Il carcere, le pene e la Costituzione di Orlando Roselli* Corriere Fiorentino, 6 novembre 2024 Le notizie sulle pessime condizioni di detenzione si fanno sempre più numerose, drammatiche. L’universo carcerario è in una condizione di incostituzionalità permanente e strutturale. Una vera e propria contraddizione: la pena detentiva è prevista per sanzionare i comportamenti ritenuti più illegittimi. I luoghi, gli istituti di pena, dove il principio di legalità dovrebbe risultare concretamente rispettato, sono divenuti la sede dove a violarlo è lo Stato. Occorre venirne a capo, tenendo conto che la condizione detentiva è ancora più drammatica di quella desumibile dai soli dati del sovraffollamento (per il quale il nostro Paese è stato già condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo). Su questa esigenza dovrebbero convergere tutte le forze politiche, a destra ed a sinistra, per due ordini di ragioni: la prima è che tutte rivendicano essere portabandiera del principio di legalità; la seconda è che di tale condizione, che è di sempre, tutti i governi, portano responsabilità. Per superare una condizione di illegalità permanente e strutturale, bisogna andare alle radici non solo fattuali, ma anche giuridiche che la producono. Dal punto di vista giuridico va affrontato il problema della corrispondenza tra l’astratta previsione della detenzione con la sua concreta afflizione, che è data, appunto, dalle condizioni carcerarie. Come noto, il legislatore quantifica il grado di afflizione della pena attraverso la quantificazione temporale, sul presupposto che la sua espiazione avvenga in condizioni di detenzione conforme a Costituzione, quanto alla funzione rieducativa della pena ed al rispetto dei diritti inviolabili del detenuto. Ma di tutta evidenza la durata della pena comporta un’afflizione superiore a quella legittima se espiata in condizioni degradanti. Da qui, l’esigenza di quantificazione della pena detentiva attraverso il combinato disposto di un doppio profilo di legalità: quello della durata temporale con il rispetto della determinazione legislativa degli standard detentivi. Se si abbassa il livello delle condizioni detentive, aumentando illegalmente l’afflittività, si deve, sulla base di rigorosi parametri legislativi, ridurne corrispondentemente la durata temporale, instaurando così un recupero sistemico permanente e strutturale di legalità costituzionale. Tutte le forze politiche dovrebbero addivenire ad una soluzione che non è una riduzione della pena (come l’indulto) ma la legittima applicazione della sua afflizione. La pena sarebbe espiata né più né meno di quanto previsto dalla Costituzione e dalle leggi ad essa conformi. *Costituzionalista Come si spegne la coscienza dietro le sbarre di Alice Dominese L’Espresso, 6 novembre 2024 Nelle carceri cresce la consapevolezza di poter rivendicare i diritti violati tra sovraffollamento e degrado. Ma con il ddl Sicurezza gli spazi di protesta pacifica rischiano di ridursi, anche in carcere. Con i nuovi reati che il disegno di legge introduce, chi manifesta il proprio dissenso nei centri di permanenza per il rimpatrio e negli istituti di pena rischia fino a vent’anni di carcere. In questi luoghi, rivendicare i propri diritti fondamentali è già molto difficile. Spesso, infatti, le persone detenute non hanno le risorse economiche per rivolgersi a un’assistenza legale e la priorità per loro è quella di affrontare i problemi quotidiani legati a sovraffollamento e degrado. Quando Nicoletta Dosio, storica attivista del movimento No Tav in Val Susa, è stata condannata per diversi episodi di disobbedienza civile, avvenuti tra 2012 e 2016, ha trascorso tre mesi in carcere per poi scontare il resto della pena ai domiciliari. “A parità di condotta, se fosse stato in vigore il ddl Sicurezza, avrebbe avuto una pena ancora più alta, perché il fatto di protestare contro una grande opera è considerata una circostanza aggravante”, osserva l’avvocato Gianluca Vitale. Oggi Dosio ha 78 anni e si trova in stato di detenzione domiciliare per avere violato le misure cautelari che le erano state imposte in precedenza, poi ritenute inapplicabili dalla Corte di Cassazione. Dei giorni trascorsi nel carcere di Torino nel 2020, durante la pandemia, Dosio ricorda le proteste pacifiche nei confronti dell’ulteriore isolamento che lei e le altre detenute dovevano affrontare. Racconta che le proteste nascevano perché non era più possibile avere contatti con i propri cari e le persone si sentivano in pericolo. Il sovraffollamento, con il conseguente rischio di ammalarsi facilmente, generava agitazione. “Tantissime donne erano dentro per reati lievi, allora si chiedevano l’amnistia e l’indulto. Avevamo pensato di organizzare un’assemblea in presenza delle guardie carcerarie e il direttore aveva proposto di fare una commissione a cui dovevano partecipare anche le rappresentanti e i rappresentanti dei detenuti, ma alla fine chi doveva partecipare è stato scelto dalle guardie”. Tra i modi di esprimere il dissenso in carcere c’è la cosiddetta battitura, ovvero la pratica di battere sulle inferriate per farsi sentire dentro e fuori le mura. Anche Dosio e le altre detenute l’avevano utilizzata per farsi sentire dai parenti che si erano presentati davanti all’istituto per chiedere di riprendere le visite. Oggi, modalità di protesta come queste rischiano di essere pagate duramente. Tuttavia, in carcere la coscienza di poter rivendicare i propri diritti violati dal sovraffollamento e da pessime condizioni sanitarie esiste. Una spia di questo sono i risarcimenti riconosciuti dai magistrati di sorveglianza ai detenuti che hanno potuto presentare istanza per situazioni di detenzione contraria all’umanità della pena e non aderenti ai parametri stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Negli ultimi sei anni sono stati 24.301, circa 4.000 ogni anno. Questo significa non solo che negli istituti di pena italiani persiste una sistematica violazione della dignità umana, ma anche che i detenuti sono pronti a denunciarla. Secondo la rilevazione del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, nelle carceri italiane sono presenti 61.134 detenuti in 47.004 posti regolarmente disponibili, con un tasso medio di sovraffollamento del 130 per cento. In 56 istituti il tasso di affollamento supera il 150 per cento, in cinque è superiore al 190 per cento. Dopo l’annunciata riduzione della popolazione carceraria lasciata intravedere con il decreto Carceri dal governo, le proteste non si sono fermate. Proprio nel carcere femminile di Torino, il 5 settembre scorso, oltre 50 detenute hanno avviato uno sciopero della fame a staffetta chiedendo alle istituzioni di ridurre il sovraffollamento e il limite della liberazione anticipata speciale. Tra queste ci sono anche coloro che Dosio considera delle “amiche e compagne”, donne che vogliono proteggere la loro dignità, animate dalla consapevolezza che i loro diritti hanno un valore. Nell’istituto torinese, solo nel 2023, si sono verificati quattro suicidi e 57 tentativi di suicidio, 135 atti di aggressione, 159 di autolesionismo, 255 atti di protesta individuale tramite sciopero della fame, sete o rifiuto delle terapie e 15 proteste collettive. Un mese dopo l’inizio della protesta nonviolenta delle detenute torinesi, il testimone dello sciopero è stato raccolto dai detenuti del carcere di Siracusa. “Anche una protesta pacifica come lo sciopero della fame delle detenute potrebbe essere considerata un reato di rivolta carceraria - spiega l’avvocato Vitale - perché con il ddl Sicurezza viene considerata tale la resistenza, anche passiva, agli ordini dell’autorità che mirano a mantenere la sicurezza all’interno dell’istituto. Attualmente lo sciopero potrebbe al massimo essere considerato motivo per ipotizzare una sanzione disciplinare, ma con l’entrata in vigore del ddl potrebbe esporre le detenute a un aumento di pena di alcuni anni”. Per Rita Bernardini, presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, ong internazionale che si batte contro la pena di morte nel mondo e per i diritti dei detenuti, i reati introdotti dal ddl Sicurezza dentro e fuori dal carcere rappresentano un peggioramento della democrazia. “Un’iniziativa comune tra i detenuti, quando ritengono che siano violati i loro diritti, è quella della resistenza passiva. Anche questo oggi può diventare reato. Ma se i loro diritti non vengono rispettati, che strumenti hanno per difendersi dagli abusi?”. Bernardini visita regolarmente gli istituti di pena confrontandosi con i detenuti e, secondo lei, attualmente in carcere non c’è allarme sulle modifiche che potrebbero essere apportate dal ddl, di cui la maggior parte delle persone dietro le sbarre è all’oscuro. La repressione del dissenso diventa legge di Angela Stella L’Unità, 6 novembre 2024 “Il Senato riconsideri le norme di quel pacchetto, lontanissime dai principi del diritto penale liberale”. L’appello dell’Unione camere penali. “Chiediamo che il Senato riconsideri le norme segnalate non solo sotto i profili di incostituzionalità segnalati dall’Accademia ma anche sotto quelli del manifesto distacco dai principi del diritto penale liberale, che asseritamente ispira questa maggioranza, e della provata inutilità degli aumenti di pena e dell’introduzione di nuovi reati e di nuove aggravanti per la soluzione dei problemi della sicurezza dei cittadini”: Questo l’appello lanciato ieri al termine dell’evento organizzato a Roma dall’Unione Camere Penali dal titolo “No al pacchetto sicurezza. Con la costituzione in difesa del diritto penale liberale”, contro il ddl sicurezza, in discussione al Senato, dopo l’approvazione alla Camera dei deputati. Intervenuto il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia: “l’iniziativa è molto giusta ed opportuna. Secondo i dati del Ministero della Giustizia al 31 ottobre in carcere ci sono 62110 persone, alcune centinaia in più rispetto a quando il governo ha adottato il decreto sul carcere la scorsa estate: cominciamo a vederne gli effetti che sono nulli, 15 mila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. La situazione imporrebbe scelte radicalmente diverse, dovremmo discutere seriamente di un provvedimento di clemenze e indulto, unica soluzione per riportare il carcere in situazione di legalità”. Sugli istituti di pena si è espressa Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino: “il sovraffollamento è al 133 per cento, abbiamo punte come a San Vittore che superano il 220 per cento. Nelle visite costantemente verifichiamo che le carceri sono luoghi senza alcun tipo di legalità. Faccio un esempio: Insieme alle camere penali qualche tempo fa abbiamo visitato la colonia agricola di Isil in Sardegna, dove mandano per scelta del provveditore regionale - quindi c’è un responsabile - gli internati che hanno problemi di tipo psichiatrico. Eppure lì non ci sono psichiatri, né psicologi, mancano medici sia di giorno che di notte. Ieri mi è arrivata la notizia di un ragazzo di 29 anni che ha dato fuoco alla cella. La compagna mi ha detto che non gli veniva fatta, pur essendo bipolare, la puntura per stabilizzare l’umore”. Secondo Mauro Palma, già garante nazionale dei detenuti, “è un provvedimento soprattutto che incide su un mutato rapporto tra autorità e cittadino. C’è un implicito elemento sotteso alla norma che è quello della possibilità di sacrificare dei diritti in nome di un principio che è l’ordine sociale predefinito. Questo si pone in tutti gli aspetti in cui la norma si articola”. Ha aggiunto: “dal 22 settembre 2022, contiamo 6275 persone in più in carcere e i posti invece sono aumentati di 239, nonostante la politica parli tanto di edilizia penitenziaria”. Per il Partito democratico è intervenuto il senatore Andrea Giorgis: “Noi presenteremo molti emendamenti (la scadenza è domani alle 12) di merito, anche accogliendo gli importanti suggerimenti emersi all’evento dell’Ucpi. L’obiettivo è quello di rimediare alle tante irragionevolezze che sono presenti nel ddl, che non tutela affatto quella sicurezza è il presupposto per l’esercizio delle fondamentali libertà civili e politiche. Si tratta di un provvedimento illiberale, di dubbia legittimità ed eterogeneo, basti pensare al divieto e commercializzazione della canapa, alle misure che intervengono sulla resistenza passiva in carcere, alle aggravanti in base ai luoghi in cui alcuni reati vengono commessi, o al divieto delle Sim (per il cellulare) per i migranti, una misura quest’ultima inutilmente limitatrice di una libertà fondamentale come quella di comunicazione”. Molti critico l’intervento del giurista Luigi Ferrajoli: “Dobbiamo prendere coscienza dell’allarmante minaccia che pesa sullo stato di diritto nel nostro Paese. Non si tratta solo dell’involuzione illiberale del nostro sistema penale generata da questo pacchetto sicurezza e dai tanti altri che l’hanno preceduto in questi ultimi decenni. Questo disegno di legge è solo uno dei tanti aspetti della vera e propria aggressione allo Stato di Diritto messa in atto da questo Governo. I segni e i fattori di questa aggressione, che sta trasformando il nostro Stato di diritto in uno stato di polizia sono molteplici”. Ne ha identificati quattro: “repressione del dissenso politico”, “aperta violazione della separazione dei poteri”, “negazione dell’identità di persona dei migranti - la deportazione dei migranti in Albania è chiaramente un sequestro di persona”, “garantismo della disuguaglianza e del privilegio, che pretende l’impunità per i ricchi e i potenti e promuove la disumanità nei confronti dei poveri e degli emarginati”. Ddl sicurezza stigmatizzato pure dal costituzionalista Michele Ainis, “siamo all’ultimo giro di una stretta illiberale; questa mannaia del pacchetto sicurezza si abbatta sugli ultimi, sui diseredati e su chi canta fuori del coro, come i dissidenti. Sta soffiando un vento autoritario che sta spazzando le nostre libertà”. Ha concluso l’iniziativa il presidente Francesco Petrelli: “L’Unione delle camere penali esprime la sua forte contrarietà al “pacchetto sicurezza” che introduce nuovi reati e nuove aggravanti che colpiscono fenomeni di disagio e di marginalità sociale che non possono essere affrontati con lo strumento del diritto penale. Un intervento connotato da una matrice illiberale e autoritaria caratterizzata da un ingiustificato rigore punitivo. Viviamo in un momento di forte polarizzazione e di contrasto tra governo e magistratura, nel quale ciascuno ha le sue colpe ed ha al contempo interesse ad alzare i toni del confronto. L’unione che come sempre esprime le proprie ragioni in modo chiaro fermo e motivato fuori da ogni polemica e da ogni schieramento deve constatare che l’associazione nazionale magistrati, sempre pronta a intervenire su temi di politica giudiziaria, tace sul “pacchetto sicurezza”, e sul tema della sua manifesta contrarietà ai fondamentali principi della nostra Costituzione”. Ddl sicurezza, il no di avvocati e giuristi: “Lontano dal diritto penale liberale” di Valentina Stella Il Dubbio, 6 novembre 2024 Per Giovanni Maria Flick è “un disegno di legge segnato da un autoritarismo privo di logica”. Molti avvocati e accademici si sono riuniti ieri a Roma all’evento “No al pacchetto sicurezza. Con la costituzione in difesa del diritto penale liberale”, organizzato dall’Unione Camere Penali contro il ddl sicurezza, in discussione al Senato, dopo l’approvazione alla Camera dei deputati. Tra i giuristi ha preso la parola l’ex presidente della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick: “Sono onorato e lieto di essere avvocato e di partecipare a questo incontro che si batte per la difesa dei diritti fondamentali e contro l’autoritarismo privo di logica che segna questo disegno di legge”. Per l’ex ministro della Giustizia “c’è il rischio che il sovraffollamento diventi l’etichetta dell’invivibilità del meccanismo di panpenalizzazione e pancarcerarizzazione. Il disegno di legge non tocca nulla per quanto riguarda la depenalizzazione” e assistiamo a un “silenzio su interventi migliorativi per rendere il carcere più umano. La risposta penale alla resistenza passiva non risolve certamente il sovraffollamento, di fatto cancella ogni possibile riferimento a un trattamento individuale e alla libertà di disobbedienza civile che è uno dei residui di libertà fondamentale che rimane anche nel carcere”. Per il costituzionalista Michele Ainis siamo “all’ultimo giro di una stretta illiberale; questa mannaia del pacchetto sicurezza si abbatta sugli ultimi, sui diseredati e su chi canta fuori del coro, come i dissidenti. Sta soffiando un vento autoritario che sta spazzando le nostre libertà”. Il senatore Andrea Giorgis del Partito democratico ha annunciato: “Noi presenteremo molti emendamenti (la scadenza è domani alle 12) di merito, anche accogliendo gli importanti suggerimenti emersi all’evento dell’Ucpi. L’obiettivo è quello di rimediare alle tante irragionevolezze che sono presenti nel ddl, che non tutela affatto quella sicurezza che è il presupposto per l’esercizio delle fondamentali libertà civili e politiche. Si tratta di un provvedimento illiberale, di dubbia legittimità ed eterogeneo, basti pensare al divieto e commercializzazione della canapa, alle misure che intervengono sulla resistenza passiva in carcere, alle aggravanti in base ai luoghi in cui alcuni reati vengono commessi, o al divieto delle sim per i migranti, una misura quest’ultima inutilmente limitatrice di una libertà fondamentale come quella di comunicazione”. È intervenuto anche il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia: “l’iniziativa è molto giusta e opportuna. Secondo i dati del ministero della Giustizia al 31 ottobre in carcere ci sono 62110 persone, alcune centinaia in più rispetto a quando il governo ha adottato il decreto sul carcere la scorsa estate: cominciamo a vederne gli effetti che sono nulli, 15 mila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. La