durante la detenzione sostegno psicologico, prospettive di lavoro e speranza di autonomia. All’espressione ‘marcire in carcere’ che tanti continuano a usare, come se si possa arrivare a considerare una persona uno scarto alimentare, bisogna preferire la parola di Gesù che dice: “Ero carcerato e mi siete venuti a trovare”. Intanto ieri si è insediato il nuovo presidente del garante nazionale dei diritti delle persone provate della libertà personale: è Riccardo Turrini Vita, ex magistrato e dirigente dell’Amministrazione penitenziaria. “No al pacchetto sicurezza”, l’appello dei penalisti fa il pieno di firme di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2024 L’Unione delle camere penali si fa promotrice insieme a giuristi, politici e giornalisti di un “manifesto” contro provvedimenti illiberali e carcerocentrici. “Il contenuto dell’intero Pacchetto sicurezza rivela una matrice securitaria sostanzialmente populista, profondamente illiberale e autoritaria, caratterizzata da uno sproporzionato rigore punitivo nei confronti dei fenomeni devianti meno gravi ed ai danni dei soggetti più deboli”. Così inizia il “manifesto” delle Camere penali, redatto nell’ambito dello sciopero (4, 5 e 6 novembre) proclamato contro le misure del Governo e firmato dal Segretario Rinaldo Romanelli e dal Presidente Francesco Petrelli ma anche da costituzionalisti come Michele Ainis; giornalisti come Alessandro Barbano; politici come Rita Bernardini e altri giuristi e personaggi pubblici. “Affidare al sistema repressivo penale la soluzione di ogni situazione di marginalità, di devianza, o di potenziale conflitto sociale, anziché percorrere la strada dell’incremento della prevenzione e della riduzione delle cause di disagio sociale che generano i fenomeni della ribellione e della devianza, o anche solo del dissenso politico, finisce con l’alimentare inutilmente una crescente domanda di punizione e con l’incrementare irrazionalmente un sistema carcerocentrico produttivo, anche a causa dell’inserimento di ulteriori ostatività, di ancor maggiore sovraffollamento, incompatibile con ogni forma di rieducazione, a sua volta causa dell’aumento del fenomeno della recidiva”. I firmatari sottolineano poi che, nell’attuale assetto normativo, sono già presenti disposizioni di legge che puniscono l’occupazione abusiva di immobili, il borseggio, le rivolte in carcere o l’aggressione ai danni dei rappresentanti delle forze dell’ordine. Inoltre, la fattispecie di reato di “rivolta in istituto penitenziario”, integrata anche da condotte “dichiaratamente inoffensive come la resistenza passiva, ovvero da semplice disobbedienza”, costituisce un “pericoloso arretramento” essendo una norma contraria ai principi di ragionevolezza, di proporzionalità e di offensività. Di particolare gravità appare poi, prosegue il testo, è la cancellazione del differimento obbligatorio della pena per le donne incinte o madri di prole in tenera età e la previsione della detenzione negli istituti a custodia attenuata per detenute madri, rischiando di “confinare dietro le sbarre ordinarie dei penitenziari femminili le madri ed i loro neonati”. Altrettanto “iniqua e vessatoria” è la norma che inibisce il rilascio di un contratto telefonico al “cittadino di uno Stato non appartenente alla Unione europea”, per il solo fatto di essere sprovvisto di titolo di soggiorno. L’attenzione della politica invece dovrebbe andare nel senso di riportare il sistema carcerario all’interno di parametri che “rispettino la dignità della persona e consentano le attività trattamentali che perseguono la finalità rieducativa della pena”. Da qui l’appello al Senato affinché “riconsideri le norme segnalate non solo sotto i profili di incostituzionalità ma anche sotto quelli del manifesto distacco dai principi del diritto penale liberale e della provata inutilità degli aumenti di pena e dell’introduzione di nuovi reati e aggravanti”. Intanto si apprende che sono quasi 1.500 gli emendamenti al Ddl, già approvato dalla Camera, presentati dalle opposizioni nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato. Il termine per la presentazione è scaduto oggi alle 12, dalla maggioranza non è arrivata alcuna proposta emendativa. La prossima settimana è in programma l’inizio dell’esame e del voto degli emendamenti nelle commissioni riunite. Tra i partiti di opposizione, Avs ha presentato 1.000 emendamenti e 10 odg, 224 sono gli emendamenti del Pd, 201 dal M5S e 45 da Iv. “Occorrono pene certe, non più dure” di Emilio Carelli L’Espresso, 8 novembre 2024 “Inasprire le sanzioni non è la strada per garantire la sicurezza. Bisogna agire sulle cause dell’impennata di crimini”. Parla Cristina Curatoli, presidente dell’Anm di Napoli. Salvo clamorose sorprese, a breve il nuovo Decreto sicurezza diventerà legge. Sul tema si è aperto un acceso dibattito e sia l’Unione delle Camere Penali sia l’Associazione italiana dei professori di Diritto penale hanno fortemente criticato le nuove norme. Cristina Curatoli, presidente dell’Anm di Napoli, che opinione ha? L’Anm ha assunto una posizione? L’Anm napoletana su questo tema non si è ancora pronunciata. Posso esprimere invece una mia valutazione personale, anche come pm. La prima sensazione è che si introducono norme che, in gran parte, riguardano condotte in qualche modo già punibili in contesti di altre fattispecie normative, quando invece l’inserimento di nuove norme dovrebbe colmare dei vuoti e delle lacune che qui, a mio avviso, nella maggior parte dei casi, non ci sono. Dall’altro, l’introduzione di nuovi reati può comportare il rischio di sovraccaricare ulteriormente il sistema giudiziario. Nel nuovo pacchetto sicurezza si intravede, per esempio, l’esigenza di rafforzare la tutela delle forze dell’ordine, che condivido, ma credo che l’obiettivo debba essere perseguito con progetti a lungo termine. Più che introdurre nuovi reati deve essere garantita la certezza e l’effettività della pena. Purtroppo, oggi abbiamo condanne a distanza di molti anni rispetto al fatto. Ciò fa sì che comunque chi commette reati abbia in qualche modo un senso di impunità perché una pena a distanza di anni dal fatto non viene percepita come tale e perde il suo effetto deterrente… Infatti, siamo in presenza di tanti reati che continuano a essere commessi da recidivi, il che dimostra che quello che manca oggi è l’effettività della pena. Bisogna spingere verso una semplificazione del processo penale e investire nell’informatizzazione, fornendo le risorse necessarie. Ritengo che non sia l’inasprimento della pena ad avere un effetto deterrente. Può averlo tutt’al più rispetto a reati diversi, come quelli commessi dai cosiddetti colletti bianchi, i crimini finanziari o crimini comunque commessi con premeditazione là dove effettivamente ci può essere una valutazione sulle conseguenze previste dalla legge in termini di pena, ma non credo che elevare le pene possa avere influenza sui reati che sono dettati o da disagio sociale e da tossicodipendenza o da altre situazioni difficili e, dunque, dissuadere dal commettere il reato. Qui sarebbe importante che il legislatore intervenisse per far sì che si abbia una pena certa ed effettiva, investendo di più in tutta una serie di strumenti come pene alternative e miglioramenti dell’edilizia carceraria. Nel corso degli ultimi 15 anni sono stati varati numerosi cosiddetti pacchetti sicurezza. Crede che quest’ultimo sia come i precedenti oppure presenti maggiori (o eventualmente minori) criticità? È evidente che i decreti sicurezza in qualche modo rispecchiano l’approccio culturale e politico della maggioranza del momento. A mio parere bisogna porre ancora di più l’attenzione su quelli che sono oggi crimini pericolosi o che ledono importanti interessi, come quelli commessi nell’ambito della criminalità informatica. La digitalizzazione e il lavoro a distanza hanno favorito enormemente condotte criminali che vengono compiute con mezzi informatici e noi siamo molto indietro, nel campo degli strumenti investigativi, sia come procure sia come forze dell’ordine. Certo, si fa già tanto e ci sono stati ottimi risultati giudiziari ma non è abbastanza perché purtroppo si investe poco nella formazione delle forze dell’ordine e anche nelle risorse necessarie, soprattutto informatiche, per poter contrastare una criminalità che è complessissima e rispetto alla quale si arriva spesso a distanza di tempo dai fatti. Nonostante i danni siano enormi se solo si pensa a individui e aziende coinvolte e alla irreversibilità delle conseguenze. Altro allarme è quello della criminalità minorile: bisogna creare e lavorare su un doppio binario garantendo di più la giustizia riparativi, con percorsi alternativi per i reati minori e in qualche modo cercare di investire molto in un approccio integrato che riguardi non soltanto la pena. Per esempio, favorendo l’inserimento dei minori in una serie di attività che diano loro la concretezza di un’alternativa al crimine. Da anni assistiamo alla emanazione di diverse riforme in materia di giustizia, ma se si fanno le riforme e non si investe nella realizzazione delle stesse, è tutto inutile. Pensa che le nuove disposizioni normative abbiano una finalità e un colore anche ideologico? Che le nuove norme siano state immaginate per una parte specifica della popolazione? Non voglio dare un giudizio politico. La mia è più una valutazione tecnica che però non può non fare a meno di valutare come da poco sia stato abolito un reato che a nostro avviso è importante, qual è l’abuso d’ufficio, che consentiva un controllo sulla trasparenza dell’agire pubblico. È stato completamente eliminato a fronte invece dell’introduzione di reati nuovi, con pene anche elevate. L’abuso d’ufficio rappresentava un reato sentinella importantissimo anche perché consentiva di risalire a fenomeni corruttivi e molto spesso alla stessa criminalità organizzata. Si è privato il cittadino di un importante strumento di difesa contro le ingiustizie connesse all’azione pubblica. Tra le nuove norme oggetto del Ddl quali le sembrano meno condivisibili e quali invece ritiene apprezzabili? Mi preoccupano molto quei reati che non hanno una descrizione specifica della condotta da colpire. Faccio l’esempio