Quel quadro troppo ottimista di Nordio al Cpt sulle carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 novembre 2024 In un recente incontro con Alan Mitchell, presidente del Comitato Prevenzione Tortura del Consiglio d’Europa, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha presentato una narrativa rassicurante sullo stato delle carceri italiane che non corrisponde alla realtà, purtroppo drammatica, dei fatti. Il guardasigilli ha posto l’accento sul piano di “razionalizzazione e ammodernamento” del patrimonio edilizio carcerario, celebrando la creazione di oltre mille nuovi posti detentivi. Tuttavia, questa visione si scontra frontalmente con le raccomandazioni del Cpt stesso, che ha ripetutamente sottolineato come la costruzione di nuove strutture carcerarie non rappresenti una soluzione sostenibile al sovraffollamento. Il Cpt, infatti, propone un approccio radicalmente diverso: il ricorso al carcere come extrema ratio, privilegiando invece misure alternative alla detenzione. Particolarmente stridente appare l’autocompiacimento del ministro riguardo all’assenza di suicidi negli Ipm, quando perfino il recente rapporto Onu ha evidenziato discriminazioni sistemiche nei confronti dei minori stranieri. Il documento internazionale denuncia come questi ultimi subiscano sistematicamente misure più restrittive rispetto ai coetanei italiani, indipendentemente dalla gravità dei reati commessi. Questa disparità di trattamento non solo viola i principi fondamentali di equità, ma contribuisce anche all’aumento delle carcerazioni. Il ministro, inoltre, non può trascurare il fatto, ben documentato dal rapporto di Antigone, che per la prima volta le carceri minorili registrano un sovraffollamento, rovinando ciò che prima era un esempio virtuoso di cui il nostro Paese poteva andare fiero. Mentre il ministro Nordio parla di ammodernamento, il recentissimo rapporto Onu descrive una realtà ben diversa: strutture obsolete con problemi basilari come l’inadeguatezza dell’approvvigionamento idrico, temperature insostenibili in estate e mancanza di acqua calda in inverno. Condizioni che, nelle parole degli esperti Onu, “possono costituire una grave forma di maltrattamento, se non addirittura di tortura”. Il sistema mostra particolare inadeguatezza nel trattamento delle persone tossicodipendenti. La mancanza di continuità terapeutica tra servizi esterni e interni, unita all’insufficienza dei programmi di riduzione del danno e riabilitazione, evidenzia come l’approccio carcerario sia inadeguato per affrontare questioni di salute pubblica. Un altro aspetto critico, completamente ignorato dal Ministro, riguarda l’accesso ai servizi per i detenuti stranieri. La carenza cronica di traduttori e mediatori culturali non solo ostacola l’accesso alle cure mediche, ma compromette anche il diritto alla difesa per i detenuti in attesa di giudizio. Se è vero che il ministero ha aumentato i fondi per il supporto psicologico (da 4,5 a 14,5 milioni di euro), i numeri dei suicidi in carcere rimangono allarmanti: 76 casi solo nel 2024. Questi dati suggeriscono che l’approccio attuale, basato principalmente sull’incremento delle risorse economiche, non sta producendo i risultati sperati. Particolarmente problematica appare la narrazione del ministro sul regime del 41-bis. Nordio lo presenta come fedele all’idea originaria di Giovanni Falcone, ma la realtà storica racconta altro: se l’intento iniziale era quello di impedire le comunicazioni tra boss detenuti e organizzazioni criminali, nel corso dei decenni il regime è stato trasformato in uno strumento di ulteriore afflizione, ben oltre lo scopo preventivo originario. L’incontro tra il ministro della Giustizia Nordio e il Comitato Prevenzione Tortura del Consiglio d’Europa rivela un preoccupante scollamento tra la narrativa ministeriale e la realtà documentata da organismi internazionali. Mentre il ministro presenta un quadro di progressi e riforme, i rapporti dell’Onu e del Cpt descrivono un sistema carcerario in profonda crisi, dove le violazioni dei diritti umani sono sistematiche e le soluzioni proposte sembrano ignorare le raccomandazioni internazionali. È evidente la necessità di un cambio di paradigma che metta al centro i diritti umani e le alternative alla detenzione, abbandonando l’illusione che la costruzione di nuove carceri possa risolvere problemi strutturali del sistema penitenziario italiano. Il sovraffollamento è un dilemma delle carceri italiane di Felicia Bruscino ultimavoce.it, 2 novembre 2024 Il sistema carcerario in Italia è sopraffatto: le carceri tornano a fronteggiare un’emergenza di sovraffollamento senza precedenti. La sistematicità del sovraffollamento nelle carceri, di fatti, non è una novità in Italia. Le strutture penitenziarie sono sovraffollate, offrono pessime condizioni di vita ai detenuti e mostrano gravi problemi di gestione e sicurezza, anche in quelle ad alta sicurezza. Non può assorbire il numero crescente di persone incarcerate né affrontare i nuovi profili criminologici dei prigionieri, carenze che il governo ha riconosciuto e intende affrontare. Si tratta, in breve, di un sistema carcerario sopraffatto nelle sue capacità fisiche e organizzative, la cui soluzione richiederà una profonda trasformazione delle sue fondamenta. Negli ultimi vent’anni, i tassi di incarcerazione sono in calo in un gran numero di giurisdizioni del Nord del mondo. Il sistema punitivo statunitense è ampiamente considerato un esempio paradigmatico (ampiamente studiato): dopo almeno tre decenni di espansione (a partire dai primi anni 70), l’incarcerazione di massa americana ha iniziato una fase di trasformazione e il sistema carcerario è entrato in uno stato di crisi strutturale. La popolazione carceraria è diminuita sensibilmente grazie a riforme che puntano a ridurre i costi e a promuovere un maggiore rispetto dei diritti umani. Tale dibattito ha anche stimolato una collaborazione tra studiosi e attivisti, con lo scopo di esplorare soluzioni alternative all’incarcerazione di massa. Nel quadro italiano, a partire dagli anni’90, il sistema carcerario ha registrato un’espansione significativa, dovuta in parte all’aumento della popolazione carceraria e dalla prevalenza di pene detentive brevi, alta custodia cautelare e controllo sugli immigrati. Benché sia in lotta con una tendenza crescente verso politiche più punitive, la moderazione delle pene è un tema che viene a galla. A livello comparativo, il sistema penale italiano si distingue per livelli elevati di sovraffollamento carcerario e per l’uso frequente della custodia cautelare rispetto ad altri paesi europei. Inoltre, l’incarcerazione degli immigrati rappresenta una specificità che contribuisce a questa complessità. La riflessione sull’incarcerazione in Italia si inserisce in una tendenza più ampia, osservabile in diversi paesi del Nord del mondo, dove si nota un generale calo dei tassi di incarcerazione e una fase di crisi strutturale del sistema penale. Negli Stati Uniti, per esempio, la popolazione carceraria è diminuita sensibilmente negli ultimi dieci anni, grazie a riforme che puntano a ridurre i costi e a promuovere un maggiore rispetto dei diritti umani. Tale dibattito ha anche stimolato una collaborazione tra studiosi e attivisti, con lo scopo di esplorare soluzioni alternative all’incarcerazione di massa. A differenza degli istituti penitenziari italiani, dove il sovraffollamento è un problema endemico. Oggi, in Italia, le carceri vivono una delle situazioni più drammatiche degli ultimi dieci anni, raggiungendo una densità di popolazione che ricorda la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) del 2013. Tale sentenza, nota come “Sentenza Torreggiani”, condannò l’Italia (per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani) per trattamenti inumani e degradanti dovuti al sovraffollamento carcerario. Patrizio Gonnella, Presidente dell’Associazione Antigone impegnata nella tutela dei diritti nelle carceri, segnala un nuovo allarme, riportando dati preoccupanti sulla condizione dei carcerati e degli agenti penitenziari. Una situazione che diventa sempre più complessa, incentivata dalle politiche attuali dei governi. A metà ottobre 2023 il numero di detenuti, presenti nelle carceri italiane, superava le 62.000 unità, a fronte di una capienza regolamentare di 51.196 posti, ma solo 46.751 di questi sono concretamente utilizzabili. Vale a dire che solo nell’ultimo anno si sono aggiunti quasi 3.000 detenuti, mentre il numero di posti disponibili è diminuito. La differenza tra la capienza nominale e quella effettiva, quindi, aggrava il problema e rende urgente un intervento per evitare che la situazione precipiti ancor più. Questo dato ha portato il presidente di Antigone a richiamare l’attenzione pubblica e politica sulla necessità di interventi urgenti. Questo quadro allarmante è sorretto dalle osservazioni sul campo condotte da Antigone. In molte delle 73 strutture visitate dall’associazione, nell’ultimo anno, sono stati riscontrati spazi non all’altezza, con celle che non rispettano il parametro minimo di 3 metri quadrati per persona. Un requisito stabilito dai tribunali italiani e internazionali per garantire il rispetto dei diritti umani. Su 73, gli istituti che non rispettano questo parametro, sono ben 23. Tale situazione, come sottolineato da Gonnella, non è più sostenibile sia per i detenuti, privati dei diritti fondamentali, sia per il personale di polizia penitenziaria, sottoposto a condizioni di lavoro sempre più dure. Inoltre nel 2023 sono stati registrati 77 suicidi tra i carcerati, un numero anch’esso drammatico che esprime la disperazione e la vulnerabilità della popolazione carceraria. A questi si aggiungono 7 suicidi tra le forze di polizia penitenziaria. Gli agenti della Polizia Penitenziaria, già gravati da turni estenuanti e condizioni di lavoro sfavorevoli, si trovano a gestire una popolazione detenuta in forte crescita e sempre più disperata. Un segnale che evidenzia la pressione psicologica a cui è sottoposto anche il personale carcerario è l’ultimo episodio, avvenuto nella Casa Circondariale di Prato, interessa un detenuto di cinquant’anni, con una pena da scontare fino al 2030, che ha deciso di togliersi la vita impiccandosi in cella. Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, definisce questa situazione come una “strage senza fine” e evidenzia come, nonostante una lieve riduzione nelle morti avvenute negli ultimi mesi, i numeri restino allarmanti e destinati a peggiorare. La situazione che diventa sempre più complessa, incentivata dalle politiche attuali dei governi. A detta del presidente di Antigone, la proposta di legge sulla sicurezza peggiorerà il sovraffollamento carcerario, ragion per cui chiede un immediato blocco della sua approvazione e misure urgenti per ridurre la pressione nelle carceri. Il nuovo disegno di legge sulla sicurezza rischia di esasperare il sovraffollamento - Il sistema carcerario italiano è regolato dalla legge penitenziaria (legge 354/1975), che è stata modificata più volte nella recente storia, anche in base al clima politico e a varie crisi vere o presunte. Ci sono 190 istituti penitenziari in tutto il Paese, che ospitano, al 31 dicembre 2023, 60.166 detenuti (per una capienza complessiva di 51.179). A parte l’indulto collettivo promulgato nel 2006 la reazione del sistema all’aumento periodico della popolazione carceraria è cambiata in modo significativo a partire dagli anni 2000, e l’approccio di “moderazione penale” è stato sostituito da uno più punitivo. La situazione sociale, politica ed economica potrebbe aver favorito l’attuazione di un approccio di durezza penale rivolto principalmente a determinati gruppi sociali (in particolare i migranti). Inoltre, l’aumento della popolazione carceraria non è stato arrestato dall’introduzione di diverse misure alternative alla detenzione. Tali misure, istituite a partire dal 1986, sembrano aver favorito un quadro generale di netto allargamento nell’ambito del controllo penale. piuttosto che una limitazione nell’uso del carcere come principale strumento di punizione. Il cosiddetto “Il nuovo disegno di legge sulla sicurezza”, promosso dall’attuale Governo, è al centro delle critiche di Antigone e di altre organizzazioni per i diritti umani. Il disegno di legge, pensato per rafforzare la sicurezza interna, introduce misure che, secondo i detrattori, rischiano di aggravare ulteriormente il sovraffollamento carcerario. Favorendo una serie di problemi che potrebbero sfociare in una nuova condanna della Corte Europea. Questo progetto, prevede infatti un inasprimento delle pene e una riduzione delle possibilità di sconti di pena o di misure alternative. Accentuando così l’affollamento delle strutture già in crisi. Antigone è decisamente contrario a tale proposta e ha rivolto un appello al Governo italiano, chiedendo di bloccare l’approvazione del disegno di legge sulla sicurezza. E avviare una riforma del sistema penale e penitenziario che miri a ridurre il numero di detenuti, soprattutto in relazione a reati minori o non violenti. Spesso legati a condizioni di marginalità sociale o economica. I dati mostrano molte ambiguità che rendono difficile risolvere definitivamente la questione. Solo in alcune situazioni sono state approvate nuove leggi e molto raramente sono state implementate le misure necessarie per applicare le nuove leggi o gli emendamenti. Il piano delle politiche migratorie è un esempio efficace del fenomeno. Da più di 15 anni diversi partiti politici hanno ripetutamente annunciato la loro determinazione a combattere l’immigrazione clandestina con misure amministrative come l’espulsione, il respingimento e il maggiore utilizzo dei centri di detenzione. Tuttavia, dopo molti anni non stiamo assistendo alla vera istituzione di un organo amministrativo effettivamente in grado di mettere in pratica quanto ripetutamente annunciato. Non a caso, come detto, il controllo dei migranti è stato in gran parte delegato al sistema di giustizia penale. Questi ultimi tempi rappresentano questo fenomeno. Da un lato, il dibattito politico è ancora incentrato sulle campagne per la legge e l’ordine, senza significative differenze rispetto agli anni precedenti. L’enfasi sulla criminalità, spesso associata all’immigrazione, è ancora un tema principale di discussione durante le campagne elettorali; non a caso, tutte le ultime elezioni hanno premiato quei politici che hanno saputo meglio presentarsi come paladini della legge e dell’ordine. È curioso come questo fenomeno persista in Italia anche in un periodo caratterizzato da un calo della criminalità denunciata. A questo proposito, possiamo affermare che in Italia l’enfasi sulla in-sicurezza è ancora un mezzo efficiente per acquisire consenso elettorale. D’altro canto, le agenzie di controllo sociale sembrano sperimentare varie forme di mitigazione e pragmatismo nelle loro pratiche e decisioni. In particolare, a partire dalla “Sentenza Torreggiani”, sembra che l’Italia abbia sviluppato a vari livelli - pubblica amministrazione, magistratura e funzionari ministeriali - una nuova forma di consapevolezza circa la necessità di non superare certi limiti, poiché ciò potrebbe avere gravi conseguenze negative per l’intero sistema. Infine, si potrebbe affermare che il sistema di giustizia penale italiano ha raggiunto un equilibrio tra retorica populista ed esigenze pratiche del sistema. Ma, a mio avviso, non bisogna essere eccessivamente ottimisti. In effetti, si tratta di un equilibrio precario che potrebbe entrare molto rapidamente in crisi. L’urgenza di una riforma profonda e strutturale - La crisi carceraria italiana non è solo una questione di numeri e statistiche: rappresenta una sfida etica e politica che il Paese non può più rimandare. L’allarme lanciato da Antigone e dalle organizzazioni che si occupano di diritti umani non può essere ignorato. Il sovraffollamento e le condizioni delle carceri italiane, l’alto numero di suicidi e il malessere del personale penitenziario rappresentano una falla nel sistema giudiziario e sociale del Paese. sono problemi intrecciati che richiedono una riforma complessiva e strutturale. È necessario un intervento a 360 gradi che non si limiti a tamponare l’emergenza, ma che miri a creare un sistema di giustizia più giusto ed efficace, in linea con i principi di umanità e dignità sanciti dalla Costituzione italiana e dalle convenzioni internazionali. Antigone, sostenuta da altre associazioni e dalla società civile, ha ribadito l’importanza di superare una visione puramente repressiva della giustizia e di avviare una nuova stagione di riforme, per un sistema che rispetti e valorizzi la dignità della persona umana, offrendo a ogni detenuto l’opportunità di una reale riabilitazione. Se il governo intende realmente affrontare questa emergenza, dovrà prendere in considerazione le proposte avanzate dalle associazioni e dai sindacati, lavorando insieme per trasformare il sistema penitenziario da un ambiente di sofferenza e privazione a uno strumento di recupero e giustizia sociale. Dal quadro attuale emerge con intelligibilità la necessità di un cambio di paradigma che vada oltre le misure tampone. Senza una riforma che risponda alle problematiche strutturali, sarà difficile ridurre il sovraffollamento e assicurare un futuro dignitoso a un sistema ormai in ginocchio. I Magistrati di Sorveglianza: sui colloqui intimi in carcere consulta ignorata L’Unità, 2 novembre 2024 Ormai sono trascorsi nove mesi dal deposito. I Magistrati di Sorveglianza denunciano la mancata attuazione della sentenza della Corte