Porta Santa a Rebibbia, la scelta del Papa e l’attesa amnistia di Giampiero Catone La Discussione, 3 novembre 2024 Le parole del Pontefice: si assumano iniziative che restituiscano speranza, forme di amnistia o di condono della pena. In Italia il 62% dei processi penali non arriva in aula, perché prescritti. Con l’occasione del Giubileo si riapra il dialogo politico sulla riforma del sistema detentivo. Il 26 dicembre 2024, giorno di Santo Stefano, Papa Francesco aprirà la Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia, segnando un momento storico nella storia dei Giubilei. Un gesto straordinario il cui senso è affidato alle stesse parole del Pontefice che chiede iniziative che: “restituiscano speranza, forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società”. Porta Santa a Rebibbia - La data del 26 dicembre sarà la prima volta in cui, oltre alle Porte Sante che, come abitualmente accade, verranno aperte nelle quattro Basiliche papali romane, se ne aprirà una anche in un penitenziario. L’annuncio, ricordiamo, è stato dato dal Pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione, monsignor Rino Fisichella, che ha sottolineato come Rebibbia, il 26 dicembre, sarà “simbolo di tutte le carceri del mondo”. Il gesto straordinario è stato voluto fortemente dal Santo Padre, che ha sottolineato l’importanza della cura dei detenuti e del loro reinserimento sociale. “Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio”, ha sottolineato Papa Francesco, “Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza, forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società, percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. Prescrizione, processi mai celebrati - Noi aggiungiamo un altro elemento sul quale riflettere a beneficio del cronico se non addirittura critico sovraffollamento delle carceri italiane, quello che permetterebbe lo sfoltimento della popolazione carceraria togliendo anche, chiamiamola così, la deriva dei tempi delle prescrizioni. Sappiamo infatti che in Italia il 62% dei processi penali non arriva in aula, perché prescritti. Come è noto la prescrizione si rende necessaria per permettere all’apparato della giustizia di lavorare in equilibrio tra costi ed efficacia. In altre parole più passa il tempo e più risorse devono essere investite per perseguire i colpevoli e, parallelamente, il reato commesso perde di rilevanza sociale. Come è stato osservato si tratta di un meccanismo garantista necessario a evitare derive giustizialiste. Ad essere più precisi nel nostro Paese – secondo i dati del ministero della giustizia (cifre che risalgono al 2017 ma sono le uniche disponibili) – in Italia vengono definiti circa un milione di processi in un anno. Di questi circa 126 mila vengono definiti per via della prescrizione, siamo a poco meno del 13 per cento. Suicidi e sovraffollamento - I problemi che l’amministrazione penitenziaria e i lavoratori degli istituti devono affrontare rispecchiano una situazione che ha superato da tempo il livello di guardia. I detenuti presenti nelle strutture sono oltre 61 mila dovrebbero essere invece 47.067, in base ai posti disponibili negli istituti penitenziari. C’è poi il dato più sconvolgente, quello dei suicidi. A metà dell’ottobre scorso i suicidi in carcere erano 75 e c’è il timore che si superi i 100 casi a fine anno. Un record drammatico, nel 2023 furono 80. Il sindacato di Polizia penitenziaria sottolinea un aspetto altrettanto problematico: “Il sistema carcerario è sull’orlo del baratro. I detenuti sono 15 mila in più rispetto alla capienza, mancano più di 18 mila poliziotti”. Detenuti non colpevoli - Ai suicidi e al profondo disagio degli operatori bisogna aggiungere una considerazione giuridica. Una parte considerevole, circa un terzo dei detenuti in Italia è statisticamente da considerare non colpevole. Come è stato di recente evidenziato parliamo talvolta di poveri cristi, di persone che fanno una vita non integrata. Persone con a carico imputazioni risibili, che non godono di una tutela legale adeguata. Il processo moderno costa molto agli imputati che oltre all’avvocato devono poter avvalersi di consulenze scientifiche che hanno costi elevati. Dall’altra parte della barricata, come sottolineato, a subirne i pesanti effetti negativi sono i lavoratori del sistema carcerario. “Persone che lavorano ogni giorno, nel silenzio e tra mille difficoltà ma con professionalità, umanità, competenza e passione nel dramma delle sezioni detentive italiane”, ricorda Donato Capece, segretario del Sappe, il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Le Istituzioni e l’occasione della Porta Santa - Il nodo può essere sciolto dalle istituzioni in particolare possono essere concessi, l’indulto (l’ultimo risale al 2006) per reati non superiori a tre anni per le pene detentive e non superiori a 10 mila euro per quelle pecuniarie. O proclamando l’amnistia, l’ultima è del 1990. I due provvedimenti non possono includere reati gravi, quelli contro la persona, di terrorismo, quelli di mafia, di violenza, rapina, estorsioni. L’azione di Papa Francesco può dare conforto a quanti sperano in una nuova possibilità di vita e reinserimento sociale. Allo Stato, invece, la possibilità di sfoltire le carceri, dare respiro all’apparato di controllo e sicurezza, permettere una azione di riduzione delle prescrizioni, infine, promuovere l’attesa e rinviata riforma del sistema carcerario. Una sfida difficile, controversa, un tema dibattuto da molti Governi ma ora, l’occasione della apertura della Porta Santa nel carcere di Rebibbia, può segnare una svolta e una nuova speranza. L’aumento dei minori detenuti da non dimenticare in Italia e Ue di Alessandra Servidori ilsussidiario.net, 3 novembre 2024 Il numero di minori detenuti all’interno dei 17 Istituti penali per minorenni (Ipm) italiani ha fatto registrare un aumento. Le tragedie che coinvolgono ragazze e ragazzi minori ci coinvolgono sempre maggiormente poiché a noi genitori e nonni ci arriva addosso il dubbio atroce di non aver fatto abbastanza per la loro educazione affettiva e valoriale. La società odierna è fortemente disorientata e le famiglie hanno bisogno più che mai di sostegni per crescere le nuove generazioni e il sistema istituzionale si deve rapportare sempre di più alla rete della sussidiarietà del volontariato e dell’associazionismo in una situazione italiana difficile. Al 31 dicembre 2023 erano 496 i minori e i giovani adulti detenuti all’interno dei 17 istituti penali per minorenni (Ipm). Tra questi, 482 ragazzi e 14 ragazze. Nell’ultimo anno il sistema penale minorile, sulla scia di quello degli adulti, ha però registrato un aumento delle presenze pari a circa il 25%. Teniamo conto che a dicembre 2022 i ragazzi negli Ipm erano 400, quasi 100 in meno rispetto al 2023 e sono aumentati vertiginosamente nel 2024, dati che sapremo definitivamente a fine anno, perché a oggi abbiamo i numeri dell’Associazione Antigone che segnalano che a fine febbraio 2024 erano 532. Numeri di questo tipo non si vedevano da molti anni, essendo quindi indicativi di un momento particolarmente critico per il sistema della giustizia minorile in Italia. Rispetto all’utilizzo della pena privativa della libertà nei confronti dei minori inseriti nel circuito penale nei vari Stati Ue emerge un quadro variegato. Sebbene per i minori la reclusione – e il regime di vita che ne consegue – venga tendenzialmente presentata come una misura assolutamente residuale, nella prassi sappiamo che ci sono profonde differenze tra i Paesi europei. Per quello che ci riguarda dovremmo cercare di capire il livello di implementazione della Direttiva Ue 2016/800 sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali. Le principali fonti consultate sono il Rapporto Space I (2022) del Consiglio d’Europa, le pubblicazioni di