situazione imporrebbe scelte radicalmente diverse, dovremmo discutere seriamente di un provvedimento di clemenze e indulto, unica soluzione per riportare il carcere in situazione di legalità”. Tutti i presenti hanno sottoscritto un appello dell’Ucpi in cui si chiede “che il Senato riconsideri le norme segnalate non solo sotto i profili di incostituzionalità segnalati dall’Accademia ma anche sotto quelli del manifesto distacco dai principi del diritto penale liberale, che asseritamente ispira questa maggioranza, e della provata inutilità degli aumenti di pena e dell’introduzione di nuovi reati e di nuove aggravanti per la soluzione dei problemi della sicurezza dei cittadini”. “Il Governo reagisce ai problemi sociali inasprendo le pene” di Matilda Ferraris Il Domani, 6 novembre 2024 Il decreto Cutro e poi quello Caivano, il recente ddl sicurezza: “Il governo Meloni reagisce ai problemi con nuove leggi e nuove pene che, in realtà, non cambiano nulla. Si risparmia su tutto, sono riforme a costo zero che non incidono su nulla, se non sui diritti di chi non si può difendere, come i migranti”: così parla l’avocato Fabio Anselmo, ospite insieme a Ilaria Cucchi del festival di Domani “Il futuro è adesso” per parlare di diritti umani, carceri e centri per la permanenza e il rimpatrio. Secondo la senatrice Cucchi, l’introduzione di nuovi reati sempre più oppressivi è un’operazione di propaganda politica per parlare alla pancia dell’elettorato: “Io sono parte della commissione Giustizia, da due anni sono sequestrata ogni giorno ad approvare leggi, norme e decreti che si rivelano inapplicabili”. I giudici infatti si trovano a non poter applicare queste norme, che sembrano progettate ad hoc per colpire le minoranze: “Ogni singolo articolo vuole stigmatizzare e colpire precise categorie di persone: i migranti, i manifestanti, le donne sinti in carcere, saranno costrette lì anche se madri”. E ora la nuova operazione del governo in Albania: “I cpr sono dei non luoghi - dice Cucchi - io ne ho visitato uno, quello di Roma a Ponte Galeria. Ci sono anche andata con una telecamera nascosta, quelle immagini le ho poi date alla procura di Roma. Non si può fare niente in quei luoghi, nemmeno leggere un libro. Quelle persone non sanno nemmeno perché si trovano lì e dicono che in carcere si stava meglio, dove in teoria ci sono attività rieducative. Sono persone disperate: ti guardano negli occhi e non sanno cosa succederà loro domani”. E nella guerra che sta combattendo il governo gli “avversari” non sono soltanto le persone migranti, e gli esponenti delle opposizioni, ma anche i giornalisti e i magistrati: “L’attacco sistematico del governo e della maggioranza nei confronti della magistratura è inaccettabile. Si possono criticare e condividere alcuni passaggi dei procedimenti, ma non si può attaccare” afferma l’avvocato Anselmo. “Quando è stato attaccato il tribunale di Roma è successo un fatto per me particolarmente destabilizzante nei confronti dei cittadini utenti del sistema giustizia, la richiesta di tutela fatta dal tribunale di Roma al csm non è stata accolta perché la magistratura si è spaccata”. E continua Anselmo: “Che cosa deve pensare un cittadino di fronte a questo che deve capire a quale corrente aderirà il giudice che ha in carico la sua causa per poter prevedere quale sarà l’esito?”. Nonostante la permanenza nei cpr sia - a detta di chi ci è stato - peggiore di quella nelle carceri ciò non significa che le condizioni degli istituti penitenziari italiani sia rosea, anzi, secondo la relazione del garante al quattro novembre, sono 75 i suicidi in carcere per l’anno correnti. Anche per queste strutture il governo ha pensato di introdurre un decreto. “Il problema del sovraffollamento - dice Fabio Anselmo - è emerso con vigore durante il Covid, con le cosiddette “rivolte” nate da emergenze di tipo sanitario, ma anche umanitario”. Una condizione di malessere che non riguarda soltanto i detenuti: “Oggi anche gli agenti sono vittime del carcere - afferma Ilaria Cucchi - non è una guerra noi contro voi, gli uni contro gli altri, nonostante il “decreto svuota-carceri”, poi rinominato ovviamente “carceri sicure” non si è fatto nulla per migliorare lo stato dei penitenziari, nemmeno per migliorare le condizioni di lavoro degli agenti. Bisogna puntare sulla loro formazione”. “Quello del carcere - conclude Cucchi - è uno dei tanti problemi a cui non si vuole porre rimedio. Perché se li risolviamo, come parliamo alla pancia dell’elettorato?”. “Un giorno ci vergogneremo di questi delitti di Stato” di Angela Stella L’Unità, 6 novembre 2024 “Uno dei fattori di distruzione dello Stato di diritto è precisamente la violazione dei diritti delle persone ed anzi la negazione dell’identità di persona dei migranti”, dice il giurista Luigi Ferrajoli a proposito delle norme del “pacchetto sicurezza”. Lo abbiamo intervistato a margine della manifestazione promossa ieri dall’Unione camere penali contro il ddl governativo. Ma Ferrajoli si scaglia anche contro il protocollo con Tirana: “La deportazione dei migranti in Albania è chiaramente un sequestro di persona, dato che quei migranti sono stati sequestrati in mare, mentre esercitavano il diritto di emigrare, e deportati contro la loro volontà in un luogo di detenzione. Ma evidentemente per i nostri governanti questi disperati non sono persone, ma cose, che possono essere impunemente prelevate, private della libertà personale e rinchiuse in un campo di concentramento. Ebbene io credo che la questione migranti sia oggi il banco di prova del tasso di civiltà di un ordinamento; e che di queste nostre politiche dovremo un giorno vergognarci”. Professore cosa pensa in linea generale di questa norma? È un “pacchetto sicurezza” demagogico e propagandistico, ancor più dei tanti altri che l’hanno preceduto. Ne è prova il fatto che l’Italia è uno dei Paesi più sicuri del mondo: sono circa 300 gli omicidi ogni anno, su una popolazione di circa 59 milioni. La principale finalità di questo disegno di legge è in realtà quella di ottenere il consenso degli elettori, con misure ingiuste e inutilmente repressive che stigmatizzano soprattutto le differenze: quella dei migranti, quella dei tossicodipendenti, quella della piccola devianza. Il suo effetto principale, purtroppo, consiste nel produrre un abbassamento del senso morale a livello di massa. Giacché sempre la disumanità, quando è ostentata a livello istituzionale, ha un effetto performativo, di contagio. Non capiremmo il fascismo e i totalitarismi se ignorassimo questo ruolo performativo del senso morale che ha l’esibizione ufficiale della disumanità da parte delle istituzioni. Ciò che tuttavia è più allarmante in questo disegno di legge è la lesione da esso provocata dei principi dello Stato di diritto. Lei nel suo intervento ha parlato innanzitutto della repressione del dissenso politico... Sì, esso viene messo in atto non solo con questo disegno cosiddetto sulla sicurezza, ma con tutti gli altri provvedimenti adottati da questo governo in materia penale. Sono duramente punite - con la previsione talora di nuovi reati, talora di pesanti aggravamenti di pena per reati già esistenti nel nostro ordinamento, talora con l’ampliamento delle misure di prevenzione - tutte le espressioni del dissenso provenienti da manifestazioni di piazza di gruppi pacifisti, o ecologisti o in difesa dei migranti e dei diritti umani: sit in, blocchi stradali puniti da sei mesi a due anni se commessi da più persone, danneggiamenti, resistenza di qualunque tipo a pubblici ufficiali. Sono norme che non limitano soltanto il diritto di riunione, ma anche la libertà di manifestazione del pensiero: giacché la riunione, lo dichiarò Filippo Turati nel marzo del 1900 nel dibattito parlamentare sui decreti liberticidi del governo Pelloux, è il solo medium di cui dispongono i comuni cittadini, i quali non scrivono libri, non parlano in televisione, non scrivono sui giornali ma possono solo esprimere il loro pensiero con le loro manifestazioni collettive di protesta. Secondo molti giuristi intervenuti insieme a lei all’evento dei penalisti questo ddl mira soprattutto a comprimere i diritti dei migranti. Che ne pensa? Uno dei fattori di distruzione dello stato di diritto è precisamente la violazione dei diritti delle persone ed anzi la negazione dell’identità di persona dei migranti. La deportazione dei migranti in Albania è chiaramente un sequestro di persona, dato che quei migranti sono stati sequestrati in mare, mentre esercitavano il diritto di emigrare, e deportati contro la loro volontà in un luogo di detenzione. Ma evidentemente per i nostri governanti questi disperati non sono persone, ma cose, che possono essere impunemente prelevate, private della libertà personale e rinchiuse in un campo di concentramento. Ebbene, io credo che la questione migranti sia oggi il banco di prova del tasso di civiltà di un ordinamento; e che di queste nostre politiche dovremo un giorno vergognarci. Non dimentichiamo che il diritto di emigrare fu teorizzato in Europa - nel 1539, da Francisco de Vitoria - quando servì a legittimare la conquista e la colonizzazione del nuovo mondo. Oggi che l’asimmetria si è ribaltata e sono i disperati della terra che fuggono dalla miseria e dal sottosviluppo generati prima dalle colonizzazioni e poi dalle nostre politiche liberiste, l’esercizio di quel diritto si è trasformato in delitto e ha fatto la sua ricomparsa, in Europa, la figura della persona illegale per la sua sola identità. A proposito di politiche migratorie, cosa pensa dello scontro tra Governo e magistratura sulla questione Albania? Il disprezzo per lo stato di diritto si rivela anche nell’aperta violazione della separazione dei poteri o, meglio, nella totale ignoranza di questo principio elementare dello Stato di diritto ostentate dal nostro governo. La nostra presidentessa del Consiglio, di fronte alla mancata convalida da parte del Tribunale di Roma del trasferimento in Albania di 16 migranti, ha espresso il suo enorme stupore per il fatto che la magistratura italiana non collabori con il governo e ha addirittura ipotizzato una possibile congiura dei magistrati contro di lei. Non solo. Senza neppure attendere la pronuncia della Corte di giustizia europea, interpellata dal Tribunale di Bologna sui cosiddetti “paesi sicuri”, il governo ha annunciato che in questa settimana riprenderà le deportazioni dei migranti in Albania. Si tratta di un attacco allo stato di diritto, di cui l’indipendenza del potere giudiziario dal potere politico è un tratto per così dire costitutivo e, insieme, di un’aperta manifestazione di disprezzo nei confronti dell’Unione europea, dato che con questa iniziativa il governo ha palesemente contestato il primato del diritto europeo sul diritto statale. Ma il rapporto tra giustizia e politica, tra potere giudiziario e potere politico, è oggi deformato dal dissesto della legalità penale. Ci spiega meglio? Si è calcolato che abbiamo, in Italia, 35mila figure di reato sparse nei provvedimenti legislativi più disparati, formulate in termini non solo vaghi e indeterminati ma addirittura incomprensibili, a causa degli innumerevoli rinvii ad articoli e commi di altre leggi e degli interminabili e intricati labirinti normativi nei quali rischia sempre di perdersi qualunque interprete. È chiaro che una legalità dissestata apre spazi di arbitrio al potere giudiziario e alimenta l’illegittima creatività della giurisdizione. Sono decenni che propongo un rafforzamento della riserva di legge tramite la sua trasformazione in una riserva di codice: tutte le norme in tema di reati, di pene e di processi nel codice penale e in quello di procedura. La politica lamenta l’arbitraria interferenza dei giudici nella sfera della politica. C’è un solo modo che ha la politica per sottomettere i giudici alle leggi: fare bene il suo mestiere, cioè produrre leggi chiare, precise e tassative, ovviamente nel rigoroso rispetto dei principi costituzionali. Eppure il ministro Nordio che si era detto da sempre a favore di depenalizzazione oggi condivide provvedimenti che aumentano i reati e le pene… Il ministro della Giustizia Nordio, gran parte degli esponenti dell’attuale maggioranza, come già Berlusconi e i suoi sostenitori, si professano garantisti. Si tratta di un garantismo della disuguaglianza e del privilegio, che pretende l’impunità per i ricchi e i potenti e promuove la disumanità nei confronti dei poveri e degli emarginati, destinati a pene draconiane, carcere duro e lesioni della loro dignità di persone: un garantismo della disuguaglianza che si è platealmente manifestato fin dalla legge di conversione n. 199 del 30.12.2022 con cui fu inaugurata la politica penale di questo governo: da un lato l’aumento da 26 a 30 anni della pena espiata dagli ergastolani prima che si possa concedere loro la liberazione condizionale e la previsione della pena da 3 a 6 anni per le occupazioni “di terreni o edifici altrui al fine di realizzare un raduno musicale”; dall’altro in un regalo ai soli condannati per peculato, concussione, corruzione e istigazione alla corruzione, consistente nella soppressione, per tutti costoro, del regime del carcere ostativo previsto dall’art. 4-bis, che era stato ad essi esteso dalla legge n. 3 del 9.1.2019. Dato questo quadro, cosa resta da fare? Non c’è costituzione, affermò l’art. 16 della Dichiarazione francese dei diritti del 1789, ove vengano a mancare la separazione dei poteri e la garanzia dei diritti. È precisamente questo che sta accadendo in Italia. Ed è contro questa mutazione dello stato di diritto in uno stato di polizia che dobbiamo lanciare il nostro allarme ed esercitare il nostro diritto-dovere di resistenza. Prima che sia troppo tardi. “Nemici della patria”. Il Governo vorrebbe giudici sottomessi di Glauco Giostra Il Domani, 6 novembre 2024 Ma la magistratura non deve e non può né cercare di aiutare, né cercare di ostacolare l’azione governativa. Volendo tentare una lettura delle recenti ringhiose recriminazioni governative nei confronti di alcuni provvedimenti della magistratura, bisogna evitare due errori di segno opposto: pensare che si tratti di un inedito, riprovevole scadimento istituzionale oppure, all’opposto, che non ci sia nulla di nuovo sotto il sole italico. Per carità di patria tralasciamo i tentativi del passato e del presente di giustificare questa intolleranza alle iniziative giudiziarie con il fatto che i rappresentanti politici sono stati democraticamente votati dal popolo, e quindi loro e la loro azione sono al di sopra del giudizio di un magistrato non votato, che non può andare contro la volontà del popolo. Anche Hitler è stato democraticamente eletto eppure nessuno di coloro che hanno addotto il summenzionato argomento si sognerebbe di sostenere che il criminale tedesco dovesse considerarsi legibus solutus per essere stato eletto dal popolo. A parte questa blasfemia costituzionale del “sono eletto, quindi non sono giudicabile”, quando si è a corto di argomenti giuridici rispetto a provvedimenti giudiziari non graditi si fa ricorso alla radiografia della vita personale, familiare e professionale del suo autore o autrice, rovistando nella pattumiera di emeroteche o di oscure videoteche alla ricerca di elementi di biasimo o, almeno, di sospetto. È una vecchia tecnica questa dell’aggressione polemica nei confronti dell’interlocutore (argumentum ad personam) cui si ricorre quando non si è in grado di confutarne le asserzioni (argumentum ad rem); una tecnica che rimanda a periodi non esaltanti della nostra storia e che rischia imbarazzanti sconfessioni (si pensi al caso Apostolico: una giudice messa al centro di video, di gossip sui propri familiari, di sollecitazioni ispettive per un provvedimento asseritamente illegittimo pronunciato in odio al governo; governo che poi ha rinunciato al ricorso in Cassazione che aveva promosso, provvedendo a rimodulare la normativa). Sin qui, a parte la noia per questo refrain stucchevole e patetico, nihil novi: “Sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto - spiegava Calamandrei - vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria”. L’imparzialità secondo certa politica è dunque quella dote che il magistrato perde quando procede contro un politico della maggioranza o contro il governo da questa espresso, ponendo in essere una giustizia a orologeria, secondo una locuzione coniata da Craxi trent’anni fa, e poi praticata da Berlusconi, Bossi e giù per li rami sino ad oggi. Nulla di originale, dunque. E forse la situazione attuale non meriterebbe neppure uno sbadigliante commento, se non fosse che di recente non ci si limita più a puntare l’indice politico contro il patologico uso del potere giudiziario, ma se ne indica insistentemente il rimedio: è la prova che c’è bisogno della riforma della giustizia. Ma perché una riforma della giustizia dovrebbe assicurare che pm e giudici faziosi cambino idea? Se si allude soprattutto alla separazione delle carriere, non si comprende come questa possa incidere sul loro settario modus procedendi, tanto più che si è sempre assicurato, ancora di recente l’ha ribadito il ministro Nordio, che con la separazione delle carriere non si punta alla dipendenza politica della magistratura requirente. A prima vista sembra proprio una giacca abbottonata non in corrispondenza delle asole. Ma il riferimento alla terapia è talmente insistito e da parte di esponenti così autorevoli del governo, personaggi politicamente navigati i quali hanno ben chiari obbiettivi e mezzi, che qualche dubbio sorge. Che per riforma della giustizia intendano una penetrante normalizzazione della magistratura sotto il controllo della politica? Prospettiva inquietante. E certo non tranquillizza il commento con cui la premier ha stigmatizzato la magistratura i cui provvedimenti sui migranti non avrebbero aiutato il governo che starebbe aiutando il Paese. Siamo in presenza di