costituzionale sul diritto all’affettività in carcere. “Molteplici sono le attuali criticità del sistema penitenziario che ostacolano le finalità rieducative e risocializzanti della pena detentiva”, si legge in una nota del Conams, Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza. “Prima tra tutte il permanente e gravissimo sovraffollamento carcerario, oltre alle strutturali carenze di personale all’interno degli Istituti penitenziari (Polizia penitenziaria, operatori dell’Amministrazione penitenziaria e delle Aree sanitarie), così come nei Tribunali e negli Uffici di sorveglianza (che in conseguenza stentano a provvedere con la dovuta tempestività sulle istanze dei detenuti) ed alla generale scarsità di risorse economiche, indispensabili per offrire a tutte le persone detenute l’opportunità di svolgere attività psicoeducative, riabilitative, lavorative, di formazione professionale e di studio. Il Comitato esecutivo del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza ritiene peraltro necessario porre in evidenza l’ulteriore criticità che deriva dalla persistente mancata attuazione della sentenza della Corte costituzionale n. 10/2024, depositata il 26.1.2024 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 31.1.2024, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 co. 3 della l. n. 354/75 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) “nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”. Tale omissione, come efficacemente evidenziato dalla stessa Corte, comporta la persistente assenza di colloqui affettivi intimi della persona detenuta con il partner, contribuendo ad ostacolare le finalità rieducative e risocializzanti della pena: “L’impossibilità per il detenuto di esprimere una normale affettività con il partner si traduce in un vulnus alla persona nell’ambito familiare e, più ampiamente, in un pregiudizio per la stessa nelle relazioni nelle quali si svolge la sua personalità, esposte pertanto ad un progressivo impoverimento, e in ultimo al rischio della disgregazione. Da questo punto di vista si evidenzia la violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto una pena che impedisce al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa. […] Il perseguimento di questo obiettivo [i.e. della risocializzazione] risulta anzi gravemente ostacolato dall’indebolimento delle relazioni affettive, che può arrivare finanche alla dissoluzione delle stesse, giacché frustrate dalla protratta impossibilità di coltivarle nell’intimità di incontri riservati, con quell’esito di desertificazione affettiva che è l’esatto opposto della risocializzazione”. È noto - continua la nota del Conams, che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria abbia disposto, nel corso degli ultimi mesi, l’attivazione di un tavolo di lavoro per acquisire dati e informazioni ritenuti necessari e preliminari all’adozione di norme regolamentari tese a dare attuazione alla sentenza. Tuttavia, pur considerate le prevedibili difficoltà nel dare attuazione alla sentenza, va ricordato che la stessa Corte Costituzionale, consapevole dello “sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare ad una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento”, ha suggerito una gradualità esecutiva, fornendo importanti criteri che dovranno guidare la progressiva attuazione della nuova modalità di svolgimento dei colloqui, per la quale, come chiarito dalla sentenza, non è necessaria l’adozione di una legge di rango primario. Il tempo, non breve, ormai decorso dal 31.1.2024 senza che in alcun istituto penitenziario del Paese sia stata data esecuzione alla decisione della Consulta, di per sé dotata di immediata efficacia dalla data della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, ci impone, dunque, di porre all’attenzione dell’Amministrazione penitenziaria tale tema, auspicando un pronto adeguamento della stessa ai dettami costituzionali.”, concludono i magistrati di sorveglianza. Il carcere, il “senso d’umanità” e l’Assemblea Costituente di Iacopo Benevieri* L’Unità, 2 novembre 2024 Il 25 gennaio 1947 era un sabato mattina. Quel giorno si svolse una straordinaria discussione in seno all’Assemblea Costituente, un dibattito che sarebbe bello non dimenticare. Il dibattito fu sul contenuto di quello che sarebbe stato poi l’art. 27 della Costituzione. Il Deputato Aldo Bozzi, del Partito Liberale, ricordò l’urgente necessità che fosse inserito in Costituzione la salvaguardia del “trattamento fisico” della persona detenuta: “il fatto stesso della pena è già qualche cosa che intacca questo patrimonio morale che è la dignità umana. Ora il concetto che si deve esprimere riguarda il trattamento fisico”. L’Onorevole Giuseppe Maria Bettiol concordò e sottolineò che “deve restare il principio che la pena deve umanizzarsi, che la pena, particolarmente nel momento della sua esecuzione, deve essere tale da non avvilire, da non degradare l’individuo. Dobbiamo sempre tener presente che anche nel più malvagio [c’è lo spazio perché sia] riabilitato”. Intervenne l’On. Leone, che suggerì di utilizzare le parole “pene e trattamenti”: oggetto della tutela costituzionale doveva essere il momento sanzionatorio anche nella sua dimensione dinamica, cioè nella fase esecutiva e, soprattutto, nelle prassi, nei protocolli, nell’attuarsi quotidiano della pena. Inoltre esortò a inserire nella disposizione costituzionale una espressione straordinaria, cioè la locuzione “contrari al senso di umanità” al posto di “lesivi della dignità umana”. L’art. 27 della Costituzione contiene infatti queste parole: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Con questo articolo viene inserito in Costituzione un parametro mirabile perché non è giuridico, né normativo: “il senso di umanità”. Nella Costituzione italiana il “senso di umanità”, quell’idem sentire umano diventa parametro costituzionale che regola, indirizza, disciplina, orienta il “trattamento” sanzionatorio. Non si è ritenuto sufficiente fare riferimento a convenzioni internazionali, al diritto naturale, ai principi universali, si doveva richiamare qualcosa di più profondo e comune al consorzio umano, cioè il “senso” d’umanità. Così i trattamenti sanzionatori, quand’anche rispettassero leggi, regolamenti, accordi ma fossero “contrari al senso di umanità” sarebbero comunque incostituzionali. L’attuazione dell’art. 27 della Costituzione vive o muore oggi solo se questo “senso di umanità” noi, oggi, a distanza di più di 70 anni, sappiamo vederlo, percepirlo, proteggerlo. Ecco quindi: “Assemblea Costituente” è un participio presente. È un’Assemblea Costituente perenne, quotidiana, permanente: siamo noi che continuamente costituiamo la Costituzione, richiamandoci a quella voce profonda che ci unisce nel senso di umanità. Molti componenti dell’Assemblea Costituente e della Commissione dei 75 avevano conosciuto il carcere politico, l’esilio, il confino: Teresa Noce, Giorgio Amendola, Ivanoe Bonomi, Edoardo D’Onofrio, Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti, Pietro Mancini, e molti altri avevano conosciuto celle anguste, avevano subito atti di inumanità. Quel drammatico vissuto sui loro corpi detenuti fu trasferito nell’art. 27 della Costituzione. L’On. Preziosi ricordò alla Commissione questa comune esperienza: “purtroppo molti dei presenti nell’Aula ne hanno fatto esperienza. Anche lei, onorevole Presidente, ha visto, soffrendo per la libertà del nostro Paese, come vergognoso sia il sistema carcerario vigente in Italia”. Oggi quando regoliamo, legiferiamo, progettiamo riforme sul carcere dovremmo forse convincerci che in queste celle, dove oggi sono ristretti i corpi di detenuti ignoti, in queste celle in realtà ci sono ancora quei corpi dei nostri Padri e Madri costituenti, che conobbero la disumanità di un carcere e che chiesero a noi tutti oggi di nutrire continuamente il “senso di umanità”. Finché non libereremo l’ultima persona detenuta da queste condizioni disumane delle carceri, in quelle celle resteranno ancora confinati i corpi di Teresa Noce, di Giorgio Amendola e di molti altri. D’altronde la parola “carcere” ha un unico anagramma possibile, è “cercare”. Il contrario, dunque, di uno stop, di una fine, di un epilogo. *Camera penale di Roma Il Giubileo, i carcerati di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 2 novembre 2024 Per la prima volta Papa Francesco aprirà una Porta Santa in prigione, l’unica al di fuori di quelle tradizionali. Il riferimento è al capitolo 25 del Vangelo di Matteo: “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi” Pare che anche Dante non avesse voluto mancare, nonostante tutto. Il primo Giubileo era stato indetto il 22 febbraio 1300 da Papa Bonifacio VIII, personaggio in verità poco raccomandabile che il poeta detestava, con ottime ragioni, tanto da riservargli un posto all’Inferno (“Sè tu già costì ritto,/sè tu già costì ritto, Bonifazio?”, s’inganna il predecessore Niccolò III, infilato a testa in giù in una buca, credendo sia già arrivato) tra i simoniaci della terza bolgia. La faccenda è interessante perché la descrizione che Dante fa di Roma in pieno Anno Santo, sette secoli abbondanti fa, non è poi così diversa da quello che si prospetta ora: quando nel XVIII dell’Inferno descrive la congestione di Malebolge, la paragona alla marea di pellegrini che attraversava in due flussi opposti ponte Sant’Angelo “l’anno del Giubileo”, una descrizione così vivida da far pensare a un testimone oculare. Va così da allora, pazienza. Perché un Giubileo non è solo cantieri infiniti e un traffico infernale, l’essenziale sta altrove. E il primo a metterlo in chiaro è stato proprio Francesco: decidendo si aprire una Porta Santa in un carcere, il 26 dicembre a Rebibbia. Sarà l’unica al di fuori di quelle tradizionali che il pontefice aprirà nelle quattro basiliche papali di Roma: il 24 dicembre in San Pietro, il 29 a San Giovanni in Laterano, il 1° gennaio 2025 a Santa Maria Maggiore e il 5 gennaio a San Paolo fuori le Mura. La scelta è passata quasi inosservata, anche se è la prima volta che un Papa apre una Porta Santa in prigione. Del resto, non poteva essere altrimenti: nessuno più dei carcerati è invisibile, in Italia quest’anno si contano già 77 suicidi nell’indifferenza quasi generale, l’associazione Antigone calcola una popolazione di 62 mila persone stipate in celle che potrebbero contenerne 51 mila. Eppure è proprio questo il punto. Fin dall’inizio del pontificato Francesco ha esortato soprattutto i giovani ad andare “controcorrente” e pochi mesi dopo l’elezione, alla Giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro, rispose così ai ragazzi che gli chiedevano cosa fare della loro vita: “Leggete le Beatitudini e il capitolo 25 di Matteo, lì c’è tutto”. Il capitolo 25 di Matteo è quello nel quale Gesù parla del Giudizio Universale e dell’atteggiamento che quel giorno distinguerà i giusti dai dannati: “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi”, dice tra l’altro. Per questo il Papa ha visitato una quindicina di carceri durante i suoi viaggi e per due volte, proprio a Rebibbia, è andato a celebrare la messa del Giovedì Santo con il rito pasquale della lavanda dei piedi. Così nel gesto di Francesco, in apertura del Giubileo, c’è un significato duplice. Il primo, e più concreto, è richiamare l’attenzione generale sul popolo dei dimenticati delle carceri: “Propongo ai governi che nell’anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”, ha scritto nella Bolla di indizione. Il secondo ha a che fare con il senso stesso dell’Anno Santo e del suo pontificato, in un mondo segnato dalla secolarizzazione e dalla crisi della fede, soprattutto in Occidente: il ritorno ai fondamentali, all’essenziale del Vangelo “sine glossa”. Il tema del Giubileo 2025 è “pellegrini di speranza”; la bolla di indizione si intitola “Spes non confundit” e si riferisce a un passo della Lettera ai Romani di San Paolo che il Papa richiama subito per spiegare, di là dai problemi organizzativi, di che si tratta: “Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo… La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”. Il confine democratico tra magistrati e partiti di Donatella Stasio La Stampa, 2 novembre 2024 È vero, esiste una questione di confini. Sono i confini della nostra democrazia, costituzionale, antifascista, pluralista, europeista, quella che ci hanno consegnato le madri e i padri costituenti, dopo gli orrori del potere assoluto del fascismo e del nazismo. I suoi confini, nettissimi, vanno presidiati e difesi da chi non li rispetta perché, di fatto, non li vede, non li sente come suoi ma li vive come altro da sé, e perciò li forza, li riscrive, li indebolisce. Butta il sasso e poi nasconde la mano, provoca e poi fa la vittima, manipola e confonde per imporre la propria narrazione, e intanto, erode quei confini. È quanto sta facendo, da due anni, la destra di governo, in modo sotterraneo ma più spesso ostentato, per non dire sfrontato, provocatorio, quasi a voler rivendicare una discontinuità con quella democrazia fondata sull’antifascismo, che vuole i poteri separati e limitati e che tutela i diritti di tutti e a tutti dà voce. Siamo di fronte a una visione del potere e ad un’azione politica molto diverse, e perciò preoccupanti, pericolose, addirittura angoscianti per chi ha a cuore la democrazia costituzionale e vuole difenderne i confini dall’invasione degli “stranieri”, ovvero, le destre di governo. Stranieri in patria, potremmo definirli. E dobbiamo cominciare a chiamare le cose con il loro nome, se vogliamo capire e provare a confrontarci, sebbene siano tempi difficili per il confronto. Stiamo ai fatti. Se esistesse nella nostra classe dirigente politica una sincera “mentalità costituzionale”, non avremmo assistito, in occasione del mancato trattenimento di 12 migranti in Albania, all’ennesimo attacco frontale contro i giudici da parte della premier e del suo cerchio magico, politico e mediatico. Non avremmo ascoltato da alti esponenti della maggioranza e delle istituzioni parole inaudite come: “I giudici devono aiutare il governo” e, siccome non lo fanno, bisogna “cambiare la Costituzione”, a partire dalla separazione dei poteri. Se questa maggioranza avesse una vera “mentalità costituzionale”, non spaccerebbe per “collaborazione istituzionale” la pretesa di avere giudici allineati, afasici, apatici, ubbidienti, invisibili, né spaccerebbe per “opposizione politica” la funzione contro-maggioritaria degli organi di garanzia - Corti costituzionali e giudici indipendenti - ma la accetterebbe in quanto funzione naturale di “limite” all’esercizio del potere politico, proprio a garanzia di chi il potere non ce l’ha. E per contestare le decisioni dei giudici, seguirebbe la strada prevista dall’ordinamento, quella delle impugnazioni, e la critica sarebbe civile, non delegittimante con tanto di gogna mediatica. Se dietro l’azione politica della maggioranza ci fosse una vera “mentalità costituzionale”, non sentiremmo dire che non esiste il primato del diritto europeo rispetto a quello interno e che i giudici non possono disapplicare la legge nazionale. Sono i “fondamentali” di uno Stato costituzionale di diritto. Se chi governa li possedesse, non ostenterebbe il proprio ostruzionismo verso le sentenze della Consulta (fine vita, diritti dei figli arcobaleno, diritto dei detenuti all’affettività, doppio cognome ecc): sentenze che restano lettera morta, senza alcun tipo di “sanzione”, sebbene con quell’ostruzionismo si stia violando il giudicato costituzionale, che ha la stessa forza di una legge, e si stiano calpestando diritti fondamentali riconosciuti: i cittadini hanno “quei” diritti ma non possono esercitarli perché alla maggioranza non piacciono. Altro che golpe dei giudici! Il pensiero va alla Polonia, quando il precedente governo, per vanificare le sentenze della Corte costituzionale, ricorse all’espediente di non pubblicarle sulla Gazzetta ufficiale, facendole sparire, rendendole di fatto inesistenti. Infine (ma si potrebbe proseguire), se le destre non fossero “straniere in patria”, l’elezione parlamentare del giudice costituzionale mancante da un anno (mercoledì il nono voto) non sarebbe stata gestita, dalla premier in persona, come se la Corte fosse cosa sua, rivendicando pubblicamente (questo il dato politico nuovo rispetto al passato) la propria prerogativa “di dare le carte”, senza mai far sedere l’opposizione al tavolo da gioco per condividere un passaggio importante della vita democratica del paese; né avremmo assistito - dopo un anno di melina per poter arrivare a ridosso della scadenza di altri tre giudici, a dicembre, in modo da confezionare un “pacchetto” di quattro - a un vero e proprio blitz della premier per imporre il “suo” giudice, “forte” dei numeri ottenuti, nottetempo, grazie ai cambi di casacca politica; blitz fallito ma “venduto” dalla propaganda come la “risposta responsabile” della premier al richiamo lanciato a luglio dal Presidente della Repubblica... Insomma, assistiamo alla continua esibizione di un potere muscolare, assoluto, che criminalizza il dissenso e addirittura istiga alla delazione i medici di fronte a bimbi nati da maternità surrogata; che crea improbabili reati universali ma nega i diritti universali, come quelli dei figli arcobaleno riconosciuti anche dall’Europa. Un potere che, provocatoriamente, forza le regole per potersi poi scagliare contro chi, quelle regole, ha il dovere di ristabilire, poter gridare al golpe giudiziario e spostare i confini della democrazia. Così è stato con il Tribunale di Roma che ha affermato il primato del