Sfondato il muro dei 62mila detenuti (e il governo vuole carcerare anche chi protesta) di Stefano Anastasia huffingtonpost.it, 5 novembre 2024 Dall’estate attendiamo di conoscere le iniziative del ministro Carlo Nordio per affrontare il problema. Sfondato il muro dei 62mila detenuti, stiamo ancora aspettando di sapere quali iniziative il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, intendeva illustrare l’estate scorsa al Presidente della Repubblica, dopo che l’intera compagine governativa si era resa finalmente conto che il decreto “carcere sicuro” di sicuro aveva solo che non avrebbe ridotto la pressione del sovraffollamento penitenziario sui detenuti e gli operatori penitenziari, costretti a vivere come sardine e a lavorare in condizioni di emergenza. Nel frattempo i suicidi non fanno neanche più notizia: dopo quello di Vincenzo, a Santa Maria Capua Vetere nel giorno dei morti, siamo a 78, solo sei in meno del tragico record annuale del 2022, ma mancano ancora due mesi alla fine dell’anno Nel frattempo s’avanza un disegno di legge che, anch’esso in nome della sicurezza, potrebbe moltiplicare il numero delle persone detenute, trattenendo in carcere ad libitum i protestatari e aggiungendovi quelli che le proteste le fanno fuori. Al Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria l’arduo compito di inseguire l’emergenza, e non è per sfiducia, ma per scienza ed esperienza che ci permettiamo di dubitare che riuscirà a risolvere il problema del sovraffollamento penitenziario se l’altra mano continua a riempire le carceri di autori di reati pretestuosi e non violenti. La soluzione, l’unica soluzione, a questo punto, è lì, nell’articolo 79 della Costituzione: un provvedimento generalizzato di clemenza, nella misura minima necessaria di due anni di amnistia e di indulto. Ne abbiamo scritto a tutti i parlamentari e le parlamentari della Repubblica, affinché - senza vincoli di partito - facciano la cosa giusta. Non è mai troppo tardi. Poi, dopo, solo dopo, si potrà discutere delle riforme necessarie al sistema dell’esecuzione penale che in queste condizioni, quali che esse siano, non potrebbero essere realizzate. Se lo scontro sulla giustizia diventa una strategia di Massimo Franco Corriere della Sera, 5 novembre 2024 Il sospetto è che Palazzo Chigi e i suoi alleati non subiscano ma cerchino la contrapposizione con un potere giudiziario pur incline a esagerare nelle motivazioni del “no” ai trasferimenti dei migranti con un lessico viziato a volte da considerazioni politiche. È anche possibile che i giornalisti abbiano “una fissazione” per i flop sui centri di accoglienza per i migranti irregolari costruiti dal governo in Albania. Lo ha detto ieri con una punta di fastidio la premier Giorgia Meloni, replicando a una domanda. La sensazione, tuttavia, è che l’eventuale “fissazione” sia legittimata dal rosario delle bocciature che la magistratura sta sgranando sui respingimenti; e dall’insistenza con la quale il governo di destra va avanti con i trasferimenti, pur sapendo che sono costosi e a rischio, appunto, di flop. Tanto che viene un sospetto: che Palazzo Chigi e i suoi alleati non subiscano ma vogliano lo scontro con un potere giudiziario pur incline a esagerare nelle motivazioni del “no” ai trasferimenti con un lessico viziato a volte da considerazioni politiche. Anche perché sul piano del diritto il ricorso alla Corte di giustizia europea appare difficilmente contestabile. Perfino l’Ordine degli avvocati penalisti, solitamente poco solidale con la magistratura, ieri si è dissociato dall’accusa del governo ai giudici di prendere decisioni politiche. Ma la linea della coalizione non cambia: anche dopo l’ennesima bocciatura da parte del Tribunale di Catania; e dopo la richiesta di tutela da parte del Csm dell’indipendenza e dell’autonomia dei magistrati di Bologna che avevano preso una decisione simile. Da Catania si è osservato che chiedere alla Corte europea di stabilire se un Paese sia sicuro o meno è un dovere: anche perché la legislazione continentale prevale su quella nazionale. Nonostante questo, il conflitto sembra destinato a inasprirsi. Mentre avanza una riforma della Giustizia a tappe accelerate, la narrazione è quella di un governo deciso a bloccare l’immigrazione, ma frustrato da un potere giudiziario antigovernativo. “Per colpa di alcuni giudici comunisti che non applicano le leggi il Paese insicuro è l’Italia. Ma noi non ci arrendiamo!”, ha accusato ieri il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini. E la sua posizione sembra condivisa dall’intera maggioranza. Si vuole mandare un messaggio all’elettorato: noi manteniamo le promesse. Lo stesso ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha spiegato di non credere che i trattenimenti possano essere bloccati. “Nel caso ci sono le sedi opportune. Tutte le questioni di diritto sono opinabili nell’ambito giudiziario”. Il protocollo Italia-Albania “è un progetto che non può non proseguire”. Rimane da capire che cosa significhi, se porta a un conflitto istituzionale ad alto rischio. Il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, da Bologna ha additato “l’insofferenza verso il potere giudiziario” da parte del governo; e stavolta contro i giudici, non contro i pm come in passato. Ma soprattutto, potrebbe delinearsi un preoccupante scontro con l’Europa. Zaccaro: “È il momento dell’unità, dispiace che alcuni non lo capiscano” di Mario Di Vito Il Manifesto, 5 novembre 2024 Il segretario di Area democratica per la giustizia: “Nessuna maggioranza politica, nessun interesse nazionale può sacrificare i diritti delle persone, che vanno difesi al di là di ogni consenso o mandato popolare”. “I colleghi della sezione protezione internazionale sono stati vittime di un’aggressione mediatica solo perché hanno fatto il loro lavoro e hanno tutelato i diritti”. Giovanni Zaccaro, segretario di Area democratica per la giustizia, è arrivato a Bologna nel cuore dell’affollata assemblea aperta dell’Anm emiliana dopo aver celebrato un’udienza a Roma in mattinata. Il momento, del resto, è di quelli gravi: lo scontro tra governo e magistratura è ben oltre il livello di guardia. La folla che ha riempito la sala “Primo Zecchi” del tribunale di Bologna lo testimonia: non è un momento come un altro dell’eterna questione giudiziaria che da un trentennio è diventata centrale nell’opinione pubblica. “Sono venuto per esprimere solidarietà a Gattuso - prosegue Zaccaro - ma anche magistrati della Corte dei conti, il cui ruolo costituzionale rischia di essere ridimensionato per effetto della recente proposta di riforma. E poi anche all’avvocato Scalise, presidente della camera penale di Roma, dileggiato in parlamento solo perché ha parlato in difesa della libertà personale di taluni imputati”. Si aspettava questa affluenza? Di sicuro questa grande partecipazione è un segnale. Credo sia fonte di grande speranza per noi e di fiducia nel fatto che il diritto riuscirà a sopravvivere alle pulsioni maggioritarie. Gli attacchi personali al giudice Marco Gattuso sono un fatto di particolare gravità e probabilmente hanno smosso l’opinione pubblica... Su questo dobbiamo essere molto chiari: la critica ai provvedimenti è giusta, anzi direi addirittura fondamentale, ma questo è vero solo finché ci si confronta con le motivazioni e non diventa dileggio verso gli aspetti più intimi della vita di una persona. Non crede che questa serie di attacchi personali sia un modus operandi per la destra? Prima di Gattuso abbiamo visto quello che è stato detto sui giudici di Catania, Palermo e Roma… Diciamo che così si comportano molti giornali e molti esponenti politici. Scelgono di rinunciare a confrontarsi sul merito delle questioni e si concentrano su altro. Se prendiamo il caso di Iolanda Apostolico, dopo tanti attacchi e tanto rumore mediatico, alla fine, il governo ha anche rinunciato ad andare avanti con i suoi ricorsi. Intanto il ministro Matteo Piantedosi ha annunciato che altri migranti verranno portati verso l’Albania, nonostante il tribunale di Roma abbia già annullato dodici trattenimenti e la questione, sul piano del diritto, appare chiara. Pensa che il governo stia sfidando la magistratura? Il governo gestisce come meglio ritiene le politiche migratorie. I giudici, d’altra parte, non possono che garantire i diritti delle persone. Questo è, semplicemente. Peraltro si tratta di un’affermazione che dovrebbe fare qualsiasi esponente politico. Sull’apertura della pratica a tutela per Gattuso davanti al Csm, Magistratura indipendente prima non ha firmato il documento condiviso da tutti gli altri, poi ne ha presentato uno suo… Credo sia il momento dell’unità a difesa della giurisdizione. Mi spiace che alcuni non lo capiscano o lo capiscono in ritardo. A gennaio si rinnoverà il comitato direttivo centrale dell’Anm. Quanto c’è di elettorale in questa mossa di Magistratura indipendente? Bisognerebbe chiederlo a loro. A prescindere dagli interessi elettorali, comunque, voglio ribadire che questo è il momento dell’unità di chi esercita la giurisdizione, dei magistrati, degli avvocati, degli operatori del diritto, per testimoniare che nessuna maggioranza politica, nessun interesse nazionale può sacrificare i diritti e le garanzie fondamentali delle persone, che spetta a magistrati ed avvocati difendere, al di là di ogni consenso o mandato popolare. Dannoso e inutile: la “truffa” del pacchetto sicurezza di Francesco Petrelli* L’Unità, 5 novembre 2024 Mai si era inciso così pesantemente sui rapporti fra libertà e autorità, fra Stato e cittadino, facendo assumere al diritto penale i tratti di un “diritto penale del nemico”. La sicurezza è una questione seria. È elemento centrale per ogni collettività e costituisce una condizione fondamentale per la vita di una democrazia. Ma è proprio per questo motivo che i cittadini non dovrebbero essere presi in giro quando si parla di sicurezza. È invece proprio questa sua centralità che espone questo tema alla strumentalizzazione politica. Se la sicurezza è da un lato un dato oggettivo, dall’altro è anche un sentimento collettivo e, come tale, una percezione facilmente condizionabile. È infatti sufficiente l’enfatizzazione di notizie di eventi criminali ad aumentare la percezione dell’insicurezza. Ma capita anche che, come accertato da recenti studi, lo stesso annuncio da parte di un governo della introduzione di norme contro la criminalità finisca con l’incrementare il senso di insicurezza dei cittadini, così instaurando pericolosi cortocircuiti. Quasi sempre le politiche giudiziarie sono condizionate da questi scenari e prediligono per questo motivo interventi di tipo populistico e simbolico, orientati ad alimentare il circuito vizioso della insicurezza, dell’immagine di città assediate dal crimine, per poi formulare la promessa di rassicuranti interventi securitari. La sicurezza in senso oggettivo degrada così a sfondo irrilevante, sia perché bisognosa di risorse umane ed economiche per il suo mantenimento sia perché gli aumenti di pena, l’introduzione di nuove aggravanti e la creazione di nuovi reati, magari ispirati all’ultimo fatto di cronaca, sono invece a costo zero e al tempo stesso creano un notevole consenso politico. Se pure è vero che il nostro Paese ha conosciuto nel tempo tutta una serie di pacchetti sicurezza più o meno inseriti all’interno di questa logica perversa, il pacchetto ora all’esame del Senato si pone davvero contromano rispetto tutti i principi del buon senso e del diritto. I reati che turbano la nostra coscienza collettiva non sono, infatti, reati maturati in contesti di criminalità ma vicende che ci interrogano sui fenomeni del disagio sociale, familiare e minorile, sui loro rapporti con la crisi dell’educazione. Fenomeni che hanno evidentemente bisogno di cure diverse da quelle della repressione. Complessivamente il nostro Paese conosce al contrario un periodo di riduzione del numero dei reati, specialmente dei reati più gravi ed anche i fenomeni illeciti di minor gravità hanno dimensioni ben più contenute che in altri paesi europei, sia nella provincia che nei contesti metropolitani. Eppure, mai un pacchetto sicurezza aveva introdotto nel suo insieme un numero così spropositato di aumenti di pena e di aggravanti, con norme così manifestamente in contrasto con tutti i principi costituzionali che dovrebbero governare il diritto penale: proporzionalità, eguaglianza, offensività e determinatezza. Mai un pacchetto sicurezza si era orientato in particolare a colpire, criminalizzandoli, proprio i fenomeni del disagio e della marginalità sociale insieme a quelli del dissenso politico. Le occupazioni abusive di immobili, gli imbrattamenti di edifici, le interruzioni del traffico, l’accattonaggio, assumono una improbabile centralità nel disegno repressivo, sebbene si tratti di forme di illecito che hanno bisogno piuttosto di risposte nel campo della buona ordinaria amministrazione, e di rimedi diversi dalla minaccia del carcere o dell’aumento dei poteri della polizia giudiziaria. Mai era accaduto in passato che condotte ritenute tipicamente inoffensive come la resistenza passiva o la disobbedienza venissero criminalizzate, equiparandole ad ogni altra condotta di violenza o di minaccia, tanto da integrare il reato di rivolta punito con pene altissime, sia nelle carceri che nei luoghi di detenzione amministrativa. Un’attenzione perversa quella così dimostrata per i luoghi di privazione della libertà, che versano in una condizione disperata a causa della piaga del sovraffollamento, nei quali spesso l’assistenza psichiatrica e sanitaria e il trattamento stesso sono un sogno, e che avrebbero dunque bisogno di ben altri interventi d’urgenza. Mai si era escogitata una aggravante così irragionevole come quella “ferroviaria” che aumenta le pene, per qualsiasi reato, se commesso all’interno o nelle adiacenze di quelle strutture. Resta un mistero la regola criminologica per cui, ad esempio, una omissione di atti d’ufficio sia più grave se commessa sotto una pensilina ferroviaria, piuttosto che in un ministero. Mai si erano consentiti daspo urbani così estesi e limitativi di libertà fondamentali fondati su dati così incerti o misure vessatorie come quelle dei migranti privi di permesso di soggiorno, privati dell’elementare diritto di comunicazione. Mai si erano attribuiti aggravamenti di pena così sproporzionati per i reati commessi ai danni della polizia giudiziaria, ritenuti inutili dagli stessi sindacati di polizia, consapevoli che non sono gli aumenti di pena a fungere da deterrente. Mai si era pensato di smantellare quel sacrosanto divieto, previsto dallo stesso