Il carcere secondo Delmastro e Piantedosi di Livio Pepino volerelaluna.it, 29 novembre 2024 Il carcere scoppia: il 31 ottobre i detenuti hanno raggiunto il numero di 62.110 superando di nuovo, dopo 13 anni, la soglia, delle 62.000 presenze; i suicidi di persone detenute sfiorano le 80 unità; gli atti di autolesionismo non si contano; l’ordine nei luoghi di detenzione è assicurato solo da una violenza diffusa e dall’uso generalizzato di psicofarmaci. A fronte di questa emergenza - che, in attesa di più ampi interventi di sistema, richiederebbe, quantomeno, un provvedimento di amnistia e indulto - la risposta del disegno di legge governativo n. 1660 attualmente in discussione al Senato (dopo essere già stato approvato dalla Camera il 18 settembre scorso) è la previsione di 14 nuovi reati e di altrettanti aumenti di pena, in continuità con una scelta che ha portato, negli ultimi due anni, all’introduzione di 48 nuovi reati. Ciò comporterà un maggior numero di condanne e pene più elevate e, dunque, più carcere: superfluo dirlo, accentuandone contemporaneamente il carattere classista, posto che i soli reati depenalizzati sono quelli tipici dei “colletti bianchi”, a cominciare dall’abuso d’ufficio. Ciò sollecita qualche puntualizzazione. L’aumento del carcere non è la conseguenza di una crescita dei reati ma una scelta politica di governo della società, come dimostra la circostanza che il tetto della criminalità, nel nostro paese, è stato raggiunto nel 1991, quando i detenuti erano circa 35.000 (35.469 al 31 dicembre) e, dunque, la metà (o poco più) di quelli odierni. Il modello di riferimento è quello degli Stati Uniti dove il diritto penale classico (che commisura la pena in base all’entità del reato) è stato sostituito da un diritto d’autore che punisce le persone non per quello che hanno fatto ma per quello che sono, sino all’assurdo di punire con il carcere a vita, in caso di recidiva, il furto di tre mazze da golf, di una pizza o di una merendina (cfr. E. Grande, Il terzo strike. La prigione in America, Sellerio, 2007). La conseguenza è che i condannati all’ergastolo presenti nelle carceri statunitensi sono, oggi, oltre 200.000 (pari a uno ogni 1.500 abitanti), che i penitenziari sono gestibili solo con un surplus di coazione e di violenza e che questo compito viene spesso delegato ai privati. Il Governo è, evidentemente, consapevole della ingovernabilità di un carcere sovraffollato. E dunque, in attesa di importare il modello americano (evocato implicitamente dal sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro: quello che - in una con la presidente del Consiglio - gioisce alla prospettiva di “togliere il respiro ai detenuti in regime di massima sicurezza”), corre ai ripari, prevedendo una stretta repressiva anche al suo interno. Lo fa con lo stesso disegno di legge 1660, prevedendone una drastica blindatura attraverso la previsione del delitto di “rivolta” in istituto penitenziario, sanzionato con pene da due a otto anni di reclusione per gli organizzatori e da uno a cinque anni per chi vi partecipa. Il termine “rivolta” evoca strutture messe a ferro e fuoco, inferriate e cancelli divelti, agenti di custodia presi in ostaggio e quant’altro. Niente di tutto questo, peraltro, nel nuovo reato che ha come oggetto “atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti, commessi da tre o più persone riunite”, con l’esplicita precisazione che “costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”. In concreto dunque, se sarà approvato il disegno di legge, incorreranno nel reato di “rivolta”, per esempio, i detenuti che, in gruppo (anche minuscolo) e disattendendo gli ordini ricevuti, rifiuteranno, per protesta, di rientrare in cella dall’aria, o di assumere il cibo, o di recarsi alle docce, impedendo così al personale penitenziario di chiudere le celle, di liberare la mensa etc. La novità normativa è dirompente sotto molteplici profili, che vanno oltre le stesse mura del carcere. In particolare: a) viene, per la prima volta in modo esplicito, considerata illecita la “resistenza passiva”, sino ad oggi ritenuta, anche in giurisprudenza, penalmente irrilevante. Non a caso la norma è stata definita, nel dibattito giornalistico, “emendamento anti Gandhi”. Merita aggiungere che la previsione, oltre ad essere grave in sé proprio perché colpisce soggetti già privati della libertà personale, introduce nel sistema un precedente dotato di potente capacità espansiva, che potrebbe ripetere la (triste) esperienza del Daspo, introdotto inizialmente (nel 1989) per una categoria marginale come quella dei tifosi violenti e diventato negli anni uno strumento ordinario di governo del territorio; b) sempre per la prima volta vengono sostanzialmente equiparati al carcere, con estensione delle pene per il reato di “rivolta” (con una piccola diminuzione), tutti i luoghi di accoglienza per migranti (e, dunque, non solo i Cpr, ma anche i Cara e gli hotspot), così cristallizzando il processo in forza del quale i migranti sono considerati non potenziali autori di reati ma “reati in sé”, per il solo fatto di esistere; c) nella disciplina del reato di istigazione a disobbedire alle leggi si introduce un’aggravante in forza della quale la pena (della reclusione da sei mesi a cinque anni di reclusione) è aumentata fino a un terzo “se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute”. Si completa così l’iter di disciplinamento e gestione separata del carcere (anch’essi suscettibili di estensione ad altre istituzioni totali) e di creazione di terra bruciata intorno allo stesso. Il governo repressivo del carcere e della società è sempre più una realtà. 83 suicidi dietro le sbarre: verso un nuovo record di Angela Stella L’Unità, 29 novembre 2024 In due giorni altri due detenuti si sono uccisi (a La Spezia e Cagliari). L’anno peggiore è stato il 2022 con 84 casi. La Uil-Pa: “Chi potrebbe agire non lo fa”. Serracchiani: “Carcere emergenza nazionale”. “Per contrastare il fenomeno dei suicidi abbiamo investito molto sul potenziamento della rete di assistenza psicologica e sull’opera di reclutamento di adeguato personale specializzato per rispondere a queste crescenti esigenze”: così due giorni fa il Ministro della Giustizia Nordio rispondeva ad una interrogazione parlamentare circa gli atti di autolesionismo negli istituti di pena. Peccato che ieri siamo arrivati all’83esimo suicidio in carcere, come reso noto dalla Uil-Pa: “44 anni, spezzino, detenuto per resistenza, violenza e minaccia a pubblico ufficiale e in attesa di primo giudizio, si era impiccato nella sua cella il 12 novembre scorso. Immediatamente soccorso, era stato condotto in ospedale in fin di vita. Nel pomeriggio di ieri (due giorni fa, ndr) sono terminate le sue sofferenze”. Solo il giorno prima se n’era stato un altro in Sardegna: “27 anni, cagliaritano, si era impiccato nella sua cella del carcere del capoluogo sardo la settimana scorsa. Subito soccorso, era stato condotto in ospedale in condizioni disperate. Nella notte è deceduto”. Siamo dinanzi ad una spirale di morte, ad una strage senza fine che perdura nell’indifferenza di chi potrebbe agire e non lo fa. “Nel 2022, anno tristemente record, i suicidi furono 84. Mancano 33 giorni alla fine dell’anno - rileva Gennarino de Fazio (Uilpa) e, nostro malgrado, il periodo delle festività natalizie è spesso connotato dalla recrudescenza dei fenomeni autolesionistici e autosoppressivi”. “Il carcere ormai è una vera e propria emergenza nazionale” ha sottolineato la responsabile giustizia del Pd, Debora Serracchiani, a margine di una conferenza stampa a Montecitorio organizzata dal Coordinamento nazionale comunità accoglienti. “Riteniamo - ha aggiunto - che ci siano delle persone che non devono neanche entrarci: sono quei detenuti che hanno un disagio psichiatrico, hanno una dipendenza o addirittura una doppia diagnosi sia psichiatrica che di dipendenza. In carcere non solo non possono essere curati, ma non riescono neppure a migliorare quelle che sono le loro condizioni. A queste persone dobbiamo fare una proposta alternativa”, ossia “l’affidamento in prova e l’ingresso nelle comunità terapeutiche. Quest’ ultime oggi ci dicono che hanno posti a disposizione”. Tuttavia, “manca la volontà politica di far sì che queste persone invece di stare in carcere possano andare in quelle comunità. Questo è un problema di sicurezza anche per noi che siamo fuori. Prima o poi quei detenuti escono, se escono peggio di come sono entrati è un problema di sicurezza anche per noi”, ha concluso Serracchiani. E anche su questo aspetto le parole del Guardasigilli in Aula sono apparse inutili e svincolate dalla realtà nel momento in cui ha detto “Sono stati previsti, e questo è importante, nuovi percorsi di comunità per i detenuti di disagio psichico e i tossicodipendenti”. Insomma tante promesse, pochi fatti ma purtroppo troppe morti nelle mani dello Stato. Intanto il deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, ha presentato una interrogazione parlamentare, sottoscritta dai partiti di opposizione insieme a Forza Italia e Lega, rivolta proprio a Nordio e al Ministro della Salute Schillaci per fare luce su tutte le morti che ci sono state in carcere dall’inizio dell’anno, tra suicidi, omicidi, problemi di salute. Il tutto parte da una proposta, accolta dall’Unione Camere Penali, avanzata da Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, volta alla promozione di una campagna di ricerca e conoscenza sulle condizioni di salubrità delle strutture penitenziarie “che, ai sensi dell’art. 11, commi 13 e 14, OP, devono essere attestate dalle ASL territoriali competenti per ogni istituto”. Infatti, “ogni direttore generale dell’ASL deve disporre, almeno due volte l’anno, una visita degli istituti penitenziari, ricadenti nel territorio di sua competenza, finalizzata ad accertare, anche in base alle segnalazioni ricevute, ‘l’adeguatezza delle misure di profilassi contro le malattie infettive e le condizioni igieniche e sanitarie degli istituti. Ma questo avviene davvero si chiedono Bernardini, Giachetti e l’Ucpi, guidata da Francesco Petrelli? Come si sa anche dalle numerose visite effettuate si assiste a “evidenti fenomeni di infiltrazione d’acqua, di ammuffimento dei locali, specie di pernottamento, rilevante degrado degli arredi e dei servizi igienici, vergognose infestazioni di cimici, scarafaggi e topi, carenze e disfunzioni del servizio sanitario intra moenia incidono pesantemente sulla qualità della vita, sull’aria che si respira all’interno degli istituti e sulla condizione di salute di tutti i detenuti e degli operatori penitenziari”. In un periodo, come quello attuale, in cui si registra, tra l’altro, un sovraffollamento disumano (133,25%) con 62.323 detenuti presenti su una disponibilità effettiva di 46.759 posti secondo i proponenti “il diritto alla conoscenza e alla trasparenza diffusa sulle condizioni igienico-sanitarie delle nostre carceri rappresenta per noi un ulteriore tassello per riaffermare l’indifferibile urgenza di interventi davvero incisivi”. Morte in carcere, l’emergenza si aggrava ma è calato il silenzio di Associazione Luca Coscioni windpress.info, 29 novembre 2024 Dopo l’83esimo suicidio in carcere, l’Associazione Luca Coscioni, che ad agosto scorso ha diffidato le 102 ASL competenti per la salute dei 189 istituti di pena italiani, torna ad appellarsi alle istituzioni perché si assumano le responsabilità di rispettare i diritti umani degli oltre 62.000 ristretti in Italia. “Malgrado l’aggravarsi della situazione” ha dichiarato Marco Perduca che per l’Associazione Luca Coscioni coordinate le attività per la salute in carcere “l’attenzione di Governo e Parlamento alla cosiddetta emergenza sovraffollamento è scomparsa. Neanche la metà delle 102 ASL che abbiamo diffidato ci ha risposto e nessuna ci ha fatto sapere cosa abbia rilevato nelle visite di controllo in carcere. “Per questi motivi” prosegue Perduca “sono in corso altrettante richieste di accesso agli atti per capire come siano state fatte le visite e cosa abbiamo registrato. Tra l’altro lo scorso 27 novembre è stato divulgato il rapporto dell’Osservatorio penitenziario adulti e minori elaborato su statistiche del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e del Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità aggiornate al 25 novembre 2024 che conferma il cronico sovraffollamento, disomogeneità regionali e inagibilità strutturali. Ma non si ha notizia di dibattiti o “indignazione” istituzionale”. “L’aspetto della relazione che desta maggior preoccupazione” denuncia Perduca “è l’assenza di informazioni relative ai servizi socio-sanitari all’interno degli istituti penitenziari, pilastro della tutela della salute di chi è privato della libertà. I pochi dati, presentati peraltro in maniera discontinua, possono forse delineare il contesto nella sua globalità ma non consentono di comprenderne a fondo le dinamiche e le specificità istituto per istituto. Possibile che il Ministro Nordio continui a disinteressarsene? Cos’ha da dire il DAP? Che fine ha fatto l’indagine conoscitiva della Commissione giustizia della Camera?”. Non appena arriveranno i documenti richiesti l’Associazione Luca Coscioni avvierà ulteriori iniziative di messa in mora della violazione dei diritti umani in carcere. I reati, le pene e la nostra idea della giustizia di Stefano Allievi Corriere del Veneto, 29 novembre 2024 È un bene che si sia aperta la discussione sulla condanna di Filippo Turetta, sull’utilità dell’ergastolo, sui limiti della difesa. È un bene, perché quello della giustizia e della pena è un tema cruciale per la convivenza civile, ma pur essendo tra i più discussi è anche tra quelli meno ragionati nei suoi fondamentali, nelle sue implicazioni, nella sua efficacia, anche. Tutti piangiamo le vittime, tutti vorremmo la condanna dei colpevoli, tutti chiediamo giustizia. Ma in concreto, cosa significa? L’idea di giustizia, certo, ha a che fare con la violazione delle norme, e la punizione del colpevole. La giustizia è fondativa perché la violazione della norma, se non punita, mette in crisi la fiducia nella società, la sua stabilità, la sua stessa esistenza. Ecco perché l’ordine va ripristinato, anche ritualmente (non a caso il processo è esso stesso un rituale, una sacra rappresentazione, con i suoi sacerdoti, i paramenti, i comandamenti, i giuramenti…). Ma basta, tutto questo? E basta la galera per risolvere il problema? Temiamo di no. Perché c’è un ordine civile, sociale, e un ordine morale, che non a caso, all’origine, si sovrapponevano: è per questo che il carcere si chiama anche penitenziario (dove si fa penitenza, non solo dove si sconta la pena, la condanna), e quello minorile correzionale (dove c’è la possibilità di correggersi, di cambiare), e pena significa sia dolore che castigo. E tuttavia della funzione morale c’è sempre meno traccia. Il carcere (che vuol dire recinto) dove mettiamo il prigioniero (da prehensus: preso, chiuso) svolge pochissimo la funzione rieducativa che pure prevedrebbe l’articolo 27 della Costituzione: e sempre più ha una mera, seppure ovviamente necessaria e imprescindibile, funzione repressiva, non di rado vendicativa (come quando ripetiamo la frase “chiudiamoli in cella e buttiamo via la chiave”). Con il risultato che i tassi di recidiva sono elevatissimi, e a seconda dei reati possono arrivare a due terzi dei detenuti: il che significa che il carcere finisce per non servire a null’altro che a svolgere una funzione immobilizzativa - un mero parcheggio umano. Ma è paradossale: se la scuola producesse due terzi di bocciati, ci interrogheremmo su come è organizzata, a cosa serve, se svolge correttamente la sua funzione. Perché il carcere no? Forse perché abbiamo ridotto la giustizia a mero tecnicismo, in cui solo dei terzi non coinvolti (giudici, avvocati) agiscono, e le persone direttamente interessate (il colpevole, la vittima, i familiari) non svolgono alcun ruolo, e quasi non hanno diritto di parola: con il risultato che diventa più difficile la riflessione autentica, e la stessa presa di coscienza del male che si è fatto, con le evidenti conseguenze in termini di ripetizione del medesimo. Certo, ci sono ottime ragioni perché sia così: la giustizia è un bene che va garantito a tutti. E non ci sono facili ricette per modificare la situazione. Ma una riflessione collettiva forse andrebbe fatta. Ripensando le forme della giustizia, gli spazi possibili di mediazione, il ruolo delle pene alternative, la necessità di un lavoro rieducativo vero (per il quale si spende invece, in proporzione ai costi totali, pochissimo), i suoi costi rispetto ai suoi benefici, anche. Toccando pure la questione spinosa dei limiti stessi della pena. Lo abbiamo fatto in passato con l’abolizione della pena di morte. Forse, nella medesima ottica, si può ragionare rispetto all’idea stessa di ergastolo, di “fine pena: mai”. Certo, conosciamo la difficoltà di affrontare questi ragionamenti, il bisogno immediato e profondo che abbiamo di ripristino dell’ordine, il diritto a vedere riconosciuto simbolicamente e praticamente