della resistenza passiva inserita nel reato di rivolta nelle carceri. Nel testo non c’è una particolare specificazione del tipo di condotta, quindi viene da chiedersi per esempio se può essere punibile il detenuto che non mangia perché si oppone a una condotta di un agente penitenziario. Intendo dire che in questo modo si lascia un margine troppo ampio di discrezione nella valutazione di queste condotte. Questa norma mi preoccupa molto, così come quella che riguarda le modifiche relative al regime detentivo per le donne con prole sotto i tre anni, perché abbiamo delle carceri sovraffollate e condizioni di detenzione difficili, come testimoniato dai numerosi suicidi e dai momenti di tensione che si registrano. Nel circuito carcerario passano soggetti tossicodipendenti o persone che dovrebbero andare nelle Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza), situazione determinata dall’assenza di sufficienti percorsi alternativi, di rieducazione, di riabilitazione. Bisogna investire in questo. Oggi le Rems non sono per nulla sufficienti a supportare il numero di soggetti che vi sono destinati, e questo crea un’insufficienza pericolosissima nella gestione dei detenuti. A mio avviso, su questo tema, si va nella direzione opposta a quella che dovrebbe essere la soluzione il problema. Ritiene che alcune di queste norme siano in contrasto con principi costituzionali? Diciamo che il problema è ravvisabile proprio nella mancanza di determinatezza di alcune condotte soprattutto allorquando certe condotte sono collegate al delicato tema del diritto alla libera manifestazione del pensiero. Tra le nuove norme quelle che possono in qualche modo coprire un vuoto di tutela individuo quella dell’occupazione degli immobili, là dove viene introdotta una sorta di reato di rapina della casa. Si parla di occupazione con violenza e minaccia per cui si richiama l’attenzione su fatti che si innestano in circuiti criminali, come anche quello della criminalità organizzata, e che vedono vittime soggetti vulnerabili, come spesso sono le persone anziane. Ecco forse questa norma può contribuire a coprire effettivamente un parziale vuoto di tutela. Credo che tutti possiamo essere d’accordo che la sicurezza è un valore fondamentale nelle democrazie e che lo Stato debba agire per garantire la tranquillità e la pace dei suoi cittadini. Per lei cos’è la sicurezza? Penso che la sicurezza debba essere intesa come un concetto ampio di garanzia del benessere e dell’incolumità dei cittadini, piuttosto che un concetto diretto a colpire condotte spesso determinate da disagio sociale. Garantire la sicurezza significa soprattutto cercare di lavorare molto di più sulla funzione preventiva della pena, cercando di aumentare gli strumenti di prevenzione rispetto ai reati. Si è parlato molto ultimamente della necessità di aumentare le telecamere. Questo non è solamente un aiuto alle indagini ma svolge anche una funzione preventiva, perché chi si appresta a compiere un reato quando sa che c’è il rischio di essere individuato e catturato, probabilmente si ferma prima. Quindi io penso che la sicurezza debba essere garantita con delle misure di prevenzione più efficaci e soprattutto lavorando molto sui fenomeni di violenza oltre che su quelli legati a stati di disagio sociale, di povertà o di tossicodipendenza. Nel corso di quest’ultima legislatura sono state introdotte numerosissime nuove ipotesi di reato. Che impatto hanno avuto nell’attività della procura? Vi è stato un significativo incremento del numero di denunce? O di notizie di reato? Non credo che il problema sia quello di ingolfare le procure o di aumentare il carico di lavoro perché molte condotte, anche se sotto altra forma, già rientravano nel lavoro delle procure. Talvolta c’è la possibilità che, introducendo nuove norme, il cittadino si presti a denunciare di più, penso che l’aumento del numero di denunce sia più spesso un segnale di maggiore fiducia dei cittadini nella giustizia, piuttosto che necessariamente di una maggiore insicurezza. Abbiamo l’esempio del Codice rosso che ha avuto l’effetto di spingere molto di più le donne a denunciare. Sembra essere iniziata una nuova stagione di fibrillazione - se non di acceso scontro - tra politica e magistratura. Perché secondo lei in Italia vi è da decenni un rapporto conflittuale tra la magistratura e la politica? Innanzitutto penso che debba essere tutelato maggiormente il sacrosanto principio di separazione dei poteri, principio che la politica deve garantire con tutte le sue forze, perché l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, principi alla base di uno Stato di diritto, sono necessari per una efficace tutela dei diritti. Le recenti critiche di collateralismo con la politica minano in modo pericoloso la fiducia dei cittadini nella magistratura. Allo stesso modo ritengo in modo altrettanto netto che la magistratura non debba fare politica. Non c’è dubbio che le decisioni giudiziarie possano essere giuste o sbagliate, gli errori esistono in tutte le professioni, però esistono i rimedi, ovvero i mezzi di impugnazione. Cosa pensa della riforma sulla separazione delle carriere? Oggi l’indipendenza della magistratura non è solamente minata dagli attacchi di collateralismo con la politica sui media, ma indirettamente può essere minata da tante piccole o grandi riforme come la separazione delle carriere che a mio parere è pericolosissima perché l’indipendenza dei pubblici ministeri passa anche attraverso la necessità che si formino nella medesima cultura della giurisdizione dei giudici. Bisogna tutelare la figura di un pubblico ministero che abbia come unico obiettivo quello dell’accertamento della verità, un pubblico ministero per il quale l’assoluzione non è una sconfitta e la condanna non è una vittoria. Se il pubblico ministero viene sganciato dalla cultura della giurisdizione ci può essere il rischio di creare una figura di superpoliziotto avulso in qualche modo dalla giurisdizione. Ed è questo che temiamo realmente. Il passaggio di funzioni dal giudicante al requirente è un falso problema perché nella pratica già non avviene più se non in una percentuale minima di casi. Carriere separate, al via il voto. Sisto: “Il 26 testo in aula” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 novembre 2024 In Commissione respinti gli emendamenti delle opposizioni. Fornaro: dal viceministro postura scorretta. La Commissione Affari costituzionali della Camera ha terminato le votazioni sugli emendamenti all’articolo 1 del disegno di legge costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati, doppio Csm, Alta Corte disciplinare. Le proposte di modifica, presentate dalle sole opposizioni, sono state tutte respinte. L’articolo 1 prevede la modifica dell’articolo 87 della Costituzione riguardante le funzioni del Presidente della Repubblica. In particolare si punta a cambiare il comma 10 per cui il Capo dello Stato, nella sua veste anche di Presidente del Csm, andrà a presiedere non più solo un Consiglio superiore della magistratura, ma quello dei giudicanti e quello dei requirenti. Al termine della riunione il presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera, Nazario Pagano, ha detto: “Il primo voto rappresenta un momento storico e decisivo, reso possibile grazie alla dedizione e alla collaborazione di tutte le forze coinvolte. Un ringraziamento speciale va al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e al viceministro, Francesco Paolo Sisto”. Proprio quest’ultimo ha voluto ribadire di essere “estremamente fiducioso che il 26 novembre il testo sulla separazione delle carriere nella magistratura arrivi in Aula. Quando c’è una data poi i lavori della commissione sono orientati a garantire che il percorso parlamentare culmini con l’arrivo in Aula”, ha spiegato sottolineando che il provvedimento “non è incompatibile con la manovra che è all’esame della Camera. Sono fiducioso che tutto si possa concludere entro l’anno esattamente come ha deciso il governo”. A criticare le parole del numero due di via Arenula ci ha pensato Federico Fornaro, dell’ufficio di presidenza del gruppo Pd alla Camera e componente della Commissione Affari costituzionali: “Il viceministro Sisto, che non ha ritenuto di intervenire durante la discussione degli emendamenti sulla riforma costituzionale riguardante lo sdoppiamento del Csm, all’uscita dalla Commissione ha affermato che l’iter di approvazione in prima lettura alla Camera si concluderà entro fine anno come “deciso dal Governo”. In una democrazia parlamentare il governo può auspicare ma non certo decidere i modi e i tempi dell’approvazione di una legge di riforma costituzionale. Una brutta sgrammaticatura istituzionale che rafforza l’idea che siamo di fronte non già a una corretta postura riformatrice ma una esibizione muscolare tipica del modello di dittatura della maggioranza”. Ci ha spiegato Francesco Michelotti, relatore del provvedimento per Fratelli d’Italia: “La maggioranza compatta ha bocciato i primi emendamenti delle opposizioni, confermando totalmente l’impianto della riforma e il testo del governo, che sosterremo graniticamente fino all’approdo in Aula, previsto già nelle prossime settimane. Andremo avanti con i lavori in commissione già da martedì prossimo, portando avanti l’impegno di riforma della giustizia preso con gli elettori”. Invece il capogruppo del Movimento 5 Stelle in Commissione, Alfonso Colucci, ha plaudito alla decisione di Pagano di dichiarare inammissibili per estraneità alla materia i due emendamenti della Lega che puntavano a inserire in Costituzione la prevalenza del diritto italiano su quello europeo: “Bene ha fatto, e per questo lo ringrazio, il presidente della commissione Affari Costituzionali della Camera Nazario Pagano”. Per Colucci, “il partito di Salvini pensava di fissare nella Costituzione la prevalenza del diritto italiano su quello europeo. Addirittura la Lega chiedeva di modificare uno dei principi fondamentali della nostra Carta. Non esito a definire questa azione, che si inserisce nel più generale attacco denigratorio della Lega e di tutto il centrodestra verso il potere giudiziario, di carattere eversivo al fatto che quegli emendamenti avrebbero colpito al