codice Rocco, di incarcerare donne incinte e madri di prole in tenera età. Mai, insomma, si era inciso così pesantemente sui rapporti fra libertà e autorità, fra Stato e cittadino, facendo assumere al diritto penale i tratti di un “diritto penale del nemico”, profondamente illiberale, intimidatorio e autoritario, che ha come obbiettivo il “tipo d’autore”: occupante, manifestante, imbrattatore, disubbidiente, irregolare... Ma ciò che più è grave è che si tratta di una “truffa delle etichette”, si tratta cioè di norme del tutto irrazionali, che mentre devastano gli equilibri già precari del nostro diritto penale, si dimostrano sostanzialmente inutili in quanto incapaci di rispondere alle vere esigenze del Paese, di incidere sulle vere aspettative di sicurezza dei cittadini, fatte di prevenzione, di presenza e di presidio nelle strade, di carceri umane che garantiscono la risocializzazione dei condannati, di rimozione dei motivi del disagio sociale. *Presidente dell’Unione camere penali italiane “Il ddl sicurezza colpisce i più deboli e criminalizza l’emarginazione” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 novembre 2024 Stamattina a Roma l’Unione delle Camere Penali italiane ha organizzato una manifestazione nazionale alla quale parteciperanno membri dell’Avvocatura e dell’Accademia per un confronto sul ddl sicurezza, approvato alla Camera e ora in discussione al Senato, al fine di sollecitare il Parlamento ad adottare tutte le opportune modifiche alle norme del pacchetto in senso conforme alla Costituzione. Ne parliamo con il presidente Francesco Petrelli. Avvocato partiamo prima però dalla più stretta attualità: come giudica gli attacchi ai magistrati che hanno assunto decisioni non gradite al Governo? I conflitti fra poteri dello Stato sono fisiologici e si verificano in tutte le democrazie liberali. Il problema è che nel nostro Paese quelli fra politica e magistratura sembrano essere solo inutili scontri di natura muscolare che non producono alcun serio confronto. Il problema è che questi scontri finiscono con il lasciare sullo sfondo quelli che sono i veri problemi della giustizia e, nel caso dell’Albania, i diritti e le garanzie dei più deboli, dei migranti richiedenti asilo. Si tratta di diritti, come quello di libertà e di difesa, che hanno diretta tutela costituzionale, assieme al diritto alla protezione internazionale. La magistratura sta facendo opposizione politica o sta esercitando le sue funzioni per garantire i diritti di tutti? La magistratura subisce da troppo tempo la tentazione di svolgere un ruolo che va oltre quello dell’esercizio della giurisdizione e di ricercare un indebito consenso a legittimazione dell’esercizio del suo potere. Chi esercita tuttavia un potere così straordinario, capace di incidere profondamente sulla vita stessa di tutti i cittadini, deve aver cura nelle sue esternazioni e nelle sue posture pubbliche di essere e di apparire imparziale e non mosso da finalità politiche. Non basta che i provvedimenti di un magistrato siano corretti, perché nessuna decisione si pone come un risultato scientifico inoppugnabile al riparo dall’arbitrio, ma è sempre inevitabilmente intrisa di valori metagiuridici. È per questo motivo che una decisione deve anche apparire imparziale e per esserlo deve soprattutto apparire tale chi ne è l’autore. A proposito di diritti, molti osservatori stanno evidenziando che il ddl sicurezza va a punire le fasce più deboli - migranti, detenuti, meno abbienti. Condivide? Abbiamo svolto da subito questa critica al “pacchetto sicurezza” perché molte norme sembrano ispirate al “diritto penale del nemico”, volte a colpire determinate categorie di persone: il manifestante, l’imbrattatore, l’occupante, l’irregolare. Si tratta di norme che finiscono con il criminalizzare l’emarginazione, il disagio sociale e lo stesso dissenso, colpendo con lo strumento penale situazioni di marginalità che trovano origine altrove e che dovrebbero trovare soluzione nella rimozione delle sue cause e nella prevenzione. Il rimedio penale si rivela in questi casi sproporzionato e sostanzialmente inutile. Qual è l’obiettivo di questa tre giorni di astensione e dell’incontro di martedì? Questo disegno di legge confligge radicalmente con quelli che sono i fondamenti costituzionali del diritto penale liberale. Con la nostra astensione e con la manifestazione nazionale indetta a Roma per il 5 novembre, vogliamo indurre il Senato ad una riflessione sui limiti di costituzionalità delle singole norme e sulla loro inutilità rispetto al presunto fine della maggior sicurezza dei cittadini. Gli aumenti di pena sono storicamente e statisticamente incapaci di agire quale deterrente. In sede di audizione, gli stessi sindacati di Polizia hanno espresso tale opinione. L’introduzione di nuovi reati e di nuove aggravanti finisce con il rendere il nostro sistema ancor più farraginoso e privo di logica. Si pensi all’aggravante comune introdotta per tutti i reati indistintamente se commessi all’interno di stazioni o metropolitane. Non è dato comprendere per quale ragione una omissione di atti d’ufficio commessa sotto la pensilina di una stazione, anziché in un Ministero, dovrebbe essere punita più gravemente. Che dire, infine, della regola umiliante e puramente vessatoria che impedisce a chi non sia in regola con il permesso di soggiorno di poter fruire del fondamentale diritto alla comunicazione. Verificheremo con il contributo della migliore Accademia la tenuta di queste norme e la loro compatibilità con i principi della nostra Costituzione. Sotto quali profili rileva possibili elementi di incostituzionalità delle norme in discussione? Le norme entrano in rotta di collisione con i principi fondamentali della ragionevolezza, della determinatezza, della offensività, della proporzionalità e dell’eguaglianza. Alcune norme riescono a confliggere con tutti questi principi insieme. Si pensi alla norma che punisce, come atto di rivolta, con pene del tutto sproporzionate, la semplice resistenza passiva del tutto inoffensiva, posta in essere da un detenuto, in base alla valutazione di un non meglio definito “contesto”, in contrasto con il principio di determinatezza. Il fatto che la pena si applichi solo a coloro che sono detenuti in carcere e, peggio ancora, a coloro, che senza colpa e senza reato, sono detenuti in un centro di rimpatrio, viola manifestamente anche il principi di eguaglianza e di ragionevolezza. Anche diversi magistrati auditi nelle Commissioni competente hanno espresso perplessità, a partire dall’Anm. Avete invitato anche una loro rappresentanza per rafforzare un messaggio unitario? All’esito della nostra manifestazione faremo circolare un documento da inviare al Parlamento che potrà essere sottoscritto da chiunque si ritroverà nei valori e nelle idee che ci hanno sostenuto in questa importante iniziativa. Ne faremo poi invio anche al Presidente della Repubblica. Secondo lei ci saranno margini di modifica da parte della maggioranza dopo tutte le criticità evidenziate? Le critiche emerse nel corso delle stesse audizioni sono state così estese e tanto condivise che non vedo come non se ne possa tenere conto. Ma al centro del messaggio che intendiamo mandare all’intera opinione pubblica ed anche al mondo dell’informazione è la nostra convinzione che, al di là di tutte le critiche di natura tecnica che possono essere elevate nei confronti di questa legge, si tratti di norme del tutto inutili che non aumenteranno in alcun modo la sicurezza dei cittadini, di una vera e propria “truffa delle etichette” che deve essere svelata. La separazione delle carriere non si può battezzare come la “legge Falcone” di Liana Milella La Repubblica, 5 novembre 2024 Come hanno detto più volte Spataro e Grasso il giudice ucciso a Capaci ragionava sulle conseguenze del codice Vassalli e chiedeva una maggiore specializzazione dei pm. Giù le mani da Falcone. Non si può reagire in altro modo leggendo l’incredibile forzatura del quotidiano Il Giornale di battezzare come “legge Falcone” la separazione delle carriere. L’ha proposta, con un editoriale del primo novembre, il direttore Alessandro Sallusti. Ed è diventata la “riforma Falcone” nei titoli successivi. Prima che diventi la “riforma Falcone” per tutto il centrodestra meglio mettere subito i puntini sulle “i”. I morti si rispettano e non si strumentalizzano. Soprattutto perché non possono reagire. Dovrebbe essere una regola che vale per chiunque, una massima di civiltà. Ma bisogna prendere atto che, tra i partiti di governo, non è così. Evidentemente la destra di questa povera Italia dev’essere davvero in difficoltà se ricorre a simili stratagemmi e se se la cava rampognando di continuo i magistrati etichettandoli come “toghe rosse”, anche se a protestare sono tutti, anche quelli che, ad adottare il metodo e il linguaggio della destra, dovrebbero essere definiti come toghe “nere”, oppure toghe “grigie”. In questa stagione politica si comincia a sentire il sapore dell’olio di ricino… Che la destra si fermi. Subito. La separazione delle carriere firmata dal Guardasigilli Carlo Nordio non può essere strumentalizzata, né tantomeno passare alla storia, come l’ipotetica separazione di cui, oltre sei lustri fa, avrebbe teoricamente parlato Giovanni Falcone. Isolando poche frasi, ignorandone il contesto storico e giuridico. Una vera truffa delle etichette. Per l’esattezza, come ha ricordato l’ex procuratore di Torino Armando Spataro, che faceva parte della stessa corrente di Falcone, il Movimento per la giustizia, in un documentato articolo sul Foglio del 28 maggio di quest’anno, far diventare Falcone il teorico della separazione delle carriere è frutto di “un’interpretazione errata di frasi estrapolate da un contesto ben più ampio”. Che compare, in 12 pagine, nei capitoli 22 e 23 di un libro, che Spataro considera “importante”, dal titolo “Giovanni Falcone, interventi e proposte 1982-1992” pubblicato postumo dall’editore Sansoni. Ebbene, proprio una lettura “completa” di quelle pagine, come testimonia Spataro, “dimostra che Falcone teorizzava in realtà in modo assolutamente condivisibile la necessità di una più accentuata specializzazione del pubblico ministero nella direzione della polizia giudiziaria, rispetto a quanto era richiesto nel regime vigente prima del codice di rito del 1988”. Proprio Falcone diceva che questa questione avrebbe meritato “l’approfondimento di tutte le possibili implicazioni”, il che, secondo Spataro, “dimostra che non stava prendendo posizione, ma aveva voluto porre sul tappeto il problema del funzionamento della giustizia nel nuovo assetto che il codice di procedura penale aveva riservato al pubblico ministero”. Inoltre lo stesso Spataro testimonia che “in numerose occasioni Falcone aveva spiegato di non condividere la necessità di separare le carriere di giudicanti e requirenti all’interno della magistratura” perché “egli credeva solo che con l’avvento del nuovo codice e l’abolizione della figura del giudice istruttore vi fosse l’accentuato bisogno di un sapere specialistico e che le conoscenze necessarie a un pm per svolgere efficacemente il suo lavoro non coincidessero certo con quelle del giudice”. Il che, chiosa sempre Spataro, “è sacrosanto e comporta la necessità di prevedere non la separazione delle due carriere, ma fasi di approfondito aggiornamento nel caso di riconversione professionale dal giudice a pubblico ministero e viceversa”. Una ricostruzione limpida a fronte di una strumentalizzazione politica inaccettabile. Già Nordio, presentando la riforma a palazzo Chigi il 29 maggio, aveva parlato di un Falcone che “voleva” la separazione. E dopo il niet di Spataro, ecco quello dell’ex giudice istruttore del maxi processo Piero Grasso in un’intervista a Repubblica del 31 maggio. “Falcone non voleva affatto la separazione. E le spiego perché. Con la riforma Vassalli il pm aveva assunto le funzioni che fino a quel momento erano state del giudice istruttore. Una figura che scompare. In vista del nuovo sistema, Falcone riteneva necessaria una maggiore specializzazione e professionalità del pm che doveva assumere compiti del tutto nuovi a partire dalla direzione delle indagini. Ma non ha mai ipotizzato di escludere il pm dall’ordine giudiziario. Anzi, ha preteso che nelle nuove funzioni fosse garantita la sua autonomia e indipendenza”. Un’interpretazione che combacia perfettamente con quella di Spataro. E che non è stata mai smentita, se non da chi, nel centrodestra politico e giuridico, vuole portare acqua alla presunta riforma coinvolgendo Falcone che non c’è più e quindi può essere tranquillamente strumentalizzato. Per questo la risposta a chi oggi vorrebbe spingersi addirittura a battezzare questa riforma col nome di Falcone può essere solo una: “Già le mani da Falcone”. Riforma della giustizia, magistrati e giuristi in pensione si schierano contro il Governo di Elisa Barresi ilreggino.it, 5 novembre 2024 “Gravi segnali di Stato autoritario”. Manifestano “fermo dissenso rispetto a questa deriva, esprimendo vicinanza ai giudici oggetto di gravi ed ingiustificati attacchi e ribadendo che solo una giurisdizione libera e indipendente”. La riforma della Giustizia continua a tenere l’intero paese con il fiato sospeso. La posizione netta del Governo ha suscitato le reazioni di tutti gli attori del settore giustizia. E non sono rimasti in silenzio coloro i quali hanno segnato e in parte scritto la storia della giustizia italiana. Ormai in pensione, ma seriamente preoccupati dalle posizioni governative, 192 tra magistrati, civilisti e penalisti, in pensione e, prima ancora, come cittadini “esprimiamo preoccupazione per i tentativi dell’attuale maggioranza politica di modificare in senso autoritario la forma di Stato delineata dalla Carta costituzionale e di incidere sul fondamentale principio della separazione dei poteri”. Quella assunta sarebbe, secondo chi detiene la memoria storica del paese, un tentativo che potrebbe intaccare i valori costituzionali. “Il dirottamento e la restrizione fuori dal territorio del Paese di immigrati che tentano di trovare scampo da violenze, povertà e disagi, nella ricerca di quella vita dignitosa e tranquilla che costituisce diritto primario di ogni essere umano; le manifestazioni di insofferenza verso giornalisti non allineati alle politiche governative; gli attacchi sempre più frequenti nei confronti di magistrati che nell’esercizio delle loro funzioni emettono provvedimenti non graditi in materia di immigrazione, costituiscono soltanto alcuni e gravi segnali di questa progressiva trasformazione”. Non solo la separazione delle carriere. Anzi, ad