Eurostat, il rapporto pubblicato nel 2022 dalla European Union Agency for Fundamental Rights riguardante proprio l’applicazione della Direttiva Ue 2016/800, guardando in maniera essenziale al modello italiano. Sebbene molte delle indicazioni e dei principi contenuti nella Direttiva fossero già previsti dal diritto nazionale di alcuni Paesi, essa mira a garantire uniformità a livello europeo e a rafforzare le previsioni nazionali, laddove già esistenti. Infatti, fissa dei principi e delle garanzie fondamentali per il minore, tra cui il diritto a essere informato sulle caratteristiche del procedimento a cui è sottoposto, con un linguaggio comprensibile e semplificato e adattato all’età del minorenne; il diritto del minore a essere assistito da un difensore; di parlare con un legale senza ritardo, prima di essere sottoposto a un interrogatorio, immediatamente in caso di privazione della libertà e prima di comparire davanti a un giudice. Ancora il diritto all’individualizzazione nella trattazione del caso; i bisogni specifici del minore quali l’educazione, la protezione, la formazione, lo studio e l’integrazione sociale e la situazione specifica del minore. Tuttavia, esistono ancora varie lacune sia a livello legislativo che pratico per quanto riguarda l’attuazione delle garanzie per gli imputati minorenni stabilite dal legislatore europeo. La Direttiva applicata in Italia sancisce per i genitori, o i soggetti esercenti la potestà genitoriale, il diritto all’informazione (art. 15) e chi accompagna il minore nel procedimento penale continua ad avere un ruolo relativamente secondario e a non ricevere le informazioni essenziali sul procedimento penale. Ricordiamo che l’art. 10 della Direttiva impone che il carcere per i minori sia una misura di ultima ratio e ci auguriamo che l’idea per cui il carcere deve essere una risorsa assolutamente residuale continui a trovare applicazione in tutti gli Stati europei e non si ceda a tentazioni securitarie. La rete delle comunità costituisce un attore fondamentale del sistema della giustizia minorile, ma presenta alcune criticità. Le comunità sono quasi tutte private e accreditate dal ministero della Giustizia a svolgere il loro ruolo. Le strutture più articolate e qualitativamente migliori – che possono contare anche su altri soggetti finanziatori oltre quello pubblico, essendo il contributo ministeriale spesso insufficiente – tendono ad accettare soprattutto ragazzi provenienti dall’area civile, effettuando una selezione più stringente dei ragazzi provenienti dal penale, che rischiano con più facilità di ritrovarsi in comunità qualitativamente inferiori. L’inferno del carcere, il racconto di chi ci lavora e qualche volta ci muore La Presse, 3 novembre 2024 “Lavorare in carcere è andare in guerra tutti i giorni. In tanti non arrivano alla pensione perchè non reggono lo stress e scaricano sulla famiglia le tensioni. Famiglie che poi si distruggono insieme alle vite di tanti di noi”. A parlare è un agente della Polizia penitenziaria. LaPresse raccoglie lo sfogo di chi dentro al carcere vive, lavora e, qualche volta, muore. La media dei suicidi tra gli agenti della polizia penitenziaria è di uno al mese, oltre 70 i suicidi tra i detenuti dall’inizio dell’anno. “Il problema principale - continua il racconto - è che manca lo Stato, qualcuno che ti sostenga. Si lavora con la paura, si vive con la paura ma non si può mostrare la paura e quindi teniamo tutto dentro”. “Il carcere ormai è diventato un compattatore dove trovi il ragazzetto tossicodipendente, lo psichiatrico, dove trovi il delinquente abituale e tutti vengono mischiati come in un frullatore anche se ognuno ha una esigenza diversa. È questo che non capisce lo Stato, così si crea un mix esplosivo”, prosegue l’agente. Lavorare in carcere significa sapere quando monti ma non quando torni a casa: “Ci sono giorni in cui fai venti ore, altri sette e la giornata successive magari ne fai quindici. La mancanza di personale porta a questo - spiega ancora. “Fino a che parleranno di carcere persone che non sanno nemmeno come si chiude un chiavistello i problemi rimarranno. Poco tempo fa sono stati individuati dei protocolli di intervento ma non vengono attuati perché chi dovrebbe prendersi delle responsabilità non se le prende, perché si vive nell’astratto. C’è una mancanza totale di personale, i sistemi con telecamere molto spesso sono distrutti, capita che in un padiglione con 200 detenuti ci sia un agente solo a controllare ed è naturale che in assenza di controllo poi capitano certe situazioni”, prosegue la denuncia. “Dicono che aumenteranno il personale con 2.000 agenti, ma che ci fai? Non ti raccontano che già siamo al di sotto di personale, non vengono conteggiate le persone che vanno in pensione, chi si congeda. Per tornare a respirare servirebbero almeno 8mila unità perché fino a che non saranno operativi i nuovi colleghi almeno altri tremila si saranno congedati perché caduti in stati depressivi o ricoverati in ospedale militare per varie patologie. Oggi ti ritrovi con sessantenni ancora in sezione con le ginocchia distrutte, patologie gravi alla schiena. Duemila agenti sono nulla. Siamo allo sbando, senza tutele né difesa”. Giustizia, è scontro totale. Gli avvocati penalisti si schierano con i giudici di Federico Capurso La Stampa, 3 novembre 2024 L’Unione delle camere penali ha indetto uno sciopero di tre giorni a partire da domani. L’opposizione: “Con il ddl sicurezza si apre la strada a chi vuole spiare gli atti delle procure”. Il governo sembra stia riuscendo, a sue spese, nel miracolo di ricompattare il mondo della giustizia. Domani, a Bologna, l’Associazione nazionale magistrati si riunirà in assemblea per difendere i colleghi del tribunale bolognese che, dopo aver chiesto un parere sul decreto Paesi sicuri alla Corte di giustizia europea, hanno subito la scorsa settimana durissimi attacchi, anche personali, da parte del centrodestra e dei giornali che gli sono vicini. Sempre lunedì inizierà poi uno sciopero di tre giorni da parte degli avvocati penalisti, rappresentati dall’Unione delle Camere penali, che hanno indetto anche una manifestazione nazionale a Roma, martedì, per chiedere al governo di modificare il ddl Sicurezza. E così, il mondo della magistratura e quello dell’avvocatura, che mai si sono amati, finiscono per trovarsi sullo stesso fronte, spalla a spalla. Il presidente dei penalisti, Francesco Petrelli, tende platealmente la mano ai giudici: “Il tribunale di Bologna si è mosso con particolare prudenza e con correttezza giurisprudenziale -, dice facendo riferimento al rinvio pregiudiziale presentato alla Corte di Giustizia Ue -. È francamente impossibile cogliere in quella scelta un attacco alla politica”. I successivi decreti voluti dall’esecutivo per correre ai ripari, invece, “non hanno cambiato la sostanza, ma hanno spostato ancora una volta in avanti la storica contesa fra veritas e auctoritas”. Insomma, lo scontro in atto, visto dalle Camere penali, non nasce certo per colpa delle “toghe rosse” - come le chiama il vicepremier Matteo Salvini -, ma dalla volontà del governo di mettere un’impronta politica sul mondo della giustizia e riprendersi uno spazio di potere. Con il rischio, se necessario, di sconfinare in quello giudiziario. È questa la lettura che dà l’Unione delle Camere penali quando affronta il pacchetto Sicurezza e mette in guardia dal “pericolo che simili legislazioni securitarie e illiberali possano incidere irreversibilmente sulla tenuta democratica dell’intero sistema penale”. Una posizione simile a quella dell’Organismo congressuale forense, organo di rappresentanza dell’Avvocatura, che da tempo vede nelle norme del ddl Sicurezza una “deriva repressiva e autoritaria della legislazione penale”. Le tensioni tra il mondo giudiziario e il governo continuano quindi a