una stecca rispetto al pentagramma costituzionale: la magistratura non deve e non può né cercare di aiutare, né cercare di ostacolare l’azione governativa. Pensavamo che fosse ormai acquisita in una democrazia costituzionale come la nostra la differenza di statuti operativi - scolpita da Luhmann - tra l’azione politica che obbedisce ad un programma di scopo, scelta dei mezzi per conseguire un obbiettivo, e l’azione giudiziaria, che deve obbedire ad un programma condizionale: “Se si è verificato x, deve seguire l’ effetto y”, irrilevanti restando le conseguenze politiche, economiche o d’altro genere: si vorrebbe, invece, che perseguisse gli stessi obbiettivi governativi? Riusciremo mai ad affrancarci da questa cronica, grave fibrillazione istituzionale? Solo quando una collettività matura inizierà a non credere al vittimismo di chi è al potere, a cui un nemico (giornalismo, magistratura, Banca d’Italia, Europa, ecc.) impedisce sempre di ben governare. Non sono molto ottimista: già Gerard nell’Andrea Chenier cantava “Nemico della Patria? È vecchia fiaba che beatamente ancor la beve il popolo”. E di sicuro oggi così canterebbe ancora. Se la premier s’informa sulle toghe rosse al Csm di Federico Capurso e Ugo Magri La Stampa, 6 novembre 2024 Meloni ha chiesto al vicepresidente quanto conta in Consiglio la corrente di Md. L’irritazione del Capo dello Stato. Si deve procedere con ordine per comprendere i motivi dello “stupore” e dell’”irritazione” provati del Capo dello Stato Sergio Mattarella di fronte all’incontro, avvenuto lunedì pomeriggio a Palazzo Chigi, tra il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Fabio Pinelli e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Una questione tutt’altro che superficiale e che affonda, invece, nella carne viva della grammatica istituzionale. Tale è stato il trambusto ieri mattina nei Palazzi romani che, fuori dal portone del Quirinale, ci si è iniziati a interrogare sull’opportunità dei temi trattati dalla premier con Pinelli. Specie se - come rivela una fonte di governo a La Stampa - Meloni ha davvero discusso degli equilibri interni al Csm e alla sua Sezione disciplinare, del peso che esercitano le “toghe rosse” all’interno del plenum e della questione di Rosanna Natoli, membro che Fratelli d’Italia deve sostituire. Da tempo Pinelli, uomo storicamente vicino alla Lega, pianificava un giro di incontri con i vertici istituzionali del Paese e aveva inoltrato la richiesta di un incontro anche al gabinetto della premier. Meloni ha deciso quindi di invitarlo ieri a Palazzo Chigi. Poco prima di dirigersi in piazza Colonna, Pinelli avvisa il Quirinale. Fonti vicine al vicepresidente del Csm confermano questa versione nel primo pomeriggio di ieri, sottolineando che l’incontro “si inserisce nell’ambito di una proficua e virtuosa collaborazione istituzionale”. La circostanza non viene negata al Quirinale: effettivamente Pinelli aveva dato in anticipo notizia che avrebbe avuto un colloquio con la premier e che anzi l’appuntamento era già stato preso. Da dove è derivato allora lo “stupore” del Colle misto a “irritazione”? Dalla natura degli argomenti trattati a nome del Csm con Giorgia Meloni, per i quali il vicepresidente dell’organo di autogoverno della magistratura non aveva ricevuto alcuna delega dal Capo dello Stato (che del Csm è il presidente). Per dirla volgarmente, Pinelli si è allargato oltre il consentito. Addirittura il comunicato ufficiale dell’incontro con Meloni ha specificato che “la visita si inserisce nell’ambito di una proficua e virtuosa collaborazione, nel rispetto dell’autonomia delle differenti istituzioni”. Peccato che Pinelli, a differenza di quanto fa intendere la nota, non avesse concordato un bel nulla con Mattarella e dunque non fosse nella condizione di mettere in piedi alcuna collaborazione tra istituzioni, per “proficua e virtuosa” che fosse. Una questione non irrilevante di galateo costituzionale. Così, ora, 14 consiglieri del Csm chiedono a Pinelli di essere informati “dei contenuti di tale incontro, affinché questo Consiglio possa avere contezza di un passaggio tanto rilevante istituzionalmente”. Secondo quel che risulta a La Stampa, Meloni e Pinelli avrebbero discusso di una questione particolarmente sensibile come il peso delle “toghe rosse” nel Csm. In altre parole, quale capacità hanno di aggregare intorno a sé e alle loro battaglie? Domanda non banale se viene posta nel momento in cui Meloni è sul piede di guerra contro quei giudici che - dal suo punto di vista - stanno provando a sabotare la politica anti immigrazione del governo. Non è passato inosservato quel che è accaduto con i giudici del Tribunale di Bologna che, per aver portato il decreto sui Paesi sicuri di fronte alla Corte di giustizia Ue, si sono attirati le critiche feroci del governo. Proprio al Csm è stata depositata una richiesta di aprire una pratica a tutela dell’indipendenza e dell’autonomia dei giudici bolognesi e il rischio, per Meloni, è che venga approvata. La situazione potrebbe risolversi a breve, perché la Corte di giustizia europea si pronuncerà a gennaio, ma Meloni si è resa conto di essere debole all’interno del Csm. Pesa anche l’addio di Rosanna Natoli, nominata da Fratelli d’Italia (più precisamente in quota Ignazio La Russa) e sospesa dal Plenum a settembre, dopo essere stata indagata per rivelazione di segreto e abuso d’ufficio. Natoli era importante negli equilibri interni al Csm e nella Sezione disciplinare di cui era membro. Meloni vuole quindi accelerare sulla sua sostituzione. Soprattutto se - come teme qualcuno nei corridoi di Palazzo dei Marescialli - vorrà provare a coinvolgere il Csm nella sua battaglia contro i “giudici politicizzati”. Le incomprensioni tra Meloni e Mattarella sull’incontro con Pinelli (Csm) di Ermes Antonucci Il Foglio, 6 novembre 2024 Lunedì il vicepresidente del Csm ha incontrato la premier. Secondo alcuni giornali, il capo dello Stato non sarebbe stato informato, ma non è così. Cosa è realmente accaduto e perché la vicenda conferma una certa distanza tra la premier e il Quirinale. “Mattarella è stato tempestivamente informato”, riferiscono fonti vicine alla vicepresidenza del Consiglio superiore della magistratura. “Il capo dello stato è stato informato dell’incontro tra Pinelli e Meloni, ma non è stato messo al corrente dei contenuti della visita e del fatto che questa sarebbe stata svolta da Pinelli nelle vesti formali di vicepresidente del Csm”, replicano al Foglio fonti vicine al Quirinale. È stato rappresentato come l’ennesimo sgarbo alla magistratura e persino al capo dello stato l’incontro avvenuto lunedì pomeriggio a Palazzo Chigi fra la premier Giorgia Meloni e il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli. Questo non solo perché la visita è avvenuta in un giorno piuttosto delicato sotto il profilo dei rapporti fra governo e toghe, con due decisioni giudiziarie che hanno mandato su tutte le furie l’esecutivo (una del tribunale di Catania, che ha disapplicato il recente decreto legge sui “Paesi sicuri”, liberando cinque migranti, l’altra del tribunale di Roma, che ha bocciato un diniego di richiesta di asilo rinviando il decreto alla Corte di giustizia Ue), e con una presa di posizione proprio del Csm in difesa dei giudici di Bologna che nei giorni scorsi hanno interpellato la Corte di giustizia europea sul provvedimento del governo (i consiglieri togati, a eccezione di tre appartenenti a Magistratura indipendente, più tre laici hanno chiesto di aprire una pratica a tutela dei magistrati bolognesi). Ma l’incontro fra Meloni e Pinelli ha fatto discutere soprattutto perché, è stato scritto su alcuni quotidiani, sarebbe avvenuto senza che fosse stato preventivamente informato il presidente Mattarella, che del Csm è capo. Un’informazione non corretta, come ha potuto verificare il Foglio: il capo dello stato è stato informato, ma non nelle modalità che riteneva opportune. Ciò che dal Quirinale viene “contestato” a Pinelli è di non aver specificato quali sarebbero stati i contenuti dell’incontro con la premier e il fatto che questo sarebbe avvenuto con una cornice istituzionale. Viene da chiedersi in quali vesti - se non quelle istituzionali, appunto - Pinelli avrebbe dovuto incontrare la premier, ma proprio questa ovvia domanda conferma che, in realtà, dietro la visita non si cela alcun “caso”. Anche perché a parlare, dopo lo svolgimento dell’incontro, non è stato il vicepresidente del Csm, con un comunicato ufficiale, bensì il governo, con una nota in cui si parla di “proficua e virtuosa collaborazione, nel rispetto dell’autonomia delle differenti istituzioni”. Nella nota non si specificano neanche i contenuti oggetto della conversazione tra Meloni e Pinelli, conversazione che, riferiscono, è stata anche piuttosto breve. Piuttosto, la vicenda dimostra ancora una volta l’assenza di un canale di comunicazione forte tra Palazzo Chigi e il Quirinale, già emersa in passato in altre occasioni. Un filo di incomprensione sembra scorrere fra Meloni e Mattarella, che, pur nel rispetto reciproco dei propri ruoli, appaiono parlare due linguaggi diversi, a volte anche segnati da un pizzico di diffidenza. Sta di fatto che il “non-caso Pinelli”, ormai, è esploso. Così, quel che nell’ottica della premier avrebbe dovuto rappresentare un incontro istituzionale finalizzato a lanciare all’opinione pubblica un messaggio di distensione dei rapporti fra governo e magistratura, ha finito per rivelarsi un boomerang. Anche a causa di una strategia non fortunata (l’esito sarebbe stato sicuramente un altro se la visita fosse stata organizzata un altro giorno). Ieri i partiti di opposizione sono insorti contro quello che ritengono un “incontro irrituale e inopportuno” e anche i magistrati presenti al Csm hanno reagito. Con un documento i componenti togati, a esclusione dei membri di Magistratura indipendente, più il laico Roberto Romboli (quota Pd) hanno chiesto al vicepresidente di Pinelli di riferire, al plenum di oggi o in altra sede, i contenuti dell’incontro avuto con la premier Meloni. Incontro, si specifica, “avvenuto in un momento particolarmente delicato nei rapporti tra politica e magistratura”. “Solo il sorteggio può far cessare il mercato di nomine e di protezioni al Csm” di Alberto de Sanctis e Vittore d’Acquarone Il Riformista, 6 novembre 2024 Andrea Mirenda è magistrato e componente del CSM non appartenente ad alcuna corrente. Nel suo profilo pubblicato sul sito ufficiale del CSM si legge che si è sempre battuto “contro i degradanti fenomeni del correntismo”. Gli abbiamo chiesto di spiegarci il suo punto di vista sul quadro politico che fa da sfondo all’approvazione del Testo Unico Dirigenza, che diventerà il regolamento fondamentale per decidere la nomina dei capi degli uffici giudiziari. Al CSM è in discussione il Testo Unico Dirigenza, circolare attuativa del Dlgs. 44/2024 emanato a seguito della Riforma Cartabia (Legge n. 71/2022). Dovrebbe specificare i criteri per la scelta dei candidati agli uffici direttivi (per esempio, per chi ci legge, il Procuratore Capo). Innanzitutto, come ha funzionato fino adesso, prima e dopo il c.d. “scandalo Palamara”? La Riforma Cartabia ha veramente inciso sulla realtà delle cose, orientando l’azione del CSM verso la meritocrazia? Ha superato il carrierismo e l’egemonia delle correnti? La c.d. Riforma Cartabia poco o nulla ha voluto fare per porre serio rimedio al nominificio correntizio; del resto, essendo stata concepita in seno all’apparato burocratico ministeriale - zeppo, come è noto, di magistrati fedeli al Sistema delle correnti - ben poco vi era, quindi, da aspettarsi. Le proposte approvate in quinta commissione questo martedì e che approderanno al plenum del CSM sono due. Quella di Unicost e Magistratura democratica, sostenuta anche da Lei e dal Consigliere Fontana, e quella che vede la singolare convergenza di Magistratura Indipendente e Area. La prima introduce dei punteggi, fissi e variabili, connessi agli elementi di valutazione codificati dal decreto attuativo, la seconda pare valorizzare più l’anzianità e l’esperienza. Mi riesce a spiegare cosa è accaduto? Senza perdersi in tecnicismi di non agevole comprensione, posso dire che la controproposta elaborata dai due principali stakeholders del nominificio nasce unicamente dalla volontà di neutralizzare il rigore della c.d. Proposta B (n.d.r.: quella sostenuta da Unicost, Magistratura Democratica e dai due consiglieri indipendenti), non certo per aumentarlo. Chiaro è il fine perseguito da Area e MI con questo, neppure tanto singolare, connubio: assicurarsi, per quanto possibile, una forte discrezionalità “a valle”, caso per caso, secondo quella sciagurata politica delle mani libere che ha demolito, sin qui, la credibilità interna ed esterna del Governo Autonomo della Magistratura. Di contro, la proposta che noi sosteniamo, mira a limitare fortemente la discrezionalità consiliare, confinandola pressoché esclusivamente “a monte”, in sede di regolamento, attraverso una sorta di pesatura anticipata dei criteri di selezione: le scelte “a valle” diverranno, quindi, assai più prevedibili e riconoscibili, rendendone più agevole la successiva analisi critica e l’eventuale impugnazione davanti al Giudice Amministrativo. Secondo Lei per quale ragione la magistratura associata è così restia alle valutazioni di professionalità, alle “pagelle”, al fascicolo personale? Eppure in tutte le realtà lavorative il dipendente è sottoposto a valutazione per tutto il corso della sua carriera, anche per crescere per meriti conquistati sul campo... Il problema “pagelle” è davvero delicatissimo. Chi accetterebbe di essere giudicato da un magistrato “sufficiente”? Chi salirebbe su un aereo comandato da un pilota “sufficiente”? I cittadini rivendicherebbero, e giustamente, di essere giudicati da un magistrato “ottimo”, non certo da quello “sufficiente” che capiterà loro in virtù del principio del giudice naturale precostituito. Appare chiaro, così, che la pagella può divenire strumento occhiuto di delegittimazione del singolo magistrato, esponendolo al rischio di uno stigma che - per come vanno concretamente le cose in magistratura - potrebbe derivare da valutazioni tutt’altro che obiettive e trasparenti. Se si ha presente il controllo militare esercitato dalle correnti sull’intero circuito dell’Autogoverno (dirigenza giudiziaria, Consigli Giudiziari, CSM) diviene allora agevole comprendere come le c.d. “pagelle” divengano un formidabile mezzo di condizionamento del magistrato, attraverso la più subdola e insidiosa delle minacce alla sua indipendenza: quella interna. Siamo certi che un magistrato, che per formazione non ha mai studiato come organizzare mezzi e risorse umane, sia in grado di dirigere un ufficio complesso come un Tribunale o una Procura? Non sarebbe meglio scindere la funzione giurisdizionale, garantendone l’autonomia e l’indipendenza, da quella amministrativa e organizzativa? Non posso che concordare: diciotto anni di Testo Unico sulla Dirigenza hanno dimostrato l’inconsistenza ideologica dell’”attitudine direttiva”, buona solo - per quanto, purtroppo, si è apprezzato - a gerarchizzare l’ordine giudiziario, in contrasto col modello costituzionale che vuole magistrati soggetti soltanto alla legge e con pari dignità, senza peraltro alcun misurabile vantaggio sul piano delle performance degli uffici. Se davvero la politica avesse a cuore la managerialità nel settore giustizia, allora dovrebbe dare ingresso alla figura del Court Manager, con idonea autonomia di mezzi e personale, chiamandolo a realizzare - in leale cooperazione con il dirigente giudiziario - quei programmi organizzativi che, di regola, a dispetto dei rituali editti pretori, restano lettera morta, nell’irresponsabile disinteresse generale. Del resto, a nessuno sfugge l’evidente mancanza di una reale formazione manageriale di base dei magistrati; ed ancora essa - quand’anche fantasiosamente la si volesse immaginare - resterebbe comunque vanificata dalla totale assenza di autonomia finanziaria, leva di spesa e spoil system del dirigente; si aggiungano, a completamento e a definitiva riprova dell’ineffettività della “dirigenza giudiziaria” per come oggi concepita, la fortissima centralizzazione burocratica degli Uffici in capo al Ministero della Giustizia e il reticolo fittissimo di circolari organizzative elaborate dal CSM, tali da imporre al dirigente un percorso gestionale praticamente… sotto dettatura. Cosa resta, così, dell’attitudine direttiva se non il “flatus vocis”? Meglio, dunque, a saldi invariati, affidare il coordinamento dell’ufficio a tutti i magistrati che lo compongono, nell’ordine di anzianità e a rotazione, nel rispetto della loro pari dignità. Il sorteggio dei componenti del CSM potrebbe risolvere i problemi del correntismo? Devo subito dire che esso dovrà valere anche per la componente laica, per assicurare pari dignità a tutti i componenti dell’organo consiliare. Detto questo, il sorteggio ha tutti gli anticorpi per azzerare, nel breve periodo, l’occupazione correntizia del CSM, facendo cessare il mercato delle nomine e delle protezioni. Grazie ad esso, in Consiglio giungeranno finalmente giuristi liberati da debiti di riconoscenza verso le ben note conventicole e i gruppi di potere, diversamente da quanto accade oggi; e sempre nel breve-medio periodo le correnti perderanno la loro principale forza attrattiva quali “uffici di protezione e collocamento” per compari e comparielli, riscoprendo la loro primigenia funzione di preziosi motori di idealità, essenziali per la crescita della cultura giurisdizionale. “Via dalla Manovra il blocca-processi”, l’emendamento di Forza Italia di Errico Novi Il Dubbio, 6 novembre 2024 Calderone, capogruppo Giustizia degli azzurri: “No alla norma sul contributo unificato”. Sul piede di guerra le capogruppo 5Stelle d’Orso e Lopreiato. Non si poteva sentire. “Non è proprio accettabile, né la norma in sé né