diritto europeo su quello nazionale e così sarà con altri giudici che diranno la stessa cosa anche dopo il decreto “paesi sicuri” o con la Consulta quando smonterà alcune delle leggi approvate in questi due anni forzando i confini della Costituzione. Ecco perché questo non è il solito scontro tra politica e giustizia, ma una partita più grave, che riguarda la difesa dei confini dei nostri spazi di libertà e di democrazia. Scontro con la politica e nomine: i magistrati sono divisi su tutto di Giulia Merlo Il Domani, 2 novembre 2024 Verso le prossime elezioni dell’Anm, i gruppi associativi si stanno confrontando sul modello di magistratura. Nuove geometrie: Mi e Area uniti sulla discrezionalità del Csm, Unicost, Md e gli indipendenti vogliono i punteggi. La toga non basta più a difendere la magistratura, né a darle prestigio. Dal 2018 dello scoppio del caso Palamara a oggi, è stata una lunga traversata nel deserto, che sembra ancora lontana dall’essere conclusa: troppi gli strascichi non ancora lasciati alle spalle, tante le contrapposizioni interne, asprissimo il confronto con la politica. Con tre effetti ben distinti che, andando oltre la contingenza delle polemiche quotidiane, si scaricheranno verosimilmente sull’elezione della nuova giunta dell’Associazione nazionale magistrati nel gennaio prossimo. La riforma - La grande questione su cui tutti i gruppi associativi hanno trovato un minimo comune denominatore è la contrarietà alla riforma della magistratura incardinata dal centrodestra e che il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato sarà in aula dal 26 novembre. Il testo è sintetizzabile in tre punti: la separazione ordinamentale delle carriere tra giudici e pm, che avranno due percorsi di carriera distinti; la conseguente creazione di due Csm, da cui verrà scorporata la funzione disciplinare, da assegnare unitariamente a una sola Alta corte; il sorteggio puro dei componenti togati e il sorteggio temperato di quelli laici, da una lista stilata dal parlamento. La riforma, inizialmente la Cenerentola tra il premierato e l’autonomia, è oggi considerata “necessaria” dalla stessa premier Giorgia Meloni e cavalcata da tutto il centrodestra. Se formalmente viene ripetuto che non si tratta di un contrappasso punitivo, la realtà è che nessun esponente di governo resiste alla tentazione di citarla in ogni occasione in cui il confronto tra maggioranza e toghe si inasprisce. Così, del resto, è successo in queste settimane di polemica sulla questione migratoria. Fonti da via Arenula confermano la volontà assoluta di procedere senza modifiche: “Più si tocca un testo, più pasticci si fanno”, è la tesi. In particolare, la parte più costituzionalmente problematica è quella che riguarda il sorteggio puro per i consiglieri togati, visto che la Carta parla di “componenti eletti”. Eppure, è la tesi spiegata più volte dal sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, il sorteggio è l’unica via per smontare “un sistema legato al potere correntizio” e “noi crediamo nel merito, e il sorteggio ci garantirà quello”. L’autoriforma - Accanto alla riforma costituzionale, corre anche il tentativo di autoriforma da parte delle toghe. Pur con la chiusura all’iniziativa del governo, infatti, le toghe sono ben coscienti del fatto che il sistema scoperchiato dal caso Palamara abbia leso l’immagine della categoria ma anche sollevato questioni impossibili da ignorare rispetto al cosiddetto “carrierismo”: l’ambizione dei magistrati ad assumere incarichi direttivi - soprattutto ai vertici delle procure - appoggiandosi per farlo alla sponsorizzazione e agli accordi tra gruppi associativi al Csm. Proprio su questo sta lavorando l’attuale Consiglio, con la sponda della riforma dell’ordinamento giudiziario introdotta dalla Cartabia, che prevede una revisione del testo unico sulla dirigenza. La questione è solo apparentemente burocratica, e tocca invece uno dei nodi più sensibili: da un lato la discrezionalità del Csm, dall’altro il bisogno di trasparenza sull’attribuzione degli incarichi. Per questo, in un confronto acceso, si sono delineate due visioni e anche l’emergere di una nuova geometria di alleanze al Csm. Da una parte, infatti, si sono coagulati i gruppi centrista di Unità per la Costituzione e progressista di Magistratura democratica insieme ai due indipendenti Roberto Fontana e Andrea Mirenda, che sostengono la proposta che fissa quelle che vengono definite “regole del gioco” a monte: ovvero un sistema di punteggi relativamente rigido con cui interpretare il curriculum di ogni aspirante procuratore, di modo che la discrezionalità del Csm si espliciti nella fissazione dei criteri più che nella scelta a valle del candidato. Come scrive la consigliera di Md Mimma Miele, “la discrezionalità deve tornare ad essere scelta sui valori, non sulle persone”. Dall’altra, invece, c’è una proposta che ha visto l’inedita confluenza tra i conservatori di Magistratura indipendente (autori in solitaria di una prima proposta) e i progressisti di Area, i quali hanno ritoccato e smussato il testo iniziale in una sorta di terza via, con l’obiettivo di preservare al massimo la discrezionalità del Consiglio. In questa proposta si pone come obiettivo “improntare le scelte future a maggiore chiarezza e predeterminazione”, ma “non attribuendo indici numerici”, bensì “gerarchizzando rigidamente gli indicatori”, a partire da quello della durata dell’esperienza giudiziaria. Tradotto: no ai punteggi come prevede la prima ipotesi di maggiore discontinuità, ma l’indicazione di una scala di priorità attraverso cui leggere il curriculum. L’obiettivo di Area è quello di “far convergere tutto il Consiglio”, ma per ora prevalgono le distanze. Entrambe le proposte arriveranno davanti al plenum verosimilmente il 13 novembre, e determinante sarà il voto dei laici di centrodestra, di cui ancora non si conosce chiaramente l’orientamento (in Quinta commissione, Claudia Eccher si è astenuta). La comunicazione - In questa tenaglia si inserisce il sentire della magistratura di base: un corpaccione variegato di quasi diecimila toghe composto in prevalenza da magistrati civili. Gli scontri degli ultimi giorni con il governo hanno fatto emergere per l’ennesima volta negli ultimi mesi la grande questione del contegno che un magistrato dovrebbe tenere e del rispetto che dovrebbe portargli il potere esecutivo. Se il suo esprimersi pubblicamente, partecipando alla vita democratica, ne pregiudichi o meno la percezione di terzietà e imparzialità. Le toghe conservatrici di Mi hanno sostenuto che le affermazioni critiche nei confronti del governo da parte del magistrato Marco Patarnello in una mail poi pubblicata dai giornali “impongono una riflessione”, e che “essere e apparire indipendenti è la prima condizione di credibilità”. Una sensibilità, questa, “condivisa da moltissimi colleghi”. Spiegato da una fonte d’area: le esternazioni fuori misura ledono l’immagine della categoria, e oggi più che mai serve self-restraint. Un modello, questo, “che è in linea con quello che vorrebbe l’attuale governo e sottinteso in tutte le sue iniziative di riforma”, è la critica mossa da una fonte progressista. La visione opposta - nelle corde dei gruppi progressisti e, al Csm, anche della parte indipendente dei togati - è quella di difendere il diritto dei magistrati di prendere posizione nella fase di formazione delle leggi, senza che questo debba implicare la rinuncia a svolgere le funzioni di giudice o astenersi dai processi in cui poi quelle leggi vengono applicate. In una parola, come viene sintetizzato da una fonte, “difendere l’autonomia del magistrato rispetto al profilo silenzioso auspicato dal governo”. Proprio questa diversa percezione dello standing della magistratura è ormai un elemento di confronto ineludibile anche al Csm, dove giacciono varie pratiche a tutela, che vanno dal diritto di esternazione a come regolare la presenza sui social delle toghe. Questi tre punti di frizione e di confronto interno saranno inevitabilmente al centro del prossimo congresso dell’Anm, in cui a oggi la sensazione dei magistrati è che possa esserci una prevalenza di Mi, che anche al Csm due anni fa ha ottenuto la maggioranza relativa. Anche in quest’ottica, la quadra con Area sulla riforma del testo unico della dirigenza potrebbe essere segno degli equilibri che si stanno muovendo. Una virata rispetto all’attuale presidenza di Area, però, sarebbe errato considerarla necessariamente un allineamento al governo. La volontà degli ultimi anni, infatti, è stata quella di arrivare a una giunta il più possibile unitaria tra gruppi associativi (almeno i maggiori), proprio per non prestare il fianco a strumentalizzazioni politiche. Altolà dei magistrati alla priorità per i reati: “Una stretta sui giudici” di Federico Capurso e Niccolò Carratelli La Stampa, 2 novembre 2024 L’Anm: “Questa accelerazione è un segnale. C’è un clima di inquietudine”. Salvini: “Spero trovino il tempo di lavorare”. Parlano di “clima di inquietudine”, di “istituzioni ferite”. I giudici si sentono sotto assedio e accusano il governo e i giornali che gli sono vicini di voler “impaurire i magistrati”. “Fai un provvedimento che non piace e diventi “rosso” - attacca l’Associazione nazionale magistrati - Si rastrellano informazioni sui giudici per delineare pubblicamente il profilo del magistrato di parte e ostile. È inaccettabile”. Una protesta che per Matteo Salvini non è altro che “il solito comizio” e invita quindi i pm ad andare “a lavorare”. L’Anm è sulle barricate, mentre la maggioranza di centrodestra stringe i tempi sulla riforma della giustizia. Non c’è solo la separazione delle carriere da approvare entro Natale. Adesso - come anticipato da questo giornale - sul tavolo del centrodestra è finita anche la proposta del senatore di Forza Italia, Pierantonio Zanettin, con cui si vuole approvare - dopo due anni di silenzio - l’Atto di indirizzo con cui il Parlamento stabilisce l’ordine di priorità del lavoro delle procure, previsto dalla legge Cartabia. Anche su questo dossier il centrodestra vuole correre. Il senatore di FdI Sergio Rastrelli, relatore del provvedimento, si dice ottimista: “L’approveremo in Senato alla ripresa dei lavori a gennaio”. Il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, fa fatica a nascondere la preoccupazione: “In questa ennesima accelerazione vedo la voglia della politica di mandare un segnale ai giudici”, dice parlando con La Stampa. Non è una coincidenza, sottolinea Santalucia, se gli esponenti di centrodestra “avvertono il bisogno di una stretta sul potere giudiziario ogni volta che un giudice prende una decisione a loro sgradita. L’Atto di indirizzo per le procure rientra in questo disegno”. Ma l’attuazione di questa disposizione, aggiunge Salvatore Casciaro, segretario generale dell’Anm, “richiede massima cautela, perché si colloca in un assetto costituzionale dove vige la separazione dei poteri e l’obbligatorietà dell’azione penale”. Il centrodestra, però, su questo fronte è compatto. Tanto che i partiti di maggioranza hanno già trovato un accordo sulla misura. Innanzitutto, spiega Rastrelli, “non diremo alle procure quali reati perseguire per primi e quali per ultimi, perché sarebbe un’invasione di campo. Detteremo solo i criteri generali”, come d’altronde prevede la legge Cartabia. Poi, prosegue, si daranno alle procure tre direttrici da seguire: “La prima riguarda la gravità del fatto e non la gravità del reato, in modo da evitare una gerarchia basata solo sull’entità della pena. La seconda direttrice - continua Rastrelli - tende a colmare i vuoti di tutela della persona offesa. Chi è più debole, quindi, va assistito tempestivamente, come per i casi di violenza di genere. E l’ultima riguarda l’offensività del reato. Le procure dovranno valutare il grado di aggressione al bene protetto in concreto e non più in astratto”. Dal punto di vista delle opposizioni, il tentativo di dare una priorità ai reati da perseguire è solo “una conferma di quello che è il sogno di questa destra: orientare l’esercizio dell’azione penale e limitare l’autonomia della magistratura”, spiega Walter Verini, senatore Pd in commissione Giustizia. “Non vorrei che dietro questa mossa - aggiunge - ci sia la volontà di derubricare la gravità di alcuni reati, come quelli contro la pubblica amministrazione, per dare maggiore risalto a quelli di strada”. Altrettanto dubbioso Alfredo Bazoli, capogruppo dem nella stessa commissione di Palazzo Madama: “L’Atto di indirizzo mi sembra una mossa di pura propaganda, perché non serve a niente, non essendo vincolante per i magistrati - avverte -. D’altra parte, in caso contrario, ci sarebbe il rischio di andare in contrasto con la Costituzione”. Bazoli non rinnega il lavoro fatto all’epoca del governo Draghi e della ministra Cartabia, ma resta vivo il sospetto che il centrodestra possa provare ad andare ben oltre la definizione dei criteri generali per l’esercizio dell’azione penale e cercare, invece, una “catalogazione dei reati pericolosa perché viziata dalla contingenza politica e dalla sensibilità della maggioranza di turno”. Una lettura simile a quella del Movimento 5 stelle, sintetizzata dalla senatrice Ada Lopreiato, anche lei in commissione Giustizia: “Stanno cercando di colpire l’obbligatorietà dell’azione penale - attacca -. Il combinato disposto della separazione delle carriere e di questo tipo di intervento rappresenta l’idea del governo Meloni che sia la politica a dover decidere quali reati perseguire e quali no”. La lista degli attriti tra magistratura e maggioranza di governo è ormai lunga e per Debora Serracchiani, responsabile Giustizia del Pd, c’è una “evidente volontà di delegittimazione del potere giudiziario e un chiaro tentativo di smantellamento del principio di separazione dei poteri. Questa destra si comporta non come chi ha vinto le elezioni - sottolinea - ma come chi ha preso il potere, sul cui arrogante esercizio non vuole alcun controllo”. La bulimia legislativa che frena la Giustizia di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 2 novembre 2024 L’obbligatorietà dell’azione penale non è una finzione, ma un obbligo della Carta. L’organizzazione dei Tribunali e delle Procure passa già da piani di lavoro trasparenti. Casi più disparati di “notizie di reato”, piovono nelle Procure: comunicazioni delle polizie, denunzie o querele di privati, comunicazioni della Consob, l’Autorità che vigila sui mercati finanziari, esposti su fatti del tutto fantasiosi, eccetera. Ogni giorno di decine o di centinaia di atti (nelle grandi sedi quasi centomila su base annua). Dice l’articolo 112 della Costituzione: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” e tutela l’indagine da incursioni della politica in nome della ragion di Stato. Allo stesso tempo, ponendo il pubblico ministero al riparo da pressioni di potentati economici o politici o anche da demagogiche campagne di opinione, è garanzia dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge. L’obbligatorietà dell’azione penale è un valore e insieme un problema aperto. Non può essere liquidata come “finzione” (così dice l’onorevole Zanettin), ma le Procure, di fronte alla massa di notizie di reato, che derivano anche da una pletorica legislazione, devono adottare criteri organizzativi che non lascino la sorte di ciascun fascicolo al caso o a scelte estemporanee del singolo pubblico ministero. I limiti di personale e di risorse tecniche impongono scelte nella distribuzione di magistrati, personale amministrativo, polizia giudiziaria, apparati tecnologici. In questo modo i procuratori hanno gestito il flusso dei procedimenti: gruppi specializzati, numero di magistrati assegnati a ciascuno di questi, come previsto nel “Progetto organizzativo”. Anche i reati seriali o di minore gravità richiedono un’apposita struttura per evitare che siano trascurati: reati “minori” come le piccole truffe, tali non lo sono per le vittime e quando assumono rilievo sociale particolare, come le truffe contro gli anziani, meritano particolare attenzione. L’organizzazione della Procura deve essere coordinata con quella del Tribunale. Il Consiglio superiore della magistratura controlla e approva non solo il progetto organizzativo del Tribunale, ma anche quello della Procura. Con il Progetto organizzativo il Procuratore si assume la responsabilità e nello stesso tempo, con una adeguata pubblicità esterna (sito internet, Bilancio di responsabilità sociale) risponde con trasparenza alla esigenza di accountability. Un punto fermo sulle “priorità” è posto con una norma delle Leggi Cartabia del giugno 2022. Sono chiamati in causa il Parlamento, il Consiglio Superiore della Magistratura e il Procuratore della Repubblica. Si utilizza l’espressione “criteri di priorità”, ma non è una formula magica: il Procuratore nel determinarli deve fare riferimento ai “criteri generali” fissati dal Parlamento e ai “principi generali” definiti dal Csm. Il Parlamento non dovrebbe individuare un catalogo di reati in ordine di priorità, ma enunciare parametri generali (per esempio fenomeni criminali specifici dei territori, situazione sociale ed economica, dati statistici) e anche procedure da adottare (confronto con il Tribunale e con l’avvocatura, consultazione con le autorità locali, nonché pubblicità come sito internet e Bilancio di responsabilità sociale). I “criteri generali” fissati dal Parlamento sarebbero punto di riferimento per le Procure che dovranno definire gli specifici “criteri di priorità”. Rimane il principio di obbligatorietà, ove mai i criteri generali fissati dal Parlamento presentassero