salire, mentre la maggioranza accelera sulla riforma per la separazione delle carriere dei magistrati e sull’Atto di indirizzo con cui si vogliono stabilire a quali tipologie di reato le procure dovranno dare priorità nella loro azione. Il tema della libertà delle procure è al centro anche del ddl Sicurezza. È il centrosinistra a sottolineare la “falla” che si aprirà sui data-base degli uffici giudiziari, che diventeranno accessibili ai servizi segreti senza che ci sia un controllo rafforzato sugli accessi. La prima crepa si apre con il decreto cybersecurity approvato lo scorso giugno, quando durante la discussione alla Camera si decide di cestinare “per mancanza di fondi” la norma che avrebbe imposto un controllo sistematico sugli accessi alle banche dati, annotando chi accede a quelle informazioni e il motivo per cui lo fa, e obbligando all’uso di credenziali con dati biometrici. In questo modo, si decide di non mettere una rete di sicurezza proprio nel punto in cui il ddl Sicurezza oggi apre una voragine. L’articolo 31 del provvedimento prevede infatti che ogni ente pubblico, comprese le società partecipate, così come anche i soggetti che erogano servizi di pubblica utilità, “siano tenuti a prestare” ai servizi segreti italiani (Dis, Aise e Aisi) “la collaborazione e l’assistenza richieste, anche di tipo tecnico e logistico”. Una norma che ricorda, seppur in forma ridotta, la legislazione cinese. “Il Dis, l’Aise e l’Aisi - si legge nel testo di legge - possono stipulare convenzioni con i predetti soggetti, nonché con le università e con gli enti di ricerca, per la definizione delle modalità della collaborazione e dell’assistenza. Convenzioni che poi “possono prevedere la comunicazione di informazioni” ai servizi segreti “anche in deroga alle normative di settore in materia di riservatezza”. Insomma, “gli apparati governativi potranno accedere senza alcun controllo alle banche dati delle procure”, avverte la senatrice del Pd Ilaria Cucchi, vicepresidente della commissione Giustizia. Per di più, come sottolinea Enrico Borghi, di Italia viva, “non si prevede neanche un ruolo di controllo del Copasir”. Il centrodestra, di fronte all’evidenza, è in difficoltà. Prova a difendere il provvedimento il capogruppo di Forza Italia a palazzo Madama, Maurizio Gasparri: “Chi parla di “procure spiate”, disturba chi pensa e chi ha a cuore la sicurezza del Paese”. Ma le opposizioni insistono: “Quella norma deve essere stralciata”. Consulta, Meloni apre a Schlein: un piano per sbloccare le nomine di Ilario Lombardo La Stampa, 3 novembre 2024 La premier ha dato mandato di trattare sullo schema proposto dalla segretaria Pd. Due giudici alla maggioranza, uno alle opposizioni e un quarto dal profilo “tecnico”. Tre giorni fa il presidente del Senato Ignazio La Russa si diceva “convinto” che “in una situazione di emergenza”, come fecero Giorgio Almirante e d Enrico Berlinguer, anche Giorgia Meloni ed Elly Schlein “potrebbero parlarsi per il bene dell’Italia”. Il cofondatore di Fratelli d’Italia ricordava gli anni del terrorismo, quando lui era un giovane militante del Msi, e il suo segretario di allora ebbe incontri e colloqui segretissimi con il capo dei comunisti italiani subito dopo la drammatica scomparsa di Aldo Moro. Momenti tragici della storia repubblicana che non hanno nulla di paragonabile oggi all’orizzonte. Ma non è da escludere che La Russa in fondo fosse mosso dalla tentazione di svelare quello di cui dentro FdI si parla da giorni. Meloni sarebbe pronta ad accettare l’accordo proposto da Schlein per sbloccare le nomine dei giudici costituzionali, finite nel pantano dello scontro politico e dei veti parlamentari. La preoccupazione di Mattarella - Tra poco più di quaranta giorni la Consulta perderà altri tre giudici per fine mandato. Uno di loro è il presidente, Augusto Barbera. In tutto – contando Silvana Sciarra, che ha concluso il suo incarico a fine 2023 – saranno quattro a lasciare la Corte. E le Camere rischiano di arrivare a quella data frammentate e incapaci di scegliere i successori. Con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che potrebbe essere costretto a intervenire di nuovo, e che ha già informalmente fatto arrivare alla premier e ai leader dei partiti la preoccupazione per uno stallo istituzionale che si sta irresponsabilmente trascinando da troppo tempo. Meloni ha insistito fino a che ha potuto, tentando un blitz per scardinare i numeri dell’elezione in seduta congiunta di deputati e senatori, e promuovere alla Corte il suo consigliere giuridico, Francesco Saverio Merini, una delle menti del premierato. L’Aventino delle opposizioni, uscite dall’Aula al momento del voto, ha sabotato questo tentativo e spinto Meloni a cambiare strategia. I numeri non danno grandi speranze. E la strada, di fatto, diventa obbligata: la maggioranza deve accettare un compromesso con gli avversari. Meloni ha dato mandato agli uomini al vertice di Fratelli d’Italia di trattare sullo schema che propone Schlein e che prevede due giudici costituzionali – e non più tre – indicati dal centrodestra, uno dall’opposizione, e un “tecnico”, non affiliabile ad alcun partito. Per quest’ultimo, secondo un’ipotesi anticipata ieri da Il Messaggero, la scelta potrebbe cadere su Roberto Garofoli, magistrato, ex presidente al Consiglio di Stato, ex capo gabinetto di diversi ministri dell’Economia ed ex sottosegretario della presidenza del Consiglio, quando a Palazzo Chigi sedeva Mario Draghi. In cima alla lista dei profili vagliati da chi la segretaria ha delegato per lo scouting c’è Andrea Pertici, professore di Diritto costituzionale all’Università di Pisa, membro della direzione nazionale del Pd a guida Schlein. Un nome che non è così gradito all’area riformista dei democratici e su cui andrà misurata la tenuta del fragile asse ritrovato con Matteo Renzi. Pertici nelle vesti di avvocato della Procura di Firenze ha difeso i pm di fronte alla Corte Costituzionale chiamata ad esprimersi sul conflitto di attribuzione sollevato da Renzi dopo l’acquisizione di chat e mail nell’inchiesta sulla Fondazione Open. Quasi inutile aggiungere, inoltre, che Pertici è un oppositore del premierato. Anche in questo caso non ha risparmiato riferimenti al leader di Italia Viva, ex premier ed ex segretario del Pd: “Una riforma indecifrabile che unisce i flop di Berlusconi e di Renzi”, sostenne un anno fa. Attraverso Pertici si intravede il senso che può assumere l’operazione di Schlein: un patto con Meloni per favorire l’elezione dei due costituzionalisti più vicini alle leader. Uno scambio che arriverebbe non in un momento non facile per il cosiddetto campo largo, mentre Giuseppe Conte esce indebolito dal disastro del Movimento 5 Stelle in Liguria. Ma la Consulta è solo uno dei due capitoli principali nella lunga e faticosa trattativa della destra con le opposizioni. L’altro è la Rai, a sua volta collegata alle scelte che verranno compiute sui giudici costituzionali. Per spazzare via l’immagine di impotenza e marginalità, Conte ha riaperto i negoziati su Viale Mazzini, come il Pd ha fatto sulla Consulta. Lo scoglio resta Simona Agnes, consigliera di amministrazione indicata da Forza Italia come presidente. Senza i voti di una parte delle opposizioni, la sua nomina resta impossibile. FdI e FI confidano molto negli Stati Generali fortemente voluti da Conte e da Barbara Floridia, presidente della commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai. Il convegno del 6-7 novembre dedicato alla tv pubblica produrrà alcune linee programmatiche per la futura riforma della Rai. Meloniani e azzurri sono pronti a mostrarsi disponibili con le proposte di Conte. In cambio, però, vogliono il via libera al Cda. Opposizione in allarme sulla giustizia. “Procure spiate” di Anna Laura Bussa ansa.it, 3 novembre 2024 Borghi, via l’articolo 