essere analizzati sono “gli attacchi ai magistrati si accompagnano ormai con sempre maggior frequenza ad atti inqualificabili di profilazione e dossieraggio, per il cui tramite alla critica ragionata e motivata dei provvedimenti (sempre possibile in uno stato democratico riguardo all’esercizio di qualunque pubblica funzione) vengono sostituiti lo scherno e la denigrazione delle persone che li hanno pronunciati, alterando la realtà dei fatti ed il significato delle norme, e del tutto incuranti della circostanza che anche la rappresentazione alterata dei fatti e delle norme può produrre come effetto quello di aprire un solco sempre più profondo tra i giudici e la collettività”. In pensione ma “appartenenti noi pure a quel popolo, titolare della “sovranità” cui fa riferimento l’art. 1 della Carta fondamentale, una sovranità che va sempre esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione, intendiamo manifestare fermo dissenso rispetto a questa deriva, esprimendo vicinanza ai giudici oggetto di gravi ed ingiustificati attacchi e ribadendo che solo una giurisdizione libera e indipendente è in condizione di garantire che il relativo esercizio possa esplicarsi a favore di tutti e nei confronti di tutti senza distinzione, anche nei confronti di quanti detengono il potere politico, rispetto alla legalità non esistendo e non potendo esistere zone franche. Gli atti del governo, e le stesse leggi, debbono essere conformi alla Costituzione e alle regole dell’ordinamento sovranazionale che anche i governi sono tenuti a rispettare, e che i giudici, nella funzione istituzionale di interpretazione della legge, hanno il compito ed il dovere di applicare, assicurando per quanto compete alla giurisdizione il rispetto della legalità”. Criteri di priorità, il Parlamento verso il voto di un atto di indirizzo di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 5 novembre 2024 Tra i temi da affrontare, le comunicazioni alle Camere sull’amministrazione della giustizia e l’attività di vigilanza del pg sull’applicazione della norma. “Sono rimasto molto stupito dalle polemiche, apparse in questi ultimi giorni sulla stampa, da parte di alcuni illustri magistrati (Edmondo Bruti Liberati e Giuseppe Maria Berruti, ndr) riguardo i criteri di priorità per il perseguimento dei reati”, afferma il senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia a Palazzo Madama ed ex componente del Consiglio superiore della magistratura. “Leggo - prosegue Zanettin - giudizi particolarmente severi su questo argomento quando invece già la legge Cartabia, votata nella scorsa legislatura anche dal Partito democratico e dal Movimento 5 stelle, vi aveva messo un punto fermo, stabilendo che fosse il Parlamento a stabilire quali reati dovessero avere una sorta di corsia preferenziale”. E proprio per superare l’iniziale inerzia del Parlamento, che solo nei prossimi giorni si voterà un “atto d’indirizzo” per definire i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, lo scorso anno Zanettin aveva anche presentato un ddl per dare finalmente attuazione a quanto indicato proprio dalla riforma penale dell’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia. Zanettin, in particolare, aveva previsto una modifica alle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, insistendo sul fatto che il pm dovesse “conformarsi” ai criteri di priorità inseriti nei progetti organizzativi delle singole procure. Il tema della definizione di criteri di priorità non è quindi una novità di questi giorni essendo da anni, prima ancora dell’approvazione della riforma Cartabia, oggetto di un acceso dibattito. I fautori dei criteri di priorità avevano sempre sottolineato la necessità di rendere trasparenti e controllabili le scelte discrezionali che il pm deve compiere nella fase delle indagini preliminari e al momento dell’esercizio dell’azione penale. Ad avvalorare ciò, la constatazione - difficilmente smentibile - che l’obbligatorietà dell’azione penale, pur prevista della Costituzione, è di fatto irrealizzabile visti i carichi di lavoro dei pm. La legge Cartabia aveva dunque chiuso il cerchio, colmando la lacuna normativa ed indicando appunto nella delega la previsione di una legge che definisse i criteri di priorità dell’azione penale, al fine di introdurli in modo stabile nel sistema. Per la cronaca, già la Relazione finale della Commissione di riforma Lattanzi aveva sottolineato la “necessità di inserire il canone dell’articolo 112 della Costituzione (in base al quale “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”) in una cornice di coerenza con la concreta mole delle notizie di reato”, al fine di “garantire trasparenza nelle scelte che si rendono necessarie per dare effettività al principio di obbligatorietà”. Recependo queste indicazioni, la legge Cartabia ha allora previsto, per “garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale”, che “gli uffici del pubblico ministero, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre”. Inoltre era stata evidenziata la necessità dell’allineamento della procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure a quella delle tabelle degli uffici giudicanti. Durante le audizioni, pur con sfumature diverse, tutti gli auditi si erano dichiarati favorevoli. Gli avvocati delle Camere penali, ad esempio, fin da subito avevano apprezzato la riforma. “La scelta di regolare con legge ordinaria i criteri generali di priorità dell’azione penale deriva dalla presa d’atto dell’inattuabilità del principio di obbligatorietà dell’azione penale e dalla necessità di sottrarre alla discrezionalità priva di controllo delle procure della Repubblica scelte di politica criminale, che necessitano di trasparenza e di legittimazione democratica e in questo senso, non può che essere accolta positivamente”, dissero i penalisti in audizione. In attesa che il Parlamento si esprima, Zanettin, circa la formazione dei ruoli di udienza e trattazione dei processi, tra quelli ai quali va assicurata priorità assoluta, ha indicato anche la “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, le “lesioni personali a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive, nonché a personale esercente una professione sanitaria o sociosanitaria e a chiunque svolga attività ausiliarie ad essa funzionali”, la “costrizione o induzione al matrimonio”. “Anche l’Ordinamento giudiziario dovrà in qualche modo essere toccato dalla riforma: uno dei temi da affrontare riguarderà infatti le comunicazioni alle Camere sull’amministrazione della giustizia, con l’applicazione dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, e la conseguente attività di vigilanza del pg con la verifica dell’applicazione dei criteri di priorità”, conclude Zanettin. Giustizia. La priorità è coprire gli organici di Riccardo Ferrante* La Repubblica, 5 novembre 2024 Nelle scorse settimane abbiamo assistito all’ennesimo scontro istituzionale tra governo e magistratura, con discesa in campo del Ministro competente per materia, l’ex Magistrato Carlo Nordio, ma anche della presidente del Consiglio. La eco mediatica è stata ampia, le prese di posizione si sono sprecate. Ma siamo sicuri che - parlando di giustizia - per il cittadino comune il tema più importante sia proprio il destino processuale dei politici? O la polemica con qualche (ipotetica) toga rossa? Azzardiamo: forse è più preoccupato di dover aspettare una sentenza civile definitiva per decenni; magari è più spaventato dal rimanere appeso a un procedimento penale con indagini senza conclusione per anni. E altre piacevolezze del genere. In Liguria la situazione non è migliore che altrove e i primi a saperlo sono proprio magistrati e avvocati. È di questi giorni l’ennesimo grido d’allarme lanciato dal Consiglio giudiziario del Distretto della Corte d’Appello di Genova (che, territorialmente, va da Imperia a Massa), in estrema sintesi un’articolazione locale del Consiglio Superiore della Magistratura col compito di istruire una serie di questioni attinenti all’ordinamento giudiziario. Vi partecipano rappresentanti delle due categorie di operatori della giustizia di cui si è già detto, e dell’Università (al momento rappresentata da chi scrive). Tra il resto, il Consiglio svolge importanti compiti di “vigilanza” sulla condizione degli uffici giudiziari: lasciando da parte il tema della copertura degli organici dei magistrati, il tema è drammatico sul fronte del personale amministrativo. Fatta la media tra le varie sedi giudiziarie del Distretto, i PM si trovano a lavorare con una scopertura di personale amministrativo del 34%, mentre i giudici sono al 41%. Con dei picchi realmente impressionanti: l’ufficio di Sorveglianza di Massa ha una scopertura del 78%; per rientrare in regione Liguria, il Tribunale di Imperia lavora avendo a disposizione solo il 50% del personale amministrativo necessario, e la Corte d’Appello col 48% in meno. Può essere pure che il grande problema delle procure in Italia sia la loro politicizzazione, ma forse andrebbe considerato che gli uffici requirenti a Massa hanno una scopertura di amministrativi del 50%, a Savona del 42% e a Genova del 35%. Presso gli uffici giudicanti del Distretto i cancellieri, figura cruciale, sono il 30% di quelli effettivamente necessari. Elisabetta Vidali, presidente della Corte d’Appello, ricorda oggi con riferimento a tutto il Distretto: “Ho indirizzato al Ministero numerose richieste per la copertura dei posti vacanti, ma dopo un iniziale assenso e incoraggiamento nessuna risposta è mai pervenuta”. La situazione è aggravata dal fatto che “non pochi ‘migrano’ presso le Agenzie (Dogane, Finanze) dove trovano migliori retribuzioni e migliori opportunità di carriera”. Ovviamente la crisi della giustizia è provocata anche da altri fattori, dalle sacche di inefficienza a un sistema di giustizia telematica più croce che delizia per operatori e utenti, e così via. Dopo le ultime dichiarazioni di ANM, in appoggio ai colleghi bolognesi sul caso ‘paesi sicuri’, una parte della maggioranza di governo è intervenuta ruvidamente: “Rinnoviamo l’auspicio che i magistrati si ritaglino del tempo anche per lavorare”. Ineccepibile. Ma preoccuparsi seriamente degli strumenti per farli lavorare effettivamente, renderebbe l’auspicio un po’ meno retorico. *Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Genova Il Tar rinvia alla Consulta su effetti sospensivi interdittiva antimafia dopo controllo giudiziario di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2024 Nella fase di aggiornamento dell’informativa antimafia il giudice amministrativo si chiede se sia legittimo che la misura adottata non dispieghi effetti di sospensione dell’impedimento a contrarre con la Pa. Il Tar della Calabria ha sollevato la questione di legittimità costituzionale sull’affermazione o meno degli effetti sospensivi dell’ammissione al controllo giudiziario sulla informativa antimafia. Lo ha fatto con l’ordinanza n. 646/2024 nell’ambito di una controversia tra un’impresa colpita da interdittiva e poi ammessa al controllo giudiziario contro la committente di un appalto di cui le era stata negata la possibilità di eseguire i lavori perché appunto era stato ritenuto che l’interdittiva non avesse comunque perso l’effetto ostativo. Nell’ambito del giudizio è stato perciò sollevato il dubbio di legittimità costituzionale sulla questione ritenuta dai giudici amministrativi rilevante e non manifestamente in relazione all’articolo 34-bis, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011 n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione). L’esame costituzionale verterà sulla compatibilità della norma con gli articoli 3, 4, 24, 41, 97, 111, 113 e 117, comma 1, della Costituzione (quest’ultimo in relazione agli articoli 6, 8 e 13 della Cedu e 1 del primo protocollo addizionale) nella parte in cui non prevede che la sospensione degli effetti dell’interdittiva conseguente all’ammissione al controllo giudiziario perduri anche con riferimento al tempo, successivo alla sua cessazione, occorrente per la definizione del procedimento di aggiornamento ex articolo 91, comma 5, del codice antimafia. Ci si riferisce al momento in cui va aggiornato l’esame condotto dal prefetto che - come recita la norma - “aggiorna l’esito dell’informazione al venir meno delle circostanze rilevanti ai fini dell’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa”. Nel caso concreto la società - a seguito di informativa - aveva presentato domanda di ammissione al controllo giudiziario cosiddetto “volontario” ai sensi dell’articolo 34 bis, comma 6, del Dlgs 159/2011, che veniva accolta dal Tribunale di Reggio Calabria per la durata di un anno. In fase di controversia il giudizio d’appello veniva sospeso in attesa della conclusione del controllo giudiziario e veniva così conseguita - per effetto dell’ammissione all’anzidetta misura di sorveglianza prescrittiva - l’iscrizione nella cosiddetta “white list” tanto che la società partecipava a una procedura negoziale risultandone aggiudicataria. Dunque, a seguito della verifica positiva dei requisiti di legge concluso il contratto d’appalto, l’esecuzione dello stesso prendeva ritualmente avvio. La sottoposizione dell’impresa al controllo giudiziario veniva frattanto prorogata. Nelle more dell’esecuzione dell’appalto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, fissava la nuova trattazione del giudizio anteriormente alla conclusione del controllo giudiziario e accoglieva l’appello del Ministero dell’Interno, riformando integralmente la sentenza impugnata e respingendo il ricorso di primo grado proposto avverso l’interdittiva. A seguito della pronuncia in questione, la stazione appaltante comunicava alla società ricorrente l’avvio del procedimento per la risoluzione del contratto d’appalto in corso, ritenendo tale iniziativa dovuta “in conseguenza di quanto disposto dal Consiglio di Stato, il quale in riforma della sentenza di primo grado ha confermato la persistenza dei presupposti dell’informazione interdittiva antimafia emessa dalla Prefettura calabrese”. Va sottolineato che essendo la sentenza immediatamente esecutiva e avendo natura interdittiva l’informativa prefettizia essa ha carattere vincolante per la stazione appaltante alla quale non è consentita alcuna possibile valutazione discrezionale, in merito al suo contenuto. L’interdittiva antimafia determina infatti l’incapacità a contrarre e il difetto dei requisiti. Situazione a cui appunto la stazione appaltante non può aggiungere alcuna ulteriore considerazione di opportunità o di proroga della misura del controllo. Emilia Romagna. Roberto Cavalieri: “Aumentano i suicidi in carcere, come prima dell’indulto” zic.it, 5 novembre 2024 Il Garante regionale dei detenuti: il 2024 “rischia di essere l’anno più disastroso” in Emilia Romagna, paragonabile al 2005, l’anno prima che il governo decidesse un atto di clemenza per ridurre il sovraffollamento. Negli ultimi 22 anni nelle carceri dell’Emilia-Romagna si sono suicidate 80 persone: “Nel 2022 sono state sette, nel 2023 cinque e nel 2024 già sette”, registra il garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri, intervenuto nei giorni scorsi a un convegno promosso dalla Camera penale. “Questo rischia di essere l’anno più disastroso, ricordando i nove suicidi del 2005. L’anno successivo, non a caso, ci fu l’indulto”, ha aggiunto il garante. In Italia da gennaio ci sono stati 79 suicidi, secondo il conteggio dell’Unione Camere Penali e fino all’ultimo di cui si è appreso, nella notte tra venerdì e sabato a Santa Maria Capua Vetere. La popolazione carceraria complessiva di è 61.900 persone, quindicimila oltre la capienza regolare. L’8% dei 3700 detenuti dell’Emilia-Romagna ha manifestato disagi e tendenze autolesioniste fino al suicidio. Inoltre, il Garante regionale evidenzia il problema dello “stato di povertà dei detenuti, che nella stragrande maggioranza ha zero euro” e quindi “nemmeno può fare telefonate”. Il presidente della Camera penale, Nicola Mazzacuva, ha collegato l’incremento dei suicidi a un generale “avvitamento punitivo e repressivo” e invocato “misure che possano ridurre le pene applicate, che sono proprie del diritto penale. Quindi, ad esempio, l’amnistia, l’indulto, il condono, la depenalizzazione dei reati minori, i quali comunque generano procedimenti penali e creano tempi processuali molto lunghi”. Sicilia. Lavoro per 180 detenuti: ecco il progetto “Jail to Job” sicilia.confcooperative.it, 5 novembre 2024 Si basa su un percorso di inclusione innovativo il progetto “Jail to Job” che mira a formare 540 persone. Tra gli attori di quest’importante iniziativa, la cooperativa sociale “L’Arcolaio”. Per la Sicilia, il progetto riguarda l’Ucciardone, Cavadonna e le carceri di Noto ed Augusta.Per la Campania, invece, figura Secondigliano. Un percorso di inclusione socio-lavorativa per 540 persone. L’obiettivo è arrivare a 180 contrattualizzazioni. Questo in sintesi quanto prevede il progetto “Jail to Job”, che vede impegnata la Cooperativa L’Arcolaio di Siracusa ed è promosso dalla cooperativa sociale Rigenerazioni Onlus di Palermo, con il coinvolgimento della cooperativa Lazzarelle di Napoli ed il sostegno della Fondazione San Zeno. Il progetto, della durata di tre anni, propone un modello innovativo di politiche del lavoro per persone che scontano la loro pena negli istituti penitenziari Ucciardone di Palermo, Cavadonna di Siracusa, nelle carceri di Noto, Augusta e Pagliarelli Lorusso e Secondigliano. Coinvolti anche i servizi di esecuzione penale esterna di Siracusa, Palermo e Napoli, con il supporto dei Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria di Sicilia e Campania. L’auspicio della coordinatrice del progetto, Nadia Lodato, è che “la collaborazione con partner di consolidata esperienza sul campo, come L’Arcolaio e Lazzarelle, possa stimolare altre realtà del privato sociale ad agire in ambienti complessi come il carcere, favorendo benessere individuale e collettivo e sostenendo processi di Giustizia di Comunità”. “Crediamo nel valore della responsabilità sociale condivisa- aggiunge Adriana Anzelmo de L’Arcolaio - Da oltre vent’anni promuoviamo l’inserimento socio-lavorativo per chi è in esecuzione penale, riconoscendo come il lavoro contribuisca alla riabilitazione e alla riduzione della recidiva.” “Il lavoro diventa un modo per immaginarsi di nuovo. Per sentirsi capaci, riconosciuti, apprezzati come persone, prima che come lavoratori. L’opportunità concreta di tessere una nuova storia “, riporta Rita Ruffoli, direttrice di Fondazione San Zeno. Imma Carpiniello della Cooperativa Lazzarelle, infine mette in evidenza l’aspetto legato ai percorsi di inclusione per le donne detenute, “che possano riacquisire dignità e autonomia. Sono spesso le persone più vulnerabili del sistema penitenziario e sociale e con queste attività possono scoprire e sviluppare le proprie potenzialità”. Trento. La Garante dei detenuti: “Nel corso del 2024 raggiunte più volte le 380 presenze” L’Adige, 5 novembre 2024 Sempre più le donne presenti. Preoccupa la carenza dell’organico, in particolare di agenti di polizia penitenziaria. Nell’ultimo anno nella Casa circondariale di Trento sono diminuiti gli atti di autolesionismo. Nel 2024 nella casa circondariale di Spini di Gardolo sono state toccate più volte punte di 380 persone presenti, con una crescita significativa in particolare delle donne presenti, che sono arrivate a raggiungere recentemente la cifra record di 53. I dati sono stati portati all’attenzione dei consiglieri provinciali e della stampa dalla garante provinciale dei diritti dei detenuti Antonia Menghini. Preoccupa anche la carenza dell’organico, in particolare di agenti di polizia penitenziaria. Positivo però - ha sottolineato Menghini - il recente arrivo di cinque nuovi funzionari giuridico-pedagogici. Dal novembre 2023 manca invece un ragioniere di cassa contabile stabile. Nell’ultimo anno nella casa circondariale di Trento sono diminuiti gli atti di autolesionismo e i tentativi di suicidio: i primi sono stati 23, i secondi cinque (fino a fine ottobre 2024). Nel 2021 si era raggiunto un picco di 90 atti di autolesionismo e 16 tentativi di suicidio, nel 2022 erano stati 75 gli atti di autolesionismo e 12 i tentativi di suicidio, mentre nel 2023 ci sono stati 84 atti di autolesionismo e cinque tentativi di suicidio. Un altro punto segnalato dalla garante dei diritti dei detenuti sono i disagi psichici tra le persone presenti in carcere. Nel primo semestre 2024 erano 83 (65 uomini e 18 donne) le persone con diagnosi psichiatriche maggiori, di cui 21 in doppia diagnosi. ????Domani in Consiglio provinciale potrebbe esserci la nomina del nuovo Garante dei diritti dei detenuti, organismo incardinato presso l’ente consiliare. Questa mattina dunque la titolare uscente, la professoressa Antonia Menghini, ha voluto relazionare sugli ultimi mesi di attività e sulla situazione carceraria in Trentino. Ad accoglierla a palazzo Trentini è stata la vicepresidente del Consiglio provinciale, Mariachiara Franzoia, che ha evidenziato la delicatezza e importanza di questa figura istituzionale posta a tutela delle persone che non hanno voce. In sala Aurora erano presenti anche la direttrice del carcere trentino, il dirigente della polizia penitenziaria, il garante dei diritti dei minori, i consiglieri provinciali Calzà, de Bertolini (promotore della mozione consiliare che chiede autonomia Pat proprio nel campo dell’assistenza ai detenuti), Parolari, Valduga e Zanella e l’assessore provinciale Mario Tonina. Il quadro tracciato dalla garante rimane molto grave, per riflesso dello stato in cui versa il settore a livello nazionale. Mancano risorse finanziarie adeguate; è drammatico e desolante il dato dei suicidi e degli atti di autolesionismo dentro le strutture detentive. È necessaria - ha affermato Menghini - una maggiore presenza delle istituzioni dentro la casa circondariale di Spini di Gardolo, la stessa magistratura di sorveglianza deve venire più spesso nel carcere e toccare con mano le situazioni. “Inesorabile” è stata definita la lenta crescita del numero di ospiti della struttura trentina e dei detenuti in Italia, con positive flessioni storiche solo dopo la sentenza Torreggiani di condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo e poi per effetto della pandemia. Menghini ha definito “improvvida” la riforma della media sicurezza del 2022 e ha poi severamente criticato il modello di custodia chiusa (nelle celle), che impedisce ai detenuti di muoversi nei corridoi di sezione. L’offerta trattamentale - ha poi annotato - è troppo ridotta e questo è un gravissimo autogol per la società civile, nella quale grande parte dei detenuti tornerà inevitabilmente in tempi non lunghi. Altro problema: il frequente invio a Trento di soggetti particolarmente problematici, “sfollati” da altri istituti di pena. La garante ha invocato più misure alternative al carcere e più ascolto dei detenuti, ha poi anche espresso preoccupazione per alcuni aspetti della normativa sicurezza in elaborazione in Parlamento (“si lasci ai detenuti la dignità di poter esprimere pacificamente i loro motivi di protesta”). A bilancio finale della propria esperienza nel ruolo, Menghini ha detto che s’è trattato di un lavoro molto faticoso anche sul piano psicologico, spesso purtroppo frustrante per le tante occasioni in cui alle segnalazioni o richieste del garante è seguito il silenzio delle autorità preposte. “A chi verrà dopo di me - ha detto - raccomando lo spirito di servizio e di proseguire nel quotidiano lavoro di confronto diretto con le vite umane costrette alla situazione detentiva”. Al termine delle relazioni l’assessore Tonina ha voluto esprimere l’apprezzamento per il lavoro svolto dalla garante in questi anni, assicurando l’attenzione del governo provinciale per le necessarie politiche di assistenza e vicinanza alla condizione dei detenuti nel carcere trentino. Trento. “Spini, fino a 380 detenuti dove i posti sono 240. Cresce l’autolesionismo” di Massimiliano Cordin Corriere del Trentino, 5 novembre 2024 La situazione nelle carceri italiane continua a peggiorare. E a dimostrarlo sono gli stessi numeri che fotografano un quadro di assoluto sovraffollamento. Ma anche di un aumento dei casi di suicidio che in Italia, in questi mesi del 2024, sono arrivati a toccare quota 77, dopo che in tutto lo scorso anno se ne erano contati ben 69. E la Casa circondariale di Spini non ne fa eccezione. Anche se, per fortuna, quest’anno non se ne sono registrati. L’ultimo, dei cinque in dieci anni, risale allo scorso novembre. A fornire un quadro completo dell’attuale situazione è stata Antonia Menghini, la garante dei diritti dei detenuti della provincia autonomia di Trento. “Siamo dinanzi ad una progressiva crescita del numero delle presenze in carcere - spiega la professoressa -. Nel 2023, sebbene il numero di posti regolamentari fossero 51.179, in Italia i detenuti erano 60.166. Mentre, il dato aggiornato al 30 settembre, ci mostra come ora siano saliti a quasi 62mila. Lo stesso vale anche per la situazione provinciale, dove si registra un continuo incremento di presenze. Ad oggi sono 372 di cui 48 donne”. Nella Casa circondariale di Spini, nel 2024, si sono toccate più volte punte di 380 persone presenti, con una crescita significativa in particolare delle donne che sono arrivate anche a raggiungere la cifra record di 53. Quando invece, nell’istituto di Spini, il numero massimo di detenuti non dovrebbe superare le 240 unità. Negli ultimi anni, poi, si è assistito ad un preoccupante ed allarmante aumento del numero degli atti di autolesionismo: nel 2022 questi sono stati 75 (e 12 i tentativi di suicidio); nel 2023, 84 (e 5 i tentativi di suicidio). Per fortuna, invece, nell’ultimo anno, sembra registrarsi un’inversione di tendenza: a fine ottobre, infatti, gli atti di autolesionismo risultano 23 e 5 i tentativi di suicidio. A questa situazione, si aggiunge poi ancora una carenza importante di personale che in provincia è individuata in circa 50 agenti di polizia penitenziaria in meno rispetto a quelli necessari. “Mancano risorse - prosegue Menghini -. In particolare nelle attività che permetterebbero il reinserimento dei detenuti. Spesso quest’ultimi, poi, hanno l’impressione di non essere ascoltati. E questo aumenta il loro disagio. Frustrazione che, devo ammettere, talvolta si prova anche nel ruolo di garante, visto che non sempre si ricevono risposte esaustive dalle istituzioni”. Alla relazione della professoressa Menghini hanno poi fatto seguito quelle della dirigente del servizio politiche sociali della provincia Federica Sartorie del collaboratore della garante, Fabrizio Gerola, che hanno illustrato il ruolo svolto dalla Provincia nel reinserimento sociale delle persone detenute e in misura alternativa e il piano d’ azione 2024-2026 di attuazione del protocollo “per il reinserimento sociale”, recentemente approvato dalla giunta provinciale. Parma. Detenuto morto durante un trasporto: medico a processo per omicidio colposo di Christian Donelli parmatoday.it, 5 novembre 2024 Si è svolta nel pomeriggio di giovedì 31 ottobre l’udienza del processo per la morte di un detenuto italiano di 48 anni, avvenuta durante il trasferimento dal carcere di via Burla a Parma alla casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, il 3 dicembre del 2018. Sul banco degli imputati il medico di guardia del carcere di Parma, dipendente dell’Ausl, che ha dato il via libera al trasporto dell’uomo in ambulanza, che è accusato di omicidio colposo. Era stato lui infatti a firmare il nulla osta per il trasferimento. Secondo l’accusa infatti il sanitario non avrebbe predisposto le misure di sicurezza necessarie per garantire l’incolumità del detenuto che aveva diverse patologie. Non avrebbe disposto, per esempio, la presenza di medici o infermieri a bordo del mezzo. Nel corso dell’udienza sono state ascoltate le testimonianze di un detenuto del carcere di Torino, presente al momento dell’arrivo del 48enne nella casa circondariale, e di un ispettore di polizia sempre del carcere Lorusso e Cutugno. Secondo l’agente quando è arrivato all’ufficio matricola - il settore dove vengono effettuate le operazioni preliminari prima dell’ingresso - il 48enne già non respirava. La prossima udienza, dove verranno ascoltate le testimonianze del medico legale, del consulente tossicologico e del medico di pneumologia dell’Ospedale di Parma, si svolgerà il 21 novembre. Il 48enne, che era stato trasferito su disposizione del Dap che, secondo quanto emerso avrebbe agito su indicazione dell’Ausl di Parma, è morto, come rivelato dall’autopsia effettuata dal medico legale, a causa di “un’insufficienza respiratoria acuta in un paziente affetto da varie tipologie, tra cui un’insufficienza respiratoria cronica, uno scompenso cardiaco cronico e una grave obesità”. La moglie, la madre e il padre del detenuto si sono costituiti parte civile nel processo. L’avvocato Monica Moschioni di Parma, che rappresenta la madre del detenuto aveva chiesto ed ottenuto la citazione nella loro qualità di responsabili civili dell’Ausl di Parma e del Ministero della Giustizia. “La sera prima del trasferimento - sottolinea l’avvocato Monica