un certo modo incredibile in cui si cerca di giustificarne la ratio”, per usare le parole di Tommaso Calderone: l’articolo 105 della Manovra che prevede l’estinzione della causa civile per mancato versamento del contributo unificato fa infuriare il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia alla Camera. Il quale assicura la volontà di presentare un emendamento per “sopprimere questa insensata barriera fiscale frapposta ai diritti del cittadino: sono pronti a firmarlo, con il sottoscritto, gli altri tre deputati del mio partito che fanno parte della commissione Giustizia, vale a dire Annarita Patriarca, Pietro Pittalis ed Enrico Costa, e un altro nostro deputato, Giandiego Gatta, a propria volta avvocato come tutti noi. Non ci stiamo: non si può fare, del pagamento di una tassa, una pregiudiziale all’esercizio del diritto costituzionale alla tutela in giudizio. Sentiremo i vertici del partito, vogliamo trovare il sostegno più ampio possibile alla richiesta di eliminare quella norma dalla legge di Bilancio. Non è pensabile una misura con cui verrebbe precluso, di fatto, l’accesso alla giurisdizione per i cittadini con mezzi limitati: chi non naviga nell’oro e teme che far valere un proprio diritto sia un lusso, se non può rimandare il pagamento del contributo unificato a tempi migliori rinuncia semplicemente a quel diritto”. Giusto per inquadrare la materia: parliamo dell’articolo 105 del ddl di Bilancio, che introduce un nuovo articolo 307-bis 76 del codice di procedura civile. Così come disegnata dall’Esecutivo, la norma stabilisce che il processo si estingue “per omesso o parziale pagamento del contributo unificato”. Secondo la seguente meccanica: “Alla prima udienza il giudice, verificato l’omesso o il parziale pagamento, assegna alla parte interessata termine di trenta giorni per il versamento o l’integrazione del contributo e rinvia l’udienza a data immediatamente successiva. A tale udienza il giudice, in caso di mancato pagamento nel termine assegnato, dichiara l’estinzione del giudizio”. Nei casi di “domanda riconvenzionale”, “chiamata in causa”, “impugnazione incidentale”, interviene “l’improcedibilità”. Esclusi dalla mannaia solo i procedimenti cautelari e possessori, mentre, nel testo della Manovra, il governo ha tenuto a precisare che un provvedimento così discutibile non risparmierà né il “rito del lavoro” né il “processo esecutivo”. Un proposito che ha suscitato la sconcertata reazione dell’avvocatura. E che lascia interdetti molti parlamentari provenienti dal mondo forense. Anche il Movimento 5 Stelle, due giorni fa, ha assunto una posizione molto dura e netta sulla questione: “La norma contenuta nell’articolo 105 della legge di Bilancio è ingiusta, persecutoria verso i cittadini e soprattutto incostituzionale”, si legge nella nota delle capogruppo pentastellate nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato, Valentina D’Orso e Ada Lopreiato. Puntuali nel ricordare come “la Corte costituzionale” sia “più volte intervenuta sul tema, già a partire da una sentenza del 1961 e poi con altri pronunciamenti, l’ultimo nel 2022: la Consulta ha reiteratamente dichiarato l’illegittimità di norme che condizionano l’esercizio dell’azione giudiziaria. È indiscutibile la prevalenza della necessità di garantire al cittadino l’accesso alla tutela giurisdizionale rispetto all’interesse fiscale, che in ogni caso è tutelato”. Come segnalano ancora D’Orso e Lopreiato, “non stiamo parlando di una potenziale evasione di imposta ma del suo versamento posticipato. L’interesse fiscale è già sufficientemente garantito dall’obbligo imposto al cancelliere di comunicare l’inadempimento tributario all’Ufficio recupero crediti del Tribunale. È obbligo del legislatore eliminare ogni impedimento al diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi. Questa norma calpesta un principio basilare dello Stato di diritto a garanzia del sistema democratico e dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge”, dichiarano le due parlamentari 5S. A sua volta l’azzurro Calderone tiene a contestare le “interpretazioni” fatte filtrare un paio di settimane fa da ambienti di governo secondo cui i responsabili della “evasione” del contributo unificato sarebbero gli avvocati. “Un’idea frutto di un’incredibile ignoranza”, osserva il capogruppo Giustizia di FI, “il contributo unificato è dovuto dal cliente, non dal legale. La prassi, per gli avvocati, è stampare il modulo F24 relativo al contributo e consegnarlo all’assistito in modo che provveda e che, casomai, non confonda la somma dovuta allo Stato con l’onorario del difensore”. Permessi-premio per i boss, Ardita: “Così il varco è aperto: avremo sempre più mafiosi in libertà” di Antonella Mascali I Fatto Quotidiano, 6 novembre 2024 Dopo due settimane di “vacanza” nella sua Palermo, l’ex capomafia reggente della famiglia di Santamaria di Gesù, Ignazio Pullarà, ergastolano, torna oggi nel carcere di Cuneo. Mai collaborato con la giustizia, è uscito dal penitenziario a ottobre su decisione del Tribunale di Sorveglianza. Su quanto sta accadendo, abbiamo chiesto l’opinione a un esperto di diritto dell’ordinamento penitenziario, il procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita, autore del libro “Il coraggio del male”, in uscita il 15 novembre. Dottor Ardita, come è possibile che un boss come Pullarà a cui nel 2019 hanno sequestrato degli esercizi commerciali riesca ad avere permessi premio? È possibile perché a partire dal 2019 la Consulta ha aperto il primo varco per la concessione dei permessi premio ai mafiosi non pentiti, aprendo la strada alla legge del 2022. La Corte aveva messo dei paletti, e altrettanti erano stati messi nel testo legislativo. Per esempio, era stato detto che occorreva tenere conto della capacità criminale del gruppo mafioso all’esterno prima di concedere un permesso a un capomafia; o addirittura che doveva essere il capomafia a dimostrare la sua non pericolosità: il che rappresenta un autentico ossimoro e dunque una prova quasi impossibile. Qualcuno si era reputato soddisfatto per questi paletti, ma chi sa come vanno queste cose aveva già previsto che saremmo arrivati a questo punto. E questo è solo l’inizio… In che senso? Nel senso che in materia di benefici, di qualunque natura, l’esperienza ci fa dire che una volta abbassata l’asticella tutti potranno passare dal varco più accessibile. E quindi avremo un notevole numero di mafiosi che torneranno in libertà, benché pericolosi. E se così non fosse tutti invocherebbero il principio di uguaglianza dell’art. 3 della Costituzione. E questa non è l’unica cosa che preoccupa. Cos’altro dobbiamo aspettarci? Anche il sistema della prevenzione patrimoniale sta franando, e assistiamo tutti i giorni a restituzioni di ingenti patrimoni a soggetti con precedenti da far rabbrividire su presupposti sempre derivati da pronunce Cedu. Eppure ci sono zone del nostro territorio dove un cittadino per fare un trasloco, per un servizio funebre, persino per comprare una brioche al supermercato, deve rivolgersi a soggetti mafiosi che agiscono in condizioni di monopolio. Dobbiamo accettare che queste aziende crescano e si espandano anche se gestite da mafiosi, diventati ricchi dal nulla, se non siamo in grado di dare la prova piena - a volte difficile - che sono alimentate da profitti illeciti? Quando la Consulta ha bocciato l’ergastolo ostativo ha scritto anche che doveva tenere conto della Cedu. È così o poteva tenere conto della specificità italiana? Cosa vuole che mi metta a fare il censore della Corte costituzionale e degli organi di giustizia europei? Direi che non mi compete proprio. È evidente che, trattandosi di organi politici superiorem non recognoscentes, si portano dietro la cultura e la sensibilità di un ordinamento e di un popolo. Se non siamo capaci come popolo e come istituzioni di ritenere prioritaria la tutela dei cittadini di fronte allo strapotere della mafia e di trasmetterlo ai nostri organi costituzionali, evidentemente meritiamo questo. Specialmente dopo il sangue versato da Falcone e Borsellino, del cui ricordo si abusa spesso nelle commemorazioni. Questi boss che hanno ottenuto benefici senza aver mai collaborato che segnale danno all’esterno? Specialmente nelle periferie, dove lo Stato non è presente e la mafia attua il suo welfare rovesciato, danno il segnale che scegliere l’impegno criminale può essere una buona alternativa. Ci sono ancora boss in carcere che comandano anche se fingono una buona condotta? Sicuramente l’influenza della mafia nelle carceri porta a una permeabilità che consente ai capi delle associazioni mafiose di mandare ordini fin dal giorno stesso del loro arresto; e a questo danno si aggiunge la beffa di una uscita anticipata sul presupposto della possibilità di rieducazione di questi capimafia. Qui per incoscienza o per disinteresse pubblico generalizzato, non credo alla malafede, si sta ‘giocando’ col monopolio della forza dello Stato, fondamento della democrazia. I corsi di recupero imposti dal Codice rosso non sono retroattivi ma se applicati la pena è legale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2024 Gli obblighi cui è subordinata la concessione della condizionale agli uomini violenti se imposti per fatti ante 2019 vanno impugnati, in caso contrario la questione non può essere proposta la prima volta in sede di legittimità. La Corte di cassazione penale con due sentenze ha affrontato il tema della violenza di genere e anche specificatamente la condotta persecutoria. I due aspetti emergenti sono quelli dell’applicazione retroattiva di ulteriori obblighi previsti per l’accesso al beneficio della sospensione condizionale della pena e quella della necessaria rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa decisiva, posta a fondamento della decisione di secondo grado che ribalta l’esito processuale. Nel primo caso - con la sentenza n. 40505/2024 - i giudici di legittimità hanno chiarito che i nuovi obblighi posti al condannato per godere del beneficio della sospensione condizionale previsti per reati cosiddetti da “codice rosso” tutti assimilabili nella categoria della violenza di genere - introdotti a partire dal 2019 - non sono retroattivi, ma la loro applicazione non è impugnabile per la prima volta in Cassazione non venendo in rilievo un caso di illegalità della pena. Infatti, il ricorrente non aveva presentato sul punto motivi di appello contro l’obbligo che gli veniva imposto di dover seguire uno specifico percorso di recupero rivolto agli uomini violenti verso le donne al fine di poter fruire della sospensione condizionale della pena inflittagli per stalking contro la propria ex moglie. La Cassazione respinge il ricorso rilevando che comunque tale aggravio nella fruizione del beneficio non arriva a porre nel nulla la scelta legislativa di non condurre in carcere chi abbia avuto una condanna “contenuta” quantitativamente e che consente una via alternativa di espiazione. La Cassazione infatti, nel ripercorrere propri precedenti fa rilevare che la sospensione condizionale della pena e la sua errata applicazione non determinano l’illegalità della pena stessa. Come esempio la Cassazione fa quello della sentenza di patteggiamento che nel prevedere la condizionale non comprenda gli obblighi, che vanno imposti a norma del nuovo comma quinto dell’articolo 165 del Codice penale: senza che ciò determini illegalità della pena patteggiata e senza possibilità di ricorrere contro l’accordo in sede di legittimità. Infatti, il patteggiamento è ricorribile per cassazione solo nel caso di pena illegale. Nel secondo caso - con la sentenza n. 40504/2024 - la Suprema Corte ha, invece, affrontato il caso del marito separando condannato per stalking in secondo grado a seguito del ribaltamento dell’assoluzione che lamentava la mancata rinnovazione dibattimentale di tutte le testimonianze raccolte nel processo e la mancata verificazione dell’evento che concretizza lo stalking cioè il perdurante stato d’ansia della persona offesa. Partendo dal tema della necessaria rinnovazione della prova dichiarativa a fronte di un ribaltamento - positivo o negativo - della sentenza di primo grado la sentenza di legittimità precisa che vanno rinnovate solo le prove ritenute decisive dal giudice o dalla parte che ne illustra i profili di decisività. Non c’è quindi un generico obbligo di rinnovazione di tutto quanto sia stato dichiarato in sede processuale dalle parti e dai testimoni. Neanche quando il giudice di secondo grado oblitera l’assoluzione procedendo alla condanna dell’imputato. Ma, infine, precisa la Corte che - comunque sia - il ricorso per cassazione che contesti la mancata rinnovazione di una testimonianza deve necessariamente anche illustrare i profili di decisività della stessa ai fini di un diverso approdo decisorio. La Corte ricorda anche che le dichiarazioni della parte offesa ben possono costituire il fondamento della responsabilità penale dell’imputato. Così come - in caso di condanna che segua un’assoluzione - se la prova fondamentale si fondava sulla testimonianza della vittima il giudice di secondo grado che ne rinnovi l’acquisizione dibattimentale e le attribuisca in modo argomentato e sufficiente una valenza contraria ha ben assolto il proprio onere motivazionale rafforzato da porre a base del ribaltamento del giudizio. Non ha alcun valore il motivo di ricorso in sede di legittimità con cui il ricorrente lamenti la mancata rinnovazione dell’escussione di testi di cui non prova la decisività. Infine, il ricorrente lamentava la mancata prova dello stato di ansia e paura della vittima di cui, invece, era dimostrato il cambio di abitudini in conseguenza allo stalking del marito. Ciò che non costituisce altro che la dimostrazione dell’attitudine costrittiva delle condotte reiterate a danno della donna. Venezia. Detenuto si impicca in cella: è il terzo suicidio in 6 mesi a Santa Maria Maggiore di Monica Zicchiero Corriere del Veneto, 6 novembre 2024 Il Garante: si sta facendo molto, ma condizioni complesse. Ha preso una cinghia, si è chiuso in bagno e si è impiccato. Ieri T.M., 41 anni marocchino, detenuto da aprile con una sentenza appellata e due procedimenti in attesa di giudizio, si è tolto la vita nel carcere di Santa Maria Maggiore. Il compagno di cella, vedendo che non usciva, ha tentato invano di aprire mentre allertava gli agenti di Polizia penitenziaria. Accorsi subito e forzata la porta, hanno attivato le manovre di rianimazione. Ma era troppo tardi. “Non aveva dato particolari segni di disagio. Di recente aveva anche visto i propri cari”, riferisce affranto il garante dei detenuti, l’avvocato Marco Foffano, ricordando che è il terzo suicidio da maggio nella casa circondariale di rio Terà dei Pensieri. Il carcere cittadino non è Poggioreale o l’Ucciardone, non ci sono conclamate guerre tra bande rivali, non si finisce accoltellati nella doccia e il nuovo direttore Enrico Farina che arriva dall’esperienza di educatore a Sant’Angelo dei Lombardi ad Avellino ha raccontato la scorsa settimana alle commissioni consiliari che sempre più detenuti lavorano all’esterno: prima erano due e ora sono 25, perché imparare un nuovo modo di stare al mondo è il modo per proteggere la società e i ristretti. “Altrimenti la libertà ti arriva come un pugno in faccia”, aveva spiegato ai consiglieri comunali. “I giustizialisti diranno “uno in meno”. Ma parliamo di persone — scuote la testa Foffano —. Si sta facendo molto ma purtroppo le condizioni sono complesse: a fronte di una capienza di 159 detenuti, ce ne sono 270. La polizia penitenziaria è drammaticamente sotto organico e lavora in condizioni di elevato stress perché mancano 30 persone. Io sono garante dei detenuti ma mi occupo anche dei “detenenti” che lavorano in condizioni proibitive: 150 stranieri che spesso non parlano italiano e molti casi di dipendenza e problemi psichiatrici”. Depressione e suicidi sono emergenze ben chiare alla struttura penitenziaria, tanto che Farina con l’Usl 3 ha realizzato un accordo per formare 11 detenuti a cogliere i segnali di disperazione che portano al suicidio. Non si è fatto in tempo, stavolta, ad avere i peer supporter, i compagni di detenzione che osservano sta tranquillo e zitto perché sta meditando l’uscita estrema e segnalano il rischio. Il carcere ha solo un mediatore culturale, il Comune mette a disposizione i suoi e le proprie strutture anche se non è suo compito. Ma ha professionalità avanzate e non si tira indietro. Nei prossimi giorni le commissioni ascolteranno la direttrice del carcere femminile Mariagrazia Bregoli. In Italia a fronte di una capienza di 47 mila, nelle carceri ci sono 62mila detenuti e da gennaio 78 si sono tolti la vita. Terni. L’Associazione “Toto Corde” dovrà interrompere le attività per i detenuti di Beatrice Martelli Il Messaggero, 6 novembre 2024 “Ci domandiamo perché, proprio adesso che c’è bisogno di volontari”. L’associazione si occupava da molti anni di attività rivolte al reinserimento sociale delle persone detenute, in collaborazione con istituzioni del territorio e della regione. Tra laboratori e progetti teatrali, Toto Corde è un’associazione impegnata nella risocializzazione delle persone detenute: è attiva da circa vent’anni, con un lavoro che punta sull’aspetto sociale ma anche affettivo della costruzione di un futuro migliore. Il progetto è stato però interrotto, proprio in questi giorni. “Con grande dispiacere e profonda delusione, oggi ci domandiamo quali siano le ragioni che ci negano di proseguire questa attività che ha ottenuto risultati tangibili negli anni”. “In questo particolarissimo momento storico, in cui le carceri sono sfornite di agenti di polizia penitenziaria e figure atte al trattamento, le attività di volontariato esperte e professionali diventano necessarie” dichiarano dall’associazione, che negli anni ha portato nel carcere il reiki, lo yoga della risata, giochi filosofici, il laboratorio