omissioni o strabismi poco compatibili con i valori tutelati dalla Costituzione. La proposta del senatore Zanettin (disegno di legge del Senato n.993) così definisce le priorità: “a)gravità dei fatti, anche in relazione alla specifica realtà criminale del territorio e alle esigenze di protezione della popolazione; b)tutela della persona offesa in situazioni di violenza domestica, o di genere e di minorata difesa; c) offensività in concreto del reato, da valutare anche in relazione alla condotta della persona offesa e al danno patrimoniale e/o non patrimoniale da essa ad essa arrecato, nonché alla mancata partecipazione da parte dell’indagato ha percorsi di giustizia riparativa delle indagini preliminari”. Un mix eterogeneo con espressioni come “esigenze di protezione della popolazione” sono del tutto vaghe: protezione dalla mafia, dai terroristi, dai corrotti, dai bancarottieri o dalla microcriminalità dei reati di strada? Al punto c) la declinazione del criterio della offensività fa pensare che niente affatto prioritari sarebbero quei reati che non vedono una o più singole persone offese, ma offendono beni collettivi come la correttezza nella pubblica amministrazione, la tutela dell’ambiente, della salute pubblica etc. Nel disegno di legge Zanettin sono aggiunti come prioritari specifici reati: diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti; lesioni personali a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive, nonché a personale esercente una professione sanitaria o sociosanitaria e a chiunque svolga attività ausiliarie ad essa funzionali; costrizione o induzione al matrimonio”. Facile prevedere che non mancheranno nel corso della trattazione parlamentare ulteriori aggiunte. Rincorrendo vicende delle cronache le priorità diventerebbero infinite, alimentate dalla bulimia legislativa per la quale il legislatore ogni giorno introduce un nuovo reato. Una linea specularmente opposta alla razionalità che imporrebbe drastiche depenalizzazioni per concentrare le risorse, pur sempre limitate, sui fatti più gravi. Giudici e pm, i problemi della carriera unica si toccano nelle indagini preliminari di Nicola Madia Il Riformista, 2 novembre 2024 La speranza è che questa sia davvero la volta buona per la separazione delle carriere. Speriamo che la politica, consapevole del proprio ruolo, abbandonando qualsiasi timidezza o addirittura timore nei confronti del potere più forte che c’è, non si lasci prendere dalla tentazione di un quieto vivere, abdicando alla Riforma delle Riforme, quella indispensabile a rendere il nostro un paese conforme ai canoni di una democrazia avanzata. È infatti persino scontato che il Giudice non possa essere collega della parte che accusa, così come, d’altronde, l’arbitro non può essere un tesserato di una delle squadre che si affrontano sul rettangolo di gioco. Perché è difficile restare imparziali quando si è vicini ad una delle parti in contesa, o, comunque, è difficile che all’esterno si appaia imparziali, non generando un sentimento di diffusa sfiducia verso l’equità di chi giudica. I punti della Riforma Nordio: i) Giudice e PM seguirebbero due percorsi formativi separati, uno abbeverandosi alla cultura della giurisdizione, l’altro a quella dell’investigazione; ii) Giudice e PM sarebbero sottoposti a due sistemi di reclutamento diversi, corrispondenti alle differenti attitudini che devono dimostrare dopo il periodo formativo; iii) l’indipendenza e terzietà, soprattutto intellettuale, del Giudice, diventerebbe la migliore garanzia per evitare gli abusi connaturati a impostazioni inquisitorie e per creare negli inquirenti una vera cultura del risultato; iv) il PM continuerebbe a rivolgere istanze, ma il giudice, anziché limitarsi a ratificare, assumerebbe una postura davvero autonoma, scevra da pregiudizi dettati da un percorso formativo e professionale comune; v) terminerebbe infatti quella contaminazione della cultura della terzietà provocata dalla carriera unica che, lungi dall’avere introdotto una mentalità terza nelle procure, ha impregnato di venature inquisitorie la funzione giudicante; vi) due CSM distinti eviterebbero che le carriere dei giudici siano condizionate dai PM più potenti nella corporazione, con tutte le conseguenze sulla loro indipendenza di giudizio nei processi che contano; vii) la creazione di un Alta Corte per vagliare gli addebiti disciplinari, estranea al CSM, composta secondo logiche di reale imparzialità e autorevolezza, comincerebbe a garantire una qualche forma di responsabilizzazione per una categoria professionale investita del potere più immenso di cui può giovarsi un essere umano (quello di accusare e giudicare il prossimo), che può esercitare senza dovere rispondere a nessuno delle sue azioni; viii) solo con la separazione delle carriere il modello accusatorio troverebbe il terreno di coltura ideale in cui germogliare, senza continuare a camminare su piedi di argilla che si sciolgono facilmente al sole di un Giudice intimamente e istituzionalmente non indipendente, che spesso, quindi, reputa il confronto ad armi pari tra accusa e difesa, con tutte le sue regole, un mero ostacolo processuale, anziché un fondamentale presidio garantistico. Le imputazioni infondate - Hanno ragione quanti rammentano l’elevata percentuale di sentenze di assoluzione, ma non si deve dimenticare l’altissimo numero di imputazioni totalmente infondate che giungono a giudizio e che, ovviamente, qualsiasi giudice non può che rilevare, arrendendosi all’evidenza. La sostanziale assenza di controlli effettivi sulla fondatezza della maggiore parte delle notizie di reato che, seguendo canali puramente burocratici, pervengono a dibattimento senza che un PM o un GIP abbiano compiuto un vaglio, preferendo apporre delle firme in calce a moduli, determina scontate assoluzioni. Il problema della carriera unica nelle indagini preliminari - Il problema della carriera unica si tocca con mano nel corso delle indagini preliminari relative a ipotesi investigative che fanno rumore sui media, in cui il GIP tende ad appiattirsi sul PM (concedendo in modo quasi automatico intercettazioni e misure cautelari), in fase di udienza preliminare, dove il GUP continua a rinviare immancabilmente a giudizio l’imputato, quando si tratta di decidere questioni incerte e controverse, che sfuggono a un’applicazione meccanica della legge, coinvolgendo la sensibilità del giudicante (come quando si valutano indizi e prove), allorché, soprattutto in primo grado, il giudice fatica a dare torto a un PM il quale abbia investito in un processo moltissimo in termini di impegno, visibilità e di reputazione, non potendo permettersi di perderlo. Tutti noi avvocati penalisti conosciamo figure di magistrati talmente elevate da essere indipendenti per natura, da generare un sentimento di intima fiducia, al di là se ci danno ragione o torto, ma i cittadini devono potersi affidare alle regole e non alla buona volontà dei migliori. “Non ci pieghiamo ai politici, noi toghe sotto tiro”. L’Anm in guerra di Errico Novi Il Dubbio, 2 novembre 2024 Nota di fuoco dal “sindacato” dei magistrati: “Colpiti mediaticamente i colleghi autori di pronunce sgradite al governante di turno, c’è un’aria pesante”. Come in tutte le guerre, a un’azione corrisponde una reazione. E la replica dell’Anm non si fa attendere: “I continui attacchi mediatici ai giudici che assumono decisioni sgradite al potere ci costringono a prender nuovamente parola per denunciare le ferite che questo abusato triste copione reca anzitutto alle istituzioni del Paese”, si legge nella nota firmata poco fa dalla giunta esecutiva dell’Associazione magistrati. “Non si accetta l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario, non si tollera che i giudici si esprimano senza assecondare la volontà ed i programmi del governo e della sua maggioranza”. È un comunicato diverso dagli altri. Non critica un singolo atto del guardasigilli Carlo Nordio, né una particolare riforma. È un contrattacco frontale alla linea della maggioranza sulla giustizia. Delle tante prese di posizione assunte negli ultimi mesi da parte della magistratura, il comunicato diffuso oggi pomeriggio è il primo che davvero riporta la dialettica fra politica e toghe al clima del ventennio berlusconiano. L’Anm prosegue: “In attesa delle riforme peggiorative dell’attuale assetto costituzionale, il cui percorso parlamentare non a caso viene ora accelerato, si prova oggi ad impaurire i magistrati”. E già l’implicita riqualificazione di una riforma, la separazione delle carriere - attuativa di un codice firmato da Giuliano Vassalli, eroe della Resistenza -, come punizione inflitta ai magistrati è un’ulteriore conferma dello stato di guerra certificato dall’Anm. Nel conflitto, naturalmente il “sindacato” delle toghe annovera gli articoli pubblicati nei giorni scorsi a carico di alcuni giudici, in particolare quelli riservati a Marco Gattuso, presidente della sezione Immigrazione del Tribunale di Bologna e dunque responsabile dell’atto con cui il collegio dell’ufficio emiliano ha rinviato alla Corte Ue il decreto “Paesi sicuri”: “Gli articoli di stampa non giovano a criticare nel merito i motivati provvedimenti, che restano in ombra, divengono nulla più che l’occasione per puntare l’attenzione sulle persone, sulle loro vite private”, osserva la Giunta dell’Anm a proposito dei colleghi messi nel mirino dai giornali orientati a destra. “Si rastrellano informazioni, anche le più estranee alla materia su cui hanno deciso, per delineare pubblicamente il profilo del magistrato di parte e ostile. L’accusa di politicizzazione mediaticamente imbastita raggiunge qualunque magistrato, sol che decida in senso contrario alle attese del governante di turno”. Al di là delle assolutamente legittime rimostranze per la personalizzazione della critica, rivolta alle scelte e agli orientamenti personali del singolo giudice anziché al merito dei provvedimenti, colpisce quella parola, “governante di turno”. Sa di chiara individuazione di un nemico: il governo di centrodestra e in particolare il suo vertice, Giorgia Meloni. La giunta presieduta da Giuseppe Santalucia sa che dietro al piano sul trattenimento dei migranti in Albania - e dietro alle norme messe in campo per replicare agli altolà dei Tribunali - c’è la premier. Ed è alla premier che, di fatto, l’Associazione magistrati contesta di usare l’accusa di politicizzazione come schermo per nascondere un’insofferenza alle decisioni giudiziarie avverse. Nessun riferimento, però, si intravede, nella nota Anm, a casi come quello del sostituto pg di Cassazione Marco Patarnello, arrivato a descrivere la presidente del Consiglio come “più pericolosa di Berlusconi proprio perché non ha inchieste giudiziarie a suo carico”. Un’omissione non insignificante, che dimostra ancora una volta lo stato di piena belligeranza fra toghe ed Esecutivo di centrodestra. Il sigillo su questa dichiarazione di stato di guerra è nell’ultima frase: “Si respira un’aria pesante. Confidiamo fermamente che tornino a prevalere il rispetto istituzionale e la ragione democratica”. Sì, si respira un’aria pesante, è vero. Mai come in questi ultimi giorni, il contrasto sulle riforme della giustizia è degenerato, come uno smottamento ingrossatosi fino a tramutarsi in valanga, in una contrapposizione radicale e generalizzata. L’Anm si lamenta. Lamenta un accerchiamento. Ma nel generalizzare essa stessa il conflitto, nell’additare il governo e in particolare Meloni come nemici, non fa altro che rendere ancora più arroventato il clima. Fino a un punto dal quale sembra difficile si possa tornare indietro in tempi brevi. Brigate Rosse. Tre ottantenni alla sbarra e il mistero riesumato della cascina Spiotta di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 2 novembre 2024 Una cosa è certa, dopo cinquant’anni non ci può essere giustizia. Ma è giunta l’ora di sgominare le brigate Rosse. Quindi la giudice torinese Ombretta Vanini ha deciso di mandare a processo un gruppo di ottantenni per un delitto del 1975 per il quale il principale imputato era stato già prosciolto in una vecchia istruttoria di cui non esistono più documenti, annegati in un’alluvione. È tutto surreale in questa inchiesta che coinvolge la storia infinita delle Brigate rosse e di quel che fu in Italia negli anni settanta, quando fu rapito e ucciso il presidente del maggior partito italiano, la Democrazia cristiana, Aldo Moro. Bisogna avere una certa età per ricordarsene personalmente oggi. Ma provvede la magistratura, con pubblici ministeri e giudici a loro omogenei, sempre in trincea e in lotta. Fermeremo le Brigate Rosse, pare dire questo processo. L’accusato principale si chiama Lauro Azzolini, ha 81 anni, è stato un dirigente del gruppo terroristico e ha scontato lunghi anni in carcere. Se il prossimo 25 febbraio sarà alla sbarra alla corte d’assise di Alessandria con il vertice massimo delle Br, l’ottantatreenne Renato Curcio e il settantasettenne Mario Moretti, accusati di concorso morale in un omicidio, è a causa di un esposto del 2021. A salire le scale della procura di Torino è un carabiniere in pensione, Bruno D’Alfonso, che era un bambino di dieci anni quel tragico 4 giugno del 1975 quando suo padre Giovanni fu ucciso in uno scontro a fuoco in cui rimase sul terreno anche Margherita Cagol, nome di battaglia “Mara”. Giustiziata, ha scritto in un libro suo marito Renato Curcio, ma quella morte fu archiviata senza particolari indagini. Per la morte dell’appuntato dei carabinieri fu inizialmente indagato Lauro Azzolini, individuato come il brigatista che era riuscito a scappare dopo la sparatoria. Lo scenario era la cascina Spiotta, dove la colonna piemontese delle Br aveva realizzato il primo sequestro di persona a scopo di finanziamento, dopo aver rapito il re dello spumante Vittorio Vallarino Gancia, morto novantenne due anni fa. Azzolini finirà prosciolto in istruttoria, con il vecchio rito processuale, su richiesta dello stesso pm, il 3 novembre 1987. La sentenza- ordinanza evidenzierà le testimonianze del sequestrato e di tre carabinieri, nessuno dei quali lo aveva riconosciuto. Caso chiuso, quindi, fino al 2021. Quando inizia il vero processo surreale, quando i testimoni sono ormai deceduti, con decine di intercettazioni nei confronti di ex brigatisti e un solo labile indizio nelle mani degli inquirenti, un manoscritto anonimo e interno all’organizzazione in cui si descriveva lo svolgimento dei fatti finiti in tragedia. Ventotto erano le impronte ritenute utilizzabili, e di queste undici venivano attribuite, a distanza di cinquant’anni, ad Azzolini. Ma quel documento era passato di mano in mano, tutti avevano voluto leggerlo e commentarlo. C’era comunque un problema enorme da affrontare da parte della procura distrettuale torinese, il principio del “ne bis in idem”, perché non si può processare due volte chi sia stato già assolto, se non per motivi gravissimi e dopo aver revocato la sentenza precedente. Ma quella che riguardava Azzolini non c’era più, annegata nell’esondazione del fiume Tanaro nel 1994. La procura non ha potuto esaminarla, pure ha dato ugualmente l’autorizzazione alla revoca del provvedimento, in data 15 maggio 2023. È questa una delle principali anomalie del processo, come ha più volte fatto rilevare l’avvocato Davide Steccanella. Ma c’è di più. Perché al suo assistito Lauro Azzolini è stato applicato un trojan a partire quanto meno dall’autunno del 2022, quando l’indagine era ancora ufficialmente contro ignoti. E nonostante una nota dei carabinieri già dall’aprile del 2022 suggerisse che si dovesse “concentrare il focus su Azzolini perché è lui il brigatista fuggito dopo la sparatoria”. All’udienza davanti al gup il legale si è sentito dire che se anche a una persona viene applicato un costoso trojan per mesi e vengono comparate le impronte, questo non significa che lo si stia indagando. Non un grande argomento, e se ne vedrà la solidità nell’aula della corte d’assise di Alessandria il 25 febbraio. Quando ci saranno anche, altro paradosso dell’inchiesta, Renato Curcio e Mario Moretti, rinviati a giudizio per concorso morale nell’omicidio. Ma sì, è ora di sgominare le Brigate Rosse. Brigate Rosse. Così dalla preghiera per i terroristi morti si arrivò alla consegna delle armi di Giorgio Paolucci Avvenire, 2 novembre 2024 La testimonianza di Ernesto Balducchi, ex brigatista: “In carcere a San Vittore il cappellano don Melesi mi portò un’immagine di Cristo con la lista dei compagni caduti e si accese la speranza”. Ci sono accadimenti importanti, a volte persino decisivi, che scaturiscono da episodi solo apparentemente piccoli e che qualcuno potrebbe giudicare insignificanti, ma diventano veicoli di significati profondi e destinati a lasciare un segno nella storia. Come l’episodio che andiamo a raccontare. Ottobre 1983, nel primo raggio del carcere milanese di San Vittore è rinchiuso un folto gruppo di detenuti appartenenti all’area dell’antagonismo, accusati di costituzione di banda armata e di numerose rapine e attentati. L’Italia sta lasciandosi alle spalle gli anni di piombo, ma per coloro che ne sono stati i protagonisti ci sono ancora molti conti da saldare con la giustizia. Da tempo e in più di un’occasione il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo della città che per anni era stata teatro di attentati e di efferati delitti, era intervenuto sul tema delle carceri e sulla condizione delle persone detenute, e non a caso nel 1981 aveva scelto proprio San Vittore come prima tappa della visita pastorale nella diocesi ambrosiana. Ernesto Balducchi - leader dei Comitati