Moschioni - il detenuto 48enne, poi deceduto, era stato ricoverato d’urgenza proprio per le sue patologie respiratorie. Il Tribunale di Sorveglianza, dopo la mia richiesta, aveva disposto una perizia che avrebbe dovuto stabilire la sua compatibilità con il carcere. La decisione del suo trasferimento dal carcere di Parma al Lorusso Cotugno di Torino è avvenuta proprio mentre aspettavamo di conoscere il responso del Tribunale”. Brescia. Visita a Canton Mombello: “Per la Lega il carcere va chiuso” di Salvatore Montillo Giornale di Brescia, 5 novembre 2024 Visita in carcere effettuata lo scorso venerdì per alcuni rappresentanti del Carroccio, che accompagnati dalla direttrice del penitenziario, Francesca Paola Lucrezi, hanno verificato di persona le condizioni fatiscenti del carcere cittadino. Con Simona Bordonali, deputata bresciana della Lega, c’era un collega della Camera, Luca Toccalini, l’eurodeputata Isabella Tovaglieri, e Antonio Felloni, coordinatore nazionale Dipartimento carceri e polizia penitenziaria del Carroccio. “La situazione all’interno di Canton Mombello - ha chiarito Bordonali - non può più andare avanti così. Grazie al lavoro del ministro Matteo Salvini, che ha sbloccato i fondi, c’è un progetto esecutivo per la realizzazione del nuovo padiglione di Verziano. Questo ci darà la possibilità di recuperare 348 nuovi posti, che uniti ai 100 che già ci sono, serviranno ad ospitare l’intera popolazione carceraria di Brescia in condizioni umane”. Anche per gli esponenti della Lega, dunque, Canton Mombello non ha più le condizioni per rimanere aperto, (“andrebbe abbattuto e ricostruito” ha spiegato Bordonali), ma non è neanche immaginabile che si possa chiudere prima di aver realizzato la nuova ala del carcere alla periferia sud di Brescia. “Per questo - ha continuato Bordonali - ben vengano i lavori di sistemazione che, ci ha detto la direttrice, dovrebbero partire a breve, ma che sono solo un palliativo per andare avanti ancora un po’ prima della chiusura definitiva”. In delegazione anche Antonio Fellone, che conosce bene la realtà del carcere, in quanto membro della polizia penitenziaria. “La volontà di tutti noi - ha detto - è che questa struttura sia chiusa. Lo dico in primis per i miei colleghi che lavorano in condizioni assurde in una struttura obsoleta. Poi abbiamo una tipologia di detenuti molto diversa rispetto a qualche anno fa, che non rispettano le regole e si lasciano andare spesso ad aggressioni fisiche e verbali”. All’interno del carcere oggi ci sono “tra i 380 e i 400 detenuti”, di varie etnie e con problemi spesso di tossicodipendenza e di problemi psichici. “I benpensanti di sinistra che vogliono le celle aperte - ha affermato Tovaglieri - devono capire che ci sono persone alle quali è impossibile applicare la funzione rieducativa della pena. Il nostro obiettivo oggi era portare la solidarietà a chi lavora in carcere e conoscere da vicino una situazione molto complicata dove sicuramente l’immigrazione soprattutto irregolare è una delle principali cause di disordini all’interno delle carceri”. Modena. I detenuti producono pasta fresca per la reintegrazione e la tradizione di Annalisa Servadei modenatoday.it, 5 novembre 2024 Tortellini? Si, ma fatti in carcere: i detenuti producono pasta fresca per la reintegrazione e la tradizione. Nel carcere Sant’Anna di Modena, un laboratorio di pasta fresca offre ai detenuti formazione e reinserimento, promuovendo qualità e tradizione locale. Pietro, Said, Edmund e Samuel sono i nomi di fantasia dietro ai volti di quattro detenuti della casa circondariale Sant’Anna di Modena, impegnati nella produzione di pasta fresca fatta a mano grazie a un progetto di reinserimento sociale avviato dalla cooperativa sociale Eortè di Limidi di Soliera. Attivo dallo scorso 2 maggio e ufficialmente inaugurato oggi, il laboratorio gastronomico è guidato dalla direttrice di Eortè, Valentina Pepe, e supervisionato dallo chef Rino Duca, che ha formato i protetti nelle tecniche di preparazione della pasta fresca “Chiudono i tortellini come le nostre rezdore”. Il progetto, realizzato in convenzione con il carcere e sostenuto da varie istituzioni locali, punta a offrire ai detenuti un’opportunità concreta di apprendere un mestiere, riducendo così i rischi di recidiva e favorendo la riabilitazione. “Lavorare li aiuta a sviluppare competenze e autostima, elementi cruciali per un futuro inserimento sociale,” dichiara Pepe, spiegando che, entro novembre, altri due detenuti saranno assunti part-time e nuove postazioni di lavoro saranno create nel 2025. Nel laboratorio, i detenuti utilizzano materie prime locali, incluse le verdure dell’orto del carcere, e producono settimanalmente circa 120 kg di pasta ripiena (tortellini, tortelloni, tortelli e tortellacci) e 150 kg di prodotti da forno. La qualità dei prodotti ha già attratto vari clienti, tra cui i Gruppi di Acquisto Solidale (Gas) di Modena, empori solidali, aziende come Tetrapak, e il mercato contadino di Carpi. Nei prossimi mesi, la cooperativa intende ampliare la rete commerciale a ristoranti e gastronomia locali. Pepe sottolinea che il lavoro offre ai detenuti una piccola autonomia economica e un contributo alle spese di detenzione, restituendo valore all’articolo 27 della Costituzione, che promuove la funzione rieducativa della pena. Eortè si dice fiduciosa del valore di questa iniziativa, che rappresenta un ponte tra il carcere e la comunità, a beneficio non solo dei detenuti ma della società nel suo complesso. Firenze. Ex br al Festival dei Popoli, scoppia la polemica di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 5 novembre 2024 Abatangelo al film sulla sua storia, centrodestra all’attacco. Ma il teatro lo applaude. È stata proiettata, ieri, per la prima volta, “Pensando ad Anna”, film sulla storia dell’ex br Pasquale Abatangelo, presente nelle principali rivolte che hanno scosso negli anni 70 le carceri italiane. Alla proiezione - avvenuta nell’ambito del Festival dei Popoli di Firenze - è intervenuto lo stesso Abatangelo, nato a Firenze il 2 novembre 1950, ex br e cofondatore dei Nap, organizzazione armata di sinistra attiva nei diritti dei detenuti, che venne arrestato nel 1974 dopo un conflitto a fuoco con i carabinieri in cui rimase ferito e fu imprigionato alle Murate. La pellicola intreccia interviste, con il direttore del docufilm Tomaso Aramini e il giornalista Fulvio Buti. La deputata di Fi, Deborah Bergamini, sostiene che la presenza di un ex br a un’iniziativa che gode di fondi pubblici sia “inaccettabile”. Paolo Bambagioni, consigliere della Lista Schmidt, presenterà un’interrogazione “con l’auspicio che il Comune voglia chiarire i motivi che lo hanno portato a sostenere l’iniziativa”. “Gravissimo”, afferma il capogruppo di Fi al Consiglio regionale della Toscana, Marco Stella, che ha presentato un’interrogazione urgente “per chiedere che la Regione Toscana tolga patrocinio e finanziamenti”, conclude Stella. “I soldi pubblici non devono essere utilizzati per organizzare eventi che diano voce a un ex terrorista”, dice il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Sandra Bianchini. “I brigatisti volevano sovvertire lo Stato, oggi partecipano a iniziative che dallo Stato traggono finanziamenti”, dice il senatore Paolo Marcheschi, capogruppo di Fratelli d’Italia in commissione Cultura. “Vergogna”, tuona l’europarlamentare della Lega Susanna Ceccardi. Abatangelo ieri come detto era presente in aula e si creato un caso nel caso. Secondo infatti quanto annunciato dal regista Tomaso Aramini prima della proiezione non avrebbe dovuto parlare “fino a domani (oggi, ndr) non appena gli animi si saranno calmati”. Lo stesso aveva assicurato anche l’assessore alla cultura Bettarini con una nota nel tardo pomeriggio: “Abatangelo è stato invitato dai produttori e gli organizzatori del Festival garantiscono che non è previsto un suo intervento. Dal centrodestra solo una polemica strumentale”. Eppure l’ex br alla fine della proiezione ha preso la parola salutato da un lungo applauso: “Penso che questo film possa servire in particolare alle nuove generazioni per capire cosa è successo in questo Paese negli anni 70 e 80. Il film è un piccolo contributo in questo senso”. Parole che di certo non placheranno la polemica. Latina. Seminario “Il carcere come risorsa: avviamento al lavoro e reinserimento del condannato” uniroma1.it, 5 novembre 2024 Venerdì 15 novembre alle ore 10.00, in aula 2 della Facoltà di Economia della sede di Latina, si terrà il seminario dal titolo Il carcere come risorsa: avviamento al lavoro e reinserimento del condannato; l’evento rientra tra gli incontri portati avanti nell’ambito del progetto di Terza missione 3CiLab - Costituzione, carcere e città di Latina e che mira a favorire il dialogo tra Sapienza e la realtà penitenziaria di Latina sui diritti, sulla cittadinanza attiva e sul ruolo della formazione e della cultura a partire dalla Costituzione. Lo scopo del progetto 3CiLAb è quello di coinvolgere la società civile nel discorso sulla condizione detentiva e si rivolge, in particolare, ai detenuti, alle detenute, all’amministrazione della Casa circondariale di Latina, ai volontari e le volontarie che vi operano, ma anche alle istituzioni locali, alle studentesse e agli studenti della cattedra di Istituzioni di diritto pubblico, ai dottorandi di Sapienza, nonché agli studenti e le studentesse delle scuole superiori della provincia di Latina. I ragazzi di Napoli e la sfida di vivere su una “corda tesa” di Riccardo Rosa Il Manifesto, 5 novembre 2024 Giovani uccisi da coetanei: dai patti educativi al modello Caivano, le risposte inadeguate dello Stato. Sabato assemblea pubblica convocata da Libera. Sei mesi fa C. e R., 15 anni, sono stati protagonisti di un fatto di cronaca a Bagnoli. Durante una serata in discoteca sono stati accoltellati perché uno dei due aveva calpestato le scarpe per errore a un coetaneo. Poche settimane prima un loro amico, di poco più grande, aveva rischiato la vita per un proiettile vagante, che solo “per fortuna” gli si era conficcato nel braccio. Non era neppure ora di cena, e il fatto è accaduto nel centro di Bagnoli, un quartiere popolare ma piuttosto vivo e che mostra una certa eterogeneità sociale. C., R. ed M. sono tre ragazzi “normali” che, come la maggior parte dei ragazzi della città, vanno a scuola o a lavorare, giocano a calcio, a tratti hanno una fidanzata, bevono l’alcool scadente che gli adulti gli vendono, fumano qualche canna e prima di andare a dormire prendono sempre al bar un cornetto e un latte al cioccolato. Uguali e diverse dalle loro, nei mesi precedenti e successivi a queste due vicende, abbiamo letto delle morti di Francesco Pio, Gennaro, Emanuele, Santo, prima ancora Annalisa, Davide, Ciro, Ugo, e potremmo andare a ritroso per molto nelle cronache partenopee. Tre morti sono avvenute solo quest’autunno. Le ultime due in corso Umberto a Napoli, a fine ottobre, dove un quindicenne, incensurato, è rimasto vittima di una sparatoria tra due gruppi di giovanissimi, tutti, pare tra i 13 e i 20 anni; e a San Sebastiano al Vesuvio, dove un diciannovenne è stato ammazzato dopo un litigio per futili motivi (ancora una volta, sembra, una scarpa sporca). Come sempre accade in questi casi, la città è piombata in una psicosi che non serve a nulla se non a giustificare interventi emergenziali che non hanno alcuna incidenza sul reale, se non addirittura lo peggiorano. Due mesi fa, durante la commemorazione di Davide Bifolco (sedicenne ucciso nel 2014 da un carabiniere in servizio mentre scappava su un motorino per non farselo sequestrare), Cesare Moreno, maestro di strada, raccontò dell’esigenza quasi biologica degli adolescenti di “sperimentare il pericolo”, qualcosa di simile a quando i figli dei circensi, una volta che gli viene chiesto cosa vorrebbero imparare a fare, dicono quasi tutti: camminare sul filo. Naturalmente, quando scendi di casa con un coltello in tasca, quando vai alla ricerca di un litigio ogni sabato, ma anche quando ti frapponi tra due coetanei che stanno per darsele non c’è la rete sotto, e forse il filo è pure legato male ai sostegni. Ma devi comunque prima annusarlo il pericolo, per capirlo ed evitarlo. Tutto diventa complicato se il pericolo ti avvolge e progressivamente ti sopraffà. Chi ha un po’ di contatto col mondo dei ragazzi sa che oggi una pistola costa 700 euro, ma puoi anche farne modificare una finta da 150 euro; anche i “bravi ragazzi” escono portando con sé un’arma (“per difendermi” o perché “magari se lui caccia il coltello e lo caccio pure io, lui si mette paura e ce ne andiamo ognuno per i fatti suoi”). Naturalmente la colpa non è di un improvviso imbarbarimento collettivo, quanto piuttosto della violenza quotidiana, la militarizzazione degli spazi pubblici, l’esclusione dalle città dei più giovani (soprattutto quelli che non hanno “possibilità” di consumare), l’assenza di luoghi dove passare il tempo facendo cose e di educatori sensibili ai loro destini, un contesto che non può che incattivire i più giovani, frustrare le loro aspirazioni e i loro desideri, contribuire a un isolamento che anche la scuola alimenta, confinando ai margini gli studenti “difficili”. Il tutto, senza alcuno sforzo di creare comunità di coetanei che possano valorizzarne le attitudini, le peculiarità, i limiti. Per quelli che sbagliano “sul serio”, infine, dopo le piogge di soldi, i patti educativi e gli interventi spot, l’unica risposta che abbiamo trovato è la carcerazione, come da un recente decreto che porta il nome di un paesino in provincia di Napoli, dove la violenza dei ragazzi era esplosa in maniera più scioccante che altrove, innescando il “pugno duro” dello Stato. Antigone denuncia: “A 365 giorni di distanza facciamo il punto sulle ricadute negative che il decreto Caivano ha avuto sul sistema della giustizia minorile, portando sovraffollamento, aumento della custodia cautelare, un modello criminalizzante, carcerocentrico e purtroppo privo di prospettive”. I pochi adulti che hanno la pazienza e la disponibilità di stare ad ascoltare questi ragazzi sanno bene che, esattamente come i grandi, questi bruciano le giornate (spesso le nottate) chattando, giocando o semplicemente guardando video idioti sul cellulare; a scuola hanno difficoltà a seguire le lezioni perché fin dall’inizio, per molti di loro, si è rinunciato a costruire le fondamenta di un’alfabetizzazione degna di questo nome; fanno un uso smodato della pornografia perché ne sono bombardati da ogni direzione; pensano che l’unico modo per risolvere i conflitti sia usare la violenza o soccombere. Ma i ragazzi non