Defence For Children: “Il sistema della giustizia minorile sta regredendo” askanews.it, 7 novembre 2024 “Il sistema di Giustizia minorile italiano sta regredendo gravemente e il Governo non se ne occupa”. È l’allarme lanciato da Defence For Children Italia. Un anno fa, al termine di un seminario internazionale organizzato a Genova dall’Associazione, che si occupa di diritti per i minori, e sostenuto dalla Commissione europea con il Child Friendly Justice European Network, i partecipanti, in rappresentanza di 20 Paesi europei, inviavano una lettera alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi con la quale si invitava il governo “a riallineare il decreto immigrazione e sicurezza ai criteri e alle norme europee e internazionali che regolano la protezione di qualsiasi persona minorenne”. “La normativa adottata, in particolare il Decreto Caivano, centrata sulla punizione invece che su orientamenti educativi, la distanza dai principi della Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, la divergenza da quanto prevede la normativa che regola la situazione dei minorenni stranieri non accompagnati, la carenza di investimenti sui servizi e sul personale educativo degli Istituti Penali Minorili - si legge in una nota - sono le traiettorie negative che ci portano indietro nel tempo. Il Decreto Caivano, inoltre, ha reso più frequente il ricorso alla custodia cautelare in carcere per i minorenni, incrementando il tasso di detenzione. Nel 2023, quasi l’80% dei nuovi ingressi negli IPM è avvenuto per custodia cautelare, aumentando così il numero complessivo di giovani reclusi con un tasso di sovraffollamento medio del 110%. Ad oggi, a distanza di un anno, il governo non ha fatto nulla per migliorare la situazione degli IPM. Recentemente, inoltre, è stato ripristinato per gli agenti in ogni IPM l’uso della divisa d’ordinanza. Da sottolineare anche che dal 2021 al 2022, la spesa per psicofarmaci negli IPM italiani è aumentata del 30%, un incremento significativo rispetto agli istituti per adulti, dove nello stesso periodo l’aumento è stato molto più contenuto (circa l’1%). Misure che dimostrano che le istituzioni preferiscono giocare la carta dell’onore e della disciplina’ per affrontare le emergenze. È da evidenziare, infine, il legame tra le carenze del sistema di accoglienza dei minorenni stranieri non accompagnati e l’aumento proporzionale dei numeri degli stessi nel sistema penale minorile. Se dal punto di vista formale l’Italia ha appena incorporato nella normativa quanto richiesto dalla Direttiva Europea 800/2016 che prevede tutta una serie di garanzie per i minorenni coinvolti nei procedimenti penali e promuove una giustizia ‘child-friendly’. Dall’altra il governo procede in senso opposto, con decreti che scardinano un sistema proposto in Europa come un modello efficace e avanzato”. “I ragazzi e le ragazze non hanno bisogno di vuota retorica e di autoritarismo ma di adulti capaci di comprendere e di proporre solide opportunità di cambiamento così come fino ad ora indicato dalla nostra cultura giuridica”, spiega Gabriella Gallizia coordinatrice dei programmi di Defence for Children Italia. Gelmini: “Le carceri non siano solo afflizione, mettere al centro formazione e lavoro” 9colonne.it, 7 novembre 2024 Il carcere come luogo in cui scontare una pena, certo, ma anche da cui riscattarsi e ripartire. Applicando le leggi già esistenti, come la Smuraglia, le direttive europee e le linee guida sociali e di governance dettate dal ranking Esg. È stato questo il focus della quarta “di una serie di tappe che abbiamo costruito in maniera trasversale con Giusy Versace, ma anche con Gianmarco Centinaio, con Marco Scurria, con il sottosegretario Ostellari. Per discutere di carceri non dal punto di vista emergenziale solo invocando più risorse, ma provando a capire cosa si può fare per alleviare la condizione dei detenuti”. Così Mariastella Gelmini, senatrice di Noi Moderati-Centro Popolare, promotrice dell’incontro di oggi in Senato. Un viaggio che parte dal carcere di Bollate “e che grazie alla collaborazione di alcune associazioni, alcune cooperative sociali, esponenti del terzo settore, ha portato a mettere al centro il tema della formazione e del lavoro”. Gelmini ricorda che “oggi il lavoro nelle carceri riguarda il 4% dei detenuti, quindi una percentuale residuale. Eppure vediamo che dove i direttori delle carceri sono sensibili a questo tema e provano ad ovviare a lungaggini burocratiche, difficoltà anche fisiche degli spazi, e si trovano le opportunità per far crescere una professionalità, una capacità che sia manuale o intellettiva, questo aiuta a dare speranza, a dare fiducia, ad immaginare un po' di futuro anche dopo l'uscita dal carcere”. Lo sforzo allora, secondo l’ex ministra, va rivolto “a costruire insieme una ricetta. delle soluzioni che aiutino ad abbattere dei muri e a costruire un'alleanza tra il terzo settore, il mondo dell'impresa, il mondo del lavoro. Credo che sia fondamentale per rendere, come ci chiede la Costituzione, la pena veramente rieducativa e non solo afflittiva”. Buone pratiche ed esempi funzionanti ci sono, in Italia, ma spesso troppo a macchia di leopardo: “Credo che sia una questione di volontà - spiega Gelmini _ A volte ci sono dei condizionamenti oggettivi che rendono difficile o impossibile realizzare formazione e lavoro in carcere, però in molti casi si tratta di avere il coraggio di intraprendere un nuovo percorso, di superare delle barriere burocratiche, di coinvolgere le figure esterne e anche di utilizzare le risorse perché, per esempio, nel caso della legge Smuraglia le risorse ci sono. Però spesso non vengono utilizzate”. Per questo ad esempio “la professoressa Severino (la ex ministra della Giustizia, ndr) suggeriva di fare un richiamo molto forte anche alla valutazione di impatto, e quindi mettere a punto delle buone pratiche partendo dai casi concreti, non dall'ideologia. E provare a diffondere le pratiche che funzionano, a diffondere le partnership che hanno dato dei risultati”. Il ministro Nordio alle toghe: “Basta ingerenze, io voglio la pace” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 novembre 2024 Il Guardasigilli al Salone della giustizia: “Andrò all’evento di Md per una riconciliazione”. La replica di Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm: “È la politica a colpirci”. Il guardasigilli Carlo Nordio sta cercando una tregua, seppure “armata”, con la magistratura? Non è molto semplice dare una risposta a questa domanda, leggendo le dichiarazioni che il ministro ha fatto ieri al Salone della Giustizia a Roma. Il contesto è noto: lo scontro fra governo da una parte e giudici dall’altre, rei - a detta della maggioranza - di prendere decisioni contro le politiche migratorie dell’Esecutivo. Da un lato inizialmente Nordio ha picchiato duro contro le toghe, ricordando quanto sarebbe avvenuto a partire dalla stagione di Tangentopoli: “Vi è stata una seconda fase di ’Mani pulite’ in cui, per una retrocessione della politica, la magistratura ha di fatto occupato questo posto, e da quel momento molte decisioni politiche sono state influenzate dalla magistratura, che si è permessa di criticare le leggi. In un Paese ideale i magistrati non dovrebbero criticare la legge e i politici non dovrebbero criticare le sentenze. Ma dopo Mani pulite questa situazione si è capovolta. Ora bisognerebbe capire chi per primo deve fare un passo indietro, ma visto che questa esondazione è partita dalla magistratura, sarebbero loro a doverlo fare”. Dunque, secondo il guardasigilli, l’origine di tutti i mali dovrebbe essere rintracciato nell’atteggiamento delle toghe, le quali avrebbero agito oltre i poteri assegnati loro, e di conseguenza spetterebbe alla magistratura seppellire l’ascia e accettare le riforme, a partire dalla separazione delle carriere. “Nel momento in cui adotti un codice anglosassone, la separazione delle carriere è una conseguenza inevitabile, altrimenti il sistema si inceppa. E il sistema da noi si è inceppato”, ha proseguito il ministro, che poi ha citato Giovanni Falcone, dopo che in questi giorni il suo nome era riemerso ed era stato annoverato sia tra i sostenitori che tra i detrattori della riforma dell’ordinamento giudiziario. “Perché chiamare la legge sulla separazione delle carriere ’ riforma Falcone’? Ho una tale venerazione per lui e per Borsellino da non associare una mia riforma al loro nome”, ha detto Nordio. “Tuttavia, soprattutto Falcone si era più volte espresso chiarissimamente sulla necessità di separare carriere”. Il ministro della Giustizia ha proseguito sostenendo che non si sente affatto “accerchiato dai giudici: la grandissima parte dei miei ex colleghi”, ha aggiunti, “fa bene il proprio lavoro, anche troppo, facendolo in silenzio”. E qui la critica implicita potrebbe essere a quelle che, da Matteo Salvini in poi, vengono definite le ‘ toghe rosse’, i ‘ magistrati comunisti’ che hanno disapplicato il decreto Albania e il decreto Paesi sicuri, ritenendoli in contrasto con la fonte normativa europea, superiore a quella nazionale. Poi però Nordio sembra aver assunto una posizione aperturista, annunciando la sua presenza a un evento di Magistratura democratica, la corrente maggiormente presa di mira dalla politica e dalla stampa orientata a destra in queste ultime, roventi settimane. “Dopodomani parteciperò al congresso di Md, dove farò un discorso di conciliazione e collaborazione. Auspico e sono certo che, al di là delle ovvie differenze di posizione, anche sulle iniziative legislative alle quali siamo vincolati dal mandato elettorale, troveremo l’atmosfera giusta in funzione di ciò che ci interessa massimamente: un funzionamento rapido e moderno della giustizia”. Sicuramente, rispetto a queste iniziative legislative il ministro sa di non poter confidare in un qualche tipo di intesa con l’Anm: il “sindacato” delle toghe più volte ha ripetuto che sulla separazione delle carriere, sul doppio Csm e sull’Alta Corte non ci potranno mai essere punti d’incontro. In ogni caso, Magistratura democratica “ringrazia” Nordio per “l’attenzione”, e precisa che il titolare della Giustizia interverrà domenica alla celebrazione dei 60 anni del gruppo associativo, insieme ad altri esponenti politici come Elly Schlein, Maria Elena Boschi, Giuseppe Conte, Pierluigi Bersani, Nichi Vendola, Francesco Paolo Sisto. Nel pomeriggio di ieri al Salone della Giustizia è intervenuto anche il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, che ha replicato così a Nordio: “Nessuna esondazione, noi non stiamo facendo la guerra a nessuno. Da parte nostra non si può arretrare nell’esercizio della professione: si fanno provvedimenti che hanno una motivazione solida e argomentata. Dopodiché possono essere impugnati o contestati, e ci sono i luoghi opportuni dove farlo. Ma pensare di dover fare un passo indietro nell’esercizio della propria giurisdizione è una cosa che non sta nel cielo né in terra. Chiediamo che non si gridi al comunismo ogni qual volta un Tribunale afferma qualcosa che non piace. Io di tutti questi comunisti nella magistratura non ho sentore”. Il leader del “sindacato” delle toghe ha quindi aggiunto: “I giudici non criticano le leggi: le applicano nei limiti del rispetto delle istituzioni”. E ha concluso: “Noi non stiamo facendo la guerra a nessuno, la parte che posso condividere (delle parole di Nordio, ndr) è che c’è bisogno di evitare un clima di scontro e, mi permetto di dire, dovrebbe farlo soprattutto il mondo politico che insorge con proteste che non hanno fondamento ogni qualvolta un Tribunale o una Corte assumono una decisione che non piace”. Difficile stabilire se sia iniziata la distensione fra politica e magistratura. Si scorge, questo sì, un interesse della maggioranza a sfrondare il campo dalle tensioni superflue. Segnali in questa direzione sono arrivati ieri anche dal viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, che nel suo intervento al Salone di Roma ha detto, a propria volta, di essere “contrario alle guerre di religione” e che “se la politica va contro la giustizia e viceversa, chi ne fa le spese è il cittadino”. Altrettanto indicativa è l’indiscrezione trasferita dal vertice del Csm a proposito del colloquio fra il vicepresidente Fabio Pinelli e Giorgia Meloni: nell’incontro è stata ribadita, da entrambi, la “fiducia nella magistratura” e, da parte della premier in particolare, “il disinteresse per qualunque polemica con le toghe”. Insieme con la “pacificazione” auspicata da Nordio, sembrano in ogni caso tentativi di spegnere l’incendio. Caso Meloni-Pinelli: la crisi con il Colle non è affatto chiusa di Giulia Merlo Il Domani, 7 novembre 2024 Il vicepresidente del Csm non riferisce al plenum ma manda una mail a tutti: “La mia porta è aperta”. Cresce lo scontro tra Chigi e il Colle. Nuovo attacco alle toghe del ministro Nordio. Dopo aver appiccato