Comunisti Rivoluzionari, una delle formazioni che animavano la galassia della lotta armata, a quell’epoca detenuto in quel carcere - ricorda: “In più di un’occasione Martini aveva sottolineato la necessità di “aprire spiragli di luce” nel buio della condizione carceraria, di riconoscere la dignità di persone a tutti i ristretti e di costruire occasioni di incontro e di dialogo anche con chi, come noi, aveva rivendicato la necessità di un conflitto con i poteri dello Stato. In particolare mi aveva impressionato un intervento sulla dimensione sociale del peccato e sulla sua relazione con le condizioni di ingiustizia che possono portare a ribellarsi a quelle condizioni. Da bambino avevo ricevuto un’educazione cristiana, avevo anche frequentato per cinque anni il seminario minore del Pime a Milano, ma poi mi ero incamminato su altre strade fino ad aderire al marxismo e in seguito alla lotta armata. Durante la detenzione era nato un rapporto di amicizia con don Luigi Melesi, cappellano a San Vittore, che periodicamente veniva nel nostro reparto a celebrare la messa, alla quale peraltro partecipavano in pochi ma che spesso diventava un’occasione per dialogare. Era l’ottobre del 1983, mancavano pochi giorni alla commemorazione dei defunti, e in una conversazione con lui gli dissi: “Anche noi abbiamo i nostri morti da ricordare, i compagni caduti negli scontri a fuoco con le forze dell’ordine o con gli estremisti di destra”. Mi chiese un elenco di quelle persone, e pochi giorni dopo mi consegnò un pacchetto di immaginette che recavano su un lato l’immagine di Cristo crocifisso e sull’altro i nomi che gli avevo dato. Non me l’aspettavo: fu un gesto significativo all’interno di un rapporto che si era consolidato nel tempo, mi fece capire che in una stagione in cui sembrava impossibile qualsiasi forma di dialogo con le istituzioni c’era qualcuno che ci considerava uomini e donne da ascoltare e con cui parlare, si riconosceva dignità di persone anche a chi aveva sbagliato. Fu come una fiammella che si accendeva, un pertugio che si apriva davanti a noi, un piccolo segno di speranza a cui ne seguirono altri, molto significativi, che portarono a scelte radicali”. Veneto. Carceri, mancano i funzionari contabili di Tommaso Moretto Corriere del Veneto, 2 novembre 2024 La Cgil minaccia scioperi per la carenza di funzionari contabili nelle carceri. “La loro assenza mette a rischio la sicurezza”. Lo sostiene Gianpietro Pegoraro, funzione pubblica, sezione penitenziaria della Cgil del Veneto, spiegando quale sarebbe il nesso tra amministrativi e sicurezza. “C’è differenza tra contabili e funzionari contabili - sottolinea - i secondi devono pagare i compensi ai detenuti che lavorano, inoltre raccolgono i bonifici dalle famiglie dei detenuti e pagano i fornitori. Senza di loro all’interno del carcere c’è una lacuna in un settore fondamentale, ne va della sicurezza dell’istituto perché un detenuto che non riceve con puntualità la ricarica di denaro nel proprio libretto può diventare aggressivo. Si agita. Loro non hanno a disposizione i soldi ma nel libretto ricevono una cifra che possono spendere, serve anche per comprare le sigarette. Quando si azzera la situazione si fa tesa”. Oggi Pegoraro ha incontrato il prefetto di Padova, Giuseppe Forlenza. “È andata abbastanza bene - spiega -, il prefetto valuterà le nostre proposte. C’ero io per la Cgil, con noi c’erano la Cisl e un sindacato autonomo. Abbiamo denunciato lo stato di agitazione per quanto riguarda il personale delle funzioni centrali”. In pratica coloro che lavorano negli uffici all’interno del carcere, gli amministrativi. “Mancano i funzionari contabili - spiega -. In Veneto è scoperta Belluno, ne mancano due. Anche negli altri carcere sono però in sofferenza, ne hanno uno solo a Treviso e a Venezia. Sono figure sovraccaricate di lavoro”. La proposta di Cgil e Cisl è di attingere dalle graduatorie degli idonei, la situazione sarebbe critica, stando ai sindacati, anche in Trentino Alto Adige e in Friuli Venezia Giulia. “Le nostre richieste erano che arrivassero almeno dodici persone invece ne sono arrivate soltanto quattro”, rende noto Pegoraro, “in Veneto siamo in sovraffollamento, siamo ben al di sopra dei 1.500 detenuti. Inizieremo le proteste con assemblee contemporanee e se non avremo risposte arriveremo anche allo sciopero”. Monza. Il carcere del degrado, la denuncia del consigliere Maffè: “C’è anche la scabbia” di Alessandro Salemi Il Giorno, 2 novembre 2024 Dal sovraffollamento alla penuria perfino della carta necessaria per i moduli. “Preoccupazione per la condizione dei detenuti, e il cibo scarseggia”. S.O.S. emergenza carcere. Dal penitenziario di Monza stanno emergendo negli ultimi tempi situazioni di degrado e di sofferenza dei detenuti molto dure, compresi episodi di scabbia che hanno costretto, qualche tempo fa, alla chiusura di alcuni settori dell’istituto di detenzione. A lanciare l’allarme allo scorso Consiglio comunale di Monza è stato il consigliere di Forza Italia Pierfranco Maffè, che ha elencato le criticità che maggiormente stanno affliggendo la casa circondariale di via Sanquirico. Cercansi educatori - “La preoccupazione più grande riguarda la condizione dei detenuti - denuncia Maffè - cioè un peggioramento della qualità del cibo e una diminuzione delle razioni, e un problema sempre più impegnativo per quel che riguarda l’assegnazione degli educatori, per varie ragioni: mancanza di soldi, ritardi temporali, cause burocratiche. Manca addirittura la carta, per cui non sono sufficienti i moduli stampati per richieste e comunicazioni”. “C’è stato poi un problema di igiene importante - sottolinea l’esponente di Forza Italia -, con la diffusione di casi di scabbia, per cui sono stati chiusi alcuni settori del carcere e dei detenuti sono stati tenuti, anche per tanto tempo, in isolamento. Per non dimenticare la situazione complicata dovuta al sovraffollamento e al disagio che in queste settimane è tornato a essere motivo di grande impegno. Carenti - prosegue ancora - anche le attività varie e lavorative proposte ai detenuti”. Poca igiene, decoro assente - Non buona la situazione nemmeno per chi viene in visita al carcere. “Alcune delle segnalazioni riguardano i servizi igienici della sala d’attesa per i parenti, che sono in condizioni pietose - segnala il consigliere -. Non viene fatta una pulizia adeguata, manca la carta, il pavimento e le pareti andrebbero pulite, il calorifero è arrugginito. C’è davvero l’idea che non ci sia decoro. E lo stesso accade al giardinetto esterno alla sala d’ingresso parenti, dove vengono consegnati documenti, pacchi, rifiuti di vario genere”. “Non ci sono cestini per i rifiuti - prosegue -, ci sono giochi per i bambini che sono rotti da tanto tempo, e anche le salette per i colloqui andrebbero rese un po’ più dignitose”. Saluzzo (Cn). Imprenditore assume un ergastolano: “Mi hanno preso per matto, ma sono felice” di Floriana Rullo Corriere della Sera, 2 novembre 2024 Il racconto del titolare di un’azienda agricola piemontese che produce formaggi. “C’è tanto lavoro, mi è utile. E poi ho fatto una cosa che sentivo di dover fare e che mi fa stare meglio”. Il contributo dell’associazione “Seconda chance”. Ha assunto un ergastolano per dargli una seconda chance. Proprio come l’associazione che lo ha aiutato. “Non sono matto come qualcuno mi ha detto - racconta Egidio Fiandino, titolare di un’azienda agricola di Villafalletto, in provincia di Cuneo, a qualche chilometro dal carcere di Saluzzo dove il suo lavoratore è detenuto. “Ho fatto una cosa che sentivo di dover fare e che mi fa stare meglio - dice ancora -. La verità è che ci stiamo avvicinando al Natale, il lavoro da fare è anche troppo, e io avevo bisogno di qualcuno che potesse darmi una mano in azienda. Mi è capitata l’opportunità di scegliere questo ragazzo e non ci ho pensato neppure un secondo”. Il detenuto, che ora gode di permessi per lavoro esce di buon mattino per andare a lavorare e rientra nel tardo pomeriggio. Questo radicale cambio di vita lo deve, oltre che a se stesso e alla tenacia del suo avvocato, a “Seconda Chance”, l’Associazione non profit del Terzo Settore creata nel 2022 dalla giornalista del Tg de La7 Flavia Filippi, che procura lavoro a chi è nella condizione giuridica adeguata. Un progetto che coinvolge aziende e imprese che, grazie alla legge Smuraglia del 2000, possono in alcuni casi usufruire di sgravi fiscali. Ad aiutare il detenuto nella ricerca anche Paolo De Chiesa, saluzzese che, tra gli anni Settanta e Ottanta è stato prima un campione dello slalom speciale, il più giovane della Valanga Azzurra e il più forte slalomista italiano di quella compagine dopo Gustavo Thoeni e Piero Gros, poi ha fatto il giornalista per Telemontecarlo e la Rai. Dopo aver sentito parlare del detenuto e “di quanto fosse apprezzato dagli operatori del carcere” gli ha dato una mano a mettersi in contatto con l’azienda. “Lui solo sa i motivi che lo hanno portato in carcere, penso che da giovanissimo abbia vissuto in una situazione di degrado in cui per sopravvivere fai anche quello che non vorresti mai fare - continua De Chiesa-. Sbagliando e pagando. Ma la dignità di una persona non deve mai venir meno. Per me Giovanni non è un delinquente. E così, alla fine di quell’incontro in carcere, ho cominciato a ragionare su come avrei potuto dare una mano. Adesso Giovanni inforca ogni mattina la mia bici elettrica e va a lavorare dal mio amico. Quando posso vado a trovarli e vedo che le cose vanno bene a entrambi. Sono davvero contento”. Carceri: imprenditore, “ho assunto un ergastolano e sto meglio” (Agi) “Ho assunto un ergastolano ma non sono matto come qualcuno mi ha detto. Anzi, posso dire di aver fatto una cosa che sentivo di dover fare e che mi fa stare meglio”. Egidio Fiandino è titolare, assieme al cugino, di un’azienda agricola piemontese dalla lunga tradizione familiare (che risale addirittura al ‘700) molto apprezzata per la produzione di burro con latte vaccino e formaggi a caglio vegetale, una rarità nel panorama caseario del nostro Paese. Da un mese ha assunto un ex ragazzo della provincia siciliana, diventato uomo mentre scontava una trentina e passa di anni di galera. L’azienda ha sede a Villafalletto (Cuneo) a qualche chilometro dal carcere di Saluzzo dove Giovanni (nome di fantasia, ndr) è detenuto: esce di buon mattino per andare a lavorare e rientra nel tardo pomeriggio. Questo radicale cambio di vita Giovanni lo deve, oltre che a se stesso e alla tenacia del suo avvocato, a “Seconda Chance”, l’Associazione non profit del Terzo Settore creata nel 2022 dalla giornalista del Tg de La7 Flavia Filippi, che procura lavoro a chi è nella condizione giuridica adeguata. Ma al di là di quello è fondamentale che il detenuto vanti un ottimo comportamento intramurario (riconosciuto ovviamente dalla direzione carceraria e dal magistrato di sorveglianza). Un progetto che vede il coinvolgimento di aziende e imprese che, grazie alla legge Smuraglia del 2000, possono in alcuni casi usufruire di sgravi fiscali e contributivi. “Mi creda - dice Egidio Fiandino al cronista dell’AGI - le agevolazioni previste per chi assume personale in questo ambito rappresentano per me un aspetto secondario. A quelle, eventualmente, pensa il mio consulente al quale ho detto di fare tutto secondo regola e nel rispetto della normativa vigente. La verità è che ci stiamo avvicinando al Natale, il lavoro da fare è anche troppo, e io avevo bisogno di qualcuno che potesse darmi una mano in azienda. Mi è capitata l’opportunità di scegliere questo ragazzo e non ci ho pensato neppure un secondo. Ci siamo incontrati una volta, abbiamo fatto una chiacchierata, del suo passato poco so e poco mi interessa. Ho solo avvertito del suo arrivo gli altri dipendenti e mio cugino che non sapeva ancora niente. La storia dirà poi se ho fatto bene o no”, confida Fiandino. “Giovanni sta in un reparto tranquillo assieme a quattro ragazze, fa un lavoro che non richiede troppe responsabilità nè troppi rischi per lui: si occupa della scaffalatura dei formaggi, della loro pulizia e del confezionamento. Ho visto che si sta comportando bene, che socializza, fa gruppo, è rispettoso con tutti, si rende utile, ogni giorno prende sempre più confidenza con la mansione che gli è stata assegnata. Chissà, magari diventerà ancora più bravo. Starà con me almeno cinque mesi, poi si vedrà. È una esperienza nuova anche per me - ammette Fiandino - ma non vedo perché’ non avrei dovuto dare un’opportunità professionale a qualcuno che in gioventù avrà anche commesso degli errori. Ma chi è che non sbaglia? Ho fatto bene ad assecondare la richiesta del mio amico Paolo De Chiesa, non smetterò mai di ringraziarlo. E spero davvero che altri imprenditori della mia regione, e non solo, seguano la mia stessa strada”. Paolo De Chiesa non è uno qualunque. Nato e cresciuto a Saluzzo, dove tuttora vive ed è un’istituzione, tra gli anni Settanta e Ottanta era un campione dello slalom speciale, il più giovane della Valanga Azzurra e il più forte slalomista italiano di quella compagine dopo Gustavo Thoeni e Piero Gros. De Chiesa è poi passato al giornalismo diventando un apprezzato commentatore per Telemontecarlo e la Rai. A Telemontecarlo oltre 30 anni fa il suo destino professionale si incrocia con quello di Flavia Filippi (proprio la fondatrice di “Seconda Chance”) che agli inizi della carriera si occupava di giornalismo sportivo. “Non ci vedevamo da una vita - racconta adesso De Chiesa - ma quando Flavia mi ha cercato per chiedermi aiuto per un detenuto di Saluzzo, il mio paese, e mi ha raccontato il progetto che porta avanti con la sua Associazione, mi ha letteralmente conquistato. Mi ha parlato di Giovanni, di quanto fosse apprezzato dagli operatori del carcere, mi ha chiesto se conoscevo imprenditori sensibili e ha fatto in modo che potessi avere un colloquio con Giovanni in carcere. Mi ha fatto effetto entrare in quella realtà, vedere tutte quelle stanzette, così come mi ha impressionato sentire il rumore classico dei chiavistelli che aprono le cancellate. Devo ammettere - confessa De Chiesa - che Giovanni mi ha ispirato subito fiducia. Lui solo sa i motivi che lo hanno portato in carcere, penso che da giovanissimo abbia vissuto in una situazione di degrado in cui per sopravvivere fai anche quello che non vorresti mai fare. Sbagliando e pagando. Ma la dignità di una persona non deve mai venir meno. Per me Giovanni non è un delinquente, non farebbe male a una mosca, gli puoi tranquillamente affidare il tuo portafoglio. E così, alla fine di quell’incontro in carcere, ho cominciato a ragionare su come avrei potuto dare una mano. Ho pensato a Fattorie Fiandino e ad Egidio. Gli ho presentato Giovanni e si sono piaciuti. Adesso Giovanni inforca ogni mattina la mia bici elettrica e va a lavorare dal mio amico. Quando posso vado a trovarli e vedo che le cose vanno bene a entrambi. Sono davvero contento. E ringrazio Flavia di avermi coinvolto in questa bella storia”. Pisa. La partita con mamma e papà: lo sport riunisce le famiglie dei detenuti al Don Bosco La Nazione, 2 novembre 2024 All’interno del carcere pisano l’iniziativa promossa da “Bambinisenzasbarre”, con Ministero di Giustizia e amministrazione penitenziaria, grazie all’impegno del comitato Ansmes di Pisa. Poter giocare a pallone con i genitori non è facile per i figli dei detenuti, quasi un sogno di difficile realizzazione. Così a Pisa, all’interno del carcere Don Bosco, si è svolta la “Partita con mamma e papà”, iniziativa che promuove incontri tra genitori detenuti e figli, organizzata da “Bambinisenzasbarre” in collaborazione con il Ministero di Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. L’evento è parte di un progetto che coinvolge numerosi istituti penitenziari italiani, ha visto una grande partecipazione nel carcere pisano, dove genitori e figli hanno condiviso ore di svago e spensieratezza sul campo da gioco. L’edizione 2024 aveva anche un significato particolare, celebrando i dieci anni della firma della “Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti”, che quest’anno viene presentata anche a livello europeo grazie alla rete Children of Prisoners Europe (Cope). La giornata ha puntato a sensibilizzare sull’importanza dell’inclusione sociale e della tutela dei diritti dei bambini, spesso vittime di pregiudizi e discriminazioni a causa della condizione dei propri genitori. La gara si è svolta grazie all’impegno del Comitato provinciale Ansmes e dell’area pedagogica della casa circondariale. Tra le autorità presenti, anche l’arcivescovo di Pisa, Giovanni Paolo Benotto, che ha condiviso momenti di dialogo e vicinanza con i presenti prima dell’inizio dell’incontro. I genitori, in maglia azzurra, si sono schierati contro i loro figli, in maglia gialla, sotto l’arbitraggio di Ludovico D’Agostino della Sezione Figc ‘Gianni’ di Pisa. Il risultato finale ha sorriso ai giovani che, tra risate e abbracci, hanno sconfitto i papà in una partita dove a vincere è stato soprattutto il ‘terzo tempo’, per dirla in gergo rugbistico. Dopo la partita infatti, un’abbondante merenda nella sala polivalente ha coronato il pomeriggio. Salvatore Caruso, dirigente dell’istituto alberghiero “G. Matteotti”, ha messo a disposizione personale e risorse per una merenda da ricordare, offrendo un altro momento di condivisione per genitori e figli. La giornata si è conclusa tra sorrisi, abbracci e saluti emozionati. Anche se alla fine del pomeriggio ciascuno ha ripreso il proprio cammino, l’esperienza ha donato a tutti, e soprattutto ai bambini, ore di serenità, creando