di genitorialità insieme a altre attività. Gli spettacoli teatrali, ad esempio, erano strutturati in modo da permettere la retribuzione dei detenuti attori partecipanti. L’appello che Toto Corde fa ai detenuti, insieme a un ringraziamento a tutti i collaboratori, è di “cercare di lavorare, di studiare, di leggere”; quello alle istituzioni di puntare non solo “sull’”ordine e sicurezza”, ma anche sulla risocializzazione”. Il fatto è anche un’occasione per puntare il faro sulla situazione nelle carceri, soprattutto quella ternana, tra problemi di sovraffollamento situazione che va avanti da molti anni ormai. Al 31 marzo secondo il ventesimo rapporto Antigone sulle condizioni di detenzione, in Umbria il tasso di sovraffollamento delle carceri è stato del 115.5%, mentre “gli istituti dove sono avvenuti il maggior numero di suicidi tra il 2023 e il 2024 sono le Case Circondariali di Roma Regina Coeli, di Terni, di Torino e di Verona”; un numero che rischia quest’anno di superare il record del 2022. Pisa. Servizi demografici al carcere “Don Bosco”: firmata la convenzione La Nazione, 6 novembre 2024 Il direttore della Casa circondariale Tazio Bianchi: “questa collaborazione con il Comune di Pisa si traduce in un risparmio di tempo e costi e in una diretta percezione dei detenuti rispetto alle loro esigenze”. “Una volta al mese potremo garantire la presenza del nostro personale a Don Bosco”. È stata firmata questo pomeriggio nella cornice della sala delle Baleari la convenzione tra il Comune di Pisa e la casa circondariale “Don Bosco” di Pisa per potere erogare servizi demografici alle persone che sono lì detenute. A siglare l’accordo, che avrà durata due anni e potrà essere rinnovato, sono stati la dirigente del servizio del Comune, Cristina Pollegione, e il direttore della casa circondariale, Tazio Bianchi. Era presente anche l’assessore ai servizi demogarfici del Comune di Pisa Gabriella Porcaro. “Già dai prossimi giorni, grazie alla disponibilità del direttore Bianchi, potremo garantire la presenza del nostro personale all’interno della struttura a disposizione della popolazione detenuta - spiega l’assessore ai servizi demografici del Comune di Pisa, Gabriella Porcaro -. Per adesso si tratterà di una volta al mese ma, insieme alla direzione del carcere, valuteremo se aumentare la frequenza in base alle richieste”. “Le pratiche all’interno della casa circondariale sono numerose e quindi questa collaborazione con il Comune di Pisa si traduce in un risparmio di tempo e costi e in una diretta percezione dei detenuti rispetto alle loro esigenze - è il commento del direttore Tazio Bianchi -. Al momento non sono tanti gli istituti che hanno attivato questi accordi e pertanto si tratta di un passo importante perché così riusciremo ad avere una volta al mese o anche di più a seconda delle esigenze della popolazione detenuta, il personale dell’anagrafe”. In base alla convenzione un ufficiale di anagrafe del Comune di Pisa sarà presente all’interno della struttura penitenziaria il primo lunedì di ogni mese, dalle 9.00 alle 12.00, a seconda delle richieste. Per il servizio, è stato individuato un locale idoneo nel quale oltre al personale comunale potranno accedere anche i richiedenti tra i servizi che potranno essere erogati in favore dei detenuti, il rilascio di certificazione anagrafica e di stato civile, le autentiche di firme su dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà, il rilascio di carte di identità elettroniche, la iscrizione e/o cancellazioni anagrafiche, i trasferimenti ad altri istituti penitenziari. Roma. Libere di stare bene. Anche in carcere di Ilaria Dioguardi vita.it, 6 novembre 2024 Il talk “Inclusione e prevenzione: strumenti e risorse per donne detenute”, promosso dalla Fondazione Human Age Institute di ManpowerGroup, è stato un’occasione per parlare del progetto “Libere di stare bene”. Stefania Grea, segretaria generale: “Impegno su due assi portanti: educazione al lavoro e prevenzione oncologica dall’altro”. Il progetto “Libere di stare bene” ha visto Fondazione Human Age Institute insieme a Gomitolorosa e Fondazione Severino a supporto delle detenute della Casa circondariale di Rebibbia sezione femminile. Il webinar “Inclusione e Prevenzione: strumenti e risorse per donne detenute”, sul tema delle carceri femminili e sull’importanza della prevenzione e dell’inclusione lavorativa delle detenute, si inserisce nel progetto ed è stato l’occasione per ascoltare esperti del settore, condividere esperienze di progetti sul campo e scoprire strategie per promuovere un reinserimento sociale positivo. “Libere di stare bene”, concepito per offrire sostegno nella prevenzione del tumore al seno, solidarietà e supporto sulla cura del benessere alle detenute del carcere di Roma, per noi è un progetto davvero speciale. Avviato la scorsa primavera, si è concluso lo scorso ottobre, e ha coinvolto una trentina di detenute”, dice Stefania Grea, segretaria generale Fondazione Human Age Institute di ManpowerGroup. Educazione al lavoro e prevenzione oncologica - “Oggi il tema dell’inclusione lavorativa per le persone che sono in stato di detenzione, o ex detenute da poco, è un tema al centro dell’interesse del sistema Paese. Questo perché si è visto che le persone educate al lavoro, che escono e hanno un impiego, hanno una prospettiva di vita diversa. E soprattutto, la recidiva scende a livelli percentuali veramente molto bassi. Negli istituti penitenziari è importante educare al lavoro, portare il lavoro e impegnare le persone che sono in una situazione “ristretta” in attività che possono loro insegnare a lavorare insieme, verso un obiettivo comune”, continua Grea. “È proprio questo che abbiamo realizzato in “Libere di stare bene”, realizzato insieme alla Fondazione Severino e a Gomitolorosa”. Nel progetto, realizzato con il supporto di Ebitemp, si è lavorato su due assi portanti: l’educazione al lavoro da un lato, la prevenzione oncologica dall’altro. L’esigenza di un quadro di riferimento omogeneo - “Le persone detenute hanno bisogno di una chance lavorativa e penso che un Paese civile debba offrire loro quest’opportunità”, afferma Agostino Di Maio, membro del Cda di Ebitemp e direttore Assolavoro, che associa l’85% delle agenzie per il lavoro presenti sul territorio nazionale. “Sono attive tante iniziative per il lavoro nelle carceri, ma nascono nella solitudine più totale perché manca un quadro di riferimento omogeneo che consenta di portare a sistema queste attività, che le agenzie svolgono con Terzo settore, onlus, associazioni della società civile”. “Ci scontriamo spesso con la realtà degli istituti di pena”, continua Di Maio, “con una forte burocrazia, con dei ritardi nelle autorizzazioni che sono oggettivamente poco compatibili con le dinamiche del mercato del lavoro, che sono molto veloci. Poi c’è un grande pregiudizio. Molte aziende fanno fatica ad accettare l’inclusione lavorativa di soggetti che vengono da percorsi di questo tipo. Occorrerebbe fare un investimento importante sul piano della comunicazione. Bisogna evidenziare quanto sia importante creare delle condizioni favorevoli per le persone detenute”. Uno strumento di elaborazione del proprio vissuto - “La nostra idea iniziale era quella di lavorare sulla formazione e l’inserimento lavorativo delle detenute”, dice Eleonora Di Benedetto, avvocato e consigliera di Fondazione Severino. “Ma poiché le detenute spesso hanno molto tempo da trascorrere in questi istituti e sono rinchiuse in un ambiente poco gradevole e poco stimolante, abbiamo iniziato a fare laboratori in ambito artistico, culturale e sportivo. Ci siamo resi conto che queste attività rappresentavano qualcosa di più importante. Non solo si dà a queste persone un’occasione di evasione mentale, ma quando si fanno, ad esempio, il laboratorio di scrittura o quello teatrale, si offre molto spesso uno strumento di elaborazione del proprio vissuto”, continua Di Benedetto. “Perché sono delle occasioni per incontrare qualcuno che viene dell’esterno, le stimola a confrontarsi con soggetti terzi rispetto alle esperienze che hanno fatto nella loro vita, sono un ponte con il fuori. Abbiamo anche iniziato ad incentivare attività di sensibilizzazione su problematiche legate al mondo della salute e, quindi, sull’importanza delle attività di prevenzione”. La lanaterapia per ridurre ansia e stress - Gomitolo Rosa è oggi presente in quasi 40 unità oncologiche italiane, “dove portiamo la lanaterapia riconoscendo al lavoro a maglia un potere terapeutico per ripristinare il benessere psicofisico delle pazienti, alle quali portiamo il nostro kit personale mentre praticano la terapia, dove mettiamo un uncinetto, della lana e uno schema per confezionare un piccolo manufatto che, unito insieme agli altri, forma delle coperte che doniamo per la solidarietà sociale”, spiega Ivana Appolloni, direttrice generale di Gomitolorosa. Rimanere concentrati sui ferri, sugli uncinetti “aiuta a percepire di meno il dolore, riduce l’ansia e lo stress, aumenta l’autostima proprio perché prevede il raggiungimento di un fine. Il nostro modello l’abbiamo voluto portare alle donne detenute a Rebibbia. Questo progetto ha avuto per noi soprattutto l’obiettivo di portare benessere e solidarietà: abbiamo coinvolto i nostri volontari in tutta Italia nella realizzazione di una rosa, che abbiamo poi donato durante l’Ottobre rosa (il mese della prevenzione)”, prosegue Appolloni. “Abbiamo voluto portare consapevolezza sull’importanza della prevenzione anche organizzando degli incontri con la dottoressa Giorgia Garganese”. Durante i laboratori di lanaterapia con le detenute di Rebibbia “ci siamo fatte un sacco di risate: chi sapeva lavorare all’uncinetto aiutava le altre, chi non sapeva lavorare combinava qualche macello. Ma era quella la cosa bella: la condivisione. Il nostro è stato un rapporto soprattutto emozionale”, racconta Maria Grazia Devoti, volontaria di Gomitolorosa. “Non so quante signore avranno poi continuato a lavorare all’uncinetto, ma di certo abbiamo dimostrato loro un interesse dall’esterno, ci hanno accolto come se fossimo a casa loro, ci hanno offerto tanti caffè”. L’importanza della prevenzione delle detenute - “Sono rimasta impressionata dall’attenzione delle donne all’incontro che ho tenuto sulla prevenzione del tumore al seno”, dice Giorgia Garganese, chirurgo senologo e membro del comitato scientifico Gomitolorosa. “Vorrei che ci ricordassimo che sono in condizioni di ristrettezza e di marginalizzazione anche per quanto riguarda l’accesso ai presidi di cura e ai presidi di prevenzione. Esiste per loro un accesso limitato alla possibilità di curarsi, o per lo meno di prevenire e fare diagnosi precoce così come invece è consentito alle donne che non sono in quella stessa condizione. Quest’esperienza mi è servita per capire che bisogna guardare a queste donne con un occhio differente. Bisogna focalizzarsi sul predisporre dei circuiti e dei percorsi che siano diversi da quelli che normalmente si pensano per le donne che sono libere di muoversi. Magari bisognerebbe portare nelle carceri delle unità mobili dotate di attrezzature specifiche per poter garantire alle donne una mammografia, un’ecografia e, quindi, la diagnosi precoce”. L’estensione degli sgravi contributivi in carcere - “La rieducazione è croce e delizia del lavoro dei detenuti: ha portato alcuni giudici a considerarlo diverso dal lavoro di ogni altra persona e quindi soggetto a una disciplina speciale. Oggi siamo di fronte a un nuovo scenario, quello di promozione della volontarietà del lavoro delle carceri”, dice Ciro Cafiero, presidente Unindustria Lazio, sezione Consulenza e formazione. Sul piano del diritto “dobbiamo forse spingere sull’estensione degli sgravi contributivi previsti dalla legge Smuraglia, ancora limitata a una platea troppo ristretta di imprese. Il lavoro all’esterno delle carceri è decontribuito solo in favore delle cooperative sociali, non di tutte le imprese private che invece accedono a quel 95% degli sgravi della decontribuzione solo nel caso del lavoro all’interno delle carceri, sebbene questi sgravi continuino tra 18 e 24 mesi dalla fine del periodo di detenzione”. Catania. Al convegno “Il senso della pena” un’altra idea di carcere: il progetto Koinè argocatania.it, 6 novembre 2024 Non progetto Koinè ma metodo Koinè, un metodo che deve essere standardizzato, divenire la norma all’interno delle carceri e nell’area di esecuzione penale esterna. Con queste parole Luca Rossomandi, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Catania, ha concluso il convegno “Il senso della pena” durante il quale, mercoledì 23 ottobre, con l’ottimo coordinamento di Maria Pia Fontana, è stata presentata l’esperienza del progetto Koinè. La voce di Rossomandi non è autorevole soltanto per il ruolo che egli ricopre, è una voce convinta, motivata. Racconta, ad esempio, che “quando ho conosciuto i nomi delle detenute che avrebbero fatto un tirocinio lavorando al riordino dei materiali di archivio del Tribunale, ho fatto un balzo sulla sedia”. Era il nome di due donne nomadi, abituate a vivere di illeciti e che non avevano mai lavorato. Ma il giudice ammette di essersi sbagliato, le due detenute hanno dimostrato senso di responsabilità, puntualità, capacità di organizzare un’attività di cui non avevano nessuna esperienza. E’ lo stesso episodio a cui fa riferimento il presidente del Tribunale civile, Francesco Mannino, rammaricandosi che l’esperienza sia rimasta unica e che non sia stato possibile proseguirla per mancanza di finanziamenti. D’altra parte, tutte queste esperienze lavorative, svolte anche in altri settori dai detenuti coinvolti nel progetto, sono state positive, “hanno trasformato e fatto crescere anche noi” ribadisce Mannino. Il problema del lavoro risuona in modo centrale e ricorrente negli interventi dei relatori. L’inattività in cui i detenuti trascorrono il loro tempo, vissuto appunto come “tempo perso”, è uno dei fattori che contribuisce a “trasformare la medicina in veleno”, espressione utilizzata dal giurista Giovanni Fiandaca che è stato anche garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia. Tutti i relatori si sono interrogati sul senso della pena, che deve essere non solo uno strumento di giustizia distributiva e di prevenzione, con un inevitabile carattere afflittivo, ma anche un’occasione per rieducare. Cosa non facile, dice Filippo Pennisi, presidente della Corte di Appello, che esprime il timore che la rieducazione possa restare solo un’indicazione di principio presente nella Carta Costituzionale. E’ indubbio, e lo ha rimarcato Agata Santonocito, procuratrice facente funzione, che la maggior parte delle devianze criminali si registrino in contesti e luoghi deprivati che non offrono opportunità, istruzione, lavoro. E “l’esperienza personale - prosegue - ci porta a riflettere sulla ricorrenza, nelle indagini, degli stessi nomi e di quelli delle stesse famiglie, facendoci interrogare anche sul tema della recidiva”. Un tema cui su torna in conclusione anche Rossomandi, ricordando la carenza di studi a riguardo, avendo noi oggi a disposizione solo dati statistici che evidenziano, tuttavia, come la recidiva si riduca moltissimo nei casi di condannati che hanno fatto lavoro esterno (2%, contro il 68% di tutti gli altri). Con un ritorno alla ribalta del tema del lavoro. Essendo la Sicilia terra di frontiera e di approdo è inevitabile che l’utenza anche delle carceri sia cambiata. Lo nota Giuseppa Irrera, direttora Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria, ma di cambiamento e di aumento dei detenuti stranieri parla anche Roberta Montalto, direttora del USSM, notando che non sono però cresciuti in proporzione i supporti. Osserva inoltre come l’età dei minori in area penale si stia spostando in avanti con la conseguenza che sale il numero dei quasi maggiorenni che - raggiunta la maggiore età - non possono più usufruire dei servizi offerti ai minori. Dai vari interventi risulta l’immagine di un bisogno che cresce a vari livelli, senza che vi siano risposte e risorse adeguate. Di mancate risorse parla anche Vania Patanè, docente di diritto processuale penale, che - con riferimento alla ‘giustizia riparativa’ introdotta dalla riforma Cartabia e applicabile a tutte le tipologie di reato - si rammarica del fatto che non siano stati creati i necessari servizi. Ci troviamo “davanti ad un nuovo paradigma, descritto in modo molto preciso ma con la pretesa che sia possibile realizzarlo a costo zero e senza prima approntare le necessarie strutture”. Decisivo per la comprensione del progetto Koinè l’intervento di Domenico Palermo, che del progetto è stato il direttore ed è già impegnato nella sua seconda fase, Koinè Restart, di recente avviata. Tra i fondatori di Cooperativa Prospettiva, già giudice onorario al Tribunale per i Minorenni, con una lunga esperienza di presenza tra i detenuti, Palermo si è buttato con convinzione in questo grande progetto finanziato dalla Regione e dalla Cassa delle Ammende. Un progetto che ha coinvolto tutti i dieci istituti carcerari della Sicilia Orientale e l’area in esecuzione penale esterna delle provincie di Catania, Messina, Siracusa e Ragusa. E mentre Palermo esponeva gli obiettivi del progetto e le attività svolte, indicando numeri e risultati, emergeva il carattere titanico del lavoro effettuato, con un numero di destinatari coinvolti sempre più alto di quello previsto e risultati significativi nonostante l’enormità delle questioni affrontate. “Sia in carcere sia tra le persone in esecuzione penale esterna c’è una fortissima domanda di aiuto - ha esordito Palermo - e una sofferenza enorme, a cui abbiamo cercato di andare incontro ampliando il cerchio dei destinatari”. Dovevano, infatti, essere 90 e sono diventati 549 (420 in carcere, 129 in area penale esterna). Tante le attività svolte, a partire dalla consulenza legale e amministrativa per fatti estranei al