l’incendio, è iniziato il tentativo di buttare acqua sul fuoco. L’incontro ufficiale del vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli con la premier Giorgia Meloni proprio nei giorni di aspro scontro tra governo e magistratura e senza aver concordato con il Colle il contenuto del confronto ha infatti prodotto una serie di effetti. Il più rilevante, secondo fonti quirinalizie, è la sorpresa e l’irritazione di Sergio Mattarella per una iniziativa quantomeno sgrammaticata, visto che il Csm è organo collegiale e il vertice è il Quirinale, con cui ogni passo deve essere concordato. Meloni non poteva che aver messo in conto tale reazione, ma fonti di FdI confermano come sia stato considerato preminente mandare un messaggio alle toghe “non di sinistra”, per mostrare che l’attacco non è all’intera categoria. Tentando di ridimensionare lo scontro, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha detto di aver incontrato anche lui Pinelli, “credo sia perfettamente normale che vi sia questa interlocuzione che non vulnera nessuna prassi o legge dello Stato”. Vero fino a un certo punto, visto che per prassi il vicepresidente viene delegato o dal plenum o dal Quirinale, quando ha incontri ufficiali con altri poteri e proprio il comunicato di Chigi ha dato a quello con Meloni il crisma della formalità. Il tentativo di normalizzazione, infatti, convince in pochi al Csm. Senza contare che Nordio ha rincarato la dose contro le toghe, chiedendo loro dal salone della Giustizia di “fare un passo indietro” rispetto alle continue “critiche” ai provvedimenti del governo attraverso le sentenze. Lapidaria l’Anm: “Non si può arretrare nell'esercizio della professione. I provvedimenti possono essere impugnati”. Il no di Pinelli - Pinelli, che probabilmente non aveva previsto le conseguenze della sua iniziativa, ora è barricato dietro le sue posizioni e ha scelto di non rispondere in plenum - registrato e trasmesso su radio radicale - alla richiesta ufficiale presentata da 14 consiglieri di riferire in plenum sui contenuti del dialogo. “La mia presenza in sede è costante e le mie porte sono aperte, sono quindi ben lieto di poter interloquire con chi manifestasse ancora interesse per l’incontro istituzionale da me avuto”, ma “voglio sin d’ora rassicurare che si è ovviamente trattato di un incontro programmato nell’ambito di una corretta e istituzionale relazione tra organi dello Stato”. Anche su questo, però, i dubbi sono molti: come se non bastasse la reazione registrata dal Colle, fonti sia laiche che togate raccontano di come Pinelli, nel corso degli ultimi mesi, si starebbe muovendo per accreditarsi presso palazzo Chigi. E Meloni, incontrandolo proprio nell’acme dello scontro con i magistrati, avrebbe fatto leva proprio su questo. Nel tentativo di smorzare anche i retroscena sui contenuti della conversazione con la premier, fonti del Csm vicine alla presidenza hanno anche chiarito che nell’incontro “è stata ribadita la loro fiducia nella magistratura, nonché il disinteresse della premier per qualunque polemica con le toghe”. Il primo passaggio risponde a quanto immaginato: l’incontro serviva a Meloni a dire che, nonostante gli attacchi personali a singoli magistrati “comunisti” (come li ha definiti Matteo Salvini), ha fiducia nella magistratura intesa come quella parte non politicizzata. L’ultima frase, invece, è una excusatio non petita che rischia di alimentare dubbi più che di fugarne. Infatti anche Il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia ha detto che è “opportuno conoscere i contenuti dell’incontro”. Tra le ricostruzioni, del resto, ne circola una che parla di una premier interessata a capire gli equilibri interni al consiglio e in particolare che peso abbiano le toghe progressiste. Tuttavia, i consiglieri firmatari hanno deciso di non esacerbare ulteriormente lo scontro a tutela del consiglio, accettando di trasformare le comunicazioni al plenum in un incontro privato con Pinelli ma aperto a tutti i membri del Csm. La tensione tra toghe e governo, dunque, se possibile è aumentata ancora e si è spostata anche al Csm. Da una parte sono arroccati i laici di centrodestra che sostengono il diritto di Pinelli (pur non avendo con lui un rapporto strettissimo) di incontrare Meloni e rifiutano quella che una fonte definisce “il monopolio delle toghe di sinistra della narrazione pubblica”. Dall’altra, invece, tutti i togati tranne Magistratura indipendente si oppongono a quella che rischia di essere una strumentalizzazione politica dell’organo di governo autonomo delle toghe. Sopra a tutti il Quirinale, che nei mesi ha tentato di arginare lo scontro tra poteri ma che ora si è visto addirittura scavalcato. Proprio qui si impernia la questione più delicata: il pasticcio è nato da un comunicato di palazzo Chigi, che ha scientemente acceso un faro sull’incontro tra Meloni e Pinelli. Inusuale, visto che se ne ricordano solo due in passato, tra un premier e un vicepresidente: uno nel 2006 e uno negli anni Ottanta. Dunque il vero scontro supera piazza Indipendenza e viaggia sulla linea tra palazzo Chigi e il Quirinale, le cui continue puntualizzazioni su temi delicati hanno creato più di un fastidio al governo. Stupore di Meloni per l’irritazione del Colle. Pinelli prova a ricucire con i membri del Csm di Federico Capurso La Stampa, 7 novembre 2024 Il vicepresidente del CSM conferma: “Mattarella era stato avvisato della visita”. Ma con il Capo dello Stato non erano stati concordati i temi da discutere. Proprio non se ne capacita, Giorgia Meloni. Osserva le reazioni innescate dal suo incontro, lunedì scorso, con il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli e discutendo con i suoi fedelissimi si dice più volte sorpresa. Non si aspettava questo clamore intorno a una visita istituzionale, ma è soprattutto “stupita” dell’irritazione lasciata trapelare con tanta forza dal Colle. Il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, era stato avvertito dell’appuntamento a Palazzo Chigi. Lo sottolinea nuovamente Pinelli ieri mattina: “Avevamo informato la presidenza della Repubblica”. Ed è la verità, come è vero allo stesso modo che la comunicazione sia arrivata con un certo ritardo, quasi a ridosso dell’incontro. Non è questo, però, il tema sollevato dal Quirinale, quanto piuttosto il fatto che Pinelli non abbia affatto concordato con Sergio Mattarella, che del Csm è il presidente, i temi di discussione che avrebbe poi affrontato con la premier. Uno sgarbo istituzionale. E mai come in questi casi, la forma è sostanza. Specie in un momento così delicato, in cui preoccupa il deterioramento dei rapporti tra il governo e il potere giudiziario. Pinelli prova ora a ricucire uno strappo che si era allargato al Csm stesso, all’interno del quale 13 consiglieri togati e 1 laico gli avevano chiesto conto, e con una certa urgenza, dei contenuti di quell’incontro. Pinelli sostiene, attraverso fonti a lui vicine, che a Palazzo Chigi la presidente del Consiglio gli abbia espresso “la sua fiducia nella magistratura” e che lei non sarebbe “in alcun modo interessata alle polemiche”. È una prima risposta (ovviamente non esaustiva, essendo stato un incontro durato più di 5 minuti) ma che mira a rasserenare il clima. Come dimostra anche la mail che Pinelli invia ai 14 consiglieri del Csm, dicendosi “disponibile a un incontro per parlarne”. Non dunque in occasione del prossimo Plenum, come proposto dai consiglieri, in una seduta pubblica, ma riservatamente. Cerca di gettare acqua sul fuoco anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio: “Credo sia perfettamente normale che vi sia questa interlocuzione che non vulnera nessuna prassi o legge dello Stato”, sostiene arrivando al Salone della Giustizia a Roma. Lui stesso ha incontrato il vicepresidente del Csm il giorno seguente all’appuntamento con Meloni: “L’interlocuzione è periodica che abbiamo con Pinelli, con il Csm, con il Consiglio nazionale forense e altre associazioni”, dice il Guardasigilli, che cita quindi il motivo di questi incontri: “Le riforme sull’intelligenza artificiale e sulle modalità con cui essa può intervenire nell’organizzazione della giustizia”. Appare quantomeno difficile, però, che con Meloni il discorso abbia toccato certi tecnicismi. E se le interlocuzioni con il ministro della Giustizia sono forse usuali, l’ex Guardasigilli Andrea Orlando, del Pd, fa notare l’irritualità degli incontri tra un premier e il vicepresidente del Csm: “Sono una prassi così costante e diffusa che un giornale di destra, per smentirmi, cita ben due precedenti, uno del 2006 e l’altro degli anni ’80”, dice sarcastico. E pungola Palazzo Chigi: “Che si sono detti Meloni e Pinelli?”. Vorrebbe saperlo anche l’Associazione nazionale magistrati: “Hanno detto è stato un incontro alla luce del sole e la luce del sole potrebbe illuminarne anche i contenuti. Che almeno lo sappia non solo il Consiglio, ma tutta la magistratura e il Paese intero”. Legali aggrediti a Firenze. L’avvocatura toscana si mobilita e protesta di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 7 novembre 2024 I 4 professionisti insultati e costretti a uscire da una porta secondaria del Palazzo di Giustizia. Un episodio molto spiacevole ha interessato qualche giorno fa gli avvocati Cecilia Turco, Andrea Mitresi, Michele Passione e Gabriele Bordoni. Il fatto, come ha rilevato la Camera penale di Pistoia, ha rappresentato uno “scempio della funzione difensiva”. I quattro penalisti, dopo un’udienza davanti alla Corte d’appello di Firenze, sono stati aggrediti verbalmente. Un’inaudita esplosione di urla, offese e minacce dirette agli avvocati, che sono stati costretti, per il clima pesante venutosi a creare, ad uscire da una porta laterale del palazzo di Giustizia scortati dalle forze dell’ordine. Il motivo di tanta acrimonia? L’aver esercitato la funzione difensiva in favore di due imputati accusati di violenza sessuale ai danni una minorenne. Un’attività che, secondo qualcuno, è a dir poco intollerabile; inammissibile in riferimento all’avvocata Cecilia Turco (presidente dell’Ordine degli avvocati di Pistoia e presidente della Unione distrettuale degli Ordini forensi Toscani). Nei suoi confronti l’”accusa” è stata quella di difendere, da donna, i presunti aggressori di un’altra donna. “Come se - si legge in una nota della Camera penale pistoiese - la difesa avesse o dovesse avere un genere o un’età o una morfologia prestabilita, di lombrosiana memoria. Come se la difesa fosse un qualcosa di secondario o addirittura di fastidioso all’interno del processo, è stato anche metaforicamente tolto ai nostri colleghi, da coloro che protestavano non pacificamente, il diritto di uscire dal Palazzo di giustizia in sicurezza, con dignità e a testa alta, diritto che dovrebbe essere riconosciuto a qualunque parte processuale. E ciò nonostante, pur avendo gli avvocati difensori degli imputati cercato di mantenere un profilo basso, anche per motivi di ordine pubblico, usciti quindi da una porta laterale, come accade solo alle tifoserie al termine di un derby acceso, come se i processi fossero poco più che una partita di campionato, i nostri colleghi sono stati aggrediti verbalmente da parenti ed amici della parte civile, accusati addirittura, ma come sempre più spesso accade, di incarnare loro stessi il fatto di reato che difendevano”. Sulla vicenda l’Unione distrettuale degli Ordini Forensi della Toscana ha espresso solidarietà agli avvocati aggrediti verbalmente in un lungo documento il cui contenuto è stato fatto proprio anche dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Firenze, presieduto da Sergio Paparo. L’Unione distrettuale degli Ordini forensi si sofferma pure su un episodio verificatosi in occasione della pronuncia della sentenza di primo grado quando si verificò “una rivendicata “sollecitazione” della parte civile all’ufficio della Pubblico Ministero ad impugnare, in modo inammissibile stante il rito abbreviato che ha caratterizzato il processo, la decisione di condanna con il beneficio della pena sospesa emessa nei confronti di un coimputato, sostenendosi e urlandosi il principio secondo cui la pena, qualsiasi pena, deve avere carattere afflittivo”. “Cosa ancora più grave è stata - aggiungono gli Ordini della Toscana - alla luce di tutto ciò, la preordinata offesa che si è voluto proferire così alla giurisdizione tutta, trasformando una aula di giustizia e il palazzo ove essa è celebrata in una cassa di risonanza del risentimento e di forme di vendetta privata, disconoscendo la sacralità per la Repubblica della funzione giurisdizionale”. Gli Ordini toscani non nascondono preoccupazione per l’accaduto e ritengono “eversivo” ogni contegno “diretto a privare la giurisdizione del monopolio dell’alta funzione che viene ad essa assegnata dalla Costituzione, oltre che dalle Convenzioni Internazionale cui, da sempre, la Repubblica aderisce”. Il