cuore i vincoli che legano il nostro Paese alla dimensione sovranazionale europea”. Proprio per questo rigetto, il Carroccio ieri ha chiesto all’ufficio di presidenza del Senato una indagine sulla preminenza delle fonti di diritto, per stabilire se a pesare di più nelle decisioni della magistratura dovrebbe essere la legge italiana o quella comunitaria. La questione è stata affrontata in un confronto teso, secondo quanto riferito da fonti parlamentari. Per l’opposizione si tratta di uno “spreco di tempo”: contrari i senatori di Pd, Azione e M5s. Secondo la Lega la questione va invece affrontata e si potrebbe pensare a una revisione dei trattati o una modifica costituzionale. Alla fine la decisione, in considerazione del fatto che la maggioranza ha appoggiato la richiesta della Lega, è stata quella di procedere, ma non con un’indagine conoscitiva, che comporta un ciclo di audizioni che può durare molti mesi. Già Vassalli nell’87 definiva l’Italia un Paese “a sovranità limitata dalla magistratura” di Oliviero Mazza* Il Dubbio, 8 novembre 2024 L’attuale fase di scontro fra politica e magistratura ha un’origine ben precisa, che si cerca di occultare dietro a questioni apparentemente eccentriche, come quelle legate alla gestione dell’immigrazione, ed è rappresentata dal disegno di legge governativo sulla separazione delle carriere. Come diceva Giuliano Vassalli nel 1987, alla vigilia dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, “la magistratura ha un potere enorme… lo ha sul potere legislativo… è il più grande gruppo di pressione, è il più forte gruppo di pressione che abbiamo conosciuto, almeno nelle questioni di giustizia… in quaranta anni non c’è stata una legge in materia di giustizia che non sia stata ispirata e voluta dalla magistratura, la quale è diventata sempre più un corpo veramente corporativo”. In particolare, la legge di ordinamento giudiziario, la legge dei magistrati, appariva a Vassalli “intoccabile” proprio per l’opposizione dei suoi destinatari naturali. Un corto circuito costituzionale, in cui i “giudici soggetti soltanto alla legge” impongono le loro scelte al legislatore, soprattutto quando in gioco c’è lo stato giuridico della magistratura. L’Italia, concludeva amaramente Vassalli, è un Paese a “sovranità limitata dalla magistratura, nelle questioni di giustizia”. Non ci vuole molto per comprendere quale deflagrante conflitto possa aver innescato la scelta del governo Meloni di calendarizzare nei lavori parlamentari la riforma delle riforme, quella più temuta dalla magistratura e più convintamente sostenuta dall’avvocatura. In questo scenario da Armageddon si sono via via collocate anche tutte le altre riforme di questa legislatura, che vanno dal disegno di legge sicurezza, sul versante sostanziale, fino alla destrutturazione della Cartabia e a un nuovo garantismo, su quello processuale. È fin troppo scontato che chiunque prenda posizione su uno qualunque dei temi in discussione, come ha fatto l’Unione delle Camere Penali con la recente astensione dalle udienze contro il pacchetto sicurezza, finisca per essere strumentalizzato. In un imprevedibile gioco delle parti, nel denunciare la matrice illiberale dei nuovi reati l’avvocatura penale si è trovata schierata a fianco non solo dei partiti della sinistra, che hanno riscoperto un garantismo di facciata in chiave di opposizione al governo, ma addirittura alla magistratura che persegue proprio quell’obiettivo finale di fare naufragare la separazione delle carriere attraverso battaglie intermedie, come quella sui migranti. Nel corso della manifestazione romana il segretario Romanelli e il presidente Petrelli hanno ricordato che l’Ucpi non è un soggetto politico partitico, non tesse alleanze, nemmeno occasionali, essendo da sempre schierata solo sulla linea del garantismo costituzionale. Un soggetto che fa politica del diritto, nel senso dei valori che lo contraddistinguono e che sono scolpiti nel Manifesto, ma che rimane equidistante dalla politica in senso stretto. E allora, con l’onesta intellettuale che da sempre contraddistingue almeno la maggior parte dei penalisti, bisogna riconoscere che l’azione del governo va valutata nel suo complesso e presenta caratteri chiaroscurali. Se sul piano sostanziale il pacchetto sicurezza è l’ennesima scelta irrazionale e autoritaria delle politiche securitarie che si susseguono, senza soluzione di continuità, dalla fine del terrorismo interno, su quello processuale, e ancor di più su quello ordinamentale, le riforme proposte o già attuate vanno in direzione opposta. Basti ricordare, oltre al progetto di separazione delle carriere, l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, la riforma delle intercettazioni che tutela la segretezza delle comunicazioni fra imputato e difensore, il divieto di pubblicazione dell’ordinanza custodiale, le nuove garanzie in tema di libertà personale, dal contraddittorio anticipato alla collegialità, la limitazione del potere d’appello del pubblico ministero, la cancellazione degli odiosi oneri formali introdotti dalla Cartabia in materia di impugnazioni, rimasti solo per il difensore d’ufficio, quando però proprio i parlamentari di Fratelli d’Italia avevano proposto l’abrogazione completa. Senza dimenticare la proroga salvifica del regime di utilizzo della pec e del deposito cartaceo degli atti a fronte delle perduranti disfunzioni del portale telematico fortemente voluto dai tecnocrati del Pnrr, la riforma in chiave sostanziale della prescrizione, per finire con la Commissione di riforma del codice di procedura penale. Per la prima volta l’Ucpi ha una rappresentanza che va dalle due precedenti giunte fino a quella attuale, oltre ai componenti del Centro Marongiu. Certamente i lavori della Commissione Mura sono resi difficili dall’interdizione della folta componente della magistratura, ma si tratta pur sempre di un’iniziativa volta a ripristinare i principi del processo accusatorio. È davvero curioso che chi critica apertamente l’azione del ministro Nordio si riconosce in quelle forze politiche, oggi di opposizione, che si sono convertite sulla via di Damasco al garantismo, dopo aver sostenuto l’egemonia giudiziaria e creato un processo penale neo- inquisitorio da utilizzare come strumento di difesa sociale o di efficienza repressiva. Bisogna tornare ai tempi di Giuliano Vassalli per ritrovare un legislatore che avesse in mente un progetto di riforma processuale improntato al garantismo, magari con tecnica imperfetta, ma pur sempre in grado di segnare un deciso cambio di passo rispetto alle ultime stagioni, da Orlando passando per Bonafede fino alla Cartabia, animate dal parossistico efficientismo a tutto discapito delle garanzie individuali. La vera matrice autoritaria del sistema penale va ricercata nel tradimento del modello accusatorio originario e, ancor più, del disegno costituzionale del giusto processo. Il processo, non va mai dimenticato, è il cuore del sistema penale, in grado di compensare o addirittura di elidere gli eccessi del penale sostanziale e di mitigare la risposta punitiva carceraria. Come diceva Cordero, è guardando alla disciplina del processo penale che si colgono i rapporti fra autorità e cittadino in un dato momento storico. *Ordinario di Diritto processuale penale alla Bicocca Friuli Venezia Giulia. Carceri mai così sovraffollate di Lara Boccalon rainews.it, 8 novembre 2024 Negli ultimi tre mesi la popolazione carceraria in regione è aumentata del quaranta per cento. L’allarme del sindacato di polizia penitenziaria e del garante dei detenuti. A rilanciare l’allarme sul sovraffollamento carcerario il delegato nazionale per il FVG del sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria Massimo Russo sulla scorta degli ultimi dati aggiornati al 5 novembre. La situazione più grave a Trieste: 262 detenuti per una capienza di 150 posti. Non va meglio Udine: 184 detenuti per 86 posti, sovraffollate anche Gorizia e Pordenone. Al limite della capienza il carcere di massima sicurezza di Tolmezzo. A livello regionale il totale della popolazione carceraria oggi ha superato le 700 unità contro le 678 di luglio quando già il Fvg era terzo in Italia per sovraffollamento carcerario. Due terzi dei detenuti sono stranieri il cui rimpatrio o estradizione permetterebbe di far rientrare l’emergenza - osserva Russo: “Solo negli ultimi tre mesi la popolazione detenuta nelle carceri friulane è aumentata del 40% le carceri sono al collasso servono urgenti interventi di natura strutturale e sul personale all’interno di queste strutture al fine di evitare nuove rivolte come quelle occorse lo scorso luglio”. A Trieste si è tornati ai livelli di crisi della scorsa estate, la carenza di spazi costringe i detenuti a dormire sui materassi nei corridoi ed è riesplosa l’emergenza delle cimici dei letti presente da anni e mai risolta, segnala Russo. Tra il personale di polizia penitenziaria - rileva il sindacalista - cresce la preoccupazione e il timore di possibili rivolte mentre le aggressioni con sputi, insulti e minacce sono pressoché giornaliere così come aumentano i gesti autolesivi tra i detenuti, a Udine di recente tre in un solo giorno per protesta contro la mancanza del medico di guardia che questo mese sarà assente 20 giorni su 30 - fa sapere ancora Russo. “Una situazione devastante per la vita delle persone detenute e per il personale penitenziario”, commenta il garante regionale dei detenuti Enrico Sbriglia. Per Trieste serve a suo avviso immaginare una nuova struttura adeguata alle sue aspirazioni di città europea e nell’immediato quantomeno bloccare il fenomeno delle cosiddette porte girevoli, cioè il trasferimento in carcere delle persone in attesa di udienza di convalida dell’arresto. Sbriglia annuncia una sua prossima visita dove la situazione è più critica per verificare di persona e segnalare al Ministero. Toscana. Gli “Sportelli-ponte” per il reinserimento dei detenuti redattoresociale.it, 8 novembre 2024 Il servizio ha una funzione di collegamento con i servizi territoriali, mirato a ridurre la recidiva e rafforzare il concetto di continuità assistenziale nell’ambito della presa in carico globale della persona. Si chiamano “sportelli ponte” e sono dei