il torto fatto, il diritto/dovere di veder pagare per il male compiuto, il risarcimento dovuto alle vittime e alla società tutta, le cui norme di convivenza sono state violate. Senza tutto questo la società non esisterebbe, e dunque si tratta di un bene prezioso, che va salvaguardato. Ma proprio per questo abbiamo bisogno di interrogarci sulle sue forme e in definitiva sulla sua efficacia, nel breve e nel lungo termine. Anche, forse soprattutto, per questioni di principio, alte, morali, fondative. La svolta di Meloni sulla giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 29 novembre 2024 Premierato? Calma. Autonomia? Muoversi in sordina. Carriere separate e nuovo Csm? Sbrigarsi. Il governo cambia le priorità e punta sul garantismo. Storia di una svolta identitaria, calendario alla mano (e una legge in arrivo). C’è una novità importante nella politica italiana, o meglio nella politica del governo, e quella novità coincide con una decisione a sorpresa comunicata la scorsa settimana da Palazzo Chigi al ministero della Giustizia e trasferita poi a sua volta dal ministro Carlo Nordio a tutti i capigruppo dei partiti che sostengono la maggioranza di governo. Una novità che riguarda un’inversione di rotta significativa, relativa alle priorità dell’esecutivo, e che coincide con una scelta fatta dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che può permettere al governo di trovare, almeno su questo tema, un’unità vera. La novità ha a che fare con la decisione del capo dell’esecutivo di non considerare più una urgenza assoluta, in termini di tempistiche, l’approvazione della legge sul premierato e l’approvazione della legge sull’autonomia e di dare invece “priorità massima” all’approvazione del ddl sulla giustizia, già approvato in Consiglio dei ministri, contenente la separazione delle carriere e la riforma del Csm. La ragione è duplice, oltre che saggia. Da un lato vi è la volontà, da parte del governo, di poter trovare una bandiera identitaria da sventolare in grado non di dividere ma di unire la maggioranza e di spaccare anche le opposizioni. Dall’altro lato vi è la volontà, da parte della premier, di creare le condizioni affinché prima del ritorno alle urne nel 2027 vi sia un solo referendum costituzionale da celebrare in Italia: non quello sul premierato, troppo scivoloso, troppo divisivo, ma quello sulla giustizia. I calcoli sono semplici e il calendario può aiutare a inquadrare il tema, insieme politico e identitario. Il ddl sulla giustizia è calendarizzato alla Camera il 9 dicembre. L’indicazione del governo è approvare al Senato il testo senza modifiche entro marzo e approvare poi in seconda lettura tutto il ddl entro settembre, o comunque entro la fine del 2025, per poi prepararsi a celebrare il referendum, che il governo vuole, nei primi mesi del 2026. Al contrario, invece, il premierato è fermo, bloccato al Senato. A Palazzo Madama, il testo è stato approvato in prima lettura il 18 giugno 2024. Cinque mesi dopo, nessun movimento, nessun passo in avanti e anzi un passo indietro messo in agenda: il testo potrebbe andare alla Camera nei primi mesi del 2025, ma nel farlo è già previsto che a Montecitorio vengano cambiati alcuni punti del ddl (il secondo incarico a un secondo premier, per esempio, e il riferimento da eliminare al premio di maggioranza, perché la legge elettorale è una legge ordinaria e non può essere contemplata all’interno di una legge costituzionale), e dunque si ripartirebbe da zero e l’indicazione del governo è di non accelerare su questo fronte nella maniera più assoluta, non per affossare la riforma ma per far sì che un eventuale referendum possa essere celebrato non in questa legislatura ma nella prossima. Stessa storia sull’autonomia, in buona parte svuotata dalla Corte Costituzionale, che la maggioranza deve cominciare a riscrivere per correggere le parti annullate dalla Consulta e tentare così di evitare un altro referendum anche se non costituzionale. L’investimento politico sulla giustizia segna una discontinuità netta rispetto alla fine del 2023, quando Meloni chiese invece di dare priorità assoluta al premierato, preoccupata dal fatto che le liti con i magistrati potessero creare tensioni eccessive attorno al governo, e la volontà di trasformare le riforme sulla giustizia nel vero tratto identitario del governo Meloni è testimoniata anche dal fatto che in queste ore la maggioranza sta lavorando a una nuova legge sulle carceri per arrivare all’obiettivo di distinguere le strutture penitenziarie nelle quali far scontare le misure cautelari, separando i destini di coloro che hanno una pena definitiva da coloro che invece devono considerarsi presunti innocenti. Il calcolo di Meloni è interessante: un governo litigioso che finora ha fatto della prudenza il suo tratto distintivo deve necessariamente trovare un tema su cui costruire un’identità, un nuovo collante, e su cui costruire anche una narrazione in grado di creare consenso, provando a spaccare anche l’elettorato avversario, e quel tema potrebbe essere il tentativo di far emergere una polarizzazione tra una parte politica che, con mille contraddizioni, combatte per il garantismo, per la separazione dei poteri, per la limitazione delle esondazioni delle procure, e una parte politica che invece sui temi della giustizia potrebbe avere difficoltà a emanciparsi dal verbo grillino e dall’agenda fondata sulla gogna. La novità c’è ed è gustosa e immaginare di avere una destra meno impegnata a dividersi sulle fregnacce, detto con rispetto, e più desiderosa di intervenire sui tabù del paese potrebbe essere una notizia positiva, in grado di riequilibrare il profilo raccapricciante mostrato dal governo finora sulla giustizia, la cui deriva securitaria, fatta di populismo penale e nuove pene su ogni reato di grande interesse mediatico, ha messo in secondo piano ogni timido sforzo garantista del governo Meloni. Giustizia riparativa, la via per riconciliare vittima e colpevole di Francesco Occhetta* Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2024 Conciliare perdono e giustizia è una sfida antica. Nell’immaginario collettivo, la giustizia è personificata da Dike, la dea greca della giustizia, munita di bilancia e spada, simboli di proporzionalità e forza. Su questa figura si sono modellate le nostre leggi. L’esperienza biblica ci offre in controluce l’immagine dei giusti che con un ago e un filo ricuciono le ferite del mondo, sono presenti in ogni ambito della nostra vita - dalla famiglia, alla scuola, dal lavoro alla politica -, e ci ricordano che la giustizia è ristabilire le relazioni che si spezzano. Eppure nella storia la giustizia è stata intesa in termini retributivi (punizione del colpevole) o rieducativi (riabilitazione del reo). Solamente negli ultimi cinquant’anni, si è affermata la prospettiva della giustizia riparativa, che pone al centro la riparazione del danno e la riconciliazione tra vittima e reo. Capitato che la vittima chieda sempre alti risarcimenti ma dopo aver incontrato il reo ne chieda molti meno, la differenza era il prezzo del dolore inespresso. I principali libri dei profeti si aprono con il rib, un modello giuridico in cui Dio ricuce il tradimento del suo popolo a partire da una domanda: “Perché mi hai tradito?” e con un cammino di riconciliazione fondato sulla verità di ciò che è accaduto. La Genesi racconta storie di conflitti violenti tra fratelli come quelli tra Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Giacobbe e Labano. Si diventa giusti per cultura, non a caso scegliamo di essere giustizialisti e rigoristi oppure tra permissivisti e indulgenti, fino a quando il problema ci tocca direttamente nella carne. Anche l’Ai ci restituisce una definizione di riparazione quasi perfetta, manca però il dolore delle vittime, ciò che intercetta il cuore la macchina non riesce a definirlo. Il perdono può solo passare dalla riparazione e dall’intelligenza umana. Il padre della riparazione nata negli anni Settanta, Howard Zehr la definisce un modello “che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo”. È la giustizia dell’incontro e del perdono, altrimenti la lancetta del tempo per le vittime si blocca sul momento del reato. I codici illuministici, in cui lo Stato si sostituisce alla vittima, hanno bisogno di recuperare la fraternità dimenticata tra l’uguaglianza e la libertà. Lo ribadisce chi ha sofferto come Grava Machel Mandela quando lo scorso maggio è stata invitata dalla Fondazione Fratelli tutti insieme a molti altri Nobel. In Ruanda, dopo 80o mila morti la riparazione è entrata nel modello della Caciacia; in Congo in quello della Palabra, in Sud Africa ha funzionato la Commissione di verità e giustizia di Mandela, nel nord Europa per alcuni reati che includono addirittura gli abusi, in Brasile il modello nel modello delle Apac, in molti Ordinamenti la riparazione regge il diritto minorile. Il rapporto giustizia e perdono nella Bibbia si basa su alcuni principi: Dio condanna il male e salva la persona, non si vendica di Caino, la sua dura pena lo farà diventare padre di una generazione e costruttore di città. Secondo: in Israele la responsabilità nell’esecuzione penale è oggettiva, quando si macchia la terra del sangue del fratello deve essere bonificata dalla società altrimenti non darà più frutto per nessuno. Infine, occorre tempo per fecondare la giustizia di umanità. Nella storia di Giuseppe, venduto dai suoi fratelli, è solo con il passare degli anni e grazie a un cammino di espiazione che loro potranno vederlo con occhi nuovi quando dirà “sono io vostro fratello Giuseppe”. Secondo il Papa, la cultura dello scarto ci porta a considerare come usa e getta non solo gli oggetti, ma anche le relazioni umane, mentre il cammino è quello della riparazione. Il perdono provoca anche la politica: occorre prevenire i reati agendo sulle cause, come le disuguaglianze sociali, la corruzione e la mancanza di opportunità. Si puniscono tossicodipendenti e donne costrette a trasportare droga nel proprio corpo, ignorando i veri responsabili: i grandi trafficanti. Non c’è altra via: l’alto tasso di recidiva e il sovraffollamento delle carceri, la lunghezza dei processi e le sentenze che si limitano a stabilire la verità processuale ma non quella sostanziale vanno ripensati come modello. Il pericolo è dietro l’angolo, in nome della giustizia si può condannare il giusto e salvare il malfattore, come nel processo a Gesù. Il volume simbolo della riparazione del gesuita Wisnet, Pena e retribuzione, è dedicato ad Hans un giovane che dopo la prigione si impicca lasciando scritto “perché gli uomini non perdono mai”. È un monito che lascia senza fiatare. Invece la giustizia informata dal perdono non creerà il paradiso, ma almeno arresta l’inferno delle vendette e delle pene esemplari. *Docente alla Pontificia Università Gregoriana I giudici non eccedano in discrezionalità, ma la politica faccia il suo di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 29 novembre 2024 Mantovano parte da presupposti giusti. L’autocontenimento dei magistrati, però, presuppone condizioni chiare: un riorientamento culturale all’interno dell’universo magistratuale, oltre al recupero da parte della politica della capacità di dare risposte non illusorie ai bisogni e alle aspettative dei cittadini. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, intervenendo a un recente convegno sul principio di legalità organizzato dalla Corte dei conti di Firenze, ha svolto considerazioni meritevoli di attenzione. In sintesi, la questione problematica al centro dell’interesse di Mantovano riguarda l’attuale modo di atteggiarsi del rapporto tra principio di legalità e principio democratico negli odierni ordinamenti costituzionali multilivello: rapporto a suo giudizio sbilanciato a favore del primo principio (così come gestito dalla giurisdizione, sia nazionale che sovranazionale), con conseguente mortificazione della sovranità popolare quale si esprime nelle scelte di indirizzo politico. Inoltre, egli lamenta che, a causa della complessità e incertezza delle fonti del diritto derivanti dalla intricata compresenza di norme interne e di norme di provenienza esterna, lo stesso principio di legalità smarrisce la sua funzione orientativa e cresce nel contempo il potere creativo dei giudici, in violazione del principio costituzionale che li vorrebbe soggetti alla legge. Questi preoccupati rilievi, occasionati - come il sottosegretario riconosce - da vicende conflittuali dei nostri giorni in materia di immigrazione, finiscono col riproporre l’enorme e ricorrente problema dell’interazione tra politica e diritto nelle democrazie costituzionali contemporanee: problema non solo molto rilevante sul piano della prassi, ma non a caso assai dibattuto in sede accademica con approcci differenziati (cui qui non è possibile neppure accennare per limiti di spazio). Una diagnosi differenziale, abbastanza condivisa nella riflessione teorica, è tuttavia questa: lo stato europeo-continentale ottocentesco era uno stato “legislativo”, nel quale cioè la legge prodotta dal potere politico costituiva la fonte suprema, per cui il legislatore era signore del diritto; mentre lo stato costituzionale secondo il modello novecentesco è caratterizzato dalla soggezione dello stesso legislatore a una fonte normativa superiore, costituita dalla Costituzione. Sicché, anche la soggezione del giudice alla legge va intesa come soggezione non alla sola legge ordinaria, bensì prima ancora alle norme costituzionali; da qui il potere-dovere dei giudici di vagliare la conformità ai princìpi costituzionali delle norme approvate in sede politica, sollevando eccezioni costituzionalità dinnanzi alla Corte costituzionale, oppure - come la stessa Consulta ammette e richiede - prospettando (ove possibile) interpretazioni costituzionalmente orientate. Mutatis mutandis, un discorso analogo, per effetto del costituzionalismo cosiddetto multilivello, vale rispetto alla verifica giudiziale di compatibilità tra norme interne e norme sovranazionali (così come, a loro volta, vincolativamente interpretate dalle Corti extranazionali competenti). Se così è, aumenta appunto il potere interpretativo della magistratura, con un coefficiente di discrezionalità valutativa tanto tanto maggiore quanto meno certa risulta la norma applicabile o la sua interpretazione. E non vi è dubbio che questo accresciuto potere ermeneutico possa dar luogo a conflitti anche aspri o a incomprensioni anche gravi tra politica e giustizia, nei casi in cui i politici avvertono il controllo giurisdizionale come invasivo, o comunque troppo limitativo della libertà di decisione politica espressione della sovranità popolare. Proprio questa sovranità del popolo Mantovano intende difendere e preservare: restituendo alla politica, e sottraendoli il più possibile alla giurisdizione, soprattutto quei “bilanciamenti tra diversi interessi, diritti, doveri e valori” in cui si riflette la sostanza democratica di un ordinamento giuridico e che, come tali, dovrebbero spettare a organi che rappresentano i consociati, e quindi la loro sovranità. Orbene non credo che così argomentando Mantovano, politico di vaglia ed ex magistrato di alto livello, auspichi un ritorno allo stato legislativo ottocentesco (a parte, forse, qualche nostalgico vagheggiamento). Piuttosto, ho motivo di ritenere che gli stia a cuore l’esigenza di un tendenziale equilibrio, di una interazione collaborativa tra i poteri istituzionali, che può peraltro essere in se stessa condivisa in maniera trasversale agli schieramenti politici. Si tratta perciò di distinguere, nel suo complessivo argomentare, le parti che meritano consenso da quelle più discutibili. Cominciando da queste ultime, un punto fondamentale non scontato riguarda la concezione della sovranità nel contesto di una democrazia costituzionale. Va ancora intesa come spettante esclusivamente al popolo e ai suoi organi rappresentativi? È questo il modo di intenderla più conforme al senso comune, e tuttora predominante in non pochi settori del mondo politico-giornalistico. Ma, in sede di riflessione teorica, non sono poche le voci - riconducibili a studiosi qualificati di diversa provenienza disciplinare - che tendono a reinterpretare la sovranità democratica in maniera “dualistica”, cioè fondata sulla sovranità popolare e al tempo stesso sulla tutela dei diritti fondamentali da parte del potere giudiziario. Un approccio troppo professorale? Forse. Esso però consente di ritenere più compatibili (o meno incompatibili) principio democratico e giurisdizione costituzionale, con l’attribuzione a quest’ultima della funzione (cosiddetta contromaggioritaria) di salvaguardare i principi costituzionali, tenendoli al riparo dalle fluttuazioni delle contingenti maggioranze politiche. D’altra parte, le norme costituzionali (o sovranazionali) richiedono, a loro volta, di essere interpretate e, specie quando vengono in rilievo norme che affermano principi indeterminati ad amplissimo spettro, la loro concretizzazione da parte dei giudici risulta aperta a più opzioni interpretative, invero