documento dell’Unione si chiude con un invito rivolto agli avvocati, “in particolare quelli onerati dal munus di assistere le persone offese e i loro familiari a voler intervenire immediatamente in caso di intemperanze dei propri assistiti, oltre che ad astenersi dall’assumere iniziative processuali evidentemente contrarie alle leggi e alla medesima lealtà e dignità che la professione impone a tutti noi di ossequiare”. Solidarietà agli avvocati del Foro di Pistoia (Turco e Mitresi) è stata espressa anche dalla sezione locale dell’Aiga. Se il processo diventa cassa di risonanza per la vendetta di Michele Passione, Cecilia Turco, Andrea Mitresi Il Dubbio, 7 novembre 2024 Firenze, 4 novembre, Corte di Appello; la storia si ripete. Di fronte a una richiesta di concordato, assentita dalla Procura Generale, il processo (in camera di consiglio) diventa (ancora una volta) la cassa di risonanza del risentimento e della giustizia privata e della vendetta. Preceduta da una insistita campagna mediatica sui social, dove “stupratori” è il più benevolo degli epiteti rivolto agli imputati, l’udienza si apre e si chiude nel peggiore dei modi. Non di consenso prestato, e semmai revocato, non di consapevolezza sulle condizioni personali della parte civile da parte degli imputati (diciotto anni loro, diciassette lei, all’epoca dei fatti); non di questo ancora si parla, ma di un istituto previsto dalla legge (il concordato in appello), peraltro depurato dalla c.d. Legge Cartabia dalle preclusioni prima previste all’uopo dal secondo comma previgente dell’art. 599 bis c. p. p., che ne impediva il ricorso per numerosi reati, tra i quali proprio quelli contestati agli imputati (609 ter, 609 octies c. p.). Riservata invece alla prossima udienza la valutazione di merito e di una denunciata incostituzionalità di un’altra preclusione di legge (che un Tribunale fiorentino ha già sollevato in un diverso processo), che per questi reati impedisce la sanzione con pene sostitutive, si discute, appunto, di un’ipotesi, rimessa alla valutazione della Corte. Così, passando dall’interlocuzione in aula sulla pena con la parte civile alle ripetute offese all’imputato di violenza sessuale di gruppo e di pornografia minorile, prima e dopo la decisione, che qui non ripetiamo, si fa strame della cultura della giurisdizione e del diritto di difesa. Il cerchio si chiude con l’uscita dall’aula di Avvocati e assistito, accompagnati per via secondaria dai Carabinieri. Fuori dal Palazzo di giustizia, l’Armaggedon; urla e insulti, perché non basta un Giudice. Tutti devono sapere che sei uno stupratore - perché così ha deciso la piazza e che i tuoi Avvocati devono vergognarsi per il solo starti accanto. Se sei una donna, ancora di più. Nei giorni precedenti, manco a dirlo, la rivendicata “sollecitazione” della parte civile ad impugnare la decisione di condanna a pena sospesa in primo grado emessa nei confronti di un coimputato (appello inammissibile, trattandosi di rito abbreviato) e la sconcertante affermazione secondo la quale “la pena, qualsiasi pena, deve avere carattere afflittivo. Altrimenti che pena è?”. Incidentalmente si osserva che, com’è pienamente lecito fare, con decisione che qui non si discute la Corte ha respinto la proposta di concordato, rinviando al 2 dicembre per la discussione sul merito. Noi che scriviamo rispettiamo - e non giudichiamo - il punto di vista di chi la pensa del tutto diversamente dalla Difesa, e non in grande compagnia riteniamo che la Giustizia riparativa possa essere un più utile strumento di ricomposizione di un conflitto, diversamente dall’imperante paradigma vittimario, il d’après les règles di Robespierre. Resta la base di tutto. Se invece si pensa che bastino 20 persone in aula e fuori, le storie su Instagram o chissà cos’altro per l’arte terribile dl giudicare, possiamo chiudere. Con un muro si fa prima. La prassi ambrosiana tocca alle vittime: la prevenzione ora allarga i suoi orizzonti di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 7 novembre 2024 In materia di prevenzione, il Tribunale di Milano ha sviluppato una prassi, per il momento circoscritta al solo Foro ambrosiano, che fa ben comprendere quale sia l’espansione applicativa che la “legislazione antimafia” può ancora sprigionare. Ci riferiamo alle procedure di amministrazione giudiziaria, applicate ai sensi dell’art. 34 del D. L. vo 159/ 11, che stanno riguardando svariati settori imprenditoriali, dalla logistica alla ristorazione, dalla moda alla grande distribuzione, per arrivare di recente alle banche. L’amministrazione giudiziaria, pur non essendo una misura ablativa come la confisca, sospende la governance aziendale. Spossessa l’imprenditore della sua impresa, per un periodo più o meno lungo di tempo, al fine di sottoporla ad una forzata “sanificazione aziendale”, sotto il controllo del giudice delegato. Lo Stato, dunque, nomina nuovi amministratori, i quali, a loro volta, scelgono nuovi manager e nuovi consulenti. Ben si immagina quali possano essere le conseguenze di una simile intrusione per imprese non solide, le quali non possono sopportare l’irrigidimento di tutte le policies aziendali che una simile “statalizzazione” porta inevitabilmente con sé. È ovvio, allora, che l’intervento pubblico nell’economia privata - in un sistema che si vorrebbe capitalistico e liberista, non statalista e massimalista - debba essere ispirato a massimo rigore nella individuazione dei suoi presupposti applicativi. Il fine di recuperare un’azienda al tessuto legale, infatti, giustifica i mezzi invasivi che vengono utilizzati solo se si riscontrano, da un lato, fatti e circostanze idonee a determinare l’inserimento della stessa in un circuito economico illecito e, dall’altro, la strutturale incapacità della governance di scongiurare un tale rischio, se non la deliberata volontà di causarlo. Esiste, altrimenti, l’altra misura di prevenzione, assai meno invasiva, del controllo giudiziario, che consiste in una forma di accompagnamento e tutela dell’imprenditore nel proprio percorso di risanamento. La prassi ambrosiana, tuttavia, ci mostra che l’amministrazione giudiziaria - cioè la privazione dell’imprenditore dell’amministrazione della propria impresa - viene applicata anche alle vittime del reato o alle condotte caratterizzata da mera colpa organizzativa. Sono i casi, ad esempio, che hanno di recente visto protagoniste le due società sportive dell’Inter e del Milan, persone offese dal reato, per un tentativo di infiltrazione mafiosa nelle loro rispettive tifoserie. La procura, per tali società, ha per il momento solo paventato il ricorso alla amministrazione giudiziaria, avviando un “contraddittorio preventivo” - che non pare neanche essere previsto dalla normativa attuale - nell'auspicio che le due società si adoperino, rendendone conto alla autorità giudiziaria, per una rescissione dei contatti pericolosi ed attivino una auto- bonifica. Ma se le due società non riusciranno a dimostrare di aver risolto le circostanze che le avrebbero finora esposte al condizionamento di organizzazioni mafiose, l’applicazione di una misura di prevenzione sarà inevitabile, sebbene nei confronti di una vittima del reato. E qui sta il problema, quando uno strumento pensato per le imprese colluse viene esteso a quelle soggiacenti! Come può un soggetto privato, vittima di una intrusione occulta e violenta nelle proprie dinamiche imprenditoriali, liberarsi dal giogo criminale con le proprie forze? Quali adempimenti, oltre la denuncia alla autorità giudiziaria dei fatti costituenti reato, potrebbe o dovrebbe mettere in atto? Di quali strumenti dispone, nel caso di specie, una società sportiva per controllare le attività, i precedenti, la biografia di decine di migliaia di tifosi e selezionare quali, ad esempio, possono entrare nello stadio e quali no? E, soprattutto, è giusto stringere d’assedio un imprenditore, tra la mafia che lo vessa o lo Stato che lo minaccia di spogliarlo della sua azienda? Sono tutte domande retoriche, che servono a far comprendere quanto sia indebita questa ulteriore e sicuramente non necessaria estensione dello strumento di prevenzione, ormai giunta alla pretesa di “prevenire la colpa” o di colpire le vittime, prima che diventino colluse, prevenendo persino se stessa. In realtà, nella desolante inerzia di qualsiasi politica di sostegno dell’economia legale e di contrasto del crimine organizzato (che non si fa, certo aumentando il catalogo dei reati ed i limiti edittali delle pene), alla magistratura è stato delegato non solo il compito della punizione dei reati, ma anche quello della prevenzione dei fenomeni criminali, che viene sempre più spesso declinato con tratti eticizzanti, a causa di una legislazione ancora vaga e sempre più onnivora. Così, assumere il controllo statale dell’economia privata rischia di non rispondere più a canoni di eccezionalità e di diventare invece, come spesso è accaduto con gli istituti di prevenzione, la reazione ordinamentale più frequente, immediata e diretta. Aumentando così i dubbi e le preoccupazioni di chi vede ormai la prevenzione come uno strumento di controllo sociale. *Osservatorio misure di prevenzione dell’Unione camere penali italiane 41-bis, tatuaggi usati per messaggi in codice: i familiari devono coprirli di Patrizia Maciocchi Il Sole24 Ore, 7 novembre 2024 Durante i colloqui c'è il rischio di veicolare informazioni o ordini attraverso scritte e disegni sulla pelle, giusto dunque nasconderle. I familiari che vanno ai colloqui con i detenuti al 41-bis, il cosiddetto carcere duro, sono obbligati a coprire i tatuaggi. I disegni e le scritte sulla pelle possono infatti essere usati per veicolare messaggi in codice. La Corte di cassazione, con la sentenza 40592, ha respinto il ricorso di un detenuto sottoposto al regime speciale per reati di mafia. Il ricorrente denunciava l'irragionevolezza della restrizione, imposta ai parenti costretti, durante gli incontri con i congiunti in carcere - come prevista da una nota dell'amministrazione penitenziaria - a nascondere tutte le parti del corpo tatuate. L'obiettivo del regime speciale - Per la Suprema corte non si tratta però di una misura eccessiva, in considerazione della ratio del 41-bis. Il regime speciale - ricordano i giudici di legittimità - ha, infatti, lo scopo “di impedire i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà”. Un obiettivo che giustifica, anche alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale, secondo la quale all'attenuazione della tutela di un diritto fondamentale di un detenuto sottoposto al 41-bis deve corrispondere un incremento di tutela di un altro interesse di pari rango o addirittura superiore. Per gli ermellini dunque è necessario evitare che i detenuti sfruttino regole da regime “ordinario” per continuare ad impartire direttive all'esterno degli istituti penitenziari. E ad avviso della Suprema corte esiste il rischio che un veicolo per trasmettere messaggi al di fuori del carcere, possano essere proprio i tatuaggi. Scritte sul corpo usate per comunicazioni criptiche. Venezia. Suicidio in cella, accertamenti della Procura. Il Pd: “Nordio intervenga” di Monica Zicchiero Corriere del Veneto, 7 novembre 2024 Era in carcere per reati contro il patrimonio T.M., il 41enne magrebino che martedì si è impiccato nel bagno della sua cella a Santa Maria Maggiore. L’uomo era detenuto da aprile con una sentenza appellata e due procedimenti in attesa di giudizio e in un momento di sconforto (anche se “non aveva dato particolari segni di disagio e di recente aveva visto i propri cari”, ha riferito affranto il garante dei detenuti, l’avvocato Marco Foffano) ha deciso di farla finita. Il pm di turno Andrea Petroni ha disposto alcuni accertamenti per fare chiarezza su quanto accaduto, ma non ha ritenuto necessaria una autopsia, essendo chiara la causa di morte. In realtà nel recente passato già la procura di Venezia aveva indagato su un suicidio, quello del 38enne Bassem Degachi, avvenuto il 6 giugno 2023: in quel caso l’avvocato della famiglia Marco Borella aveva denunciato come l’uomo fosse stato lasciato solo per quasi un’ora dopo che la moglie aveva chiamato il carcere per riferire dei suoi propositi suicidi, ma il pm aveva comunque chiesto e ottenuto l’archiviazione del caso, non essendo emerse responsabilità evidenti o la possibilità che un intervento potesse salvargli la vita. Quel che resta è però la denuncia della situazione carceraria, che arriva anche dalla politica. “È il terzo suicidio in poco tempo nel penitenziario della nostra città e il 79esimo in Italia. Record terribili che non si possono tollerare - dice il senatore Andrea Martella, segretario del Pd in Veneto - Di fronte all’ennesima morte volontaria di un recluso nell’istituto veneziano, chiediamo al ministro della Giustizia Carlo Nordio un intervento urgente e straordinario. Non è più possibile far finta di