servizi all’interno delle carceri toscane, rivolti in particolare ai detenuti che stanno concludendo il periodo di pena, al fine di favorire un loro reinserimento socio-professionale nel territorio una volta fuori dal carcere. Il servizio ha una funzione di collegamento con i servizi territoriali, mirato a ridurre la recidiva e rafforzare il concetto di continuità assistenziale nell’ambito della presa in carico globale della persona. Si tratta di un progetto finanziato con un milione di euro dall’assessorato alle politiche sociali e fa parte dei progetti che vedono impegnata la Regione Toscana per favorire le attività di relazione tra l’interno e l’esterno. I fondi stanziati vanno ad associazioni del Terzo settore che in sei penitenziari diversi gestiscono questo sportello. “Il rapporto con la società esterna - ha detto l’assessora regionale alle politiche sociali Serena Spinelli - è sempre molto delicato per le persone detenute: rafforzare questo legame è un fattore molto importante per favorire il loro graduale ed effettivo reinserimento”. Nello specifico, l’azione dello sportello ponte prevede l’attivazione di un servizio finalizzato a preparare la persona detenuta nella fase di pre-dimissione e reinserimento sociale, predisponendone un percorso personalizzato di orientamento e assistenza. Gli operatori del servizio avranno la funzione di collegamento con i servizi pubblici territoriali nel percorso di reinserimento sociale; avranno in carico il detenuto, segnalato dall’equipe penitenziaria nella fase di pre-dimissioni a fine pena e costituiranno un punto di riferimento anche nella fase immediatamente successiva di reinserimento sociale. Su richiesta dell’interessato, potranno essere attivati i collegamenti con servizi specialistici di supporto, da realizzarsi esternamente agli istituti, che avranno come obiettivo quello di rispondere a esigenze specifiche dell’ex-detenuto in ambiti particolari, quali ad esempio: problematiche legali correlate al fine pena, permessi di soggiorno, orientamento e formazione professionale, indirizzamento verso servizi socio-sanitari specialistici ecc. Complessivamente il servizio ponte dovrà garantire la copertura di una serie di necessità tipiche della persona nella fase di pre-dimissione e reinserimento nella società, quali, a titolo esemplificativo: indirizzare la persona verso i servizi pubblici territoriali; supportare la persona nelle problematiche legali correlate al fine pena; fornire assistenza alle persone straniere per la richiesta di documenti personali e permessi di soggiorno; agevolare il collegamento con i centri per l’impiego o verso i servizi di orientamento e/o formazione professionale; informare e agevolare il collegamento con i servizi sociali territoriali; informare sui servizi disponibili in merito a problematiche sanitarie. Il servizio ponte supporta l’ex-detenuto nei tre mesi successivi alla data di scarcerazione. Calabria. Il Garante regionale dei detenuti si dimette: “Sussistono difficoltà operative” calabriainforma.it, 8 novembre 2024 Il Garante regionale dei diritti delle persone detenute, Luca Muglia, ha rassegnato nei giorni scorsi le proprie dimissioni. “Ho comunicato” - rende noto l’avvocato Muglia in una nota - “le dimissioni dall’incarico di Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, attesa la sussistenza di difficoltà operative e di ragioni di natura personale. Ringrazio il Consiglio regionale della Calabria per la fiducia accordatami. Sono stati due anni intensi e molto produttivi, mi auguro che la strada tracciata a tutela della dignità e dei diritti fondamentali delle persone detenute o private della libertà personale rappresenti in futuro una priorità imprescindibile per la nostra regione”. Modena. La cooperativa sociale Eortè e il lavoro che rigenera i detenuti notiziecarpi.it, 8 novembre 2024 Presentazione ufficiale per il laboratorio di pasta all’interno del carcere di Sant’Anna di Modena che coinvolge al momento quattro detenuti. Pubblico delle grandi occasioni per la presentazione ufficiale del Laboratorio Sant’Anna all’interno della Casa circondariale di Modena. Un’attività iniziata già da qualche mese e dopo un periodo di rodaggio i quattro giovani detenuti coinvolti, un italiano, un magrebino e due centrafricani hanno acquisito e consolidato le necessarie competenze. Lo scorso 4 novembre le porte del carcere Sant’Anna si sono aperte per accogliere autorità, partner, sponsor, giornalisti, operatori e volontari che hanno accolto l’invito della cooperativa sociale Eortè di Limidi di Soliera (aderente a Confcooperative Terre d’Emilia), ideatrice del progetto, a questo momento inaugurale. Giovani all’opera tra sfoglia e pesto per confezionare la pasta fresca e una tavola imbandita con le altre produzioni del laboratorio hanno fatto da cornice alla breve cerimonia all’interno dell’ampia cucina. A dare il benvenuto agli ospiti c’erano il presidente di Eortè Roberto Zanoli e il direttore del carcere Orazio Sorrentini. “È stato un atto di coraggio intraprendere questa impresa - ha dichiarato Zanoli - ma ci vuole coraggio per prendersi cura del benessere e del futuro dei nostri fratelli detenuti”. Dopo i primi mesi di lavoro è già possibile tracciare un bilancio non tanto economico quanto di “valori”: “abbiamo ricevuto sostegno, finanziamenti, formazione e soprattutto accoglienza” ha ribadito Zanoli ringraziando per la convinta adesione la direzione del carcere e tutti gli operatori. Per il direttore Sorrentini “è indispensabile creare ponti tra carcere e realtà esterna, che si esprime sia nell’attenzione delle Istituzioni del territorio ma anche attraverso progetti come questo che dimostra quanto bene si può fare anche in questo contesto. C’è un aspetto propositivo della pena che guarda al futuro in chiave preventiva per evitare le recidive”. Tra i presenti anche l’arcivescovo Erio Castellucci, la chiesa di Modena è tra i partner dell’iniziativa, il quale ha evidenziato come l’attività di cucina rimanda “ad un’esperienza domestica, fa sentire il sapore di casa qualsiasi sia la provenienza di chi partecipa al laboratorio. Poi ci sono altre opportunità di formazione al lavoro ed è questo l’aspetto migliore del carcere che bisogna favorire”. Mentre su invito della direttrice di Eortè, Valentina Pepe, partivano le prime degustazioni degli antipasti, gli aspiranti chef erano già ai fornelli pronti a confezionare un assaggio di tortellini. Non prima che lo chef, quello già affermato, Rino Duca esprimesse tutta la sua soddisfazione per il percorso fin qui compiuto, “lavorare in carcere - ha confidato - è molto intenso, perché non ci si può limitare a trasferire delle informazioni e delle competenze manuali, entri in rapporto con le persone, stai fianco a fianco per ore, c’è tanto rapporto umano attorno alla chiusura di un tortellino, si mettono insieme varie umanità e tante storie”. Infine un ringraziamento alla città e alle comunità che hanno risposto positivamente acquistando i prodotti ragion per cui sono aumentate le ore di lavoro ed è stato necessario ricorrere all’aiuto di un altro chef Nicola Bertoncelli. La convenzione tra la cooperativa Eortè e la casa circondariale di Modena è stata firmata il 21 febbraio scorso. Il progetto, che ha il patrocinio del Comune di Modena, è co-finanziato dall’arcidiocesi di Modena-Nonantola, Bper, Fondazione Cattolica Assicurazioni, Fondazione di Modena, Cassa Ammende, Fondazione Bsgsp. Inoltre, ha vinto uno dei premi assegnati in aprile da Imprendocoop (il progetto di Confcooperative Terre d’Emilia che favorisce l’imprenditorialità e l’occupazione). Utilizzando materie prime locali, a cominciare dalle verdure coltivate nell’orto del carcere, ogni settimana il laboratorio produce in media 120-130 kg di pasta fresca ripiena (tortellini, tortelloni, tortelli e tortellacci) e 150 kg di prodotti secchi da forno, dolci e salati (biscotti, grissini, streghette). I punti vendita - Per ora i primi clienti sono stati soprattutto Gas (gruppi di acquisto solidale) a Modena e provincia, empori solidali, festa provinciale Pd, ma anche aziende come la Tetrapak, che ha creato un portale web per raccogliere gli ordini tra i suoi dipendenti. Inoltre, da un paio di mesi è attivo il banco al mercato contadino di Carpi al sabato mattina. Nei prossimi mesi si prevede di allargare la rete commerciale a ristoranti e tavole calde, gastronomie e macellerie. Reggio Calabria. +Europa: appello per nuovi volontari e informazione ai detenuti sui loro diritti reggiotoday.it, 8 novembre 2024 Una delegazione di Più Europa ha effettuato una visita al carcere “Giuseppe Panzera” di Reggio Calabria, con l’intento di promuovere un confronto proficuo con l’amministrazione carceraria e le figure apicali, per approfondire le problematiche legate alla struttura e per garantire un dialogo costruttivo in relazione ai diritti dei detenuti. La visita ha riguardato in particolare le sezioni di alta sicurezza maschile e la sezione femminile, dove la delegazione ha avuto modo di raccogliere informazioni dirette sulle condizioni di detenzione e sulle modalità di comunicazione con i detenuti riguardo ai loro diritti, in particolare per quanto concerne le richieste di permessi e gli altri diritti previsti dall’ordinamento penitenziario. Un aspetto centrale dell’incontro è stato il dialogo con la direzione del carcere, finalizzato a esplorare possibili iniziative per migliorare la qualità della vita dei detenuti, a partire dalla valorizzazione della biblioteca carceraria, con l’obiettivo di ampliare l’offerta di attività culturali e formative. Più Europa ha manifestato in tal senso la propria disponibilità a collaborare con l’amministrazione per sviluppare nuovi progetti e ha espresso altresì la volontà di interloquire con il mondo sindacale per garantire ai medici che operano nelle strutture penitenziarie adeguate gratificazioni, con particolare attenzione al contratto decentrato, che deve riconoscere il valore del loro impegno professionale in queste strutture. Il referente regionale di Più Europa per la Calabria, Fabio Signoretta, al termine della visita ha sottolineato “l’importanza di rafforzare il tessuto sociale attorno alle carceri. Rivolgo un appello a tutti