influenzate anche da preferenze culturali e politico-ideologiche a carattere soggettivo. È pertanto da condividere l’esigenza, manifestata da Mantovano, che i giudici-interpreti non eccedano in discrezionalità, non si lascino andare a una sorta di libertinaggio argomentativo, ma assumano un atteggiamento di self-restraint, di autocontenimento, come anche chi scrive ha più volte auspicato su questo giornale (cfr. ad esempio il Foglio del 9 maggio 2023). Ma questo auspicabile contenimento presuppone alcune condizioni. Da un lato, un riorientamento culturale all’interno dell’universo magistratuale, che sia in grado di contrastare l’accentuato attivismo giudiziario, contestandone la legittimazione alla stregua di una rivitalizzazione del principio della divisione dei poteri; e, dall’altro, un recupero da parte della politica di una credibile cultura democratica e della capacità di dare risposte non illusorie ai bisogni e alle aspettative dei cittadini, a cominciare da quelli più disagiati. Insomma, essendo la questione sistemica, occorrerebbe una convergenza virtuosa di entrambi i versanti, politico e giudiziario. È realistico confidare nella concreta possibilità futura di una tale convergenza? “Sulle carriere separate decideranno i cittadini: cosa temono le toghe?” di Valentina Stella Il Dubbio, 29 novembre 2024 Il viceministro Sisto a un evento di Aiga, Coa di Foggia e Anm: “Il giudice sia equidistante da pm e difensore”. “Separati in casa - Avvocatura, Magistratura e Istituzioni a confronto sulla separazione delle carriere” è il titolo di un evento organizzato ieri all’Università di Foggia dall’Aiga in collaborazione con l’Ordine locale degli avvocati e con l’Anm. “L’Aiga è stata sempre a favore” della modifica costituzionale ha esordito l’avvocato Mario Aiezza “come concretizzazione del giusto processo. È giusto che venga celebrato dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale nella parità tra accusa e difesa”. Intervenuto il vice ministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, che ha ribadito “come la geometria costituzionale prevista dall’art. 111” imponga “un giudice geneticamente equidistante da pm e difensore”. “Non si è mai visto - ha aggiunto - un arbitro della stessa città di una delle due squadre in campo”. Ha poi assicurato che “dovranno passare sul suo cadavere coloro che vorranno minare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura” ma a chi sostiene che con la riforma i poteri del pm aumenteranno ha replicato “che allora quelli del giudice cresceranno dieci volte”. Ha poi concluso: “a decidere sarà un referendum. Qual è il timore della magistratura? Non si può avere paura della democrazia diretta”. Per Giovanna Ollà, Segretario nazionale del Cnf: “Il tema ha conosciuto una evoluzione negli anni. Il Cnf, come ribadito nelle audizioni in cui siamo stati chiamati ad intervenire in Parlamento, ha espresso sempre una posizione adesiva, attraverso un approccio laico, usando argomenti logici e giuridici. Non ci siamo prestati a strumentalizzazioni politiche né a banalizzazioni argomentative. Noi ci siamo chiesti se l’articolo 111 della Costituzione fosse davvero rispettato e ci siamo resi conto che non è così, che occorre un completamento strutturale del giusto processo, che non è arrivato in questi anni. Quindi insieme all’Aiga, all’Ocf, all’Ucpi abbiamo ritenuto che sia necessario raggiungere una parità delle parti, separando le carriere tra magistratura requirente e giudicante”. Per Ollà poi “ex ante non si può sostenere, come fa la magistratura, che si corra il rischio che il pubblico ministero vada sotto il controllo dell’Esecutivo”. Si è detta infine “perplessa” e in “disaccordo” con il sorteggio dei membri del Csm: “L’anomalia del sistema correntizio la conosciamo bene ma non si può rinunciare ad una rappresentatività democratica”. Ha preso la parola anche la consigliera laica del centrodestra del Csm, l’avvocato Claudia Eccher, per la quale la riforma in discussione “è quella più necessaria per il Paese” in quanto “non esiste nel nostro sistema processuale una effettiva parità tra accusa e difesa”. La “patologia” avrebbe tra le diverse cause il fatto che “c’è uno squilibrio dei poteri, soprattutto nella fase delle indagini preliminare a favore del pm e a scapito del difensore”, dipendente anche dalla circostanza per cui “il giudice è appiattito sulle richieste” della magistratura inquirente. Per cui “la separazione delle carriere “riporterebbe equilibrio e più garanzie per i cittadini”. Tra le relazioni quella di Rocco Maruotti, componente di AreaDg del parlamentino dell’Anm: “siamo dinanzi ad una riforma dall’alto valore simbolico che ha il solo scopo di depotenziare la magistratura e il suo governo autonomo, e limitare il controllo di legalità sulla politica”. Maruotti ha criticato in particolare il sorteggio per i membri del Csm: “si prevede un sistema asimmetrico. Mentre per i membri laici se ne prevede uno temperato, e comunque affidato alle maggioranze politiche, per i magistrati si vuole un superenalotto - ha detto ironicamente -. Nordio ha modificato il postulato grillino dell’”uno vale uno” con “uno vale l’altro”“. Poi si è chiesto: “perché l’Alta Corte disciplinare deve essere destinata solo ai magistrati ordinari? O qualcuno è conoscenza di dati per cui il nostro disciplinare non funziona ma ce li facessero vedere oppure - e credo sia così - la politica vuole un controllo sui magistrati scomodi”. Sempre ieri l’ufficio di presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera ha deciso di riprendere il voto sugli emendamenti alla riforma martedì prossimo. Sul tavolo rimangono ancora un centinaio di emendamenti da esaminare. Il disegno di legge del Governo approderà in aula a partire da lunedì 9 dicembre. La Cedu “smonta” ancora il sistema di prevenzione di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 29 novembre 2024 All’esito della nota sentenza De Tommaso/Italia, che aveva giudicato troppo vaghe e, pertanto, prive di effetti precettivi le norme che definivano i casi di pericolosità sociale generica nei procedimenti di prevenzione, si è registrata la consueta levata di scudi, a difesa di questo “eccezionale strumento” che, secondo qualche visionario, “l’Europa ci invidia”. La giurisprudenza, persino quella costituzionale, si era così affrettata a dire che, sì, la Legge era di scarsa qualità, ma le sentenze ne avevano scolpito, nel tempo, un significato chiaro, definito, accessibile. Poco importava se, come sempre, il cesello dei giudici non avesse solcato il freddo marmo, ma la carne viva di tanta gente, sacrificata a questi esperimenti di ibridazione tra legge e sentenze. Occorreva salvare la prevenzione. E così è stato. Con eccessiva hybris, però, dal momento che il sistema non si è accontentato di autogiustificarsi ed autoassolversi, ma ha preteso di farlo “ora per allora”. La giurisprudenza, secondo se stessa, ha tassativizzato la norma con efficacia retroattiva. La reazione dello Stato, divenuta prevedibile solo nel 2015, si è abbattuta anche su condotte tenute, ad esempio, nel 1990. A fronte di tale monolitica autoreferenzialità, era dunque logico che passasse quasi sotto silenzio in Italia una recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, pubblicata lo scorso 26 settembre, che ha deciso il caso Gangemi/ Italia (Ricorso n. 59233/ 17). Una decisione che annichilisce nuovamente le velleità nazionali di perpetrare la “truffa delle etichette”. Anche questo caso, come il suo precedente più diretto - De Tommaso - riguardava una ipotesi di pericolosità generica. Ed anche in questo caso, il ricorrente lamentava l’assenza di base giuridica per l’applicazione della misura di prevenzione, sotto il duplice aspetto della chiarezza della norma e della prevedibilità della sanzione. Il governo Italiano ha contrastato il ricorso, ritenendo che il ricorrente, non avendo mai esperito il rimedio straordinario della revocazione, non avesse esaurito le vie giurisdizionali interne. Circostanza che avrebbe reso il ricorso irricevibile. Nel merito, ha eccepito la sufficiente definizione dei casi e dei modi dell’azione di prevenzione ad opera della giurisprudenza domestica. I giudici di Strasburgo hanno rigettato, con argomentazioni particolarmente dure, chiare e di elevato spessore, le tesi difensive pubbliche. Sul versante processuale, infatti, essi hanno dovuto ricordare al governo che la revocazione disciplinata dall’articolo 28 D. L. vo 159/ 11 - che, essendo impugnazione di carattere straordinario, non rientra in ogni caso nel novero dei procedimenti interni da esperire, per potersi rivolgere alla Cedu - è limitata alla rimozione delle misure di prevenzione patrimoniali, mentre il caso riguardava una misura personale. Una svista imperdonabile della parte pubblica, dunque. Ma è nel merito, che la sentenza spiega nuovi devastanti effetti sulla complessiva tenuta del sistema. La Corte Edu, infatti, ricorda innanzitutto che, nella sentenza De Tommaso/ Italia del 2017, non si era fatta alcuna distinzione tra le due ipotesi di pericolosità generica all’epoca censurate, ritenute entrambe prive di chiarezza e prevedibilità, ai sensi della Convenzione. Ciò contrasta con la tesi, avallata dalla Corte Costituzionale, che la norma in questione sia stata tassativizzata dalla giurisprudenza a far data dalle SSUU Spinelli (2015). Un altro colpo, dunque, alla qualità della Legge che fissa i requisiti soggettivi di pericolosità. Il concetto viene ribadito quando i Giudici di Strasburgo, nel prosieguo della motivazione, si dicono non convinti dell’argomentazione del governo Italiano, secondo cui la base giuridica delle misure di prevenzione sarebbe diventata prevedibile alla luce dell’interpretazione dell’articolo 1 del Cam fornita, in ultimo, dalla sentenza della Corte Costituzionale 24/ 2019. Il tema, peraltro, non viene neanche approfondito, sulla base della constatazione tranchant che la pronuncia del Giudice delle Leggi è successiva rispetto ai fatti del caso di specie. In poche righe, dunque, la Cedu smaschera la truffa della retroattività delle norme di prevenzione e soprattutto della “giurisprudenza tassativizzante”, che non vale a sanare il difetto di prevedibilità. Da un lato, dunque, la Corte europea continua a ritenere prive di “qualità” le disposizioni normative nazionali in punto di pericolosità sociale generica, reputando che la giurisprudenza non abbia emendato il vizio genetico della Legge. Dall’altro, sostiene in ogni caso che la produzione giurisprudenziale, anche ove idonea a tale scopo, non possa trovare applicazione ad ipotesi di fatto precedenti al consolidamento della interpretazione. Cadono, dunque (e nuovamente), due Moloch della prevenzione: la possibilità di attribuire alla giurisprudenza un ruolo significativo di formante della norma e la retroattività in malam partem. Mentre l’Italia continua a rimanere arroccata su posizioni ormai indifendibili. *Osservatorio misure di prevenzione e patrimoniali dell’Unione Camere Penali Italiane Il “caporalato” non si applica alla categoria degli insegnanti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2024 La Cassazione, sentenza n. 43662 depositata oggi, ricorda che il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro nasce in ambito agricolo e non può essere applicato al lavoro intellettuale. La fattispecie punita dall’articolo 603-bis del codice penale, ovvero l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro, non può essere applicata anche alle prestazioni intellettuali. La norma infatti nasce per combattere il “caporalato” nel settore agricolo e non può essere estesa per analogia. Del resto, né l’intelletto né il suo uso professionale possono essere ricondotti alla nozione di sfruttamento della “manodopera”. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 43662 depositata oggi, accogliendo il ricorso della presidente del Cda di una società cooperativa, attiva nella istruzione secondaria, contro la misura cautelare degli arresti domiciliari (comminatale anche per il reato di estorsione). Il Tribunale di Roma, in sede di riesame, aveva confermato la decisione del Gip secondo cui l’imputata avrebbe sottoposto i lavoratori a condizioni di sfruttamento approfittando dello stato di bisogno, nonché costretto alcuni di loro a restituire la retribuzione o ancora a lavorare sottopagati con la minaccia di non riassumerli. Tutto ciò in concorso con il Preside, la Segretaria e altri due responsabili degli istituti gestiti dalla cooperativa. Per dirimere la questione della applicabilità del reato previsto e punito dall’articolo 603-bis c.p. ad una simile caso, scrive la Corte, si deve guardare alla genesi della norma introdotta con un Dl (articolo 12 Dl 13 agosto 2011, n. 138, convertito poi dalla legge 14 settembre 2011, n. 148) come risposta al “sempre più allarmante fenomeno del caporalato agricolo soprattutto nelle campagne meridionali, che aveva dato luogo, quale immediato antefatto, allo sciopero dei lavoratori migranti occupati come braccianti nell’area di Nardò”. Inizialmente, la norma era strutturata solo sulla fattispecie specifica dell’intermediazione illecita. A distanza di cinque anni, con una disposizione inserita in una legge dedicata al settore agricolo (articolo 1, legge 199/2016) venne poi ampliata per ricomprendervi anche le condotte di chi direttamente “utilizza, assume o impiega manodopera sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”. Tuttavia, prosegue l’ordinanza, la norma non può essere estesa “per punire fattispecie originariamente non ipotizzate dal legislatore”. “Vi ostano non tanto il divieto di interpretazione analogica nel settore penale, quanto la collocazione della disposizione ed il testo stesso della norma”. La disposizione, infatti, è stata introdotta da una legge mirata al “contrasto ai fenomeni dello sfruttamento del lavoro in agricoltura” ed è inserita in un tessuto normativo costituito da reati come la riduzione in schiavitù, la tratta di persone, il traffico di organi prelevati da persone vive (oltre che prostituzione e pornografia minorile), vale a dire reati che colpiscono, su una scala elevatissima, la “personalità” individuale, fino al punto di annullarla. Infine, il dato testuale preclude l’applicazione della norma a categorie di lavoro che avvalendosi di prestazioni intellettuali, “esulano in radice dalla categoria dei lavori manuali, siano essi in ambito agricolo o artigianale o industriale”. La norma, infatti, si riferisce al reclutamento o all’utilizzazione di ‘manodopera’, termine semanticamente legato alla manualità e generalmente alla prestazione di lavoro privo di qualificazione, “nome collettivo all’interno del quale l’individuo e le sue capacità perdono significato a fronte della potenzialità produttiva che il gruppo di lavoratori può esprimere”. Tutto ciò è estraneo al lavoro intellettuale, tanto se esercitato in forma subordinata che nella libera professione, poiché “l’intelletto ed il suo uso costituiscono elemento identitario ed individualizzante che non può essere svilito, disperdendolo nella categoria generica della manodopera”. Né paiono soddisfatti gli elementi costitutivi dello stato di bisogno e dello sfruttamento dei lavoratori. Sotto il primo aspetto, si ritiene che non vada oltre la generica considerazione sociologica, inutilizzabile in questa sede per la sua vaghezza, l’identificazione dello stato di bisogno nel ‘generale contesto di crisi occupazionale’. Quanto allo sfruttamento delle vittime del reato, il Tribunale avrebbe dovuto verificare, alla luce dell’orario giornaliero estremamente contenuto ed alla circostanza che ai fini del punteggio conti il numero delle giornate lavorative a dispetto delle ore di servizio, “se, come si allude nel ricorso, la sottoscrizione dei contratti non corrispondesse ad una scelta di opportunità dei singoli docenti, attratti dalla prospettiva di acquisire punteggio a fronte di un impegno lavorativo minimale se non simulato”. La Cassazione ha dunque annullato l’ordinanza impugnata quanto al reato di intermediazione e sfruttamento. Ha invece rinviato al tribunale di Palermo per un nuovo giudizio quanto alle esigenze cautelari per il reato di estorsione. Non è infatti corretta la tesi difensiva secondo cui il reato va escluso per il solo fatto che i docenti fossero perfettamente consapevoli delle condizioni contrattuali. Su quest’ultimo punto, la Cassazione ricorda che recentemente si è ribadito che integra il delitto di estorsione la condotta di chi, avendo la possibilità di intervenire sul rinnovo dei contratti a termine dei dipendenti di una cooperativa, per costringere questi ultimi a soddisfare richieste illecite, minacci di interferire negativamente sulla decisione di rinnovare tali contratti, senza che ciò trovi alcuna giustificazione sul piano delle scelte aziendali. Emilia Romagna. Carcere ed esecuzione penale esterna: “Questo è un volontariato che fa cultura” volabo.it, 29 novembre 2024 Occorre sostenere la persona detenuta nel percorso di reinserimento sociale con una progettualità che inizia all’interno del carcere e