I padroni dei dati (e delle regole) di Francesco Da Riva Grechi L’Identità, 4 novembre 2024 L’allarmismo di questi giorni sui casi riscontrati e riscontranti di hackeraggio e accesso ai sistemi informatici di istituzioni, banche e autorità di polizia sono ampiamente giustificati e rischiano davvero di inquinare in maniera grave e irreversibile la nostra vita democratica. Opportuna l’iniziativa del governo per inasprire le peni dei reati relativi. Ma purtroppo non sufficiente. Né si può lasciare anche questa volta il compito di risolvere i problemi alla magistratura, che di per sé ha la naturale tendenza ad allargare il proprio potere ma è pur vero che, in maniera meno appariscente, è troppe volta chiamata a colmare i vuoti lasciate da autorità amministrative che non funzionano e non vogliono adempiere i loro doveri verso i cittadini. Anzi, anche in questo caso le prolungate abitudine a servire solo i propri padroni politici e male ha finito per servire solo l’autoconservazione patologica di un sistema di pubblica amministrazione incivile e disonesto. Nel campo dei dati, le autorità amministrative sono organi di grande rilievo e importanza, a cominciare dalla madre di tutte le Authority, quella sulla Privacy, oggi con la denominazione di Garante per la protezione dei dati personali, istituita con la legge 31 dicembre 1996, n. 675 e con il compito anche di attuare il Regolamento generale sulla protezione dei dati personali (UE) 2016/679. A quest’ultimo si affianca, con il numero progressivo successivo ma con il valore di direttiva, la 2016/680, che si riferisce al trattamento dei dati da parte delle autorità a fini di prevenzione, investigazione e repressione di reati. Si tratta in sostanza dei c.d. “dati giudiziari”, sui quali l’autorità amministrativa di controllo è lo stesso Garante. Diverso è invece il caso della “direzione e della responsabilità generale della politica dell’informazione per la sicurezza, nell’interesse e per la difesa della Repubblica e delle istituzioni democratiche” che spettano al Presidente del Consiglio dei ministri ai sensi della legge 3 agosto 2007, n. 124 appunto intitolata al “Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica” e alla nuova disciplina del segreto di Stato. Oltre al Presidente del Consiglio, l’autorità centrale al riguardo è il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS) dal quale a loro volta dipendono l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE), alla quale è affidato il compito di ricercare ed elaborare tutte le informazioni utili alla difesa dell’indipendenza, dell’integrità e della sicurezza della Repubblica dalle minacce provenienti dall’estero e l’Agenzia informazioni e sicurezza interna (AISI), alla quale è affidato il compito di difendere la sicurezza interna della Repubblica e le istituzioni democratiche poste dalla Costituzione a suo fondamento da ogni minaccia, da ogni attività eversiva e da ogni forma di aggressione criminale o terroristica. Non è invece parte del Sistema di informazione per la sicurezza, il Reparto informazioni e sicurezza dello Stato maggiore della difesa (RIS), che svolge esclusivamente compiti di carattere tecnico militare e di polizia militare, soprattutto all’estero. Sul segreto di Stato è invece competente l’Ufficio centrale per la segretezza (UCSe) istituito nell’ambito del DIS e con il compito, tra gli altri, di rilasciare e revocare i nulla osta di sicurezza (NOS). Sistemi violati, spioni e misteri. Ormai l’Italia è una Repubblica tormentata dai dossieraggi di Valentina Stella Il Dubbio, 4 novembre 2024 L’Inchiesta sul dossieraggio scoppiata a Milano qualche giorno fa e che vede coinvolti nomi della finanza, non solo non rappresenta un caso isolato bensì è solo l’ultimo di una serie di episodi analoghi accaduti dall’inizio dell’anno nel nostro Paese. Si è cominciato a marzo con il cosiddetto “Caso Striano/Laudati”. Il primo Tenente della Guardia di Finanza, il secondo un magistrato in pensione, già in funzione alla Dna: entrambi finiti nella maxi inchiesta della Procura di Perugia, condotta da Raffaele Cantone, per presunti accessi abusivi alle banche dati della Direzione nazionale Antimafia e Antiterrorismo, e la conseguente rivelazione di documenti segreti e veri e propri dossier su vip e politici. A dare il via alle indagini la denuncia del ministro della Difesa, Guido Crosetto, uno dei principali bersagli dell’attività dei presunti spioni. Ma con lui ci sarebbero i ministri del governo Meloni Gilberto Pichetto Fratin, Marina Calderone, Giuseppe Valditara, Francesco Lollobrigida, Adolfo Urso, Maria Elisabetta Alberti Casellati, i deputati Chiara Colosimo, Andrea Delmastro, Tommaso Foti, Marta Fascina. Ma anche Matteo Renzi, così come il presidente della Federazione gioco calcio Gabriele Gravina, l’imprenditore Andrea Agnelli, l’ex dirigente del Miur Giovanna Boda, l’imprenditore Fabrizio Centofanti (già conosciuto per il Palamaragate), l’ex ministro Vittorio Colao, l’ex assessore alla Sanità del Lazio Alessio D’Amato, il sottosegretario della Lega Claudio Durigon, il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, e ancora Claudio Velardi, Tommaso e Francesca Verdini, l’ex vice presidente del Csm Michele Vietti, e molti altri. Comunque le informazioni, tramite wetransfer, sarebbero state inviate per email ai giornalisti del Domani Giovanni Tizian, Nello Trocchia e Stefano Vergine, indagati anche loro. Gli invii coprirebbero un arco temporale di tre anni e mezzo, dal maggio 2018 all’ottobre del 2022. Il secondo è più recente. Poche settimane fa la è stato arrestato un giovane hacker, Carmelo Miano, insospettabile e incensurato, al termine di una indagine coordinata dalla Direzione nazionale Antimafia e dal pool reati informatici della Procura di Napoli. Il ventiquattrenne, un informatico originario di Gela, ma domiciliato a Roma, è accusato di aver violato ripetutamente i sistemi informatici del ministero della Giustizia e di diverse aziende di rilevanza nazionale. Gli investigatori sostengono che Miano abbia avuto accesso alle comunicazioni di 46 magistrati di diverse procure italiane, compresi alcuni magistrati che stavano indagando sul suo conto, oltre a computer di funzionari, militari della Guardia di Finanza e agenti di polizia giudiziaria. Tra le altre, avrebbe violato le comunicazioni dei procuratori di Perugia, Firenze e del procuratore capo di Napoli Nicola Gratteri. Da chiarire ancora gli scopi di tali attività. In primis, come da stessa ammissione dell’indagato, lo avrebbe fatto per capire cosa la magistratura avesse in mano contro di lui. Si vocifera già che una volta definita la sua posizione processuale, Miano potrebbe essere assoldato dai nostri Servizi segreti: l’Italia vorrebbe evitare che un giorno un hacker così esperto finisca per lavorare per altri Paesi. Sempre ad ottobre viene indagato dalla procura di Bari il cinquantaduenne Vincenzo Coviello, un ex dipendente della filiale Agribusiness di Bisceglie (gruppo Intesa), per accessi abusivi - oltre seimila - ai conti correnti di vip, politici, ufficiali dell’Arma e della Finanza, giornalisti e altri personaggi pubblici, compresi alti prelati del Vaticano. Tra le persone di interesse dell’uomo licenziato in tronco (decisione impugnata) ci sarebbero la premier Giorgia Meloni, la sorella Arianna, i ministri Crosetto e Santanchè, il vicepresidente esecutivo in pectore della Commissione Ue Raffaele Fitto, il presidente del Senato Ignazio La Russa. E ancora i governatori Michele Emiliano (Puglia) e Luca Zaia (Veneto), il procuratore di Trani Renato Nitti e il capo della Dnaa Giovanni Melillo. L’uomo ha dichiarato di aver agito “per mera curiosità”. E nel procedimento disciplinare si è difeso producendo anche la relazione di uno psicologo, che attesta il suo essere affetto da “Disturbo di adattamento misto” ovvero disturbi emotivi e della condotta. E arriviamo appunto a qualche giorno fa e sull’ennesima presunta scoperta di rete di dossieraggio in Lombardia. Tra le accuse contestate c’è l’associazione per delinquere finalizzata all’accesso abusivo a sistema informatico, intercettazioni abusive, rivelazione del segreto d’ufficio e corruzione. Stando alle ipotesi della Dda di Milano sarebbero oltre 800mila le persone che potrebbero essere state spiate con accessi abusivi alle banche dati. Al momento si tratterebbe di una banda di spioni, composta anche da dipendenti dello Stato infedeli, dedita a rubare dati riservati a beneficio di clienti provenienti dal mondo dell’economia che conta. I bersagli principali? Imprenditori e le loro famiglie. I motivi? Affari e cuore. Infatti secondo l’accusa, ad esempio, Leonardo Maria Del Vecchio, figlio del fondatore di Luxottica e tra gli indagati eccellenti, avrebbe fatto inoculare un trojan illegale nel cellulare della fidanzata per vedere con chi messaggiava. E sempre a suo favore era stato confezionato ad arte un dossier nei confronti del fratello Claudio. Ad essere oggetto di dossieraggio anche Ignazio La Russa e i suoi figli. A chiedere approfondimenti sulla seconda carica dello Stato, sarebbe stato Enrico Pazzali, socio di maggioranza della società di investigazioni Equalize srl al centro dell’inchiesta e presidente della fondazione Milano Fiera. Caso spionaggio: il giallo degli accessi abusivi compiuti da agenti “non identificati” di Ermes Antonucci Il Foglio, 4 novembre 2024 Nell’indagine milanese in 14 casi l’accesso abusivo alle banche dati protette viene contestato a “pubblici ufficiali non identificati”. Un fatto tecnicamente impossibile: ogni accesso è tracciato ed è facile risalire agli autori. Cosa c’è dietro? Lo scandalo spionaggio emerso dall’inchiesta milanese sulla società Equalize non è solo uno scandalo di controlli mancati all’interno delle forze dell’ordine da parte di chi aveva il dovere di controllare, come abbiamo raccontato in questi giorni. Leggendo con attenzione l’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip del tribunale di Milano emerge un altro dettaglio piuttosto singolare e finora ignorato: su 145 capi di imputazione, in 14 casi il reato di accesso abusivo a sistema informatico viene contestato agli indagati in concorso con “un pubblico ufficiale non identificato” che “materialmente”, violando la legge, si è introdotto abusivamente “in un sistema informatico protetto da misure di sicurezza”, sia esso lo Sdi, Serpico (Agenzia delle entrate) o Siva (operazioni bancarie sospette). Come abbiamo già spiegato, grazie anche alla testimonianza di un colonnello dei Carabinieri, però, ogni accesso a queste banche dati è puntualmente tracciato. Gli agenti possono accedere solo con le credenziali personali e vengono quindi immediatamente identificati. Che un agente infedele risulti “non identificato” è dunque tecnicamente impossibile. Nello specifico, su 14 accessi abusivi commessi da pubblici ufficiali “non identificati”, sette sono avvenuti ai danni della banca dati Serpico, alla quale possono accedere gli appartenenti alla Guardia di Finanza, due alla banca dati Siva, che dà la possibilità di verificare le operazioni bancarie sospette ad alcuni selezionati agenti della Finanza, cinque allo Sdi (nello specifico due accessi alla banca dati Inps, due al Punto fisco e uno al Servizio sanitario nazionale). La banca dati interforze Sdi è di competenza del ministero dell’Interno. La gestione di Serpico e Siva spetta alla Guardia di Finanza. Nei giorni scorsi abbiamo ampiamente raccontato come l’accesso allo Sdi sia stato regolato da una serie di circolari del Viminale