ricordi preziosi per chi vive una realtà difficile e spesso segnata dall’assenza. Questo evento è stato un piccolo, grande esempio di quanto sia importante sostenere il diritto dei bambini a vivere momenti di normalità e vicinanza affettiva, ricordando che “i diritti dei grandi cominciano dai diritti dei bambini”. Migranti. Ripartono i viaggi in Albania: il Governo sfida la Ue e i giudici di Rocco Vazzana Il Domani, 2 novembre 2024 L’esecutivo mette in preallerta il tribunale di Roma: migranti nel Cpr già dalla prossima settimana. Meloni non vuole aspettare la risposta della Corte di giustizia europea alle toghe bolognesi. Lo stato spende 9 milioni di euro per 12 mesi solo per mantenere 295 agenti nei centri albanesi. “Pronto? Volevamo solo avvisarvi che nei prossimi giorni partirà un’altra nave per l’Albania”. È questa, in estrema sintesi, la comunicazione che martedì scorso arriva agli uffici del tribunale di Roma. La telefonata parte da via Arenula, sede del ministero della Giustizia, e serve a preavvisare le toghe a “fini organizzativi”. E a comunicare, senza troppi giri di parole, che il braccio di ferro col governo sulla gestione dei migranti non è affatto finito, dopo la decisione del tribunale di Bologna di rinviare alla Corte di giustizia europea il decreto sui cosiddetti paesi sicuri. L’annuncio per le vie brevi fa balzare sulla sedia i vertici della magistratura capitolina, sicura, fino a quel momento, di aver raggiunto una “tregua” col governo - dopo la mancata convalida dei trattenimenti oltre Adriatico - in attesa di un pronunciamento della corte lussemburghese. Nessuna pausa invece. Palazzo Chigi non intende fare alcun passo indietro in materia di gestione dei migranti, a costo di lanciarsi in una sfida a viso aperto al potere giudiziario, colpevole, secondo la maggioranza, di voler interferire con le sue scelte politiche. Il modello albanese non può essere messo in discussione. Ed è già tutto pronto per l’invio di una nuova imbarcazione verso i centri di Shengjin e Gjader, come confermano a Domani fonti del Viminale: la prossima settimana ricominceranno le missioni, senza aspettare alcun parere della Corte di giustizia europea. Anche a costo di continuare a spendere, per ora a vuoto, altro denaro pubblico: 9 milioni di euro per 12 mesi solo per mantenere i 295 agenti di polizia a guardia dei centri. Lo scontro con le toghe - Per il governo è una questione di coerenza e determinazione: le scelte politiche non possono essere messe in discussione da un tribunale, secondo la linea dettata da Giorgia Meloni, che ha liquidato come “un volantino propagandistico” la decisione dei giudici di Bologna. “L’accusa di politicizzazione mediaticamente imbastita raggiunge qualunque magistrato, sol che decida in senso contrario alle attese del governante di turno”, si è difesa ieri la giunta esecutiva centrale dell’Anm. “Si respira un’aria pesante”, per il “sindacato delle toghe”, “confidiamo fermamente che tornino a prevalere il rispetto istituzionale e la ragione democratica”. La scelta dei magistrati emiliani, in effetti, non sembra affatto avere il sapore della propaganda, pone semmai una questione centrale di diritto: può una legge ordinaria italiana prevalere sulla giurisprudenza sovranazionale? E ancora: quali sono i parametri oggettivi per definire “sicuro” un paese? Perché “rientra nella logica del rinvio pregiudiziale che la Corte di Giustizia sia invocata quando occorra dissipare gravissime divergenze interpretative del diritto europeo, manifestatesi nel caso di specie in modo obiettivo e virulento in seguito ad alcuni provvedimenti giurisdizionali sino alla decretazione d’urgenza”, scrivono i giudici di Bologna nel loro provvedimento. E “in presenza di un gravissimo contrasto interpretativo del diritto dell’Unione, qual è quello che attualmente attraversa l’ordinamento istituzionale italiano, il rinvio alla Corte è opportuno al fine di conseguire un chiarimento sui principi del diritto europeo che governano la materia”. Nessuna propaganda, dunque, ma una normale prassi giurisprudenziale. Al centro della richiesta d’approfondimento dei giudici bolognesi, inoltre, c’è la definizione di paese sicuro, visto che il rinvio nasce dal ricorso presentato da un cittadino del Bangladesh (nell’elenco governativo dei luoghi sicuri) che si è visto negare la richiesta d’asilo dalla commissione territoriale di competenza. A stonare, per i giudici bolognesi, è il principio secondo il quale potrebbe essere considerato sicuro qualunque stato in cui la maggioranza della popolazione viva in condizioni di sicurezza. Ma “la persecuzione è sempre esercitata da una maggioranza contro alcune minoranze, a volte molto ridotte. Si potrebbe dire, paradossalmente, che la Germania sotto il regime nazista era un paese estremamente sicuro per la stragrande maggioranza della popolazione tedesca: fatti salvi gli ebrei, gli omosessuali, gli oppositori politici, le persone di etnia rom ed altri gruppi minoritari”, si legge ancora nel provvedimento dei giudici. Il nuovo decreto - Il paradosso è lampante, ma serve a mostrare le contraddizioni più rilevanti della legislazione. Poca cosa per il governo, che nel frattempo ha deciso di far confluire il decreto appena varato all’interno di un altro provvedimento: il decreto Flussi, di cui sarà un emendamento. L’obiettivo è velocizzare tutte le procedure di approvazione - il testo sarà presentato alla Camera il 21 novembre - aggirando il dibattito parlamentare. “Il decreto iniziale avrebbe seguito il normale iter, comprese le audizioni di molte organizzazioni e associazioni che si occupano di immigrazione”, ci spiega Fulvio Vassallo Paleologo, giurista esperto di diritto d’asilo. “Si stravolge la funzione del parlamento nella conversione dei decreti legge. Con un emendamento al decreto Flussi si saltano tutte le tappe e si aggira la discussione parlamentare”. Ma l’idea della scorciatoia è smentita dal governo che, per bocca del ministro dei Rapporti col parlamento Luca Ciriani, ha specificato: “Dopo aver ovviamente avvisato tutte le parti interessate, abbiamo preferito rinunciare alla conversione del decreto legge Paesi sicuri in Senato e presentare al decreto Flussi, in esame alla Camera, un emendamento in cui confluiscono i contenuti del decreto stesso. La decisione non vuole assolutamente ledere le prerogative parlamentari, ma essendo i due provvedimenti affini per materia e strettamente connessi tra di loro, riteniamo per questo opportuno che vengano esaminati insieme”. Balle, secondo le opposizioni, che hanno accusato la maggioranza di voler mortificare il parlamento. In attesa del 21 novembre e del parere della Corte di giustizia europea, il decreto Paesi sicuri resta comunque in vigore. Come attivi, anche se per ora vuoti, restano i centri in Albania. Il governo spera di riempirli a breve. O almeno ci proverà a partire dalla prossima settimana. A costo di sfidare ancora una volta la magistratura italiana. Migranti. Patto Italia-Albania, il Centro è vuoto ma costa un milione e mezzo al mese di Paolo Comi L’Unità, 2 novembre 2024 In servizio nell’hub dei migranti 180 tra poliziotti e carabinieri alloggiati in hotel a 5 stelle. Tra indennità e trasferta un salasso. Vale la pena riportare un passaggio di quanto affermato dal ministro Piantedosi al question time. “Segnalo inoltre - ha detto - che il costo reale dell’impegno della nave Libra si è rilevato di 8.400 euro complessivi, un costo giornaliero ampiamente inferiore a quello che veniva sostenuto in epoca di grande celebrazione di operazioni come Mare Nostrum, che richiedevano oneri per 300.000 euro al giorno”. Queste le parole del titolare dell’Interno, in risposta a chi gli chiedeva di fornire le reali cifre del surreale periplo della nave della Marina militare. Il pattugliatore d’altura, come si ricorderà, il 15 ottobre scorso, dopo essere partito da Lampedusa per accompagnare in Albania presso il centro di detenzione per il rimpatrio di Gjader 16 migranti, il giorno successivo aveva fatto subito rientro in Italia con 4 di loro in quanto vulnerabili e quindi incompatibili con tale struttura fuori confine. Peccato che nessuno dalle opposizioni abbia però chiesto a Piantedosi di fornire i numeri dei costi che, sempre dal mese scorso, il Ministero dell’interno deve affrontare per tenere 300 fra carabinieri ed agenti di polizia, oltre al personale della polizia penitenziaria, a guardia dei due centri albanesi. Anche se la struttura di Gjader, come quella di Shegjin, è attualmente vuota in quanto gli ultimi migranti presenti sono tornati in Italia a seguito del provvedimento del tribunale di Roma lo scorso 19 ottobre, il Ministero dell’interno si comporta come se ciò non fosse vero. Per alloggiare soltanto il personale delle Forze di polizia, il Viminale ha messo a budget 80 euro al giorno per ciascuno. Il gruppo Rafaelo Resort, con il ‘Rafaelo Executivè e ‘Hotel Comfort’, due alberghi sul mare a 5 e 4 stelle con spiaggia privata, centro benessere, piscine e ristorante, si è aggiudicato la commessa fatta da Roma con affidamento diretto. La cifra stanziata, per il vitto e l’alloggio di polizia e carabinieri da parte del Ministero dell’interno per i prossimi 12 mesi, ammonta a circa 9 milioni di euro. A questa somma si deve poi aggiungere il costo del personale che, oltre allo stipendio, si vedrà corrisposta una indennità di missione pari a 100 euro netti al giorno. A regime il Viminale ha previsto in Albania la presenza di un contingente di circa 300 unità. Attualmente, da quanto risulta all’Unità, sono circa 180 fra poliziotti e carabinieri a cui vanno quindi 18mila euro al giorno solo per l’indennità di missione. Nei conteggi sono ovviamente esclusi i costi per il loro trasferimento, con le previste diarie. I contingenti provengono, per quanto riguarda i carabinieri, da tutti i reparti mobili del Paese, non solo quelli geograficamente più vicini, come potrebbe essere con i reparti ubicati in Puglia. Diversi carabinieri ora in Albania provengono dai comandi della Lombardia e del Piemonte. In tutto ciò, ed è notizia di queste ore, si è aperto uno “scontro” con polizia e carabinieri da un lato e polizia penitenzia dall’altro. I poliziotti penitenziari, organicamente alle dipendenze del Ministero della giustizia, a differenza dei colleghi dell’Arma e della polizia di Stato, sono alloggiati all’interno dei centri di detenzione, negli stessi moduli prefabbricati destinati ai migranti. La sperequazione ha ovviamente scatenato molti malumori e provocato un paio di note arrabbiate da parte dei sindacati di categoria. Ma l’aspetto più surreale di questa vicenda riguarda sicuramente la modalità di svolgimento delle attività di servizio, concepite come se il centro fosse attivo e a pieno regime. La giornata dei poliziotti e dei carabinieri è infatti distribuita in 4 turni di 6 ore ciascuno, in modo da coprire tutto il giorno. Una attività di vigilanza che ricorda quella del sottotenente Giovanni Drogo messo a guardia della Fortezza Bastiani nel libro Il Deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Non è dato sapere se il dispositivo venga modificato oppure i circa 180 fra carabinieri e poliziotti oggi presenti debbano continuare a rimanere in Albania a guardare il mare. L’unico elemento certo è che il Ministero dell’interno ha previsto un loro turn over ogni 30 giorni. In conclusione, ha ragione Piantedosi: gli 8.400 euro spesi per la nave Libra sono destinati ad essere un’inezia di fronte ai costi pazzeschi di questa incredibile missione voluta dal governo Meloni. Migranti. La rabbia della Penitenziaria in Albania: “Noi nei container, la Polizia nel lusso” di Davide Carlucci La Repubblica Su in collina, un pugno di agenti di Polizia Penitenziaria isolati dal mondo nei prefabbricati. Giù al mare, tutti gli altri negli hotel a cinque stelle: carabinieri, poliziotti e finanzieri, come in una gita scolastica perpetua. A Gjader, reclusi nei container di un mini-carcere d’esportazione non c’è nessuno da sorvegliare. Confinati nell’ultima parte di un centro di permanenza e rimpatrio per migranti più che mai vuoto e desolato, le guardie intorno a loro hanno il nulla. Ce ne sono undici, attualmente, che vivono così. “Dovrebbero essere quindici, ma qualcuno ha ottenuto il permesso per rientrare in Italia”, spiega Gennarino De Fazio, della Uilpa. Il sindacalista denuncia il paradosso: “Qui a regime sono previsti quarantacinque agenti, uno ogni due detenuti e mezzo. Il contrario che in Italia, dove ne sono previsti due mezzo per ogni detenuto ma nella realtà ci sono carceri dove un singolo collega ne sorveglia cento”. In Albania, i baschi azzurri alloggiano in stanze multiple, al secondo piano del prefabbricato che dovrebbe ospitare i migranti autori di reati. Un’eventualità nell’eventualità, perché al momento non c’è neanche chi possa commetterli. Per andare a dormire salgono da una scala metallica grigia, simile a una scala d’emergenza. E per ammazzare il tempo, nella stanza relax dove le sedie sono state prese dalle celle vuote del cpr, hanno una sola tv, come in certi ospedali. Uscire per fare due passi? E dove vai? Intorno un deserto di alberi, melograni e pecore. E un cantiere infinito da cui entrano ed escono camion per l’ampliamento del centro fantasma. Al massimo si può raggiungere il villaggio, che ha un piccolo bar, un negozietto di generi alimentari, un fruttivendolo con le cipolle che invadono il marciapiede: la movida è tutta qui, anziani che trascorrono le giornate a bere birra e fumare. E a berciare contro i governanti. Grande invidia per poliziotti, carabinieri e finanzieri. Loro sono giù a Shengjjin, dove ancora si può andare al mare di Rana e Hedhun, una delle più belle distese di dune dell’Albania. La maggior parte dorme nell’hotel a cinquestelle Rafaelo executive: lì si fa un’ottima colazione e si cena anche bene. Se vuoi cambiare, non hai che la scelta: Goga Fish, o la trattoria marinaresca Detari, o altri posti ancora dove con venti euro mangi un signor pesce. Se invece resti in albergo, la tv è in ogni stanza. Al mattino puoi fare un tuffo in piscina. Fuori ci sono i taxi, 5 o 10 euro e arrivi a Lezhe, dove c’è qualche locale serale in più, perfino un night club. Anche i poliziotti, però, sono stanchi di andare in giro: “Questa estate c’era lo struscio, sul lungomare di Shengjjin”, racconta Zef, un residente emigrato in Italia. “Ora un cuoco mi ha detto che non si cucina neanche più come prima”. Ormai la ragione della loro presenza, i migranti da accogliere nell’hotspot del porto e da trasferire a Gjader, è dall’altra parte dell’Adriatico. A Bari, nel centro di accoglienza per richiedenti asilo. Gli avvocati denunciano che alcuni di loro sono molto vulnerabili: un bengalese ha detto di voler togliersi la vita e il suo avvocato, Paolo Iafrate, è preoccupato. Tra i poliziotti di stanza a Shengjjin, invece, il passaggio dei naufraghi è il ricordo di un evento che ha interrotto la monotonia dorata della vita in hotel. Ancora più fugace è stata l’apparizione per i penitenziari. Che adesso si paragonano a loro: “Stiamo esportando caporalato - dice De Fazio - certo, è un’iperbole. Ma è anche vero che la polizia penitenziaria è alloggiata in situazioni peggiori di quelle previste, esattamente come si fa con i migranti”. Il sindacato ha scritto a tutti i vertici dell’amministrazione penitenziaria e ora si rivolge a Giorgia Meloni: “Le condizioni concordate con il sottosegretario Andrea Delmastro non erano affatto queste. E in un corpo che ha 18mila unità in meno rispetto al fabbisogno, mandarne 45 in Albania è uno spreco indecente”. Migranti. Shamsul Islam e il ricorso alla Corte Ue sul decreto “Paesi sicuri” di Andreina Baccaro Corriere della Sera, 2 novembre 2024 “In Bangladesh rischio la vita”. La storia del 30enne del Bangladesh il cui ricorso ha fatto scattare il rinvio pregiudiziale del Tribunale di Bologna. Non potendo più restare in patria per i debiti non onorati, è arrivato in Italia dove ha chiesto il riconoscimento della protezione internazionale. È una storia di povertà, malattia e debiti usurari non pagati, che gli farebbero rischiare seri pericoli qualora fosse rimpatriato, quella di Shamsul Islam, il 30enne del Bangladesh il cui ricorso ha fatto scattare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea sul decreto cosiddetto “Paesi sicuri”. Nei giorni scorsi infatti il Tribunale di Bologna, rispondendo al ricorso contro il diniego della protezione internazionale emesso dalla Commissione territoriale di Forlì, ha interpellato la Corte di giustizia europea per dirimere la controversia sorta tra il decreto del governo Meloni che individua 19 Paesi sicuri, tra cui appunto il Bangladesh, e le sentenze e le direttive europee che stabiliscono come innanzitutto i casi siano da discernere volta per volta dal giudice incaricato, ma soprattutto un Paese non possa essere considerato sicuro se anche solo una piccola minoranza di cittadini è a rischio. Gli avvocati Francesco Umberto Furnari e Vanessa Di Gregorio avevano evidenziato nel ricorso al tribunale che il diniego della Commissione era motivato solo dall’inserimento del Bangladesh nella lista del governo, senza entrare nel merito della vicenda di Islam e avevano chiesto una sospensiva del rimpatrio. Sospensiva scattata in automatico con il rinvio pregiudiziale da parte del Tribunale di Bologna, il quale ha osservato che, paradossalmente, “anche la Germania nazista era sicura per milioni di tedeschi, ma il concetto di sicurezza non può essere parziale”. Shamsul Islam, che oggi vive a Ravenna, sarebbe invece in pericolo in patria perché, a