prosegue all’esterno. Un obiettivo che non può essere raggiunto senza il contributo del volontariato penitenziario, vero e proprio ponte in grado di collegare il mondo esterno con la realtà interna del carcere. Una rete, quella delle associazioni di volontario, che va rafforzata e affiancata al fine di perseguire l’impegno diretto a rendere il sistema carcerario sempre più efficace nel garantire alla persona detenuta concrete possibilità di reinserimento sociale. La linea tracciata dal Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri nel report (Carcere, esecuzione penale esterna e volontariato: bisogni, idee e sfide fra presente e futuro) sulla rete del volontario carcerario in Emilia-Romagna trova consensi e sostanziale adesione degli intervenuti al convegno tenutosi nella sede dell’Assemblea legislativa regionale. Un meeting organizzato dallo stesso Garante nei locali dell’Assemblea legislativa, a Bologna, che negli ultimi due anni ha promosso numerosi incontri tra l’amministrazione penitenziaria e le realtà del volontariato attive sul territorio regionale, per fare il punto sull’attività del volontariato in carcere e aprire una riflessione sui problemi e le sfide che incontra nell’azione quotidiana al fianco della persona detenuta. “L’emergenza carcere c’è da sempre: è un problema che va affrontato con risolutezza perché la sofferenza dei detenuti è in preoccupante aumento” evidenzia Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana davanti a circa 200 persone, tra volontari e addetti ai lavori. “Il report sul volontariato carcerario presentato oggi - aggiunge - propone soluzioni adeguate, a partire da temi che possono sembrare marginali, ma che in realtà non lo sono, come l’assenza dei prodotti per l’igiene”. “Il ruolo del volontariato - conclude l’arcivescovo - è centrale nel sistema carcerario, anche perché contribuisce a fare cultura fuori da pregiudizi e distorsioni” “Il volontariato penitenziario rappresenta per il detenuto un supporto fondamentale per ripartire, durante la pena e al suo termine”, spiega Roberto Cavalieri. “Gli interventi a favore dei detenuti - prosegue - devono poter contare sulla collaborazione degli enti locali e dell’amministrazione penitenziaria. Dunque, serve lavorare insieme per superare le sfide che il carcere propone incessantemente”. Sul tema del lavoro in carcere, poi, il garante va contro gli stereotipi: “Non è detto che il lavoro sia l’antidoto per tutti i detenuti, anche perché non tutti possono ottenerlo. Serve, quindi, valutare percorsi diversi”. Inoltre, conclude, “i dati ci dicono che il lavoro in carcere non necessariamente è uno strumento utile a contrastare le recidive”. Diventa quindi fondamentale rafforzare quelle reti che operano sui territori per favorire la reintegrazione del detenuto nel sistema sociale conclusa la pena. Ne è convita Denise Minotti, magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di sorveglianza di Bologna), che ribadisce l’importanza del volontariato penitenziario per il reinserimento sociale della persona condannata, in quanto i volontari attivi in carcere hanno un impatto particolarmente incisivo sugli aspetti relazionali, affettivi e sociali della persona detenuta, offrendo un prezioso collegamento con una comunità da cui spesso si trovano esclusi. Incentrato sull’esecuzione penale esterna l’intervento di Aldo Scolozzi, dirigente penitenziario e direttore dell’Uiepe dell’Emilia-Romagna e Marche: “L’esecuzione penale esterna ha un grande peso, in Emilia-Romagna sono 10mila le persone seguite, e anche per questo ambito servirebbe un maggiore supporto del volontariato”. Presente anche il neonominato provveditore dell’Amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e delle Marche Silvio Di Gregorio: “Il carcere deve risolvere i problemi delle persone e la differenza la fa il mondo del volontariato, in quanto la reclusione può anche essere un’opportunità”. Nel corso del convegno sono intervenuti anche Mauro Palma (presidente dell’European penological center dell’Università Roma Tre), Marco Bonfiglioli (direttore dell’Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e delle Marche), Paola Atzei (responsabile dell’area formazione di Volabo), che ha richiamato il ruolo delle istituzioni, a partire dagli enti locali, Alvise Sbraccia (professore di sociologia del diritto e della devianza all’Università di Bologna) e Ivo Lizzola (professore di pedagogia della marginalità, del conflitto e della mediazione all’Università di Bergamo). L’incontro è stato moderato da Riccardo Arena (giornalista di Radio Radicale, attivo sul tema carcere), che ha ricordato come le morti in carcere siano in costante aumento: “In Italia si contano più di 62mila detenuti per una capienza delle carceri di poco più di 51mila posti. La situazione è critica, tanto che quest’anno si registra il record di suicidi così come di morti per malattia: nel 2024 sono già 222 i morti in carcere”. Parma. L’insostenibile calvario di un detenuto paraplegico di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 novembre 2024 L’uomo, gravemente malato, vive un dramma sanitario. Ma nonostante l’incompatibilità con il regime penitenziario rimane ristretto. L’avvocato denuncia: “Trattamento inumano e degradante”. All’interno del nostro, sempre più disastrato, sistema penitenziario italiano, emerge un caso che solleva nuovamente interrogativi sulla tutela della salute dei detenuti: Umberto Lorusso, 46 anni, condannato a trent’anni di reclusione per un omicidio commesso nell’ambito di una faida mafiosa in Puglia, si trova intrappolato in una realtà che si scontra con le sue gravi condizioni di salute. Lorusso, detenuto presso la Casa di Reclusione di Parma, soffre di paraplegia, vescica neurologica e altre complicazioni derivanti da una lesione midollare causata da un colpo d’arma da fuoco. La sua quotidianità è scandita dalla necessità di assistenza costante per gestire un catetere e le difficoltà motorie, ma l’istituto penitenziario, come confermato da più relazioni sanitarie acquisite dal suo avvocato Giovanni Voltarella del foro di Bologna, non è in grado di garantire i trattamenti adeguati. Nonostante il carcere parmense sia dotato di una sezione sanitaria, come è noto da anni, la struttura non dispone delle risorse necessarie per un trattamento riabilitativo intensivo. Le condizioni del detenuto richiederebbero cicli di fisioterapia frequenti e assistenza medica specializzata, servizi che, secondo le stesse note del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) e della direzione sanitaria del carcere, non possono essere garantiti. L’assenza di cure adeguate ha già causato a Lorusso infezioni urinarie ricorrenti, perdita significativa di peso e un peggioramento generale delle sue condizioni. Tant’è vero che era stato ricoverato urgentemente in ospedale, per poi rientrare nuovamente appena scongiurata la morte. Tra le problematiche più gravi segnalate dall’avvocato difensore emerge la gestione della vescica neurologica, una condizione che impedisce al detenuto di svuotare correttamente la vescica. Durante la detenzione, Lorusso è stato costretto a urinare raramente, solo due volte a settimana tramite clisteri, con tempi estremamente lunghi e in condizioni precarie. Questa situazione non solo gli causa un peggioramento della qualità di vita, ma lo espone a rischi seri, come infezioni del tratto urinario che possono evolvere in complicazioni potenzialmente fatali. L’ammissione dell’incompatibilità - D’altronde, in un’ordinanza del marzo 2024, il magistrato di sorveglianza di Bologna ha riconosciuto l’incompatibilità relativa tra lo stato di salute del detenuto e il regime carcerario. Il magistrato ha sottolineato che, senza trattamenti riabilitativi intensivi adeguati, le condizioni di salute di Lorusso sarebbero inevitabilmente peggiorate, configurando una situazione contraria al senso di umanità. Per questo motivo, Lorusso è stato temporaneamente trasferito in una struttura sanitaria esterna, che però ha potuto ospitarlo solo per 45 giorni, lasciando irrisolta la questione di fondo. L’avvocato di Umberto Lorusso ha presentato diverse istanze al magistrato di sorveglianza per richiedere il trasferimento definitivo del detenuto in una struttura medica adeguata. L’ultima richiesta, avanzata nel settembre 2024, proponeva il ricovero presso la clinica Riabilia a Bari, una struttura che aveva confermato la disponibilità a ospitare il paziente per 60 giorni al fine di garantire le terapie fisioterapiche intensive necessarie. La difesa ha evidenziato la cronica carenza di cure adeguate all’interno della Casa di Reclusione di Parma, documentando che i trattamenti fisioterapici presso il carcere vengono somministrati in modo sporadico e insufficiente, con gravi conseguenze per la salute di Lorusso. Inoltre, l’avvocato ha sottolineato la perdita di oltre 15 kg da parte del detenuto e il peggioramento delle sue condizioni generali, culminate in una recente urosepsi che ha richiesto un ricovero urgente. Nonostante la clinica Riabilia avesse fornito garanzie sulle terapie, il magistrato di sorveglianza ha rigettato l’istanza con motivazioni che hanno sollevato perplessità. Il rigetto si basava su due punti principali: la presunta stabilità delle condizioni di salute di Lorusso e il timore che un rientro in Puglia potesse favorire il suo contatto con ambienti criminali, data la sua pericolosità sociale. Il magistrato ha inoltre ritenuto sufficiente la possibilità di proseguire i trattamenti in autonomia all’interno del carcere, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa e dalla consulenza medica di parte, che aveva dichiarato incompatibile il regime detentivo con le condizioni cliniche del detenuto. Eppure, l’assistenza sanitaria offerta nel carcere è inadeguata per un paziente con una lesione midollare inveterata, che richiede cure quotidiane e un ambiente sanitario controllato per evitare infezioni. Così come, il deterioramento fisico del detenuto, aggravato dalle condizioni igieniche carcerarie, rischia di portare a conseguenze irreversibili, come nuove infezioni e lesioni da decubito. “Ogni giorno che passa in queste condizioni rappresenta una violazione del diritto alla salute e alla dignità umana”, sostiene amaramente a Il Dubbio l’avvocato Voltarella. Condanna della CEDU in casi simili - Questo caso non è isolato. A gennaio scorso, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti verso un detenuto affetto da fibromialgia in un altro istituto. L’Italia, più volte sollecitata a migliorare le condizioni sanitarie nelle carceri, sembra ancora lontana dall’assicurare standard di assistenza compatibili con i diritti umani fondamentali. La vicenda di Lorusso pone anche una questione di equilibrio tra esigenze di sicurezza e tutela della salute. Sebbene la pericolosità sociale del detenuto, ritenuto affiliato a un clan mafioso, abbia spesso motivato il rigetto delle richieste di trasferimento, la sua condizione sanitaria appare incompatibile con qualsiasi regime detentivo standard. “Nel caso dell’ennesimo rigetto, verrebbe violato il diritto alla salute e alla cura di un soggetto che, a causa della mancata somministrazione della terapia di cui necessita, ha subito un trattamento detentivo inumano e degradante”, scrive l’avvocato nell’istanza. Purtroppo rigettata. Messina. La Garante dei detenuti: “Più strutture per chi ha poco residuo di pena” di Marina Pagliaro messinatoday.it, 29 novembre 2024 La docente di diritto penale Lucia Risicato a due mesi dall’incarico affidatole dal comune fa il punto. “A Gazzi non c’è sovraffollamento ma restano tante le urgenze su cui puntare l’attenzione”. Sovraffollamento delle carceri, ma anche mancanza di strutture parallele che accolgano i detenuti con poco residuo di pena, e ancora storie di solitudine e abbandono dei detenuti da parte delle famiglie, mancanza della strumentazione adeguata per il supporto sanitario, necessità di investimento su educazione e formazione. Sono tante le problematiche finite al centro del Coordinamento Nazionale per i Garanti dei detenuti dove di recente è stata anche nominata la garante dei diritti dei detenuti messinese Lucia Risicato. Da due mesi incaricata dal comune di Messina di tutelarne i diritti in città alla luce anche della carriera pluriennale da docente universitaria di diritto penale, Risicato fa il punto su Messina e la sua provincia e in generale sull’andamento italiano di una delle ferite più esposte dello Stato, quella degli istituti penitenziari, scenario di violenza, morte e abbandono anche da parte delle stesse istituzioni. “La situazione a Messina è molto meno drammatica rispetto ad altri istituti penitenziari per la gestione oculatissima della casa circondariale di Gazzi dove non c’è sovraffollamento ma dove la struttura risente della mancanza dei lavori di ristrutturazione, del sottodimensionamento del personale - ha detto Risicato - Educatori, personale sanitario mancano e chi c’è fa tutto il possibile per portare avanti le cose. Un tempo la casa circondariale di Gazzi aveva il suo blocco operatorio, apparecchiatura per la tac, strumenti che si sono ammalorati per carenza di fondi e capacità di adeguare i locali”. Situazioni, queste, che possono portare a casi drammatici, di suicidi e non solo. “Gli episodi drammatici che coinvolgono anche le guardie riflettono un malessere dei detenuti che ricadono sul malessere dei detenenti e si creano situazioni di coesistenza in cui non è più possibile distinguere guardia e ladro, colpevole o custode”, ha spiegato Risicato parlando della situazione generale in Italia. Come insegnano, del resto, i recenti fatti di cronaca e la morte del detenuto messinese nel carcere di Catanzaro su cui è stato aperto un fascicolo dopo la denuncia da parte della famiglia per presunti maltrattamenti sul ragazzo. “Bisognerà vedere dopo l’autopsia a quali conclusioni arriverà la magistratura - ha spiegato la garante - Avendo conosciuto la situazione personale di questo detenuto giovanissimo, invalido e con gravi problemi di tossicodipendenza e con la madre amministratrice di sostegno viene da pensare che questa situazione rispecchi il dato statistico. Le persone con questi problemi non dovrebbero stare in carcere anche perché i centri terapeutici hanno più di 200 posti liberi a livello nazionale. Messina. La mamma di Ivan: “Era un ragazzo fragile ditemi com’è morto in carcere” di Fabrizio Bertè La Repubblica, 29 novembre 2024 Ivan Lauria aveva 28 anni, sul corpo riscontrati ematomi e profonde ferite da taglio. “Non riesco a darmi pace. Voglio sapere come ha perso la vita mio figlio”. Il messinese Ivan Lauria è morto a 28 anni nel carcere di Catanzaro. Aveva diversi ematomi e varie e profonde ferite da taglio ma il referto parlava di “uso inveterato di sostanze stupefacenti e abuso di alcolici come conseguenza di un arresto cardiaco”. La madre del giovane non aveva notizie del figlio dallo scorso 2 novembre e non sapeva neanche che Ivan fosse stato trasferito nel carcere “Ugo Caridi” di Catanzaro: “Nessuno mi aveva avvisata - racconta Michela Lauria - Ivan era stato in carcere a Messina, a Giarre, a Palermo, a Trapani e a Rossano e dunque sempre più distante da me e mai in strutture adeguate alle sue patologie nonostante le richieste del mio avvocato Pietro Ruggeri. Quando mi hanno telefonato per dirmi che mio figlio non c’era più mi è crollato il mondo addosso e non ho capito più niente. Mi hanno detto che alle 21.17 di venerdì 15 novembre aveva avuto un arresto cardiaco e solo grazie ai consigli del mio avvocato ho avuto la lucidità e il sangue freddo di fare 60 fotografie per documentare gli ematomi e le ferite che c’erano sul suo corpo. Voglio capire cos’è successo dal 2 novembre al giorno della sua morte e voglio sapere com’è morto mio figlio e perché il suo corpo era in quelle condizioni”. La procura di Catanzaro ha aperto un fascicolo e il caso di Ivan è agli atti anche dell’inchiesta sul carcere di Trapani. Il suo nome compare infatti tra quelli citati dall’associazione “Nessuno tocchi Caino” che aveva chiesto la chiusura del “reparto blu” della casa circondariale “Pietro Cerulli” di Trapani: la sezione riservata all’isolamento e ai detenuti con problemi psichiatrici e piscologici in cui un anno e mezzo fa Ivan aveva anche tentato il suicidio: “Non abbiamo avuto affatto una vita semplice - conclude Michela - L’unica differenza tra Ivan e un cosiddetto ragazzo normale? Solo il caso. E lui più di altri aveva bisogno di essere accudito, aiutato e sostenuto. Adesso pretendo chiarezza e voglio sapere com’è morto mio figlio. Ivan era un ragazzo fragile, non stava bene e aveva commesso degli errori. Ma non doveva fare questa fine”. Ivan avrebbe dovuto scontare pene per un totale di 11 anni, 2 mesi e 21 giorni. Era tossicodipendente e invalido civile al 75% con gravi problemi di salute mentale accertati anche dai consulenti d’ufficio nominati nel corso dei vari procedimenti. Innumerevoli le richieste di avvicinamento in carceri in cui la madre, che era stata nominata sua amministratrice di sostegno, avrebbe