e da direttive dei comandi generali delle varie forze dell’ordine (Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia di stato, Polizia penitenziaria). Gli agenti possono accedere allo Sdi solo tramite le proprie credenziali personali, e lo stesso avviene anche per Serpico e Siva. Insomma, tutto è tracciato. Se dalle indagini emerge che un indagato ha ricevuto in una certa data alcune informazioni fiscali o previdenziali su due nominativi acquisiti da un pubblico ufficiale tramite accesso abusivo allo Sdi, sarà tecnicamente molto semplice per gli inquirenti risalire all’autore di quell’accesso e quindi identificarlo. Questo è avvenuto nel caso dei tre membri delle forze dell’ordine attualmente indagati nell’inchiesta milanese. Due sono in servizio alla Direzione investigativa antimafia di Lecce (Giuliano Schiano, maresciallo della Guardia di Finanza, e Tommaso Cagnazzo, maresciallo dei Carabinieri), mentre il terzo è in servizio al commissariato di Polizia di Rho-Pero, nel milanese (Marco Malerba, sovrintendente della Polizia). Tutti e tre, secondo i pm di Milano, avrebbero esfiltrato migliaia di informazioni riservate dallo Sdi per poi fornirle ai manager di Equalize in cambio di utilità. Com’è possibile, allora, che nell’ordinanza di custodia cautelare in 14 casi l’identificazione degli agenti infedeli non sia avvenuta? Come detto, la questione appare tecnicamente impossibile. Dunque, la domanda va rivolta non solo ai pubblici ministeri, ma anche al ministero dell’Interno e alla Guardia di Finanza. In attesa che questa vicenda surreale trovi risposta è possibile ipotizzare tre scenari. Il primo è illusorio, in quanto non sembra trovare molti appigli nella realtà: i pubblici ufficiali non identificati responsabili degli accessi abusivi sono in via di identificazione da parte degli inquirenti. Questi ultimi, però, nella loro richiesta di misure cautelari parlano seccamente di “pubblici ufficiali non identificati” e non accennano ad alcuna ulteriore verifica in corso. In ogni caso, se lo scenario fosse confermato, significherebbe che nell’inchiesta sono coinvolti altri agenti infedeli e ci sarebbe ben poco da festeggiare. Il secondo scenario è disperatamente pragmatico, ai limiti del fantasioso: gli agenti titolari delle credenziali di accesso alle banche dati hanno ceduto le credenziali a terze persone e poi hanno dimostrato in modo inconfutabile ai pm di non essere stati loro a effettuare gli accessi abusivi che vengono contestati. Ciò significherebbe che gli agenti avrebbero comunque violato le regole interne, cedendo a terzi le proprie credenziali personali, e confermerebbe un quadro di gestione all’acqua di rose degli accessi alle banche dati e di assenza di controlli interni. I responsabili degli accessi abusivi resterebbero ignoti. Il terzo scenario è per i malpensanti, ma non troppo: i pubblici ufficiali “non identificati” sono appartenenti ai servizi segreti. E in questo caso l’inchiesta prenderebbe tutta un’altra piega. “Ora chiediamoci chi ha ordinato e reso possibile questa fuga di dati” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 4 novembre 2024 L’inchiesta sui dossieraggi della Procura di Milano rappresenta il pericoloso tentativo di condizionare non solo la politica, ma anche l’economia. “Credo che quanto emerso - sostiene il professor Salvatore Sica, ordinario di Diritto privato all’Università degli Studi di Salerno faccia sorgere più di un dubbio rispetto all’esistenza di un disegno preciso. La divisione politica, poi, tra maggioranza e opposizione è ancora più inquietante. D’altra parte questo è lo stesso tema per cui, in particolar modo a sinistra, bisognerebbe rendersi conto che la battaglia per un ripristino della separazione dei poteri e per un giornalismo corretto, non invasivo, ma non per questo sottomesso, non è di destra. Non è una battaglia solo di una parte politica, ma è una battaglia direi comune, istituzionale. Anzi, secondo me, dovrebbe essere un tema privilegiato a sinistra più che a destra”. Professor Sica, il nuovo scandalo emerso con l’inchiesta di pochi giorni fa ha definitivamente confermato che la caccia alle informazioni è ormai diventata per qualcuno un affare. Come si proteggono i dati? I dati si proteggono da un punto di vista normativo, ma la principale difesa è di tipo tecnico. Ci sono dei margini di rischio quasi ineliminabili rispetto all’acquisizione dei dati. Non dobbiamo però dimenticare chi, nella vicenda che qui ci occupa, controllava l’integrità e la sicurezza delle banche dati da cui è stata fatta l’impressionante attività di dossieraggio. Teoricamente la norma individua delle figure precise e delle responsabilità specifiche. Adesso sarebbe molto interessante non solo concentrarsi sulla fuga dei dati, che è un fenomeno delicatissimo, ma soprattutto sarebbe molto utile sapere come mai il titolare del trattamento di questi dati, soggetto pubblico o privato, giustificasse il mancato livello di protezione che, evidentemente, nei fatti è venuto meno. Siamo diventati “la repubblica dei dossieraggi” o questa espressione è esagerata? Non è affatto un’esagerazione. Abbiamo superato ogni livello di guardia, perché si tratta più di un’attività spot legata ad alcuni soggetti infedeli, ma addirittura un’attività professionale. L’altra faccia della medaglia riguarda l’individuazione dei committenti dell’acquisizione dei dati e dei dossieraggi. Come nel caso dell’inchiesta di Perugia, tuttora in corso, non bisogna solo interrogarsi su chi ha compiuto accessi illeciti alle banche dati. Se si vuole arrivare al fondo del problema, occorre interrogarsi su chi sono i committenti e, soprattutto, per quale ragione effettuassero gli accessi illeciti. Spero che si passi dalla fase in cui si enfatizza la gravità di alcuni fatti emersi alla individuazione dei soggetti interessati ad acquisire dati riguardanti soggetti pubblici. Quando si fa riferimento alla democrazia, occorre rilevare che questa si fonda pure su un corretto mercato. Sarebbe interessante sapere, per esempio, se ci sono informazioni economiche sensibili che sono state trafugate, se sono state messe a disposizione di qualcuno e per quale finalità. Non sono marginali i profili deontologici connessi ad alcuni soggetti autorizzati ad entrare nei database o destinatari di una serie di informazioni. La deontologia conserva ancora una centralità nello svolgimento di determinati lavori? In un libro del 1995, che ho avuto modo di tradurre e pubblicare in Italia, il sociologo francese Claude-Jean Bertrand, riteneva ancora preminente lo strumento deontologico. In particolar modo, rispetto al giornalismo, Bertrand sosteneva che non occorresse un intervento normativo, sempre delicato in questa materia, ma che la deontologia, non solo intesa come generica regola etica di condotta, ma intesa come vero e proprio metro di misura della responsabilità professionale, fosse sufficiente. Una posizione che mi trova d’accordo. In riferimento al contesto attuale, il mio pensiero non può che andare ad un tipo di giornalismo voyeuristico, pruriginoso e tecnicamente ormai scadente, che sta prendendo piede in Italia. Non basta, però, solo la deontologia. Come per l’Intelligenza artificiale, la componente umana è sempre importante per regolare e gestire determinati processi. Ciò vale pure per la custodia e la protezione dei dati. L’elemento umano è imprescindibile? Nelle vicende che sono balzate agli onori delle cronache nei giorni scorsi la componente umana è messa al centro ed è andata in crisi con condotte illecite e infedeli. L’Intelligenza artificiale, va sempre sottolineato, non è buona o cattiva in sé. Io credo che ci vorrà molto tempo perché l’Intelligenza artificiale possa aspirare a sostituire l’intelligenza umana. È evidente che un’intelligenza umana perversa o deviata riceve un’amplificazione delle proprie potenzialità, in questo caso eversive, dall’Intelligenza artificiale. Con l’inchiesta della Procura di Milano sui dossieraggi ancora una volta, da più parti, è stato invocato l’ennesimo intervento legislativo. Cosa ne pensa? Non credo che occorrano per forza nuove regole, basterebbe applicare correttamente quelle esistenti. Faccio un esempio: il Regolamento europeo per la protezione dei dati personali prevede una filiera molto precisa di compiti e di successive responsabilità di soggetti ben individuati, il trattamento, il responsabile dei dati, il Data protection officer. Diverso il tema sulla istituzione di un’Agenzia nazionale per la protezione dei dati trattati in ambito pubblico, che, nel contesto in evoluzione, potrebbe avere un senso. I boss mafiosi (alcuni stragisti) tornano liberi, scoppia la polemica di Riccardo Arena La Stampa, 4 novembre 2024 Profumo di libertà per i mafiosi sepolti da ergastoli o condannati a pene pesanti: per poche ore o per pochi mesi, grazie a permessi premio concessi a detenuti-modello; o in attesa di una sentenza definitiva che non arriva a distanza di anni dagli arresti. Sono poco meno di una ventina i boss tornati in Sicilia o comunque usciti in permesso o in semilibertà. Numero che ricomprende anche coloro che sono fuori per la scadenza dei termini di custodia cautelare. Segno che la magistratura di sorveglianza crede alla volontà di riscatto di gente ormai anziana, fra i 70 e gli 80 anni, come Raffaele Galatolo, boss dell’Acquasanta e stragista del 1992, del capomafia di Santa Maria di Gesù Ignazio Pullarà, di Paolo Alfano, killer di corso dei Mille, detto Petru Zappuni per via degli incisivi pronunciati, tutti beneficiari di permessi premio, mentre Giovanni Formoso, che è all’ergastolo anche per la strage di via Palestro, a Milano, ha ottenuto la semilibertà: di giorno lavora in una istituzione religiosa di Scampia, la sera rientra nel carcere di Secondigliano. I permessi, di cui si è appreso in questi ultimi giorni, sono stati in gran parte già goduti dai capimafia o dai fidati gregari che hanno riassaggiato temporaneamente la libertà grazie alla loro trasformazione, che sarebbe avvenuta durante la detenzione, comprensiva di rottura col passato criminale. Anche Galatolo ha il permesso di uscire regolarmente da Secondigliano per andare a lavorare ed è stato anche a Palermo in permesso. Pullarà e Alfano, anche loro esponenti della vecchia mafia, dopo aver rivisto la loro città, sono di nuovo in cella. In comune tutti questi personaggi hanno l’essere irriducibili, mai una confessione, un’ammissione, una collaborazione con lo Stato. Eppure le regole e le loro interpretazioni, nel dibattito tra garantisti e sostenitori dei principi costituzionali legati alla rieducazione e alla non disumanità della pena, ballano ora da una parte, ora dall’altra: e le norme assai stringenti previste dal decreto legge 162 del 2022, finalizzate a circoscrivere il più possibile le chance di ottenere permessi o misure alternative al carcere, per i mafiosi, sembrano non coincidere con l’orientamento assai meno rigido della Consulta. Discorso diverso, invece, per i mafiosi del clan di Matteo Messina Denaro e per il boss emergente Giuseppe Corona: in comune queste due vicende hanno una Corte d’appello, come quella di Palermo, intasata da una miriade di processi minori e da organici di giudici quanto mai ristretti. È così accaduto che i dieci fiancheggiatori del boss del Trapanese, catturato il 16 gennaio 2023, dopo trent’anni di latitanza, e poi morto il 25 settembre successivo, avessero goduto di una riduzione di pena rispetto al primo grado di giudizio, grazie al venir meno dell’aggravante del reimpiego