causa dei gravi problemi di salute dei genitori, avrebbe contratto debiti sia con le banche che con gli usurai e adesso, in quanto capofamiglia, rischiererebbe sia il carcere che la vita. Il 30enne aveva studiato in Bangladesh per una decina d’anni per poi lavorare in un negozio di telefonia. Quindi, dopo che i suoi genitori si erano ammalati gravemente, si era ritrovato a fare fronte da solo ai bisogni di tutta la famiglia. Non potendo più restare in patria per i debiti non onorati, ha deciso di cercare fortuna in Europa: nell’ottobre 2023 è arrivato in Romania dove ha lavorato per sei mesi ma senza regolare paga. E così il 24 agosto scorso è entrato in Italia e, per timore di tornare in Bangladesh e subire le conseguenze per la mancata restituzione dei soldi, ha chiesto il riconoscimento della protezione internazionale. In questura a Ravenna aveva ottenuto il 9 settembre un permesso provvisorio. Ma in seguito la commissione territoriale di Forlì-Cesena aveva rigettato la sua richiesta, trattata con procedura accelerata come prevede il decreto Parsi sicuri. La decisione del Tribunale di Bologna di chiamare in causa la Corte europea per capire se quel decreto, come prevedono le norme comunitarie, vada disapplicato, ha scatenato un vespaio di polemiche, con la maggioranza di governo che accusa i giudici bolognesi di fare politica. “Si tolgano la toga e si candidino” ha detto il ministro del Trasporti Matteo Salvini, mentre per la premier Giorgia Meloni il provvedimento è “propagandistico”. Anche il giudice Marco Gattuso, presidente del collegio che ha firmato il procedimento, è stato attaccato e l’Anm è insorta in sua difesa. Migranti. “Il piano italiano sull’Albania ha bisogno di tempo, ma è passo nella giusta direzione” di Marco Bresolin La Stampa, 2 novembre 2024 Il leader del Ppe Manfred Weber: “Lavoriamo con le forze pro-Ue, non cerchiamo intese coi sovranisti”. Su Fitto avverte: “Dobbiamo sostenerlo, i socialisti la smettano di fare giochetti politici”. Il protocollo Italia-Albania resta un modello a cui guardare e l’applicazione del nuovo Patto migrazione asilo aiuterà a superare la disputa giuridica sul concetto di Paese sicuro: ne è convinto Manfred Weber, appena rientrato da un viaggio in Egitto dove ha incontrato il presidente Al Sisi. Sul dossier migratorio, ma non solo, il Ppe ha giocato di sponda con i gruppi di destra, scatenando l’irritazione degli altri partiti della coalizione Ursula. Ma il presidente dei popolari smentisce l’intenzione di voler portare avanti una “politica dei due forni” e assicura che continuerà a lavorare con le forze centriste ed europeiste. Interpellato da “La Stampa” nel corso di questa intervista, il tedesco preferisce invece non commentare le indiscrezioni di stampa relative all’indagine della procura europea, che riguarderebbe un uso illegale dei fondi Ue per la sua campagna elettorale del 2019, e rimanda alla nota diffusa dal gruppo, nella quale gli eurodeputati Ppe dicono di non aver ricevuto alcuna comunicazione ufficiale dalle autorità giudiziarie. Qual è il significato del suo viaggio in Egitto? “Con la guerra in Ucraina ci siamo molto concentrati sul fronte orientale, ma il Mediterraneo è una regione cruciale per l’Ue, per questo stiamo lavorando con i partner del Nord Africa. Ho avuto uno scambio di vedute con il presidente Al Sisi, in particolare su due questioni. La prima è quella economica: bisogna stabilizzare l’Egitto, che può offrirci grandi opportunità di lavoro e di affari. E la seconda è quella legata all’immigrazione: l’Egitto sta collaborando bene, è un partner affidabile. Dobbiamo essere orgogliosi del nostro approccio con Tunisia ed Egitto. Abbiamo bisogno del Patto per il Mediterraneo che è stato avviato da Tajani”. Le politiche di esternalizzazione sono quindi la nuova priorità? “Come Ppe, noi teniamo molto ai princìpi e ai valori europei, a quelli della convenzione di Ginevra. Bisogna dare protezione a chi fugge da una guerra oppure ha bisogno di asilo. Ma l’unico modo per difendere questi princìpi è fermare l’immigrazione illegale. Le cose stanno cambiando: tutti i Paesi ora fanno i conti con questa realtà, anche quelli guidati dalla sinistra come la Danimarca. È dunque importante lavorare con i Paesi terzi, a partire da quelli mediterranei”. Voi considerate il protocollo Albania un modello da seguire, ma le prime settimane dimostrano che non sta funzionando... “Tutte le soluzioni innovative hanno bisogno di tempo. Il modello Albania rappresenta un tentativo, in linea con il diritto e i valori europei, di fermare il modello di business dell’immigrazione illegale: tutto ciò che va in questa direzione è chiaramente il benvenuto”. C’è però una controversia legale tra il governo italiano e i giudici sulla definizione di Paese di origine sicuro: serve un nuovo intervento della Corte di Giustizia Ue? “Si tratta di aspetti giuridici concreti e molto interessanti che ci dovrebbero spingere ancor di più ad accelerare sull’applicazione del nuovo Patto migrazione, che porta con sé certezza giuridica sulla questione dei Paesi di origine sicuri”. Sui centri per i rimpatri fuori dall’Ue, voi del Ppe avete votato con i gruppi dell’estrema destra un emendamento di Afd: il cordone sanitario è stato superato? “Il Ppe è il partito dell’Europa, dei padri fondatori come Schuman, De Gasperi, Adenauer. Di gente come Antonio Tajani, che tiene alta la bandiera dell’europeismo e dell’atlantismo, di Donald Tusk e del partito di opposizione a Viktor Orban. Il nostro Dna è molto chiaro e saremo sempre contro i nazionalisti anti-Ue, che non sono soltanto i nostri concorrenti ma anche i nostri nemici politici. Ho già definito le nostre linee rosse: noi lavoriamo soltanto con i partiti pro-Ue, pro-Ucraina e a favore dello Stato di diritto”. Però avete votato con i sovranisti sugli emendamenti al bilancio Ue, sulla risoluzione pro-Venezuela, sul calendario delle audizioni, sul premio Sacharov: state costruendo una maggioranza alternativa? “Da europeista convinto, resto dell’idea che se si vuole costruire qualcosa bisogna lavorare con le forze centriste ed europeiste, come i socialdemocratici e i liberali. È così che abbiamo eletto Ursula von der Leyen e Roberta Metsola, ed è così che vogliamo raggiungere i nostri obiettivi in questo mandato, soprattutto nel campo della competitività, per ridare forza all’economia europea, e della Difesa. Con i nazionalisti non si ottiene nulla, non si risolvono i problemi per i nostri cittadini. I compromessi si costruiscono al centro, non con l’estrema destra. Non cambierò nessuna delle nostre risoluzioni, come quella sul Venezuela, perché l’estrema destra è a favore o contraria. Non hanno alcuna influenza sulle nostre politiche e questo è il motivo per cui non possiamo impedire loro di votare contro o a favore”. Sì, però, avete votato con loro anche sul calendario delle audizioni: hanno ragione i socialisti e i liberali a dire che state giocando con il fuoco? “Inizio a essere stanco di queste storie che vengono ripetute dai socialisti. Sulle audizioni, per esempio, il Ppe ha votato a favore della proposta avanzata dalla conferenza dei presidenti delle commissioni, che è guidata da un socialdemocratico. Credo che i socialdemocratici e i liberali debbano rassegnarsi: la maggioranza tra liberali e sinistra non esiste più”. Ma questo clima alla vigilia delle audizioni non rischia di far saltare il banco? “Con le audizioni, il Parlamento europeo ha una grande potere. Noi non firmiamo alcun assegno in bianco, ma abbiamo anche una grande responsabilità: il processo avviene in contemporanea con le elezioni americane e abbiamo bisogno che la nuova Commissione entri in carica senza ritardi”. I socialisti, però, restano contrari alla vicepresidenza esecutiva per Fitto, esponente di un partito che non fa parte della coalizione che ha eletto von der Leyen... “L’Italia è uno dei Paesi fondatori e merita un ruolo di primo piano nella Commissione. Il governo italiano ha presentato un candidato ragionevole, europeista, che è anche un mio grande amico. Ha il pieno sostegno del Ppe. Spero che tutte le decisioni siano basate sulla cooperazione e sulla buona volontà. Noi abbiamo cercato di lavorare con i Verdi e dobbiamo lavorare anche con i conservatori che hanno un atteggiamento costruttivo, come il governo italiano. Mi auguro che i socialisti la smettano di fare giochetti politici”. Migranti. Mi autodenuncio: ho chiesto di sanzionare il nostro Paese di Massimiliano Iervolino* L’Unità, 2 novembre 2024 Molte volte ho segnalato alla Commissione europea violazioni del diritto Ue da parte dell’Italia. Contro i governi inadempienti, mai a svantaggio dei cittadini. Negli ultimi quindici anni mi è capitato molte volte di scrivere alla Commissione europea per segnalare delle violazioni del diritto comunitario da parte dell’Italia. L’ho fatto sempre contro i governi inadempienti mai a svantaggio dei cittadini, anzi. Però ogni volta che depositavo una denuncia ho dovuto ascoltare persone che mi sussurravano: così paghiamo tutti. Un convincimento simile a quello espresso dalla premier Giorgia Meloni l’altro giorno sui social: “Pd, M5S e AVS hanno presentato un’interrogazione alla Commissione europea chiedendo se intende aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia per l’accordo sui flussi migratori con l’Albania. Avete capito bene: alcuni partiti italiani stanno di fatto sollecitando l’Europa a sanzionare la propria Nazione e i propri cittadini, con il solo obiettivo di colpire politicamente questo Governo. Una vergogna che non può passare inosservata”. A questo punto la domanda sorge spontanea: ogni semplice elettore (o parlamentare) che segnala una violazione a Bruxelles è contro il proprio Paese? La procedura d’infrazione costituisce uno strumento indispensabile per garantire il rispetto e l’effettività del diritto dell’Unione. La decisione relativa al suo avvio è una competenza esclusiva della Commissione, la quale, esercitando un potere discrezionale, può agire su denuncia di privati, sulla base di un’interrogazione parlamentare o di propria iniziativa. Prima che uno Stato membro si veda costretto a pagare delle sanzioni pecuniarie, deve essere condannato per la stessa procedura due volte dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Dalla lettera di messa in mora (primo atto della Commissione europea) all’eventuale doppia condanna passano mediamente otto - nove anni. Nel mentre lo Stato membro fa di tutto per rientrare nella legalità comunitaria. Molte volte ci riesce, solo alcune no. La probabilità che una procedura di infrazione arrivi a sanzione pecuniaria è estremamente bassa. Tanto è vero che le doppie sentenze contro l’Italia si contano sulle dita di una mano nonostante Bruxelles ogni anno contesti al nostro Paese decine e decine di violazioni. La giustizia italiana è lenta, quella europea non è sicuramente veloce. L’utilizzo delle giurisdizioni sovranazionali per risolvere problemi nazionali è sempre stata l’ossessione positiva di Marco Pannella, tant’è che diversi sono stati gli esposti a sua prima firma depositati presso l’altra Corte la CEDU (Corte europea per i diritti degli uomini), tra i quali ricordiamo: la situazione illegale delle carceri italiane, il rischio Vesuvio e la libertà di informazione. Ma anche i cittadini hanno fatto scuola, tornando alla Corte di giustizia europea, l’Italia è stata condannata per il cattivo smaltimento dei rifiuti nel Lazio grazie ad un gruppo di abitanti della Valle Galeria, i quali, con lungimiranza e testardaggine, per anni hanno segnalato alla Commissione che Malagrotta violava la direttiva discariche. Bruxelles si convinse ad aprire una procedura di infrazione e l’invaso di Roma arrivò finalmente a fine vita. Quindi ripropongo la domanda: i cittadini che si sono rivolti a Bruxelles vanno considerati come anti italiani? Secondo il ragionamento di Giorgia Meloni sì, secondo il buonsenso assolutamente no. Seguendo il pensiero della Premier anche il sottoscritto dovrebbe essere tacciato di essere un anti italiano, visto che negli ultimi anni ho segnalato a Bruxelles diverse violazioni del nostro Paese, tra le quali: il metodo illegale di smaltimento dei rifiuti a Bellolampo (discarica di Palermo), la mancata attuazione della direttiva Bolkestein per le ultradecennali concessioni balneari e per quelle degli ambulanti, la cattiva qualità dell’acqua destinata al consumo umano per gli alti valori di arsenico nel Lazio e il cattivo funzionamento dei depuratori di diversi agglomerati italiani. Quelle denunce sono servite? Assolutamente sì. Su molti dei tempi evidenziati ci sono stati notevoli passi in avanti del nostro Paese proprio grazie a faro acceso da Bruxelles. Potrei portare all’attenzione del lettore diversi esempi - uno è già stato citato: la discarica di Malagrotta - forse quello più emblematico però riguarda le discariche abusive presenti nel nostro Paese. Diversi lustri fa il Corpo Forestale dello Stato fece un censimento dal quale uscì fuori che nel territorio italiano esistevano circa 5.000 discariche abusive. La Commissione europea venne a conoscenza di questo report e nel 2003 decise di aprire una procedura di infrazione. L’Italia fu condannata la prima volta nel 2005 la seconda volta nel 2013, ma grazie all’intervento dell’Europa oggi quegli invasi sono quasi tutti bonificati. La verità è una, alla Premier da enormemente fastidio che il diritto comunitario prevalga su quello interno. Si innervosisce ogni qual volta Bruxelles la richiama al rispetto dello stato di diritto. Tuttavia è il trattato sul funzionamento dell’Unione europea che consente alla Commissione di avviare azioni formali nei confronti degli Stati membri sospettati di violare il diritto dell’UE, e queste azioni possono anche essere proposte da semplici cittadini o parlamentari europei. Se ne faccia una ragione. *Già segretario di Radicali Italiani Migranti. Contro i giudici e l’Europa ecco il sovranismo del diritto di Mario Di Vito Il Manifesto, 2 novembre 2024 Emendamenti e indagini conoscitive firmati Lega. I blitz nel decreto sulla separazione delle carriere e in Commissione Affari Ue. Sullo sfondo c’è il fastidio del governo verso qualsiasi organo di controllo. Già nel 2018 Meloni propose una legge costituzionale per rovesciare il rapporto con le norme comunitarie. Se la legge italiana è in contrasto con quella europea, non fa niente: si può sempre far finta che la seconda non esista. Così ha ragionato il governo per il piano albanese e per il successivo (quasi) decreto sui paesi sicuri, salvo poi incontrare sulla propria strada dei giudici che ancora ricordano la gerarchia delle fonti del diritto. Èsuccesso di recente a Roma, con il tribunale che non ha convalidato il trattenimento in Albania di dodici migranti e poi a Bologna, dove la questione dei paesi sicuri è stata rinviata alla Corte di giustizia dell’Ue. Prima ancora c’erano i casi di Catania e Palermo. Fiaschi in serie per Meloni, la cui risposta è sempre stata la stessa: aizzare suoi fiancheggiatori mediatici a manganellare le “toghe rosse” che non vogliono sottostare ai voleri dell’esecutivo. Ma come se ne può uscire davvero? Come si fa a scavalcare una volta per tutte i tribunali? Alzando il tiro: le norme italiane devono prevalere su quelle europee. Ovviamente, ed è prerogativa di ogni parlamentare saperlo, non si può fare: il primato del diritto comunitario riguarda lo Stato in tutte le sue articolazioni - non solo i giudici - e se c’è una violazione, quasi in automatico, arriva una sanzione. Punto e basta. Questo vale in linea di principio, però, perché si può sempre sollevare il dubbio, lanciare il sasso a valle e vedere se prima o poi si trasforma in valanga. Nell’ultima settimana, la Lega sta cercando di capire se davvero il colpaccio è possibile. Un passo deciso in questo senso è stato fatto con la presentazione in commissione Affari costituzionali di due emendamenti al ddl sulla separazione delle carriere. Il primo consiste nel sottrarre all’articolo 117 della Costituzione (“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”) le parole “nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Da notare che questo articolo venne modificato nel 2001 proprio per chiarire che la violazione di un obbligo comunitario è sempre una violazione costituzionale. Il secondo emendamento leghista, poi, consiste nell’aggiunta di un comma all’articolo 11 (quello sul ripudio della guerra, sulle “limitazioni di sovranità” e sulla promozione delle “organizzazioni internazionali” che agiscono per la pace e la giustizia tra le nazioni): “In ogni fase e tipo di giudizio, di ogni ordine e grado, la Costituzione non costituisce, in ogni sua previsione, fonte subordinata ai trattati e agli altri atti dell’Ue”. In soldoni significherebbe formalizzare il primato del diritto italiano su quello europeo, appunto. Questo, ad ogni buon conto, non vorrebbe dire in automatico uscire dall’Unione, quanto rendere l’Italia un paese molto simile, per esempio, all’Ungheria, dove la maggioranza di turno (lì sempre la stessa, quella di Orbàn) fa il bello e il cattivo tempo senza curarsi di limiti, vincoli, regole e tutti quei fastidiosi accessori che circostanziano il concetto di democrazia. Del resto si tratta di un ‘idea che Meloni - e più in generale tutta la destra - ripete ogni giorno: i cittadini parlano il giorno delle elezioni, ne consegue che contraddire il governo significa tradire la volontà popolare. Tecnicamente, come da libri di storia in uso dalle scuole medie in avanti, è il primo passo verso l’autoritarismo: la soppressione di