i cittadini, le cittadine e gli imprenditori locali per contribuire alla crescita e al miglioramento delle attività nelle strutture penitenziarie. In particolare, invito nuovi volontari a farsi avanti per avviare ulteriori attività all’interno del carcere, utilizzando anche gli spazi disponibili nella struttura”. Nel corso della visita, Più Europa ha scelto di avvalersi della presenza di due esperti in diritto penale, gli avvocati Valentino Mazzeo e Maddalena Aglieco, professionisti che operano da tempo sul territorio di Reggio Calabria e che sono da sempre sensibili alle tematiche legate ai diritti dei detenuti. Le loro competenze hanno arricchito il confronto con le autorità carcerarie e contribuito a delineare possibili percorsi di miglioramento delle condizioni di vita all’interno del carcere. A margine dell’incontro, Fabio Signoretta ha inteso anche rivolgere “un sentito saluto e ringraziamento al Garante regionale dei detenuti recentemente dimessosi, con l’auspicio che la nomina del nuovo Garante avvenga al più presto e che il nuovo incaricato risponda in modo adeguato alle effettive esigenze della popolazione carceraria”. “Il nostro impegno non finisce con questa visita - ha concluso Signoretta - Le carceri devono essere luoghi di recupero e il nostro partito è pronto a fare la sua parte per realizzare questo cambiamento, rimanendo disponibile a dialogare con quanti condividono questa visione”. Più Europa desidera anche esprimere un sentito ringraziamento a tutta la direzione e al personale penitenziario del carcere “Giuseppe Panzera” per l’accoglienza e la disponibilità dimostrate durante la visita. La collaborazione e l’apertura mostrata permettono di affrontare con maggiore consapevolezza e determinazione le problematiche legate al sistema penitenziario. Da segnalare che alla visita ha partecipato anche Valentina Fusca, componente della giunta nazionale dei Radicali Italiani. Prato. La giustizia che ripara. La messa alla prova si può fare nei Comuni La Nazione, 8 novembre 2024 È stato firmato ieri in tribunale di Prato il protocollo d’intesa per la Map (Messa alla prova), a cui la giunta ha dato il via libera lo scorso 29 ottobre. Con questa firma il Comune di Prato rinnova la convenzione con il tribunale per l’attivazione dell’istituto della sospensione del processo con Messa alla prova. L’accordo è stato firmato dal Comune di Prato e da quelli di Montemurlo, Vernio, Cantagallo e Vaiano, oltre che dalla presidente del tribunale facente funzione Lucia Schiaretti e dalla direttrice generale dell’Ulepe (Ufficio per l’esecuzione penale esterna) di Prato Alessandra Pellegrini. Come ha spiegato la presidente del tribunale facente funzione Lucia Schiaretti, la messa alla prova è una modalità alternativa di definizione del processo, attivabile fin dalla fase delle indagini preliminari, attraverso la quale è possibile pervenire a una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato quando il periodo di prova a cui accede l’indagato o l’imputato si concluda con esito positivo. Viene utilizzato per i cosiddetti “reati minori”. Tale istituto prevede lo svolgimento di un lavoro di pubblica utilità che si declina nelle attività indicate nel programma di prova predisposto dallo stesso indagato-imputato di concerto con l’Ufficio esecuzione penale esterna del tribunale e approvato dal giudice che può effettuare delle modifiche con il consenso dell’interessato. Grazie alla precedente convenzione, sono stati attivati 11 progetti di messa alla prova all’interno dell’ente. Si è trattato di collaborazioni alle attività degli uffici comunali in compiti amministrativi, di accoglienza o di supporto con esiti molto positivi che hanno dimostrato un’elevata motivazione nel portare a termine il periodo di prova. La nuova convenzione coprirà il periodo 2025-2029, rinnovabile per altri cinque anni tacitamente. “Questo è il primo passo verso la realizzazione di una forma di giustizia comunitaria e il nostro auspicio è quello di riuscire a dimostrare che dagli errori può nascere qualcosa di positivo - ha detto la sindaca Ilaria Bugetti - Di fatto la Map è un modo per offrire ai cittadini la possibilità di riscattarsi attraverso una seconda opportunità e un vero e proprio percorso di recupero”. “Aderiamo a questo protocollo con soddisfazione e con la volontà di collaborare in modo concreto con il tribunale e l’ufficio esecuzione penale esterna per poter contribuire alle possibilità che l’ordinamento giuridico prevede rispetto alla messa alla prova - ha detto il sindaco del Comune di Montemurlo, Simone Calamai - Questo tipo di prestazioni lavorative, che saranno svolte a Montemurlo, rappresentano un modo di potersi avvalere, per un certo numero di ore e in forma completamente gratuita, di persone che hanno particolari professionalità e che potranno dare un contributo agli uffici comunali e alla nostra collettività”. “Abbiamo fra le 180 e le 200 persone all’anno, spesso sono professionisti, ad esempio architetti che sono finiti indagati per l’apertura di una porta o di una finestra - spiega Alessandra Pellegrini, direttrice Ulepe - Abbiamo un territorio variegato e accogliente e noi possiamo incrociare le peculiarità delle persone che arrivano nei nostri uffici per svolgere lavori di pubblica utilità e messa alla prova con le varie realtà del territorio. Finalmente riusciamo a convenzionarci con i Comuni e questo è un segnale che veramente si può fare anche una ‘giustizia di comunità’”. Alessandria. Un incontro per riflettere sul carcere “Cantiello e Gaeta”: 185 anni di storia di Marcello Feola ilpiccolo.net, 8 novembre 2024 Lunedì alle 17 un incontro pubblico sulla struttura penitenziaria, dalla sua origine al futuro delle politiche di esecuzione penale. Lunedì 11 novembre alle 17, al Fuga di Sapori Bistrò di piazza don Soria 37, evento pubblico dedicato ai 185 anni della struttura penitenziaria “Cantiello e Gaeta”. Organizzato in collaborazione con il Garante delle persone detenute della Città di Alessandria, l’incontro offrirà un momento di riflessione sulla storia, l’attualità e le prospettive future dell’edificio. L’incontro, moderato da Bruno Mellano, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, vedrà la partecipazione di esperti di edilizia penitenziaria e docenti del Politecnico di Torino. La professoressa Annalisa Dameri del Dipartimento di Architettura e Design aprirà l’evento con una relazione storica sulla nascita e sull’evoluzione della struttura. Progettata nel 1839 con un bando internazionale per il Regno Sardo-Piemontese. “Cantiello e Gaeta”, interventi e prospettive - Oltre alla panoramica storica, Paolo Mellano, docente di Progettazione architettonica, e Cesare Burdese, architetto specializzato in edilizia penitenziaria, discuteranno di sfide e opportunità. Obiettivo, rendere Alessandria un centro innovativo per l’esecuzione penale. Tra i temi trattati, la necessità di aggiornare il concetto di detenzione, valorizzando un approccio che integri l’umanizzazione della pena e il reinserimento. Informazioni di contatto - Per maggiori dettagli, è possibile contattare il Garante dei detenuti della Regione Piemonte tramite email all’indirizzo garante.detenuti@cr.piemonte.it. Ivrea (To). Arrivano i gatti in carcere: 7 felini saranno accuditi a turno dai detenuti di Alessandro Previati La Stampa, 8 novembre 2024 Un’iniziativa che “gioverà al benessere delle persone e degli animali”. I felini senza famiglia e sono stati recuperati da un’associazione del Vercellese. Si chiama “Gatti galeotti” ed è il progetto pilota partito questa mattina nelle aree all’aperto del carcere di Ivrea (Torino). Sette mici saranno accuditi, a turno, da un gruppo di nove detenuti della casa circondariale che hanno dato la loro disponibilità a prendere parte all’iniziativa. Una “pet therapy” in un luogo complesso come il carcere: “Un’operazione non scontata - ha spiegato il sindaco eporediese, Matteo Chiantore - che sposa un concetto a noi caro, quello del “prendersi cura”. “In questo caso si tratta del benessere animale e delle persone, i detenuti, che attraversano un momento particolare della loro vita e non devono essere lasciati soli”, ha detto Chiantore. Il progetto è stato finanziato dalla Regione Piemonte, realizzato grazie all’impegno dell’assessore Gabriella Colosso e della direttrice del carcere, Alessia Aguglia. Con il supporto di diverse associazioni di volontariato e del personale della polizia penitenziaria. “È un progetto di una grande rilevanza sociale e rieducativa - conferma la direttrice del carcere - abbiamo selezionato una serie di detenuti che, a rotazione, si prenderanno cura dei gatti. Sono persone che, in gran parte, non hanno contatti con l’esterno e alle quali il contatto con gli animali farà un gran bene”. In arrivo altri felini - I gatti, grazie al supporto dell’associazione “Alfamici”, sono stati recuperati da una situazione difficile nel vercellese e selezionati per far parte dell’avvio di questa iniziativa che, negli auspici dell’amministrazione comunale, verrà ampliata nei prossimi mesi con l’arrivo di altri felini. “Gatti galeotti è nato con l’intento di procedere al recupero, alla sterilizzazione e alla futura adozione di alcuni mici senza famiglia - sottolinea l’assessore Colosso - ma è volto anche a dimostrare come l’amore per gli animali e il prendersi cura di loro possa avere un ruolo nella rieducazione di chi si trova nella Casa circondariale”. Palermo. Al Pagliarelli in scena uno spettacolo teatrale, gli attori sono i detenuti Giornale di Sicilia, 8 novembre 2024 Qualche lacrima di commozione è scesa tra il pubblico che ha assistito, nel pomeriggio, allo spettacolo che al carcere Pagliarelli di Palermo ha visto protagonisti alcuni dei detenuti della casa circondariale, nell’ambito della programmazione del Prima Onda Fest. Lo spettacolo, dal titolo “(Dis)Incanto” ha visto in scena i detenuti della compagnia teatrale Evasioni, per la drammaturgia e regia di Daniela Mangiacavallo, che promuove con l’associazione Baccanica il progetto della Fondazione Acri intitolato “Per Aspera ad Astra”; finalizzato a portare il teatro in carcere, per contribuire al recupero dell’identità personale e alla risocializzazione dei