nell’economia legale dei proventi dell’attività illecita. Il processo per loro era stato annullato con rinvio dalla Cassazione e la nuova sentenza di secondo grado aveva disposto la riduzione delle pene. Cosa che ha fatto scendere il tetto massimo della custodia cautelare da 9 a 6 anni. Fuori dal carcere così anche Nicola Accardo, di Partanna, e Vincenzo La Cascia, di Campobello di Mazara, il paese dove Messina Denaro ebbe il proprio ultimo rifugio da libero. Situazione analoga per il palermitano Corona, pure lui beneficiario della condanna ridotta per via del venir meno di quella stessa aggravante di tipo economico e pure lui fuori per decorrenza dei termini: magra consolazione, una manciata di giorni dopo gli hanno imposto divieto di dimora in Sicilia, obblighi di stare a casa di sera e di firmare dalla polizia giudiziaria. Nel suo caso, sotto un profilo squisitamente probabilistico, la sentenza, che risale a marzo, sarebbe già potuta passare in cosa giudicata, ma la terza sezione della Corte d’appello non è ancora riuscita a depositare i motivi della decisione, che occorre conoscere per fare il ricorso in Cassazione. Quindi apparentemente Corona ha ancora mesi, se non anni, di libertà, davanti a sé. Sicilia. Carceri sovraffollate, il Codacons lancia l’allarme trapanisi.it, 4 novembre 2024 Chiesti interventi urgenti per migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Il Codacons lancia un appello al Ministero della Giustizia e alle altre Autorità competenti per affrontare con urgenza la situazione di sovraffollamento nelle carceri siciliane. I dati del 2024 indicano che la capienza delle strutture penitenziarie nell’Isola è ampiamente superata, con conseguenze gravi per la dignità e la salute psicofisica dei detenuti. “Il carcere - sottolinea il segretario nazionale Francesco Tanasi - deve rappresentare un luogo dove chi ha sbagliato possa espiare la propria pena, ma sempre nel rispetto dei diritti umani fondamentali. La pena, già di per sé afflittiva, non deve trasformarsi in una condizione disumana e degradante. Dobbiamo garantire a tutti i detenuti condizioni di vita dignitose, perché solo così possiamo evitare di alimentare il circolo vizioso della recidiva e dare loro una reale opportunità di reinserimento sociale”. Tanasi sottolinea l’importanza di creare percorsi di riabilitazione e di supporto all’interno delle strutture, affinché i detenuti possano acquisire le competenze e la consapevolezza necessarie per reintegrarsi nella società senza ripetere gli errori del passato. “È fondamentale investire in programmi di formazione e recupero che possano fornire a chi sconta una pena una prospettiva concreta di riscatto e un futuro lontano dalla criminalità”, aggiunge il Segretario Nazionale. L’appello del Codacons (Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori) si rivolge a tutte lei Istituzioni, locali e nazionali, affinché vengano adottate misure per alleggerire il carico delle carceri siciliane e per creare un sistema che non solo punisca, ma anche recuperi e riabiliti. Solo in questo modo sarà possibile restituire dignità ai detenuti, offrire loro una possibilità di riscatto e, al contempo, garantire una maggiore sicurezza alla collettività. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Dramma nel carcere, si toglie la vita un detenuto di 53 anni di Biagio Salvati Il Mattino, 4 novembre 2024 L’uomo si stava disintossicando ma era rientrato in carcere dopo una condanna di cumulo di pene (10 anni). ha usato lenzuola come corda. Ancora un dramma della solitudine nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere dove tra la festività di Ognissanti e il giorno dedicato ai defunti, un detenuto di 53 anni ha deciso di togliersi la vita. Vincenzo Bellafesta, di Caserta, era tornato in carcere dopo un lungo periodo di libertà a seguito del cosiddetto “cumulo di pena” per un totale di dieci anni di reclusione: sedici episodi legati a reati come piccoli furti e ricettazione commessi nel corso di diversi anni. Bellafesta, sposato e con figli, negli ultimi tempi aveva rifiutato i colloqui con i familiari e stava uscendo da un periodo di tossicodipendenza. L’altra notte però qualcosa è scattato nella sua mente nella cella che condivideva con un altro detenuto e ha compiuto il gesto estremo. Stando a quanto si apprende, avrebbe realizzato una corda con alcune parti di un lenzuolo per poi stringerla al collo dopo aver legato l’altra estremità ad una parte fissa e resistente della cella. Il corpo è stato rinvenuto dagli agenti penitenziari ma era già troppo tardi, neanche il compagno di cella si sarebbe accorto nell’immediatezza di quanto accadeva. Negli ultimi tempi, stando a quanto si apprende, avrebbe anche parlato di presunte minacce (non è chiara la provenienza) ricevute nel carcere, ma senza mai denunciare l’episodio. La Procura sammaritana ha disposto il sequestro della cella e l’autopsia sulla salma che potrebbe essere eseguita già in queste ore. Si tratta del primo suicidio dall’inizio dell’anno avvenuto nella casa circondariale “Uccella” e il decimo in Campania (lo scorso febbraio un detenuto si tolse la vita invece nella casa di reclusione di Carinola). Il Garante regionale Samuele Ciambriello, commenta in una nota il tragico episodio: “Ormai nelle carceri Italiane dall’inizio dell’anno - denuncia il Garante - sono 78 i suicidi, 1335 i tentativi di suicidio a metà settembre, mentre nella nostra regione sono circa 100 i detenuti che hanno tentato di uccidersi. La politica è assente, tace. Le carceri italiane sono diventate una discarica sociale, troppi i tossicodipendenti, i detenuti psichiatrici”. E aggiunge: Circa 8000 ristretti hanno un residuo pena pari a meno di un anno, 900 sono in Campania. Sono morti annunciate, omicidi di Stato, nella totale indifferenza anche della società civile per quello che accade nei luoghi di privazione della libertà”. Ciambriello sottolinea come siano rimasti “inascoltati gli appelli del Presidente Mattarella, del Papa, delle associazioni e dei garanti. Speriamo che la mobilitazione della prossima settimana indetta dalle Camere Penali, da diverse associazioni, dai garanti contro il Decreto Sicurezza, che ha un impatto esplosivo sul sistema penitenziario, possa quanto meno portare la politica e il Governo, vincendo il populismo penale, politico, mediatico, ad occuparsi realmente di carcere”. Il tasso di suicidi in carcere è 20 volte superiore ai suicidi delle persone libere ma occorre intervenire sull’organizzazione delle carceri, sul numero di psicologi, psichiatri ed educatori, figure di ascolto e di mediazione, ma anche sul numero dei progetti di inclusione sociale, di lavoro. Una riflessione sul tema potrebbe arrivare da uno dei momenti più significativi dell’intero pontificato e della storia stessa dei Giubilei: il 26 dicembre, festa di Santo Stefano, Papa Francesco aprirà la Porta Santa nel penitenziario romano di Rebibbia. In quel luogo, già visitato nove anni fa per un Giovedì Santo, il Papa vuole recarsi come “pellegrino di speranza” e porsi idealmente accanto ai detenuti di tutte le carceri sparse per il mondo. Milano. A Opera, tra 41 bis e speranze la sfida di un carcere che cambia di Luca Fazzo Il Giornale, 4 novembre 2024 Armando: “Fuori mi piaceva un’altra farina”. Ora fa pane e dolci. E anche gli ergastolani al carcere duro studiano per la laurea. Per anni è stato sulle pagine dei giornali, accusato e condannato per un delitto che nega di avere commesso. È il primo volto umano che appare, dentro la prima cinta del carcere di Opera. Appesantito, i capelli ormai bianchi. È piegato in giardino su un arbusto di rosa, che cerca in qualche modo di tenere in vita. “Ecco, io sono come questa roba qui. Si sta chiusi qua dentro, si invecchia, i giorni non hanno senso”. Carcere di Opera, nove e mezza di un mattino. Si prepara la festa d’addio a Silvio Di Gregorio, il direttore, che è stato promosso. Ha passato qui sette anni, a cercare di dare un senso alla vita quotidiana dei milletrecento uomini chiusi nel colosso. Ci sono quelli, come il vecchio piegato sulle rose del giardino, che questo senso non sono riusciti a trovarlo. Ma tanti ce l’hanno fatta. Nel percorso dei giorni tutti uguali, sono riusciti ad afferrare un bandolo. Tra loro, quasi incredibilmente, ci sono anche alcuni che sanno fin da ora che da qui usciranno solo in una bara: i sepolti vivi del 41 bis, gli ergastolani “ostativi”, gente la cui condanna impedisce ogni ritorno alla vita civile. Nulla di ciò che imparano qui dentro potranno metterlo in pratica fuori: né un mestiere, né un modo di essere. Eppure ci provano. Dei 107 detenuti di Opera che frequentano l’università, quaranta sono rinchiusi al 41 bis. Di Gregorio è un duro. D’altronde, racconta, “credo che in Italia nessun direttore sia stato più di me in carceri di massima sicurezza”. A Opera ha raccolto l’eredità di Giacinto Siciliano, che qui era stato aggredito da un malavitoso, e minacciato di morte da Totò Riina. Ora Riina non c’è più, ma il reparto 41 bis di Opera è ancora lì, isolato dal resto, inaccessibile alle visite. Come ci si rapporta con loro? “L’importante è essere chiari. Non siamo loro amici, noi non abbiamo scelto loro, e loro non hanno scelto noi. Ma siamo qui per dare a tutti una possibilità di riscatto, altrimenti il nostro mestiere non avrebbe senso”. Dopo la prima cinta, inizia il carcere vero. Niente a che vedere con la “malabolgia” di San Vittore, con i matti, i tossici, i disperati ammucchiati in letti a tre piani. Ma niente a che vedere neanche con Bollate, le sue porte aperte, il suo andirivieni di gente. Basta inoltrarsi oltre il secondo cancello, guardarsi intorno, per capire come mai dal 1989 da qui non sia mai riuscito a evadere nessuno. Tra le opzioni che Opera offre ai suoi ospiti, non c’è quella di tagliare la corda. E allora, se di scappare non c’è modo, che senso dare ai giorni? Dice Armando: “Dipende tutto da come la prendi. Se l’unica cosa che sai fare è stare in cella a giocare a carte, non puoi lamentarti se il senso non lo trovi”. L’Armando è dentro da quindici anni, gliene mancano altrettanti, lavora alla grande panetteria interna. Facevi il prestinaio anche fuori? “Diciamo che mi piaceva un altro tipo di farina”. Adesso è lì che sgobba come mai in vita sua, focacce, pizzette, torte, per il mercato interno, la spesa dei detenuti, e per le scuole di Cusano Milanino che hanno un appalto col carcere. “Galleria delle opportunità”, dice la scritta all’entrata del corridoio dei laboratori. Dei milletrecento detenuti, a scegliere di lavorare sono più di cinquecento. Si fa di tutto, dai decoder per Sky ai lavori di sartoria. Poi c’è il fiore all’occhiello, il laboratorio simbolo dove si costruiscono violini col legno dei barconi naufragati a Lampedusa. Andrea è lì dall’inizio, lui con il legno e gli attrezzi aveva già confidenza prima, “però facevo i tetti, che non è la stessa cosa che fare strumenti musicali”. Trasformare le assi malconce dei barconi, trattarle, farne le cinque doghe della cassa armonica richiede una pazienza da certosino: “Qui il tempo è l’unica cosa che non manca”. Dei delitti commessi fuori si parla poco e malvolentieri, “mi chiamo Alberto, il cognome lasciamolo stare”: distinto, bella parlata lombarda e colta, un “fine pena mai” timbrato sul fascicolo, dirige il laboratorio dei decoder, parla con orgoglio imprenditoriale della produzione, “siamo arrivati tra decoder e cavi a 500mila pezzi all’anno”, “ci hanno confermato le commesse, siamo al primo posto nella