qualsiasi contrappeso al potere esecutivo, che dalla sua ha la forza derivante dal dialogo diretto con il popolo. Questa volontà di costruire il sovranismo del diritto, comunque, non è solo nei due emendamenti al ddl sulla separazione delle carriere, ma anche in un assalto che, mercoledì e giovedì, il leghista Enrico Borghi ha portato avanti alla commissione Politiche europee del Senato. Qui la questione viene posta sotto forma di richiesta di apertura di un’indagine conoscitiva sulla primazia del diritto dell’Ue. Il dibattito, va da sé, si è surriscaldato. E Filippo Sensi ha centrato il punto politico: “La proposta lascia chiaramente intendere l’obiettivo di fare della Commissione un’arena politica in cui chiamare in causa le competenze della magistratura”, ha detto. Mentre il M5s resta ambiguamente in mezzo al guado. Il senatore Pietro Lorefice, fatta la premessa che l’intenzione di attaccare le toghe è palese, lascia aperto qualche spiraglio, dicendosi “disponibile a un approfondimento, anche analizzando i risvolti negli altri stati membri a tutela delle sfere di sovranità nazionali”. La questione resta sospesa, il presidente della commissione, Giulio Terzi (FdI) ha rimandato all’ufficio di presidenza della settimana prossima ogni decisione per “delineare i contorni dell’approfondimento”. Che, in un modo o nell’altro, ci sarà, vista la sostsanziale concordia di tutte le forze di maggioranza e la non ostilità del M5S. DEL RESTO, almeno per la destra, il tema non è nuovo. Già una legislatura fa, nel marzo del 2018, venne depositata una proposta di legge costituzionale per rivedere il “rapporto tra l’ordinamento italiano e l’ordinamento dell’Unione europea”. La prima firmataria era Giorgia Meloni. Migranti. Emergency, diritti in alto mare di Laura Salvinelli Il Manifesto, 2 novembre 2024 Reportage. Parlano i protagonisti dei salvataggi a bordo della “Life Support”. “Quando abbiamo raggiunto un gommone che era in mare da tre giorni, alla deriva da uno e mezzo, c’era un uomo che brandiva un bimbo sopra di lui a mo’ di Re Leone come a mostrare un’urgenza, e in quel momento mi si è gelato il sangue perché non si capiva se il piccolo, coperto da un salvagente, fosse cosciente o no. Erano tutti terrorizzati, ci guardavano come se fossimo sbucati da chissà dove per salvarli, degli alieni bardati con caschi e equipaggiamento che urlavano ordini incomprensibili per manovrare bene l’operazione. C’erano solo due donne a bordo ed erano le uniche che non riuscivano a trattenere dei gran sorrisi, molto intensi. Non erano ancora state salvate, però avevano capito che stava per succedere qualcosa di bellissimo” racconta a caldo il navigatore oceanico Ambrogio Beccaria, 32 anni, che sostiene EMERGENCY partecipando a questa missione come soccorritore. Beccaria, il primo italiano a vincere nel 2019 la Mini-Transat, la storica transatlantica in solitario, è il navigatore oceanico italiano più forte della sua generazione e uno dei migliori a livello internazionale. “Da marinaio ho una sorta di empatia verso i naufraghi perché da un momento all’altro potrei diventarlo pure io. Ed essendo marinaio italiano, poiché arrivano qui gli sbarchi, non vedo proprio come si possa essere distaccati” aggiunge. Siamo a bordo della nave Sar (search and rescue: ricerca e salvataggio) di Emergency, la Life Support, per la sua 23° missione. A bordo si indossa tutti lo stesso abbigliamento (che cambia a seconda delle zone), si partecipa tutti - anche la stampa - a caricare i viveri, a pulire gli spazi comuni, agli addestramenti, alle esercitazioni, ai training, ai turni, ai salvataggi. Si diventa un unico team con una motivazione e un entusiasmo così forti da produrre l’adrenalina necessaria per superare lo stress fisico e mentale, il caldo torrido, la mancanza di sonno. Abbiamo soccorso in acque internazionali della zona Sar maltese 65 naufraghi partiti dalla costa libica provenienti da Siria, Bangladesh, Egitto e Eritrea, fra cui una donna siriana con un figlio di tre anni e due adolescenti, e sette minori non accompagnati. E M., siriano, 21 anni, che provava la traversata per la nona volta - le altre otto era stato riportato indietro dalla cosiddetta Guardia costiera libica. È sopravvissuto a sparatorie, a giorni in acqua, a un anno e mezzo di prigione in Libia, ha subito e visto torture inenarrabili e l’uccisione di almeno 30 persone. Il suo viaggio gli è costato 20.000 dollari (la sua famiglia ha dovuto vendere la casa), tre anni di vita all’inferno e un trauma che gli rimarrà dentro. Essere parte attiva di un salvataggio, tendere la mano su quel confine in cui si incontrano il terrore e la fiducia, provoca un’emozione così potente che l’unico modo per non venirne sopraffatti è svolgere con la massima cura il proprio lavoro. È una situazione in cui bisogna essere concentratissimi perché può succedere di tutto, dall’intervento armato delle milizie libiche a reazioni di panico da parte di persone traumatizzate. Dopo quattro giorni di navigazione abbiamo sbarcato i naufraghi al porto assegnato di Ortona dove sono stati presi in carico da un dispiegamento di forze difficilmente visto nelle retate di terroristi, mafiosi o criminali. Qui a bordo è chiaro a tutti che l’emergenza non sono gli sbarchi ma la pressoché totale assenza della tutela dei diritti delle persone in mare, e non ci sono dubbi da quale parte stare. Secondo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni dal 2014 a oggi più di 30.000 persone sono morte o scomparse nel Mediterraneo, cifra sicuramente molto più bassa di quella reale. “I naufraghi dell’ultimo salvataggio erano in un tratto di mare non battuto dalle rotte commerciali, a Est di Malta. Se non avessimo deciso di partire verso quella segnalazione, sarebbero semplicemente spariti e nessuno avrebbe saputo della loro sparizione. Come di quella di tantissime persone di cui oggi non conosciamo il destino” sottolinea l’infermiere Sauro Forni, che ci tiene a ricordare la storia di una donna, “una siriana di 78 anni che abbiamo soccorso in mare con figli e nipoti. Ad Amatrice avevo visto terremotati che non si staccavano da luoghi in cui tutto era distrutto, perché non è facile, specialmente per gli anziani. Quella donna che aveva intrapreso un viaggio così pericoloso mi ha fatto capire che la disperazione non ha età”. Jonathan Nanì La Terra, responsabile del Sar team e antropologo, dice: “Credo che tutti abbiano il diritto di poter muoversi liberamente, a maggior ragione se scappano non solo da guerre, ma anche da qualsiasi tipo di problema. Se non ci si può muovere perché il proprio paese è in guerra, penso che si debbano creare dei corridoi umanitari che permettano di farlo. Queste persone si ritrovano in mare e c’è bisogno di qualcuno che le salvi. Non lo fanno i governi europei? Male, malissimo. Ma qualcuno deve farlo. Siamo qui a mettere una pezza, a cercare di non fare morire queste persone, di dar loro una seconda possibilità di costruirsi la propria vita altrove”. La logista Paula Virallonga, che ha lavorato per le persone in movimento in Africa, Europa, Asia e America Centrale, precisa: “Non mi piace la parola ‘aiuto’, anche se non so come sostituirla. Queste persone non avrebbero bisogno del nostro aiuto se ci fosse giustizia. Cerchiamo solo di stare, per quanto possibile, dalla loro parte. Quindi non si tratta di aiutare ma di lavorare per rendere il mondo un posto dove sia possibile convivere come esseri umani con gli stessi diritti. Anche se so che è un’utopia”. Secondo la mediatrice culturale Mariam Bouteraa, nata a Mazzara del Vallo da genitori tunisini, che da piccola si sentiva “sbagliata” sia in Italia che in Tunisia, e che ora invece considera l’appartenere a due culture il suo più grande patrimonio, “quello che manca sulla narrazione dei migranti è la considerazione della persona come essere umano. È questo che porta ad avere paura e a cadere in stigmatizzazioni varie, perché se si considera l’altra persona come umana le si restituisce la dignità che è innata in tutti noi”. Flavio Catalano è stato per 36 anni ufficiale di macchina della Marina militare e ha cominciato a fare volontariato mentre era ancora in servizio: “Se non mi fosse stato permesso di indossare la maglietta di Emergency l’avrei capito e anche un po’ condiviso”. Ma è stato accettato, e ora è responsabile del ponte, un ruolo operativo nel soccorso sulla nave, e non ha il minimo dubbio: “Le normative sono e sono sempre state volte a salvaguardare la vita in mare, anche quando per secoli non erano scritte. Il marinaio ha sempre salvato l’altro marinaio perché oggi a te, domani a me”. Racconta con empatia il primo salvataggio: “È stato di una barca che era molto vicina a noi. Ci hanno chiamati, siamo usciti e vedendo le persone che erano a 200 metri qui sotto, ho pensato “ma allora ci sono davvero”. Poi mi ricordo degli uomini in piedi che tremavano, uomini adulti, sani, apparentemente. Non voglio allargarmi troppo con questa compassione perché vorrei averne di più, però sì, provavo compassione nel vedere tremare uomini idealizzati come esseri forti, non in quanto uomini e non donne, ma in quanto esseri umani adulti, e quella volta erano tutti uomini, erano pachistani”. La giovane infermiera Marilena Silvetti, appassionata di antropologia medica, condivide l’empatia: “Quello che ogni volta mi spiazza è riconoscere nell’altro me stessa, i miei sogni, le mie paure, le mie ansie, le mie aspettative, il mio bisogno di affettività, la mancanza della famiglia e degli amici, il desiderio di una vita migliore”. La capomissione Anabel Montes Mier è nata nelle Asturie, “un posto molto selvaggio”, ed è dipendente dall’adrenalina, perché quando è sotto pressione dà il meglio di sé. È stata nuotatrice agonista, aereo-soccorritrice in mare, laghi e fiumi, e bagnina per 12 anni. Dal 2015 si è messa a servizio dei bisogni umanitari: “Aiutavo persone in pericolo per incidenti in scenari divertenti o felici. Nessuno merita di essere lasciato indietro e di morire in mare, soccorrere chi è costretto al rischio nell’assoluta indifferenza di metà del mondo dà ancora più significato al mio lavoro”. Paola Tagliabue, medico anestetista rianimatore, testimonia che il 30-40% dei superstiti visitati ha addosso lesioni da torture: “Penso che sia intollerabile girarsi dall’altra parte e che le Ong non dovrebbero essere lasciate sole a colmare un vuoto, ma bisognerebbe coordinare il lavoro di soccorso a livello europeo, non solo nazionale”. Last but not least la comandante Laura Pinasco, una delle poche donne che hanno avuto la forza e il coraggio di diventare comandanti della Marina mercantile a 30 anni, aveva voglia di “stare con persone che vogliono il bene degli altri, non in ambienti così competitivi da essere a volte malati”. Afferma: “Abbiamo molte difficoltà perché c’è sempre lo spettro del fermo amministrativo, di incorrere in sanzioni, pur facendo la cosa giusta. Questi ostacoli vanno contro le leggi internazionali. Essere qui è un po’ come dire no, che ci sono dei principi che sono stati conquistati e non si può far finta di niente, tornare indietro dicendo che non valgono niente”. Nel luglio 2023, cinque importanti Ong - Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, Emergency, Medici Senza Frontiere, Oxfam Italia e SOS Humanity - hanno presentato cinque distinte denunce sulla legge Piantedosi (la legge n. 15/2023) e sulla prassi delle autorità italiane di assegnare sistematicamente porti distanti per lo sbarco dei sopravvissuti salvati in mare. Le Ong sostengono che la legge e la prassi non sono in linea con gli obblighi degli Stati membri dell’UE ai sensi del diritto del mare, del diritto europeo e delle convenzioni internazionali, e che rappresentano un ostacolo sistematico alle attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Come previsto dai meccanismi di denuncia dell’Unione europea, la Commissione europea deve condividere una valutazione preliminare del reclamo entro due mesi dalla registrazione e decidere se avviare una procedura formale su una violazione del diritto dell’UE da parte di uno Stato membro entro un anno. Passato un anno, la Commissione ha comunicato di aver bisogno di più tempo per esaminare le denunce. Nel frattempo, le Ong vengono allontanate dalle acque di soccorso sprecando risorse e denaro, e il numero dei morti e dispersi in mare aumenta. La Life Support dalla sua prima missione nel dicembre del 2022 a oggi ha salvato 2.222 vite nel Mediterraneo Centrale, la rotta più letale del mondo. Sul fianco sinistro, una frase di Gino Strada: “I diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli privilegi”. Iraq. Nella prigione di Nassiriya, dove migliaia di esseri umani attendono di finire sulla forca di Elisabetta Zamparutti L’Unità, 2 novembre 2024 Nella prigione di Nassiriya tutto è fuori del comune e dalla norma. Il carcere è smisurato, sovraffollato, disumano. Dal momento in cui è stato aperto nel 2008, tutto si è mosso contro le leggi naturali della scienza e della coscienza. È stata progettata per contenere solo 800 prigionieri e, in pochi anni, contro i principi elementari della fisica, è stata affollata da oltre 8.000 detenuti. Come se tutti entrassero e nessuno uscisse. Gli abitanti del luogo, infatti, chiamano la prigione “al hout”, la balena, perché inghiotte esseri umani che non vengono più sputati fuori. È stata architettata come carcere della massima sicurezza contro il terrorismo; è subito diventata il luogo della tremenda vendetta delle vittime sciite del regime del terrore saddamita. La prigione di Nassiriya è l’unica in Iraq dove c’è il braccio della morte. I prigionieri in attesa di finire sulla forca sono migliaia, per lo più musulmani sunniti detenuti per reati politici o presunti atti di terrorismo. La “Balena” è diventata un mausoleo della legge del taglione. Ma, nel suo ventre, è violata la stessa regola islamica che prescrive il limite di un occhio per un occhio: uno al massimo, non di più. Invece, quando accade, a Nassiriya l’esecuzione è imprevedibile, smisurata e coperta da un manto di segretezza. Il 12 ottobre scorso, AFAD, l’Osservatorio Iracheno per i Diritti Umani, ha pubblicato un rapporto in cui si afferma che le autorità carcerarie hanno condotto quattro ondate di esecuzioni a settembre, la più grande delle quali si è verificata giorno 24, quando 21 prigionieri sono stati impiccati all’alba. AFAD sostiene che sono state effettuate senza consentire ai prigionieri di esprimere le ultime volontà o contattare le loro famiglie per un estremo saluto. I detenuti sono stati prelevati dalle loro celle in pigiama e impiccati in gruppi di sei, con alcune esecuzioni accompagnate da insulti settari da parte dei carnefici. Il giorno successivo i corpi sono stati consegnati alle famiglie, alle quali è stato chiesto di pagare la tassa per i certificati di morte. “La maggior parte delle vittime proveniva dai governatorati di Salah al-Din, Diyala, Anbar, Baghdad e Ninive. Alcuni dei giustiziati sono stati condannati in base a sentenze emesse durante l’era del Primo Ministro Nouri al-Maliki, noto per le sue politiche settarie”. AFAD ha fornito videoclip che mostrano i loro corpi dopo che sono stati restituiti alle loro famiglie. L’organizzazione ha anche condiviso il certificato di morte di un uomo, Waed Salim Hussain, di Talafer, provincia di Ninive. Il documento è stato firmato dalla clinica sanitaria della prigione centrale di Nassiriya e ha indicato la causa della morte come “esecuzione per impiccagione fino alla morte”. Secondo il rapporto, inoltre, il presidente Abdul Latif Rashid ha approvato le esecuzioni sotto la pressione delle fazioni politiche sciite a Baghdad, nonostante le contestazioni dei prigionieri, che hanno affermato di essere stati torturati per firmare confessioni o di essere stati condannati sulla base di false accuse da parte di informatori segreti. Il comitato presidenziale formato per ratificare queste condanne a morte sarebbe composto interamente da sciiti, senza un solo sunnita. Le famiglie e gli avvocati spesso vengono a conoscenza delle esecuzioni solo dopo che sono avvenute. Non c’è solo la prospettiva della forca. Nella prigione di Nassiriya, le guardie sottopongono regolarmente i prigionieri nel braccio della morte ad abusi fisici e psicologici. A volte li avrebbero tirati fuori dalle loro celle con il pretesto di un’esecuzione, per poi riportarli indietro. Alcuni hanno subito rappresaglie sotto forma di percosse, isolamento e negazione delle cure mediche. Altri sono tenuti in celle di detenzione senza cibo o beni di prima necessità. Le autorità, ovviamente, si sono affrettate a smentire le notizie di esecuzioni di massa a Nassiriya, liquidando le accuse come “voci false” volte a creare caos. Gli ordini di esecuzione, hanno assicurato, vengono implementati solo dopo una decisione giudiziaria definitiva e in conformità con i decreti presidenziali formali. Se le esecuzioni sono segrete, hanno aggiunto, è solo per il bene della sicurezza nazionale irachena. L’Osservatorio ha ribadito l’accuratezza del suo rapporto; anzi, ha detto di avere la prova che un’altra ondata di impiccagioni ha avuto luogo il 15 ottobre, tre giorni dopo che era stata resa pubblica la notizia precedente. La pancia della balena della prigione di Nassiriya continua a ingoiare vite umane e a sputarle fuori solo da morte. L’Iraq liberato da Saddam Hussein rispecchia in pieno le sue vecchie abitudini, che sono poi le stesse del regime iraniano su cui il “nuovo Iraq” si regge: la persecuzione dei nemici politici, la pratica della tortura, e la stessa passione per la forca.