nulla”. “A Venezia è record di sovraffollamento, 167 per cento, e di suicidi, nonostante gli sforzi della direzione - sottolinea il segretario dei Radicali di Venezia Samuele Vianello - È un anno che denunciamo la situazione tragica e pericolosa per tutta la comunità penitenziaria. Chiediamo un intervento straordinario da parte dell’amministrazione comunale e della Regione”. Di recente è stato avviato un corso per formare 11 detenuti a cogliere i segnali di disperazione che portano al suicidio. Anche l’avvocatura ha proposto l’adozione di un protocollo condiviso per la prevenzione del rischio suicidario. Firenze. La seconda vita di Alaa, grazie a un lavoro: “Il carcere è un inferno” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 7 novembre 2024 Assunto a Spazio Reale, l’ex detenuto si racconta. Gli anni in carcere, nell’inferno di Sollicciano e ora una nuova prospettiva di vita grazie all’associazione Seconda Chance e a Spazio Reale che lo ha assunto e dove lavorerà come pena alternativa. È la storia di Alaa, un 24 enne maghrebino che può mettersi alle spalle il passato: “A Sollicciano ho pensato di farla finita, ma ho tenuto duro e ora ho un lavoro e una nuova vita”. “Era durissima vivere a Sollicciano, è proprio un altro mondo, è un inferno, le celle sono piene di umidità, c’è sporcizia e ci sono le cimici. Mi hanno morso braccia e gambe. E poi il sovraffollamento, una volta ero in cella insieme ad altri cinque detenuti”. A parlare è Alaa, detenuto maghrebino di 24 anni, uscito un mese fa da Sollicciano per trasferirsi in pena alternativa al Centro Samaritano e adesso inserito professionalmente allo Spazio Reale come manutentore e addetto alle pulizie degli impianti sportivi grazie all’associazione Seconda Chance. Una vita difficile, quella di Alaa, arrivato da giovanissimo in Italia e finito ben presto nel giro della micro criminalità. “Ho fatto 4 anni e 7 mesi di galera”. Ricorda ancora le condizioni di Sollicciano. Il freddo, soprattutto: “La notte a volte si tremava, le coperte non bastavano perché anche quelle erano umide. Il riscaldamento ci sarebbe ma non funziona bene. Si dormiva vestiti. Ci si ammalava spesso. Le condizioni erano drammatiche. A volte ho pensato di farla finita, ma ringrazio Dio che sono ancora vivo”. E poi il cibo: “Fa schifo, molti detenuti lo buttano via. Chi può, se lo compra”. Alaa è praticamente cresciuto nel penitenziario fiorentino, dove ha passato molti anni della sua giovinezza. Ma adesso è in affidamento al Centro Samaritano, dove finirà di scontare la pena, e durante la giornata può lavorare. Ad assumerlo la struttura polifunzionale di Campi Bisenzio, Spazio Reale. “Lavorare in questi spazi per me è una cosa molto importante, è come una nuova vita, una nuova esperienza visto che non avevo mai lavorato prima d’ora in vita mia, è una cosa che mi fa stare bene e mi mette in contatto con molte persone ogni giorno”. Alaa ora avrà la possibilità di costruirsi un futuro che rischiava di essere compromesso anche una volta scontata la condanna. Senza considerare poi i dati relativi al rischio di recidiva su cui si è soffermato anche un recente convegno del Cnel: 6 condannati su 10 sono già stati in carcere almeno una volta, ma per i detenuti che hanno avuto una possibilità di inserimento lavorativo la percentuale di rischio di recidiva è stimata al 2%. Alaa pensa spesso ai suoi primi anni in Italia: “Sono arrivato con un barcone, ho vissuto per molti mesi nei centri per minori non accompagnati, sono finito in un giro poco buono, ho sbagliato e ho perso tanti anni della mia vita in cella. Oggi sono cresciuto, sono maturato, ai ragazzi che arrivano in Italia dico di seguire i percorsi nelle strutture, ci sono persone che possono aiutare”. Oggi Alaa è finalmente un lavoratore. Una delle tante persone che ogni giorno rendono migliore lo Spazio Reale. “La decisione di assumere un primo detenuto - ha detto Stefano Ciappelli, presidente di Spazio Reale Group - è maturata in un confronto con l’associazione Seconda Chance cominciato nell’ottobre 2023 e che ci ha visti immediatamente disponibili, proprio in considerazione della vocazione di Spazio Reale. Siamo una realtà aperta che cerca di contribuire al superamento di barriere e pregiudizi ma anche di incidere concretamente sulla realtà sociale. Dare una seconda opportunità ad Alaa, e magari ad altri dopo di lui, rende tangibile la nostra idea di inclusione”. Fossano (Cn). Lasciare la cella del carcere per lavorare da McDonald's di Giulia Poetto La Stampa, 7 novembre 2024 Due detenuti della Casa circondariale di Fossano coinvolti in un progetto di reinserimento scontano la pena inseriti nello staff del "McDrive" dove si occupano della preparazione dei pasti. Succede da McDonald's che un team di 35 persone per il quale la squadra è tutto accolga a braccia aperte, facendolo sentire uno di loro, chi sta giocando una partita ben diversa, dietro le sbarre, ma non vuole farsi sfuggire l'occasione di gettare le basi della vita del dopo. E quello che va avanti da luglio al McDrive di Fossano, dove due detenuti che stanno finendo di scontare la pena nella casa di reclusione di Fossano lavorano come operatori di ristorazione veloce occupandosi di preparazioni alimentari. Un esperimento al debutto che si concluderà a dicembre, ma che visti gli ottimi risultati dovrebbe essere replicato, forse pure in altri ristoranti di Euro1, la società licenziataria dei ristoranti McDonald's nella Granda. L'iniziativa è l'esito della collaborazione con diversi attori - Confesercenti Cuneo, l'associazione non profit Seconda Chance, la casa di reclusione di Fossano. "Siamo partiti non senza timori, ma in questi mesi il lavoro si è rivelato uno straordinario mezzo di riscatto, capace di superare qualsiasi stereotipo e pregiudizio - dice Alessandro Romano, amministratore delegato di Euro1 - Nello staff c'è una bella coesione, fattore chiave per rispettare gli standard di qualità e i tempi". Se la casa madrenon ha - ancora - un programma di inserimento nell'organico di detenuti, non ha fatto mancare il suo incoraggiamento al test, il cui successo dimostra che anche per una realtà imprenditoriale espressione di un marchio globale l'innesto di forze lavorative dal mondo del carcere si può fare. Servono buona volontà e i giusti compagni di viaggio. "Il nostro compito è sensibilizzare gli imprenditori sulle ricadute positive, economiche e sociali, dell'impiego di detenuti, e mettere in rete i vari soggetti - carceri, istituzioni, imprese - che, insieme, possono dare una seconda possibilità ai detenuti", spiega Claudia Polidoro, referente di Seconda Chance per il Piemonte, che restituirà l'azione dell'associazione non profit domani alle 18 nell'evento "Lavoro. Genesi di un riscatto", voluto da Romano per condividere con l'imprenditoria locale - e chissà, ispirarla - e le istituzioni la sua esperienza. Nella sede della Fondazione Fossano Musica, in via Bava San Paolo a Fossano, interverranno anche il direttore di Confesercenti Cuneo Nadia Dal Bono e Antonella Aragno, responsabile dell'area rieducativa della casa di reclusione di Fossano. Ospite d'onore l'ex calciatore e dirigente sportivo Michele Padovano, che presenterà il suo libro "Tra la Champions e la libertà", il racconto di tante vittorie sul campo e della sua vicenda giudiziaria lunga 17 anni, al termine della quale è stato assolto da tutte le accuse. "L'assoluzione racchiude due messaggi importanti: nella vita non si deve mai mollare e non bisogna limitarsi alle apparenze per giudicare", ha detto Padovano. All'incontro, arricchito da interventi artistico-musicali a cura di Mario Bois e Enzo Fornione, seguirà un rinfresco con specialità made in McDonald's e Cascina Pensolato. Ingresso libero su prenotazione: info@eurol.cn.it. Palermo. Alternative al carcere, nasce l'housing sociale autogestito redattoresociale.it, 7 novembre 2024 Progetto Ortis 2.0 dell'associazione "Un Nuovo Giorno": in una palazzina in città 25 persone si autogestiscono firmando un patto di responsabilità e assistenza. Presenza in gran parte straniera, un progetto che riduce anche il sovraffollamento in carcere. Accoglienza residenziale, ascolto, laboratori e tirocini sono le principali attività dell'Housing Sociale per le persone in esecuzione di pena con il progetto “Ortis 2.0” coordinato dall'associazione Un Nuovo Giorno. Il progetto, in corso a Palermo, è la seconda fase del progetto sperimentale “Ortis, l'orto della Spazzina, presidio territoriale per la giustizia di comunità”. In questo momento, ci sono 15 persone ma a breve ci sarà l'inserimento di altre 10 persone. Con la supervisione degli operatori, le persone accolte si autogestiscono firmando un patto di responsabilità e assistenza con l'associazione. La struttura è una palazzina di tre piani, arricchita da spazi esterni e un giardino. Nel seminterrato vengono svolti i laboratori di artigianato. In una parte del piano terra ci sarà l'accoglienza delle persone con dipendenze patologiche. Nel primo e secondo piano, invece, c'è l'Housing Sociale per 25 persone. In futuro, con un progetto di valorizzazione degli spazi esterni, verrà realizzata una fattoria sociale e un orto sociale. Nella sede, già operativa dal mese di luglio, c'è una presenza maggiore di persone detenute di origine straniera che vivono problematiche molto forti. A raccontarle sono Omar, Sami e Anis. “Il mio reato risale al 2014 - racconta Omar, giovane egiziano di 28 anni -. Fra pochissimi giorni finirò di scontare la mia pena e sono molto preoccupato perchè non so quale sarà il mio futuro. Da 11 mesi sono stato accolto nell'Housing Sociale dove sono stato bene. Oltre al corso di italiano, ho fatto teatro con un'associazione e anche attività lavorative. Spero venga accolta la mia richiesta di asilo per la protezione internazionale. Vorrei rimanere in Italia in maniera legale ma ho paura che mi arrivi il provvedimento di espulsione”. “Mi sento molto fortunato ad essere stato accolto in questa casa perché è una condizione di vita migliore del carcere - ha raccontato il giovane tunisino Sami di 36 anni -. Faccio volontariato e sto imparando a fare il sarto. Fra poco farò un tirocinio lavorativo. Mi sento molto migliorato e, quando finirò la pena, vorrei avere una vita regolare con una casa e un lavoro. Fuori la vita è bella”. “Sono arrivato a Palermo nel 2011 - continua Anis, anche lui tunisino di 39 anni - quando la Tunisia stava vivendo un periodo di rivolta civile. Oggi sono sposato e ho due bambini di 5 e 6 anni. Prima che mi arrivasse, dopo diversi anni, la condanna definitiva lavoravo. Sono semilibero e vado a dormire in carcere. In Housing faccio tante attività ma, soprattutto, mi sento accolto e ascoltato. Spero al più presto di potere tornare a vivere con la mia famiglia”. “Come equipe cerchiamo - aggiunge la psicologa del centro Monica Di Liberto - di supportare le persone accolte in tutto il loro percorso. Sami, per esempio, ha fatto molti passi avanti. Oggi è una persona completamente diversa da quella che avevo conosciuto in carcere. In alcuni vediamo proprio una trasformazione personale che ci restituisce il senso pieno del nostro lavoro”. “Siamo arrivati alla seconda fase del progetto Ortis - afferma Antonella Macaluso, presidente di Un Nuovo Giorno - e siamo contenti dei risultati finora ottenuti. Purtroppo, i problemi che vivono le persone migranti però non sono cambiati. Le persone straniere, come le italiane, vengono accompagnate con un progetto di autonomia socio-lavorativa. Nel momento in cui, a fine pena, sono pronte per reinserirsi in società, l'arrivo del provvedimento di espulsione vanifica drammaticamente tutto il loro percorso. È un sistema di forte ingiustizia sociale che non possiamo accettare. Chiediamoci perché - se dimostrano con carte alla mano la validità del loro percorso - non possono rimanere in Italia”. Il progetto Ortis 2.0 è cofinanziato da Cassa delle Ammende e dall'Assessorato regionale della Famiglia e delle Politiche Sociali). L'associazione Un Nuovo Giorno è l'ente capofila che opera insieme a Cesam, La Linea della Palma e I.D.E.A. Roma: Accordo per la diffusione di competenze digitali e cybersicurezza nelle carceri gnewsonline.it, 7 novembre 2024 Introdurre competenze digitali e cultura della cybersicurezza nelle carceri, sensibilizzare i detenuti sui rischi delle tecnologie e sulle misure di sicurezza, fornire risorse e formazione per promuovere comportamenti responsabili online e prevenire il cyberbullismo, la pedopornografia e la falsificazione d’identità, sviluppare competenze digitali trasversali orientando i detenuti verso una formazione specialistica per un futuro professionale nel settore. Con questi obiettivi, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Cyber Security Italy Foundation e Camera Penale di Roma hanno sottoscritto ieri pomeriggio il protocollo d’intesa “per la diffusione della cultura