potuto più facilmente accudirlo. Richieste mai prese in considerazione così come le richieste di sistemare Ivan in una struttura più adeguata alla cura delle gravi patologie del ragazzo tra l’altro avallate e richieste anche dall’Asp di Trapani e dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria della casa circondariale di Trapani. Numerose anche le istanze fatte al ministero di giustizia e al Dap: “Ivan era un ragazzo problematico ma proprio per questo doveva essere accudito, aiutato e seguito - spiega - L’ho cresciuto da sola. A 14 anni il primo furto e lo hanno portato in una comunità: ricordo ancora che per giustificarsi mi diceva che non voleva chiedermi 5 euro perché facevo già troppi sacrifici. Da quel momento non è più riuscito a riprendersi. Usciva dal carcere, rubava e ci tornava. Ma il colpo di grazia è stato l’incontro con la droga. Io non lo vedevo mai perché viveva più in carcere che a casa ma speravo che proprio in carcere lo avrebbero potuto aiutare. Mi adorava ma ho capito che non era più in sé e che la droga lo aveva divorato quando una notte è scappato di casa in evidente stato di alterazione: si era arrampicato su una casetta aggrappandosi ai fili della luce e aveva rischiato di morire. Gli è stato fatto un Tso e da quel momento non è mai più stato lo stesso sino ad arrivare alla morte”. Reggio Calabria. Botte al detenuto: “Ma si vedono i colpi di sfollagente? Sì, ma male” di Francesco Tiziano Gazzetta del Sud, 29 novembre 2024 In Tribunale la testimonianza-bis del funzionario della Mobile che ha diretto le indagini. Gli agenti della Polizia penitenziaria sapevano e temevano che alcune fasi del presunto pestaggio fossero state riprese dalle telecamere. Sospettavano, immaginavano ed anche inevitabilmente temevano, di essere stati ripresi dalle telecamere della video sorveglianza interna alle carceri “San Pietro” gli agenti della Penitenziaria ed il loro comandante accusati di aver picchiato con particolare violenza il detenuto napoletano, Alessio Peluso, un giovane dall’animo ribelle che aveva sfidato e fronteggiato ogni regola di convivenza tra detenuti e guardie. Ed infatti il giorno dopo il presunto pestaggio ne parleranno tra di loro, provando a ricostruire quali tra le fasi cruciali dell’aggressione fossero state immortalate dalle telecamere e quali, diversamente, fossero sfuggite all’occhio artificiale. La conversazione, intercettata dagli inquirenti, è stata al centro della testimonianza supplementare sostenuta in Tibunale dal vice questore aggiunto della Polizia di Stato, Paolo Valenti, il funzionario della Squadra Mobile che ha coordinato le indagini che hanno portato a processo dodici agenti della Polizia penitenziaria e il loro comandante (a processo figurano anche un medico e un infermiere dell’istituto penitenziario seppure con contestazioni diverse e estranee alle presunte violenze e potenziale tortura). Rispondendo alle domande del Pubblico ministero, Sara Prezzan, il funzionario della Squadra Mobile (verbale di udienza del 28 ottobre) ricostruisce una delle fasi cruciali del giorno dopo. Teste Valenti: “Allora, quale addetto alla sala regia, ha revisionato i video del 22 gennaio 2022, c’è la conversazione con il comandante dove gli riferisce appunto di aver visto i video”. Pm: “E qual è il tenore della conversazione?”. Valenti: “Gli riferiva, dopo essere stato sollecitato, “ci sono novità?”, che c’erano delle novità. Comandante: “Bone o cattive?”, agente: “Diciamo così e così”, che gliene avrebbe voluto fare cenno di presenza. “Sì, ci sono novità. Se vuoi ci vediamo magari più tardi, così le devo fare e poi le dico, le spiego”. Caserta. Reinserire i detenuti, le Pmi ci sono di Marzio Di Mezza ildenaro.it, 29 novembre 2024 Quando Foucault, negli anni 70, mise in crisi il concetto, comunemente accettato, del carcere come una forma rilevante di punizione, appoggiò e sostenne in un certo senso un rovesciamento del modo di intendere e qualificare il lavoro carcerario. Di lì a poco si affermò la nuova disciplina che svesti? il lavoro del suo carattere sanzionatorio, facendolo divenire l’elemento cardine del trattamento rieducativo. Nonostante il tempo trascorso e i numerosi provvedimenti legislativi tesi a considerare il lavoro in carcere non più? come fattore di sofferenza ulteriore ai fini dell’espiazione della pena, bensì strumento finalizzato al reinserimento sociale del condannato, i numeri, quelli dei detenuti coinvolti in progetti rieducativi, suggeriscono che bisogna continuare a spingere e ad impegnarsi, istituzioni e soggetti privati, su questo fronte. Ecco perché è stato particolarmente significativo l’incontro sul tema “Dialogo con gli imprenditori - azioni per il reinserimento socio lavorativo delle persone detenute”, organizzato da Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania e Consorzio Asi Caserta, che si è svolto presso la sede di Original Birth a Pignataro Maggiore. Pignetti: Più lavoro vuol dire meno criminalità. Un progetto pilota - “Più lavoro per chi è in carcere vuol dire anche meno criminalità, perché chi ha un impiego difficilmente torna a delinquere”, ha esordito il presidente del Consorzio Asi Caserta Raffaela Pignetti. “Abbiamo creduto fortemente in questo quando quattro anni fa abbiamo avviato il progetto di reinclusione sociale e lavorativa dal titolo Mi riscatto per il futuro - ha proseguito Pignetti - oggi abbiamo inteso promuovere tra le attività produttive il messaggio che aumentare le opportunità di formazione e di lavoro in favore della popolazione reclusa consente di far spendere le competenze acquisite una volta scontata la pena. Intendiamo avvicinare mondi che sembrano distanti ma che possiamo unire nel segno della fiducia e della speranza”. Di recente il Consorzio Asi di Caserta ha preso parte a un importante e innovativo progetto pilota relativo ad attività operative legate formazione dei detenuti, previste dal protocollo d’intesa siglato, oltre che da Asi Caserta, dal Dipartimento per la trasformazione digitale, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) del Ministero della Giustizia, Infratel Italia, ANIE SIT e gli operatori Tlc Fastweb, Fibercop, Intred, Inwit, Open Fiber, Telecom Italia, Vodafone Italia, interessati all’attuazione dei Piani previsti nell’ambito dell’Investimento 3 “Reti ultraveloci e 5G” della Missione 1, Componente 2 del PNRR, per favorire il reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro e nella società civile. Giulia Russo, direttore del carcere: Formazione a Secondigliano, non solo pizze - “In carcere non si insegna solo a impastare e infornare pizze - ha chiarito Giulia Russo, direttore della Casa circondariale di Secondigliano -. Abbiamo avviato da tempo progetti qualificanti, di studio e di formazione, anche attraverso protocolli con Università e Asl” e cita, tra gli altri, il corso di formazione in Erboristeria, lo Sportello per la formazione in Scienze dei Servizi Giuridici, il Polo Arti e Mestieri, l’Officina Meccatronica Regionale. Samuele Ciambriello, Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà, snocciola numeri che caratterizzano le dimensioni del lavoro in carcere. “Su circa 61mila detenuti presenti negli istituti penitenziari in Italia, il 33% dei detenuti risulta coinvolto in attività lavorative, ma solamente l’1% di essi è impiegato presso imprese private e il 4% presso cooperative sociali. La stragrande maggioranza, pari all’85%, lavora alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria”. Ciambriello: Pregiudizi duri a morire - Il perché, ha precisato Ciambriello, è da ricercare in un pregiudizio che ancora esiste. “Eppure per molti detenuti non si tratta di una seconda chance ma della prima - ha rimarcato -, e i tanti meritevoli progetti attivati nelle case circondariali in Campania dovrebbero spingere altri imprenditori a aderire e sostenere questo tipo di attività”. Anche perché, lo spiegherà bene il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Campania Lucia Castellano, il lavoro penitenziario si tramuta in un’importante possibilità per le imprese. Castellano: Incentivi per le imprese e le cooperative - Il Provveditore, citando la Legge Smuraglia, ha ribadito che: “La normativa penitenziaria offre a imprese e cooperative incentivi alle assunzioni e alla formazione attraverso la defiscalizzazione degli oneri e sgravi contributivi. Le strutture lavorative interne ai nostri istituti sono altamente competitive e per questo possono essere messi a disposizione gli spazi per il comodato d’uso e i prodotti per le commesse esterne. Oggi - ha concluso - intendiamo fare un appello ad aprire le porte dell’impresa vera al detenuto che sta scontando la pena perché questo ci dà la possibilità di formare mano d’opera responsabile, di abbattere la recidiva e fare una operazione di sicurezza sociale”. Arzillo: Tema particolarmente sentito dal presidente del Cnel Renato Brunetta - Infine, tirando le somme dell’incontro, Antonio Arzillo, del Segretariato Permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale del Cnel, ha ripercorso alcune tappe del percorso intrapreso da Dap e Cnel fino alla stesura del disegno di legge del Cnel sul reinserimento socio-lavorativo dei detenuti e la costituzione del Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale. “Questo tema è particolarmente sentito dal presidente del Cnel Renato Brunetta - ha detto Arzillo -, il quale più volte ha evidenziato che il collegamento tra disoccupazione e recidiva, ormai accertato, conferma come l’occupazione sostenuta sia correlata a una ridotta recidività”. Era stato proprio Brunetta, qualche settimana fa, a intervenire nel dibattito aperto sul sovraffollamento delle carceri e sui piani di reinserimento: “L’intervento del mondo dell’impresa - aveva affermato - risulterebbe, quindi, prezioso per garantire il matching tra formazione erogata ai detenuti e skill professionali richieste ai fini occupazionali, assicurando un inserimento diretto del detenuto nel mondo del lavoro in seguito al rilascio”. Prodotti “Fatti a Manetta” - A margine dei lavori sono stati presentati i prodotti realizzati nelle carceri campane che possono avvalersi del marchio regionale “Fatti a Manetta”: manufatti delle lavorazioni interne (falegnameria, sartoria, prodotti ortofrutticoli, conserve, prodotti da forno, miele, vino, prodotti di tipografia) provenienti dagli istituti penitenziari di Sant’Angelo dei Lombardi (Av), Carinola (Ce), Secondigliano (Na), Aversa (Ce). Milano. “Emergenza freddo nel carcere di San Vittore”: serve abbigliamento invernale Il Dubbio, 29 novembre 2024 La raccolta organizzata da penalisti e associazioni per dare sollievo ai detenuti: si possono donare maglioni, giubbotti senza cappuccio, pantaloni da tuta, felpe, calze e boxer da uomo. Il carcere di San Vittore a Milano sta attraversando un’emergenza umanitaria legata al freddo invernale. Molte persone detenute, in particolare stranieri privi di legami familiari in Italia e cittadini italiani in condizioni di disagio sociale e psichico, stanno soffrendo le rigide temperature. Il problema principale è la carenza di vestiario, soprattutto per gli uomini. Servono con urgenza capi come maglioni, giubbotti senza cappuccio, pantaloni da tuta, felpe, calze e boxer. Inoltre, vi è necessità di scarpe sportive (dal numero 40 in su) e asciugamani grandi. Le organizzazioni promotrici - Cantiere San Vittore, Osservatorio Carcere Territorio, Sesta Opera, Consorzio Via dei Mille, Comunità Nuova e Camera Penale - chiedono un intervento tempestivo. L’obiettivo è fornire immediato sollievo ai detenuti, prima ancora di affrontare le complesse questioni sistemiche. Come Contribuire? Chi volesse aiutare può donare capi nuovi presso: Consorzio Vialedeimille (Viale dei Mille 1). Referenti: Valentina e Gualtiero. Orari: lunedì-venerdì 9-18, sabato 9-13. Oppure presso la Comunità Nuova (Via Gentile Bellini 6) dove c’è come referente Ilaria. Orari: lunedì-giovedì 10-15. Altro aiuto è quello di effettuare un bonifico a Sesta Opera San Fedele. Banca: Intesa San Paolo (sede di Milano). IBAN: IT06N0306909606100000060533. Causale: “san vittore emergenza freddo”. I promotori sottolineano che, a causa dei regolamenti attuali, solo i capi nuovi possono essere distribuiti rapidamente. Ogni contributo può fare la differenza per alleviare le condizioni di chi sta vivendo un momento di estrema difficoltà. Milano. “Io curo la persona, non il reato”: essere infermieri in carcere fnopi.it, 29 novembre 2024 Si è tenuta mercoledì 27 novembre 2024 una giornata di formazione, di confronto e di studio ospitata dalla casa di reclusione di Bollate, in provincia di Milano, e organizzata dall’OPI di Milano, Lodi e Monza e Brianza. Il convegno Salute e cura in carcere: le sfide dell’Assistenza Infermieristica ha affrontato due grandi temi come il rapporto con i pazienti e il rapporto con il mondo del carcere e tutte le sue componenti. La giornata è stata aperta da Pasqualino D’Aloia, presidente del OPI Milano, Lodi, Monza e Brianza, insieme ad Anastasia Capone, consigliera OPI e responsabile commissione carceri e salute mentale che segue per competenza territoriale la struttura di Bollate. D’Aloia ha sottolineato come gli infermieri - un migliaio in tutte le strutture penitenziarie italiane - si debbano muovere in una situazione di assenza totale di libertà, come siano anch’essi invisibili e come debbano quotidianamente affrontare maggiori difficoltà operative e organizzative. La presidente Barbara Mangiacavalli ha portato il saluto di FNOPI e ha ricordato a tutti come sia fondamentale, soprattutto in situazioni estreme di vissuto come quelle dei pazienti reclusi, trovare nel Codice Deontologico le indicazioni per perseguire il lavoro di cura e assistenza. “Io credo che la straordinarietà dei colleghi che operano in questi contesti sia questa. È già difficile in un ospedale, in una casa di comunità o in altre strutture affrontare i cittadini - a volte maleducati o violenti - ma qui abbiamo davanti un destinatario dell’assistenza infermieristica che ha una storia macchiata da problemi importanti ed è una storia che noi dobbiamo sempre leggere attraverso il filtro del Codice Deontologico”. Giorgio Leggieri, direttore della casa di reclusione di Bollate, ha salutato i numerosi partecipanti sottolineando come il convegno sia il primo sul tema tenuto all’interno del carcere. “Ospitare qui a Bollate questo evento è la miglior occasione per discutere delle situazioni critiche in un contesto complesso come quello di una casa di reclusione. È un momento prezioso di riflessione condivisa. È facile raccontare che bisogna lavorare in equipe ma farlo poi nella quotidianità del nostro mondo, non è facile. Sentire la persona che hai davanti e gestire la situazione è la sfida che sia gli operatori sanitari sia tutti coloro che operano all’interno della struttura devono affrontare ogni giorno. Grazie per aver unito qui a Bollate la loro esperienza e la capacità di leggere la situazione e grazie ai tanti presenti che hanno contribuito a risolvere qui situazioni critiche”. È intervenuto nella mattina anche Pierpaolo Pateri, componente del Comitato Centrale FNOPI, per condividere le azioni che la Federazione desidera mettere in campo per sostenere su tutto il territorio italiano gli infermieri che operano in queste strutture, alla luce dei risultati della survey condotta da Anastasia Capone e somministrata a 107 infermieri e infermiere che operano oggi all’interno di strutture penitenziare, presentata per l’occasione. FNOPI ha già attivato un gruppo di lavoro sull’Area Infermieristica extra SSN che ha come obiettivi approfondire tematiche peculiari dell’assistenza infermieristica all’interno delle comunità confinate, individuare criticità e fornire elementi utili agli organi nazionali. Lo scopo è formulare proposte operative ma anche promuovere un confronto continuo tra operatori con il coinvolgimento degli OPI per diffondere le buone pratiche e studiare possibili soluzioni alle criticità che persistono. Hanno partecipato inoltre alla giornata di studi Mirca Borghi e Attilio Negri con un approfondimento sulle sostanze stupefacenti e i servizi di dipendenza territoriale. Roberto Bezzi, responsabile dell’Area educativa della casa di reclusione di Bollate, ha parlato del carcere come luogo di transizione. Mentre Anna Rosa Valentino, Silvia Landra, Roberto Ranieri sono intervenuti in una sessione dedicata alla gestione delle malattie infettive ed emergenze psichiatriche. L’evento si è chiuso con una tavola rotonda - con Bezzi, D’Aloia e Pateri - partecipata, in cui era presente anche il presidente dell’OPI di Palermo Antonino Amato che ha condiviso la complicata situazione delle carceri cittadine. Ci si è chiesti come esportare il modello lombardo e con quali costi, ricordando come la situazione degli agenti di custodia sia critica - si parla di 20.000 unità mancanti in tutta Italia - e come sia importante che il territorio dove sorge la struttura sia sensibile e pronto a sostenere anche realtà di confino. Bollate, per esempio, non ha solo la struttura e gli