31 del ddl Sicurezza, esclude il controllo del Copasir. “Il combinato disposto delle norme contenute nella legge sulla cybersicurezza approvata a giugno, con quelle previste nel ddl Sicurezza, ora all’esame delle Commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato, crea un grave vulnus anche per i database delle Procure”, perché “sarà possibile accedervi, anche da parte di apparati governativi, senza alcun controllo”. A lanciare l’allarme è l’opposizione che, con il capogruppo di IV al Senato, Enrico Borghi, chiede con forza lo stralcio di una delle ‘norme incriminate’: l’articolo 31 del ddl che estenderebbe “di molto” la possibilità di accedere a banche dati di “ogni livello” in “nome della sicurezza”, senza “neanche prevedere un ruolo di controllo del Copasir”. L’allarme arriva nel momento in cui infuria lo scontro tra magistrati e centrodestra e mentre il governo punta il dito contro “il dossieraggio” a danno di “vertici dell’Esecutivo e di politici”. La prima a parlare di “ennesimo attacco” alle toghe da parte del “Governo Meloni” è la vicepresidente della Commissione Giustizia di Palazzo Madama, Ilaria Cucchi (Avs) che ricorda però come già il senatore M5S, Roberto Scarpinato, tentò di rimediare alla “falla normativa” che si era creata con un emendamento al decreto cyber-sicurezza poi bocciato. E “persino alla Camera, le Commissioni competenti” si posero il problema di prevedere “delle credenziali di accesso” alle banche dati. Ma inutilmente per “mancanza di fondi”. Questo dell’accesso “senza controllo” alle banche dati, proprio nel momento in cui si parla di “spie e di spioni” è considerato dal capogruppo Pd in Antimafia Walter Verini “un capitolo inquietante”, un “nuovo attacco all’indipendenza della magistratura”. Verini contesta che “apparati che rispondono ai governi in carica protempore, possano accedere così, per non meglio precisate ragioni di sicurezza”, anche ai database delle Procure. Ragioni di sicurezza che “quando ci sono”, osserva, andrebbero invece “concordate con le Procure e gli uffici giudiziari”. “Noi ci opporremo con forza” a questa misura assicura Verini che auspica come su “temi così delicati”, tra i “soggetti preposti, come il Csm e l’Anm, si concertino le modalità perché la sicurezza del Paese sia garantita, ma siano tutelate anche la sicurezza e l’ inviolabilità delle indagini”. La maggioranza, con il capogruppo FI al Senato Maurizio Gasparri e con il deputato forzista Enrico Costa, respinge al mittente ogni critica. Il primo, dicendo sostanzialmente che chi parla di “Procure spiate”, di fatto “disturba chi pensa e chi ha a cuore la sicurezza del Paese”. Il secondo, ricordando che “gli esponenti di Pd e Avs che oggi si preoccupano dell’integrità dei dati detenuti dalle Procure” sono quelli che hanno “tuonato” contro il suo emendamento che era “finalizzato ad estendere le ispezioni ministeriali per evitare abusi di consultazione”. Anche la capogruppo M5S in Commissione Giustizia del Senato, Ada Lopreiato, non ha dubbi e denuncia “la pericolosità” delle norme contenute nel ddl Sicurezza, soprattutto l’articolo 31, che vede, tra l’altro, “un’assenza di controllo da parte del Copasir”. Ma è certa che la maggioranza resterà “sorda e cieca” alle “istanze di toghe e opposizione” visto che “per partito preso vota contro ogni emendamento”. Borghi però insiste e chiede lo “stralcio dell’articolo 31 perché l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è di trasformare i Servizi in un campo di battaglia politica”. In questo quadro di contrapposizione totale, un altro esponente M5S Alfonso Colucci torna ad attaccare la Lega per il ‘blitz’ di qualche giorno fa al ddl per la ‘Separazione delle carriere’ dei magistrati. Blitz che torna d’attualità visto lo scontro in atto tra centrodestra e toghe sul caso dei migranti in Albania. Con le 2 proposte di modifica si punta infatti a “cambiare la Costituzione” sostenendo che non debba mai considerarsi “subordinata” ai “Trattati e agli altri atti dell’Unione europea”. Magistratura democratica festeggia sessant’anni, il 9 e 10 novembre l’evento a Roma di Angela Stella L’Unità, 3 novembre 2024 Due giorni di dibattito e confronto tra rappresentanti della magistratura e della politica per celebrare i 60 anni della corrente progressista dell’Associazione nazionale magistrati. Il 9 e il 10 novembre Magistratura democratica, la corrente progressista dell’Associazione nazionale magistrati, celebrerà i suoi sessant’anni a Roma presso la sala della Protomoteca del Campidoglio. Ci saranno, tra sabato e domenica, due grandi sessioni di dibattito: la prima dal titolo “1964/2024: questa lunga storia d’amore”, la seconda “Verso un’altra Repubblica? Le riforme istituzionali, l’ordinamento giudiziario, il tessuto della democrazia”. Interverranno figure storiche di Magistratura democratica, come Livio Pepino, Giovanni Palombarini, Nello Rossi, Luigi Ferrajoli, esponenti politici come Giuseppe Conte, Maria Elena Boschi, Francesco Paolo Sisto, Elly Schlein, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ci sarà anche un confronto tra il Segretario di Md, Stefano Musolino, il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, e tutti gli altri vertici dei gruppi associativi: Giovanni Zaccaro (Area), Rossella Marro (Unicost), Claudio Galoppi (Magistratura Indipendente), Andrea Reale (CentoUno). L’incontro arriva in un momento delicatissimo perché è in atto uno scontro durissimo tra politica e magistratura, a seguito delle decisioni di alcuni tribunali di mettere in discussione i provvedimenti riguardanti le politiche migratorie del Governo. Proprio alcuni magistrati che hanno firmato quelle decisioni appartengono a Magistratura democratica e quindi contro di loro è partita una feroce campagna stampa e politica di delegittimazione, anche sul piano personale. Infatti proprio due giorni fa la Verità ha sbattuto in prima pagina la foto dell’unione civile col proprio compagno di Marco Gattuso, presidente di un collegio del Tribunale civile di Bologna che ha disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue del decreto Paesi sicuri e vicino a Md: “Difende a spada tratta l’utero in affitto. Ecco chi è la toga rossa che boicotta il decreto”. A difesa del collega sono intervenute la stessa Md, Giovanni Zaccaro di Area, e il Presidente del Tribunale di Bologna, Pasquale Liccardo, che ha detto: “ ‘La vita degli altri’, formula questa comprensiva di ogni manifestazione della sfera privata del cittadino, costituisce ragione costitutiva e limite del diritto di informazione perché connessa ai diritti fondamentali della persona che vengono riconosciuti dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”. Riflettori puntati dunque sulla due giorni: vietato sbagliare per chi prenderà il microfono, come invece avvenuto con la email del magistrato Marco Patarnello, per evitare di dare un nuovo motivo a maggioranza parlamentare e Governo di scatenare una battaglia contro le toghe. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuto muore suicida nel carcere La Repubblica, 3 novembre 2024 Decima vittima in Campania, 78ma in Italia da inizio anno. Il garante Ciambriello: “Politica assente, sono suicidi di Stato”. In nottata nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, si è suicidato un detenuto campano, V.B., 53 anni, che condivideva la cella con un’altra persona. Il magistrato ha disposto l’autopsia. A confermarlo è il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà Samuele Ciambriello, che ha ribadito i numeri: dall’inizio dell’anno sono 78 i suicidi nelle carceri italiane, 1335 i tentativi di suicidio a metà settembre, in Campania circa 100, dove sono 10 i suicidi da inizio 2024. “La politica è assente - ha detto Ciambriello - tace, rimuove il carcere. Le carceri italiane sono diventate una discarica sociale, troppi i tossicodipendenti, i detenuti psichiatrici. Circa 8000 ristretti hanno un residuo pena pari a meno di un anno, 900 sono in Campania. Sono morti annunciate, omicidi di Stato, nella totale indifferenza anche della società civile per quello che accade nei luoghi di privazione della libertà”. Secondo il garante sono “inascoltati gli appelli del Presidente Mattarella, del Papa, delle associazioni e dei garanti. Speriamo - ha concluso il garante regionale Samuele Ciambriello - che la mobilitazione della prossima settimana indetta dalla camere penali, da diverse associazioni, dai garanti contro il Decreto Sicurezza, che ha un impatto esplosivo sul sistema penitenziario, possa quanto meno portare la politica e il Governo, vincendo il populismo penale, politico, mediatico ad occuparsi di carcere”. Udine. L’allarme del Garante: “La Prima Sezione del carcere è un luogo malsano e invivibile” Messaggero Veneto, 3 novembre 2024 Andrea Sandra ricorda che il Comune ha già approvato, con voto unanime, una mozione che sollecita il sindaco De Toni a intervenire per quanto di sua competenza: “Nessuna risposta, invece, dall’amministrazione sanitaria”. “La richiesta di chiusura della prima sezione del carcere di Udine, ridotta a luogo malsano e invivibile nel quale una cinquantina di detenuti sono costretti a convivere stipati in spazi angusti e inagibili, sostenuta da oltre 140 sottoscrizioni di cittadini, ha ottenuto l’attenzione delle istituzioni politiche. Nessuna risposta, invece, dall’amministrazione sanitaria”. Lo scrive in una nota il Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale del Comune di Udine, Andrea Sandra. “Il Comune - ricorda - ha approvato, con il voto unanime di tutti i consiglieri, una mozione di sentimenti affinché il sindaco intervenga per quanto di sua competenza presso il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria e la direzione sanitaria” per “un’adeguata ispezione dei locali”. L’assessore regionale Riccardi “ha risposto a un’interrogazione accogliendo l’invito di occuparsi della vicenda. La trasversalità politica è un risultato inaspettato e straordinario. Il Provveditorato ha risposto di volere imbiancare le celle interessate”, intervento che però “non risolve il problema”. Nelle celle della prima sezione, sottolinea il garante, “i fili elettrici sono scoperti, gli interruttori divelti, i lavandini senza tubo di scarico, le infiltrazioni di umidità impregnano le pareti, la muffa sui muri affiora indipendentemente dall’intonaco, l’acqua delle docce è gelata e dei rubinetti bollente. L’amministrazione sanitaria non può più esimersi da una corretta ispezione e assumere i provvedimenti per il risanamento, senza altri indugi e rinvii. Dia risposte, ma soprattutto faccia”. Venezia. Detenuti “supporter” per ridurre il rischio di suicidio in cella di Maria Ducoli La Nuova Venezia, 3 novembre 2024 Il progetto con l’Usl 3 ha lo scopo di intercettare il disagio. Il direttore di Santa Maria Maggiore: “Con soli quattro educatori e 266 detenuti, non ce la facciamo”. Era luglio quando un 37enne di San Donà si suicidò nella sua cella del carcere di Santa Maria Maggiore, dove era detenuto per reati connessi allo spaccio di sostanze stupefacenti. Un mese prima era successo a un altro uomo, due mesi dopo un giovane algerino avrebbe tentato di impiccarsi nei pochi metri quadrati a sua disposizione. “Due suicidi da parte di persone che non avevano dato il minimo segnale di disagio”, ha spiegato il direttore della casa circondariale di Santa Maria Maggiore, Enrico Farina, ammettendo che, tuttavia, con soli quattro educatori a fronte di 266 detenuti e una capienza di 159 persone, è difficile intercettare i segnali di malessere. Anche per questo, da pochissimo è stato avviato un progetto sperimentale di “peer support”, letteralmente “sostegno tra pari”, in sinergia con il Dipartimento di salute mentale dell’Usl 3. I peer supporter sono dei detenuti formati per aiutare altri detenuti e, soprattutto, per rilevare possibili segnali di disagio nei compagni di cella, nell’ottica di ridurre il rischio suicidario. “Abbiamo subito accolto il suggerimento del direttore della Casa circondariale”, spiega Elena Durella, psichiatra dell’azienda sanitaria e referente delle attività cliniche per la salute mentale in carcere, “si tratta, in effetti, di uno strumento mai praticato a Venezia ma utilizzato in altre realtà, come Lombardia e Lazio, da una decina d’anni. Si tratta di una strategia aggiuntiva alle misure già messe in atto per la prevenzione del disagio in carcere”. Il peer support nasce nel Regno Unito, per poi approdare in Italia focalizzandosi più sulle persone detenute con problemi di tossicodipendenza, poi esteso anche a quelle con disagio psicologico. La valenza sociale è doppia: i supporter sentono di avere un ruolo all’interno del carcere e, non da ultimo, hanno tutti superato con successo un percorso legato all’abuso di sostanze o a problemi legati alla salute mentale e, in questo modo, si riscattano. Hanno fatto i conti con le proprie fragilità, le hanno superate, e ora aiutano chi si trova in difficoltà. “Sono quindici i detenuti che stiamo formando, su segnalazione dell’area giuridico-pedagogica. Stanno mettendo a frutto le loro esperienze”, fa sapere Durella, spiegando che gli incontri formativi saranno in tutto cinque. “I supporter, poi, verranno incontrati ogni mese da due esperti psicologi, in modo che possano confrontarsi rispetto alle eventuali difficoltà e per ricevere un sostegno”. Il progetto era una vera e propria necessità per la casa circondariale, visto il sovraffollamento e la carenza di personale di cui Farina non ha fatto mistero, in commissione consiliare a Ca’ Farsetti nei giorni scorsi. “Dove ci dovrebbe essere un detenuto, ce ne sono tre” ha fatto sapere il direttore, aggiungendo che dei 266 carcerati, 151 sono stranieri, ma il mediatore culturale è solo uno. Non va meglio sul fronte educativo: “Quattro educatori non bastano, anche per questo abbiamo attivato il progetto con l’Usl”. Anche il capitolo del personale di polizia è una nota dolente: mancano 32 agenti ai 146 in servizio a Venezia, di cui un funzionario, 10 ispettori e 20 sovrintendenti. Cuneo. “Le nostre carceri stanno diventando sempre più dei cimiteri” di Giulia Marro* cuneodice.it, 3 novembre 2024 Il primo novembre, ho deciso di andare a trovare i vivi oltre che i defunti: ho fatto una visita sorpresa alla Casa circondariale di Cerialdo. Entrare in un carcere un giorno festivo è stato agghiacciante. L’assenza dei servizi ordinari (sanitari, scolastici, amministrativi), e la riduzione del numero degli agenti della polizia penitenziaria, lo fa sembrare un mondo dimenticato. Ciò che ho visto, anche attraverso un episodio a cui ho assistito, mi ha permesso di capire quanto questi luoghi siano una miccia che può sempre prender fuoco. In qualsiasi momento: lentezze e frustrazioni si incanalano in urla e reazioni violente. A cui si fa fronte con divieti e repressione, compito degli agenti, con un grande vuoto per la parte rieducativa, formativa, lavorativa, di supporto psicologico e sanitario. Rendendo la presenza di chi si ritrova rinchiuso, sia detenuti sia polizia penitenziaria, difficilissima da sopportare. Molti i detenuti che mi hanno segnalato ritardi di visite mediche ordinarie, specialistiche o di controllo dopo interventi chirurgici, date cancellate per operazioni importanti, informazioni frammentarie circa la loro iscrizione a corsi di formazione professionale, percorsi didattici o videochiamate con i parenti che saltano. Per mancanza di agenti che potessero accompagnarmi non ho potuto andare in tutte le sezioni che volevo. Mentre ero in colloquio con un detenuto, troppo giovane per vivere in quel contesto (19 anni), ho sentito urla e rumori di oggetti sbattuti arrivare da