classifica qualità”. Sui banconi, sugli attrezzi, sugli operai chini aleggiano le domande eterne sul delitto e sulla pena, sulla sanzione e la rieducazione. “Il primo passo - dice Di Gregorio - è portarli a perdonare se stessi”. Qualcuno il clic, l’interruttore, lo trova scavandosi dentro, come il panettiere Armando: “I primi anni ero incazzato, non volevo essere aiutato, mi sentivo addosso una condanna all’ergastolo. Poi, un po’ alla volta, inizi a farti tante domande, a darti delle risposte, e le cose cambiano”. Altri il clic lo trovano fuori, nel rapporto con gli altri: Matteo dei suoi 43 anni ne ha fatti venti in carcere, iniziando dal Beccaria, “per me tutto è cambiato quando ho incontrato Marisa Fiorani, a cui la mafia pugliese ha ucciso una figlia, e che per me oggi è come una madre adottiva. Se lei ha superato un dolore così grande, allora io posso superare i rancori che mi porto dentro da ragazzino, e che usavo per giustificare me stesso”. Non sarà mai un carcere morbido, Opera: perché qui la necessità punitiva dello Stato, il bisogno di sicurezza della collettività, si esprimono in tutta la loro potenza. Ma una seconda chance viene offerta a tutti, o quasi. Fanno la loro parte in tanti: direttori, agenti, detenuti. L’unico a non farla è lo Stato. Quando Di Gregorio è arrivato, il cantiere per 400 nuovi posti era fermo causa burocrazia. Di Gregorio se ne va, e il cantiere è ancora lì. Roma. Alternative al carcere, la Comunità luogo che cura il cuore dell’uomo di Roberta Barbi vaticannews.va, 4 novembre 2024 All’evento in Senato “Oltre il carcere: misure di comunità per una giustizia educativa” la testimonianza della Comunità Giovanni XXIII che da 20 anni sperimenta le Cec - comunità educanti con i carcerati - in cui sono state accolte e restituite alla vita oltre quattromila persone. C’è la storia di Giulianone - in tutto 27 anni di pena - che la sera stessa della sua uscita dal carcere dopo la prima condanna a 7 anni è tornato immediatamente a delinquere; poi c’è Paolo che parla della rabbia che monta in cella e che una volta fuori fa da molla per affrontare un delitto ancora più grande; e c’è Gianluca arrivato alla devianza per una violenza che lo ha segnato per tutta la vita. Sono solo alcune delle testimonianze che possono portare gli operatori della Comunità Giovanni XXIII, tra i promotori dell’evento “Oltre il carcere: misure di comunità per una giustizia educativa”, al quale hanno dato un apporto originale e significativo, vista l’esperienza delle Cec - le comunità educanti con i carcerati - che sperimentano da 20 anni: “Il carcere non è una risposta adeguata per molti di quelli che vi sono rinchiusi - dichiara ai media vaticani Giorgio Pieri, responsabile del progetto Cec - la comunità, invece, ha come caratteristica fondante l’obbligo di donarsi agli altri ed è un luogo di cura”. Nelle comunità educanti con i carcerati in Italia in cui la Giovanni XXIII ha accolto circa quattromila persone, lavorano i volontari del territorio che spesso intraprendono con gli ospiti un rapporto personale: “Ci si prende cura gli uni degli altri - racconta ancora Pieri - spesso chi commette un atto deviante è una persona ferita e spesso le ferite riguardano violenze, a volte perpetrate in famiglia, la mancanza della figura paterna… bisogna accogliere ogni persona così com’è e accompagnarla verso la libertà interiore per farla tornare a vita nuova”. A un certo punto, però, le persone accolte in comunità devono scegliere se accettare di cambiare oppure tornare in carcere. Le storie raccontate dalla Comunità Giovanni XXIII dimostrano come il carcere sia un deterrente solo nell’immaginario collettivo, ma non nella realtà, stando anche ai dati della recidiva in Italia che si attesta intorno al 70%: “Il carcere aumenta la rabbia e la frustrazione - prosegue il referente delle Cec - la pena invece deve tendere a una riabilitazione, perciò devono essere impiegati gli educatori che tirano fuori il meglio da ognuno, attivando processi di crescita perché in fondo, anche le persone che hanno commesso reato sono solo persone che hanno un desiderio di felicità che vogliono soddisfare”. La Comunità Giovanni XXIII ha lanciato un appello affinché percorsi di accoglienza e rieducanti fuori dal carcere siano offerti anche alle donne incinte detenute e alle ristrette che sono mamme e vivono negli istituti con bambini al di sotto di un anno d’età, anche se non tutte possono essere accolte, ad esempio se hanno una condanna superiore ai quattro anni: “Abbiamo una Cec femminile a Savignano dove in questo momento sono ospitate quattro mamme rom con i loro cinque bambini che vanno regolarmente a scuola - dichiara Pieri - ai bambini in carcere si deve dire sempre e comunque no”. Il responsabile delle Cec le definisce ospedali da campo prendendo in prestito le parole di Papa Francesco: “Le nostre comunità sono un luogo in cui ci si occupa del cuore ferito dell’uomo in cui il male cresce se non viene curato - conclude - mi piace pensare che io sono l’infermiere, ma il medico sta lì, nella cappella, ed è l’unico in grado di sradicare davvero il male dal nostro cuore”. Padova. Nella Casa circondariale prende avvio il progetto “Kutub Hurra/Un ponte per” venetonews.it, 4 novembre 2024 Il progetto “Kutub Hurra/Un ponte per” è indirizzato ai detenuti arabofoni. Si tratta di un’attività già sperimentata da un anno nella Casa di reclusione di Padova oltre che in altre carceri italiane e promossa a Padova dalla Biblioteca, dalle cooperative AltraCittà e Orizzonti e dal Garante dei detenuti, in stretto rapporto con l’associazione “Un ponte per”, che si occupa di programmi di cooperazione e solidarietà internazionale, e l’”Association Lina Ben Mhenni”, con sede in Tunisia, che rifornirà gratuitamente la biblioteca della Casa Circondariale di Padova di libri di autori e autrici arabofoni, scritti nella lingua madre. Sono molteplici gli obiettivi del progetto: dal promuovere una maggior inclusione della popolazione arabofona, ad incrementare la lettura anche fra gli stranieri detenuti, dall’abbattere muri ideologici promuovendo il confronto interculturale, a diffondere la letteratura laica araba e occidentale per contribuire alla prevenzione della diffusione in carcere e fuori del radicalismo islamista. La presentazione ufficiale dell’iniziativa con la consegna dei primi 50 libri di letteratura laica araba in lingua originale, cui seguirà la lettura di alcuni brani fatta sia in italiano sia in lingua araba, avrà luogo in conferenza stampa: lunedì 11 novembre 2024, dalle ore 11:00 alle 12:30 nella Casa circondariale di Padova in via Due Palazzi 25/a. Per il Comune di Padova sarà presente l’assessora ai Servizi sociali, Margherita Colonnello, insieme al Garante dei detenuti Antonio Bincoletto. L’invito è rivolto ai media; per partecipare è richiesto l’accredito entro venerdì 8 novembre. Cremona. Oltre le sbarre l’anima della musica regala libertà di Gilberto Bazoli laprovinciacr.it, 4 novembre 2024 Lo speciale concerto per i detenuti di un trio d’archi d’eccezione. Il progetto di Agon Ensemble, le emozioni di Moruzzi, Shek e Costanzo. Il sabato sera davanti al pubblico incantato del Museo del Violino. Il mattino dopo tra i detenuti meravigliati di Ca’ del Ferro. Con la stessa passione, la stessa maestria, la stessa voglia di regalare bellezza. “Quello nella Casa circondariale è stato un momento emozionante per noi che crediamo nel valore sociale della musica. Speriamo di ripetere questa esperienza in altri luoghi come le scuole, le case di riposo e gli ospedali”. Protagonista di questa domenica speciale dietro le sbarre un trio d’archi d’eccezione formato dal violoncellista cremonese Marco Mauro Moruzzi (nella foto qui sotto) e dalle violiniste Gabrielle Shek, di origini cino-giapponesi e nata a Los Angeles, e Lucrezia Costanzo, catanese. Fanno parte di Agon Ensemble, che riunisce talentuosi artisti sparsi in giro per l’Europa proponendo ed esplorando sia il repertorio classico sia quello contemporaneo. Marco Mauro Moruzzi, 24 anni, laureatosi da poco presso la prestigiosa Università Mozarteum di Salisburgo, dove lavora con l’Orchestra Mozarteum e dove abita, è fratello di Martino, clarinettista, 27 anni, trasferitosi a Stoccolma, orchestrale presso l’Opera Reale Svedese. Sono figli di Mauro, grande clarinettista anch’egli, che ha perso la vita in un incidente stradale il 21 settembre 1999. “Martino ci teneva a mettere insieme un gruppo - spiega il secondogenito - che suonasse non solo nei teatri o ai festival ma anche per le categorie della popolazione più fragili”. È così nata l’idea del concerto in carcere. Il giovane violoncellista racconta minuto per minuto quella giornata particolare, cominciata con un selfie all’ingresso di Ca’ del Ferro. Sono stati ricevuti dalla direttrice, Rossella Padula, con la responsabile dell’area educativa, Lucia Monti, e il personale di polizia penitenziaria. “Ci hanno accompagnato nel teatro interno: davanti a noi una cinquantina di detenuti. C’era il palco, abbiamo però deciso di non salirvi sopra ma di stare di fronte a quelle persone, alla stessa altezza, allo stesso livello, per eliminare la distanza, per significare che noi non eravamo i buoni e loro i colpevoli”. L’esibizione si è aperta con un brano (Largo dalla sonata per trio op. 4 n. 3) di Arcangelo Corelli, presentato, come il resto del programma, dalle parole di Marco Mauro. “Ho cercato in qualche modo di lanciare qua e là dei messaggi. Quello di Corelli è un motivo pacifico, disteso. L’ho collegato al fatto che a volte la vita ci mette alla prova con scelte difficili ma alla fine, anche se può sembrare incredibile, essa si basa su cose semplici”. È poi toccato a Bach (Largo dalla sonata per organo BWV 529, Allegro ma non troppo dalla sonata per trio BWV 1039, Largo dal concerto per due violini). “Ho sottolineato l’architettura, le regole, l’ordine di quelle note. Ho anche detto che la collaborazione tra musicisti si fonda sul rispetto reciproco. Un valore, il rispetto, universale”. Dopo i classici, le colonne sonore scritte da Ennio Morricone per Mission e Nuovo cinema paradiso. “Abbiamo spezzato un po’ lo spettacolo con qualcosa di più vicino al linguaggio dei giorni nostri. Riprendendo la scena in cui viene eseguito il brano Gabriel’s Oboe, ho parlato della musica come forma espressiva capace di toccare i sentimenti e avvicinare tra loro persone che non potrebbero connettersi in altra maniera. Come avviene nell’incontro con un indigeno rappresentato nel film”. Infine, Antonio Vivaldi (Sonata per Trio la Follia). “Ho preso lo spunto per soffermarmi sulla genialità dell’uomo, che avendo stima di se stesso può creare capolavori, e sull’importanza del contributo del singolo allo sviluppo dell’intera comunità”. È andato in scena un vero dialogo inframmezzato dagli applausi scroscianti degli spettatori. “Ci hanno chiesto chiarimenti su questa o quella composizione e sulla storia dell’autore. Uno di loro ha confidato che, ascoltandoci, si era ricordato di quando aveva regalato un violino alla figlia; qualcuno si è mostrato interessato ai risvolti tecnici del nostro lavoro. Gli occhi erano tutti per noi, al cento per cento. Mi ha colpito la sensibilità di quei ragazzi, mossi, toccati dalla musica”. Dopo un’ora trascorsa insieme, ringraziamenti e complimenti. “I tre concertisti sono stati di una bravura incredibile, non solo nella loro arte ma anche nel modo di rapportarsi con i detenuti, che sono stati catturati da loro dimenticando per qualche istante le proprie