spazi ma ogni anno impegna oltre 400 volontari, oltre università e aziende, e ha costruito in questi 24 anni un’importante rete di relazione con il mondo oltre le sbarre. Firenze. Minori e carcere, tra sovraffollamento e svolta securitaria novaradio.info, 29 novembre 2024 La seconda edizione di “Liberare il carcere”. Lo stato di salute del sistema penitenziario minorile, il crescente sovraffollamento degli Istituti minorili e il rischio di decadimento della funzione rieducativa e di reinserimento sociale del minore. Questi i temi al centro di “Futuro prossimo: nessun ragazzo in carcere”, titolo della seconda edizione di “Liberare il carcere” organizzato da ARCI nazionale in collaborazione con Arci Firenze e Novaradio. Una giornata di riflessioni e interventi, durante la quale sono intervenuti Vincenzo Scalia, docente di Sociologia della devianza all’Università di Firenze, Alessio Scandurra, responsabile dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni dei detenuti dell’Associazione Antigone, Katia Poneti, dell’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana e Sara Corradini, referente settore carcere di Cat Coop. Sociale di Firenze e componente CNCA Area Penale Minorile. Le conclusioni sono state affidate a Carlo Testini, coordinatore nazionale Arci Lotta alle Disuguaglianze, Libertà e Diritti Sociali. A coordinare i lavori Marco Solimano, referente nazionale Arci persone private della libertà. Nel corso della giornata si sono aggiunte tante testimonianze provenienti da vari territori, da Firenze ad Avellino, da Roma alla Sicilia. Particolare attenzione è stato dedicato agli effetti disastrosi del “decreto Caivano”: dalla sua approvazione nel settembre 2023, i numeri dei minori detenuti in pochi mesi sono saliti da 426 fino a raggiungere gli 635 di metà novembre 2024: “Su 17 Istituti penali per minorenni, ben 15 sono sovraffollati, in alcuni casi anche del 150%” ha spiegato stamani a a Novaradio Marco Solimano, che ha aggiunto: “Con il decreto sicurezza n.1660 le cose sono destinate a peggiorare”. Taranto. “Senza Filtro”: la narrazione come ponte tra carcere e società nuovodialogo.com, 29 novembre 2024 Ridurre la distanza culturale tra il mondo della detenzione e la comunità esterna attraverso la narrazione come strumento di conoscenza e riflessione sociale: questo è l’obiettivo di Senza Filtro, un podcast realizzato da Radici Future Produzioni e dall’associazione Noi & Voi onlus, presentato martedì 26 al Mudit (Museo degli illustri tarantini) di Taranto. Il documentario racconta questo viaggio. All’incontro erano presenti Pietro Rossi, Garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, Leonardo Palmisano, presidente di Radici Future produzioni, don Francesco Mitidieri, presidente di Noi & Voi onlus. Il progetto, che si è svolto con il tutoraggio del giornalista Gianni Svaldi, si propone di formare i partecipanti nella raccolta di narrazioni, anche personali, attraverso interviste approfondite, fornendo loro strumenti per analizzare criticamente le informazioni ricevute dai media e contestualizzarle. È un percorso che inizia oggi e proseguirà negli anni. Il lavoro fatto con i detenuti dimostra che nessun Caino è irrecuperabile e che nessun destino è irreversibile. Non siamo così diversi da loro: siamo stati più fortunati. Per questo, dobbiamo restituire speranza, formazione e lavoro a chi ha oltrepassato i limiti della legge. Il dibattito, che ha seguito la presentazione del podcast, ha visto la partecipazione di Pietro Rossi, garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, e si è concentrato sull’importanza della formazione professionale per i detenuti. La formazione, sottolineano i promotori, è uno degli strumenti più efficaci per ridurre il rischio di recidiva e favorire una reale reintegrazione sociale. In questo senso, i dati del Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) sono eloquenti: meno del 10% dei detenuti che partecipano a percorsi di formazione e lavoro torna a delinquere. Don Francesco Mitidieri, presidente di Noi & Voi onlus, ha colto l’occasione per sottolineare il ruolo del Mudit come nuovo polo culturale, destinato a ospitare molte attività rivolte a persone in esecuzione penale esterna. Tra queste, ha ricordato il progetto dei panettoni artigianali prodotti nel carcere di Taranto dai detenuti, assunti nella cooperativa legata all’associazione. Quest’anno la cooperativa punta a vendere tremila panettoni, triplicando i numeri dello scorso Natale, quando il laboratorio era appena nato. Al Mudit è già presente una vetrina espositiva gestita dalla cooperativa Kairos, che sensibilizza sull’importanza di sostenere queste iniziative. Ogni acquisto rappresenta un passo verso un futuro migliore per chi desidera ricominciare attraverso il lavoro. Monza. Concerto dietro le sbarre: i detenuti-musicisti e la “banda” dei ragazzi di Fabio Luongo Il Giorno, 29 novembre 2024 Dopo mesi di lezioni e di prove, ecco finalmente il concerto. Un’esibizione tra le mura del carcere da parte di un ensemble particolare, formato da detenuti e giovani suonatori, che renderanno ancor di più la musica strumento di libertà. È l’iniziativa che si terrà domani pomeriggio alla casa circondariale di Monza, primo risultato di un progetto portato avanti dal Corpo Musicale di Villasanta e che da diversi mesi vede impegnate alcune persone recluse in via Sanquirico. Qui, da inizio anno, due membri della banda villasantese sono impegnati a insegnare a un gruppo di detenuti a suonare tromba, trombone, tuba e altri ottoni: un modo originale per rendere meno dura la permanenza in carcere e favorire il recupero sociale e il reinserimento di queste persone. Finora c’è stata la conoscenza degli strumenti prima e l’allenamento per imparare a suonarli poi: adesso si concretizzerà il primo obiettivo, quello di un concerto vero e proprio dentro la casa circondariale. A unire i fiati saranno alcuni dei detenuti e i giovani musicisti di due formazioni, una brianzola e una milanese: tutti assieme regaleranno momenti di spensieratezza a un pubblico composto in parte da persone recluse e in parte da esterni al carcere. “Dopo mesi di lavoro siamo arrivati a voler mostrare un po’ quello che sono riusciti a imparare i detenuti che hanno frequentato il corso di musica - racconta Sergio Stucchi, vicepresidente del Corpo Musicale di Villasanta -: suoneranno accompagnati dai ragazzi della PiùTost Band, gli allievi dei corsi di orientamento musicale del Cmv, e dai ragazzini della Color Orchestra dell’Istituto Preziosissimo Sangue di Milano. Il concerto si terrà nell’auditorium del carcere, dove già avevamo fatto un’esibizione a settembre 2023”. Era stata proprio l’entusiasmo dimostrato dai detenuti in quell’occasione che hanno spinto il Corpo Musicale di Villasanta a portare avanti l’idea di entrare in carcere a insegnare musica. Il progetto ha preso corpo a gennaio, prima con un incontro di presentazione degli strumenti, in particolare gli ottoni, e poi con l’avvio del percorso didattico sotto la guida di Sabrina Sanvito, con una quindicina di adesioni. “Il gruppo che si esibirà sarà formato da circa 16-17 musicisti tra ragazzini e detenuti - spiega Stucchi. Il pubblico sarà composto da 40-50 detenuti e da una quarantina di ospiti esterni, tra genitori dei ragazzi e rappresentanti del Corpo Musicale di Villasanta”. “Il progetto sta andando avanti, abbiamo uno zoccolo duro di detenuti-allievi che non perdono una lezione e poi altri che hanno più alti e bassi, perché bisogna mettere in conto trasferimenti e scarcerazioni - sottolinea. Siamo molto orgogliosi di loro, perché in così poco tempo hanno raggiunto un grande risultato. Essere arrivati qui, facendo una lezione alla settimana, ci ha dato una grande soddisfazione e tanta voglia di proseguire. Siamo molto contenti: porteremo ancora avanti l’iniziativa con convinzione”. “Attualmente abbiamo 2 gruppi di detenuti al corso, uno più avanzato che fa lezione dalle 10 alle 12 e uno formato dai nuovi che arrivano, che fa dalle 9 alle 10, per conoscere le prime note e lo strumento - continua Stucchi -. A luglio e agosto, avendo più tempo, abbiamo intensificato gli incontri, facendone anche 2 o 3 a settimana. La cosa bella del progetto e che lo rende unico è che ogni persona, in ogni gruppo, ha uno strumento diverso: la tromba, il trombone, la tuba, l’euphonium, e fanno lezione in contemporanea, non in modo individuale”. Milano. Corvetto, il rapper Josh Zona 4: “C’è ancora molta rabbia. Quei ragazzi cercano verità” di Matteo Castagnoli Corriere della Sera, 29 novembre 2024 L’artista è cresciuto nel quartiere di Ramy: “Quando sei giovane vuoi farti sentire ma la violenza è sempre sbagliata. “Giornate normali di un vero ghetto. Benvenuti, questa è Corvetto. Gomitate in testa, cannonate altrove, sono cose che succedono in tutte le zone. Combatto onesto anche se il cuore mi spezzo”. Mette in rima la vita del quartiere in tre minuti. Il nome d’arte è Josh Zona 4, oltre 11 mila follower su Instagram. Tatuatore, e rapper dai primi anni Duemila, Corvetto: degrado, cattiveria, strada verso la luce è uno dei suoi pezzi d’esordio. La “Zona 4” di Milano: via dei Panigarola, dei Cinquecento, viale Omero - “incendiate” in queste notti dalle proteste di giovanissimi dopo la morte del 19enne Ramy Elgaml - sono casa sua. La situazione nel quartiere ora com’è? “Mi sembra ci sia più calma. Ma finché non sarà fatta chiarezza sull’incidente e sull’inseguimento dei carabinieri, i ragazzi non staranno del tutto in silenzio”. E da domenica notte cos’è successo? “C’è molta rabbia. Quando sei giovane la prima cosa che fai è cercare di farti sentire. Ma la reazione è stata sbagliata, non è giustificata. Oggi è successo per un incidente con un ragazzo morto, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, ma in passato sono stati diversi gli episodi simili, anche in altre zone della città”. C’è un malessere tra i ragazzi? “In periferia è così. È questione di mentalità. Sono nato e cresciuto al Corvetto. Le cazz... le ho fatte anch’io. In una zona povera il disagio si fa sentire. I dislivelli sociali portano a fare azioni sbagliate. Quando si era giovani, si andava per tutta Milano a rubare i motorini per mettersi al pari con gli altri. Non è una scusante, ovviamente, ma serve a capire le dinamiche. Io da piccolo ero in mezzo a quel contesto fatto di rapine, risse, spaccio. Ci cresci dentro. E anche se non ero il tipo, se non avessi ascoltato gli insegnamenti di mia mamma e del mio educatore dell’epoca, se non fossi cambiato di testa, avrei avuto problemi”. Quindi, adesso, che fare? “È difficile intervenire in poco tempo. Certo, esiste una rete di associazioni. Le dico una cosa: come altri, anche io non volevo andare a scuola. Ma avevo passioni. Forse bisognerebbe trovare questo gancio nelle scuole. Un appiglio che tenga i giovani dalla parte buona. Per esempio, organizzammo un corso di musica doposcuola per i ragazzi. Durò un anno, non venne rinnovato. Ci vorrebbero investimenti in organizzazioni sociali”. Qual è il percorso “verso la luce”? “Nel quartiere c’è degrado, ma la scelta deve essere quella di “uscire”. Non tutti sono obbligati a fare del male. Qui sono cambiati gli abitanti, ma abbiamo vissuto bene l’integrazione. Ho diversi amici sia stranieri che non. Siamo cresciuti insieme. Abbiamo vissuto le stesse situazioni. A partecipare ai disordini di queste notti c’erano anche ragazzi italiani o di seconda generazione”. Napoli. La “bonifica” di Caivano: 1.200 agenti e militari per sgomberare gli abusivi di Antonio Averaimo Avvenire, 29 novembre 2024 Eseguita l’ordinanza di trasferimento obbligato per 36 nuclei familiari che occupavano senza titolo le case popolari. Un elicottero sorvola il cielo di Caivano, mentre decine e decine di camionette della polizia, dei carabinieri e dell’esercito presidiano ogni angolo del Parco Verde. Lo Stato torna con 1.200 persone nell’ormai ex roccaforte della camorra per sgomberare 36 famiglie che occupavano abusivamente le proprie case popolari. È il nuovo capitolo dell’operazione di “bonifica” del quartiere e dell’intero Comune di Caivano annunciata nell’estate 2023 dalla presidente del Consiglio durante la sua prima visita qui, nata dall’appello del parroco, don Maurizio Patriciello. Ma questi 36 sgomberi non sono caduti sul Parco Verde come un fulmine a ciel sereno. Già lo scorso febbraio erano state notificate 254 ordinanze ad altrettante famiglie prive di alcun titolo abitativo: un terzo di quelle che risiedono nel quartiere. Quelli effettuati ieri sono, ha spiegato la procuratrice di Napoli Nord, Maria Antonietta Troncone, sgomberi che riguardano famiglie con un reddito che non giustifica la presenza in un alloggio popolare o in cui ci sono persone con pesanti condanne superiori ai sette anni passate in giudicato. Tra di essi non mancano anche alcuni di quei camorristi che avevano trasformato il Parco Verde in un enorme reticolo di piazze di spaccio. Per le altre famiglie tra le 254 non ancora messe alla porta, si apre un percorso che potrebbe portare alla regolarizzazione della loro posizione. Molti di questi nuclei familiari hanno già presentato un’istanza di regolarizzazione al Comune, attualmente amministrato da una commissione straordinaria. La loro sorte dipende dalla possibilità di applicare un regolamento regionale che prevede una sanatoria anche per la loro situazione, nata da decenni di anarchia in materia di assegnazione delle case popolari a Caivano. Sarà la stessa Procura di Napoli Nord, che ha emesso le 254 ordinanze di sgombero nel febbraio scorso, ad avere l’ultima parola alla fine di percorso che si è imposto per forza di cosa graduale. La procuratrice Troncone e il prefetto di Napoli, Michele di Bari, hanno voluto incontrare le famiglie sgomberate poco prima, riunite per tutta la giornata davanti alla chiesa parrocchiale del Parco Verde. Con loro due c’era anche don Patriciello. “Prima di tutto c’è il dialogo ? ha detto il prefetto alle persone presenti in strada ?, ma stiamo portando avanti un’operazione di legalità. Questo non significa però che per le persone con fragilità non ci sarà un percorso sociale che è stato già individuato”. Parole, queste, che non hanno convinto la gente. Non sono mancati i momenti di tensione: alcune donne avevano tentato precedentemente di entrare in chiesa. A impedirglielo è stato solo il blocco costituito dalle forze dell’ordine davanti all’edificio sacro. “Dormiremo davanti alla chiesa stanotte, non sappiamo dove andare”, hanno replicato le mamme in strada. In una nota, il prefetto di Napoli ha anche annunciato la messa in sicurezza di tutti i 750 immobili facenti parte del Parco Verde, che saranno riqualificati dal commissario straordinario di governo per il territorio del Comune di Caivano, Fabio Ciciliano. È la “fase 2”, annunciata anche da Giorgia Meloni. “Oggi - ha dichiarato la premier - lo Stato mantiene un altro impegno preso coi cittadini. In occasione dell’inaugurazione del nuovo centro “Pino Daniele”, avevamo annunciato che il lavoro del governo a Caivano non era affatto concluso e che sarebbe andato avanti. Così è stato. Oggi è iniziata la “fase 2” del programma di riqualificazione e rigenerazione urbana portato avanti negli ultimi 15 mesi, con lo sgombero degli alloggi occupati abusivamente al Parco Verde da soggetti condannati per reati di camorra. Il cammino prosegue - ha aggiunto Meloni ?. Intendiamo fare di Caivano un modello, e poi esportare quel modello in tutte le altre Caivano d’Italia”. Per il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, “l’operazione di sgombero portata a termine nel Parco Verde conferma la riaffermazione del diritto avviata il 31 agosto 2023 a Caivano”. Mantovano ha espresso “apprezzamento e gratitudine” ai “1.200 uomini e donne appartenenti alle forze di polizia e all’Esercito italiano” impegnati nel blitz di ieri. La tensione non esplode in tutta la sua forza, compressa dalla macchina della sicurezza predisposta dallo Stato, in un Parco Verde che ha conosciuto non pochi scossoni - quanti mai ne aveva visti in decenni di vita ? dal 31 agosto dell’anno scorso, giorno della prima visita di Giorgia Meloni nel quartiere. Tutto è partito dall’ennesima ferita di Caivano - gli stupri ai danni di due ragazzine - e dall’ennesimo appello disperato di don Patriciello alle istituzioni. Che quella volta hanno risposto “presente” e ora sono chiamate a concludere la “fase 2”: quella della riqualificazione, la più difficile. Migranti. “Nel Mediterraneo è in corso una guerra. E la politica ha scelto di stare a guardare” di Simona Musco Il Dubbio, 29 novembre 2024 Al Senato l’evento “Non affogate il diritto d’asilo”, con le storie dei sopravvissuti. Remon Karam ha 25 anni, viene dall’Egitto. Qualche giorno fa ha conseguito la sua seconda laurea, con una tesi dal titolo “L’immigrazione: tra persecuzione e realtà”. In giacca e cravatta, un’uniforme che non gli appartiene e che - lo fa notare gli sta stretta, racconta nella sala “Caduti di Nassirya” del Senato la sua storia. Quella di un 14enne salito su una barca, dopo