detenuti. “Lo spettacolo - spiega la regista - riflette sulla capacità dell’uomo, oggi, di poter ancora provare incanto. Uno sguardo puro, un animo di bambino e la capacità di abbandonarsi alla fantasia e al sogno: queste le porte per accedere al bello e alla realtà più profonda e nascosta delle cose”. In scena 17 detenuti con le attrici e le assistenti di scena Alba Sofia Vella e Antonella Sampino. Assistenze alla drammaturgia e alla regia Fabiola Arculeo, Oriana Billeci, Marzia Coniglio. “Io qui sono un detenuto nella sua cella, come tanti - racconta uno di loro, A.C. - qui invece, in scena, sono Lucio, il personaggio”. Nell’inchinarsi, un altro di loro ringrazia tutti per avergli fatto vivere questa esperienza. “Sono contento di aver vissuto tutto questo - dice G.G -, l’applauso del pubblico per me conta tanto. Non ci sono parole per esprimere la mia emozione. Il teatro ci fa dimenticare, per quale istante, il contesto e il momento che stiamo vivendo”. Il progetto “Per Aspera ad Astra” vede in rete quattordici istituti di pena italiani e come capofila la compagnia della Fortezza. Ha avuto inizio nel carcere di Volterra, nel 1994 con il regista Armando Punzo. Disobbedire per riaffermare diritti e idee di Franco Corleone L’Espresso, 8 novembre 2024 Di fronte alla “emorragia di umanità” che contraddistingue il potere si ha il dovere di reagire. Don Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele e di Libera in un’intervista al quotidiano Avvenire del 22 ottobre indica la necessità di una svolta epocale: “Sciopero della fame per i diritti dei più deboli. È l’ora dell’obiezione di coscienza”. Le sue parole costituiscono un Manifesto per l’alternativa alla “emorragia di umanità” che contraddistingue il potere, ma che contagia tutti, producendo indifferenza e assuefazione alle tragedie umanitarie in corso. Occorre reagire - è la proposta di don Ciotti - con un grande sciopero della fame o digiuno di massa come quelli di Gandhi e di Aldo Capitini, per solidarietà con le vittime della violenza e dell’ingiustizia (in primo luogo migranti, morti sul lavoro, morti per mafia) ma ancor più per dare corpo e programma alle idee di (nuova) resistenza e cambiamento, per riaffermare i valori della Dichiarazione universale dei diritti umani e della Costituzione. Assieme, don Ciotti propone l’obiezione di coscienza contro le leggi ingiuste, con un cambio di passo e finalmente una lettura diversa dalla retorica della legalità in voga da decenni. Ricorda infatti il don Milani del “disobbedire è una virtù”, di quella lettera ai cappellani militari sul diritto all’obiezione di coscienza, ancora decisamente attuale in questi tempi di guerra e di morte. Dopo il caso dei migranti deportati in Albania e gli attacchi pretestuosi e sguaiati del governo ai giudici, rei di avere applicato la legge, ho recuperato un saggio di Alessandro Margara altrettanto attuale. Uscito nel 2009 su Questione giustizia l’ho ripubblicato nell’antologia dei suoi scritti La giustizia e il senso di umanità, che ho curato con passione, che aveva il titolo impegnativo: “A proposito delle leggi razziste e ingiuste”. Margara affermava preliminarmente il principio deontologico che le leggi ingiuste vanno contestate: l’esempio illuminante è quello dell’apartheid negli Stati Uniti e in Sudafrica e, ancor prima, delle leggi tedesche e italiane, fasciste e naziste, basate sul concetto di purità della razza. Margara sottolineava l’ottundimento dei giudici che non si ribellarono e il rischio che lo stesso atteggiamento si verifichi in un regime di democrazia maggioritaria in violazione della Costituzione. A supporto, citava Gustavo Zagrebelsky: “Di legalità si vive quando corrisponde alla legittimità. Ma altrimenti si può anche morire. Alla fine è pur sempre la legittimità a prevalere su una legalità ridotta a fantasma senz’anima”. Di conseguenza il confronto si rivelava tra l’incostituzionalità delle leggi e l’anticostituzionalità: un dissidio insuperabile. Al riguardo veniva richiamato anche Stefano Rodotà: “Il principio di eguaglianza è stato violato eclatantemente e tutto il quadro dei diritti è in discussione (…) Mi riferisco al razzismo delle impronte prese ai bambini rom, alla xenofobia discriminatoria dell’aggravante per i clandestini”. Correva l’anno 2008. Oggi su quella scia con l’ennesimo pacchetto sicurezza del governo Meloni ci troviamo di fronte alle proposte di incarcerare le donne in gravidanza perché rom, alla resistenza passiva e alla nonviolenza trasformate in reato e punite con anni di carcere. Occorre reagire con la non collaborazione e la disobbedienza. La proposta di don Ciotti va raccolta e rilanciata dai sindacati, dalle associazioni e dai partiti. Non si può rimanere inerti. Migranti. Con il decreto-legge “Paesi sicuri” è il Governo a ostacolare il lavoro dei magistrati di Vitalba Azzollini* Il Domani, 8 novembre 2024 Esponenti della maggioranza ripetono in questi giorni che i giudici starebbero ostacolando l’attuazione delle politiche migratorie del governo. Di fatto, è vero l’opposto. È l’esecutivo che, con il recente decreto-legge “Paesi sicuri” (n. 158/2024), prova a rendere più difficoltoso il lavoro dei magistrati. Sulle modalità usate per ottenere questo risultato dovrà pronunciarsi la Corte di Giustizia dell’Unione europea, a seguito della richiesta del 4 novembre scorso da parte del tribunale di Roma. Siccome tali modalità sono passate quasi sotto silenzio, serve spiegarle con chiarezza. La lista dei paesi sicuri - Il 7 maggio scorso, con un decreto interministeriale (Esteri, Interno e Giustizia) era stata aggiornata la lista dei Paesi di origine sicuri, aumentandone il numero rispetto a quella precedente. Ciò affinché sempre più richiedenti protezione internazionale fossero assoggettabili a procedura accelerata - caratterizzata da automatismi decisionali e, quindi, da forti limitazioni delle garanzie per i migranti - l’unica applicabile in Albania. I paesi erano stati valutati come sicuri sulla base di schede informative relative a ciascuno di essi, richiamate nel decreto. Tali schede, pur non essendo materialmente allegate a quest’ultimo, erano state rese note a seguito di una richiesta di accesso da parte dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione. Con il citato decreto-legge del 23 ottobre scorso, sono stati eliminati dall’elenco precedente tre paesi che presentavano aree non sicure, nonostante la Corte Ue, con una sentenza del 4 ottobre, avesse affermato che la sicurezza deve riguardare ogni categoria di persone, oltre che tutto il territorio. L’ostacolo ai giudici - Il nuovo decreto-legge, a differenza del previgente decreto interministeriale, non fa più alcun cenno alle schede-paese, né riporta le specifiche fonti informative utilizzate dal governo per la designazione dei paesi come sicuri. La mancata esplicitazione degli elementi informativi e dei criteri usati per tale designazione ostacola la verifica, da parte sia della difesa del migrante sia dei giudici, circa la correttezza della designazione stessa e, conseguentemente, dell’applicazione della procedura accelerata di frontiera. In altre parole, l’assenza di indicazioni, nel recente decreto, circa le modalità con cui il governo è arrivato a definire un paese come sicuro priva i giudici di riferimenti utili a valutare l’attendibilità, la fondatezza e l’attualità della sicurezza stessa. Il fine dell’esecutivo è evidentemente quello di far prevalere la presunzione in base a cui chi provenga da un paese qualificato come sicuro sia considerato automaticamente come non avente diritto all’asilo, senza possibilità che i giudici possano interferire. Il punto è cruciale, e rappresenta il motivo per cui questi ultimi si sono rivolti alla Corte Ue. Il rinvio alla Corte di Giustizia Ue - Il tribunale di Roma ha chiesto alla Corte europea se il legislatore nazionale debba esplicitare fonti informative, metodo e criteri di giudizio adoperati per indicare un Paese come di origine sicuro. L’opacità del nuovo decreto circa tali elementi comporta, secondo il tribunale, la difficoltà per i giudici di esprimere un giudizio sulla fondatezza dell’indicazione stessa, e ciò potrebbe essere incompatibile con il diritto dell’Unione. I giudici hanno chiesto altresì alla Corte di sapere se il magistrato, per valutare la designazione di un Paese come sicuro, possa servirsi di proprie fonti informative qualificate (C.O.I. - Country of Origin Information) al fine di confrontare i relativi elementi di conoscenza con quelli usati dal legislatore, qualora quest’ultimo li abbia esplicitati; o, nel caso in cui non l’abbia fatto, per svolgere un autonomo vaglio circa tale designazione. Se al giudice non fosse concesso di accertare in concreto la sicurezza del paese, e quindi la legittimità dell’applicazione della procedura accelerata, le garanzie del richiedente asilo sarebbero significativamente ridotte, sul piano sia amministrativo che di difesa giudiziaria. Eppure è proprio ciò che il governo sembra aver voluto ottenere, con buona pace del diritto a un ricorso effettivo, sancito in convenzioni internazionali, spettante al migrante. Sulle questioni esposte dovrà pronunciarsi la Corte Ue, destinataria di vari rinvii pregiudiziali riguardo al nuovo decreto paesi sicuri. Con tale decreto l’esecutivo riteneva di aver “blindato” l’elenco di tali paesi. Avevamo scritto sin dall’inizio che così non sarebbe stato, e fatti lo dimostrano. Ora non resta che attendere le decisioni della Corte, vincolanti per tutti i giudici. Ai governanti nazionali non basteranno fantasiose soluzioni normative per riuscire a sottrarsene. *Giurista Migranti. Sbarco in Albania per gli 8 migranti della Libra: cosa succederà stavolta? di Antonio Maria Mira Avvenire, 8 novembre 2024 Seconda missione per la nave della Marina Militare: a bordo bengalesi ed egiziani. Intanto a Lampedusa in tre giorni sono sbarcati in 1.400. Nave Libra ha sbarcato questa mattina nel porto di Shengjin in Albania gli otto migranti bengalesi e egiziani “selezionati” in mare a sud di Lampedusa. In realtà, secondo alcuni testimoni, il pattugliatore della Marina militare sarebbe già in zona dalla mattina di giovedì. Ma non si è visto. Anche se altri testimoni