preoccupazioni. Tanto che uno di essi ha proposto di organizzare un momento del genere una volta al mese. Anch’io ho apprezzato molto l’esibizione”, commenta la direttrice Padula. “È stata un’esperienza unica, emozionante - riprende il violoncellista cremonese -. È giusto che il diritto di ognuno alla bellezza venga preservato. Siamo inclini a questa idea, il nostro Ensemble vuole prestare la sua voce al valore sociale della musica”. Una voce, quella dei fratelli Moruzzi e dei loro colleghi, che non è isolata. “Basti pensare a Claudio Abbado: ha collaborato alla fondazione in Venezuela di un sistema musicale grazie al quale i ragazzi che prima si ritrovavano in mano una pistola o un quantitativo di droga, ora hanno un violino o un altro strumento. Un sistema sfociato nella creazione di orchestre bellissime”. Terminato il concerto, Marco Mauro è ripartito per Salisburgo con una speranza: “Aver dato il nostro piccolo contributo, offrendo una giornata rilassante e diversa, al cammino di quegli uomini verso la riabilitazione”. Ma il progetto di Agon Ensemble non si è concluso. Al contrario. “La nostra intenzione è espanderlo suonando, oltre che per i bambini delle scuole, anche nelle case di riposo e negli ospedali: per i malati e gli anziani la musica può essere un ristoro, una medicina gratuita per l’anima”. Attori in carcere: “Sono persone, non sono reati” di Giovanni Bogani luce.lanazione.it, 4 novembre 2024 “Qui è altrove” è un film di Gianfranco Pannone che racconta laboratori teatrali con i detenuti: “Aniello Arena e altri hanno fornito prove magnifiche sul palco, provenendo dal mondo dietro le sbarre”. Il teatro ti può fare uscire da una prigione mentale. Ti permette di affrontare paure, complessi, fantasmi. Ti fa uscire dai labirinti della solitudine. Ti fa capire che altri vivono i tuoi sogni e i tuoi timori. Il teatro - la pratica del teatro - può anche farti uscire da una prigione reale. O almeno, può rendere meno opprimenti le pareti di un carcere. Può contrastare l’effetto più silenzioso e devastante che il carcere produce: spegnere la vitalità, la creatività, la speranza. Armando Punzo da 35 anni cura laboratori teatrali con i detenuti del carcere di Volterra. Crea teatro insieme a loro. E forma degli artisti, che in molti casi hanno proseguito poi l’attività una volta usciti dall’istituto penitenziario. Gianfranco Pannone, uno dei più bravi e premiati documentaristi italiani, è andato con la sua telecamera a raccontare questa storia. Ne è nato un film che è stato presentato sabato 2 novembre, in anteprima italiana, al Festival dei Popoli, la più importante rassegna europea di cinema documentario. Il film si chiama “Qui è altrove”. “Conosco Armando Punzo da molti anni, ammiro il suo lavoro”, dice Pannone. “Insieme a lui e a Cinzia De Felice, abbiamo pensato di raccontare le storie del suo laboratorio, e quelle di altre quindici compagnie teatrali che, in tutta Italia, lavorano all’interno delle carceri”. Qual è il centro del film, qual è il punto di partenza che la ha guidata, Pannone? “Il pensiero che molti fra noi cercano di allontanare l’idea dei detenuti e tutto ciò che li riguarda: dicono ‘Sono affari loro’. Beh, invece no. Quei detenuti non sono i ‘cattivi’, che stanno dall’altra parte della lavagna. In determinate circostanze, potremmo esserci noi, lì dentro”. Come si è regolato, nell’incontrarli, per intervistare i detenuti? “Non ho chiesto loro che cosa hanno fatto, non lo voglio sapere. Quelle sono persone, non sono ‘reati’. Io ero una persona fra altre persone”. Ha cercato un approccio delicato nelle loro vite. “Ho cercato di entrare in punta di piedi, mi sono sentito spoglio di sovrastrutture, di preconcetti. Ancora oggi, ci sono 70 persone che si suicidano ogni anno nelle carceri. Non è facile mantenere l’equilibrio mentale lì dentro”. Che cosa dice il film allo spettatore, secondo lei? “Dice che un altro carcere è possibile, se ti approcci all’altro come persona”. Dall’esperienza del teatro a Volterra è nato un attore di assoluto valore, Aniello Arena, protagonista di “Reality” di Matteo Garrone, e adesso di “Hey Joe” con James Franco. “Aniello ha ritrovato se stesso, è uscito dal carcere, ha ricevuto il perdono dal presidente della Repubblica Mattarella, è l’esempio di una vita che si è totalmente rigenerata grazie al teatro. Ma non è che la punta dell’iceberg. Altri hanno fornito prove magnifiche come attori, provenendo dal carcere - penso a Salvatore Striano, il protagonista di ‘Cesare deve morire’ dei fratelli Taviani - e molti altri stanno lavorando con ottimi risultati”. Che strada percorrerà il film? “Farà un percorso di festival, dal Med film festival di Roma al Palma film festival. Ma soprattutto, dal 22 novembre, iniziando simbolicamente da Volterra, sarà in diverse sale italiane, distribuito da Bartleby Film. Poi, essendo una coproduzione con la Svizzera, sarà nella tv della Svizzera italiana. Spero che venga accolto anche dalla tv italiana con lo stesso entusiasmo”. L’ex brigatista e il film che fa discutere di Manuela Plastina La Nazione, 4 novembre 2024 Abatangelo oggi alla presentazione di “Pensando ad Anna”, ispirato alla sua vita. Prima mondiale oggi alla terza giornata del Festival dei Popoli di Firenze (ore 18.30, cinema La Compagnia) per “Pensando ad Anna”, film sulla storia dell’ex br Pasquale Abatangelo, presente nelle principali rivolte che hanno scosso negli anni 70 le carceri italiane. La pellicola, di Tomaso Aramini, è in selezione nel concorso italiano e Abatangelo, secondo quanto riferito dagli organizzatori, sarà in sala e interverrà al termine della proiezione. Nato a Firenze il 2 novembre 1950, ex delinquente politicizzato e cofondatore dei Nap, organizzazione armata di sinistra attiva nei diritti dei detenuti, venne arrestato nel 1974 dopo un conflitto a fuoco con i carabinieri in cui rimase seriamente ferito e fu imprigionato alle Murate. Abatangelo, mai pentito né dissociato, ha scontato venti anni di detenzione, sei di semilibertà, e quattro anni di libertà vigilata; fu anche uno dei tredici detenuti politici di cui le Br chiesero la scarcerazione in cambio del rilascio di Aldo Moro. Il film, viene spiegato nella presentazione, intreccia interviste, con Aramini e il giornalista Fulvio Bufi, ricostruzioni performative e materiale d’archivio, in un ‘esperimento live’ che si interroga sulla necessità della violenza politica per il cambiamento sociale. Le scene, girate in due settimane tra le celle dell’ex ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli, vedono gli attori Luca Iervolino e Tiziana De Giacomo interpretare Abatangelo e la sua compagna Anna scomparsa nel 2018. Lo scorso anno, sempre a Firenze, Abatangelo aveva partecipato alla presentazione di un libro al Cpa Firenze Sud di via Villamagna. La ‘ndrangheta, il carcere e una nuova vita. Dall’inferno al ritorno, la storia di Manuel di Fabio Benincasa Corriere della Calabria, 4 novembre 2024 Matteo Zilocchi, nel suo libro, racconta di un ex braccio armato della mala calabrese. “Ho avuto paura di ricascarci, ma oggi sono libero”. Scegli di stare dalla parte sbagliata, percorri le scorciatoie che conducono ad una vita segnata da sangue e crimine, silenzio e omertà, danari e fughe. La ‘ndrangheta promette potere e arruola con facilità i suoi soldati. Poi un giorno, il sogno di rimanere impuniti dopo aver commesso svariati crimini svanisce quando le forze dell’ordine bussano alla tua porta e ti stringono le manette ai polsi. Inizia tutta un’altra storia, una vita dietro le sbarre passata a rinnegare quella scelta, a pentirsi dei reati commessi. Si passa dalla ‘ndrangheta all’inferno del carcere. È la storia che racconta nel suo ultimo libro “All’inferno e ritorno. Un uomo nella ‘ndrangheta, in carcere e verso una nuova vita”, il giornalista Matteo Zilocchi. Che raccoglie la testimonianza inedita di chi come “Manuel” (nome di fantasia) ha prima lottato - non da affiliato - accanto alla mala calabrese e poi ha scontato 16 anni di reclusione per i propri peccati dopo essere stato arrestato in una delle più importanti operazione contro la ‘ndrangheta al nord. Gli inizi - “Quando nasci in certi posti sei segnato dal destino”. Lo ha detto il procuratore di Santa Maria Capua Vetere Pierapolo Bruni, alla guida fino a pochi mesi fa della procura di Paola. Una frase che descrive esattamente la vita di “Manuel”. Zilocchi, al Corriere della Calabria, compie un flashback e torna a quando da giovane “conoscevo Manuel, sapevo chi fosse. Poi ho saputo che era entrato in un brutto giro, ma solo quando lo hanno arrestato ho davvero capito chi fosse e cosa facesse”. Era un braccio armato della ‘ndrangheta. “Leggendo un libro durante la pandemia mi è venuta in mente la sua storia, ho cercato informazioni e sono riuscito a contattarlo. Era uscito dal carcere da poco”. Il protagonista del libro è cresciuto in uno dei quartieri più difficili di Milano, in periferia e lontano dalla movida di San Babila. Un destino quasi segnato il suo, che parte con i primi reati commessi da giovane. “Viene notato da uomini della mala che lo mettono alla prova, prima affidandogli un business di vendita di automobili e dopo “promuovendolo” a responsabile del traffico di droga”. Il carcere - Arrestato, al termine di un blitz antidroga, Manuel sconta la sua lunga pena in tre diversi carceri, “San Vittore, Opere e Bollate”. Nonostante alti e bassi, e la costante paura di cadere in tentazione, l’ex uomo fidato della ‘ndrangheta riesce a venirne fuori. “Ha confessato che a salvarlo è stata la capacità di non affiliarsi”. Manuel conosce bene il crimine, come dicevamo prima, ha “cominciato a delinquere prima di entrare in un’organizzazione”. Importante l’aiuto della madre che “l’ha spinto a lavorare, lui lo ha anche fatto con successo ma poi ha ceduto dinanzi alle avances di uomini vicini ad una potente cosca di ‘ndrangheta radicata in Lombardia”. Inizia un periodo buio, segnato dai reati e dal malaffare. E poi il carcere. “Non l’aveva mai vissuto, ha scoperto che era ben peggiore di quanto lui potesse immaginare. In una fase iniziale ha continuato a comportarsi da criminale, mantenendo il suo “status” poi il percorso intrapreso all’interno dell’istituto penitenziario gli ha aperto gli occhi. “All’inizio rifiutava il supporto di educatori e psicologi, poi ha chiesto aiuto per disintossicarsi”. Manuel, nel libro, avrà modo di confessare a Matteo Zilocchi la propria dipendenza dalla droga “dai 14 anni” e di come gli stupefacenti “abbiano influenzate tutte le sue scelte senza garantire la necessaria lucidità”. La svolta - Se quello con gli uomini della mala gli è costato parte della propria vita, l’incontro con una psicologa in servizio nel carcere di Opera ha cambiato, in meglio, il suo destino. “E’ riuscita in qualche modo a trovare la chiave per smuoverlo. Il passo successivo è stata la richiesta di essere trasferito a Bollate, e dopo qualche resistenza ha ottenuto il trasferimento. E’ stato un ulteriore step”. Il ritorno alla vita “normale” - Il ritorno alla normalità per chi ha trascorso 16 anni in carcere fa più paura dell’isolamento o dell’assenza di un’ora d’aria. Manuel lascia l’istituto penitenziario e “dopo aver trascorso qualche mese in una comunità di recupero per tossicodipendenti, si è trovato senza lavoro. E’ stato tentato nel tornare a delinquere, ma ha resistito e tenuto duro. Ha trovato lavoro e da quel momento non si è mai voltato indietro”. C’è un passaggio fondamentale, sottolineato da Zilocchi. “Durante il processo, alcuni