l’uccisione del cugino, colpevole, come lui, di essere cristiano, sperando di fuggire da una terra che oggi è considerata sicura, ma che sicura non è. Senza dire nulla alla madre, portando con sé solo un rettangolino plastificato, la foto del fratello. L’ultimo abbraccio ad un membro della sua famiglia, l’ultimo contatto reale con la sua terra. Remon ha raccontato la sua storia nel corso dell’evento “Non affogate il diritto d’asilo”, alla presenza, tra gli altri, di Mariolina Castellone, vicepresidente del Senato; Soumaila Diawara, scrittore naufrago; Francesca Cancellaro, avvocata; Vittorio Alessandro, ammiraglio; Ibrahima Lo, scrittore naufrago; e Angela Nocioni, giornalista de l’Unità, che ha moderato l’evento. In sala una mostra dei disegni di naufraghi soccorsi da Sos Humanity e l’intervento di sopravvissuti, soccorritori e operatori del diritto, tutti convinti che le norme sull’immigrazione siano state pensate dimenticando la cosa più importante: gli esseri umani. “Sono arrivato in Italia a 14 anni, a bordo di un taxi del mare. Qualcuno li ha chiamati così qualche anno fa, qualcuno li chiama tuttora così. Non cambia la retorica, a quanto pare racconta -. Ma sono soltanto pescherecci e gommoni bucati, pezzi di carta, pezzi di plastica e pezzi di legno. Non pensavo di ritrovarmi su un barcone di disperati, di miserabili, 180 persone tra cristiani, musulmani, siriani ed egiziani. I siriani sono come gli ucraini, scappano dalla guerra. Con una sola differenza: il siriano è di serie B, gli ucraini di serie A”. A guidare quella bagnarola un ragazzino di 16 anni. Uno scafista, secondo la politica, ma non per Remon: era un bambino costretto a mettersi al timone sotto minaccia di morte e che una volta in Italia rischia 25 anni di carcere. “Ed è lui il colpevole? - si chiede retoricamente Remon - La mafia non si mette in mezzo al mare per portare la gente in Italia, la mafia rimane nelle ville, a guadagnare milioni di euro sulla pelle della gente”. Nella stiva si sta l’uno sopra l’altro, al buio. Ci si vomita addosso. E l’unica possibilità è pregare, mentre si beve l’acqua mescolata a benzina nel tappo di una bottiglia, per provare nausea e non sentire più la sete. E funziona. “Però per i politici la disperazione non è sufficiente per giustificare questi viaggio. E quando muoiono la colpa è loro e di chi li ha fatti partire”. Remon è arrivato in Italia dopo 7 giorni di viaggio “e la prima cosa che hanno fatto è stata attaccarmi un numero sul petto, qui, a sinistra, il numero 90. Perché sono numeri se sopravvivono, sono numeri quando muoiono, sono numeri quando sono dispersi. Siamo tutti bravi a dire mai più, ma l’unica cosa che è stata fatta sono dei decreti. Io mi arrabbio, perché c’è la mia dignità in gioco. Quelle persone hanno perso la dignità due volte: nella vita e nella morte. E loro dicono: quest’anno sono arrivati meno migranti in Italia. Ed è vero, perché sono morti altrove. Ma noi siamo qualcuno e non solo dei numeri”. Quella in corso nel Mediterraneo, spiega Nocioni, è “una guerra”. E fermare le navi umanitarie è come “fermare per capriccio un’ambulanza”, mentre si stringono accordi con la Guardia costiera libica che, come dimostrato dai video trasmessi in sala, spara sui migranti e li riporta indietro nei lager, dove arrivano grazie ad accordi che i trafficanti stringono proprio con gli stessi miliziani libici. Il tutto mentre il mare si trasforma in un cimitero e mentre si tentano di complicare ulteriormente le operazioni di soccorso, con decreti che rendono più rapide le operazioni di confisca delle navi e criminale il salvataggio delle vite. Decreti che ora sono all’attenzione delle Corti superiori, come quello che porta il nome del ministro Piantedosi, alla prova della Consulta, davanti alla quale è impegnata l’avvocata Cancellaro. Si può sanzionare una nave solo per non aver obbedito alle indicazioni di una Guardia Costiera, come quella libica, che agisce in modo noto per violazioni sistematiche? È legittimo, si chiede la legale, che un decreto nazionale affidi alle autorità libiche il coordinamento e che da ciò derivi l’intera struttura sanzionatoria? L’ordinanza di remissione pone in discussione proprio la coerenza di queste normative con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia, che includono il divieto di respingimento (principio di non- refoulement), che impedisce di riportare persone in Paesi dove rischiano gravi violazioni dei diritti umani e il diritto d’asilo, che non può essere garantito senza prima proteggere la vita delle persone. Normative che sollevano dubbi non solo sulla legittimità del riconoscimento delle autorità libiche, ma anche sulla proporzionalità delle sanzioni, come il fermo delle navi. È corretto fermare un’imbarcazione per una presunta violazione quando questa, invece, stava salvando vite? Un’attività descritta in maniera chiara da Massimo Belletti, che ha salvato - tra le altre - 25 persone a bordo di un’imbarcazione segnalata giorni prima alle autorità, senza che nessuno, però, intervenisse. E ciò ha portato alla morte di oltre 50 persone. “La gente è morta di sete e di stenti racconta -. Un uomo ha visto morire suo figlio di un anno e mezzo. Gli altri sopravvissuti gli hanno chiesto di disfarsi del corpo in mare. E poi ha dovuto fare lo stesso con la moglie, due giorni dopo. Quando li abbiamo salvati erano in condizioni terribili. L’acqua, mescolata alla benzina, corrode la pelle. Sono cose che non dovrebbero succedere. E quel giorno c’eravamo solo noi, perché molte navi erano detenute, molte navi erano ferme e se non ci fossimo stati noi sicuramente sarebbero morti”. Per Castellone è vero che si tratta di una guerra. “Una guerra in cui le istituzioni hanno scelto di essere per lo più spettatrici, senza provare a risolvere davvero il problema, ma facendo uso della propaganda. L’immigrazione è un fenomeno che deve essere governato, che non può essere né arginato con i blocchi navali, né con la deportazione in Albania, né con la caccia agli scafisti nel globo terracqueo, dato che gli scafisti non salgono nemmeno su quelle carrette del mare - conclude. Accogliere si può fare, ce l’ha dimostrato l’accoglienza dei profughi ucraini: nessuno ha avuto la percezione che fossimo invasi. Se oggi abbiamo questa percezione nei confronti di altri migranti, evidentemente è distorta e amplificata da una narrazione che non corrisponde alla realtà, perché viviamo in una società fortemente razzializzante, incapace di usare i termini corretti e colpevole di aver manipolato la coscienza collettiva e la percezione dei cittadini italiani”. Ma la Corte di giustizia Ue non deve trasformarsi in un giudice-legislatore di Paolo Ferrua* Il Dubbio, 29 novembre 2024 È affermazione ricorrente che la Corte di giustizia europea sia “più un legislatore che un giudice nei suoi poteri riconosciuti di giurisprudenza-fonte” (così, ad esempio, Massimo Donini, “Le sentenze Taricco come giurisdizione di lotta. Tra disapplicazioni “punitive” della prescrizione e stupefacenti amnesie tributarie”, in Diritto penale contemporaneo, 3 aprile 2018, p. 9). Che di fatto questo avvenga corrisponde ad un’indiscutibile verità; tutt’altro discorso è se, per quanto riguarda il nostro ordinamento, sia accettabile che la Corte di giustizia da organo giurisdizionale si converta in un giudice-legislatore. Rispondo di no senza esitare, perché i precetti della Costituzione italiana - a nessuno dei quali vi è ragione di rinunciare - reggono sul fondamentale principio della separazione tra le funzioni di giudice e di legislatore. A differenza della Corte di Strasburgo che svolge il suo giudizio sulle violazioni della Convenzione nel singolo processo, la Corte di giustizia è chiamata a verificare se vi sia un contrasto tra il nostro diritto nazionale e quello dell’Unione; e, in caso di risposta positiva, impone al giudice italiano la disapplicazione della legge interna. Il giudizio, da un certo punto di vista, è simile a quello della Corte costituzionale, con la differenza che, mentre in un caso il contrasto con la Costituzione determina l’illegittimità della legge, nell’altro il contrasto con il diritto dell’Unione si traduce nella disapplicazione del diritto interno. Ma, analogamente a quanto accade per la Corte costituzionale, vincolante è solo il dispositivo nella parte in cui ordina la disapplicazione del diritto nazionale, mentre nessun vincolo giuridico deriva dalle affermazioni svolte in motivazione, il cui valore è legato unicamente all’essere più o meno persuasive. La circostanza che alla Corte costituzionale spetti l’interpretazione della Costituzione, alla Corte di giustizia quella del diritto dell’Unione, alla Corte di Strasburgo quella della Convenzione, alla Cassazione quella della legge ordinaria, non implica alcun monopolio interpretativo né converte questi giudici in legislatori. È vero che nel dispositivo della Corte di giustizia figura l’interpretazione del diritto dell’Unione, ma, come risulta dal comando ivi contenuto, l’interpretazione vincola solo alla disapplicazione della specifica norma interna sulla quale si controverte. È principio fondamentale che la funzione giurisdizionale esplichi la sua efficacia limitatamente al caso deciso, così come, all’opposto, la funzione legislativa si esercita solo in via astratta e generale, mai interferendo su singoli processi. Per ogni altra disposizione del diritto interno, non espressamente menzionata nel dispositivo, ma eventualmente analoga, non esiste alcun obbligo alla sua disapplicazione; pertanto, valutato l’eventuale contrasto con il diritto dell’Unione, il giudice deciderà se applicarla, disapplicarla o, ancora, se investire con un nuovo rinvio pregiudiziale la Corte di giustizia; il tutto, ovviamente, tenendo conto degli indirizzi giurisprudenziali. La Corte costituzionale ha fondato il principio di preminenza del diritto dell’Unione sull’art. 11 Cost., ritenendo che i controlimiti alla sua prevalenza sulle norme interne non fossero rappresentati da tutti i precetti costituzionali, ma soltanto da quelli concernenti i c. d. principi ‘ supremi’ dell’ordinamento o i diritti fondamentali, con tutta l’incertezza che ne deriva per l’individuazione del relativo catalogo (sentenza n. 232 del 1989; da ultimo ordinanza n. 24 del 2017). La sorprendente conseguenza è che il diritto europeo prevale su ogni altra regola costituzionale, a differenza di quanto accade per le disposizioni della Convenzione europea, la cui preminenza deriva dall’art. 117 Cost. e, come tale, riguarda solo la legge ordinaria. A mio avviso, è un assunto decisamente censurabile. Nessun dubbio sul meritorio fondamento dell’art. 11 Cost., dove si prevede il ripudio della guerra come strumento di offesa e il consenso alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni. Scelte sacrosante. Ma quale stretto legame debba ritenersi sussistente tra questi nobilissimi valori e l’intero diritto dell’Unione, incluso quello che concerne i suoi interessi finanziari ad esempio, la riscossione dell’IVA sul territorio nazionale, di cui si tratta nelle sentenze ‘Taricco’ della Corte di giustizia (8 settembre 2015 e 5 dicembre 2017) - resta in gran parte misterioso, nonostante lo affermi la Corte costituzionale. L’abdicazione, sia pure parziale, ai principi e alle regole della Costituzione a tutto vantaggio del diritto europeo è quanto di meno mi sarei atteso dalla Corte costituzionale. Infine, anche ad ammettere che abbia un senso invocare per il diritto europeo l’art. 11 Cost., non esiste alcun motivo per ritenere che una qualche disposizione costituzionale possa entrare in conflitto con il ripudio della guerra, la tutela della pace e della giustizia; e resta quindi, a mio avviso, priva di fondamento la diffusa opinione che, in forza delle limitazioni imposte alla sovranità nazionale, il diritto dell’Unione prevalga su ogni precetto costituzionale non attinente ai principi supremi o ai diritti fondamentali. Citatemi un articolo della Costituzione che contraddica i valori della pace e della giustizia! Solo in presenza di una Costituzione europea, nel quadro di uno Stato federale, si potrebbe ragionevolmente ipotizzare una prevalenza delle disposizioni sovranazionali su quelle della nostra Costituzione; ad esempio, sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, che certamente non può essere incluso tra i principi supremi o i diritti fondamentali. Allo stato attuale la fonte gerarchicamente superiore, checché ne dica la Corte costituzionale nella motivazione (fortunatamente non vincolante) delle sue sentenze, resta la Costituzione in tutti i suoi precetti: non il diritto dell’Unione né tanto meno la Corte di giustizia. La circostanza che sul rapporto tra l’art. 11 Cost. e il diritto dell’Unione converga da tempo un indirizzo consolidato nulla toglie all’esigenza di verificare quanto di preconcetto o di arbitrario possa esservi alla sua base. *Giurista Sulla cannabis la destra rischia una nuova procedura dell’Ue di Vitalba Azzollini* Il Domani, 29 novembre 2024 La norma del ddl Sicurezza che vieta qualunque uso delle infiorescenze della canapa coltivata dovrebbe essere notificata alla Commissione Ue e agli altri stati membri, poiché ostacolerebbe la libera circolazione del prodotto in Ue. Il governo non l’ha fatto. Il rischio è una nuova procedura di infrazione. Il governo italiano ha una relazione complicata con il diritto europeo. Lo ha attestato con la legge che vieta la carne coltivata, inapplicabile per mancato rispettato da parte dell’esecutivo della procedura di notifica all’Unione europea. E in tema di immigrazione ha mostrato di non aver chiaro che le sentenze della Corte di giustizia dell’Ue hanno valore vincolante. Ora l’esecutivo rischia un terzo incidente “europeo”, riguardo alla norma del disegno di legge Sicurezza in tema di infiorescenze della canapa coltivata. La norma - La norma vieta “l’importazione, la cessione, la lavorazione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, l’invio, la spedizione e la consegna delle infiorescenze della canapa coltivata (…) anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché di prodotti contenenti o costituiti da tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli oli da esse derivati”. Le sanzioni sono quelle previste dal Testo unico sulle sostanze stupefacenti. La disposizione riguarda non solo la cannabis per uso ricreativo, ma anche la canapa a uso industriale, la cui coltivazione impiega solo piante a basso contenuto di THC (delta-9-tetraidrocannabinolo). Con il divieto in toto, il governo intende “evitare che l’assunzione di prodotti costituiti da infiorescenze di canapa (Cannabis sativa L.) o contenenti tali infiorescenze possa favorire, attraverso alterazioni dello stato psicofisico del soggetto assuntore, comportamenti che espongano a rischio la sicurezza o l’incolumità pubblica ovvero la sicurezza stradale”. La sentenza della Corte Ue - Con una sentenza del 4 ottobre scorso, in tema di coltivazione della canapa in ambienti interni autorizzati, la Corte di giustizia europea ha statuito che gli stati membri dell’Ue non possano introdurre divieti relativi alla coltivazione di pianta di canapa ad uso industriale, purché il contenuto di THC non sia superiore a 0,2 per cento (attualmente lo 0,3). Se questo limite è osservato, la canapa - senza alcuna differenziazione tra semi, fibre e infiorescenze - rientra tra i prodotti agricoli considerati dalla Pac, la politica agricola comune dell’Ue, nonché tra i quelli oggetto dell’Ocm, organizzazione comune di mercato per l’importazione nell’Unione di canapa e semi di canapa (ad usi diversi dalla semina). E, dice la Corte, “in presenza di un regolamento che istituisce un’Ocm in un determinato settore, gli stati membri sono tenuti ad astenersi dall’adottare qualsiasi misura che possa costituirne una deroga o una violazione”. Dunque, a condizione che il limite di THC sia rispettato, è legittima non solo la coltivazione della canapa, ma anche la commercializzazione del prodotto derivante da tale coltivazione. La procedura Ue - La disposizione inserita nel disegno di legge Sicurezza limiterebbe la libera circolazione all’interno del territorio dell’Unione delle infiorescenze e dei prodotti da esse ricavati (art. 34 e seguenti del Trattato sul funzionamento dell’Ue, TFUE), in violazione di quanto affermato dalla Corte, e come tale andrebbe assoggettata alla procedura TRIS (direttiva 2015/1535). Tale procedura prevede la notifica alla Commissione e agli altri stati membri del relativo progetto normativo, il cui iter di approvazione resta sospeso per tre mesi, affinché essi ne valutino la compatibilità con il diritto dell’Ue. È in questa sede che lo stato può far valere eventuali ragioni di salute pubblica a sostegno del divieto, affinché Commissione e stati Ue ne tengano conto. Tuttavia, anche ove sussistano tali ragioni - dicono i giudici della Corte Ue - una misura restrittiva può ritenersi giustificata solo se, “in conformità al principio di proporzionalità”, sia “idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito” e non ecceda “quanto