reato, importantissima per gli stranieri, ai quali è stato offerto anche un servizio di mediazione linguistico-culturale, assente nelle carceri. Una mancanza grave che rende insostenibile la situazione di persone che talora non conoscono nemmeno il motivo per cui sono detenute. E poi, sussidi economici, previsti per 10 persone ed erogati a 321, perché “dentro le carceri vivono persone in assoluta indigenza”, e tali sono le loro famiglie. Drammatica la mancanza di autonomia abitativa. “Ci sono persone - racconta Palermo- che restano in carcere perché non hanno dove andare” e questo li priva anche di alcuni diritti come la possibilità di usufruire della detenzione domiciliare o di permessi premio. All’interno del progetto sono state realizzati tirocini di inserimento lavorativo che hanno coinvolto 30 persone, alcune delle quali sono state assunte stabilmente. E tantissimi laboratori, teatrali, di orticultura, di lavorazione della terracotta. Più di mille sono stati gli interventi di sostegno psicologico e psicoterapeutico, che avrebbero dovuto coinvolgere 30 persone, ma hanno determinato la presa in carico di 119 casi. Un tema scottante questo, perché la sofferenza psicologica negli istituti di pena è altissima e non ci sono le risorse umane per intervenire. Ed infatti “su questo aspetto - afferma Palermo - insisterà molto il nuovo progetto”. Parlare di Koinè, prosegue il direttore, significa parlare non solo di volontariato ma di una proficua “sinergia tra pubblico e privato sociale”, con il coinvolgimento di elevate competenze professionali e con la specializzazione delle funzioni. Molti gli enti interessati, ognuno con la propria specificità e la propria area territoriale, la Fondazione di Comunità Val di Noto (Sr) e Santa Maria della Strada (Me) per il supporto abitativo, MEDU per l’area medica, ma anche Archè, Il Nodo, Marinella Garcia, il Centro Astalli, l’associazione Massimiliano Kolbe, ed altri ancora. Un’esperienza, quindi, di grande spessore e tale da costituire un modello che possa - come si augura il garante dei detenuti Santi Consolo - “alimentare la speranza”. Presentato anche il volume di scritti e testimonianze, “Libero è il pensiero. Voci sogni parole e immagini dal carcere”, frutto dell’impegno ultra decennale di Cooperativa Prospettiva. Napoli. Decreto sicurezza e “impatto negativo” sulle carceri: convegno in Tribunale napolitoday.it, 6 novembre 2024 Cresce l’allarme per gli effetti del decreto sicurezza sulle carceri italiane. È questo il tema di un appuntamento che si tiene oggi, alle 11 nella sala metafora del Tribunale di Napoli, dal titolo “Decreto sicurezza e il suo impatto esplosivo sul sistema penitenziario. Con la costituzione per la difesa dei diritti”. Queste le parole, nell’annunciare l’incontro, del garante campano dei detenuti, nonché portavoce della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello: “Esprimiamo ancora una volta preoccupazione per lo scollamento tra la realtà drammatica delle carceri italiane e i provvedimenti normativi già promulgati e via di approvazione. Rischiamo norme di dubbia legittimità costituzionale e un impatto esplosivo sul sistema penitenziario”. Al Tribunale di Napoli ci saranno, con Ciambriello, il presidente dell’Unione delle Camere Penali di Napoli Marco Campora, il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Napoli Carmine Foreste, il presidente di Antigone Campania Paolo Conte, la presidente dell’associazione Il Carcere Possibile Mara Esposito Gonella, il garante del comune di Napoli don Tonino Palmese. L’iniziativa ha il fine “di sollecitare la politica ad adottare tutte le opportune modifiche alle norme del pacchetto sicurezza in senso conforme alla Costituzione e ai principi del diritto penale, e sensibilizzare l’opinione pubblica sul pericolo che simili legislazioni securitarie e illiberali possano incidere irreversibilmente sulla tenuta democratica dell’intero sistema penale”. La diabolica operazione di raccontare il male: la letteratura ci divide da noi stessi di Walter Siti Il Domani, 6 novembre 2024 Nel libro che Gianluca Herold ha dedicato alla vicenda delle Bestie di Satana (“Il più bel trucco del diavolo”, Rizzoli), emerge la distanza tra il giornalismo che spiega e suggerisce da che parte devi stare, e la letteratura che accumula contraddizioni. Quella che sui media è stata trattata come una vicenda di serial killer satanisti diventa nelle sue pagine un intreccio interessante e misterioso. Se ci fosse da scommettere sul talento di un esordiente, io su Herold ci scommetterei. I romanzi molto spesso si chiudono (si chiudevano) o con una morte o con un matrimonio; non necessariamente coincidendo con un esito tragico o un lieto fine, visto che da una morte può nascere una liberazione e certi matrimoni sono frutto dei più desolanti fallimenti. Il libro che Gianluca Herold ha dedicato alla vicenda delle Bestie di Satana (Il più bel trucco del diavolo, Rizzoli) comincia invece con un matrimonio, o quasi: dopo aver scontato sedici anni di carcere Andrea Volpe, il protagonista forse più indecifrabile dell’intera vicenda, ha celebrato quest’anno l’unione civile con un giornalista (poi trafficante di droga) brasiliano conosciuto in cella. Herold è stato presente al matrimonio, pur avendo rifiutato di fare da testimone. L’evento felice è raccontato con un realismo quotidiano: nervosismo tipico di tanti matrimoni, piccoli inconvenienti buffi, speranze. Poi salto netto a vent’anni prima, 2004: la rivelazione che lo sposo (l’unito civilmente) italiano ha ucciso la sua ex ragazza a colpi di pistola e di badile - un personaggio aggiunge che “i cani le hanno mangiato la faccia”; quest’ultima notizia verrà poi falsificata, ma l’atrocità piomba sul lettore come una botta. Il metodo - La figura narratologicamente preferita da Herold è il flashback: dal 2004 si risale al 1999, a quando nel Varesotto scompaiono due fidanzati, Fabio Tollis e Chiara Marino - la scomparsa si guadagna spazio in tivù, Chi l’ha visto? ne parla a lungo, il padre di Tollis non si dà pace ed è lui il primo che indirizza le indagini sulla pista del satanismo. Da lì ancora più indietro, a quando il gruppo comincia a formarsi partendo da una banale esperienza provinciale di musica heavy metal, con tutti i parafernalia demoniaci allora di moda; paccottiglia di seconda mano, pentacoli, 666, candele nere, “blood theatre” tatuato sull’ombelico, il Necronomicon di Lovecraft preso sul serio, timidi accenni di orgia. Più patetici che pericolosi. Fino a quando nel gruppo entra appunto Andrea Volpe, che di satanismo fino a quel momento non sa nulla - però, quando gli dicono che Chiara Marino deve essere eliminata, invece di alimentare le fantasie e il chiacchiericcio dice semplicemente “ho un piano”. La storia di quei ragazzi cambia di colpo, Volpe è uno che non sa che cosa sia la violenza simbolica ma di quella reale si intende parecchio, se c’è da ammazzare si ammazza e non si può più tornare indietro. Il delirio si trasforma in atti concreti, prosaici, con tutti i problemi pratici che un omicidio comporta; sotterrare, scavare le buche, capire se uno è già morto o solo svenuto; è un pantano da cui non si viene più fuori, nemmeno Satana ormai è più utile. Volpe è l’elemento che fa precipitare il composto chimico, ma chi è Andrea Volpe? Altro fondamentale flashback, all’infanzia di Volpe e addirittura ai genitori prima che lui nascesse. Genitori che si sono sposati senza amore, la madre Vincenza dice (traduco dal dialetto ebolitano) “mi sono sposata perché volevo andarmene da casa il più in fretta possibile, se sapevo che mio marito era così andavo a fare la zoccola che era meglio”. Il padre ha come regola che non si picchiano i figli, ma tutti gli altri sì, moglie compresa; il piccolo Andrea, grassottello, è bullizzato a scuola, violentato dal fratello maggiore, molestato dal prete (ma a fare il chierichetto ci torna sempre, volontariamente). Herold racconta senza che mai quel che racconta possa sembrare un giudizio né una giustificazione - Andrea Volpe ha la durezza come difesa, la voglia di vendicarsi come stella polare; diventa grosso, temuto a scuola, tenuto d’occhio dalle maestre (“adora Jim Morrison e ha problemi con le doppie”). Il diario di Mariangela, la ragazza che lui ucciderà perché “sa troppo”, è il tipico documento di quel che ora si chiamerebbe un amore tossico: lei gli crede quando lui dopo averla picchiata le mormora parole dolci, è vittima della sindrome del “ti salverò”. La lingua - Ma sono io che in questo momento sto usando un linguaggio stereotipo e sciatto, Herold non se lo permetterebbe mai. Anzi, è bravo a mescolare l’antilingua burocratica, i verbali della polizia e del processo, con la presa narrativa diretta, con dialoghi credibili fatti di anacoluti e di ellissi, spingendosi fino al dialetto più impervio; e non si tira indietro di fronte a reazioni poco protocollari (quando i carabinieri, su indicazione di Volpe stesso che ha iniziato a collaborare, trovano i due cadaveri di Fabio e Chiara, registra un soddisfatto “qua ci arrivano i gradi”). Insomma ti tira dentro: il crime diventa, senza che si capisca esattamente quando, un romanzo a pieno titolo (come nell’esempio dei grandi, diciamo almeno come in Compulsion di Meyer Levin, per non osare i classici). E come in tutti i romanzi di razza, non manca la protesta che il suo libro non sia un romanzo (“sarebbe un perfetto espediente romanzesco. Fuori dai romanzi però”). Se ci fosse da scommettere sul talento di un esordiente, io su Herold ci scommetterei. Ha grinta, orecchio da vendere, ha voglia di lavorare, l’intarsio dei temi e dei tempi è perfino troppo maturo; quella che sui media è stata trattata come una vicenda clamorosa di serial killer satanisti (tre omicidi acclarati, un’induzione al suicidio, altri quattordici omicidi sospettati ma senza prove) diventa nelle sue pagine un intreccio interessante e misterioso di casualità e di personalità insicure; chi troppo fragile, chi sbruffone e bisognoso di leadership, chi semplicemente indolente, chi quasi malato. Il protagonista ha un percorso che non è mai prevedibile, con lati oscuri che nemmeno il romanzo può illuminare (la famosa “prova di coraggio”, che il gruppo gli ha imposto per l’affiliazione, resterà non detta); il giornalismo spiega e suggerisce da che parte devi stare, la letteratura accumula contraddizioni. Anche le parole dei “tecnici”, gli psichiatri da cui Volpe una volta uscito va in terapia, i vari “scissione bipolare” o “disturbo di personalità multipla”, sono flatus vocis, linee che si confondono con altre linee e non spiegano nulla, come nulla spiega l’abuso di droga. Quando il compagno brasiliano deve scontare gli ultimi mesi agli arresti domiciliari, sono i genitori di Volpe che lo ospitano, e lì scopre alcuni altarini poco onorevoli del padre; la madre Vincenza, quando il figlio le dice che tutti i giornali hanno parlato di lui, gli risponde di non darsi delle arie. Sono personaggi tridimensionali, non figurine da talk show. L’operazione - Il titolo del romanzo deriva da uno dei piccoli poemi in prosa di Baudelaire; lì è addirittura il diavolo che parla e ammette di essersi solo una volta sentito in pericolo di venir smascherato - quando ha sentito un predicatore più intelligente degli altri dire che la più bella astuzia del diavolo è farci credere che non esiste. Andrea Volpe, prima che tutto partisse, chiacchierando con Bontade (quello che sarà poi indotto al suicidio) nota che il male domina nel mondo e “forse tanto vale credere nel diavolo”; è una frase buttata lì senza peso, ma Bontade è un ingenuo e il giorno dopo gli presenta Nicola Sapone, che fa già parte del gruppo. Bontade prende alla lettera una frase distratta, dove non c’entra il diavolo ma la disperazione; Volpe non stringe un patto col diavolo, quando gli chiedono cosa vorrebbe in cambio della sua anima risponde annoiato “niente”. Herold, quanto a lui, non si sente del tutto sicuro tutte le volte che va a casa di Volpe per intervistarlo: “aspetto che assaggi per primo i piatti che cucina e le tisane che versa nella teiera” - se ne vergogna un po’, ne ridono insieme. Eppure. Se crediamo che il diavolo non ci sia, allora c’è. Herold tacita i brividi e prova a teorizzare sul finale: “raccontare il male che si affaccia sul dopo, raccontare i carnefici e attraverso il loro sguardo le vittime, mi ha separato, fatto a pezzi. È un’operazione diabolica in senso etimologico, che divide”. Non solo in senso etimologico, caro Herold - è la letteratura che ci divide da noi stessi. *Scrittore Il fotografo che ritrae i tossicodipendenti di Rogoredo: “In queste immagini si vede il buono che è rimasto in loro” di Jacopo Storni Corriere della Sera, 6 novembre 2024 Per oltre un anno il fotografo milanese Alessandro Didoni ha fotografato i volti dei “fantasmi di Rogoredo”. “Volevo mostrare i volti di persone che nessuno aveva mai mostrato”. Adesso i fantasmi di Rogoredo hanno un volto. Laggiù, dentro quel bosco che ti risucchia, i tossici non sono soltanto tossici. Sono persone. Con una loro storia, coi loro sguardi, i loro volti. Occhi che esprimono umanità. E sofferenza. Alessandro Didoni, fotografo milanese esperto in ritratti, si è avvicinato a quel bosco per fotografarli. E farci un libro. Ha costruito un set, con le luci, con il fondale. “Volevo mostrare i volti di persone che nessuno aveva mai mostrato, nonostante Rogoredo sia stato spesso al centro delle cronache”. Non avrebbe mai pensato, all’inizio, che in tanti si sarebbero lasciati fotografare. E invece così è stato. “Quando spiego che voglio fare un libro di ritratti che racconti Rogoredo da un punto di vista umano, e quindi focalizzato sulla persona e non sul consumo e lo spaccio di droga, molti accettano di farsi fotografare. L’idea di farsi fare un ritratto professionale, che poi andrà a far parte di un libro, probabilmente li fa sentire in qualche modo valorizzati. Una volta un ragazzo si è commosso e mi ha detto che in quella foto ha visto ciò che ancora c’è di buono in lui”. E così per la prima volta, quei fantasmi di Rogoredo, quegli spettri di cui tutti sanno ma non sanno, prendono vita. Le foto parlano da sole, rivelano volti scavati e trascorsi traumatici. C’è una signora over 60, capelli lunghi biondi, madre di un figlio adulto. Sniffa eroina, una volta è andata in overdose. C’è una figlia diciottenne, il volto ancora genuino. Racconta Didoni: “Un giorno arrivò qui sua mamma, voleva portarla via ma lei la cacciò. Si rivolse alla madre dicendole: “Te ne devi andare! Non ti voglio mai più vedere! Sei tu la causa della mia morte”. È stata la scena più straziante che abbia visto nel bosco”. C’è Daniele, che parla sotto l’effetto della cocaina: “Mentre lo fotografavo, mi ha raccontato di aver iniziato a usare droghe pesanti a 13 anni e ha fatto una figlia a 15. Oggi lei ha 20 anni e vive in America dove studia. Dice che è orgoglioso di lei, che da lui ha preso la sensibilità e non le sue scelte da coglione”. Didoni ha passato un anno immerso in questo progetto. Ogni mercoledì partecipa al presidio del Team Rogoredo, il gruppo di volontari organizzato dallo psicologo Simone Feder che offre aiuto e conforto ai tossicodipendenti. “Le persone di Rogoredo sono persone della porta accanto - racconta il fotografo - Sono persone che potremmo essere noi perché la vita di chiunque può precipitare all’improvviso. Alcuni vivono qui, con tende e sacchi a pelo. Nel bosco sono imprigionate persone di ogni età, sesso, provenienza, classe sociale e livello culturale. Semplicemente non esiste la categoria del tossico. La vita può giocare brutti scherzi, a chiunque. E chiunque può finire qui”. “Ofarja”, corto animato dei giovani detenuti di Secondigliano arriva a Roma al MedFilm Festival di Alessandra Farro Il Mattino, 6 novembre 2024 Presentato sabato 9 novembre al cinema Moderno The Space alle 17 ad ingresso gratuito. La luce di un faro squarcia l’oscurità della notte, svegliando un marinaio ed illuminando una vela, un orizzonte, una nuova rotta, un futuro possibile: “Ofarja” è il corto animato realizzato da otto giovani detenuti della casa circondariale Pasquale Mandato di Secondigliano con carboncino e gesso bianco su una lavagna in ardesia, tra i lavori del progetto LievitAzione in collaborazione con Art33, Cultural Hub di Napoli Est. Il corto, selezionato al MedFilm Festival di Roma nella sezione “Voci dal Carcere”, sarà presentato sabato 9 novembre al cinema Moderno The Space alle 17 ad ingresso gratuito. “Siamo orgogliosi che il corto sia stato scelto”, riflette Mariarosaria Teatro, responsabile del Cultural Hub Art3. “Rispecchia la filosofia del nostro centro audiovisivi, che da sempre si è posto come uno strumento per raccontare e raccontarsi oltre ogni barriera”. Ad aiutare i ragazzi nella lavorazione, Ahmed Ben Nessib, disegnatore e regista di cortometraggi animati, nato a Tunisi nel 1992, che ha selezionato le immagini tra 3086 disegni realizzati durante otto incontri. Il MedFilm Festival è l’unico appuntamento italiano specializzato nella diffusione del cinema Mediterraneo ed Europeo e opera per la promozione del dialogo interculturale e la cooperazione tra l’Europa ed i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medioriente, attraverso il cinema di qualità e l’audiovisivo, finestre aperte sul mondo per riconoscere e apprezzare la diversità come un valore e la cultura come volano per l’economia. Gli obiettivi del Festival sono la tutela dei diritti umani e il dialogo interculturale; l’educazione e la formazione dei giovani in ambito socio-culturale e ambientale, la lotta al razzismo e alla xenofobia; la promozione e la diffusione della cultura europea e mediterranea. E se la vera emergenza nazionale fosse l’emigrazione? di Francesco Riccardi Avvenire, 6 novembre 2024 Si discute sempre dell’immigrazione e non ci si accorge della massa di italiani che si trasferiscono all’estero. Forse adesso che le cifre sono più che tonde, anche il quadro complessivo risulterà più chiaro. E con esso la necessità di focalizzare meglio la nostra attenzione, rivedere alcune priorità e riorientare parte delle politiche. Perché i numeri parlano da soli: nel nostro Paese risiedono 5,3 milioni di stranieri, mentre 6,1 milioni di italiani vivono all’estero. E se dal 2020 a oggi i residenti in Italia sono calati complessivamente di 652mila persone, nello stesso periodo sono aumentati dell’11,8% i nostri connazionali che preferiscono stare in un’altra nazione. Il Rapporto Migrantes sugli italiani all’estero, presentato ieri, offre uno spaccato del nostro Paese su cui riflettere. Subito, di primo acchito, balza agli occhi la sproporzione tra l’attenzione - tanto mediatica quanto politica - che viene riservata all’immigrazione rispetto a quella che andrebbe assicurata all’emigrazione. La prima è ormai “la” questione politica su cui si giocano le elezioni, si polarizzano le posizioni, si strumentalizzano le vicende di cronaca in un senso o nell’altro, anziché più semplicemente ricercare soluzioni condivise e pragmatiche di governo del fenomeno. Della seconda - l’emigrazione degli italiani - quasi non si parla, salvo accorgersi con stupore che medici e infermieri vanno all’estero perché meglio pagati e con turni di lavoro meno massacranti; i neo-architetti e ingegneri preferiscono gli studi esteri rispetto alla trafila di praticantati sottopagati; i giovani scelgono imprese straniere in cui generalmente non vengono trattati da “ragazzi” di bottega, ma valorizzati per le competenze che possiedono, pagati il giusto. Ancora, dell’immigrazione si tende a enfatizzare i problemi che pure esistono, si sottolineano con clamore gli “scontri” tra culture e religioni anche se sono, finora, piuttosto limitati e si finisce per attribuire a questo fenomeno la “radice” d’ogni male del Paese, dimenticando d’un tratto la criminalità nostrana, il nostro scarso impegno civico, la gigantesca evasione fiscale e tutto il resto. Dei migranti stranieri si “criminalizza” quasi la motivazione economica - anziché regolarizzare i flussi e organizzare meglio l’incontro tra domanda e offerta in Italia - e non ci si accorge come sia la stessa molla che spinge giovani e intere famiglie italiane a muoversi in Europa, verso gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Australia addirittura... Dove di norma c’è meno lavoro nero, regole più semplici, spesso condizioni sociali migliori, ma soprattutto maggiore dinamismo, apertura, prospettive, in una parola: speranza. Proprio lo stesso sentimento che spinge masse di persone, meno fortunate di noi, verso il nostro Paese. Anche se in proporzioni minori e differenti rispetto al passato, siamo tornati insomma a essere un Paese di emigrazione. Da cui si parte e non sempre, non subito per lo meno, si ritorna. O per dire meglio siamo diventati un territorio da cui si parte e - contemporaneamente - in cui si arriva a seconda delle differenti convenienze e condizioni di partenza. Ma sempre più spesso con una perdita secca per l’Italia in termini sia numerici complessivi, sia soprattutto di preparazione del capitale umano e di mancato ritorno dell’investimento in formazione effettuato per i nostri figli. Per ogni laureato, infatti, lo Stato, cioè noi contribuenti, impegniamo 166mila euro come costo dell’intero ciclo di istruzione. Quando però un giovane va a lavorare, ad esempio in Germania, produce Pil, benessere e innovazione per quel Paese e non a favore della nostra comunità che pure ha contribuito a formarlo a un livello considerato d’eccellenza. Prima di pensare che tutti i nostri problemi sbarchino a Lampedusa con i barchini, dunque, faremmo meglio a guardarci “dentro” per cercare di capire che cosa non funziona del nostro modello economico e sociale. Per comprendere perché - al di là del legittimo desiderio di confrontarsi con ambienti differenti e fare esperienze internazionali - l’Italia risulti sempre meno “attraente” per gli italiani. Gli errori e le responsabilità di questa situazione risalgono nel tempo e coinvolgono, seppure in proporzioni diverse, molte forze politiche. Fondamentale, però, sarebbe rendersi conto - insieme - che occorre subito cambiare l’approccio complessivo ai nodi di immigrazione ed emigrazione: favorendo al massimo l’integrazione di chi arriva e migliorando le condizioni di chi potrebbe e vorrebbe restare. Converrebbe a tutti e a noi italiani in Italia per primi. Immigrati, problemi sempre “nei geni” di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 6 novembre 2024 Nel novembre di 80 anni fa nel penitenziario di Ushuaia, in fondo all’estremità meridionale dell’Argentina, un gruppo di detenuti pazzi di rabbia massacrò a calci e pugni, con le guardie girate dall’altra parte, Gaetano Godino, reo d’aver ammazzato un gattino che i carcerati avevano adottato. Era in galera da trent’anni ed era famoso, col nomignolo di Petiso Orejudo (nano con le orecchie a sventola) come il più orrendo criminale della Pampa. Ancora oggi il suo nome è sinonimo, perfino in qualche dizionario argentino, di depravazione, ferocia, assenza di ogni rimorso. Era il nono figlio d’una coppia di calabresi finiti a Buenos Aires nella speranza di far fortuna. Speranza tradita da una esistenza di emarginazione, miseria, alcolismo ai margini di uno dei quartieri peggiori della capitale argentina che allora aveva 821 mila abitanti, contro il mezzo milione di Roma, e guardava agli immigrati italiani, a dispetto dei trombettieri che descrivono oggi la nostra emigrazione “sempre bene accolta”, come un problema. Basti citare il criminologo Miguel A. Lancelotti, che parlava nel 1912 di 10 mila piccoli vagabondi, moltissimi italiani, “che vivono nell’ozio, senza morale, senza religione, senza pudore. Che succhiarono probabilmente poco latte e molte lacrime. Che si alimentarono con poco pane e molti vizi”. Come appunto Gaetano, che sul cranio portava 27 cicatrici lasciate dal padre: “Beveva sempre. E quando beveva picchiava”. Aveva 15 anni, quando l’accusarono, oltre che dell’incendio di sette edifici, d’aver ucciso quattro bambini piccoli e aver tentato di ucciderne altri sei “per veder che effetto faceva”. Diagnosi: era totalmente incapace d’intendere e volere. Ma il suo caso, spiega Eugenia Scarzanella in “Italiani malagente” (Franco Angeli, 1999) fu cavalcato dai razzisti locali (nonostante Manuel Belgrano, figlio d’un ligure, fosse tra i padri dell’indipendenza e della bandiera Argentina) contro la nostra minoranza: “La scienza ci insegna che insieme col carattere intraprendente, intelligente, libero, inventivo e artistico”, scrisse il professor Cornelio M. Gacitúa, “negli italiani c’è il residuo della alta criminalità di sangue”. C’è chi dirà: perché ricordare queste brutte cose? Forse perché Donald Trump, solo giorni fa, a proposito degli immigrati di oggi negli States moltissimi dei quali secondo lui “assassini”, ha precisato: “Credo sia nei loro geni”. Lombroso è vivo e lotta insieme a lui. Migranti. La Consulta dovrà occuparsi dei Cpr. Sono incostituzionali? di Angela Nocioni L’Unità, 6 novembre 2024 Due ordinanze di giudici di pace hanno sollevato alla Corte costituzionale la questione della detenzione nei centri per il rimpatrio. Era ora! Finalmente la Consulta dovrà rispondere alla domanda: la detenzione nei Centri per rimpatrio (Cpr) è in contrasto con la Costituzione italiana? A chiedere se l’esistenza stessa dei Cpr violi o no i principi costituzionali sono due diverse ordinanze emesse dall’Ufficio del Giudice di Pace di Roma il 17 ottobre. In due udienze per la convalida di trattenimento di due persone nel Cpr, una disposta dal questore di Perugia e l’altra dal questore di Ascoli Piceno, il giudice ha ritenuto di dover rivolgersi alla Corte per sollevare la questione di legittimità costituzionale. Quelli nei Cpr vengono chiamati trattenimenti amministrativi, ma sono privazioni della libertà personale di esseri umani rinchiusi in gabbie con sbarre da cui non possono uscire, sono quindi a tutti gli effetti detenute. La norma posta all’attenzione della Corte, riferisce l’associazione Naga che insieme alla rete Mai più lager no ai cpr monitora costantemente quel che accade nei Cpr, è “relativa al testo del comma 2 dell’articolo 14 del Testo unico sull’immigrazione, l’unica fonte normativa primaria che istituisce la detenzione amministrativa nei Cpr”. Vengono ipotizzate violazioni degli articoli 2, 3, 13, 24, 25 comma 1, 32 e 111 comma 1. “La prima eccezione si riferisce alla violazione della ‘riserva assoluta di legge’ imposta dall’articolo 13 comma 2 che recita ‘Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.’. L’articolo 14 del Testo unico immigrazione si occupa dei modi di detenzione ai commi 2 e 2bis con indicazioni del tutto generiche, a cui si aggiunge un esplicito riferimento a una fonte di legge secondaria, violando in questo modo la riserva di legge prevista dalla chiosa del citato comma costituzionale, ‘nei soli casi e modi previsti dalla legge’. La direttiva ministeriale che attualmente regola la vita dei Cpr (la direttiva Lamorgese) non è la legge esplicitamente richiesta dal testo costituzionale e quindi non può soddisfarlo. Inoltre, sempre secondo la tesi della giudice, mancherebbe anche l’indicazione dell’autorità giurisdizionale preposta a vigilare che i modi della detenzione, anche qualora fossero stati normati in maniera costituzionalmente soddisfacente, vengano rispettati nel corso della sua esecuzione: non esiste, dunque, un giudice che possa intervenire efficacemente per interrompere un trattamento non adeguato nei suoi modi che, come abbiamo visto, non sono nemmeno definiti dalla legge”. L’altra questione riguarda, la violazione del principio di eguaglianza delle persone private della libertà personale. A chi è rinchiuso in un Cpr non si applicano le norme del regolamento penitenziario. “Un vuoto normativo che sussiste fin dall’introduzione nell’ordinamento italiano della detenzione amministrativa avvenuta nel 1998” ricorda l’associazione Naga. “Da allora, l’unica norma di legge che ne tratta si limita, di fatto, a prevederla, stabilendo i casi a cui si può applicare, ma risultando del tutto carente nello stabilire sia i modi in cui deve essere attuata sia quelli con i quali deve essere controllata da un giudice terzo specializzato”. “L’arbitrarietà e la sbrigatività insite nelle procedure sono incompatibili con un sistema giurisdizionale che abbia l’aspirazione di tutelare i diritti costituzionalmente garantiti richiamati nell’ordinanza”. Chiunque voglia sapere cosa accade nei Cpr italiani - perché la detenzione costituzionalmente illegittima accade da anni anche in Italia non solo nelle mostruose celle fatte costruire dal governo Meloni in Albania - può andarsi a cercare i rapporti del Naga e della rete Mai più Lager - No ai Cpr. Sono un pozzo di informazioni. Gli ultimi: Al dì là di quella Porta, pubblicato il 25 ottobre dell’anno scorso (riguarda il centro di via Corelli a Milano) e A porte chiuse, pubblicato il 15 ottobre di quest’anno (si occupa del centro di Macomer in Sardegna). Ottima lettura anche per i giudici della Consulta. Migranti. La rivolta nel Cara di Bari: “reclusi” tra i topi di Giacomo Guarini Il Manifesto, 6 novembre 2024 Il corteo in città. Un guineano ingerisce 11 pile: assistito solo il giorno dopo, è morto. In ogni container dieci persone, ce ne dovrebbero essere quattro. Due ore e mezza in cammino dal quartier generale del comando scuole dell’aeronautica militare, nei pressi dell’aeroporto di Bari Palese, fino alla sede della prefettura in piazza Libertà, nel centro cittadino. Centinaia di migranti, “ospiti” del Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Bari, si sono riversati sulle strade del capoluogo pugliese all’indomani della morte di un ragazzo guineano di 33 anni, utente della stessa struttura. L’uomo, morto per arresto cardiaco dopo aver ingerito 11 batterie stilo, sarebbe stato trasportato all’ospedale San Paolo di Bari (dove è avvenuto il decesso) solo all’indomani del tentativo di suicidio. Una morte che, secondo gli altri ospiti del centro, poteva essere evitata se ci fosse stata più solerzia nel primo intervento. L’assistenza sanitaria e le cure ricevute, infatti, si sarebbero limitate alla somministrazione di una semplice compressa. All’interno della struttura, una volta comunicato il decesso, si sono diffuse rabbia e sgomento. Quindi c’è stato il mancato permesso d’uscita per recarsi al nosocomio. Quest’ultimo il punto di non ritorno. Nel corso della serata di lunedì i migranti hanno bloccato in segno di protesta le uscite del Cara con una catena, causando lievi danni alla nuova sala mensa. Ieri mattina hanno sfilato in corteo per rivendicare i loro diritti. Dopo le rimostranze, una delegazione è stata ricevuta dal prefetto di Bari Francesco Russo: “Dobbiamo proseguire con il dialogo per il miglioramento delle condizioni di vita” ha detto Afana Docteur, portavoce dell’utenza del Cara. “Il modo in cui siamo costretti a vivere è sgradevole, dentro un container ci sono dieci persone, quando ce ne dovrebbero essere quattro. Molte di loro devono stare in campagna, nel circondario tra Bitonto, Palo, Bitritto dalle 5 e 30 del mattino. Dal Cara si può uscire solo dalle 7. Cosa dovrebbero fare? Devono scavalcare muri di sei metri con filo spinato? C’è gente che si è fratturata le braccia per farlo”. E ancora: “Se si torna dal lavoro dopo le 21 non puoi più entrare e dormi fuori. La prigione si chiude alle 20.30. Pensate sia un piacere scavalcare? Uscire così d’inverno, sotto la pioggia? Il prefetto e la politica sanno tutto questo, li tengono in prigione, in una zona militare protetta. Non possono entrare e uscire liberamente, come banditi e mafiosi. Questa è la prima cosa che bisogna cambiare, è un bunker”. Ufficialmente, si tratta di una struttura di prima accoglienza tesa a ospitare i richiedenti asilo nella fase immediatamente successiva al loro ingresso sul territorio italiano, fino alla registrazione della domanda di asilo, entro trenta giorni. La permanenza nel centro, quindi, dovrebbe essere di natura transitoria. Ma la realtà è diversa. Ubicato all’interno di una base militare, circondato da un’alta recinzione in filo spinato controllata h24, e totalmente sconnesso (e distante) dal tessuto cittadino, il Cara di Bari, inaugurato nel 2008 con una capienza ufficiale di 744 posti e una tollerabile di oltre mille (attualmente presenti nella struttura), è l’ennesimo ghetto “informale” che fa da sfondo alle campagne pugliesi. Al suo interno vivono donne, bambini, intere famiglie. Le condizioni igienico sanitarie sono pietose: solo negli ultimi mesi, in rapida successione, i ratti avevano morso e infettato un utente ed erano state rinvenute delle blatte nei piatti sigillati del servizio mensa. È in questo contesto che dodici richiedenti asilo, cinque egiziani e sette bengalesi inizialmente reclusi a Gjader, sono stati trasferiti dall’Albania. Migranti. La Sicilia come l’Albania: i nuovi Cpr bocciati dai magistrati di Angela Gennaro Il Domani, 6 novembre 2024 Costati milioni di euro. Quello di Modica è rimasto vuoto per mesi. E arrivati i primi ospiti i giudici non hanno convalidato il loro “fermo”. Un centro per i rimpatri in ogni regione. Il “sogno” dura almeno dal 2017, ma nessun governo di nessun colore è ancora riuscito a coronarlo. Per aumentare però la capienza dei posti per le persone che dovrebbero essere riportate “a casa loro”, il governo guidato da Giorgia Meloni punta su quello che il suo ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, chiama trattenimento “leggero”. Leggero “perché senza filo spinato”, ha spiegato parlando dei centri in Albania di Shengjin e Gjader. Al suo posto sbarre e gabbie alte anche 8 metri, nei siti albanesi come dei Cpr italiani, a rinchiudere persone che non hanno compiuto reato. Costa alle casse dello Stato in media quasi 100 milioni di euro all’anno (più del doppio, con l’Albania), ed è la detenzione amministrativa. “Come essere privati della libertà a fronte di una multa”, chiosa Fabrizio Coresi, esperto di migrazioni di ActionAid. Ora la Sicilia si candida a nuovo hub di trattenimento per richiedenti asilo sottoposti a procedure accelerate di frontiera: un modello che l’Italia sta cercando appunto, al momento con i risultati ben noti, di delocalizzare in Albania. Anche perché basato sul rimpatrio nei cosiddetti “paesi sicuri” la cui definizione e applicazione ha fatto deflagrare alla nascita il protocollo con Tirana. Trattenere ed espellere è un binomio che oggi in Sicilia sembra funzionare meglio che altrove. Da qui parte infatti il 54 per cento dei rimpatri a livello nazionale, dice ActionAid nel report “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri”. E l’85 per cento è di soli cittadini tunisini. I numeri però sono ben lontani dalla “difesa dei confini della Nazione”: sono 1.622 le persone riportate nel 2023 in Tunisia, 40 alla volta sui due voli charter in partenza ogni settimana. Il totale dei rimpatri in tutta Italia dai Cpr? 2.987 persone nel 2023, il 10,5 per cento delle 28mila raggiunte da un provvedimento di allontanamento (non necessariamente appena arrivate, ma anzi magari in Italia da 20 anni). E il 2,1 per cento di delle quasi 141mila sbarcate l’anno scorso. Sicilia modello Albania - A settembre 2023 è nato a Modica, in provincia di Ragusa, il primo dei centri di trattenimento per richiedenti asilo sottoposti a procedure di frontiera accelerata, “il primo mattone del nuovo sistema per la gestione rapida delle domande di asilo e dei rimpatri con procedure direttamente in frontiera o offshore come in Albania. Il sistema nei fatti trattiene le persone al confine, e si fonda solamente sull’accordo bilaterale con la Tunisia. Peccato che i cittadini tunisini anche nel 2023 siano meno del 11 per cento delle persone arrivate in Italia”, dice Coresi. Quello