imputati, gli dicono di non mollare e che appena usciti lo avrebbero cercato per riconquistare insieme il mondo. In quel momento Manuel capisce quanto sia povera la vita di quelle persone che attendono di lasciare il carcere non per godere della libertà ma per tornare a commettere reati”. La ‘ndrangheta in Lombardia è sottovalutata - La storia vera raccontata da Zilocchi nel suo libro porta ad una ulteriore riflessione, quella legata alla presenza della ‘ndrangheta in Lombardia. “Vivo a Milano, ogni giorno leggiamo di omicidi, rapine e altri reati. La sicurezza è spesso una questione di percezione. Oggi Milano è considerata una città poco sicura per via della micro criminalità, ma la gente non è affatto preoccupata della ‘ndrangheta”, confessa l’autore. “Tutti sembrano rimasti fermi all’immagine della mafia legata a Cosa nostra, alle stragi, ai morti ammazzati per strada. Oggi i mafiosi indossano giacca e cravatta e sono tornati ad operare come facevano una volta, nell’ombra e lontani dai riflettori”. Infine, Matteo Zilocchi ci tiene a sottolineare un altro passaggio del libro. “Racconto anche il carcere, spesso degli istituti di pena parliamo sottolineando giustamente il numero dei sucidi o il problema del sovraffollamento, ma il carcere sa anche svolgere la sua funzione, ovviamente è necessaria l’intenzione del detenuto”. Manuel dice che “il carcere ti dà la cassetta degli attrezzi, ma non ti dice come utilizzarli, devi essere tu che ad avere la forza e la volontà di utilizzarli”. “Io maestro nel carcere di Turi. Quante storie dietro le sbarre” di Valentino Sgaramella Gazzetta del Mezzogiorno, 4 novembre 2024 Gli hanno rinnovato la patente per altri 2 anni. Stefano Romei, 97 anni tra un mese, guida ancora in tranquillità la sua Fiat 500. Dal 1956 al 1991 è stato maestro elementare nel carcere di Turi. Questo anziano signore che ci accoglie nel suo appartamento dai modi garbati e gentili, conserva un pezzo di storia cittadina. La sua famiglia è di Montevarchi, in provincia di Firenze. Il papà, Settimio, nel 1928 è inviato al carcere di Turi come agente di polizia penitenziaria, conoscerà Antonio Gramsci e Sandro Pertini. Negli anni ‘40, Stefano, dopo la maturità magistrale, diviene maestro elementare. Cultore di musica, diviene organista e fisarmonicista. Grazie al giovane arciprete e cappellano del carcere, don Peppino Contento, Romei sarà organista ufficiale di tutte le chiese turesi. Nel 1956, inizia ad insegnante ai detenuti. “All’epoca il carcere ospitava 250 detenuti, tra cui decine di ergastolani, i più anziani in Italia, molti minorati fisici e psichici”, ricorda lucidamente. Fino al 1954, una di quelle celle ospita anche il boss di Cosa Nostra, Totò Riina. L’Italia sta cambiando. Il carcere non è più un luogo in cui scontare una pena ma struttura che riabilita chi ha sbagliato. Le strade del giovane Romei e quella del nuovo direttore del carcere, Eugenio Perucatti, si incrociano nel 1960. Il direttore porta idee innovative, spesso non compreso. Il nuovo direttore rivolta Turi come un calzino. Nel carcere si avviano cantieri edili. Scompaiono le vecchie camerate e nascono nuove celle con servizi igienici e nuova pavimentazione, una sartoria, una falegnameria ed una barberia. Romei, frattanto, tiene lezione in aula. “Entravo ogni mattina alle 8 e terminavo alle 11.30. Le classi erano due - racconta - la prima raggruppava la 1a, la 2a e la 3a elementare; l’altra comprendeva la 4° e la 5°, ci alternavamo con un collega”. Romei, d’intesa con il direttore, gestisce una sala teatro per opere musicali e teatrali. Romei si occupa anche della censura della corrispondenza ed è garante per l’Inps per la pensione ai detenuti. Oggi, Stefano De Carolis, sottufficiale dei carabinieri, giornalista e storico locale, presidente dell’associazione culturale “La Faldacchea di Turi” ha inviato al sindaco, Giuseppe De Tomaso, la richiesta ufficiale di intitolare una via o una piazza all’ex direttore Perucatti. “La nostra missione - prosegue Romei - era anche quella di spronare i detenuti analfabeti a frequentare il ciclo di studi. Lo sprone era convincerli a studiare perché non riuscivano a leggere le lettere che arrivavano dalle loro mogli e dai parenti, e il più delle volte si rivolgevano ad altri detenuti che sapevano leggere e scrivere. Chiaramente la privacy veniva meno”. “Noi maestri, quasi sempre, oltre all’insegnamento provvedevamo a tradurre il loro stretto dialetto calabrese e siciliano, quando dovevano conferire con il giudice di sorveglianza, con il direttore del carcere, che non comprendevano una sola parola del loro stretto dialetto. La nostra figura - chiosa Romei - era anche quella di psicologi e assistenti sociali. Per la riscossione della pensione ed altre incombenze, avevo un mandato firmato dal giudice della Pretura di Putignano. Ricordo con piacere il Pretore Giagantesco”. Tra i tanti ricordi professionali vissuti da Stefano Romei nella Casa Circondariale di Turi, un posto speciale lo occupa la visita del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, avvenuta nel 1980: “Quel giorno, assieme al Direttore Spinelli, accompagnai in visita il Presidente Pertini. Ricordo che, quando il Presidente fu dinnanzi alla cella di Antonio Gramsci, rimase molto perplesso e stupito di quella ubicazione, esclamando che quella non era la cella di Gramsci. Nonostante ciò, entrò da solo nella cella per un momento di riflessione”. A seguito di quella storica visita, il Presidente Pertini conferì al maestro Romei la benemerenza di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana. A proposito dell’ubicazione della cella di Gramsci il maestro Romei con dovizia di particolari asserisce: “La cella dov’era recluso Antonio Gramsci non è quella che oggi visitiamo. Quella originaria era ubicata vicino la chiesa del carcere, nel versante della villa comunale. Accadde che, anni addietro, un direttore poco attento e poco sensibile alla storia, per motivi logistici fece spostare l’ubicazione della cella dov’era ristretto Antonio Gramsci”. Stefano Romei oltre ad espletare con passione e dedizione il suo lavoro istituzionale, per diversi anni è stato l’agente Siae di Turi; inoltre ha ricoperto la funzione di presidente della cooperativa sociale oleificio Sant’Oronzo ed è stato membro del consiglio della Democrazia Cristiana di Turi. Le armi facili ai ragazzini fanno piangere Napoli: la Procura dice basta ai post che esaltano il crimine di Fulvio Bufi Corriere del Mezzogiorno, 4 novembre 2024 Spari e selfie sui social, indagine estesa anche ai genitori. “Provvedimento per molti versi rivoluzionario, ma necessario: troppa violenza”. Dice: “Gli zingari”. Dove hai preso la pistola? “Dagli zingari”. E sarà pure vero. E se è vero, certo non lo ha scoperto guardando Gomorra, anzi forse è stato uno come lui a spiegarlo a quelli di Gomorra come fanno i ragazzini a procurarsi una pistola. Anche sporca, che ha già sparato e magari chissà se non pure ucciso. Dettagli. Ai ragazzini protagonisti di questo crimine senza clan né boss che sta facendo piangere Napoli, ragazzini che vivono nei social con le loro pose caricaturali da trapper sfigati, basta solo avercelo il ferro, estensione mortale di un coraggio che non hanno, perché nemmeno a botte sanno fare, alzano le mani soltanto se sono in gruppo contro uno. Altrimenti fanno tre passi indietro, come Francesco Pio Valda sul lungomare di Mergellina, o si mettono al riparo in macchina, come il diciassettenne che l’altra sera ha ucciso Santo Romano. E quando si sentono al sicuro sparano. E uccidono chi capita. Uno che sta lontano per i fatti suoi, uno che è a due metri ma non ha alcuna intenzione di litigare. I post con l’aria da dannati - Tutto per poter tornare poi nello schermo del loro smartphone e scattare selfie con aria da dannati e pose sempre quelle. E postare frasi di addio, perché lo sanno che il futuro sarà in cella, a ragazzine che li dimenticheranno in cinque minuti, e raccogliere la solidarietà degli amici, perché chi uccide e si farà il carcere è uno tosto, e merita rispetto. E allora ecco quei post pieni di ftrat’ mio, lione, amo’. Sì anche amo’: come se lo dicono le ragazze se lo dicono anche i ragazzi. Ma virilmente, loro. È questo il mondo di chi ha ucciso Santo, di quel Francesco Pio Valda che uccise in via Caracciolo Francesco Pio Maimone, di quello che uccise GioGiò Cutolo. La Procura interviene sui social: responsabili pure i genitori - Ora la Procura minorile ha deciso che mai più i social saranno terra di nessuno, dove esaltare il crimine e onorare i criminali. Dopo il fermo del diciassettenne che ha ucciso Santo, il pm ha aperto un fascicolo delegando la polizia giudiziaria a individuare gli autori dei post in cui è possibile configurare violazioni al codice penale. E dove gli autori saranno minorenni, l’indagine riguarderà anche i loro genitori, responsabili dell’attività social dei figli. È un provvedimento per molti versi rivoluzionario, e servirà ora trovare le tecnologie adatte per bloccare i post sui quali le piattaforme non interverranno autonomamente Su questo tema il procuratore minorile Maria de Luzenberger è netta: “C’è una generazione che è cresciuta violenta, anche in Rete. Giovanissimi che non fanno parte della camorra ma hanno una cultura camorristica”. L’accesso “facile” alle armi - Eppure non è questa - o non è solo questa - la peggiore emergenza sociale di Napoli. È l’accesso alle armi, la facilità con la quale certi ragazzini riescono a entrare in possesso di una pistola che diverrà compagna delle loro uscite serali e che prima o poi troveranno il modo di usare. La mamma di GioGiò, Daniela Di Maggio, davanti alla bara del figlio disse che esistono due Napoli: una che ha le armi e spara e una che può solo augurarsi di non trovarsi mai sulla traiettoria dei proiettili. È triste e non è una visione ottimistica né progressista. Ma è vera. E tutto quello che i carabinieri e la questura hanno fatto - controlli, sequestri, appelli sui social, manifesti - è certamente servito, ma non basta più. Seicento armi sequestrate dal 2021 al 2023 - Dal 2021 al 2023 solo i carabinieri hanno sequestrato seicento armi da fuoco, e il comandante provinciale, il generale Enrico Scandone, ci ha messo più volte la faccia girando video-appelli rivolti ai giovani. Eppure Santo è stato ucciso, GioGiò è stato ucciso, Francesco Pio è stato ucciso. Pure Emanuele Tufano è stato ucciso, pure se lì la dinamica è stata diversa, ma aveva comunque 15 anni. E allora finché non ci sarà una indagine capace di prosciugare il sistema di circolazione delle armi al quale si rivolgono i minorenni, qualcuno di loro ucciderà ancora. E poi, quando lo prenderanno, dirà: “La pistola? l’ho comprata dagli zingari”. E farà spallucce. Festa delle Forze Armate: la parata dei bambini tra le pistole e i carri armati di Gianluca Nicoletti La Stampa, 4 novembre 2024 Ho visto frotte di bambini giocare entusiasti nel “Villaggio Difesa” al Circo Massimo, molto più divertiti di quelli che vidi un anno fa al villaggio di Babbo Natale a Villa Borghese. Quando mai capita a una bimbetta bionda alta mezzo metro di poter giocare alla “piccola sminatrice”, sotto la guida attenta di un vero artificiere in mimetica e anfibi. Prima cerca con il metal detector, piano piano con un pennello libera l’area dal terriccio, poi finalmente appare la mina con la spoletta bene in vista. “Adesso possiamo farla scoppiare?”, dice la piccina, fiera della sua caccia al tesoro. “Beh no, adesso non si può c’è troppa gente!”