necessario per il suo raggiungimento”. Può essere utile sapere che nel 2022 il Tar del Lazio ha deciso che la “limitazione all’industrializzazione ed alla commercializzazione della canapa soltanto alle fibre ed ai semi”, cioè con esclusione delle infiorescenze, risulta in contrasto con le disposizioni Ue in tema di libera circolazione, salvo dimostrare che la relativa normativa sia volta a tutelare la salute pubblica, nel rispetto dei citati criteri di proporzionalità. Cosa accade ora - Il governo italiano non ha notificato alla Commissione Ue la bozza di norma che vieta ogni utilizzo delle infiorescenze della canapa. Qualora non lo facesse e la norma stessa fosse approvata, essa sarebbe inapplicabile dai tribunali. E non perché i giudici siano “comunisti”, ma per il contrasto della disposizione con la disciplina europea. L’Italia, inoltre, rischierebbe una procedura di infrazione per la violazione di tale disciplina. E sarebbe l’ennesimo caso. *Giurista Il crimine della guerra sta subendo un salto di qualità: siamo vicini al punto di non ritorno di Pasquale Pugliese* Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2024 “L’idea di una guerra legale o, addirittura, giusta si basa sulla possibilità di controllare gli strumenti di distruzione, ma poiché l’incontrollabilità è parte di quella stessa capacità di distruzione non c’è guerra che non finisca per commettere un crimine contro l’umanità come la distruzione della vita civile”, scriveva la filosofa Judith Butler nel libro Regimi di guerra, del 2009 ma recentemente pubblicato in Italia da Castelvecchi. La guerra dunque è criminogena in quanto tale o, per dirla con le parole di Butler, “le guerre diventano forme permissibili di criminalità, ma non possono mai essere considerate non-criminali”. Il crimine della guerra sta subendo, nel tempo oscuro che attraversiamo, un salto di qualità negativa che - se non interrotto con un estremo sussulto di consapevolezza e responsabilità - porterà presto l’umanità ad un punto catastrofico di non ritorno, non solo a Gaza. Rispetto al quale i governi in carica delle cosiddette “democrazie liberali”, anziché moderare e frenare il processo distruttivo, costruendone le alternative nonviolente per risolvere i conflitti, pigiano sull’acceleratore dell’escalation. Che porta alla catastrofe etica, oltre che umanitaria. A cominciare dal doppio standard con il quale, mentre contribuiscono ad alimentare una guerra senza quartiere né prospettiva in Europa, se non quella nucleare come segnaliamo fin dall’inizio - anziché promuovere un serio negoziato di pace con il presidente russo Putin, nei confronti del quale la Corte penale internazionale ha emanato un ordine di cattura per crimini di guerra - supportano con l’invio di armi mai interrotto il presidente israeliano Netanyahu, al quale, dopo oltre 45.000 vittime civili, il Tribunale dell’Aja ha riservato lo stesso trattamento, per crimini contro l’umanità. Ma in questo secondo caso, la reazione di gran parte di politica e stampa occidentali, alla notizia del mandato di cattura internazionale per Netanyahu, è risultata intrisa di comprensione e complicità con il criminale, anziché con le vittime palestinesi, con tratti di vero e proprio suprematismo di stampo colonialista. Che, peraltro, rinnega gli stessi valori della civiltà giuridica occidentale: che la legge sia uguale per tutti; che nessuno è al di sopra della legge; che i diritti umani sono universali; che non si risponde alla barbarie con una barbarie infinitamente superiore… Ma la coerenza è nemica di ogni fondamentalismo. Del resto, fondamentalismo bellico è anche quello in corso nell’assurda guerra, sempre più globale, tra Nato e Russia - dopo oltre mille giorni dall’invasione russa dell’Ucraina e dieci anni di conflitto armato in Donbass, che ne è stato il presupposto - nella quale le vittime complessive (tra civili e militari, morti e feriti, russi e ucraini) sono stimate ormai in oltre un milione di persone. Guerra che l’Ucraina, che ne è l’avamposto, sta perdendo sul terreno, e che - invece di finire finalmente al tavolo delle trattative, dove ogni giorno che passa le potenziali condizioni per gli ucraini si aggravano - vede alzarsi l’asticella della follia con la discesa in campo dei missili statunitensi e franco-britannici a lunga gittata, che colpiscono fin dentro il territorio russo. E con l’uguale e contraria risposta russa con il missile ipersonico, per il momento armato in modalità convenzionale, ma che potrebbe evolvere nel nucleare e colpire - a sua volta - basi e città europee fornitrici di quei missili, ben oltre il territorio ucraino. Una corsa verso la catastrofe mondiale, che a parole nessuno vuole ma che tutti alimentano, secondo logiche non di diritto internazionale - che altrimenti varrebbero sia in Palestina che in Ucraina - ma volte a ribadire supremazie e aree di influenza planetarie, buttando sempre più benzina sul fuoco criminale della guerra. E mentre la nuova “dottrina strategica” russa, appena varata, avvisa che potrebbe lanciare armi nucleari in risposta a un attacco sul suo territorio da parte di uno Stato non armato nuclearmente, se sostenuto da uno nucleare, dimostra che “la deterrenza nucleare, anziché garantire stabilità, alimenta insicurezze e tensioni crescenti proprie di una cultura di guerra” - come ribadisce Rete Italiana Pace e Disarmo - gli Stati Uniti, dopo i missili Atacms, hanno deciso di inviare in Ucraina anche le mine anti-persona. Ossia armi che mutilano e uccidono soprattutto i civili e per questo vietate dalla Convenzione di Ottawa fin dal 1997, sottoscritta anche dall’Ucraina, al contrario della Russia e degli Usa. Il punto di non ritorno è, dunque, il ritorno agli orrori del passato, dall’uso delle mine alle armi nucleari, ma enormemente più distruttivi. Abbattendo progressivamente tutti i limiti al crimine supremo della guerra. “Nell’epoca delle armi nucleari, se non siamo noi ad abolire la guerra, sarà la guerra ad abolire la maggior parte di noi”, scriveva nel 1970 il politologo Karl Deutsch (Journal of the Conflict Resolution, 14): adesso siamo arrivati al dunque. *Filosofo, autore su pace e nonviolenza La guerra è arrivata in Occidente e noi siamo già potenziali reclute di Domenico Quirico La Stampa, 29 novembre 2024 L’annunciata vittoria non c’è, non basta più mandare armi, ora si scende in campo. A fare da apripista al conflitto mondiale è stato Macron con l’idea di inviare truppe francesi. Per i compilatori in pantofole delle arti della guerra, categoria in allarmante dilatazione numerica in Occidente da due anni e mezzo a questa parte, è il momento cautamente annunciato, previsto, diciamolo pure atteso: si marcia, scendiamo in campo, dunque arruolatevi. Ci vuole qualcosa in più per mettere i russi gambe all’aria e far loro ripassare i vecchi violati confini. La sbandierata strategia logoratrice che ci doveva dare la vittoria senza combattere funziona: ma purtroppo al contrario. La mette a frutto il subdolo Putin. Le sanzioni includono infatti elaborate disposizioni per privare la Russia di tutto ciò di cui poteva a fare a meno. Siamo dunque alla guerra vera anche per noi potenziali reclute d’Occidente, quella ai cui bordi non si mettono le poltrone per guardare con comodo. Basta con le mossette della guerra per procura: dell’aiutiamo gli ucraini a casa loro, l’avanspettacolo del forniamo finanziamo paghiamo aggiungiamo carri armati proiettili aerei missili e tutta questa costosa ferraglia affinché possano essere eroici e si facciano ammazzare per la buona causa. I conduttori della Grande Alleanza, i politici ottusi e gli accorti speculatori della economia bellica, si sono dibattuti finora sotto gli impiastri di questa farmacopea. Sarebbe bello se le imprese restassero fino alla fine dilettevoli come all’inizio, se il fondo di bottiglia fosse gustoso come il primo sorso. Ma la annunciata vittoria non è arrivata e gli ucraini nonostante rifornimenti e armi nuove sono in gravi difficoltà. Si legge tra le righe, sempre più esplicitamente, che bisogna preparare e prepararsi a sacrifici più diretti se non si vuole la confessione di impotenza, la rinuncia, l’accettazione del fatto compiuto. La Nato è ancora un totem ma che perde ogni potere nei confronti dei tabù. E poi, suvvia, la guerra è un delitto solo quando la si perde. Troppo terrore genera apatia ma una dose appropriata crea obbedienza. Dunque procediamo… Resta poco tempo: un paio di mesi, non di più, per avviare la pratica, prima che l’imprevedibile Trump, chissà, forse, sconvolga le carte sul tavolo e metta i bastoni tra le ruote del sillogismo bellicoso più consolidato, ovvero che trattare con il criminale Putin è già riconoscere di aver perso. Scorriamo la cronaca degli ultimi giorni, un devastante uragano: via libera agli ucraini di colpire la Russia in profondità (con missili che necessitano della partecipazione diretta degli occidentali al loro uso), forniture belliche e finanziarie a pioggia prima che a Washington la nuova amministrazione chiuda con avarizia mercantile i rubinetti dei forzieri, una semplificazione da parte russa delle regole per innescare l’Apocalisse, l’ingiunzione occidentale a Kiev di arruolare anche i diciottenni, la leva in massa insomma, e soprattutto la possibilità di “foreign fighters” occidentali nei reparti ucraini. Manca alla guerra solo una solenne dichiarazione ufficiale. Lo scarto con cui questa accelerazione è stato sottovalutato (la ravvicinata soglia atomica è diventata disinvoltamente un patetico bluff putiniano!) rivela la nostra incapacità come opinioni pubbliche occidentali di legare in un ragionamento unico quello che è purtroppo chiaro in ogni conflitto, ovvero il suo irreversibile automatismo. La strategia è sempre il modo di pensare degli insoddisfatti. In fondo l’unico ad aver capito quale sarebbe stato il capitolo finale, la guerra mondiale, è stato Zelensky, perché ha ben poco da perdervi nella sua condizione di aggredito via via più fragile, e la accoglierebbe come una liberazione. Eppure sondaggi coincidenti e indipendenti svelano che la maggior parte degli europei non vuole che la guerra continui e soprattutto li coinvolga. Già: qualcuno ha mai chiesto loro, ufficialmente, politicamente e non per un ufficio di sondaggi demoscopici, se è disposto a combattere? Se le giovani generazioni che non sanno cosa è il servizio militare e la cartolina precetto sono disposti a tornare indietro, al tempo del Centro Addestramento Reclute, del tiro a segno e, peggio ancora, al campo di battaglia? I guerrafondai sanno bene che in quel caso i menamani e i violenti sparirebbero e gli unici a beneficiare di milioni di reclute infervorate sarebbero i pacifisti, finora ridotti a patetici profeti di impossibili sventure da una ben articolata propaganda dell’indifferenza. I renitenti diventerebbero nelle piazze minacciosa marea da far impallidire il “Satyagraha” del mahatma Gandhi. Allora, per evitare il rischio, ordine di servizio a quelli che un tempo si definivano “gli operatori dell’intelligenza”: avanti a piccole ma inesorabili dosi, giorno dopo giorno ma aumentando la velocità degli annunci, delle necessità, in modo che non ci sia tempo per ragionare, riunire i tasselli, esigere spiegazioni: ma come dopo tanti proclami nobili e generosi, tante sicurezze. Dove siamo arrivati? A un bagno di sangue generale, questa è la scelta che ci si offre? Guerra o disordine, nessun’altra prospettiva, la gloria nel fragore dei cannoni... Ma quale eroismi! In guerra si muore come cani! A fare da apripista alla guerra davvero mondiale è il presidente francese Macron, in collaborazione con la Gran Bretagna, combinazione non casuale, sono i vecchi soci micro-imperialisti della sconclusionata operazione democrazia in Libia. La politica non spiega tutto, il resto purtroppo lo spiegano i caratteri: Putin Biden Trump... e Macron. Macron! Come nell’epigrafe di Pier della Vigna, “Venuto dal nulla tornato nel nulla”. In politica interna deve subire lazzi e molestie di personaggi balzachiani come Melenchon; in attesa che le sue opere siano consegnate alla tomba delle raccolte giornaliste, gli resta la politica estera, riserva di caccia della eredità monarchico-gollista. Perché non una nuova spedizione in Crimea contro i russi? Sebastopoli... Il bastione Malakoff... Qui sono e qui resto! Verso la pensione, sì, ma come un Mac Mahon in mezzo allo strepito e al tumulto! Perché non si può parlare di genocidio a Gaza, ma di crimini di guerra e contro l’umanità di Liliana Segre Corriere della Sera, 29 novembre 2024 A Gaza non ne ricorrono i caratteri tipici, mentre sono evidenti crimini di guerra e contro l’umanità, commessi sia da Hamas e dalla Jihad, sia dall’esercito israeliano. Le parole, a volte, diventano clave. Negli ultimi mesi ho fatto appelli per il cessate il fuoco, ho condannato le violenze, ho espresso la più profonda partecipazione al dramma delle vittime innocenti palestinesi e israeliane, ho invocato un rispetto sacrale verso i bambini di ogni nazionalità, di ogni credo, di ogni religione, ho manifestato ripulsa verso lo spirito di vendetta. Eppure, o ti adegui e ti unisci alla campagna che tende ad imporre l’uso del termine “genocidio” per descrivere l’operato di Israele nella guerra in corso nella Striscia di Gaza, o finisci subito nel mirino come “agente sionista”. Le cose in realtà sono più complesse e colpisce che alcuni tra i più infervorati nell’uso contundente della parola malata si trovino in ambienti solitamente dediti alla cura, talora maniacale, del politicamente corretto, del linguaggio sorvegliato che si fa carico di tutte le suscettibilità fin nelle nicchie più minute. Nella drammatica situazione di Gaza non ricorre nessuno dei due caratteri tipici dei principali genocidi generalmente riconosciuti come tali - il Medz Yeghern degli armeni, l’Holodomor dei kulaki ucraini, la Shoah degli ebrei, il Porrajmos dei rom e sinti, la strage della borghesia cambogiana, lo sterminio dei tutsi in Ruanda - mentre sono piuttosto evidenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi sia da Hamas e dalla Jihad, sia dall’esercito israeliano. I caratteri tipici dei genocidi sono essenzialmente due, uno è la pianificazione della eliminazione, almeno nelle intenzioni completa, dell’etnia o del gruppo sociale oggetto della campagna genocidaria, l’altro è l’assenza di un rapporto funzionale con una guerra. Anche i genocidi commessi durante le due guerre mondiali (armeni, ebrei, rom e sinti) non ebbero la guerra né come causa né come scopo, anzi furono eseguiti sottraendo uomini e mezzi allo sforzo bellico. D’altronde, anche di fronte ad operazioni militari volte intenzionalmente a produrre vittime civili e che hanno causato morti innocenti nell’ordine di decine di migliaia (Dresda) o centinaia di migliaia in pochi giorni (Hiroshima e Nagasaki) o addirittura un milione (assedio di Leningrado), non si è mai parlato di genocidi. L’abuso della parola genocidio dovrebbe essere evitato con estrema cura per più di una ragione. In primo luogo, solo coprendosi occhi e orecchie si può evitare di percepire il compiacimento, la libidine con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare ad altri quello che è stato fatto a loro. Un complesso di colpa collettivo prodotto dalla storia si scioglie in un rabbioso sfregio liberatorio verso lo Stato ebraico di Israele, non solo equiparandolo ai nazisti ma rinfocolando tutti i più vieti stereotipi sugli ebrei vendicativi, suprematisti, assetati del sangue dei bambini non ebrei. L’impennata delle manifestazioni di antisemitismo nel mondo, a livelli mai visti da decenni, dimostra l’effetto devastante delle tossine che sono tornate in circolo. In secondo luogo, l’accusa strumentale del genocidio proietta sull’intero Stato di Israele e su tutto il popolo israeliano - non solo sul pessimo governo in carica - l’immagine del male assoluto. Una demonizzazione ingiusta, ma anche controproducente per le prospettive di pace e convivenza. Ogni riduzione dell’altro a mostro, ogni cancellazione manichea delle sue ragioni - vale per i sostenitori acritici dei palestinesi, ma vale specularmente anche per i sostenitori acritici del governo israeliano - serve solo a perpetuare la guerra, a rinsaldare la trappola dell’odio e ad allontanare il giorno in cui potrà, dovrà sorgere uno Stato di Palestina accanto allo Stato di Israele. In terzo luogo, la cultura antifascista e antitotalitaria ha avvertito da sempre le implicazioni velenose delle operazioni di negazionismo, riduzionismo, relativizzazione, distorsione o banalizzazione dei genocidi. Di lì passano inesorabilmente le rivalutazioni delle peggiori dittature e le campagne nostalgiche. Da lì parte il sistematico abbassamento degli anticorpi che sorreggono la coscienza democratica dei cittadini. Inquieta che anche alcuni di coloro che meritoriamente si dedicano alla tutela e alla trasmissione della Memoria sembrino non capire che lasciar passare oggi l’abuso del termine genocidio significa produrre una crepa in un argine. E se crolla quell’argine, domani, potrà passare ben altro.