sono adulti, e inevitabilmente la situazione sfugge di mano. Nelle ultime settimane C. e R., i due ragazzini accoltellati a Bagnoli, hanno lanciato diversi segnali al mondo adulto che non sta facendo nessuno sforzo per aiutarli a trovare delle risposte. Libera Campania ha indetto un’assemblea pubblica a cui parteciperanno associazioni ed enti del terzo settore, sabato mattina alle 10. Quanto di meglio sappiamo fare noi adulti, organizzare fiaccolate quando è troppo tardi, alimentando una contrapposizione tra baby gang e bravi ragazzi che sta solo nelle nostre teste, senza alcun tentativo di compattare una comunità, costruire ponti e strade migliori, individuare canali di comunicazione per farci comprendere da loro, aiutarli a vivere il presente per cambiare il futuro. Ragazzi uccisi ed eroi indagati: a Napoli muore la speranza di Nello Trocchia Il Domani, 5 novembre 2024 Un quindicenne colpito a morte in una sparatoria. Un altro poco più grande perde la vita per un banale litigio. La camorra impone la sua legge. E con la caduta dei paladini dell’antimafia il cambiamento è una chimera. Napoli, la città di nuovo affrescata dalla macchina da presa di Paolo Sorrentino, resta appesa alle sue contraddizioni, eroi di carta che si sgretolano e ragazzini uccisi in strada, morti ammazzati a 15 anni, come Emanuele Tufano. E ogni nuovo dettaglio sull’omicidio fa sprofondare in un cupo pessimismo, nella scena immortalata dalle telecamere spuntano anche bambini. Ma Emanuele non è l’ultimo. Pochi giorni fa in provincia, a San Sebastiano al Vesuvio, è stato ucciso un diciannovenne, Santo Romano. Il suo assassino era appena uscito dal carcere minorile. Il motivo? Una scarpa sporcata. Torna attuale quel disperato appello di Eduardo De Filippo: “Fuitevenne” (“Scappate”). Questo è un tempo nuovo per la città rispetto agli anni nei quali il Maestro di teatro si interrogava sul futuro, oggi Napoli è viva, piena di turisti, forse troppi, a guardare il centro storico brulicante di friggitorie e b&b. Ma anche questa stagione non risparmia i giovanissimi, dal 1982 ci sono stati una cinquantina di ragazzi uccisi in faide e scontri a fuoco, e, negli ultimi anni, la polverizzazione delle realtà delinquenziali e la diminuzione dell’età di battesimo criminale hanno peggiorato il quadro. La madre di un ragazzo ferito nell’agguato che ha ucciso il giovane Emanuele ha raccontato di aver denunciato mesi fa il figlio per salvarlo, le sue parole sono lucide e disperanti. Rinnega il padre - In questa Napoli insanguinata, nei giorni scorsi, è caduto un eroe di carta. Un altro, di nuovo. E si è portato dietro anche brandelli di speranza. Il sogno di riscatto, raccontato con enfasi da giornali e tv, di Antonio Piccirillo naufraga davanti al porticciolo di Mergellina dove le boe e gli ormeggi erano diventati l’ossessione del rampollo di famiglia. Bastava una domanda per capirne il bluff, ma per ogni occasione serve un interprete, e il ruolo assegnato a Piccirillo era quello del ragazzo che aveva rinnegato il padre camorrista. Chi stazionava a pochi metri dal consolato americano e dal lungomare doveva pagare il pizzo al clan che da anni controlla quell’angolo di città al servizio dell’Alleanza di Secondigliano, la più potente formazione criminale della Campania. Nel tempo post Gomorra, tra le vittime non poteva mancare anche una tiktoker, la popolare Rita De Crescenzo che ha denunciato. Piccirillo, figlio e padre, sono finiti così ai domiciliari per tentata estorsione per aver imposto l’assunzione del rampollo nella società che gestisce i campi boa e preteso soldi mensili per garantirsi la tranquillità. La storia dell’ultimo eroe di carta crollato sotto il peso del suo passato è una metafora amara. Racconta un rinnovamento di facciata, un presente tirato a lucido con sotto il marcio di sempre, il dolore che non passa, il male che resta. Ieri le guerre di camorra, oggi lame e pistole per contese tra minorenni con risultati simili e innocenti crivellati di colpi. La storia di Antonio Piccirillo è una metafora, un affaccio sui chiaroscuri della città. Prima le interviste, poi le comparsate televisive, un documentario presentato nei festival e, infine, la candidatura sfumata nel 2021 alle comunali di Napoli. Sul palco era con Alessandra Clemente, già assessora nella giunta De Magistris e figlia di Silvia Ruotolo, vittima innocente di camorra. Nel 2019 un killer aveva ferito una bambina di due anni, Noemi, e Piccirillo junior decise che era il momento di scendere in strada per gridare il suo no alla camorra. “Amate i vostri padri, ma dissociatevi dal loro stile di vita”, diceva il rampollo. Non solo la candidatura, ma anche premi e riconoscimenti. Piccirillo era diventato l’ospite perfetto a ogni occasione, sparatorie, morti, tragedie, lui era lì a raccontare la rottura. Eppure proprio nei mesi della candidatura c’era un altro Piccirillo che svestiva gli abiti del paladino che tifava dissociazione e vestiva quelli del figlio del boss, sulle orme del padre. “Ha detto papà camma fa’?.. dove stanno le nostre boe? Qui devo lavorare io...”, diceva il giovanotto che mischiava resipiscenza a continuità, un poco pentito e un poco no. “Quando andrai a fare la denuncia fai scrivere che siamo in due a volerti uccidere, io e mio padre”, diceva a Rita De Crescenzo, nota tiktoker, che aveva osato dire no alla pretesa dei posti boa. La zona di Torretta-Mergellina è sotto il dominio del “biondo”, soprannome del boss Rosario, da anni. Ambiguità - Nel 2020 riescono a infiltrarsi negli affari degli ormeggi delle barche, l’anno successivo il tentativo raccoglie alcune ritrosie che scatenano il padre, ma soprattutto il figlio. Quell’Antonio che, proprio in quei mesi, arringava le folle contro la camorra voleva essere nuovamente assunto per evitare denunce o controlli degli inquirenti. “Facciamogli uscire la merda dalla bocca a tutti quanti”, “Quanto esiste dio ... li devo distruggere!”, “Però nel modo più pulito possibile... ma pure sporco... voglio andare carcerato per loro puro sporco ... però devono finire”, diceva l’attivista anti camorra. In quelle settimane questo giornale dedicava un lungo racconto su Napoli che andava al voto e sui clan che si dividono, ancora oggi, la città. Tra i protagonisti di quel racconto c’era Piccirillo che dopo aver annunciato la sua battaglia alla camorra cominciava a balbettare davanti a una domanda semplice: “Perché non chiede a suo padre dal quale dice di essersi dissociato di collaborare con la giustizia?”. La sua risposta fu ambigua: “Collaborare non è la giusta strada, lui mi ha sempre detto “Ti ho fatto sempre vivere con il pregiudizio di essere figlio del boss, non ti farei mai vivere con il pregiudizio di essere figlio di un pentito”, non ti farò mai questo doppio male”. Alla domanda su una possibile indagine sulla gestione delle boe rispondeva mentendo: “A me hanno detto che potrei essere indagato, qualcuno delle boe mi avrebbe denunciato per estorsione, ci sono voci, ma non ho ancora una conclusione d’indagine, ma io volevo solo imparare un mestiere e non ho mai fatto niente per conto di mio padre”. In realtà agiva per conto del padre; della responsabilità penale si occuperà la giustizia, qui interessa raccontare una città che fatica ad aggrapparsi anche alla speranza. Ma resta ancora qualcuno che alza la voce, cittadini, associazioni, ma anche gli ex killer pentiti. Uno di loro si chiama Gennaro Panzuto, proprio lui a Domani aveva sollevato dubbi su Piccirillo. A leggere le carte dell’indagine si conferma il ruolo di Panzuto che aveva sollecitato alcune delle vittime a presentarsi in questura per denunciare, invito declinato. Piccirillo non apprezzava quell’attivismo: “Dopo quello che hanno fatto ‘sti cornuti... che hanno camminato con ‘sto Genni Panzuto, tutte ‘sta cose che poi la gente lo sa no?”, prima di parlare così delle vittime, “questi infamoni si dovrebbero prendere e si dovrebbero chiavare con la testa nfunn”. Panzuto, come tanti, però non si arrende e continua a urlare ai giovani l’orrore di vivere con una pistola in pugno. La violenza tra i giovanissimi: ma dove sono gli adulti? di Daniele Novara Avvenire, 5 novembre 2024 Qualche giorno fa, a Piacenza, una ragazza di 13 anni è morta a causa della caduta dal balcone di casa, probabilmente spinta dal suo fidanzato - o pseudo tale - di 15 anni. Continua ad aumentare così il tragico catalogo delle morti violente per omicidi o suicido con protagonisti ragazze e ragazzi minorenni. Esiste una traccia comune tra tutte le vicende? Io penso di sì e si tratta del baratro educativo in cui è caduta una generazione. Non tanto sul piano dei bisogni materiali, quanto su quello dei bisogni educativi fondamentali, quelli che sostengono la crescita e che sembrano non interessare più a nessuno. In questa assenza si riconosce un tratto comune, che crea le condizioni favorevoli per atti impensabili, agiti come se ci si trovasse dentro un videogioco. “Non so perché l’ho fatto” dichiara uno di questi ragazzi, rendendo chiarissimo come il confine fra realtà e fantasia sembra non essere stato acquisito a livello di comportamenti e di mentalizzazione. Sembra mancare un substrato di apprendimento, quello che da sempre si definisce “imparare a stare al mondo” e che rappresenta il collante necessario nel passaggio da una generazione all’altra. Oggi questo appare un optional moralistico, inutile, consegnato a puri e semplici spiegoni che non vengono raccolti dai ragazzi in fuga dal nido familiare. In tale contesto, salta agli occhi l’assenza di un educativo paterno che sappia porre un limite fra i desideri e la realtà. Che possa chiarire come la vita sia convivenza e non il tentativo di assoggettare chi ti sta vicino alle tue pretese. Serve un paterno che sappia aiutare a riconoscere, affrontare e gestire gli inevitabili conflitti relazionali senza che siano percepiti come un pericolo. Ogni forma di contraddizione rispetto al proprio pensiero non può risultare una minaccia insostenibile. Purtroppo, il più delle volte questa figura sembra essersi liquefatta in contemporanea all’assenza di una forte comunità sociale educativa che potrebbe funzionare come valido sostituto. Stiamo di fatto abbandonando i ragazzi e le ragazze a un destino di orfanità educativa, con i mille pericoli che ciò comporta. La sessualità, lasciata in balia dei siti porno, è una delle principali spie di questa situazione. Ricordiamo che questi siti possono essere frequentati anche da bambini di 8-9 anni, se lasciati liberi di usare uno smartphone con accesso a Internet, con tutti i traumi che tale atto può causare. La carenza di educazione sessuale spinge a una promiscuità esperienziale priva di tempo, senza una corrispondenza con i tempi di crescita. Avere il primo rapporto sessuale a 12 o 13 anni può generare traumi. Chi si è formato su siti porno, intrinsecamente misogini, rischia di percepire la sessualità come semplice atto meccanico basato sulla performance, dimenticando di fatto lo scambio affettivo. Ma dov’è il mondo adulto? Come si può lasciare che già a 13-14 anni i genitori lascino dormire assieme un ragazzino e una ragazzina, trattandoli come se fossero una coppia adulta? Sono concessioni che alimentano la precocità sessuale e danneggiano la tenuta psichica. Altra problematica che emerge è quella del genitore-amico, che non introduce un’organizzazione educativa in risposta all’esplosione adolescenziale. Una figura che eccede nelle urla ma non ama mettere paletti. Tra eccesso di maternage e ruolo paterno latitante, viene a mancare un gioco di squadra che permetta di non mettersi alla pari con i propri figli e di mantenere i propri ruoli. I ragazzi e le ragazze non hanno bisogno di genitori amici ma di adulti che sappiano reggere il peso del proprio ruolo. Così a farla da padrone è l’isolamento, specie quello virtuale, che sopperisce a una difficoltà nello stare con gli altri, nel creare quella compagnia adolescenziale che da sempre ha fatto da sfondo creativo alla crescita dei ragazzi e delle ragazze. Un isolamento che a volte gli stessi adulti sembrano incentivare, nella paura che lo stare con gli altri si riveli pericoloso. Ma il punto vero è che in queste tragedie non ci sono colpevoli. Ci sono drammi che si consumano nell’indifferenza sociale e politica. È mai possibile che a fronte del costo di 900.000 euro per una rotonda, non si riesca a dare alle famiglie un adeguato sostegno economico per far frequentare ai propri figli i centri estivi, le scuole dell’infanzia e agli asili nido? I genitori sono soli. Occorre investire di più nel sostegno educativo dei genitori, nelle scuole, nello sport, nelle strutture di aggregazione. Dobbiamo dare vita a una riflessione comune su come i nostri soldi debbano essere usati. Continuare a spenderli in autostrade e cemento o ricordarci che la priorità sono le nuove generazioni? Se le tradiamo solo perché non votano, tradiamo noi stessi e il futuro di tutti. Quanta sicurezza per una società ineguale? di Bruno Montesano Il Manifesto, 5 novembre 2024 Quanta sicurezza personale, incolumità fisica si può reclamare quando la povertà dilaga, il razzismo istituzionale e sociale si impone, quando il disagio psichico si diffonde? Chi vive nel quartiere Esquilino di Roma è costretto a chiederselo. Giuseppe Sarcina, sul Corriere della Sera di qualche settimana fa diceva che la sicurezza debba tornare ad essere un tema di sinistra, seguendo gli esempi di Kamala Harris, Olaf Scholze e Keir Starmer. Trascurava, o fingeva di non sapere, che la discussione sul rapporto tra sinistra e sicurezza abbia molti anni, come ricostruito recentemente da Tamar Pitch. La versione semplice di questa storia è che la sicurezza repressivo-poliziesca e proprietaria abbia sopravanzato quella sociale ed economica - e sulla ricostruzione di questo passaggio “L’insicurezza sociale” (Einaudi) di Robert Castel è insuperata. L’estrema destra spostando il problema su un terreno di gioco favorevole vince agevolmente la partita. Pertanto, per ragioni elettorali, il centro-sinistra ha cercato di inseguirla ingentilendo il principio repressivo. Tuttavia sull’effettivo grado di “gentilezza” dei Decreti Orlando-Minniti del 2018 ci sarebbe molto da opinare. Il quartiere Esquilino di Roma, ad ondate, vede discussioni sul livello di pericolo che i suoi abitanti corrono. Più che “multietnico”, il quartiere è rigidamente diviso. Migranti di diverse nazionalità, vecchi abitanti che sono riusciti a tenersi la casa, nuovi acquirenti borghesi, vecchi e nuovi fascisti si incontrano e scontrano da quasi trent’anni. La centralità geografica del quartiere lo rende particolarmente