cibernetica, delle competenze digitali negli Istituti penitenziari e l’introduzione alle professionalità specifiche con certificazioni informatiche”. Alla firma del protocollo, nella sede del DAP, erano presenti il capo del Dipartimento Giovanni Russo, il presidente della Fondazione Marco Gabriele Proietti e il presidente della Camera Penale di Roma Gaetano Scalise. Il progetto, ideato e promosso dalla Cyber Security Italy Foundation, la prima fondazione no profit in Italia sul mondo cibernetico, nasce con l’obiettivo di fornire alle persone detenute l’opportunità di apprendere e sviluppare competenze che possano essere consolidate durante la permanenza in carcere e utilizzate, una volta conclusa la detenzione, nel processo di reinserimento nella società e prenderà il via in due istituti penitenziari di Roma. “Il tempo della detenzione non può essere tempo sprecato - dichiara il senatore Andrea Ostellari, sottosegretario di Stato alla Giustizia con delega al trattamento dei detenuti, commentando il Protocollo - Per questo plaudo ad ogni iniziativa che consenta ai ristretti di formarsi e avviarsi al mondo del lavoro. Nel progetto della Cyber Security Italy Foundation, tuttavia, c’è di più: perché insieme alla formazione del detenuto si promuove un percorso educativo e disincentivante rispetto alle numerose attività fraudolente ed illegali che possono essere commesse in rete, a danno di cittadini adulti e minori. La funzione svolta da questa iniziativa, di cui ringrazio vivamente i promotori, è quindi duplice: formare per avviare al lavoro e informare dei rischi che comporta l’assumere comportamenti vietati sul web”. “Con questo progetto qualifichiamo ulteriormente la nostra offerta formativa in favore della popolazione detenuta su un tema ormai importantissimo come quello della cultura cibernetica”, ha affermato il capo del DAP Russo. “La firma di questo accordo con la Fondazione Cyber Security Italy e la Camera Penale di Roma rappresenta un segno di fiducia e di riguardo per i cambiamenti che stiamo portando avanti nell’Amministrazione Penitenziaria”. “Il progetto che oggi inauguriamo - spiega il presidente della Cyber Security Italy Foundation Proietti - rappresenta un passo fondamentale per la diffusione della cultura cibernetica e delle competenze digitali negli Istituti penitenziari. Un’iniziativa che non solo vuole offrire conoscenze tecniche e certificazioni informatiche, ma anche gettare le basi per una prospettiva di vita differente. La Cyber Security Italy Foundation è orgogliosa di portare avanti la propria missione, anche in contesti complessi come quello carcerario, dove il digitale può diventare uno strumento di riscatto e di nuova progettualità personale. Ringraziamo tutte le istituzioni e le realtà coinvolte che hanno creduto in questo protocollo, collaborando per trasformare una sfida in un’opportunità concreta per il futuro”. “Questo progetto - evidenzia infine il presidente della Camera Penale di Roma Scalise - rappresenta un passo importante verso l’inclusione digitale e la riabilitazione dei detenuti, offrendo loro una concreta opportunità di acquisire competenze utili per il futuro reinserimento nella società e nel mondo del lavoro. Riteniamo che la diffusione della cultura cibernetica negli istituti penitenziari sia utile per creare nuove possibilità e ridurre la recidiva, promuovendo valori di responsabilità e consapevolezza nell’era digitale”. Napoli. “Nati pre-giudicati”, laboratorio e film sulla violenza minorile Corriere del Mezzogiorno, 7 novembre 2024 “Quando hai commesso il primo reato, non hai avuto paura del carcere o di morire?”. “No, né la prigione né la morte sono peggio della vita che facevo prima”. Domanda e risposta sono tra quelle emerse durante il laboratorio “Nati pre-giudicati”, che il regista Stefano Cerbone ha svolto nell’istituto penale per i minorenni di Nisida. Risposte, quelle dei giovani detenuti, che sono lo specchio del disagio giovanile che spesso si trasforma in devianza e sfocia in tragedie, come quella che ha portato prima all’uccisione del 15enne Emanuele Tufano, colpito a morte da un proiettile alla schiena lo scorso 24 ottobre nella zona di piazza Mercato e poi a quella del 19enne Santo Romano, ucciso da un ragazzo di 17 anni a San Sebastiano al Vesuvio tra il primo e il 2 novembre. Parte da qui il progetto di Cerbone, imprenditore e cineasta originario di Secondigliano, che torna a parlare di detenzione e prevenzione con il suo film “Nati pre-giudicati”, che vede nel cast Gigi Savoia, Marina Suma, Gianni Parisi, Gaetano Amato, Gianluca Di Gennaro, Carmine Paternoster. Dopo l’anteprima nazionale a Secondigliano, il film si proietta oggi alle 14.30, a Nisida. A seguire dibattito sulla violenza minorile, al quale partecipano il regista Cerbone, il presidente del Tribunale per i minorenni Paola Brunese e il magistrato Gemma Tuccillo. Mantova. In carcere la poesia corre attraverso il mezzo epistolare asst-mantova.it, 7 novembre 2024 Mantova Poesia-Festival Internazionale Virgilio inizia in carcere il terzo anno di laboratorio, esperienza nata nel novembre 2022 in collaborazione con la Medicina penitenziaria di Asst, nell’ambito di un percorso di medicina narrativa. Tra il 2023 e il 2024 sono stati numerosi i temi affrontati e i conduttori dei workshop. In questa nuova stagione - che si è aperta a ottobre 2024 e continua nel 2025 - si proporrà ai partecipanti di sviluppare il rapporto con sé stessi attraverso l’autobiografia e la scrittura come dialogo, utilizzando la forma epistolare. “Continuiamo ad andare in carcere - spiega Lucia Papaleo - presidente dell’associazione La Corte dei Poeti che organizza il festival virgiliano - perché succede sempre che chi si approccia a questo tipo di esperienza non ne verrà più fuori, tanta è la felice contropartita. A fronte di ciò che noi possiamo portare, è infinitamente superiore ciò che riceviamo in cambio. Noi portiamo noi stessi, il nostro desiderio di esserci, le nostre braccia, i volti, le voci, le risate, lo stupore, gli abbracci, le penne, i poeti, le speranze. Dalle persone detenute riceviamo idee, connessioni, energie, entusiasmo, emozioni, coraggio di provare cose impossibili, vitalità, speranza”. Il laboratorio ormai si identifica con il titolo ‘La parola come cura’. “In questi due anni - commenta Laura Mannarini, responsabile della Medicina penitenziaria - la parola ha curato in tanti modi, ma soprattutto ha curato la capacità di credere al cambiamento. La cura inoltre è stata preziosa anche per la poesia stessa: la scrittura che esce dal carcere supera ogni retorica o accademia, si purifica, diventa essenziale. Le persone che partecipano ai laboratori sono libere di esserci o non esserci, spesso non possono tornare agli incontri successivi per vari motivi, o perché vengono spostate ad altri istituti di pena, o per eventi che impediscono la partecipazione. Ma il gruppo che si crea è sempre vitale e coeso”. Viene dunque proposta una serie di incontri-scrittura a partire dalle lettere. Lettera a me stesso/a me stesso/a (curato dalle assistenti sociali Roberta Pasotti e Marisa Pini); Lettere alla guerra e alla pace, curato da Sergio Sichenze, autore di una raccolta di poesie sulla guerra di prossima pubblicazione nella collana ‘La Corte dei poeti’: 1 dicembre 2025; Lettera al mondo (prendendo spunto dalla “lettera al mondo” di Emily Dickinson), curato da Lucia Papaleo, Carla Villagrossi, Luciana Bianchera, 12 gennaio 2025; Lettere al carcere, con la speciale partecipazione di Alessandro Fo, scrittore, latinista, poeta, traduttore dell’Eneide di Virgilio e delle Metamorfosi di Apuleio, con una intensa esperienza di sostegno culturale in diversi istituti di pena. Una sua raccolta, ‘Filo spinato’, che riguarda un percorso con le persone detenute, contiene poesie sulla quotidianità nel carcere di cui fa parte la cosiddetta “domandina”, strumento per chiedere ogni cosa, dalla più piccola alla più necessaria, che scandisce le attese e le speranze (9 febbraio 2025). Un altro appuntamento sarà quello con Marco Valentini, poeta, psicologo e psicoterapeuta, che terrà un laboratorio sulla lettura di testi poetici nonché dei testi scritti dai partecipanti al laboratorio come azione riflessiva e introspettiva di cambiamento (2 marzo 2025). Proseguono gli appuntamenti del laboratorio di lettura e scrittura creativa sul modello del laboratorio tenuto da oltre 30 anni al carcere di Opera: saranno curati da Giuliana Adamo e Luciano Zampese, con cadenza mensile e vedranno i partecipanti confrontarsi su uno o più testi che fungeranno da stimolo per le loro scritture. Anche quest’anno il laboratorio si concluderà con un evento finale di letture e musica, cui saranno invitati ospiti esterni e parenti delle persone detenute. Infine, il legame carcere-territorio si realizzerà con un'altra iniziativa: una “uscita” per le persone detenute che potranno ottenere il permesso e per gli operatori del carcere, che si concretizzerà nella visita guidata-laboratorio emozionale alla mostra di Palazzo Te ‘Picasso: poesia e la salvezza’ a cura di Elena Miglioli (responsabile Ufficio Stampa e Comunicazione di ASST Mantova) e Laura Mannarini (responsabile della Medicina penitenziaria di ASST Mantova). Il laboratorio, in programma per il 3 dicembre, sarà condotto dell’operatore museale Simone Rega e costituirà occasione di scrittura nei successivi laboratori nei quali far confluire l’emozione dell’arte. Bologna. “Vestirsi dentro”, raccolta di indumenti per i detenuti dell’Ipm Corriere di Bologna, 7 novembre 2024 “Non può esserci giustizia senza dignità. Lo stato dei nostri penitenziari ci mostra una fotografia sconfortante, in cui non è garantita la dignità dei detenuti e l’umanità della pena, e dove la povertà e la marginalità sociale sono la condizione di gran parte della popolazione detenuta”. È questa la cornice in cui viene organizzata a Bologna l’iniziativa benefica “Vestirsi dentro”, raccolta di indumenti per i detenuti dell’Istituto penale minorile “Pietro Siciliani” e del carcere della Dozza. L’iniziativa sarà presentata oggi alle 15 nella sala Primo Zecchi del tribunale di via Farini e parteciperà anche l’attore Alessandro Bergonzoni. La raccolta è organizzata da Camera Penale di Bologna, Anm Bologna, Associazione volontari carcere, Aiga e Ordine Avvocati. La raccolta si terrà nelle giornate dall’11 al 15 novembre dalle 9 alle 13 sempre nel tribunale di Bologna, ma nel polo penale di via D’Azeglio 56. Si richiedono indumenti nuovi e confezionati (tute, maglioni, biancheria, asciugamani, scarpe da ginnastica e ciabatte da doccia). Napoli. I detenuti dell’Ipm vincono la IX edizione del premio “Città e lavoro: le mie idee” corriereuniv.it, 7 novembre 2024 La cerimonia di premiazione si è svolta nella prima giornata di Orientasud, il salone dedicato all’orientamento universitario e al lavoro che si sta svolgendo negli spazi della Mostra d’Oltremare a Napoli. Sono stati i ragazzi dell’Istituto penale per minorenni di Nisida, il carcere a cui è ispirata la fortunatissima serie tv “Mare fuori”, ad aggiudicarsi la IX edizione del premio “Città e lavoro: le mie idee”, il concorso promosso da Orientasud e l’Ordine dei Giornalisti della Campania per dare voce ai giovani sui temi del lavoro e degli spazi cittadini intesi come luoghi di espressione e socializzazione da ridisegnare. La premiazione è avvenuta questa mattina in apertura della 25esima edizione del salone più grande del Mezzogiorno dedicato all’orientamento universitario e al lavoro in corso fino all’8 novembre negli spazi della Mostra d’Oltremare di Napoli. Il brano “Inferno e paradiso” è stato curato da Emanuele, un ragazzo dell’istituto penale per minorenni di Nisida, in collaborazione con altri ragazzi detenuti. Una ballata che unisce rap e melodia napoletana. Hanno inoltre ottenuto un premio del concorso: l’Istituto Dalla Chiesa di Afragola con la poesia ‘Vivere la Città’, l’Istituto Omnicomprensivo di Cervinara con il video ‘Il nostro paese a misura d’uomo’ e lo studente Mattia Napoletano dell’Istituto Galiani-Da Vinci con il racconto ‘L’accidioso’, quest’ultimo consegnato da Maria Condemi, Direttore Generale della DG dell’Innovazione tecnologica, delle risorse strumentali e della comunicazione, del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. “Il futuro lavorativo si costruisce negli anni della formazione scolastica e universitaria. Eventi come Orientasud servono anche per capire che alcune scelte vanno ragionate, bisogna sapere ciò che si può accettare e quello che non si può accettare, capire come inserirsi nel mondo del lavoro e da che parte andare”, dichiara Condemi a margine dell’inaugurazione di Orientasud. “Spesso è la disinformazione che crea difficoltà nel futuro degli adulti che quando erano giovani non si sono formati correttamente”, conclude. “Abbiamo deciso di premiare i ragazzi dell’istituto di