una cella. Quando mi sono affacciata alle grate della sezione ho visto una mela lanciata con forza verso il corpo di un agente di polizia penitenziaria, accompagnata da pesanti insulti. Gli agenti erano solamente in due accerchiati dai detenuti, che si sono avvicinati per sostenere il loro compagno che aveva ricevuto il rifiuto della possibilità di uscire dalla cella, per aver attaccato gli agenti. Era visibilmente in preda ad una crisi di nervi grave. Come è possibile immaginare di risolvere le cose potenziando le pene, mandando la gente in luoghi del genere che sono già ora al collasso? Che non sono in grado di gestire già solo la popolazione carcerarla attuale. Cosa avverrà con la messa in atto dell’ennesimo DDL sicurezza? La stessa cosa che è avvenuta con quelli precedenti: più caos, più sofferenza, più tensioni, più insicurezza. Ma come si fa ad accettare di vivere in un Paese dove la politica aumenta il pericolo? Per chi lavora in carcere, per la polizia penitenziaria, per i detenuti, per le loro famiglie, per la popolazione tutta che comunque avrà a che fare in modo diretto o indiretto con chi esce da anni o mesi di vero e proprio inferno. Cosa avviene in queste situazioni, come quella a cui ho assistito, durante un giorno festivo in cui era evidente la mancanza di agenti necessaria? A breve ci sarà un Consiglio Regionale aperto sulla situazione lavorativa della Polizia Penitenziaria in Piemonte, con referenti delle organizzazioni sindacali di Polizia Penitenziaria, i direttori e direttrici degli Isituti Piemontesi, i sindaci e le sindache delle città dove hanno luogo, i prefetti, provveditori e i referenti dei servizi sanitari. Continuerà il nostro giro per le carceri, come gruppo consigliare AVS. Dopo Cuneo, Asti, Saluzzo, Torino la prossima settimana sarà la volta di Alessandria e Alba. Seguiranno prima di Natale: Ivrea, Biella, Novara, Verbania, Fossano, Vercelli. Nel carcere di Cuneo cercherò di recarmi almeno una volta a settimana, per monitorare da vicino la situazione e lo stato mentale e psicofisico non solo delle persone detenute, ma anche della polizia penitenziaria che ringrazio per la grande disponibilità mostratami ieri durante la visita. *Consigliera regionale AVS Firenze. Cinema Teatro in carcere, l’utopia diventa realtà La Nazione, 3 novembre 2024 Presentato il film documentario “Qui è altrove: buchi nella realtà” di Gianfranco Pannone che racconta l’esperienza di Volterra. Il film documentario “Qui è altrove: buchi nella realtà” di Gianfranco Pannone è stato presentato come evento speciale in apertura della 65° edizione del Festival Dei Popoli. La prima mondiale del film si è tenuta ieri al Cinema La Compagnia di Firenze. Alla prima fiorentina seguirà la proiezione del 12 novembre durante il MedFilm Festival a Roma e il film uscirà poi in un tour per le città italiane a partire dal 22 novembre distribuito da Bartlebyfilm. A Volterra un altro carcere è possibile, dice il regista Gianfranco Pannone. A Volterra, infatti, sotto la guida di Armando Punzo è nata la Compagnia della Fortezza che ogni anno, nell’istituto di detenzione collocato all’interno della Fortezza Medicea, allestisce il suo spettacolo. Insieme ad altre compagnie teatrali che operano in vari istituti di pena italiani, la Compagnia della Fortezza anima il Progetto Per Aspera ad Astra, promosso da Acri, che vede allievi giovani e meno giovani conoscere da dentro il lavoro di Punzo e delle altre compagnie, confrontandosi su un altro teatro possibile. “Qui è altrove: buchi nella realtà - dice Gianfranco Pannone - non è un film sul carcere, ma sul teatro in carcere che si fa linfa vitale. Tuttavia, non si può essere insensibili alla condizione dei nostri istituti di detenzione, che quest’anno hanno registrato al loro interno una sessantina di suicidi, oltre che un po’ ovunque diverse sollevazioni per le condizioni assai difficili all’interno delle celle, per i detenuti come per le guardie carcerarie. L’esperienza di Volterra, che vede Armando Punzo animare da ben 35 anni anni la Compagnia della Fortezza, composta, insieme a dei professionisti del teatro, da detenuti-attori, è un’isola in un panorama per molti versi desolante, che ci dice una cosa semplice e chiara: “un altro carcere è possibile”. Possibile nella misura in cui i detenuti sono anzitutto persone che condividono con altre persone un’esperienza unica perché fortemente umana”. Dice Armando Punzo: “Per Aspera ad Astra: attraverso sentieri impraticabili, raggiungere la luce. E la luce, le stelle, sono quelle di un’utopia concreta che si realizza lì dove è impensabile. All’inizio, forse, nessuno avrebbe scommesso su questo progetto di Teatro in Carcere. Eppure, a distanza di sette anni, è evidente a tutti che dalla nostra particolare postazione, attraverso un agire prettamente artistico, trascendiamo il carcere reale per parlare dei limiti e della prigione più ampia in cui tutti siamo rinchiusi. Per Aspera ad Astra – continua Punzo – racchiude in sé il senso dell’utopia quando si realizza”. Il film segue, fino al debutto, nel carcere di Volterra, le prove di Armando Punzo con i suoi attori nell’ambito del progetto teatrale Atlantis – Capitolo 1 – La permanenza. Qui, con altri registi provenienti da diverse esperienze di teatro-carcere, la Compagnia della Fortezza organizza la masterclass, riunendo tutte queste realtà nel segno di un’utopia possibile: Qui è altrove: Buchi nella realtà scritto e diretto da Gianfranco Pannone è prodotto da Bartlebyfilm e Aura Film, in co-produzione con RSI – Radiotelevisione svizzera, con la collaborazione di Acri - Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio Spa e Carte Blanche e con il patrocinio di Associazione Antigone. Arezzo. “limmaginato”, riflettere sulla detenzione da una nuova prospettiva di Desyrè Baldacci ttv.it, 3 novembre 2024 Il libro fotografico dell’Associazione Cultura della Pace è stato presentato all’interno della Casa Circondariale di Arezzo: “Siamo tutti accomunati in quanto esseri umani”. Riflettere sulla condizione carceraria da un punto di vista diverso e farlo attraverso l’occhio della fotocamera. Questo è ciò che si è prefissata di fare l’Associazione Cultura della Pace con il libro “limmaginato”, raccolta di fotografie di Riccardo Lorenzi frutto di un lungo progetto didattico che ha visto il coinvolgimento di alcune classi del Liceo “Città di Piero” di Sansepolcro e i detenuti della Casa Circondariale di Arezzo. L’interessante opera fotografica racconta il carcere da una nuova prospettiva, ovvero quella degli studenti, degli ospiti e degli operatori della struttura aretina e nasce con l’intento di far riflettere sulla condizione dei detenuti evidenziando l’importanza della dignità della persona; queste tematiche sono state anche al centro di un incontro di presentazione organizzato la scorsa settimana proprio all’interno della Casa Circondariale di Arezzo alla presenza dei vertici dell’istituto penitenziario, del garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, dell’Associazione Cultura della Pace e di una rappresentante degli studenti che hanno partecipato al progetto. Tanti gli spunti di riflessione che sono emersi nel corso della giornata, fra tutti la condizione dei detenuti nelle carceri italiane e di come queste, troppo spesso, vengono considerate come mondo a sé stante e lontano dalla società civile. Come spiegato dal professor Leonardo Magnani, infatti: “per l’Associazione Cultura della Pace il carcere deve essere un luogo il più possibile integrato nella comunità e il libro limmaginato porta con sé un messaggio importante, ovvero che siamo tutti accomunati in quanto esseri umani”. A chiusura della giornata la donazione del libro a tre ospiti della Casa Circondariale che hanno partecipato al progetto prestando il proprio volto; ognuno di loro ha poi raccontato la propria esperienza personale mettendo in evidenza l’importanza di questo tipo di progettualità. Diritti costituzionali e cybersicurezza di Massimo Ferrari Corriere della Sera, 3 novembre 2024 Le istituzioni pubbliche sensibili sono vulnerabili sia agli accessi abusivi condotti dai dipendenti che ad attacchi da parte di hacker tradizionali. In Italia ad oggi esistono almeno dieci diverse agenzie, dipartimenti e organismi che si occupano di sicurezza informatica. Gli episodi accaduti negli ultimi tempi hanno dimostrato che istituzioni pubbliche sensibili sono vulnerabili sia agli accessi abusivi condotti dai dipendenti che ad attacchi da parte di hacker tradizionali. Tali forme di diffusione illecita di informazioni riservate violano principi costituzionali. Particolarmente complessa e delicata è la relazione tra diritto alla privacy e altri diritti costituzionalmente tutelati, come la salute collettiva, il diritto di cronaca, la sicurezza pubblica, l’amministrazione della giustizia (consideriamo le intercettazioni telefoniche). Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è più volte intervenuto sul tema. Tra i principi della nostra Carta costituzionale spicca la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2), in quanto l’individuo è posto al centro dell’ordinamento giuridico, tanto che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3). A declinare questa fondamentale tutela per quanto riguarda il diritto alla privacy, l’art. 15 stabilisce l’inviolabilità della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione personale. Conseguentemente, la Corte Costituzionale ha più volte affermato che la dignità umana è comprensiva del diritto alla riservatezza. Ma i privati cittadini sono oberati di obblighi per fornire molte informazioni private sensibili. Mentre le imprese sostengono costi rilevanti per l’adozione di processi e procedure che garantiscano la privacy (con responsabilità financo penali), mentre i dati e le informazioni affidate allo Stato sono ad alto rischio di impieghi illeciti. Cosa avviene per quanto riguarda la Pubblica Amministrazione? In Italia ad oggi esistono almeno dieci diverse agenzie, dipartimenti e organismi che si occupano di sicurezza informatica. Con la creazione, nel 2021, dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale molte attività sono state centralizzate e coordinate, ma le responsabilità operative e strategiche sono ancora parcellizzate tra varie entità. Fornire linee guida chiare su come applicare standard di sicurezza elevati in modo uniforme in tutte le amministrazioni pubbliche e creare un SOC (Security Operation Center) per la PA sono tra le principali azioni da intraprendere a livello nazionale. È inoltre opportuno valutare l’opportunità di istituire una Autorità indipendente, che riferisca al Parlamento periodicamente, con una governance che privilegi l’efficacia e la riservatezza, e una disciplina apposita per regolamentarne la relazione con il Ministro dell’Interno. Tale Autorità dovrebbe essere dotata di una struttura di competenze interforze, avere ampi poteri d’indagine e regolamentari e un idoneo budget per investire in sistemi ed infrastrutture sempre all’avanguardia. A livello internazionale, è fondamentale aumentare la collaborazione con agenzie di cybersecurity europee, come ENISA, per scambiare informazioni e analizzare le minacce emergenti a livello globale. Queste misure sono indispensabili per prevenire gli accessi dall’esterno, ma non va trascurata la necessità di aumentare la sicurezza anche all’interno delle amministrazioni. L’adeguamento degli enti pubblici alla disciplina privacy-GDPR è migliorato negli ultimi anni, ma rimane ancora disomogeneo. In base alle rilevazioni fatte dal Garante, in molti enti pubblici non è ancora stato nominato un Data Protection Officer o il ruolo risulta essere affidato a personale non adeguatamente formato. Altrettanto bassa è la consapevolezza dei dipendenti pubblici sulla protezione dei dati, sui rischi informatici così come la mancanza di risorse con le dovute competenze tecniche. La crescita della cultura di security deve essere accompagnata da misure organizzative idonee a fermare il dipendente infedele che vuole vendere informazioni all’esterno. Per i dati più sensibili è necessario adottare un approccio sicurezza Zero-Trust, limitando l’accesso ai dati al personale autorizzato. È inoltre opportuno implementare politiche di classificazione e protezione dei dati, per mitigare la circolazione di informazioni a soggetti non autorizzati e poter individuare facilmente i dati critici da migrare in ambienti ad alta sicurezza e meno vulnerabili agli attacchi. Se per le aziende private che non rispettano la normativa privacy e cybersecurity sono previste sanzioni pecuniarie significative, e anche per le PA che non rispettano le norme di sicurezza deve essere usato lo stesso approccio sanzionatorio così come la stessa attenzione al monitoraggio. Mai come oggi lo Stato italiano deve adottare un approccio completo e integrato per la sicurezza informatica delle PA oltre che per le garanzie a cittadini e imprese. Migranti. La nave Libra è in mare: tutti i nodi di un nuovo trasbordo verso l’Albania di Antonio Maria Mira Avvenire, 3 novembre 2024 Il pattugliatore della Marina è in area Sar pronto per trasferire le persone soccorse dai guardacoste: saranno 30 o 40. Resta il problema dei “Paesi sicuri” e il poco personale delle commissioni. Il Governo accelera per portare un nuovo gruppo di migranti in Albania. Non pochissimi come i primi 16, poi ridotti a 12 e poi “liberati” dopo la decisione del Tribunale di Roma. Ma neanche tanti. Le prime notizie, informali, parlavano di 60-70, ma quelle raccolte da Avvenire tra ambienti del Tribunale riferiscono di non più di 30-40. Sarebbe stato direttamente il ministero della Giustizia ad avvisare i giudici di tenersi pronti per la prossima settimana. Sarà sempre il pattugliatore Libra della Marina militare a operare per raccogliere i migranti e portarli in Albania. Si troverebbe già in acque internazionali, zone Sar tunisine e libiche, in attesa che i mezzi della Guardia costiera e della Guardia di Finanza intercettino le barche coi migranti. Il tempo favorisce le partenze, il mare è quasi calmo anche se c’è vento di scirocco da sud, ma da oggi ci sarà una “piatta” completa. Dopo i 172 sbarcati tra giovedì e venerdì a Lampedusa e i 282 soccorsi da quattro Ong, ieri non si sono viste barche. Solo il ripetuto allarme di Alarm Phone per una barca alla deriva da 5 giorni con 44 persone, in zona Sar maltese, quindi più a est di dove opererà nave Libra. La scelta di trasportare non più di 30-40 migranti è dovuta in primo luogo al poco spazio a bordo della nave militare, ma soprattutto all’inadeguato numero di personale in Albania per decidere sui singoli casi (asilo o no, trattenimento o no) nei tempi previsti dalla procedura accelerata. Ma non sarà lo stesso facile arrivare a quei numeri, pur ridotti. I “paletti” sono molti e non facilmente superabili. Ancor prima dell’eventuale intervento della magistratura che, comunque, avverrà solo dopo l’arrivo in Albania e dopo la decisione della Commissione ministeriale sul diritto d’asilo. In primo luogo ricordiamo che in base al Protocollo con Tirana potranno essere portati nei due centri di Schengjin e Gjiader solo le persone intercettate in acque internazionali, cioè nelle zone Sar di Tunisia e Libia, a 15-20 miglia a sud-sud ovest da Lampedusa. Solo uomini adulti, quindi escluse donne e minori. Ricordiamo che dei primi 16 migranti portati in Albania, solo a sbarco avvenuto si è scoperto che due erano minorenni e quindi riportati in Italia e due risultati malati, e quindi soggetti fragili, anche loro esclusi dal Protocollo. Se ci sono stati errori del 25% su appena 16 persone, si riuscirà a