. Infatti tutt’intorno una folla di mamme, papà e bimbi di tutte le età con gli smartphone in mano, in fila per far provare al loro tesoruccio la delizia del piccolo incursore. È la prima volta che nella Capitale, tra le vestigia dell’Antica Roma, è stata organizzata questa immensa fiera di paese per celebrare le Forze Armate, con una strategia di marketing davvero mai vista. C’era di tutto e di più per mostrare le specialità, i campi d’azione, il livello tecnologico dei militari Italiani. Sotto il tricolore così immenso da dover esser sollevato con una gru, è stato schierato ogni baluardo possibile alla salvaguardia del “poter essere ancora Italiani”, come spiega il promo ministeriale. Nessuno dice però chi ce lo stia impedendo, nel dubbio meglio farsi una foto, mentre si imbraccia la mitragliatrice issata sul blindato leggero “Lince”, con un soldato dal basco amaranto al nostro fianco. C’è una fila smisurata di mamme, papà e bimbi in attesa per entrare in un carro armato, in un aereo cacciabombardiere, in un mezzo d’assalto. Tutti a scattare foto di figli issati tra i cannoncini, sulle torrette, tra cingoli e piastre d’acciaio. Non manca un pezzo d’epoca, pregno di storia e nostalgia, come il siluro a lenta corsa detto “Maiale”, di Teseo Tesei, uno di quelli che fecero compiere imprese gloriose alla Decima Flottiglia Mas. In verità la reliquia della storia patria non riscuote grande successo tra i bambini, ha un sedile di legno scomodo e poche strumentazioni, meglio giocare con il “robot multifunzione ad alta resistenza Vision 60”, che sembra un cagnolino e balla a tempo di musica. Però all’occorrenza può essere armato e come stana lui le persone non c’è nessuno. I droni attirano anche loro i bimbi, proprio perché sembrano davvero giocattoli, anche se c’è qualche bombetta attaccata, ma sembra che anche quella sia messa lì per giocare, a nessuno viene in mente quale sia il loro uso attuale, in più di un teatro di guerra, dove quando arrivano dal cielo qualcuno muore. Un minuscolo guerriero mi trapassa il torace con la lucetta rossa del puntatore laser del suo fucile d’assalto. Il padre lo aiuta a reggerlo, mentre un istruttore gli spiega il corretto puntamento. Mi permetto sommessamente di far notare a quel padre che, forse, la prima regola da insegnare a un bambino sarebbe di non puntare mai un’arma contro una persona, anche se è per gioco. Da piccolo me lo sono sentito dire fino alla noia, e sono cresciuto in una famiglia di ex combattenti. Capisco però che è meglio lasciar perdere, non si interrompono le emozioni, questo almeno sembrano dirmi le occhiate che mi arrivano dalla fila lunghissima di padri e figli che aspettano il loro turno per l’addestramento con la pistola, che sembra vera anche se spara pallini di plastica. Non manca l’istruttore di combattimento a mani nude, una fila di bimbetti microscopici hanno infilato guantoni più grandi di loro e menano colpi contro un gigante, sempre in mimetica, che spiega la tecnica più efficace per menare botte (ai cattivi naturalmente). Un gruppetto di ragazzotti è incollato allo stand dove si insegna il “metodo di combattimento militare”. C’è un espositore di bastoni, coltelli, machete e altre armi da taglio, sono il materiale didattico per spiegare come evitare di essere affettati. Un paio di curiosi, con avambracci istoriati da tribali, teschi e scritte varie, chiedono se mai fosse possibile arruolarsi. Il militare che stava facendo lezione con un pugnale in mano getta un’occhiata di commiserazione, poi li liquida: “Con tutti quei tatuaggi non sareste mai presi!”. Se ne vanno scornati, è dura anche per loro immaginare che quei soldati sono addestrati per fare la guerra, non le storie su TikTok. Migranti. Via all’operazione Albania (bis): che succederà? che faranno i tribunali? di Eleonora Camilli La Stampa, 4 novembre 2024 In caso di non convalida dei fermi, anche questa volta torneranno in Italia. La nave della Marina, la Libra, sta raggiungendo in queste ore il Mediterraneo Centrale, dove sarà operativa nei prossimi giorni in attesa di indicazioni dal governo. L’obiettivo è monitorare il flusso di arrivi di migranti di per poi accoglierli a bordo ed organizzare un nuovo trasferimento nell’hotspot in Albania, per quelli che rientrano nelle categorie previste dal protocollo con il governo di Tirana. La nave Libra ha ripreso il largo, cosa succede adesso? Se nelle prossime ore le motovedette della Guardia costiera effettueranno dei salvataggi in mare in acque internazionali, i migranti verranno portati sulla Libra per lo screening. Se maschi, adulti, non vulnerabili, provenienti da paesi sicuri, potranno essere portati in Albania. Cosa è cambiato rispetto alla prima operazione? Con il decreto legge sui “paesi sicuri” il governo ha elevato a norma primaria quello che era un decreto interministeriale. Secondo molti esperti però questa mossa non cambia la situazione, perché rimane preminente la definizione di paese sicuro indicata dalle norme comunitarie. Cosa faranno i giudici? Se i giudici riterranno che i migranti provengono effettivamente da paesi sicuri, convalideranno il fermo in Albania. In caso contrario possono disapplicare la legge italiana in virtù di quanto stabilito dalle norme Ue o rinviare alla Corte europea di giustizia per un chiarimento. Cosa può accadere ai migranti portati in Albania? In caso di non convalida dei fermi tornano in Italia. Se il trattenimento viene autorizzato si attua la procedura accelerata di frontiera, la domanda d’asilo viene esaminata velocemente e se c’è il diniego si procede col rimpatrio. Ma solo dei migranti provenienti da paesi con cui l’Italia ha accordi di riammissione. Quali sono i paesi considerati sicuri dall’Italia? Il decreto del governo ha rivisto la lista dei paesi sicuri. Eliminati Colombia, Nigeria e Camerun gli stati sicuri ora sono 19: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia. Da quali paesi provengono i migranti che sbarcano in Italia? Dal primo gennaio al 30 ottobre 2024 sono sbarcate in Italia 55.049 persone. Le prime cinque nazionalità tra i migranti arrivati sono Bangladesh (1.180 migranti), Siria (10.554), Tunisia (7.289), Egitto (3.629) e Guinea (2.983). Solo tre di questi sono considerati paesi di origine sicuri. Migranti. Caso Albania, due esposti di M5s e Italia Viva alla Corte dei conti Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2024 Bonelli: “Sperpero per finanziare propaganda”. Tra una polemica politica e una “giudiziaria” il caso dei migranti “portati” in Albania, per poi essere ritrasferiti in Italia, potrebbe avere anche un risvolto giudiziario contabile per un potenziale danno all’Erario per gli stanziamenti del governo per l’operazione. Prima della bufera sulla spesa di quasi 9 milioni di euro per il vitto e alloggio degli agenti, sul tavolo dei magistrati della Corte dei Conti sono arrivati due esposti presentanti da parlamentari di Italia Viva e M5s e riguardano proprio i costi sostenuti per il trasferimento di 16 migranti nelle strutture del paese balcanico, alla metà dello scorso mese. I giudici non aveva convalidato il trattenimento dei migranti, provocando quindi il rientro in Italia. Nel question time del 21 ottobre il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, aveva dichiarato: “La nave che abbiamo utilizzato” per trasferire i migranti in Albania “è della Marina Militare, ha comunque dei costi di esercizio. Vi daremo conto di quanto ci costa il trasferimento dei migranti che arrivano e che noi distribuiamo tutti i giorni in tutta Italia, e quanto ci costa l’accoglienza”. “Noi vogliamo arrivare a una maggiore appropriatezza della spesa, che ogni anno è di 1 miliardo e 600 milioni di euro, per persone che per il 60-70% si vedono respingere poi la domanda di protezione internazionale”, ha sottolineato, evidenziando che “anche quando vengono portati” in altri posti il trasferimento ha un costo. “Gli italiani sui Cpr in Albania, voluti dalla premier Meloni, valutino attentamente questi numeri: 1 miliardo di euro per realizzarli e gestirli per i prossimi 5 anni, ovvero 550.000 euro al giorno, di cui 138.000 solo per i funzionari che faranno avanti e indietro dall’Italia, 300 agenti della Polizia di Stato sottratti al contrasto della criminalità organizzata e al controllo del territorio. Insomma sperpero di risorse pubbliche e dispendio di risorse umane per ‘finanziare’ la propaganda della premier - dichiara il portavoce di Europa Verde e deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Angelo Bonelli - Il tanto decantato ‘modello Albania’ è solo un grande bluff. Come Alleanza Verdi e Sinistra, continueremo ad opporci in ogni sede a questa Guantanamo italiana”. “I centri per migranti in Albania sono costosi, disumani e contrari al diritto europeo. Nonostante questo il governo italiano continua ad andare avanti aprendo deliberatamente uno scontro con la magistratura e buttando a mare centinaia di milioni di euro dei cittadini italiani. Ci opporremo in tutti i modi a questo scempio” dichiara in una nota il segretario di +Europa Riccardo Magi. Intanto la nave Libra è già pronta per tornare operativa. La nave della Marina sta raggiungendo in queste ore il Mediterraneo Centrale, dove sarà operativa nei prossimi giorni in attesa di indicazioni dal governo. L’obiettivo è monitorare il flusso di arrivi di migranti di per poi accoglierli a bordo e organizzare un nuovo trasferimento nell’hotspot, per quelli che rientrano nelle categorie previste dal protocollo con il governo di Tirana. Migranti. Dalla Siria all’Italia: la fuga di Amman e Abdel, che sognano una vita in Europa di Chiara Sgreccia Il Domani, 4 novembre 2024 I due naufraghi erano a bordo della piccola imbarcazione salvata dalla Life Support nelle acque Sar maltesi, insieme ad altre 37 persone. Sulla nave di Emergency si sentono al sicuro e spiegano cosa li ha spinti a partire. “Mia mamma è palestinese, mio padre siriano. Io sono nato e cresciuto a Damasco. Ma vivevo in Libano prima di partire per l’Europa. Mi sono spostato vicino Beirut perché in Siria non c’è vita, non si può fare niente. Solo cercare di guadagnare abbastanza per comprare il cibo”. Così racconta Amman, 23 anni, studente di medicina che sogna di proseguire gli studi in Germania: “Perché ci sono le università migliori - spiega - e poi ci abita mio zio, potrei andare da lui”. Amman è un nome di fantasia. Racconta che è scappato dal Libano quando la guerra è iniziata anche lì: “Tra Israele e Hezbollah. Ho visto le bombe, ho visto la gente scappare. Avevo un lavoro in un minimarket, guadagnavo abbastanza. Ma l’ho perso con la guerra. Proprio come è successo anche a mio fratello. Così di nuovo ci siamo trovati a lottare pur di sopravvivere. Ero stanco quando ho deciso di partire. Mia madre ha venduto la sua casa per pagarmi il viaggio”. Circa 7mila euro sembra sia costato ad Amman e i suoi compagni il viaggio da Damasco (è tornato in Siria per ripartire) all’Italia. O meglio alle acque sar maltesi in cui la life Support ha soccorso l’imbarcazione su cui viaggiava, insieme ad altre 37 persone, alla deriva in mezzo al mare da ore. Un viaggio “di lusso” se confrontato con chi ha trascorso mesi nelle prigioni libiche prima di riuscire a imbarcarsi per l’Europa. Ne è consapevole anche lui: “Dalla Siria a Bengasi sono andato in aereo. I miei documenti erano in ordine per il viaggio. Non appena uscito dall’aeroporto alcuni parenti sono venuti in macchina a prendermi, abbiamo fatto un viaggio di 12 ore in auto fino a Tripoli”. Amman non era spaventato. Racconta di