Nisida perché la canzone è un inno al riscatto dalla difficile condizione in cui sono caduti e una dichiarazione d’amore per la propria città, attraversata come loro da mille difficoltà e contraddizioni - spiega Mariano Berriola, direttore di Orientasud e di Corriere Università e Lavoro -. Le loro parole ci hanno davvero toccato il cuore perché esprimono l’amore, spesso viscerale, che questi ragazzi hanno per la nostra città. Per dirla con la loro canzone ‘Quanta pregiudizi sento ‘nguollo rint all’osse quando cammino p’a strada. Nun songo ‘e napule ma è l’unico posto addo’ me sento a casa’”. Il premio, consegnato dal direttore Berriola è stato ritirato da Paolo Spada, educatore del carcere di Nisida e Luca Caiazzo, rapper napoletano in arte Lucariello. “Questa città la facciamo tutti quanti, la fanno anche questi ragazzi che sbagliano - afferma Spada - soltanto che loro hanno avuto delle occasioni sbagliate e purtroppo le hanno colte. Quando vengono da noi dobbiamo fargli capire che c’è anche altro”, ha dichiarato. “La canzone è una rivisitazione di ‘O surdato ‘nnamurato in chiave rap - ha affermato Caiazzo -. Noi spesso abbiamo un’immagine del carcere minorile che è diversa dalla realtà perché il carcere è un luogo di dolore, dove c’è sofferenza. Le carceri minorili non sono licei, non ci sono love story. Come nascere in una famiglia perbene non è un merito, nascere in una “non perbene” non può essere una colpa”, ha detto ricevendo il premio a nome dei ragazzi di Nisida. Domani continua la programmazione di Orientasud 2024 con unospazio alla formazione professionale con un approfondimento di Inapp che avrà come obiettivo quello di fornire tutte le informazioni fondamentali sulle strategie e sui sistemi VET (Vocational Education and Training) presenti in Europa. Alle 10 appuntamento con gli ITS Academy (a cura di Sviluppo Lavoro Italia) per illustrare il sistema delle scuole di alta specializzazione nate per rispondere alla domanda delle imprese di nuove ed elevate competenze tecniche e tecnologiche. Alle 11.30 con il workshop “Mismatch: mind the gap” si avrà la possibilità di conoscere le professioni più richieste del mercato del turismo e del restauro e sapere cosa cercano le aziende attraverso il racconto dei diretti protagonisti. Alle 12, invece, previsto l’incontro “Violenza e criminalità giovanile: lo studio come strumento di contrasto” con gli interventi di don Pasquale Incoronato, fondatore della Locanda di Emmanus, la professoressa Maria Luisa Iavarone, ordinaria di pedagogia sperimentale all’Università degli Studi di Napoli Parthenope, e Piero Avallone, presidente del Tribunale per i minori di Salerno. Venerdì 8 novembre, ultimo giorno dell’edizione 2024 di Orientasud, si parlerà di sicurezza sul lavoro con il workshop organizzato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali mentre alle 11 spazio ai temi di attualità e di politica internazionale con la conferenza su “Guerra e conflitti: il racconto degli inviati” che vedrà la partecipazione di Barbara Schiavulli, corrispondente di guerra e scrittrice. Vercelli. La libertà è un gol: ora i detenuti sognano un campionato di Raffaella Lanza La Stampa, 7 novembre 2024 “Viva la Pro Vercelli”, urla un detenuto dalla finestra della sua cella, che si affaccia sulla striscia di asfalto percorsa dai giovani della Primavera bianca prima di entrare in campo, Ma alla casa circondariale di Vercelli, dove è andata in scena la sfida “Oltre la rete”, il tifo è tutto per il Team Billiemme, una rappresentativa di carcerati, che alla fine ha vinto 2-1. Un risultato che passa in secondo piano, perché a vincere, sono stati tutti: i detenuti, che hanno messo in mostra le loro capacità e assaporato un momento di svago e “libertà”, i giovani leoni, che hanno vissuto un’esperienza di vita. E anche gli spettatori, che hanno potuto assistere ad un momento di sport, che ha dato un calcio ai pregiudizi. A dare il via al confronto, con il primo tocco di palla, è stato il mister della prima squadra Paolo Cannavaro, accompagnato dal suo vice Rolando Bianchi, da capitan Gianmario Comi, dal direttore sportivo Francesco Musumeci e dal vice presidente Franco Smerieri. Cannavaro, che nell’intervallo, ha firmato autografi ai detenuti, che assistevano alla gara dal cortile interno separato che si affaccia sul campo, e scambiato con loro qualche battuta: sul campionato di calcio di serie A, sulle diverse squadre presenti, sui calciatori più forti del momento. Allenati da un vero mister - La partita è scivolata via tra applausi e giocate a ritmi alti. Più timidi i giovani leoni rispetto ai “padroni di casa”, che non hanno risparmiato fiato e sudore, per mettere in mostra le proprie capacità, allenate nell’ultimo mese da un allenatore professionista della Pro Vercelli, Stefano Melchiori, prestato alla casa circondariale dalla società bianca per l’occasione. Giovani leoni che hanno iniziato a ruggire solo sul finale di secondo tempo, per evitare, pur non riuscendoci, il ko. Akim, Mohamed, Silvano (i nomi sono di fantasia), avevano gli occhi che brillavano, nel poter calcare il rettangolo verde. Un’esperienza che ricorderanno per tutta la vita. Che andrà ad alimentare i loro sogni, a riempire le ore in cui saranno in cella. “Immagino i discorsi dei prossimi giorni di questi ragazzi - dice il tecnico Paolo Cannavaro -. Di questa partita parleranno a lungo. Diranno: “hai visto che passaggio ho fatto, hai visto il gol che ho segnato’”. Nella speranza di poter indossare ancora gli scarpini, una volta usciti da qui. È stata davvero un’iniziativa bellissima”. E proprio Cannavaro, che ha aperto la sfida, di fatto l’ha anche chiusa, con un suo intervento al microfono: “Complimenti ai vincitori. Viva il team Billiemme”. E come in tutte le partite c’è stato anche il momento di gloria per chi ha portato a casa la partita: tuffo sotto “la curva” e applausi a scena aperta per la squadra del carcere. E, ciliegina sulla torta, a conclusione di una serena giornata, la promessa da parte del direttore della casa circondariale di Vercelli, Giovanni Rempiccia: “Presto realizzeremo l’obiettivo di avere una nostra squadra di calcio con cui affrontare i campionati ufficiali già dalla prossima stagione - ha spiegato -: e allora tenetevi pronti, nelle settimane seguenti inizieranno i provini e verranno organizzate altre amichevoli”. Migranti. Azione popolare contro il Cpr di Roma. “Il sindaco Gualtieri si muova” di Giansandro Merli Il Manifesto, 7 novembre 2024 Quella capitolina è l’unica struttura dove finiscono anche le donne migranti. Spesso già vittime di violenza. Intanto sulla legittimità della detenzione amministrativa deciderà la Consulta. “Altro che esportarla in Albania, la detenzione amministrativa è incostituzionale anche in Italia. Per questo vogliamo che il sindaco di Roma chieda ufficialmente la chiusura del Cpr di Ponte Galeria, una struttura in contrasto con l’identità storica della capitale e con la Carta”. Lo sostengono i 39 giuristi e professori universitari che il 16 agosto scorso hanno avviato un’azione popolare rivolta al primo cittadino Roberto Gualtieri, in virtù dei poteri che gli attribuisce il Testo unico sugli enti locali. La rete di promotori ha già incontrato le istituzioni cittadine. In quell’occasione proprio Gualtieri aveva comunicato l’intenzione di visitare la struttura detentiva alle porte della capitale aperta il 5 agosto 1998: sarebbe il primo sindaco a farlo in 26 anni di quella che molti definiscono una “galera etnica”. “Roma Capitale e Città metropolitana di Roma sostengono fortemente l’azione popolare promossa dal mondo accademico sulla chiusura del Cpr di Ponte Galeria”, ha dichiarato ieri in una conferenza stampa che si è tenuta nel palazzo della prefettura la consigliera Tiziana Biolghini, delegata a Pari opportunità e politica sociale, cultura e partecipazione. Obiettivo: rilanciare l’iniziativa. Dall’avvio della procedura, infatti, il primo cittadino ha tre mesi di tempo per dare una risposta ed eventualmente attivarsi con il ministero dell’Interno. “Ne aspetteremo uno in più, ma se da Gualtieri non arriveranno azioni concrete il 15 dicembre ci rivolgeremo autonomamente al Viminale, secondo quanto prevede la legge”, ha affermato l’avvocato Gennaro Santoro. La strategia dell’esecutivo, intanto, va in tutt’altra direzione. Proprio ieri il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha ribadito: “Amplieremo i posti disponibili nei Cpr tramite la realizzazione di ulteriori strutture e ripristineremo la piena funzionalità di esistenti”. Nonostante il clima politico, comunque, i promotori sono ottimisti: c’è un precedente positivo all’ex Cie di Bari chiuso, ma solo temporaneamente, nel 2012 mentre un’altra azione identica è stata avviata verso il comune di Milano. Sempre ieri la Coalizione italiana libertà e diritti civili ha presentato il report Chiusi in gabbia. Viaggio nell’inferno di Ponte Galeria. Un catalogo sugli orrori della struttura di detenzione amministrativa, l’unica che prevede anche una sezione femminile: cinque posti in cui finiscono le ultime tra gli ultimi. Tra loro donne vittime di tratta, violenza di genere o lavorativa, per esempio nel settore dell’assistenza domestica. L’ente gestore è la multinazionale Ors, sebbene il contratto sia scaduto, verso cui la stessa prefettura di Roma ha disposto delle sanzioni economiche. Probabilmente sull’onda delle inchieste giudiziarie sui Cpr di Milano e Palazzo San Gervasio, ha contestato alcune violazioni del contratto d’appalto. Il centro, però, resta aperto. E proprio da Ponte Galeria ha origine un rinvio alla Consulta che potrebbe avere effetti importanti su tutto il sistema della detenzione amministrativa in Italia. È stato firmato il 17 ottobre da una giudice di pace capitolina. Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate d’ufficio, sono due: violazione della riserva di legge assoluta e del principio di uguaglianza per la mancata disciplina puntuale dei modi del trattenimento, dei diritti dei trattenuti e dell’autorità giudiziaria competente. Sulla reclusione nei Cpr, infatti, manca una norma primaria. E questo viola diversi articoli della Costituzione che tutelano i diritti fondamentali. Migranti. “Mangiamo solo per non morire di fame”. Il grido d’aiuto di Faouzi dal Cpr di Roma di Gaetano De Monte e Marika Ikonomu Il Domani, 7 novembre 2024 Un’azione popolare promossa dal mondo accademico e da Cild chiede al Viminale la chiusura definitiva del centro di Ponte Galeria, sulla cui gestione la stessa prefettura di Roma ha mosso rilievi. “Ci trattano come animali e questo posto sembra un canile”, dice al telefono Faouzi, un ragazzo rinchiuso nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Roma Ponte Galeria, proveniente da un paese nordafricano, che preferisce rimanere anonimo per non correre alcun rischio. Racconta di “una situazione disumana” in questo luogo di detenzione amministrativa, dove vengono recluse persone fermate senza permesso di soggiorno. Alla base della detenzione non c’è un reato e “non sappiamo nemmeno perché siamo rinchiusi qua dentro”, continua. Le presenze cambiano velocemente, ma ad oggi sono recluse una novantina di persone, costrette a vivere in un posto “fatto di cemento e sbarre”, dove “l’igiene dei bagni e delle docce non esiste” e “il cibo fa schifo e si mangia solo per non morire di fame”. Condizioni che hanno portato a uno sciopero della fame, durato circa un giorno, e che portano ad atti di autolesionismo o, nei casi più estremi, a “fare le corde”, dice il ragazzo trattenuto, parlando dei tentativi di suicidio. E se accade qualcosa di notte, “fai in tempo a morire prima di essere soccorso”. “Le persone trattenute sono giustamente esasperate per il fatto che permangono in uno stato di limbo e indeterminatezza, oltre che per le condizioni del trattenimento stesso”, afferma l’associazione A Buon Diritto, che da anni entra e monitora la situazione del Cpr romano. Una situazione che “è peggiorata con l’allungamento dei termini di trattenimento stabiliti dall’attuale normativa”, spiega l’associazione. È stato infatti il decreto Piantedosi ad aumentare da 90 giorni a 18 mesi il termine massimo di trattenimento. Faouzi denuncia la limitazione al suo diritto di difesa: “Sono riuscito a incontrare la mia avvocata solo una volta. Non fanno entrare i legali”. Riesce a parlarle al telefono “ma non è la stessa cosa”. È richiedente asilo e non si spiega perché non possa aspettare l’esito della domanda fuori dal Cpr, dove ha una compagna, un lavoro e una casa. Ha passato diversi anni in carcere e, spiega, “si stava molto meglio. Sapevi che dovevi scontare la tua pena, che aveva una funzione rieducativa. Nel Cpr ti chiedi: “Cosa ci faccio qui? Cosa aspetto?”