appetibile ma la vicinanza con la stazione rende difficile la vita per chi vive nei suoi pressi. Rincasare la sera, se si vive nelle strade più buie e prive di negozi o di strade frequentate, può essere pericoloso. A venir aggrediti per futili motivi o derubati può esser chiunque. Sembra superfluo dirlo ma in tempi postfascisti invece repetita iuvant: criminali possono essere italiani e vittime gli stranieri. Il disagio attraversa le appartenenze nazionali e colpisce più duramente per classe. Il costo di un danno, che pure può essere non solo economico, ovviamente è diverso a seconda del reddito: un borghese che viene scippato non perde molto. Invece, il vetro di una macchina sfondato a chi ha solo quella, e magari la usa per lavoro, non favorisce i buoni sentimenti e un rapporto non forcaiolo con la giustizia. Una donna aggredita o molestata è una donna aggredita o molestata. Il quartiere è pieno di polizia e carabinieri (ci sono quattro commissariati a pochi metri di distanza) ma la loro efficacia non è visibile, per incapacità o volontà politica che sia. Negli anni si sono succeduti diversi comitati di quartiere volti a dare una torsione razziale al problema e a chiedere nuovi strumenti repressivi - anche in difesa degli aumentati valori immobiliari. Federico Mollicone (FdI), presidente della Commissione Cultura alla Camera, voleva internare tutti gli extracomunitari per ragioni di sicurezza. Molti cittadini del quartiere eran d’accordo. Così come la profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine nei giardini di Piazza Vittorio, l’accanimento nel chiedere i documenti a chi non li ha, è vista da molti residenti come una pratica di pulizia/polizia legittima invece che come una delle forme che l’integrazione subalterna dei cittadini postcoloniali assume. Nanni Balestrini, che visse in Via Merulana, non a caso, a fine anni ‘90 scriveva in un commento per Repubblica di istinti genocidari nel quartiere. Al contempo, venticinque anni dopo, resistono molte associazioni come quella dei genitori della scuola Di Donato o l’occupazione abitativa di Spin Time che insieme hanno dato vita al Polo Civico Esquilino. Questi gruppi organizzano così eventi culturali, distribuzione di cibo e coperte d’inverno (ad esempio Mama Termini o Nonna Roma), proteste politiche, mediazioni istituzionali, flashmob. Due anni fa ad esempio ci fu una protesta contro la chiusura del sottopasso Turbigo della stazione Termini organizzata Termini Tv, gruppo che si occupa di dare una diversa visibilità a chi è escluso dal benessere. Il comune voleva nascondere i senza tetto, non trovare loro una soluzione abitativa. Oggi gli stessi vengono cacciati dalle mura aureliane di poco distanti. Lo sgombero ha scatenato la protesta della coordinatrice della segreteria nazionale del Pd Marta Bonafoni e della sezione di partito locale. Successivamente però il II municipio, a guida centro-sinistra, e il Polo civico hanno trovato delle soluzioni per alcuni. Le contraddizioni esistono. Rimane la domanda su quanta sicurezza si possa “comprare” (e rivendicare come diritto) in una società razzista e economicamente violenta come quella in cui viviamo. Non si sceglie con chi coabitare. Al contrario si può contribuire a evitare che qualcuno lo espella in quanto rifiuto. E si può creare una sicurezza sociale che non sia la maschera dell’odio. Migranti. Per il Tribunale di Catania il decreto sui Paesi sicuri è illegittimo di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2024 “Non c’è necessità di rivolgersi alla Corte di Giustizia Ue”. Nemmeno il tempo di rimettere in mare la nave Libra della Marina militare, che oggi a Sud di Lampedusa ha effettuato un primo, nuovo trasbordo per selezionare gli “eleggibili” per i centri in Albania, che i Tribunali mettono in discussione il nuovo decreto del governo sui Paesi sicuri. “Sono fiducioso che il decreto approvato nei giorni scorsi possa superare la mancata convalida dei trattenimenti da parte dell’autorità giudiziaria: se non lo fossi stato non le avremmo fatto”, ha dichiarato oggi il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi (video). Che parla come se il Tribunale di Roma non avesse appena deciso di rinviare il provvedimento alla Corte di Giustizia dell’Unione europea (Cgue), come già quello di Bologna nei giorni scorsi. Peggio, come se il Tribunale di Catania non l’avesse bocciato del tutto. Il Presidente della sezione immigrazione, Massimo Escher, ha infatti disapplicato il decreto e invalidato il trattenimento nel centro siciliano di Pozzallo di un egiziano sottoposto all’esame accelerato della domanda d’asilo in quanto proveniente da Paese “sicuro”. Insomma, il conflitto con la normativa europea evidenziato dalla nota sentenza della Cgue del 4 ottobre, poi applicata dai giudici di Roma nel caso dei 12 richiedenti trattenuti in Albania, non è affatto risolto. Nemmeno aver inserito la nuova lista dei Paesi sicuri in una norma primaria, il decreto legge del 23 ottobre scorso, basta a evitare che un giudice ne valuti la legittimità in base alla prevalente normativa Ue e per questo decida di disapplicarlo. A differenza di quanto accaduto a Bologna, il Presidente Escher ritiene di non dover chiedere un parere alla Cgue. Come “in tutti i casi in cui la corretta interpretazione del diritto dell’Unione si impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi”, scrive citando la giurisprudenza della stessa Corte Ue. Al centro della decisione è la designazione dell’Egitto come Paese d’origine sicuro, che nel decreto del 23 ottobre non presenta eccezioni per gruppi di persone a rischio, com’era invece nel precedente elenco “per gli oppositori politici, i dissidenti, gli attivisti e i difensori dei diritti umani o per coloro che possano ricadere nei motivi di persecuzione di cui all’articolo 8, comma 1, lettera e) del Decreto Legislativo 19 novembre 2007, n. 251?. Alla luce della sentenza della Cgue del 4 ottobre, secondo i giudici di Roma che hanno esaminato i trattenimenti in Albania si trattava di eccezioni non ammesse dalla vigente normativa europea: il Paese è sicuro per tutti o non lo è per nessuno. Proprio per aggirare l’ostacolo, il governo ha deciso di riscrivere la lista e di cancellare ogni eccezione. E tuttavia il Tribunale di Catania dice oggi che non basta. Nella stessa sentenza della Cgue, ricorda Escher, è ribadito l’obbligo per il giudice di verificare la legittimità della designazione del Paese come sicuro. E questo perché chi viene da Paesi considerati tali vedrà la sua domanda sottoposta a esame accelerato e possibilmente respinta per manifesta infondatezza, con termini ridotti per impugnare la decisione e, non ultimo, il rischio di vedersi espellere prima dell’esito del ricorso visto che la sospensiva non è automatica. Per questo il giudice è tenuto a verificare se quel Paese possa davvero considerarsi sicuro. Eccezioni o no, un Paese può essere considerato tale solo se “sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale” (Allegato 1 della direttiva Ue 32/2013). Obbligato a valutare l’inserimento dell’Egitto nella lista governativa dei Paesi sicuri, il magistrato spiega che, nel caso in esame, la verifica “non può che essere negativa e ciò tenuto conto delle COI (Country of Origin Information) relative all’Egitto lette in relazione al principio enunciato dalla Corte di Giustizia con la citata sentenza”. Nel caso dell’Egitto, il giudice cita la pena di morte con un numero di esecuzioni tra i più alti, le detenzioni arbitrarie e gli arresti senza mandato, violazioni processuali nei confronti di avvocati per i diritti umani, attivisti, giornalisti e politici di opposizione, abusi e detenzioni per blasfemia, l’assenza di tutela contro la violenza familiare e le discriminazioni nei confronti di donne e minori, le persecuzioni nei confronti delle persone Lgbtqi+, oltre a torture e abusi da parte dei corpi di polizia nei confronti degli oppositori del governo. Questioni in parte citate dalle schede che motivavano le eccezioni della precedente lista di Paesi sicuri e sparite in quella inserita nel decreto legge di ottobre. “I citati rischi di insicurezza che riguardino, in maniera stabile ed ordinaria, intere ed indeterminate categorie di persone portano de plano il decidente a negare che l’Egitto possa ritersi paese sicuro alla luce del diritto dell’Unione Europea e ciò per quanto si legge nelle argomentazioni della citata sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 4 ottobre 2024, laddove in motivazione richiede che il Paese (per dirsi sicuro) sia caratterizzato da una situazione “generale e costante “ di sicurezza”, si legge nel decreto di Catania. “Tanto rilevato, non resta che disapplicare ai fini della presente decisione il decreto-legge 23.10.2024, posto che, come è noto, le sentenze interpretative della Corte di giustizia dell’Unione europea vincolano il giudice nazionale”. La decisione di Escher, che si accompagna ad altre quattro mancate convalide a Pozzallo, anticipa quello che potrebbe presto accadere a Roma, sede competente per i trattenimenti nei centri albanesi dove verranno trasferiti i migranti che, già in queste ore, le motovedette italiane trasbordano sulla Libra per il pre-screening, dopo giorni in cui il maltempo aveva impedito le traversate dei barchini nel Mediterraneo. Proprio dal Tribunale di Roma è partito oggi un altro rinvio alla Cgue, dopo quello di Bologna, nel merito del ricorso contro il diniego all’asilo di uno dei 12 richiedenti trasferiti in Albania e poi portati in Italia. I due rinvii potrebbero essere citati dai magistrati romani già nell’esame delle convalide per i nuovi richiedenti trasferiti in Albania fin dai prossimi giorni. In alternativa i giudici potrebbero decidere a loro volta di rinviare alla Cgue o magari alla Corte Costituzionale in base agli articoli 11 e 117 della Carta. Ma potrebbero anche decidere di disapplicare il nuovo decreto come fatto oggi a Catania. O perché no, di convalidare i trattenimenti. Ma a questo punto è decisamente l’ipotesi più remota. Migranti. Altri due tribunali contro il decreto Paesi sicuri. Salvini: “Per colpa di certi giudici l’Italia è insicura” di Grazia Longo La Stampa, 5 novembre 2024 Un giudice di Catania non convalida il trattenimento di un migrante: “L’Egitto non è un Paese sicuro”. Mentre sta per iniziare l’assemblea di Anm a Bologna convocata dai giudici del Tribunale di Bologna criticati dal governo perché hanno inviato alla Corte di giustizia europea il caso di un migrante del Bangladesh affinché la corte si esprimesse sulla condizione di Paese sicuro, arrivano nella sala delle colonne due importanti notizie. Una dal tribunale di Catania che ha stoppato il rimpatrio di alcuni migranti in Egitto perché non lo considera Paese sicuro. Una decisione presa in autonomia, senza neppure rivolgersi alla Corte europea. “Per colpa di alcuni giudici comunisti che non applicano le leggi, il Paese insicuro ormai è l’Italia. Ma noi non ci arrendiamo!”, scrive in una nota il vicepremier e ministro Matteo Salvini dopo la decisione del giudice di Catania che ha annullato un trattenimento di un migrante sbarcato a Pozzallo. L’altra notizia arriva dal tribunale di Roma e riguarda uno dei 12 migranti del centro in Albania: i giudici romani hanno inviato alla corte di giustizia europea la richiesta di intervenire su Bangladesh come Paese sicuro, partendo dal presupposto che non è ritenuto tale. Intanto alcuni migranti sono stati presi a bordo dalla nave Libra della Marina Militare a sud di Lampedusa. Saranno ora trasferiti verso l’Albania, dopo lo screening a bordo. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia prima di aprire i lavori interviene con i cronisti sullo scontro tra magistrati e governo: “C’è clima di tensione che va stemperato. Lo scontro deve cessare. Le ultime parole del mondo politico e di certa stampa sono intollerabili. Non si tratta di essere toghe rosse, ma di accettare la giustizia europea. Il potere giudiziario è indipendente dal governo. I magistrati non devono essere consonanti del governo. Assemblea aperta a tutti cittadini perché il tema della democrazia riguarda tutti. La Corte dei conti potrebbe indagare sui conti del centro in Albania. Noi abbiamo un altro compito: abbiamo diritto e dovere di lavorare in modo indipendente e non sottoposto a certa stampa. Se la serenità non ci arriva da fuori ce la diamo da soli. Chiediamo di poter esercitare il nostro ruolo delicatissimo senza subire condizionamenti di sorta. Una volta erano toghe rosse delle procure ad essere attaccati (periodo Berlusconi) ora sono i giudici. Oggi attacchi a tutta la giurisdizione. Sulla separazione delle carriere: i cittadini dovrebbero comprendere che non cambia la vita dei magistrati ma verrà indebolita attività dei magistrati per gli interessi del Paese. I provvedimenti non sono costruiti ad arte da magistrati cattivi per andare contro governo, aspettiamo giustizia europea”. Migranti. Nel Cara di Bari nuove proteste dopo la rivolta di ieri a seguito della morte di un ospite di Chiara Spagnolo e Benedetta De Falco La Repubblica, 5 novembre 2024 Nel Centro che ospita i naufraghi tornati dall’Albania rabbia per la morte di un ospite. I disordini sono iniziati nel tardo pomeriggio di lunedì 4 novembre e sono ripresi in mattinata con l’invasione dell’area militare e poi il corteo spontaneo: a innescare la miccia della rivolta il decesso di un 33enne in ospedale dopo un possibile atto di autolesionismo all’interno della struttura. Nel pomeriggio di ieri le proteste erano state innescate dalla notizia della morte di un migrante di 33 anni che si era sentito male la sera del 3 novembre, presumibilmente dopo aver ingoiato delle batterie o altri oggetti metallici, ed era stato curato con la somministrazione di una compressa. Trasportato all’ospedale San Paolo il giorno successivo, è morto. Nel Cara di Bari c’è una capienza di 744 posti ma molte di più sono le persone ospitate, comprese diverse decine di abusivi che ogni notte riescono ad entrare nel centro e vi trovano riparo. Tra gli ospiti ci sono anche 12 dei 16 migranti che ad inizio ottobre furono soccorsi davanti alle coste siciliane e trasportati nel centro di Gjader in Albania. I 12 uomini sono stati portati in Italia dopo la pronuncia del tribunale di Roma, che non ha convalidato il loro trattenimento nella nuovissima struttura creata in base all’accordo tra Italia e Albania. Migranti. Se la questura diventa un muro: le prassi illegittime che ostacolano i richiedenti asilo di Alice Dominese Il Domani, 5 novembre 2024 Ci sono province in cui le persone non possono registrare