assicurano che si trovi a 12 miglia dalla costa. Comunque dopo lo sbarco sarà effettuato un nuovo screening, oltre a quello effettuato a bordo. Tre settimane fa, in occasione dell’arrivo dei primi 16 migranti, proprio con questi nuovi accertamenti si scoprì che due erano minorenni e due malati: vennero immediatamente portati in Italia. Dopo lo screening gli otto dovranno affrontare la Commissione territoriale per la richiesta d’asilo. Poi interverrà il Tribunale di Roma che per i 12 precedenti decise per la “liberazione” e il ritorno in Italia. In assenza di comunicazioni ufficiali, il deputato Riccardo Magi di +Europa ha avanzato ai ministeri dell’Interno e delle Infrastrutture e dei Trasporti e al Comando Generale della Guardia Costiera, un’istanza formale di accesso agli atti amministrativi relativamente alle due operazioni. Intanto malgrado le condizioni meteomarine stiano peggiorando continuano gli sbarchi a Lampedusa e i salvataggi delle Ong. Due sbarchi sull’isola per un totale di 75 persone. Durante la notte, la motovedetta Cp307 della Guardia costiera ha soccorso un barchino con 50 migranti, tra gambiani, ivoriani, malesi, nigeriani, partiti da Sfax in Tunisia. Tra loro dieci donne e quattro bambini. A Cala Pisana sono stati invece intercettati dai militari della Guardia di finanza 25 siriani e sudanesi giunti con un gommone partito da Ras Agedir in Libia. I migranti hanno detto di voler raggiungere la Germania, l’Olanda e la Norvegia. Concluso anche lo sbarco a Pozzallo dalla nave Ong Sea Eye 5 con a bordo 78 migranti, tra cui 14 minori. L’imbarcazione aveva effettuato tre salvataggi per un totale di 110 persone e aveva chiesto, per il sovraccarico che rendeva pericolosa la navigazione, di potere sbarcare a Lampedusa ma non è stato consentito. Ed è stata indicata prima Ortona e poi Pozzallo. Nell’isola sono sbarcate, dopo trasbordo, 32 persone e un uomo che aveva una sovrainfezione batterica agli arti inferiori e aveva bisogno di assistenza medica. Le altre 78 persone hanno proseguito fino a Pozzallo. Vengono in particolare dalla Tunisia ma anche da Siria, Pakistan, Egitto e Afghanistan. Ben più lungo il viaggio che dovrà fare la Ocean Viking della Ong Sos Mediterranee con a bordo 185 persone, soccorse in più interventi, alla quale è stato assegnato Genova come porto di sbarco. Intanto si sta chiarendo come sia stato possibile lo sbarco di più di 2mila persone, a fronte dei soli 8 poi portati in Albania. E ricompaiono, come altre volte, le “navi madri”. Tre presunti scafisti sono stati sottoposti a fermo dalla procura di Agrigento, per aver procurato l’ingresso illegale in Italia di 24 tunisini, fra cui 3 minori e una donna. I tre, anche loro tunisini, hanno trasportato sul peschereccio “Sidi Bohlal Ma605” i migranti e il 2 novembre giunti in prossimità delle acque italiane, non lontano da Lampedusa, hanno trasbordato il gruppo su un barchino di ferro al traino, che fino a quel momento era rimasto vuoto. Subito dopo il trasbordo, il peschereccio ha invertito la rotta dirigendosi verso le coste tunisine. Un aereo dell’agenzia europea Frontex ha ripreso quanto era avvenuto, così le motovedette di Guardia costiera e Guardia di finanza hanno potuto soccorrere i migranti e bloccare il peschereccio. La successiva attività di indagine condotta da Polizia, Finanza e Guardia di finanza ha permesso di accertare l’assenza a bordo di pescatori e con le reti completamente asciutte. I migranti per la traversata cominciata da Sfax avrebbero pagato 2.500 dinari tunisini, più del doppio del prezzo consueto di 1.000-1.200 dinari. Una cifra giustificata dalla maggiore sicurezza rispetto alla traversata fatta su un natante partito direttamente dalla costa tunisina. Già nel 2023 vi erano stati più fermi di pescatori tunisini convertitisi in trafficanti. Ma in questi giorni oltre alla maggiore sicurezza, i trafficanti con l’uso delle “navi madri” provano e riescono ad evitare di essere intercettati in acque internazionali da dove potrebbero finire in Albania. Strategia vincente, visto il numero degli sbarcati a Lampedusa, molti dei quali provenienti proprio dai cosiddetti “Paesi sicuri”, soprattutto Bangladesh, Egitto, Tunisia e Marocco. Evidentemente il peschereccio bloccato non è l’unico ad aver operato in questi giorni, lontano dall’area dove si trovava nave Libra, che, infatti, alla fine è riuscita a “caricare” solo 8 migranti. Migranti. La rabbia degli albanesi: “Nel Centro di Gjader pochi posti di lavoro e malpagati” di Flavia Amabile La Stampa, 8 novembre 2024 E l’Ue prende le distanze dall’accordo tra Roma e Tirana: “Per ora non sta funzionando”. “Il centro di Gjader? Una delusione per noi abitanti”. Aleksander Milici ha vissuto per anni tra Italia, Inghilterra e Germania. Da tre mesi è tornato nel paese dove abitano ancora i suoi genitori e non riesce a trattenere la rabbia per quello che sta accadendo. “Il campo che ha realizzato l’Italia con il presidente Rama non ha portato nulla a Gjader”. Avrebbe dovuto portare lavoro e un po’ di benessere a questo piccolo paese al confine con il Montenegro il centro per il quale per il 2024 sono state stimate spese per 144 milioni di euro, per il 2025 127,3 milioni e per il 2026 127,5 milioni. Così come l’intera operazione avrebbe dovuto consentire al governo Meloni di imprimere una svolta decisiva alla battaglia contro l’immigrazione irregolare. Finora nulla di tutto questo sembra essere stato raggiunto, e ieri una pesante bocciatura è arrivata anche dall’Ue dove è sempre più evidente che si naviga a vista in attesa di una direttiva che regoli i rimpatri. I centri per i migranti in Albania “si basano su un accordo bilaterale” tra Roma e Tirana, “non si tratta di un progetto dell’Ue. Vedremo come funzionerà, per ora non sta funzionando bene”, ha preso le distanze Marta Kos, commissaria europea designata all’Allargamento durante l’audizione di conferma alla Commissione Affari esteri (Afet) del Parlamento europeo, replicando a una domanda dell’europarlamentare Ilaria Salis sull’accordo Italia-Albania sulla gestione della migrazione. “La vedo solo come un’opportunità per valutare come può funzionare se viene fatto in modo diverso. - ha aggiunto Marta Kos - Ciò che abbiamo deciso di fare nell’Ue è un patto per la migrazione e l’asilo ed è su questo che lavorerò. Per me questa è la priorità”. Solo 25 euro al giorno per lavorare nel centro dei migranti in Albania: “Giorgia Meloni vieni a vedere come si vive qui” - Nulla però sembra fermare il governo Meloni. È arrivata questa mattina al porto di Shengjin la nave Libra con il suo carico di 8 persone. Otto uomini partiti da Egitto e Bangladesh che secondo il governo non sono considerati Paesi sicuri e quindi non danno diritto ad alcuna protezione. Come già tre settimane fa i migranti racconteranno la loro storia, i motivi per cui sono fuggiti e le difficoltà incontrate durante il viaggio con la speranza che anche per loro la decisione di portarli nel centro di Shengjin per le pratiche di identificazione e poi in quello di Gjader per il trattenimento possa essere rivista facendoli rientrare rapidamente in Italia. È il secondo tentativo da parte del governo di far decollare l’operazione Albania. L’affronta con una nuova lista di Paesi sicuri inserita in un decreto legge per aggirare la sentenza del 4 ottobre della Corte di Giustizia dell’Ue che ha permesso il rientro in Italia di tutti i migranti finora sbarcati al di là dell’Adriatico che stabilisce che per essere considerato sicuro un Paese deve esserlo in ogni sua parte, senza eccezioni, rendendo molto più debole la possibilità di effettuare i respingimenti desiderati dal governo Meloni. Si vedrà nei prossimi giorni se il secondo tentativo avrà maggiore successo del precedente ma dalle parti di Gjader la rabbia e la delusione sono forti. “Sono solo in 12 ad aver trovato un lavoro nel centro - spiega Aleksander Milici - Si occupano di pulizia o hanno un impiego come muratori. Al massimo vengono pagati 25 euro per otto ore di lavoro. Ma alcuni mi hanno detto di essere pagati anche 17 o 20 euro. Ditemi come si può vivere con 25 euro al giorno in Albania. Vorrei che Giorgia Meloni venisse qui a vedere che cosa si può comprare con queste cifre. In Albania la vita è più cara che in Italia, si sopravvive a Tirana ma in un paese piccolo come Gjader dove non c’è lavoro sono rimasti in pochi, 300 persone. Dieci anni fa erano in duemila ma sono andati tutti via e continueranno a farlo”. Aleksander Milici è fra i pochi che in paese hanno il coraggio di parlare. Soltanto Marcelo Iluku, un suo amico, si lascia andare e conferma la delusione e la rabbia degli abitanti di Gjader. “Questo centro non risolverà nessuno dei problemi che abbiamo in paese, non è quello che speravamo”. Gli altri si uniscono allo sfogo ma solo in forma anonima, temono ritorsioni. La paura è il filo che lega tutti a Gjader. Chi lavora dentro il centro, che sia del paese o di fuori, ha il divieto assoluto di parlare con i giornalisti. Fuori dalla struttura una pattuglia di poliziotti albanesi controlla che non ci siano contatti. Il silenzio e l’opacità sono il filo comune che lega l’intera operazione. Di questo secondo viaggio non si sa quasi nulla né quando né come siano avvenuti i soccorsi né quello che è avvenuto dopo la partenza. Persino la data e l’ora di arrivo sono rimaste avvolte nel mistero fino all’ultimo. A chiedere chiarimenti è stato Riccardo Magi, segretario di +Europa: “Ho avanzato al ministero dell’Interno, al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e al Comando Generale della Capitaneria di Porto - Guardia Costiera una istanza formale di accesso agli atti amministrativi relativamente alle operazioni S.A.R. o ai rintracci da cui è derivato il salvataggio e il trasferimento nell’hotspot di Shëngjin e nel Cpr di Gjadër (Albania) rispettivamente dei 16 migranti di origini bengalesi ed egiziane, avvenuto approssimativamente in data 16 ottobre 2024, tutti successivamente rimpatriati in Italia a seguito della mancata convalida del trattenimento amministrativo, e degli 8 migranti di origini bengalesi ed egiziane, soccorsi approssimativamente in data 4 novembre 2024 che stanno arrivando con arrivo in Albania in queste