fare meglio con numeri più alti? Anche perché gli addetti ai controlli a bordo non potranno essere molti di più, visti gli spazi ridotti a bordo di nave Libra. Per questo a maggio era stato previsto il noleggio di un traghetto dove ospitare 200 migranti e 100 unità di personale. Una scelta poi abbandonata a favore della inadatta nave militare. C’è poi la questione più importante, quella che ha fatto intervenire il Tribunale di Roma, che ha applicato la sentenza della Corte europea di Giustizia sui cosiddetti Paesi sicuri. Non sarà facile trovare tante persone che vengano da questi ultimi. Ce lo dicono i numeri degli ultimi sbarchi, quelli di tre giorni fa a Lampedusa, dopo alcuni giorni di zero sbarchi. Ebbene i 172 arrivati nell’isola e partiti da Libia e Tunisia appartenevano a otto nazionalità diverse, ma solo tre erano “Paesi sicuri”: Costa d’Avorio, Ghana e Senegal. Gli altri venivano soprattutto da Paesi subsahariani, quest’anno minoranza tra gli sbarcati. Infatti tra i primi dieci della “classifica” dei migranti soccorsi nel Mediterraneo centrale quest’anno troviamo in testa Bangladesh, Tunisia, Egitto, tutti “Paesi sicuri”, destinati all’Albania (bengalesi e egiziani erano i primi 16). Ma negli ultimi sbarchi sono scomparsi. Mentre li abbiamo visti in uno sbarco proveniente dalla Cirenaica. Cambio di strategia dei trafficanti per evitare le nuove norme italiane? Lo vedremo nei prossimi sbarchi. Se così fosse sarebbe molto difficile arrivare ai numeri annunciati dal Governo. A meno che tornino a crescere i migranti di “Paesi sicuri”, in particolare i tunisini. Sarebbe però inspiegabile per le strategie “commerciali” dei trafficanti. A meno di pensare a “complicità” tunisine. Migranti. Il Governo Meloni dichiara guerra alla magistratura di Rocco Vazzana Il Domani, 3 novembre 2024 Sui migranti l’esecutivo non ammette più intoppi di natura giudiziaria. Le toghe, sotto attacco, si riuniranno in assemblea a Bologna il 4 novembre. “Giudici comunisti”, “sentenza abnorme”, “argomentazione più vicina a un volantino propagandistico che a un atto da tribunale”. Se le parole sono importanti, quelle scelte dai più alti rappresentanti del governo italiano per definire il lavoro della magistratura suonano come una vera e propria dichiarazione di guerra. Quello appena riportato, infatti, è un campionario sintetico e per nulla esaustivo di affermazioni pronunciate nelle ultime settimane dal vicepremier Matteo Salvini, dal ministro della Giustizia Carlo Nordio e dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Nel mezzo ci sarebbero anche decine di dichiarazioni, ancora più aspre e sprezzanti, uscite dalle bocche di generali, colonnelli e seconde file di tutti partiti della maggioranza contro le toghe. L’ordine di scuderia è chiaro: ribattere punto per punto, il governo non intende fermarsi davanti alle sentenze. In ballo c’è l’idea tutta ordine e disciplina di Palazzo Chigi in tema di immigrazione. E più i giudici applicheranno la legge, disapplicando i provvedimenti dell’esecutivo, come accaduto per i Cpr in Albania, più si esporranno all’artiglieria del potere politico. Perché “noi rispondiamo al popolo”, ha avuto modo di dire nei giorni scorsi il guardasigilli, trasformando il mandato popolare in potere assoluto. Altra nave, altra sfida - E così la prossima settimana, tra lunedì e mercoledì, la nave Libra della Marina militare italiana salperà di nuovo verso l’Albania per portare il maggior numero possibile di persone nei centri di Shengjin e Gjader, fiore all’occhiello della gestione creativa dell’immigrazione del nostro governo, il “modello” esternalizzato dell’accoglienza da esportare in tutta Europa. E pazienza se il Tribunale di Roma, con ogni probabilità, sarà costretto a un provvedimento fotocopia di non convalida dei trattenimenti albanesi, come già accaduto due settimane fa. L’importante, per l’esecutivo, è mostrare i muscoli, non arretrare di un millimetro. Né attendere il verdetto della Corte di Giustizia europea che dovrebbe esprimersi sulla pregiudiziale interpretativa richiesta dal Tribunale di Bologna sulla definizione di “Paese sicuro”. Il governo Meloni non può perdere tempo, a costo di dissipare altro denaro pubblico per la gestione di centri (e viaggi) attualmente inutili. Chi si oppone alla tabella di marcia diventa immediatamente un nemico del popolo e in intralcio al genio italico. Il giudice diventa un bersaglio da screditare. Da punire. Così come punitiva appare ormai persino la riforma della magistratura: separare le carriere non per rendere più efficace l’amministrazione della giustizia con un giudice effettivamente terzo, ma per castigare un potere “concorrente”. Il bon-ton istituzionale da prima Repubblica, quello sintetizzabile nella formula tanto ipocrita quanto necessaria “le sentenze non si commentano, si rispettano”, è andato a farsi benedire in un clima di sfida perpetua. “Non possono esserci giudici che smontano la sera quello che altri fanno la mattina”, ha avuto modo di dire Matteo Salvini, lì dove “gli altri” sono loro, gli uomini del governo, liberi di ritenere la difesa dei confini prioritaria rispetto al diritto. Alla magistratura non resta che incassare l’ennesimo attacco, provando a resistere alle bordate. “La frequenza con cui si succedono le prese di posizione aspramente e duramente polemiche contro i magistrati che si trovino a decidere in senso contrario alle attese e alle pretese del governo suscita una forte preoccupazione tra i magistrati e, spero vivamente, tra tutti quanti hanno a cuore l’equilibrio tra i poteri dello Stato”, dice a Domani il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. Che poi annuncia: “L’indignata preoccupazione per la effettività dei principi di autonomia e di indipendenza della magistratura ha indotto a indire un’assemblea della Anm del distretto bolognese, ultimo tra quelli in cui i giudici sono stati colpiti dalle aggressioni giornalistiche e dalle pesanti accuse del mondo politico di far propaganda, di essere mossi da intenti politico-partitici, di esser “comunisti” e avversi agli interessi del nostro Paese”. A Bologna, lunedì, le toghe discuteranno e si confronteranno “sulla gravità di quanto sta accadendo”, spiega ancora il leader del sindacato togato. “Quale presidente Anm, testimonierò con la mia presenza all’assemblea l’inquietudine che si fa sempre più strada tra i magistrati, porterò ai colleghi bolognesi la vicinanza e la solidarietà di tutta l’Associazione nazionale magistrati e confermerò che la piena e convinta adesione della magistratura italiana ai valori e ai principi della Costituzione è la prima e più importante risposta agli ingiusti e irrispettosi attacchi”. Nel capoluogo emiliano arriveranno anche alcuni consiglieri del Csm: Mimma Miele (Md), Antonello Cosentino (Area) e gli indipendenti Andrea Mirenda e Roberto Fontana. E probabilmente se ne aggiungeranno anche altri. “La nostra presenza sarà una manifestazione di sostegno ai colleghi bolognesi”, ci spiega il consigliere Fontana. “D’altro canto noi non siamo per niente soddisfatti del fatto che dopo un anno la pratica Apostolico non sia ancora stata chiusa”, aggiunge, riferendosi al caso della giudice Iolanda Apostolico, la prima ad aver disapplicato il decreto Cutro e ad essere per questo finita nel mirino della maggioranza e dei giornali di destra. “A questo punto, si è talmente aggravata l’escalation che è probabile che finalmente si chiuda rapidamente anche la pratica Apostolico ed è possibile che lunedì parta una richiesta di pratica a tutela anche dei colleghi bolognesi, su iniziativa di tutti i consiglieri togati”. Ma l’assemblea dell’Anm difficilmente riuscirà a placare la contrapposizione col governo. Almeno fino quando esisterà un magistrato talmente folle e indisciplinato da applicare la legge: una toga rossa da educare.