essere stato trattato bene dagli organizzatori del viaggio che gli hanno dato vestiti, cibo e perfino il wifi: “Sono rimasto 17 giorni in una casa a Misurata insieme ad altre 13 persone. Fino a quando non è arrivato il nostro turno per partire”. Dalle parole di giovane che sogna di diventare un medico si capisce che c’è una specie di lista di attesa a regolamentare le partenze. “Con noi i libici sono stati gentili anche in mare. Ci hanno seguito per qualche chilometro e hanno aggiustato i nostri motori quando si sono rotti la prima volta”. Peccato che qualche ora dopo abbiano smesso di funzionare di nuovo. E i 38 naufraghi siano rimasti soli per ore in mezzo al mare. Senza sapere verso dove o cosa stavano andando. Amman racconta anche che all’inizio del viaggio c’era un gps a bordo che però, “per errore” è finito in mare: “Ma non mi ricordo bene - dice - per la maggior parte del viaggio ero in una specie di stato di incoscienza in cui capivo poco di quello che stava succedendo”. A pensare che chi organizza i viaggi verso l’Europa per persone che non hanno il passaporto giusto per entrarci regolarmente non sia un trafficante bensì l’unica speranza per una vita migliore, è anche Abdel, 18 anni, parla un perfetto inglese americano, è cordiale e silenzioso. Spiega che se fosse rimasto in Siria, dove veniva discriminato per la corrente islamica a cui appartiene la sua famiglia, non avrebbe mai potuto realizzare il suo obiettivo: “Diventare un uomo d’affari, operando principalmente nella blockchain”. Parla tutto d’un fiato, senza correggersi, senza incespicare, senza il bisogno di pause per riflettere. Abdel, infatti, ha le idee molto chiare, lo ribadisce più volte. Niente sembra scalfire il suo sguardo inteso e la sua psiche, nonostante tutto quello che ha vissuto e che succede attorno a lui: “Io non ho paura - dice - non provo emozioni. Ho visto i miei compagni di viaggio piangere, spaventati. Per me non è così. Ero io a rassicurarli quando eravamo alla deriva in mezzo al mare” conclude mentre si aggiusta le maniche della t-shirt verde militare: “Sono stato per due mesi nell’esercito di Assad in Siria. Ma sono scappato, altrimenti sarei rimasto imprigionato lì dentro per tutta la vita”. Iraq. “Tutti vengono torturati lì. È la prassi”. Le testimonianze di chi è passato a al-Jed’ah di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2024 Nel nord dell’Iraq c’è una struttura ufficialmente chiamata Centro comunitario per la riabilitazione di al-Jed’ah. È diretta dal ministero per le migrazioni e le persone sfollate. Di fatto, come ha recentemente accertato un’indagine di Amnesty International, è un luogo di tortura. Ad al-Jed’ah sono passati migliaia di iracheni trasferiti dai centri di detenzione del nordest della Siria, dove erano trattenuti per sospetti legami con lo Stato islamico. Dal 2021 ne sono stati rimpatriati 9500. Di questi, 2223 si trovano ancora nel centro: 278 uomini, 627 donne e 1318 persone minorenni. Le autorità irachene hanno intenzione di velocizzare il ritorno dei propri detenuti dalla Siria - si stima siano tuttora oltre 18.000 - in modo che la maggior parte di loro sia trasferita entro la fine del 2027. Pestaggi, scariche elettriche, rottura delle dita, slogamenti degli arti, obbligo di rimanere a lungo in posizioni dolorose, immersione della testa nell’acqua fino quasi ad annegare (la nota tecnica del waterboarding praticata nel centro di detenzione Usa di Guantánamo: tutto il mondo è paese), soffocamento con buste di plastica strette intorno alla testa. Sono solo alcuni dei metodi di tortura raccontati ad Amnesty International da sei detenuti e da un ex detenuto di al-Jed’ah. Questa è la testimonianza di Saleem*: “Mi hanno legato le mani dietro la schiena e hanno iniziato a picchiarmi sulle piante dei piedi con un tubo di plastica. Mi chiedevano di confessare cose che non avevo mai fatto. Non ho detto nulla e per quattro giorni neanche sono riuscito a camminare. A mio figlio Abdullah* gli hanno fatto il ta’liq (il pestaggio mentre si è appesi a una sbarra metallica). Quasi tutte le persone lì vengono torturate. È la prassi”. Maryam* è stata sottoposta a scariche elettriche, presa a calci e a bastonate sulla schiena e sottoposta a molestie sessuali durante gli interrogatori. È stata costretta ad assistere alla tortura di altri detenuti: “Mi offendevano, usavano espressioni terribili per riferirsi al mio corpo, parole che neanche riesco a ripetere. Continuavano a dirmi che dovevo confessare che stavo con lo Stato islamico”. È ben possibile che alcune delle persone che si trovano ad al-Jed’ah siano detenute per ragioni del tutto legittime. Ma la tortura è vietata sempre e in ogni circostanza e il suo uso durante gli interrogatori può produrre confessioni del tutto false. In alcuni casi gli arresti sono avvenuti “per sentito dire” o per mera affiliazione familiare: “Uno del nostro villaggio ha detto che tutta la nostra famiglia era composta da terroristi. Ma mio figlio era un ragazzino senza alcuna relazione coi terroristi”, ha raccontato Fatima*, il cui figlio Haider* arrestato a 14 anni si trova ad al-Jed’ah. Amnesty International ha verificato casi in cui l’accusa di legami con lo Stato islamico è stata mossa da motivi esclusivamente privati, come i litigi tra famiglie in caso di rifiuto di un matrimonio o per impossessarsi di un’abitazione. Ad al-Jed’ah le condizioni detentive sono inumane: cure mediche, servizi igienico-sanitari e forniture di acqua e cibo sono del tutto inadeguati. Il centro di al-Jed’ah è sostenuto anche da vari organismi delle Nazioni Unite. Proprio all’Onu Amnesty International ha chiesto d’indagare sulle conclusioni del suo rapporto e di cessare ogni forma di collaborazione che possa dare luogo a violazioni dei diritti umani. *Portavoce di Amnesty International Italia Stati Uniti. Gruppi armati e intimidazioni: va al seggio la paura di Elena Molinari Avvenire, 4 novembre 2024 Reportage. L’incubo del 6 gennaio incombe, come il pericolo di incidenti dopo lo spoglio. Mentre Trump è accusato di blandire i gruppi che difendono un’ideologia contro i migranti, e a favore delle armi. “Lanciare operazioni coordinate con i gruppi di negazione delle elezioni come parte di un piano per condurre una sorveglianza paramilitare delle urne elettorali”. Questo invito di un membro della milizia American Patriots Three Percent, nota come AP3, è circolata su Telegram, la piattaforma basata in Russia divenuta il punto d’incontro degli estremisti di destra. Ne sono emerse molte negli ultimi giorni, grazie a un infiltrato e agli sforzi del gruppo statunitense per la trasparenza “Distributed denial of secrets” e puntano tutte nella stessa direzione. I gruppi armati convinti che Joe Biden nel 2020 abbia “rubato” la presidenza sono pronti a presidiare i seggi e a intervenire durante e dopo il conteggio se i risultati delle presidenziali di martedì non andranno come vogliono. Vale a dire, se Donald Trump non vincerà. Trump è stato accusato spesso di fare l’occhiolino alla costellazione di milizie armate statunitensi che difendono un’ideologia anti-immigrati, anti-intellettuali, pro-armi e pro-bianchi. Già nel 2019, il repubblicano si vantò di godere “del sostegno della polizia, dei militari, dei Bikers, di tutte le persone dure, e se arriviamo a un certo punto, allora sarebbe molto brutto, molto brutto”. Ma da quando non è più alla Casa Bianca le strizzate d’occhio sono diventati dei richiami all’azione. Nel 2020, ad esempio, Trump invitò la milizia dei Proud Boys ad “essere pronti e in stand by”, e puntualmente il gruppo guidò l’insurrezione violenta al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Fino a quel punto l’universo delle milizie statunitensi, con decine di gruppi in decine di Stati, appariva ancora rudimentale e poco coordinato. Ma proprio le teorie del complotto alimentate dal candidato repubblicano e da altri elementi del movimento Maga, insieme alla certezza di essere stati vittime di un colpo di Stato della sinistra, hanno fornito loro un’opportunità per organizzarsi, reclutare e addestrare nuovi membri. Tanto che ora, alla vigilia delle elezioni del 5 novembre, ci si trova al punto in cui i sondaggi per la prima volta nella storia americana recente registrano una grossa fetta convinta che la violenza politica possa essere necessaria. Secondo l’Università di Chicago, ben il 14% degli americani afferma che la violenza è giustificata per “raggiungere gli obiettivi politici che sostengo” e il 4,4%, ovvero più di 11 milioni di adulti, è d’accordo che “l’uso della forza è giustificato per riportare Donald Trump alla presidenza”. Dati che hanno spinto ieri il governatore dello Stato di Washington ad attivare la Guardia Nazionale, mettendola in stand-by. E i timori che Trump possa far leva su questi sentimenti e sui gruppi armati che li diffondono sono sempre più confermati dalle sue stesse affermazioni. Non è stata casuale la scelta del luogo da dove il tycoon, nel marzo 2023, ha lanciato la sua candidatura per le presidenziali di quest’anno. Era Waco, in Texas, teatro trent’anni fa di un sanguinoso scontro tra le forze dell’ordine e il culto Branch Davidian e da allora simbolo, per i miliziani di estrema destra, dell’oppressione delle istituzioni, che esattamente due anni più tardi ispirò Timothy McVeigh a far esplodere un camion bomba che uccise 168 persone. Trump aprì l’evento a Waco con la canzone, “Justice for All”, registrata da carcerati che sono finiti in prigione per l’insurrezione del 6 gennaio, accompagnata dal filmato dell’attacco della folla. Affermando che gli Stati Uniti erano stati conquistati da “marxisti e comunisti”, Trump assicurò che “il novembre 2024 sarà la battaglia finale, quella più importante, e io sarò il vostro guerriero… Io sarò la punizione”. Man mano la data si avvicinava, le chat dei gruppi armati si sono fatte più intense. Ad agosto, il sito giornalistico indipendente ProPublica ha citato messaggi di AP3 che dimostravano come il gruppo abbia effettuato operazioni di vigilanza al confine con il Texas e stretto legami con le forze dell’ordine in tutto il Paese. Più di recente sono emerse alcune foto di membri della milizia AP3 in equipaggiamento da combattimento in prossimità di seggi, accompagnati da commenti che descrivevano tattiche per impedire agli elettori dei quartieri a maggioranza democratici di recarsi al voto e fornire “un supporto paramilitare alle operazioni di monitoraggio delle urne”. Molti episodi di intimidazione si sono verificati già durante le elezioni di metà mandato del 2022, soprattutto in Arizona, dove il gruppo è nato. All’epoca, il segretario di Stato dell’Arizona chiese alle autorità federali di indagare su alcuni casi in cui gli elettori erano stati minacciati da persone in tuta mimetica che fotografavano chi depositava la scheda elettorale. La fuga di notizie dalla chat di Telegram proviene da una persona che si è infiltrata nel gruppo proprio due anni fa e che ora è certa che i suoi membri causeranno “violenza nelle urne, nei seggi elettorali e in altri siti elettorali” nelle prossime settimane. “I cosiddetti lupi solitari che hanno partecipato alle intimidazioni del 2022 non erano affatto soli - ha scritto la persona nella lettera che accompagna la soffiata -. In effetti, facevano parte di gruppi altamente organizzati che intendevano influenzare le elezioni. Questi canali Telegram rendono molto chiaro che il 2022 è stato una sorta di “anno di prova” per operazioni ben più importanti durante questa tornata elettorale”.