. Condizioni indegne - Ed è proprio la struttura di Ponte Galeria al centro dello studio di Cild, la Coalizione italiana per i diritti civili, che ha messo ancora una volta nero su bianco le condizioni da girone infernale in un lungo rapporto che è stato presentato ieri in Campidoglio. Un inferno fatto di condizioni detentive indegne e violazione dei diritti minimi di cittadinanza. Il Cpr di Ponte Galeria è un buco nero nella capitale d’Italia, è un non luogo in cui le persone trattenute perdono la propria identità, dove le persone vengono distribuite nelle diverse celle di pernottamento in base alla loro provenienza geografica (es. nord-Africa; Africa subsahariana), è una prigione etnica, in cui non vi sono locali di trattenimento separati per i richiedenti asilo, come prevede il testo unico immigrazione del 2015, e come ha stabilito il Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Quando il 3 ottobre scorso una delegazione di Cild ha ispezionato i locali della sezione maschile, i detenuti hanno riferito di dormire su letti privi di materassi, in dieci all’interno di singoli stanzoni, con soli due bagni a disposizione. Tuttavia, il direttore a capo della struttura non ha consentito alla delegazione di visitare i locali di pernottamento, come invece era accaduto qualche mese prima, quando gli avvocati di Cild vi erano entrati accompagnati dalla deputata del Pd, Rachele Scarpa. Allora, i materassi in una delle celle visitate c’erano, sì, ma usurati, di gomma piuma e privi di reti, senza lenzuola. In un’altra cella di 20 metri quadrati dove dormivano 8 persone, invece, c’erano 8 strutture in metallo, senza materassi, e allora molti detenuti dormivano direttamente sulle reti. Eppure, a fronte di questo tipo di “accoglienza” che comprende docce e bagni in condizioni degradanti, una distribuzione insufficiente di dentifricio, shampoo e bagnoschiuma, carta igienica e di vestiario, come ammette la stessa prefettura di Roma in una relazione, la multinazionale Ors che gestisce il centro dal giugno del 2021 si è aggiudicata la gara d’appalto per la durata di dodici mesi (rinnovabili per un periodo massimo di un anno) alla cifra considerevole di sette milioni e duecentomila euro iva esclusa. E però non gravano soltanto sulla gestione del centro di Ponte Galeria le ombre su Ors, acronimo di Organisation for Refugees Services, un gruppo che gestisce oltre cento strutture detentive per migranti in tutta Europa. Ma anche sulla procedura di affidamento da parte della prefettura di Roma emergono sospetti e incongruenze, a cominciare dal fatto che ancora oggi la multinazionale elvetica, ora acquisita dal gruppo britannico Serco Group plc, gestisca il centro in totale mancanza del certificato antimafia. Non solo. Secondo il contratto siglato tra la prefettura e l’ente gestore, l’autorità prefettizia potrà procedere alla risoluzione contrattuale qualora vi sia la “violazione dei diritti fondamentali degli stranieri accolti di cui all’art.1, c.2, del Capitolato”. E invece, la multinazionale rimarrà probabilmente al suo posto di comando, nonostante la prefettura annoti, nelle contestazioni di cui Cild è venuta in possesso, le gravi violazioni dei diritti delle persone detenute, con particolare riferimento ai beni di prima necessità non distribuiti, alla qualità del cibo somministrato, al diritto alla salute che è stato violato. In seguito a tali contestazioni sono state erogate delle sanzioni nei riguardi di Ors per un totale di 47.359 euro che si sommano ai 110.989 euro decurtati dalla Prefettura, nell’ambito dei controlli mensili sull’esecuzione del contratto, che non è mai stato messo in discussione. Anzi. Nel frattempo è stata bandita una nuova gara d’appalto nel luglio scorso, a valere per i prossimi due anni e per una cifra pari a 11 milioni e mezzo di euro. Ma il silenzio del sito della prefettura sui partecipanti alla nuova gara, data la scadenza dell’ultima proroga (31 ottobre) lascia intravedere l’ennesimo affidamento diretto alla Ors, con buona pace dei diritti umani e delle condizioni in cui si trovano i detenuti. E della trasparenza. Un sistema non riformabile - Il sistema dei Cpr “non appare riformabile ma è necessario procedere a un suo smantellamento”, una richiesta che aveva già sollevato la commissione parlamentare De Mistura nel 2007. Per questo il mondo accademico ha promosso un’azione popolare per la chiusura di Ponte Galeria, che vede come primo firmatario Mauro Palma, ex Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Un appello alla chiusura definitiva che è stato presentato il 6 novembre in Campidoglio. Al sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, alla giunta e all’assemblea capitolina, la Cild ha chiesto di aderire all’azione popolare con cui si richiede al ministero dell’Interno l’effettiva chiusura del Cpr di Ponte Galeria. E, nel frattempo, di continuare, in forma pubblica e in presenza, le sedute tematiche sulla chiusura del Cpr di Ponte Galeria che si sono cominciate a svolgere nell’ambito della Commissione Politiche Sociali del Comune di Roma, e che hanno già visto, nel maggio di quest’anno, l’audizione della Garante comunale delle persone private della libertà personale, Valentina Calderone. Non soltanto. La Coalizione italiana per i diritti civili chiede che tali audizioni vengano svolte pubblicamente anche nei confronti di chi, a vario titolo, è coinvolto, nella gestione del Cpr: dalla società Ors alla Prefettura, dalla Questura alla Asl, “cui si dovrà chiedere conto della violazione sistematica dei diritti delle persone detenute in tale luogo”, si legge nell’appello: “La necessità che tali audizioni siano pubbliche ed in presenza deriva proprio dal bisogno di aprire uno spazio cittadino di confronto su ciò che accade a Ponte Galeria e di accelerare il processo di chiusura”. Migranti. La nave Libra ritorna nel porto di Shengjin, a bordo solo in otto di Giansandro Merli Il Manifesto, 7 novembre 2024 Del magro bottino il governo dà la colpa ai migranti e alle ong. L’opposizione va all’attacco: “Ormai siamo alle comiche”. Ma Piantedosi rivendica: “Alcune decine di persone hanno tirato fuori il documento d’identità per evitare il trattenimento. C’è quindi un effetto deterrenza”. È attesa oggi nel porto albanese di Shengjin la Libra: a bordo ha otto richiedenti asilo. Magro bottino per il viaggio della grande nave militare, è lunga 81 metri, dopo due giorni a sud di Lampedusa. Evidentemente oltre agli ostacoli giuridici, che si riproporranno quando le nuove richieste di convalida arriveranno sulle scrivanie dei giudici di Roma, la strategia del governo ha anche grossi problemi operativi. Che non può imputare alle “toghe rosse”. Così sono tornati in auge capri espiatori più tradizionali: migranti e ong. Dopo aver sostenuto che “i numeri esigui” dipendono da “procedure di selezione severe”, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, audito ieri in Commissione Schengen, ha affermato: “Alcune decine di persone hanno tirato fuori il documento d’identità per evitare il trattenimento”. In pratica i migranti soccorsi avrebbero tenuto in tasca il passaporto, che secondo le norme Ue è una causa di esclusione dalla detenzione durante l’esame “accelerato” della richiesta d’asilo. Per il diritto comunitario, infatti, la privazione della libertà personale è solo un’extrema ratio. Il governo Meloni, invece, vorrebbe fosse sistematica. Del resto i migranti sono soggetti senzienti e informati su ciò che accade dall’altro lato del mare: le strategie per attraversare le frontiere si riconfigurano sempre in base alle diverse forme di controllo. E questo, come sa bene l’esecutivo, vale sia quando sono attive organizzazioni criminali sia quando non ce ne sono. Certo se la notizia fosse confermata e la tendenza si ripetesse anche nei prossimi round sarebbe un bel grattacapo per tutta l’operazione Albania. Piantedosi, comunque, ha provato a fare di necessità virtù rivendicando “un effetto deterrenza” che semplificherà i rimpatri. Il primo requisito per rimandare a casa i cittadini stranieri è identificarli ed è più facile davanti a un pezzo di carta che ne attesta l’identità. L’”effetto deterrenza” che l’esecutivo aveva invocato nei mesi scorsi per giustificare il miliardo di euro messo sui centri in Albania, però, era un altro: scoraggiare le partenze. Fonti governative hanno poi comunicato che la missione della nave militare è coincisa con una “presenza particolarmente numerosa di imbarcazioni ong”. Queste si sarebbero posizionate in modo da anticipare le intercettazioni delle autorità. A realizzare soccorsi c’erano la Sea-Eye 5 e la Ocean Viking: in totale cinque interventi, spesso lontano dall’area della Libra o mentre quella era già in navigazione, per 289 naufraghi. Numeri ordinari per le ong. Anche perché da domenica a mercoledì a Lampedusa sono arrivate 1.238 persone (fonte: Mediterranean Hope, attiva al molo di sbarco dell’isola). A parte Piantedosi, dalla maggioranza non è intervenuto nessun altro. Le elezioni americane sono state una buona occasione per dirottare altrove l’attenzione, sebbene il silenzio fosse iniziato già martedì. Vanno all’attacco, invece, le opposizioni. “Otto persone sulla Libra: siamo alle comiche”, afferma il deputato di +Europa Riccardo Magi. Mentre il 5S Alfredo Colucci, autore di uno degli esposti alla Corte di conti, sottolinea l’inefficacia dell’operazione a fronte dei costi elevatissimi: “Una vergognosa presa in giro degli italiani”. Intanto anche i giudici di Palermo hanno rinviato alla Corte di giustizia del Lussemburgo il decreto paesi sicuri, a partire dai casi di un cittadino del Ghana e di uno del Senegal. È il terzo tribunale, dopo Bologna e Catania, a chiedere un’interpretazione della norma alla luce del diritto comunitario. Il 4 dicembre, invece, arriveranno importanti notizie dalla Cassazione. Il massimo tribunale ha detto No alla richiesta del Viminale di assegnare alle Sezioni unite i suoi ricorsi contro le non convalide dei trattenimenti in Albania disposte dal tribunale di Roma. Ha però accorpato quelle decisioni a un’udienza già in programma su un quesito posto dagli stessi magistrati capitolini, ovvero se i giudici devono verificare d’ufficio la correttezza della designazione del paese come “sicuro”. Un rinvio precedente al pronunciamento della Corte del Lussemburgo del 4 ottobre scorso, che sul punto ha in parte già risposto positivamente. Migranti. “Paesi sicuri”, non c’è una definizione legislativa che tenga. Il ruolo della Corte Ue di Bartolo Conratter Il Riformista, 7 novembre 2024 I fatti sono noti. Un decreto legge ha stabilito quali siano i paesi sicuri, ai fini della procedura accelerata anti-migratoria, fra cui il Bangladesh e l’Egitto (D.L. 23 ottobre 2024, n. 158 di modifica del Dlgs. del 28 gennaio 2008, n. 25). Il testo ha innescato una richiesta di rinvio pregiudiziale - ex art. 267 del TFUE - alla Corte di Giustizia dell’Unione europea da parte del Tribunale di Bologna (R.G. 14572-1/2024). Il quesito sottoposto alla CGUE è così sintetizzabile: “Se per il diritto dell’Unione europea […] il parametro sulla cui base debbono essere individuate le condizioni di sicurezza che sottendono alla designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro debba essere inderogabilmente individuato nella carenza di persecuzioni dirette in modo sistematico e generalizzato nei confronti degli appartenenti a specifici gruppi sociali […]. Sono seguite aspre critiche da parte di chi ha visto in questo rinvio una manovra di stampo bolscevico. Va fatta chiarezza sul punto. Un rinvio pregiudiziale alla CGUE da parte di un giudice nazionale non segna l’inizio di un’insurrezione anti-governativa, ma è da considerarsi l’ordinario strumento per una vigile attuazione di un diritto uniforme negli Stati europei, visto che costituisce “la chiave di volta del sistema giurisdizionale”. La Ue, che ha fornito all’Italia un rilevante e cospicuo tesoretto per il Pnrr, è la stessa Europa che elabora regole giuridiche uniformi. Per realizzare un tale progetto, un ruolo centrale spetta alla CGUE che - proprio attraverso i rinvii dei giudici nazionali - coglie l’occasione per chiarire qual è la portata effettiva di una regola eurounitaria. Il sistema a “rete” del dialogo tra giudici nazionali e CGUE è talmente stretto che all’art. 2, terzo comma, della legge n. 117/1988, sulla responsabilità dei magistrati, si afferma: “Costituisce colpa grave la violazione manifesta […] del diritto dell’Unione europea [..]”. Dunque nulla di eversivo nella scelta dei giudici di Bologna. La soluzione al problema può arrivare - innovando ex novo la disciplina migratoria - con l’identificazione di criteri soggettivi e concreti, non astratti in quanto enunciati in una legge. Occorre partire da una valutazione di buonsenso: nessuno scappa dalla Svizzera tedesca o da Bruges. La valutazione di sicurezza di un paese non può che essere relativa e purtroppo anche valutata al ribasso, proprio perché i fenomeni migratori si correlano a calamità di guerra, sanitarie, alimentari e soprattutto climatiche. Quindi a luoghi per definizione “insicuri”. Non possiamo generalizzare i paradigmi teorici occidentali con l’idea che siano valide in tutto il mondo. Il Tribunale di Bologna percepisce il problema, ma sembra cadere nelle sabbie mobili dell’occidentalismo velleitario - esportatore di democrazia nel mondo - quando argomenta con il richiamo alla Germania nazista, paese oltremodo sicuro per la popolazione tedesca ma “[…] fatti salvi gli ebrei, gli omosessuali, gli oppositori politici, le persone di etnia rom […]”. Invece, al di là delle proposizioni astratte, ciò che deve emergere è se dal racconto (riscontrato) del migrante risulti per lui effettivamente pericoloso tornare nel paese di origine: saranno la coerenza e la credibilità della sua storia - una volta verificate - a stabilire il criterio valoriale, strettamente soggettivo della “sicurezza”. Tutti dovrebbero tenere a mente un esempio specifico. La Cassazione si è trovata a decidere casi contestati di rifiuto dello status di rifugiato per persone che si ritenevano, una volta tornate in patria, esposte agli strali di un rito voodoo (v., Cass. Civ. 12405/22; 12328/21; 20629/20). In situazioni (limite) come queste, non c’è definizione legislativa che tenga: la sicurezza di un paese si acclara, caso per caso, immergendosi nel circuito fattuale e culturale del richiedente e non elevando a norma il nostro paradigma di sicurezza. La stessa sentenza della Grande Camera della CGUE del 4 ottobre 2024 (C?406/22) - dopo aver enunciato criteri astratti - sottolinea la necessità di un controllo giudiziale esteso a ogni aspetto del merito su quanto esposto dai richiedenti. Il messaggio sentenziato merita la massima attenzione: la CGUE afferma paradigmi generali e poi - sulla base di una sana effettività - li mitiga, riconoscendo la priorità della valutazione singola, concreta, discrezionale, personalizzata. Proprio valorizzando il compito di approfondita verifica, assegnato al giudice dalla sentenza europea della Grande Camera CGUE, il Tribunale di Catania (con decreto del 4 novembre 2024) ha disapplicato il decreto-legge n. 158/2024 cit. rispetto a un migrante egiziano. Ha elencato in maniera dettagliata le agghiaccianti violazioni sistematiche dell’Egitto (solo per citarne alcune) in tema di diritti fondamentali, pratiche di tortura e compressione del “giusto processo”, ricavandole (va sottolineato) dalla scheda-paese elaborata dal ministero degli Affari esteri. Nulla di eversivo anche rispetto alla disapplicazione. È una naturale conseguenza dell’efficacia diretta e del predominio del diritto eurocomunitario da cui discende, in caso di conflitto con la norma nazionale, la necessità sistemica di disapplicare quest’ultima. Droghe. Canapa della discordia, le imprese agricole contro il ddl sicurezza di Eleonora Martini Il Manifesti, 7 novembre 2024 Entro oggi gli emendamenti nelle commissioni al Senato. Pressioni per terminare l’iter malgrado le tante proteste dei coltivatori. Allo studio del Pd un intervento correttivo nella legge di Bilancio e nel Milleproroghe. Tra i tanti tintinnar di manette e colpi di mano contenuti nel ddl Sicurezza, che corre senza scossoni verso l’approvazione definitiva al Senato (oggi scadono i termini per la presentazione degli emendamenti nelle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia), ce n’è uno in particolare che sta facendo davvero arrabbiare molti imprenditori. E questo, per un governo come quello Meloni, è un problema molto più spinoso dell’”incostituzionalità”, dell’”inutilità” e della “violazione dello Stato di diritto” denunciati da tanti e ancora ieri dai Garanti territoriali dei detenuti e dall’Unione delle camere penali italiane. Si tratta delle imprese del comparto agricolo, strette tra una legge di Bilancio “farlocca”, secondo il giudizio del capogruppo Pd in commissione Agricoltura Stefano Vaccari, e l’articolo 18 del pacchetto Sicurezza che, vietando “importazione, cessione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione e consegna delle infiorescenze della canapa”, di fatto rende impossibile coltivare e commercializzare anche la canapa a uso industriale, quella che si usa per i tessuti o nell’edilizia, per intenderci. Perfino la Coldiretti, che fin dai tempi del governo Conte avrebbe voluto una legge ad hoc per distinguere la commercializzazione della cannabis light a uso ricreativo dal comparto industriale della canapa, considera il ddl Sicurezza “esiziale per le imprese del settore che si sono sviluppate dopo la legge del 2016 in tutto il Paese e in particolare in Liguria, Toscana, Umbria, Puglia e Campania”, come riferisce al manifesto Stefano Masini, responsabile ambiente della Coldiretti. Impossibile distinguere, infatti, le infiorescenze dal resto della pianta. “E d’altronde - aggiunge Masini - la stessa Unione europea prevede un incentivo per la coltivazione della canapa, motivo per il quale qualsiasi autorità amministrativa o giudiziale dovrà poi disapplicare un atto non conforme al diritto Ue”. Da parte del governo però “non abbiamo trovato ascolto”, conclude l’esponente della Coldiretti. Dice Vaccari: “La grande attenzione che Meloni e Lollobrigida avevano palesato sul comparto agricolo si è sciolta come neve al sole e nulla è rimasto degli impegni propagandisticamente presi”. Il deputato dem, che insieme al collega Matteo Mauri ha organizzato alla Camera un incontro con le associazioni e le imprese del settore, spiega che la manovra di bilancio “non serve al Paese e tanto meno agli imprenditori agricoli”, perché “non si pone il problema del sostegno ai giovani per favorire il ricambio generazionale” e non affronta le emergenze, dalla siccità alla peste suina. D’altronde, che il ministro Lollobrigida sia “il grande assente” perfino nel dibattito sulla cannabis sativa, come se la cosa non riguardasse il suo settore, non è sfuggito ai senatori dell’opposizione che oggi depositeranno centinaia di emendamenti per correggere il ddl che introduce nel codice penale più di venti tra nuovi reati e circostanze aggravanti. Ma se, come denuncia il senatore Iv della commissione Giustizia Scalfarotto, “c’è una pressione su di noi che non trova giustificazione”, o se, come rivela il senatore Cataldi del M5S, nella discussione generale “i parlamentari sono costretti a discutere questioni che toccano la vita delle persone, i diritti fondamentali, la tenuta stessa dello Stato di diritto, in uno spazio di tempo compresso e normalmente sufficiente per uno solo degli argomenti che si intendono affrontare”, a conti fatti “poco più di 42 secondi per ogni questione”, sembra evidente che le possibilità di correggere il testo al Senato rinviando quindi il ddl alla Camera per una seconda lettura, si avvicinano allo zero. Motivo per il quale eventualmente Vaccari e Mauri stanno studiano la possibilità di intervenire con una norma correttiva sul Collegato agricolo della legge di Bilancio o al limite tentare di rinviare l’entrata in vigore della norma attraverso il Milleproroghe. Entrambe le soluzioni non sono proprio a portata di mano: nel primo caso occorre un appiglio economico, aggirabile per esempio con l’istituzione di un qualche tavolo di studio sull’argomento. Nel secondo caso, ammesso che abbia senso un rinvio, c’è una questione di timing: l’operazione sarebbe impossibile a legge pubblicata sulla Gazzetta ufficiale. “Se vogliono, un modo lo trovano”: ne sono convinti dalle parti dell’opposizione. Soprattutto, spiegano, se lo vuole il sottosegretario Mantovano, accanimento ideologico permettendo. Armi. Sondaggio Swg: “Stop al boom della spesa militare” Luca Liverani Avvenire, 7 novembre 2024 Il 55% degli italiani contro l'aumento dei fondi per la difesa, il 65% chiede di tassare gli extraprofitti delle industrie belliche. Basta miliardi in armi. La maggioranza degli italiani è contraria all’aumento della spesa militare. Sia quella decisa dal governo, che quella indicata dalla nuova Commissione Von der Leyen. Una maggioranza ancora più netta, i due terzi, vorrebbe anzi che fossero tassati gli extraprofitti delle aziende che operano nel settore militare. È quanto emerge con chiarezza dal sondaggio commissionato a Swg da Greenpeace Italia e pubblicato oggi. Una ricerca che conferma la tendenza emersa già negli anni scorsi, condotta su un campione statisticamente valido di 1.200 cittadini maggiorenni. La pubblicazione del sondaggio arriva proprio nel giorno in cui il ministro degli esteri Antonio Tajani riconferma la volontà di proseguire nella corsa al riarmo per raggiungere l’obiettivo Nato: “Stiamo lavorando per raggiungere il 2%”, dichiara il vicepremier forzista. Il sondaggio di Greenpeace viene diffuso pochi giorni dopo la trasmissione al Parlamento di una manovra di bilancio che aumenta il budget della Difesa. E dal lancio della nuova campagna “Ferma il riarmo!” promossa oltre che da Greenpeace Italia, anche da Fondazione PerugiAssisi, Rete Pace e Disarmo e Sbilanciamoci!. La ricerca evidenzia dunque che il 55% degli intervistati respinge la proposta del governo di portare il budget della Difesa al 2% del Pil entro il 2028. Solo il 23% è favorevole, mentre il restante 22% non si esprime a riguardo. Dati che confermano peraltro quanto già rilevato nel gennaio 2023, sempre da Swg per Greenpeace Italia. Anche l’aumento della spesa militare da parte dell’Unione Europea incontra forte opposizione: il 52% degli italiani si dichiara contrario, mentre solo il 27% sostiene questa posizione avanzata da Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue. Ancora più netto infine è il sostegno a una tassa sugli extra profitti dell’industria bellica. In un contesto in cui l’aumento della spesa militare scatenato dall’invasione russa dell’Ucraina sta portando incassi record al settore delle armi, due intervistati su tre (65%) sono favorevoli a un’imposta sugli utili straordinari del comparto bellico. Solo il 17% è contrario, mentre il 18% non si esprime. “Questi risultati dimostrano chiaramente che le cittadine e i cittadini italiani vogliono meno spese militari e più investimenti per il benessere collettivo”, dice Sofia Basso, ricercatrice su pace e disarmo di Greenpeace Italia. “Al contrario, il governo Meloni ha scelto di aumentare il budget della Difesa - sottolinea la ricercatrice - a discapito di settori fondamentali come sanità e welfare. È tempo che l’esecutivo e il ministro della Difesa Guido Crosetto riconoscano che inseguire l’obiettivo del 2% significa portare al collasso il nostro sistema sociale e ostacolare la transizione ecologica, ogni giorno più urgente”. Greenpeace Italia, assieme ai partner della campagna “Ferma il riarmo!”, chiede quindi di “ridurre le spese militari a favore degli investimenti in salute, istruzione, ambiente, solidarietà e pace, nonché di istituire una tassa sugli extra profitti dell’industria bellica, in modo che le risorse pubbliche possano contribuire a migliorare la vita delle persone, non a distruggerla”. Ma il governo ribadisce la volontà di procedere nella corsa al riarmo: “È giusto che l’Europa faccia di più all’interno della Nato”, dice il ministro degli Esteri: “Anche sull’aumento delle spese per la Nato l’obiettivo è il 2%, un obiettivo che deve essere perseguito”. Nonostante sia d’accordo solo il 23% degli italiani. “Noi stiamo lavorando per incrementare le spese e raggiungere il 2%” del Pil in favore della Difesa, conferma Antonio Tajani, “ma non è facilissimo - ammette - perché in questo momento abbiamo da rispettare anche un patto di stabilità. Abbiamo sostenuto la necessità di portare fuori dal patto le spese per la difesa”. Francesco Vignarca, responsabile delle campagne di Rete italiana pace e disarmo, ravvisa un problema di democrazia: “I dati che abbiamo diffuso come Osservatorio Mil€x a partire dalle tabelle della legge di bilancio - dice Vignarca - dimostrano davvero che la spesa militare italiana sta esplodendo. Per il 2025 si prevede un totale record di 32 miliardi di euro - dice - di cui quasi 13 solo per l’acquisto di nuovi armamenti”. Nonostante questi investimenti, “non siamo ancora arrivati al livello del 2% del Pil richiesto dalla Nato”. Per arrivarci, spiega l’analista di Rete pace e disarmo, “mancherebbero ancora svariati miliardi, almeno 8. Ma ugualmente si tratta di una crescita imponente: siamo ad un più 60% in cinque anni per la spesa complessiva, più 77% in cinque anni per il procurement militare”. Le decisioni sulle spese militari degli ultimi governi, “e di quello Meloni in particolare, vanno dunque in una direzione ben definita - aggiunge - che è evidentemente contraria rispetto alla volontà espressa dall’opinione pubblica italiana in numerosi sondaggi: si configura in un certo senso - è la sua conclusione - una “lacuna democratica” su un tema così cruciale - e con conseguenze rilevanti - come quello degli investimenti per armi e strutture militari”.