di Modica sembra un Cpr, ma non è un Cpr. Sono Ctra, Centri di trattenimento per richiedenti asilo (la definizione è dei curatori del rapporto di ActionAid, Giuseppe Campesi e Fabrizio Coresi) destinati appunto alla detenzione dei richiedenti protezione assoggettati alle procedure d’asilo di frontiera: non hanno al momento una denominazione ufficiale né chiaro inquadramento giuridico. “Il centro di Modica è ufficialmente qualificato come propaggine del vicino hotspot di Pozzallo”, nota ActionAid, anche se l’area portuale dell’hotspot dista una ventina di chilometri dalla zona industriale di Modica dove si trova il centro. È stato inizialmente gestito in affidamento diretto dallo stesso gestore dell’hotspot. Dopo due proroghe, nel giugno ‘24 è stato affidato attraverso una procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando. Vinta (con un ribasso del 7 per cento) da chi? Dall’associazione temporanea di impresa tra la cooperativa “Vivere Con” e il consorzio Hera, che già gestisce il Cpr di Trapani e appunto l’hotspot di Pozzallo. Il solo allestimento del centro è costato più di 1 milione e 650mila euro, per una capienza di 84 posti. E per il servizio la prefettura di Ragusa assegna 639.732,10 euro più iva. Ma qui nessun trattenimento è stato convalidato dopo l’apertura nel 2023: e il centro è rimasto vuoto per mesi. Nel 2024, racconta l’avvocato Riccardo Campochiaro di Asgi, le detenzioni sono ricominciate, con il tribunale competente, quello di Catania, che continua a non convalidare. Da qui, quindi, niente rimpatri. Contrada Caos - C’è un altro Ctra aperto di corsa, nell’agosto 2024, quando si era capito che in Albania non c’era ancora niente di pronto: quello di Porto Empedocle. L’indirizzo è poetico: Contrada Caos, via Luigi Pirandello. Posti dichiarati 70, “gara a procedura negoziata senza pubblicazione del bando” vinta dalla cooperativa sociale “Oltre il mare” per sette mesi rinnovabili. La spesa complessiva iniziale è di 750mila euro più iva. Anche qui parliamo di propaggine di hotspot di Porto Empedocle, valvola di sfogo di Lampedusa dalla capienza di 280 posti. Al centro di Porto Empedocle, due settimane fa, al momento dell’ingresso di una delegazione del progetto In Limine, gli uomini trattenuti erano 14, tutti giovani e tunisini. “La metà era in attesa di eventuale convalida, altri dell’esito della sospensiva”, spiega l’avvocato Campochiaro. Nel periodo di punta, dopo l’apertura, il centro è arrivato a trattenere non più di 45 persone. “Le convalide qui non superano il 10 per cento del totale degli ingressi”. Sono (anche) gli effetti della sentenza della Corte di giustizia Ue che ha portato al “caso” delle mancate convalide in Albania. “E di un sistema accelerato che fa fatica a tutelare il diritto di asilo”, dice il legale. Ma il modello Sicilia piace, e allora sono in arrivo altri due Ctra: dovrebbero essere inaugurati entro la fine dell’anno ad Augusta e Trapani, stando alla programmazione della direzione generale dei lavori del ministero della Difesa, con un peso sul bilancio finanziario di 16 milioni di euro, 8 a centro. “Il disegno di accoglienza diffuso di cui si parlava tempo fa è stato chiaramente sostituito da un disegno di detenzione diffusa: si parla anche della proliferazione di locali idonei sia all’interno delle questure, ma anche all’interno dei centri di primissima accoglienza”, dice Fabrizio Coresi. “Ma è destinato a funzionare per pochi sfortunati ed essere una misura prettamente simbolica, in Albania come nei cpr e ora nei Ctra italiani: assimilare i migranti ai criminali”. Migranti. Caso Albania, la guerra a perdere di Meloni di Paolo Delgado Il Dubbio, 6 novembre 2024 Il governo costretto a una battaglia di diritto sempre più complessa dopo la bocciatura del protocollo. Due giorni fa, quando i cronisti le hanno chiesto lumi sullo stato del progetto Albania, Giorgia Meloni è sbottata: “Ancora con l’Albania? Ma siete fissati”. Una così scomposta reazione, a proposito di quello che fino a un paio di settimane fa era il fiore all’occhiello del governo italiano soprattutto all’estero, è eloquente. Lo è anche di più il clamoroso sgarbo ai danni del capo dello Stato di cui la premier si è resa responsabile invitando a palazzo Chigi il vicepresidente del Csm Pinelli senza peritarsi di avvertire prima il Capo dello Stato, che è anche presidente del Csm. Un simile errore, compiuto da un leader politica intelligente e attenta, indica a propria volta quanto la premier inizia a sentirsi esasperata. Ieri, con sensibile ritardo, fonti del Csm hanno assicurato che in realtà il Quirinale era stato avvertito, ma nel complesso l’intera vicenda sembra essere stata gestita con una goffagine senza precedenti. Non che non la si possa capire. Il protocollo con l’Albania è già sommerso sotto una montagna di carte bollate. Da smagliante strategia innovativa che l’intera Europa avrebbe dovuto far propria, assicurando così alla sua ideatrice una postazione eminente, l’accordo è derubricato a lite di condominio, una di quelle vicende estenuanti che si trascinano da un tribunale all’altro. Basta lasciar parlare i fatti. La nave Libra è ferma in mezzo al mare, peggio che le barche bloccate di fronte ai porti dal Salvini di una volta. Aspetta di fare il pieno di clandestini pescati in mezzo alle acque: ieri è stato issato a bordo un nuovo gruppetto, tra i 6 e gli 8 migranti. Non è chiaro a quale cifra di clandestini la pesca della Libra potrà considerarsi conclusa. Dopo lo screening a bordo una parte del “carico” verrà sbarcata in Italia, mentre quelli per i quali si considera imminente il rimpatrio verranno trasferiti a Shengjin per la procedura accelerata. Quindi saranno trasportati nel centro di Gjader da dove è sin troppo facile prevedere che nel giro di un giorno o due dovranno essere portati in Italia perché è certo che la magistratura impugnerà e invaliderà il provvedimento. Seguirà ricorso del governo. Pioggia sul bagnato. Il governo ha già depositato in Cassazione il ricorso per i 12 migranti già spediti in Albania e poi riportati in Italia. L’avvocatura sta preparando un secondo ricorso contro la decisione del Tribunale di Catania di non convalidare il trattenimento di cinque clandestini, tre egiziani e due bengalesi. I magistrati di Catania hanno esplicitamente scelto di non ottemperare al decreto varato dal governo dopo l’incidente albanese: neppure un dl, scrivono infatti, “esime il giudice dall’obbligo di una verifica della compatibilità con il diritto della Ue”. Stavolta il ricorso del governo sarà però depositato non in Cassazione ma in appello, proprio in base al decreto che obbliga a rivolgersi alla Corte d’appello, con obbligo di risposta in tempi molto celeri, proprio per evitare le lungaggini dei ricorsi in Cassazione. Però non c’è decreto che possa aggirare l’obbligo dei tre gradi di giudizio. Anche una eventuale sentenza della Corte d’appello a favore del governo non chiuderebbe affatto la questione, ma anzi la complicherebbe ulteriormente. Proprio mentre il Tribunale di Catania faceva a brandelli il dl, come tutti sapevano che sarebbe avvenuto in base alla prevalenza del diritto europeo, il Tribunale di Roma ha impugnato il decreto di fronte alla Corte di Giustizia europea. Non è il primo tribunale a muoversi in questo modo. Lo aveva già fatto pochi giorni prima il Tribunale di Bologna, rivolgendosi a propria volta alla Corte europea. Non che sia finita qui perché non bisogna dimenticare i ricorsi in appello dei 12 migranti che hanno fatto avanti e indietro tra Italia e Albania contro il respingimento della loro richiesta d’asilo. Una trafila di questo genere è il contrario di ciò a cui Meloni mirava: una procedura efficiente, di scarso rilievo ai fini del contrasto dell’immigrazione clandestina in Italia ma in grado di poter essere adottata su vasta scala, con una serie di accordi bilaterali, in Europa. L’estenuante braccio di ferro in punta di diritto priva il protocollo di quel che avrebbe dovuto essere il suo impatto in Europa. La premier avrebbe probabilmente fatto meglio ad mantenersi fredda, accettare l’ostacolo posto il 4 ottobre dalla Corte di Giustizia Ue e fermare l’operazione sino a che a fare chiarezza non fosse stata l’Europa stessa. Ma la freddezza di fronte agli ostacoli non è il lato più forte nella personalità della premier, incalzata oltre tutto da un Salvini che con incidenti del genere va a nozze e infatti alza i toni quanto più possibile: “Per colpa dei giudici comunisti l’Italia è un Paese insicuro”. Ma c’è di più. Si avvicina l’audizione del commissario italiano Raffaele Fitto, che sarà conclusa da un voto niente affatto scontato. Socialisti, liberali e verdi erano alla ricerca di un argomento che possa giustificare il loro voto contro Fitto. Ora Giorgia teme che con il ginepraio albanese lo possano trovare. Migranti. Operazione Albania, una colonia contro il diritto di Riccardo Magi Il Manifesto, 6 novembre 2024 Vedere con i propri occhi il frutto della spregiudicata operazione di propaganda che il Governo Meloni sta mettendo in atto in Albania, con la connivenza di Edi Rama, non curandosi del diritto dell’Unione europea e senza rispetto per le storie e le sofferenze delle persone destinate ad essere deportate in quei centri, aiuta a comprendere la drammaticità della situazione in cui versa il nostro Paese. Aiuta a non essere miopi davanti alla spregiudicatezza di cui la Presidente del Consiglio è capace, innanzi ad una tra le più grandi (e costose) iniziative mediatiche ed elettoralistiche della storia repubblicana. Mi ero recato per la prima volta a visitare il centro di Shengjin a giugno, mentre si svolgeva la conferenza stampa Meloni-Rama. Una conferenza farsa, in cui la Presidente italiana glorificava sé stessa e il Primo Ministro albanese attaccava i giornalisti italiani. Uno spettacolo insopportabile. In quell’occasione sono stato quasi aggredito dalla non meglio definita “security” di Rama, rincorso e strattonato. Alla faccia delle prerogative parlamentari. Ho deciso di tornarci ad ottobre, con una delegazione di parlamentari di opposizione, e questa volta sono stato anche a vedere come funziona, o meglio, come non funziona, la prigione di Gjader. Una sorta di colonia detentiva, dove erano stati deportati i primi sedici migranti, richiedenti asilo soccorsi in mare, provenienti da Egitto e Bangladesh. I famosi paesi sicuri. Quelle persone le abbiamo incontrate, erano tutte transitate per la Libia, avevano subìto torture, erano state vendute, fino a che non erano riuscite a scappare da quell’inferno. Si tratta di storie che non possono restare inascoltate e che devono essere prese in considerazione nel valutare la vulnerabilità di chi le ha vissute. Persone che, peraltro, non hanno commesso alcun reato, eppure sono detenute. Altro che garantismo. Inutile ricordare che chiunque si occupi con un po’ di onestà intellettuale di diritto dei migranti aveva previsto da tempo che questo scellerato progetto “neocoloniale” sarebbe andato incontro a grossi inciampi giuridici. Questo perché per fortuna esistono, nel nostro ordinamento, garanzie che scattano quando si tratta di privare una persona della libertà personale. E questi centri di concentramento non possono funzionare a meno che il Governo non riesca a forzare le procedure e le garanzie previste dalla normativa italiana e dell’Unione europea. L’impressione, avanzata anche dall’Unione delle Camere Penali, è che in verità il Governo non abbia fatto altro che cercare la polemica, fino allo scontro, contro la magistratura, perché Meloni è maestra di piagnisteo, e il vittimismo è il carburante che muove la sua operazione propagandistica. Ecco quindi l’ennesimo pretesto di cui il governo si serve per distrarre gli elettori. Un nuovo nemico contro cui scagliarsi. Un giorno sono i “burocrati di Bruxelles”, quello dopo i migranti, ecco ora i giudici comunisti. A volte ritornano. Tutti “anti-italiani”, come Mussolini definiva chi lo contestava, tutti nemici della Patria, del popolo. Eppure, perfino Meloni sa perfettamente, al di là del populismo, che i magistrati non avrebbero potuto fare altro che decidere nel modo in cui hanno fatto, dovendo fare riferimento a un complesso di norme e ad una giurisprudenza già note. La polemica contro la magistratura non è quindi che l’exit strategy da un progetto fallimentare, che però consente a Meloni di recuperarne tutta la valenza propagandistica. Ora potrà raccontare che il suo Governo non ha potuto tenere gli stranieri lontani dal territorio italiano perché la magistratura politicizzata glielo ha impedito. Invece è la democrazia che lo impedisce. E la democrazia si fonda anche sull’osservanza e sul rispetto di un sistema fatto di garanzie, a tutela dei diritti fondamentali e della libertà delle persone, anzitutto di quelle più deboli. Stati Uniti. Quegli immigrati italiani che non hanno più sogni di Andrea Bajani La Stampa, 6 novembre 2024 Quando si trattò di cominciare a pensare al nome di nostro figlio, molti americani ci misero in guardia dal selezionare alcuni nomi italiani. Ci eravamo appena trasferiti, e quello era il gioco di due che preparavano un nome per un bambino che sarebbe cresciuto tra il Texas e l’Italia. E però i nomi non sono innocenti. E se Guido mi venne alla mente, nel gioco, abbinato a uno dei miei amici più cari, cadde subito. Guido era il nome, mi dissero, del più trito degli stereotipi degli italo-americani. Mario, Guido, Tony gli italiani di prima emigrazione, che cercavano fortuna. I vilipesi, discriminati. Quelli, pare, che votano Trump. Ora, nel gioco fu facile lasciare cadere quei nomi. La questione era cercarne uno che potesse essere pronunciato in entrambe le lingue. E che per l’appunto non imponesse per forza di cose un destino a chi avrebbe dovuto vestirlo. E che John, Jack, fossero da evitare perché in Italia non diventasse l’americano standard mi era chiaro. Ma non avevo pensato ce ne fossero altri, che identificavano - qui - un italiano per così dire diverso. Diverso da quello cui, stando ai nostri colleghi, noi avremmo dovuto aspirare. Che cioè ci fossero i nuovi italiani (gli expats, gli ingegneri, i dottori) da un lato, e dall’altro gli italo-americani. Cui tutti erano affezionati ma - questa la teoria - stavano in una classe differente. E (refrain) votavano Trump. Erano quelli che popolavano rumorosi le spiagge del New Jersey, i vari Mario Pizza che presi a notare guidando per gli Stati Uniti, i Mario Bros con cui giocavano i bambini americani - due simpatici baffoni alla catena di montaggio. Ovvero gli eredi di quelli che Matthew Frye Jacobson, in un saggio indimenticabile, chiamava “white of a different colour”. Cioè - con ovvia e derogatoria connotazione razziale - i bianchi di colore diverso, i primi che cominciarono a essere trattati come un’umanità differente. Diversi dagli anglosassoni, uno scalino più sotto dai bianchi-bianchi. Erano gli irlandesi, i greci. Gli italiani. Quelli che sì, erano come gli altri, ma non proprio. Poi arrivano gli afroamericani e l’onda - che non si arresta né si arresterà - dal Centro e dal Sud America. Quando ci trasferimmo in America entrammo anche noi dalla porta di New York. Non ci arrivammo dal mare, ma con un volo diretto della United Airlines da Roma. E per vedere la Statua della Libertà salimmo sul piccolo ferry per Staten Island che a New York prendono i turisti per vederla da vicino. È comodo, parte ogni pochi minuti, ed è una piccola gita di un’ora che garantisce la vista sulla statua dal più alto valore simbolico al mondo. E vi si accede gratuitamente, visto che è un servizio pubblico per i lavoratori, i pendolari che vivono a Staten Island, e che ogni giorno entrano ed escono da Manhattan. Ci entrano perché in molti ci vanno a fare i lavori di fatica, ci escono perché con lo stipendio che ricevono non potrebbero viverci. A Staten Island, invece, ci possono (ancora) vivere. La disposizione delle persone, sul ferry, è chiara. I turisti stanno fuori col telefono che fanno la foto alla statua, all’andata, e al ritorno ai grattacieli di New York. Invece chi lavora sta seduto in cabina, si guarda lo spazio tra i piedi a fine giornata. Quando il traghetto approda a Staten Island, i turisti non escono dalla stazione. Fanno inversione, per così dire, e salgono sul ferry che sta per salpare nella direzione opposta e tornare a Manhattan. Al contrario, i lavoratori scendono dal ferry, e se ne vanno a casa a cenare con la propria famiglia, se ce l’hanno e poi si buttano a dormire. Ci risaliranno all’alba il giorno dopo per andare al lavoro. A Staten Island ci vivono mezzo milione di persone. In molti sono italo-americani di seconda o terza generazione. Uno lo incontrammo nel primo viaggio. Chiesi un’informazione in inglese, mi rispose che era di vicino Napoli, e che erano cinquant’anni che non tornava in Italia. Non mi disse altro, non cercò complicità, né io gli chiesi il nome. Gli suonò il telefono, rispose in inglese. Ma il nome, in qualche modo, era Mario. O era Toni. Nomi che non abbiamo comunque messo a nostro figlio. Ed era chiaro che non vedeva la complicità perché aveva la percezione di essere un italiano di tipo diverso. Di quelli che, a quel che leggo, votano Trump. Nell’incertezza del risultato, un fatto è certo, credo. Che finché ci saranno da un lato le orde di quelli che alla stazione di Staten Island torneranno indietro senza nemmeno guardare chi vive a Staten Island (per fare altre foto e poi un aperitivo da 50 dollari a Manhattan), e dall’altro altri Tony o Mario - o altri José, Maria, o Mohammed - che invece ci andranno a dormire pensando che nessuno dentro o fuori il ferry li vede tranne Donald Trump, finché ci saranno quelli sul ponte del traghetto che si fanno i selfie con dietro la statua e altri sottocoperta che si guardano i piedi sfiniti, vincerà Trump. Anche se Kamala Harris sarà, come mi auguro, alla Casa Bianca, avrà vinto lo stesso Donald Trump.