la loro domanda di protezione internazionale perché si esige un documento che la legge non prevede. In altri luoghi viene violato il diritto alla tutela legale o si finisce in limbo lungo anche un anno prima di veder formalizzata la propria richiesta. Fuggono da guerre, persecuzioni e violenze, ma quando provano a chiedere di essere riconosciuti come rifugiati in Italia, trovano un muro fatto di prassi amministrative illegittime, diventate consuetudine. Sono i richiedenti asilo, uomini e donne che si rivolgono alle questure per ricevere il riconoscimento di uno status che costa mesi di attesa in assenza di tutele e spesso svariate centinaia di euro. Nel 60 per cento dei casi rilevati dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) nel 2023, le persone non riescono neppure a entrare in questura per presentare domanda. Anche per questo l’Asgi ha denunciato alla Commissione europea la violazione da parte dell’Italia della normativa Ue in materia di accesso alla procedura di asilo. La segnalazione riguarda anche il mancato rispetto delle tempistiche per la registrazione delle domande. I motivi di questi ritardi sono molteplici. Una pratica illegittima - In almeno 40 province, i richiedenti asilo non possono registrare la loro domanda di protezione internazionale perché la questura esige un documento che la legge non prevede: la dichiarazione di ospitalità. “Le autorità dovrebbero avere l’obbligo di formalizzare la domanda anche se il richiedente è senza fissa dimora” dice Lidia Vicchio, avvocata di Cosenza. Per ottenere questo documento, ha scoperto che un suo assistito ha pagato 600 euro. Chiedere un indirizzo di abitazione come condizione per registrare la domanda di asilo è una pratica illegittima diventata sistematica e qualcuno ha deciso di lucrarci. Si è creato così un mercato nero di dichiarazioni di ospitalità esteso da nord a sud. “I migranti sono disposti a pagare tantissimo, anche stando senza mangiare, pur di avere questo documento”, spiega Vicchio. “Quando ci siamo rivolti alla questura di Cosenza chiedendo spiegazioni tramite l’accesso agli atti, ci è stato risposto che questa dichiarazione non viene richiesta, ma sappiamo che è proprio il contrario”. Diritti negati - Un altro problema è che nella stessa questura non viene permesso agli avvocati di accompagnare i propri assistiti all’interno dell’Ufficio Immigrazione. Insieme alla frequente mancanza di mediatori culturali, questo impedimento può creare problemi di comprensione durante i colloqui e far sì che vengano chiesti documenti che non avrebbero motivo di essere richiesti. “Si tratta di una lesione del diritto di difesa. Abbiamo segnalato la prassi chiedendo un incontro alla prefettura, alla questura e al Consiglio dell’ordine di difesa di Cosenza, ma nessuno ha risposto. Questo ci dice purtroppo che gli interessati sono considerati come persone di serie B” aggiunge Vicchio. La richiesta di un indirizzo di abitazione è comune anche a Venezia. Qui la questura tratta meno di cinque domande al giorno, ma a mettersi in coda davanti all’ufficio sono decine di persone. Di recente, una donna con due figli piccoli ha tentato di chiedere asilo. Come tante e tanti, dorme in strada e quando si è rivolta alla questura è stata respinta perché non possedeva una dichiarazione di ospitalità. “Quando poi ha chiesto di essere inserita nel sistema di accoglienza, le è stato risposto che non c’era posto, nonostante ne avesse diritto” racconta l’avvocato Francesco Mason. Per le persone arrivate in Italia senza essere registrate, presentare domanda di asilo è necessario per essere inseriti nei centri di accoglienza. Restarne esclusi significa rimanere senza documenti, senza poter accedere alle cure del sistema sanitario e a un contratto di lavoro regolare. Nel limbo - Attendere di registrare la propria richiesta lascia le persone a lungo in un limbo. I dati raccolti da Asgi mostrano che in 18 questure, dalla presentazione della domanda di asilo alla sua formalizzazione, intercorre un periodo di tempo superiore ai sei mesi e in tre questure superiore a un anno. A Venezia, dopo diverse diffide, il periodo di attesa è passato nella maggior parte dei casi da un anno a cinque mesi. Ai richiedenti viene detto più volte di ripresentarsi in questura. “Si tratta di un invito a tornare che giuridicamente non ha alcun valore. L’appuntamento viene dato su un mero pezzo di carta che riconosce di fatto solo il ritardo della pubblica amministrazione” dice Mason, che segnala una situazione di violazione della normativa di asilo diffusa: “La legge prevede che da quando la persona manifesta la richiesta di asilo non debbano passare più di tre giorni, che possono essere aumentati di 10 solo in caso di massiccio afflusso di persone, quindi di fatto la maggior parte delle questure agisce nell’irregolarità”. Secondo la rilevazione di Asgi, le questure non solo fissano un tetto massimo di domande giornaliere che possono essere presentate, ma anche un numero massimo per ogni nazionalità. Si tratta ancora una volta di una pratica discrezionale, attraverso cui l’accesso agli uffici viene rimandato a oltranza. Fino a pochi mesi fa, a Roma, i richiedenti asilo venivano in molti casi respinti dalla questura, soprattutto se provenienti dai cosiddetti paesi di origine sicura. “La questura riteneva arbitrariamente che loro non avessero diritto all’asilo, perché li considerava migranti economici” spiega l’avvocata Vittoria Garosci. A dicembre 2023 le associazioni Asgi, Arci, Libellula, Spazi circolari e Progetto diritti hanno presentato un ricorso collettivo nei confronti di questa pratica. La questura non ha negato il problema e nove mesi dopo le associazioni hanno chiesto la cessazione del processo perché ritengono che la situazione sia cambiata. “Tutte le richieste di asilo oggi vengono accettate e calendarizzate”, commenta Garosci: “Questo è importante perché dimostra che non è un problema di risorse, perché non ne sono arrivate in più, ma di volontà politica. La questura si è organizzata e ha stabilito una procedura formalizzata, come dovrebbe accadere anche in tutte le altre”. Zuppi: “Capire il dolore degli altri è la premessa per fare la pace” di Luca Liverani Avvenire, 5 novembre 2024 “Capire anche il dolore degli altri è davvero la premessa della pace. Difendendo le proprie ragioni, certo, senza irenismi, senza accordi al ribasso. È uno sforzo che richiede fatica - riconosce il cardinale Zuppi - perché capire i propri torti non è mai facile, si ha paura che riconoscerli indebolisca le proprie ragioni. Al contrario, ammettere i propri torti rafforza le proprie ragioni, le rende ancora più mature. Come capire le ragioni e il dolore degli altri”. A parlare di pace è uno che ha avuto da Papa Francesco l’incarico di mediare con la Russia per la liberazione di bambini e prigionieri. Un lavoro difficilissimo, frustrante, da qualcuno perfino frainteso. Ma il cardinale Matteo Maria Zuppi ha la gentilezza e la tenacia per andare avanti senza esitazioni. E racconta il suo approccio di “costruttore di pace” all’incontro su “Giustizia e perdono” organizzato sabato sera a Sulmona dalla Fondazione Carispaq nel bel Teatro comunale Caniglia. In un dialogo sul palco col giornalista e storico Paolo Mieli. Parlare di pace e perdono a Sulmona non è una coincidenza. La città abruzzese - nota nel mondo per i confetti forniti anche per il matrimonio principesco di Harry e Meghan - per 50 anni è stata la città in cui ha vissuto come eremita Pietro da Morrone. Eletto papa col nome di Celestino V, anticipò il Giubileo con l’emanazione della bolla della Perdonanza per chi si recava nella basilica di Santa Maria di Collemaggio a L’Aquila. E il dialogo tra il cardinale e lo storico è anche l’occasione per un’altra (piccolissima) riconciliazione: “Don Matteo è una persona che mi ha fatto cambiare opinione - esordisce Paolo Mieli - perché all’inizio della guerra in Ucraina ero diffidente nei confronti di quello che avrebbe potuto fare la Chiesa cattolica. Tutti i pontefici in tutte le guerre dichiarano il loro impegno per la pace, ma rimangono parole. Il cardinale Zuppi è partito per una missione sulla quale pure avevo un milione di perplessità. Almeno, pensai, una cosa concreta. Quando abbiamo avuto già delle discussioni, gli facevo presente queste mie esitazioni”. Passano i mesi e Mieli si dovrà ricredere. E lo riconosce: “Il cardinale Zuppi non è un uomo che usa parole di perdono e di pace. No, durante le guerre, fa il perdono e fa la pace. Di quei bambini lui non ne parla, perché ha un impegno, ma ho avuto prova da testimoni diretti che è riuscito durante la guerra a fare quello che nessuno riesce a fare, cioè operare per la pace mentre la guerra è ancora in corso”. E operare la pace, spiega Mieli, significa anche “dover stringere mani sporche di sangue”. Perché “in quel momento quella mano insanguinata, stretta per far rilasciare un bambino, significa tantissimo. È così che si costruisce la pace, non facendo chiacchiere”. Perché ricorda lo storico, “la pace com’è noto si fa con i cattivi, ognuno poi giudica chi sono i buoni e chi sono i cattivi”. Il presidente della Cei sprona tutti all’impegno di “fare la pace, senza mai dimenticare la giustizia”. Un compito improbo: “Molte volte pensiamo: ma io che cosa posso fare? Le possibilità che abbiamo dobbiamo sfruttarle tutte. Porsi dei grandi sogni, misurarsi con le difficoltà del mondo è qualcosa cui non dobbiamo mai rinunciare. Certo, la speranza ha un prezzo, i sogni richiedono un coinvolgimento, un impegno, sacrificio”. Ma la pace, ricorda il cardinale di Bologna, “è fatta di tanti piccoli mattoni. Un ponte senza i singoli mattoni non c’è. I mattoni siamo noi”. Soprattutto moi che viviamo in Italia e in Europa, “una reatà straordinaria. Frontiere su cui si sono ammazzate milioni di persone per secoli, da muri sono diventate cerniere che uniscono”. Ma la pace, come la democrazia, non è una volta per sempre, avverte il Cardinale: “Nostra responsabilità è continuare a far sì che le tante trincee che in questi ultimi anni si stanno ri-scavando possano trovare delle soluzioni”. E poi “la pace si fa con chi fa la guerra”, concorda Zuppi. Un concetto ovvio, ma che oggi “può creare non pochi problemi. Tanto più in una generazione come la mostra che ama la polarizzazione”. Dai tempi del mondo diviso in due blocchi “oggi è tutto molto più complicato”, e soprattutto “gli strumenti che dopo la II guerra mondiale la comunità internazionale si era data, penso soprattutto all’Onu, sono largamente insufficienti”. La pace si fa con i nemici, dunque. Ma attenzione: “Dare la mano a tutti, anche a chi ce l’ha insanguinata, non vuol dire mai dimenticare le responsabilità di ciascuno. Significa invece trovare tutti i modi perché si possa ricostruire quello che la guerra ha distrutto”. Il Cardinale ricorda poi un passaggio ,arduo ma inevitabile: “Non c’è giustizia senza perdono”. Che non è, chiarisce subito “dimenticare, o rendere tutto uguale. Il perdono affronta e risolve le cause”. Paolo Mieli concorda: “Se in Europa siamo diventati popoli pacifici, è solo perché abbiamo conosciuto secoli di guerre” interrotte più che dalla pace, da tregue fragili: “Ci sono storici che considerano la I e la II guerra mondiale una sola guerra, interrotta da una pace non autentica”. E allora, dice lo scrittore. “qual è la vera pace? Cosa è connesso all’idea di giustizia e di perdono? È capire che voi, noi, dobbiamo tutti tenerci le nostre opinioni, ma capire che ci sono ragioni della nostra parte, ma anche torti. E ci sono torti, ma anche ragioni della parte avversa”. Il cardinale Zuppi annuisce: “Riconoscere le ragioni dell’altro serve ad aiutarlo a trovare la soluzione. Non per pensare tutti la stessa cosa, ma per imparare a vivere insieme. Quando le ragioni dell’altro diventano un po’ anche le mie, c’è la possibilità di una vera riconciliazione”. Il presidente della Cei spiega il perché della sua mission impossible ucraina: “La spinta che ha portato papa Francesco ad avviare questa missione - che non è un piano, ma la ricerca di tutti i modi per spingere nella direzione giusta - è non rassegnarsi alla guerra, non accettarla, cercarla comunque. È chiaro che noi dobbiamo cercare la pace quando non c’è. Credere nella luce quando c’è buio. Affrontare la fatica di cercare questa benedetta chiave della pace, che non ce l’ha mai uno solo”. I torti e le ragioni: “La cosa più delicata è la comprensione delle posizioni, e la storia ci può aiutare. Non per guardare indietro, ma per guardare avanti con consapevolezza”. Costruire la pace non significa immaginare un mondo utopico senza conflitti: “Ci sono e ci saranno, accompagnano la vicenda umana, ma non è detto che per risolverli bisogna per forza fare la guerra. Anzi, proprio perché abbiamo visto la forza distruttiva della guerra, con consapevolezza dobbiamo trovare altri strumenti. Da qui il multilateralismo, la scelta di perdere sovranità per una struttura che sia in grado di ricomporre i conflitti, un luogo deputato. Fu la grande intuizione delle Nazioni Unite. Stiamo dilapidando un patrimonio straordinario. Se di nuovo la pace diventa una tregua, è davvero pericolosissimo”. Il presidente della Cei ha ben chiaro il rischio dell’escalation e della deflagrazione totale: “Non dobbiamo perdere la consapevolezza che la Terza guerra mondiale sarebbe l’ultima, proprio per la forza distruttiva esponenzialmente cresciuta in questi 80 anni. Non possiamo pensare che l’equilibrio della paura sia sufficiente”. Tantomeno l’uso della deterrenza atomica: “Basta una scintilla, un meccanismo che nessuno più controlla. Succede così”. L’Ucraina, ma anche la martoriata Terra Santa. Il Cardinale racconta del viaggio a Gerusalemme dopo la brutale strage di Hamas: “Ci siamo andati per dire: vi siamo vicini, vinciamo la paura. Tutte le parti hanno apprezzato quanto è stato importante che li abbiamo ascoltati”. E racconta della mamma di uno degli ostaggi israeliani: “Rachel, una donna minuta, la madre di Hersh Goldberg-Polin, rapito anche lui in quello sciagurato 7 ottobre da condannare con tutta la chiarezza e senza nessuna ambiguità. Purtroppo Hersh è uno dei sei ostaggi uccisi due mesi fa. E Rachel ha detto: “Io non voglio che il mio dolore provochi altro dolore. Non c’è una classifica dei dolori”. Il suo sforzo era quello di capire anche il dolore degli altri. Questa è davvero la premessa della pace”. Quella di Rachel, conclude il cardinale Zuppi, “è una grande testimonianza di sguardo rivolto al futuro. Difendere le proprie ragioni, ma imparando a capire le ragioni degli altri. Per imparare a vivere insieme”.