ore. In particolare, ho chiesto di conoscere con esattezza il numero di eventi S.A.R. o rintracci confluiti in ciascun trasbordo, la data, l’ora, la geolocalizzazione dell’avvenuto salvataggio e dell’avvistamento di ciascuna imbarcazione da cui sono stati tratti in salvo i migranti collocati a bordo del pattugliatore denominato Libra appartenente alla Marina Militare Italiana. E ho chiesto di sapere il numero identificativo e il nome di ciascuna imbarcazione coinvolta nelle attività di ricerca e soccorso da cui è derivato il prelievo di ogni migrante successivamente condotto in Albania”. La pandemia, le guerre, il clima. Il pianeta ha sempre più fame di Maurizio Martina Avvenire, 8 novembre 2024 Dopo il Covid la crisi alimentare è tornata ad acuirsi a un ritmo che non ha precedenti: pesano le tensioni geopolitiche. In un mondo dove si getta un terzo del cibo prodotto, 2,8 miliardi di persone non hanno accesso a una dieta sana: dalle regole inadeguate agli eccessi speculativi, nel piatto uno specchio delle diseguaglianze economiche globali Con lo spazio mensile “Cibo è vita”, che inizia oggi a cura di Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, approfondiamo i grandi temi che incidono sulla sicurezza alimentare globale. L’obiettivo “Fame Zero” indicato nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dalle Nazioni Unite è ancora molto lontano. I paradossi dell’abbondanza sono evidenti: milioni di persone soffrono di malnutrizione mentre molti altri di obesità e ogni giorno sprechiamo sulle nostre tavole almeno un terzo del cibo che produciamo nei campi. Il cambiamento climatico impatta su tutte le agricolture del mondo, e scienza e innovazione sostenibile possono offrire nuove soluzioni. Comprendere la centralità di questi argomenti e la loro connessione profonda con i temi della pace e della giustizia sociale sarà sempre più importante per capire quanto la comunità internazionale saprà affrontarli garantendo davvero il bene comune. C’è un passaggio forte del libro “Fame” di Martin Caparròs che mi è rimasto in mente. L’autore chiede a una ragazza nigerina che cosa avrebbe scelto se un mago le avesse offerto la possibilità di ricevere qualsiasi cosa. La risposta della giovane madre fu disarmante: una vacca. E incalzata a chiedere di più al mago, la sua replica fu altrettanto secca: “Allora due vacche. Così una sfamerà i miei figli e con l’altra potrò vendere qualcosa e non avere più fame”. Ecco, sta tutto qui. A dispetto di certe previsioni del passato, la fame rimane un gigantesco problema del nostro tempo. C’è stato un momento, in particolare nella fase della globalizzazione a cavallo dei due secoli, in cui queste urgenze sembravano scemare. L’agenda del mondo parlava di petrolio, di gas e poi ancora di Internet e della nuova finanza legata alla rete. Ma si rifletteva poco su cibo e fame. Se ne parlava di fronte a grandi drammi umanitari. Poi, passata l’onda emotiva, il silenzio. Il fatto è che in qualche modo si pensava che il mondo fosse riuscito a prendere la via del superamento della fame. Dati e analisi ci hanno dimostrato che certamente sono stati compiuti significativi passi, soprattutto in alcune realtà cruciali. Pensate alla Cina o al Brasile, ad esempio. Da quando la Fao ha cominciato a misurare la “fame nel mondo” abbiamo attraversato un periodo di lento progresso, che ha portato la stima dai circa 920 milioni di persone per il 1970 ai 785 milioni nel 2000. Da allora, una stasi - se non addirittura un peggioramento, nel periodo fino al 2005, quando si sono superati di nuovo gli 800 milioni. Tra il 2005 e il 2015 si è avuto il progresso più rapido che ha portato a ridurre la cifra al di sotto dei 600 milioni, a cui ha fatto seguito però di nuovo un arresto nel progresso, fino al 2020, quando la pandemia ha imposto un peggioramento che ancora non siamo riusciti a invertire. Il tasso di aumento della fame negli ultimi quattro anni non ha precedenti nella storia recente. Nel 2023 una persona su undici in tutto il mondo e una persona su cinque nella sola Africa è stata vittima della fame. Il fatto è che il mondo è arretrato di venticinque anni precipitando ai livelli si sottoalimentazione paragonabili a quelli di inizio millennio. Ma cosa è successo? In questi anni, la combinazione di almeno tre crisi ha cambiato lo scenario anche in fatto di insicurezza alimentare: il covid con i suoi effetti di medio-lungo termine, l’esplosione di nuovi drammatici conflitti e guerre, la crisi climatica. Covid, conflitti e clima: sono le tre c della crisi alimentare globale. La pandemia ha colpito duramente i più fragili, anche in materia di approvvigionamento alimentare e i suoi effetti concatenati ad altre variabili si fanno ancora sentire. Si calcola che siano oltre cento milioni le persone entrate nell’area dell’insicurezza alimentare a causa della pandemia. Pensate al connubio Covid-crisi energetica, aggravata in particolare dalla guerra in Ucraina. Le conseguenze sulla crescita dell’inflazione alimentare in tanti paesi sono state immediate e ancora troppe realtà stanno scontando aumenti di prezzi insostenibili. Le guerre rimangono la causa principale della fame. E ciò è tanto più vero oggi, con quello che sta accadendo in Medio Oriente. È cambiato il secolo, sono arrivati droni e satelliti, ma i conflitti portano ancora trincee, sfollati, fame e sete usate come strumento di guerra. Non finirà mai la fame se non finiranno le guerre; è un’amara verità anche nell’anno 2024. E poi, la crisi climatica. Con il suo portato ormai strutturale ovunque e il grave rischio di perdere parti essenziali del patrimonio di biodiversità globale. Con l’estremizzazione sempre più frequente degli eventi atmosferici, tra inondazioni e siccità, e l’aumento delle temperature che modifica i cicli di vita delle piante e della natura, muta le agricolture, i paesaggi rurali e le vite di milioni di persone. Tutto ciò provoca effetti dirompenti. Basta pensare all’oro blu, ossia all’acqua, che in alcune zone varrà più del petrolio. O alle migrazioni interne ai paesi più colpiti, in aree fragili come l’Africa, all’iper-urbanizzazione di queste realtà che diventerà un mega trend nel ventunesimo secolo. Ma occorre pensare anche alle nuove zoonosi e ai virus, al bisogno di comprendere sempre di più che la salute dell’uomo è intrinsecamente legata a quella degli animali e della natura. Mai dimenticare che la mappa globale della fame si sovrappone a quella della crisi climatica. Così come a quella del debito dei paesi più fragili. Perché il nesso è stringente. Si capisce anche da questa sommaria ricognizione delle grandi faglie che compongono l’insicurezza alimentare che il tema è centrale per le nostre sorti. Ma oltre le tre “c” di clima, conflitti e Covid, i sistemi agricoli e alimentari sono attraversati da profonde ineguaglianze. Papa Francesco ha parlato giustamente dei paradossi dell’abbondanza: In un sprechiamo un terzo del cibo che produciamo mentre 2,8 miliardi di persone non hanno accesso a una dieta sana; abbiamo milioni di affamati e nel contempo milioni di persone con problemi di obesità. In mezzo, la piaga del lavoro minorile e del caporalato che dobbiamo estirpare. Senza dimenticare mai il ruolo chiave delle donne. Le contraddizioni sono profonde. Le catene del valore sono sbilanciate verso gli anelli più forti, a scapito di agricoltori, allevatori e pescatori. Il loro potere contrattuale troppo spesso è fragile e disorganizzato. I prezzi risentono strutturalmente di questo squilibrio e sempre più frequentemente non consentono ai produttori di trovare la giusta remunerazione. I mercati hanno bisogno di regole più forti e giuste. Certamente, non hanno bisogno di nuovi istinti protezionistici, che hanno sempre fatto pagare il prezzo più caro proprio agli anelli fragili delle catene produttive. Il discorso è complesso ma non si può eludere e riguarda anche le politiche protezionistiche dei paesi più forti e il ruolo assunto dai paesi a basso reddito, diventati sempre più importatori. Le speculazioni finanziarie sui beni agricoli non sono solo una intuizione cinematografica, come in “Una poltrona per due”. Nel mondo reale esistono e hanno bisogno di essere affrontate con regole capaci di impedire le peggiori azioni lucrative ai danni dell’economia reale. Dove i “derivati” valgono decine di volte più dei raccolti reali. Eppure c’è un enorme bisogno di buona finanza per sostenere la trasformazione dei sistemi agroalimentari: oggi meno del 4% della finanza globale per il clima viene investita nel settore primario. Troppo poco. E sempre di più dovremo occuparci dei diritti di accesso alla terra e della finanziarizzazione del prezzo della terra con i grandi rischi che ne stanno derivando. La curva demografica ci dice che la popolazione mondiale crescerà ancora. La sfida di “produrre meglio consumando meno” è una questione che punta al cuore del nuovo equilibrio necessario per l’umanità e il pianeta. La scienza e l’innovazione possono essere decisive, com’è accaduto in passato lungo tutta la storia agricola dell’uomo. La nuova genetica sostenibile, ad esempio, può essere decisiva per raccolti resilienti al clima. Il benessere animale sarà altrettanto cruciale. L’utilizzo dei dati per prevenire, non sprecare, altrettanto. Il punto, anche qui, sarà con quale grado di pari opportunità potremo dotare chi ha un maggior bisogno di queste innovazioni. Perché senza un equilibrio nelle proprietà e nell’utilizzo di queste novità rischiamo che il solco tra forti e deboli si allarghi. E qui emerge la funzione indispensabile delle istituzioni, specie quelle nazionali e sovrannazionali, per regolare e indirizzare questo avanzamento decisivo. Il multilateralismo è in crisi ma la risposta non è abbatterlo, ma rinnovarlo e rilanciarlo come strumento di pace e cooperazione. A me pare una sfida esiziale oggi più che mai. Perché nessuna nazione e nel popolo, per quanto grande, può bastare a se stesso. E la speranza più importante è che un giorno la giovane madre nigerina intervistata da Caparròs possa chiedere al mago qualcosa di più, e di diverso, di una vacca per sopravvivere. *Vicedirettore generale Fao, Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura