Le carceri scoppiano, ma la soluzione di Nordio è introdurre i negoziatori per le rivolte di Alice Dominese Il Domani, 23 novembre 2024 Una bozza di decreto del ministero della Giustizia prevede figure professionali qualificate a intervenire durante le proteste, per favorire la “de-escalation” evitando l’uso della forza. Non si tratta di nuove reclute per un organico già deficitario, ma di una specializzazione per chi è già in servizio. Sapp: “Non basta”. Antigone: “Avere figure del genere dovrebbe essere l’ordinarietà. La priorità sia il sovraffollamento”. Mentre il livello di tensione negli istituti di pena cresce, il ministero della Giustizia ha presentato una bozza di decreto che propone l’introduzione della figura professionale dei negoziatori per la gestione degli eventi critici in carcere. Il loro ruolo dovrebbe essere quello di favorire la “de-escalation” dei conflitti in modo pacifico. Nella bozza si legge che l’intento è rispondere alla “necessità di adottare una gestione efficace degli eventi critici di natura particolarmente complessa che turbano gravemente l’ordine e la sicurezza degli istituti penitenziari”. Evitare l’uso della forza per contenere le rivolte, quindi, ma anche le proteste collettive e dei singoli reclusi che possano mettere a rischio l’incolumità di agenti, operatori e strutture. Queste le mansioni che potrebbero essere affidate a ispettori o sovrintendenti della polizia penitenziaria specializzati per limitare la violenza in carcere. “Ma dovrebbe essere l’ordinarietà che le persone che lavorano in carcere siano formate sulla de-escalation - commenta Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone - Gli agenti penitenziari dovrebbero di base avere una disposizione alla mediazione con i detenuti, senza tendere ad acuire il conflitto”. Nonostante questa ipotesi ministeriale per garantire protezione e sicurezza in modo non violento, di recente il ministro delle infrastrutture Matteo Salvini ha proposto di adottare in carcere l’uso del taser. A questo si aggiunge la probabile introduzione del reato di rivolta carceraria da parte del governo. Il cosiddetto ddl sicurezza stabilisce infatti di punire con ulteriore carcere le persone detenute (negli istituti penitenziari e nei Cpr) che partecipano a una rivolta con l’uso della forza, chi fa resistenza agli ordini impartiti e chi protesta attraverso la resistenza passiva. In Italia il numero dei reclusi supera attualmente quello record del 2013, quando il nostro paese fu condannato dalla Corte europea dei diritti umani per trattamenti inumani e degradanti causati dal sovraffollamento nelle carceri. Intanto, da inizio anno i suicidi dietro le sbarre sono stati più di 80. Il tasso di sovraffollamento al 130 per cento, che in alcuni istituti supera il 200 per cento, non fa che aumentare le condizioni di disagio dei detenuti e acuire le difficoltà di chi lavora in carcere, una situazione denunciata anche dalla polizia penitenziaria insieme alla mancanza di tutele nei confronti degli agenti. Lo stress lamentato in alcuni casi è diventato insostenibile. Nel 2024 più di 60 guardie penitenziarie si sono tolte la vita, l’ultima ad agosto. “Il carcere oggi non è più la misura estrema usata per i casi più gravi. Esiste anche una quota di grandi criminali, ma lo stress psicologico alla polizia penitenziaria lo crea la grande massa delle persone detenute costituita da persone che affrontano tutti i tipi di povertà, da quella economica a quella sanitaria, fino a quella relazionale ed educativa. Queste persone in carcere non ci dovrebbero essere. Lo stesso vale per persone con disagi psichiatrici, problemi di tossicodipendenza e minori stranieri non accompagnati con passati tragici che ovviamente hanno dei problemi di gestione”, aggiunge Susanna Marietti, secondo cui oggi, in assenza di politiche dedicate, tutto il disagio sociale viene scaricato nel carcere. I dati del ministero riportano che per garantire il rapporto previsto di un detenuto e mezzo per ogni agente, nelle carceri italiane manca il 16 per cento del personale. La figura del negoziatore non costituirebbe una nuova recluta nell’organico penitenziario, ma una specializzazione per personale già in servizio da almeno cinque anni. “Nonostante l’introduzione di questa figura rappresenti un passo avanti nella gestione delle crisi, il problema delle tensioni carcerarie necessita di interventi strutturali più ampi”, sostiene Giovanni Battista De Blasis, segretario generale aggiunto del Sindacato autonomo polizia penitenziaria. Lo stesso sindacato ha dato notizia della possibile introduzione del negoziatore anche sul proprio canale Instagram. Ma sotto al post dell’annuncio, l’incitazione all’uso della forza da parte di alcuni utenti per sedare i detenuti compare più volte. “L’unica cosa che bisogna fare è: si spengono le telecamere, si spaccano sani sani e si riporta l’ordine in carcere”; “Siete voi che dovete farli neri a prescindere, voi comandate nel carcere, non loro. Se vi fate pestare non lo fate questo lavoro, fate altro, con quella gente non ci si ferma a nulla”, si legge in alcuni commenti. A Trapani come all’Ipm “Beccaria” di Milano, quando la tortura è un metodo di Sofia Antonelli* L’Unità, 23 novembre 2024 Il caso dell’istituto siciliano, con 46 indagati e 11 agenti agli arresti, ricalca uno schema già visto, la sistematicità degli abusi racconta la normalizzazione di un “modus operandi”. E le vittime sono spesso i più fragili. “Un girone dantesco”. Così il procuratore Gabriele Paci ha definito il sistema di violenze e abusi messo in piedi all’interno della Casa Circondariale di Trapani. Sistema venuto alla luce grazie ad un’inchiesta avviata nel 2021 che vede oggi indagate 46 persone - di cui 11 agenti penitenziari agli arresti domiciliari - per vari reati tra cui tortura. Al centro dall’inchiesta non vi sono sporadici episodi di violenza, ma una vera e propria modalità di gestione dell’intero reparto che prevede derisioni, umiliazioni, violenze fisiche. Modalità di gestione che costringe le persone detenute a spogliarsi e ad essere colpite da secchiate d’acqua mista a urina. Il teatro di questi orrori era il cosiddetto Reparto blu, la sezione di isolamento dell’Istituto. Secondo la procura, in questa sezione erano spesso collocate persone con disagio psichico, che invece di ricevere maggiori attenzioni erano vittime del sistema di violenza. Il caso di Trapani ricalca uno schema già visto tante volte, con elementi frequenti in molti casi di (presunta) tortura. Anzitutto l’elevato numero di persone indagate e la sistematicità degli abusi commessi raccontano la normalizzazione di un modus operandi, attuato indisturbatamente per lungo tempo. Circostanze che riportano alla memoria i recenti fatti del Beccaria di Milano. Anche lì le indagini parlano chiaramente di violenza sistematica e reiterata che “connota la condotta ordinaria degli agenti che vogliono stabilire le regole di civile convivenza e imporle picchiando, aggredendo e offendendo”. Un sistema consolidato che ha determinato per un lungo tempo “un clima infernale”, per tornare alla retorica dantesca. Il fatto che a Trapani gli abusi siano avvenuti nella sezione di isolamento rappresenta un altro elemento comune a molti dei procedimenti per tortura. Sempre al Beccaria, ma anche a San Gimignano, Ivrea e Torino, molte delle violenze sono state commesse in questi reparti. Questo perché i luoghi in cui si svolge l’isolamento sono spesso delle sezioni a parte, poco frequentate dal resto del personale, in cui è più facile che accadano abusi di varia natura. Spesso, come nel caso di Trapani, questi luoghi sono anche privi di telecamere. È stato infatti solo dopo le denunce di alcune persone detenute che la procura, nel corso delle indagini, ha installato le telecamere nascoste dalle quali è poi emersa la lunga serie di violenze. Il potere delle immagini è evidente. Santa Maria Capua Vetere ne è la testimonianza. I video della mattanza commessa nell’aprile 2020 nel carcere campano impressionarono il mondo intero, dando avvio al più grande processo di tortura attualmente in corso in Europa. Altro elemento tristemente comune a numerosi fatti di tortura sta nella fragilità delle vittime prescelte. Tra la ventina di casi emersi dalle indagini di Trapani, si parla di persone con disagio psichico, persone con ulteriori difficoltà rispetto al resto della popolazione detenuta. È proprio nei confronti delle persone più deboli che più di frequente si verificano gli abusi. Non è un caso che tra le vittime di tortura vi siano persone con problematiche psichiatriche, come nel carcere di Trapani, persone straniere, come il signore incappucciato e picchiato nel carcere di Reggio Emilia, o addirittura ragazzi minori, come nel Beccaria. Non si tratta di una coincidenza, ma del peggiore sintomo di un sistema che troppo spesso risponde con il pugno duro ad ogni forma di marginalità. Se c’è qualcosa di positivo rispetto a quanto accaduto a Trapani, è il ruolo del Nucleo Investigativo della Polizia Penitenziaria, che ha partecipato alle indagini, facendo venir meno quello “spirito di corpo” che in passato si era registrato. Non è il primo caso in cui torture e violenze emergono grazie agli operatori penitenziari. Nel carcere di Bari erano state la direttrice e la comandante del corpo di polizia a denunciare i fatti. Le indagini su Trapani e i numerosi procedimenti in corso dimostrano non solo che la tortura esiste, ma che, grazie all’introduzione del reato nel 2017, è possibile perseguirla. Chi subisce violenza in carcere deve poter contare su uno strumento forte, che oggi incoraggia, più di prima, la tendenza a denunciare questi episodi. *Associazione Antigone “Il Governo non è garantista. Sia parte civile nei processi ai poliziotti che torturano” di Tommaso Panza Il Domani, 23 novembre 2024 Intervista a Susanna Marietti (Antigone). Per la coordinatrice dell’associazione, le telecamere devono essere messe ovunque. “Da Delmastro messaggio pessimo. Il dl Caivano? Ha distrutto la giustizia minorile”. Sovraffollamento, suicidi, violenza. Le carceri italiane sono al collasso: oltre 60mila detenuti a fronte di poco più di 47mila posti disponibili. In 81 tra i reclusi si sono tolti la vita, sette gli agenti di Polizia penitenziaria. E poi i ripetuti episodi di tortura, pestaggi, abusi di stato. L’ultimo scoperto dalla procura di Trapani, che indaga su 46 agenti di Polizia penitenziaria in servizio nel carcere “Pietro Cerulli” di Trapani. A un anno dal decreto Caivano, il governo non ha ottenuto gli effetti sperati, anzi si è raggiunto il sovraffollamento anche negli istituti penali minorili. Oggi negli Ipm i detenuti sono più di 560 a fronte dei 516 posti disponibili sul territorio nazionale. “Abbiamo imparato qualcosa dal passato?”, intervistata da Domani, si pone questa domanda Susanna Marietti, coordinatrice nazionale e responsabile dell’osservatorio sulle carceri minorili dell’associazione Antigone. Dottoressa Marietti, Andrea Delmastro sostiene pubblicamente di provare piacere personale nel non vedere respirare i detenuti nelle nuove camionette della polizia, intanto un nuovo scandalo di violenze nel carcere di Trapani: c’è un senso di impunità diffuso all’interno del sistema penitenziario? Sicuramente affermazioni come quelle del sottosegretario Delmastro non aiutano e non portano nella giusta direzione culturale, perché questi cambiamenti non si fanno solo nelle aule dei tribunali, dove finalmente comunque alcuni processi stanno andando avanti, ma bisogna dare un segnale per cambiare un problema che troppe volte si è rivelato troppo sistematico, e questo è un limite, non basta tagliare le mele marce. I maltrattamenti in carcere accadono da sempre, non sarà Santa Maria Capua Vetere da sola a scoraggiarli, certo quello è un tassello importante. Capua Vetere perché è venuto fuori? Perché a un certo punto è spuntato un video, non abbiamo ancora capito che le telecamere sono essenziali, a Trapani nella cella d’isolamento non c’erano. Questo governo è garantista? Non direi che questo governo è garantista. Crede ci sarà un commento su quanto accaduto a Trapani? Mi auguro da parte loro un segnale chiaro, per esempio costituendosi parte civile in questo processo di Trapani. Dobbiamo essere uniti in queste battaglie, se hanno a cuore la democrazia dovrebbero farlo. Cosa stanno facendo le forze governative di maggioranza per far fronte al collasso del sistema carceri? Per adesso è stato prodotto questo nuovo “decreto Carceri” del tutto insufficiente in aggiunta al decreto Caivano che ha distrutto il sistema carcerario minorile. Inoltre è in discussione al Senato, dopo essere stato approvato alla Camera, un disegno di legge governativo che introdurrà tra le altre cose il reato di rivolta penitenziaria che manderà ancora di più al collasso il sistema. A un anno dal decreto Caivano, quali sono le criticità maggiori che avete riscontrato? Il decreto Caivano ha impattato sull’ampliamento della possibilità di utilizzo dell’applicazione di custodia cautelare sui minorenni e ha facilitato l’invio nelle carceri maggiori per tutti i giovani adulti che hanno compiuto 18 anni pur avendo compiuto il reato da minorenni e che secondo la nostra normativa potrebbero restare fino ai 25 anni d’età all’interno del sistema della giustizia minorile. Ci sono, inoltre, strumenti di controllo allargati ai minorenni e che prima valevano solo per gli adulti. Il daspo urbano, introdotto nel 2017 quando al ministero dell’Interno c’era Marco Minniti, è uno di questi. Il decreto prevede anche un innalzamento delle pene per quanto riguarda i fatti di lieve entità in materia di sostanze stupefacenti. Lo scorso ottobre Antigone ha lanciato l’allarme sul sovraffollamento record negli istituti detentivi per minori, cosa sta succedendo? Da quando è in vigore il Codice di procedura penale minorile (1988) non era mai accaduto che il sistema penitenziario dei minori fosse sovraffollato. Le presenze sono aumentate del 50 per cento da quando questo governo si è insediato, e l’impennata più grande è avvenuta dall’entrata in vigore del decreto Caivano. In realtà le dico che questi numeri sono anche “falsati” in realtà sarebbero molto più alti se non fosse che tanti ragazzi dopo i 18 anni vengono mandati nelle carceri per adulti. Molti di questi sono minori stranieri non accompagnati che vengono carcerati perché il nostro sistema sociale non è in grado di farsene carico fuori. Spesso arrivano nelle carceri arrabbiatissimi e incorrono quasi sempre nell’isolamento o nell’abuso di psicofarmaci C’è la tendenza a individuare come cause scatenanti modelli esterni (film, serie tv, social) piuttosto che investire sull’educazione? È una tecnica politica sperimentata da tanti anni sia a destra che a sinistra, ovvero quella in cui si creano dei nemici e poi si promette all’opinione pubblica che saremo difesi da questi “nemici”. Delmastro non rimpiange niente di Alice Oliverio Il Manifesto, 23 novembre 2024 Il sottosegretario a Napoli rivendica ancora la frase sui soffocamenti. “Non voglio dare tregua alla mafia”. Poi rilancia: “Contrario a ogni svuota carceri”. “Ribadisco che non voglio dare tregua alla mafia”. Così il sottosegretario Andrea Delmastro torna a commentare la sua uscita sull’intima gioia che gli provoca sapere che i detenuti soffocano sul sedile posteriore dei nuovi mezzi della polizia penitenziaria. Di più, da Napoli, a margine dell’incontro organizzato dall’Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria su “Carcere e criminalità 4.0. Sfide e opportunità per la polizia penitenziaria”, Delmastro insiste, aprendo anche squarci sulla sua vita domestica: “Mia moglie, quando mio figlio Giovanni continua a dire che non vuole finire i compiti, che vuole andare a guardare la tv o stare sul tablet, sapete che gli dice? Non ti lascio respirare finché non finisci i compiti. E non ho mai pensato che mia moglie volesse asfissiare mio figlio. Se avesse un senso letterale quella frase, dovremmo desumerne che uno in Italia compra le macchine asfissianti? Allora, dietro quei vetri ci sono i mafiosi al 41bis”. Segue una spiegazione tecnica sull’incredibile novità che questi nuovi mezzi rappresenterebbero. “Mi sarebbe piaciuto che il discorso fosse stato serio chiedendoci cosa c’era prima? Sapete cosa c’era prima? I furgoni. Qualcuno riesce a entrare con un furgone per il trasporto di 20-30 persone nei Quartieri Spagnoli? Io no. Cosa succedeva prima? Si fermava il furgone e si procedeva con la traduzione del camorrista a piedi nei Quartieri Spagnoli. Crede sia sicurezza questa? Penso proprio di no”. Dunque non staremmo parlando delle fantasie sadiche di un esponente del governo, ma di “una risposta di sicurezza alla Polizia penitenziaria”. Prosegue Delmastro: “Sono fiero di poter dire che con questi strumenti sarà sempre più impossibile aprire a camorra, a ‘ndrangheta, a mafia, faglie che possano usare per evasioni, per aggressioni alla polizia penitenziaria. Ripeto, non vogliamo dare tregua alla criminalità organizzata. Peraltro non è che abbiamo scoperto l’acqua calda: il primo provvedimento del governo Meloni è stato quello di salvaguardare l’ergastolo ostativo dalla scure di incostituzionalità perché è nelle corde e nel cuore del presidente Meloni contrastare la criminalità organizzata se non altro perché, è fatto notorio, più volte detto dal presidente Meloni, che questa è una generazione che ha cominciato a fare politica sull’onda emotiva delle stragi di via Capaci e di via D’Amelio. Siamo fatti così, questa è la nostra pasta”. Ultimo affondo sul sovraffollamento carcerario. “Sono nato 50 anni fa e c’era già il sovraffollamento e mancavano 10mila posti detentivi - sostiene Delmastro -. Sono arrivato nel mezzo del cammin della mia vita e ci sono ancora il sovraffollamento e mancano 10mila posti detentivi: in mezzo ci sono decine di provvedimenti svuota carceri e mi pare evidente che quella misura abbia fallito”. “Riconciliare svuota le carceri. Il 90% dei reclusi non dovrebbe star lì” di Angelo Picariello Avvenire, 23 novembre 2024 “Il novanta per cento dei detenuti nelle carceri nemmeno dovrebbe essere lì”. L’affermazione è perentoria, e non riguarda solo i potenziali innocenti reclusi, ma anche - e soprattutto - i casi di persone colpevoli, sì, ma che trarrebbero maggiore giovamento per sé stessi e per la società da un espletamento della pena diverso dal carcere. Lo pensa, a ragion veduta, il professor John Braithwaite, considerato il “padre” della giustizia riparativa. E l’insufficiente deterrenza che mostra persino la pena capitale (basti pensare al proliferare di reati di sangue negli Usa che ancora la prevedono) impone di esplorare anche questa strada diversa, “che è anche più efficiente”, assicura Braithwaite, docente dell’Università di Camberra, insignito venerdì al Quirinale del premio Balzan. Una strada in grado di andare dal particolare all’universale, come avvenne in Sudafrica, per superare l’Apartheid. Una strada alternativa che un Paese come il nostro (che nella sua Costituzione ripudia la guerra e finalizza la pena alla rieducazione del condannato e vieta quelle contrarie al senso di umanità) inizia a prendere in considerazione, sia pur a piccoli passi e con mille incertezze, dopo l’inserimento all’interno della riforma Cartabia. “La giustizia riparativa dà ristoro alle vittime, agli offensori e alle comunità. Poiché il reato ferisce, la giustizia deve guarire”, spiega Braithwaite. In Italia quasi 100 detenuti l’anno si tolgono la vita considerando impossibile il riscatto che la Costituzione prevede. La giustizia riparativa può consentire di andare oltre il carcere? Vengo dall’Etiopia, le rispondo con un esempio concreto, che mi è stato raccontato dal massimo responsabile della magistratura di Addis Abeba. Una persona fu condannata ingiustamente in base all’accusa di un solo testimone e di indizi molto deboli. Espiata la pena il presunto colpevole ha voluto che venisse riconosciuta la sua innocenza, ma ricorrendo alla giustizia riparativa non c’è stato bisogno di nessuna nuova condanna: è riuscito a far ammettere al testimone di essere lui il vero responsabile, senza che nessuno dei due avesse interesse a riaprire il caso sul piano formale, interesse che non avevano nemmeno i magistrati. Così è stata ristabilita la verità, risanata una ferita, in un modo così efficace che nessuna condanna avrebbe potuto riuscirvi. Un caso limite, difficilmente replicabile per l’ordinamento italiano, che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale. Ma spiega molto bene l’efficacia della giustizia riparativa... Pochi interventi sono altrettanto efficaci, anche sul piano dei costi: è stato calcolato un rapporto costi-benefici rispetto ai percorsi “ordinari” di 8 a 1. In Italia c’è un grave problema di sovraffollamento delle carceri e di condizioni della detenzione in molti casi ben lontane dagli standard delle Convenzioni internazionali... L’efficacia della giustizia riparativa è in grado di agire proprio a questo livello. O meglio, potrebbe agire, se ci fosse maggiore fiducia e maggiore possibilità di farvi riscorso. Invece essa viene utilizzata, in genere, solo per i casi che non prevedono il carcere, e non quindi come un’alternativa ad esso. E viene esclusa per i reati più gravi, questo è sbagliato. Si sottovaluta l’effetto ulteriore che si crea con il crollo della recidiva e con l’interruzione del rischio-emulazione, se pensiamo ai reati di gruppo fra gang di quartiere, o alle rivalità fra diverse etnie... La “convenienza” della giustizia riparativa è proprio questa: sana una ferita, consente di voltare pagina. Ci sono studi che lo dimostrano. Sono state condotte otto meta-analisi sull’efficacia nella prevenzione dei reati. Sono studi e situazioni molto diverse, ma portano tutte, fondamentalmente, alla medesima conclusione: la giustizia riparativa ottiene una riduzione statisticamente significativa della criminalità. Senza trascurare che le vittime, in una spirale di odio non sanata, possono trasformarsi in autori di reati, a loro volta. La giustizia riparativa ha effetti più potenti proprio in relazione alle vittime del reato, soprattutto nel caso di reati violenti: la guarigione riparativa e la risoluzione dei problemi hanno l’ulteriore vantaggio di prevenire futuri reati anche da parte delle vittime. Ma questo non viene colto nelle analisi, in quanto si esamina solo il rischio recidiva, e non quello della ritorsione: è un punto molto rilevante, questo, per prevenire le guerre fra bande di criminali organizzati. Ma l’esperienza può essere trasferita anche sulle milizie insurrezionali e anche sugli eserciti nazionali. Recenti esperienze hanno sperimentato anche gli effetti possibili in teatri di guerra, come l’Irlanda del Nord o il Medio Oriente... La pace è la nuova frontiera della giustizia riparativa. Dal 2004 ho intervistato 5mila persone coinvolte in 80 conflitti. nell’ambito del progetto Peacebuilding compared (Costruzione della pace comparata). Studio i risultati che può dare la diplomazia riparativa. La fondazione Balzan, che mi ha premiato, finanzierà il prosieguo di questo progetto, che riguarderà soprattutto l’Africa, intervenendo in circa 30 conflitti. Nordio avverte i magistrati: “Parlino con il buon senso” di Conchita Sannino La Repubblica, 23 novembre 2024 In Cdm le sanzioni per le toghe che commentano le norme di cui si occupano. Conflitto quotidiano. Un avviso al giorno. O un paletto, una stoccata o una nuova norma che delimiti il campo. Anche ieri, l’offensiva del governo sulla giustizia, che allarga il solco tra politica e magistratura, non conosce soste. Prima la presidente Giorgia Meloni: che rivendica con i sindaci dell’Anci la cancellazione dell’abuso d’ufficio, indicando come pericolo scampato “i lunghi e disonorevoli processi” per i buoni amministratori. Nelle stesse ore, da un convegno a Firenze, calano ancora sul caso migranti - i duri, affilati distinguo contro le toghe da parte di un autorevole parterre: Carlo Nordio, Alfredo Mantovano, Fabio Pinelli. I giudici siano “sottoposti alle leggi, non solo alla Costituzione, come dice la nostra Carta”, le loro bocche siano collegate “al raziocinio”. Di più: “Perché votare i politici se poi i giudici disapplicano le loro leggi?”. O anche: “Non c’è spazio per il diritto creativo”. Ed è pronta l’altra trincea: lunedì sarà discussa in Consiglio dei ministri, nel nuovo decreto legge in materia di giustizia, la norma che impone ai giudici di non fare commenti, né dichiarazioni, sulle materie di cui dovranno occuparsi, o rischieranno azioni disciplinari (proposta che richiama il caso della giudice Silvia Albano, “rea” per la destra di non essersi astenuta sulla pronuncia sui migranti). Da Torino, è la premier a farsi vanto di aver dato lo stop, con la riforma del codice penale, all’abuso d’ufficio. “Non volevamo lasciare i sindaci in balìa della paura della firma - spiega Meloni, videocollegata con l’Anci - Lo rivendico”, si evitano così “lunghi e disonorevoli processi per le persone perbene”. Poco prima, erano partite le altre bordate. “Non c’è spazio per il diritto creativo. I decreti del Tribunale di Roma erano carenti di motivazione e li abbiamo impugnati”, sentenzia Nordio, il ministro della Giustizia. Che poi cita Shakespeare e aggiunge: “Le bocche dei giudici devono essere ispirate dal raziocinio, dal buon senso, e dal principio di legalità”. Ci va giù duro anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Mantovano, un magistrato: “Un cittadino può chiedersi: ma che senso ha votare per scegliere i miei rappresentanti al Parlamento se poi le leggi del Parlamento sono disapplicate da alcuni giudici di merito?”. Altri colpi. “Alle norme non si possono attribuire le soggettive valutazioni valoriali” dei magistrati, i quali “non hanno legittimazione politica”. Anzi, “il giudice è soggetto alla legge, non alla Costituzione”, puntualizza Pinelli, vicepresidente del Consiglio superiore. Mattarella, che del Csm è la guida, esattamente un mese fa, aveva ammonito dopo le prime scintille sui migranti: basta conflitti, le istituzioni appartengono a tutti. Invece, proprio sul flop della missione Albania, lo scontro divampa. Dall’altro lato, la durissima critica espressa dalle Corti di appello d’Italia contro l’emendamento (già passato in commissione) che trasferisce proprio a quegli uffici ricorsi e convalide sui trattenimenti dei migranti. Dall’altro, la nuova ipotesi di “illecito disciplinare”: un nuovo bavaglio per i giudici. Reagisce Area, la corrente progressista, con Giovanni Zaccaro: “Serve a ridurre i magistrati a burocrati silenziosi”. Serracchiani, responsabile Pd Giustizia: “L’attacco alla magistratura è il primo tassello quando si punta al potere assoluto”. Stretta sulla giustizia, silenziati i magistrati: arresti per gli spioni di Irene Famà e Paolo Festuccia La Stampa, 23 novembre 2024 Il decreto legge nell’agenda del Consiglio dei Ministri di lunedì. Nordio: no al diritto creativo. Una battaglia lunga. Da una parte il governo e dall’altra le toghe. Il primo fronte è il prossimo decreto legge che il governo è pronto a varare lunedì in consiglio dei ministri, il secondo, apparentemente teoretico ma in realtà di sostanza, sul prevalere della giurisprudenza italiana al cospetto di quella europea. Vince l’una o l’altra. In sostanza, hanno ragione i giudici di Bologna che sul nodo “Paesi sicuri” hanno inviato le carte alla Corte europea o il governo che sulla crisi del centro migranti in Albania si è mostrato pronto a fare le barricate? Una prima risposta arriva dal presidente della Corte Costituzionale. Augusto Barbera, nell’argomentare che le “fonti normative europee sono molto complesse” chiarisce però, nell’ambito di un convegno a Firenze, che in passato “se un giudice si trovava in contrasto tra norma interna e norma europea non poteva sollevare la questione, ma doveva limitarsi a disapplicare la norma. Con la sentenza 269 del 2017 si è detto che il giudice rimane libero di scegliere una strada o l’altra”. Come dire che i giudici di Bologna (ma non solo) nei fatti, scegliendo una strada, hanno applicato la legge. In punta di diritto. Certo. Ma Fabio Pinelli, vice presidente del Csm - dallo stesso convegno - allarga l’orizzonte per mettere a fuoco altra carne: “Non si dica, per carità, che in base all’articolo 101 della Costituzione, il giudice è soggetto “solo” alla Costituzione. Il costituente parla chiaramente di “legge”, non di Costituzione, e non c’è argomentazione seria che tenga per poter superare un dato testuale inequivoco e fondamentale per la tenuta degli equilibri dello Stato democratico”. Insomma, il sillogismo del numero due del Csm pare far rima con le tesi che appassionano la politica: il legislatore fa le leggi, i magistrati le applicano, ma soprattutto non le “ostacolano” o meglio per dirla come il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano, “per l’esercizio della giurisdizione non è sufficiente avere la Costituzione in tasca. La Costituzione chiede al giudice di assoggettarsi a tutte le leggi emanate dai rappresentanti del popolo sovrano pur se non le si condividono, e sempre salvo il ricorso alla Corte costituzionale”. Il decreto cyber e giustizia - Non a caso, lunedì in consiglio dei ministri andrà il decreto cosiddetto cyber e giustizia che contiene una serie di norme che impongono ai magistrati una serie di paletti, anche sulla loro loquacità. Perché come sostiene il guardasigilli Carlo Nordio, “le bocche dei giudici non sono bocche mute, come Shakespeare definiva le ferite di Giulio Cesare, sono bocche che parlano e che devono essere ispirate dal raziocinio, dal buon senso, e dal principio di legalità”. Dunque, “non c’è spazio, ed è già stato ribadito molte volte anche dal presidente Mattarella, per il cosiddetto “diritto creativo”. Da qui, il provvedimento, visto dalle toghe come fumo negli occhi. Centrale è l’articolo 4, quello che minaccia di infliggere azioni disciplinari ai magistrati che prendono posizione pubblica su un argomento di cui si occupano o si occuperanno. Parla del “dovere di astenersi nei casi previsti dalla legge o quando sussistono gravi ragioni di convenienza”. In caso di azione disciplinare del ministro, come da prassi spetterebbe poi alla sezione disciplinare del Csm decidere se infliggere una sanzione. Un bavaglio, sostengono molti togati. Senza nascondere una tra le loro principali preoccupazioni: la norma, per com’è scritta, attribuirebbe eccessiva discrezionalità al ministro. Nordio, da parte sua, dichiara: “Escludo di esercitare il potere disciplinare per le decisioni di merito dei giudici”. Nella bozza del decreto, poi, ci sono anche “Disposizioni urgenti per il contrasto dei reati informatici”. Il testo prevede che il procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo eserciti “le funzioni di impulso” anche per il reato di estorsione informatica. Insorge il presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri: “Dopo il caso Striano non mi sembra proprio il caso di potenziare nemmeno il potere di impulso di questa Procura, sulla quale stiamo indagando nella Commissione Antimafia”. La bozza poi prevede l’arresto obbligatorio in flagranza per “accesso abusivo a un sistema informatico o telematico in sistemi informatici o telematici di interesse militare o relativi all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica o alla sanità o alla protezione civile o comunque di interesse pubblico”. E che, in questi casi, la durata massima delle indagini preliminare non sia di diciotto mesi, ma di due anni anche per il reato di estorsioni informatica. Pinelli contro i giudici: “Soggetti alla legge, non alla Costituzione” di Mario Di Vito Il Manifesto, 23 novembre 2024 Il vicepresidente del Csm si schiera col governo. Critiche da Md e da Area: “Vorrebbe dei magistrati assoggettati al legislatore”. Anche Nordio all’incontro di Firenze: “Non c’è spazio per il diritto creativo”. Ma il presidente della Consulta Barbera ricorda che una norma si può disapplicare. L’incontro organizzato a Firenze dalla Corte dei conti s’intitolava “Giustizia al servizio del paese”. I convitati - soprattutto il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il sottosegretario Alfredo Mantovano e il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli - lo hanno evidentemente inteso come “Giustizia al servizio di chi governa il paese”. E così è passata un’altra giornata di attacchi della destra ai giudici. Questa volta il punto d’attacco è stato l’articolo 101 della Costituzione (“La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge”). Così Pinelli: “Non si dica, per carità, che in base all’articolo 101 della Costituzione, il giudice è soggetto solo alla Costituzione. Il costituente parla chiaramente di legge, non di Costituzione, e non c’è argomentazione seria che tenga per poter superare un dato testuale inequivoco e fondamentale per la tenuta degli equilibri dello Stato democratico”. Poi, senza mai citare episodi specifici ma riferendosi in tutta evidenza alle decisioni assunte dai tribunali nelle ultime settimane in materia di immigrazione, con l’invito rivolto ai giudici a non esagerare con le “soggettive valutazioni valoriali”, perché non si può andare oltre la legge “in nome di pretese interpretazioni conformi alla Costituzione, alla Cedu o alla Corte di giustizia europea o al diritto dell’Unione”. A metterci il carico sopra ci ha pensato poi Nordio: “Non c’è spazio per il cosiddetto diritto creativo”. Frase che sembra un ritorno a mezzo secolo fa, quando si parlava di “giurisprudenza alternativa”, cioè costituzionalmente orientata, e la destra accusava le toghe rosse di inventarsi un diritto tutto loro. Ovviamente non era così: tanti pronunciamenti della Consulta hanno chiarito che la Costituzione non è solo una carta programmatica ma anche un valore di cui il giudice deve tener conto in fase di interpretazione. E se secondo Mantovano “l’articolo 101 non gode in questo momento di un’ottima salute” e “per l’esercizio della giurisdizione non è sufficiente avere la Costituzione in tasca”, a rispondere in maniera molto tecnica ci ha pensato poco dopo il presidente uscente della Corte costituzionale Augusto Barbera, spiegando che, con la sentenza 269 del 2017 si è detto che i giudici hanno la possibilità di scegliere se sollevare una questione davanti alla Corte costituzionale o se passare direttamente alla disapplicazione della norma. Come in effetti accaduto con le deportazioni in Albania prima e con il decreto sui paesi sicuri dopo. “Le decisioni della Corte costituzionale offrono maggiore certezza giuridica, senza escludere la possibilità di ricorso diretto alla Corte di giustizia”, ha poi aggiunto. Restano comunque le parole di Pinelli, che ha assunto una posizione politica, chiarendo da quale parte sta in questa fase dello scontro tra governo e giudici, mascherando il tutto da opinione tecnica. “Appare scontato che i giudici sono soggetti alla legge - scrive in una nota il coordinamento di Area democratica per la giustizia -. Oggi, tuttavia, la legge non è solo quella del parlamento nazionale, ma anche le fonti fondamentali e sovra ordinate della Costituzione repubblicana, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dei trattati della Unione. Non lo dicono le ‘toghe rosse’: è un dato acquisito ed incontestato da chiunque studi e pratichi il diritto. Se invece il vicepresidente Pinelli per soggezione solo alla legge intende soggezione dei magistrati solo al legislatore e quindi alla volontà politica del momento, dimentica il senso autentico delle democrazie moderne e del principio di separazione dei poteri”. Critico anche il segretario di Magistratura democratica Stefano Musolino. “Le parole di Pinelli devono essere intese o come ripetizione stentorea di noti principi oppure come una critica ai giudici che hanno sollevato la questione di pregiudizialità o disapplicata la normativa nazionale, in materia di procedure accelerate di frontiera - ha detto al manifesto -. Così intese queste tendono a sovrapporsi a quelle pronunciate da Mantovano ed è questa sintonia di scopi che va oltre le parole ad inquietare. Invece, di difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, il vicepresidente si associa alle critiche governative sulla modalità con cui le norme sono state interpretate. Non ricordo che vi siano precedenti analoghi. Ma anche questo dà il senso dello stress dei rapporti istituzionali che stiamo vivendo”. Immunità di toga. Enrico Costa: in Italia chi sbaglia non paga di Valentina Stella Il Dubbio, 23 novembre 2024 Responsabilità civile dei magistrati, il deputato di FI critica la norma attuale: via di fuga dagli errori. I magistrati non pagano mai per i loro errori. È questo il senso della polemica sollevata ieri dal deputato di Forza Italia, Enrico Costa. In un momento in cui il governo si appresta a varare nel Consiglio dei Ministri di lunedì una nuova norma sul disciplinare delle toghe che amplierà di molto le possibilità del ministro della Giustizia di esercitare l’azione disciplinare contro le toghe troppo esposte pubblicamente, il parlamentare azzurro rilancia anche la questione della responsabilità civile dei magistrati, definendola “una legge che è una immunità”. La storia la conosciamo: nel 1987, sulla scia di vicende giudiziarie considerate emblematiche di mala giustizia, come il caso Tortora, il Partito radicale propose un referendum per rendere più severa la legislazione in materia, per consentire a qualsiasi cittadino si sentisse danneggiato da un provvedimento di un magistrato, per dolo o colpa grave di quest’ultimo, di ottenere dal magistrato responsabile il risarcimento dei danni che questi gli aveva causato. L’ 80,21% degli italiani voleva che le regole cambiassero e solo il 19,79% votò no. Ciò nonostante, il Parlamento, con l’approvazione della cosiddetta “legge Vassalli”, disciplinò la materia in modo da vanificare del tutto l’esito del referendum. Poi arrivò la riforma del 2015, che mantenne l’attuale principio della responsabilità indiretta del magistrato, per cui l’azione risarcitoria rimane azionabile nei confronti dello Stato. Scrive allora Costa in una nota: “Le norme sulla responsabilità civile hanno portato in 14 anni a sole 12 condanne di fronte a 815 cause intentate contro lo Stato che hanno finora prodotto 311 sentenze definitive”. Costa ricapitola poi per marcare maggiormente i numeri: “Dal 2010 ad oggi, quindi in 14 anni, sono state avviate 815 cause di responsabilità civile nei confronti dei magistrati. In media 58 l’anno. Dal 2010 ad oggi ci sono state 311 pronunzie definitive. Dal 2010 ad oggi lo Stato ha subito solo 12 condanne (1,4% delle cause iscritte). Alcune cause certamente si sono infrante contro il filtro di ammissibilità, soppresso dalla riforma del 2015, altre sono state rigettate, altre ancora sono ancora in corso. Ma la tendenza è chiara”. Il deputato poi ricorda: “Quando venne approvata la legge del 2015 si è prevista, nella relazione tecnica, una proiezione di aumento delle condanne, prevedendo 10 condanne l’anno per una cifra complessiva di 540.000 euro. Era una cifra minima se si pensa ai numeri della responsabilità professionale nei vari settori. Ma a superare di poco le 10 condanne ci sono voluti molti anni”, ha spiegato ancora Costa. “Sono dati chiarissimi che dimostrano che la legge fa acqua da tutte le parti e va modificata. Tutto ruota intorno alla clausola in base alla quale “non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”, che rappresenta lo scoglio sul quale si infrange la responsabilità civile. Ma la “valutazione del fatto e della prova” rappresenta anche l’essenza del delicato lavoro del magistrato: se in quella fase ci sono errori che danneggiano il cittadino, perché questi non può chiederne conto?”, si chiede Costa. “Se un medico sbaglia una diagnosi, un ingegnere sbaglia un calcolo, un sindaco sbaglia una delibera, si attivano meccanismi di responsabilità, che per i magistrati sono inimmaginabili”. Insomma per Costa le toghe sono una casta che sbaglia, ma non viene mai messa alla sbarra per essere sanzionata. Il deputato poi si sposta sulla stretta attualità. In queste settimane, infatti, le toghe difendono la loro autonomia e indipendenza rispetto agli attacchi subìti dalla maggioranza a seguito delle loro decisioni in materia di migrazioni. Però per Costa “quello dell’autonomia e indipendenza è ormai lo scudo che esonera dal dover rispondere degli errori. Vale per le valutazioni di professionalità, per la responsabilità disciplinare, per quella contabile e, come emerge dai numeri, per quella civile. Purtroppo la politica non fa seguire alle parole alcun atto concreto e chi sbaglia continua a non pagare”. In realtà lo stesso Costa, insieme ai colleghi azzurri Tommaso Calderone e Annarita Patriarca, ha presentato un emendamento alla proposta di legge Foti che modifica il codice della giustizia contabile affinché gli atti vengano trasmessi al Procuratore generale della Corte dei conti per l’esercizio, da parte dello Stato, di un’azione di rivalsa nei confronti del magistrato che ha causato una ingiusta detenzione. Il provvedimento è fermo nelle Commissioni riunite della Camera, Affari costituzionali e giustizia. Secondo alcune fonti, il governo starebbe facendo pressioni affinché l’emendamento venga ritirato, ma conoscendo Costa non dovrebbe esserci un passo indietro. Anche l’Associazione Errorigiudiziari.com chiede da tempo un cambio di passo. “Negli ultimi 31 anni (dal 1992 al 2023) lo Stato ha speso circa 874 milioni e 500 mila euro per indennizzare 31.175 persone finite in carcere ingiustamente. Eppure nello stesso periodo la Corte dei conti ha intrapreso una sola azione di rivalsa per danno erariale nei confronti di un magistrato, recuperando la somma di 10.425,68 euro”, hanno sottolineato i giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, fondatori dell’Associazione Errorigiudiziari.com. Pm d’assalto e reati evanescenti: perché fare politica ormai è da masochisti di Ermes Antonucci Il Foglio, 23 novembre 2024 Negli ultimi dieci giorni tre processi per voto di scambio politico-mafioso che avevano travolto importanti amministrazioni locali sono finiti con l’assoluzione degli imputati. Fare politica, cioè cercare consensi, costituisce ormai una pratica da kamikaze. Fare politica a livello locale, cioè ottenere consensi (leggasi voti) per poter essere eletti a incarichi di governo, sta diventando impossibile. Anzi, costituisce ormai una pratica da kamikaze. Colpa di una magistratura che tende a vedere il marcio ovunque, ma anche di una politica che, pur di soddisfare gli istinti forcaioli dell’opinione pubblica, ha inasprito alcuni reati, rendendoli però sempre più evanescenti. Si prenda il reato di voto di scambio politico-mafioso. Vi forniamo un dato: solo negli ultimi dieci giorni, tre processi per voto di scambio politico-mafioso che avevano travolto importanti amministrazioni locali si sono conclusi con l’assoluzione dei politici coinvolti. Le vicende riguardano tre comuni del sud Italia, ma sappiamo che ormai la criminalità organizzata è presente su tutto il territorio nazionale. Lo scorso 13 novembre il tribunale di Nocera Inferiore ha assolto il sindaco di Scafati, Pasquale Aliberti, imputato di voto di scambio politico-mafioso in un’inchiesta condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Salerno. L’accusa dei pm, basata sulle rivelazioni di presunti pentiti, era che Aliberti avesse stretto un patto con alcuni esponenti di un clan mafioso in vista delle elezioni amministrative del 2013 e delle regionali del 2015: voti in cambio di futuri appalti. L’indagine esplose nel 2018 e Aliberti finì addirittura in carcere, mentre il comune venne sciolto per mafia. Al termine del processo, la Dda di Salerno ha chiesto una condanna di 6 anni e 8 mesi, ma Aliberti è stato assolto da ogni accusa “perché il fatto non sussiste”. Martedì scorso è invece stato assolto dall’accusa di scambio politico-mafioso l’ex sindaco di Rosarno, Giuseppe Idà, coinvolto nel 2021 nella maxi inchiesta Faust condotta dalla Dda di Reggio Calabria. A causa dell’inchiesta, Idà finì agli arresti domiciliari e si dimise da sindaco insieme a tutta la sua giunta. L’accusa, anche per lui, era di aver stretto un patto con una cosca mafiosa che prevedeva l’appoggio elettorale in cambio di nomine comunali e assegnazione di lavori pubblici. Mercoledì, infine, è stato assolto l’ex consigliere regionale calabrese Rosario Mirabelli, imputato nel processo scaturito dall’inchiesta “Sistema Rende”, anche lui accusato di voto di scambio, insieme a diversi altri politici, tra cui gli ex sindaci di Rende, Sandro Principe e Umberto Bernaudo, già tutti assolti nel filone principale. Secondo i pm della Dda di Catanzaro, che avevano avviato l’inchiesta nel 2012, i politici (finiti agli arresti) avevano stipulato un patto con una cosca che prevedeva favori amministrativi in cambio di voti. Il dato - tre processi per voto di scambio finiti con l’assoluzione nell’arco di dieci giorni - diventa ancora più impressionante se si tiene conto che il reato in questione è stato modificato per l’ennesima volta nel 2019, ai tempi del governo gialloverde, con una riforma approvata in Parlamento da M5S, Lega e Fratelli d’Italia. La modifica prevede che per configurare il reato di voto di scambio non sia necessario che l’appartenenza ai clan dei soggetti che promettono di procurare voti sia nota al politico che accetta la promessa. Secondo questa ottica assurda, il politico impegnato in campagna elettorale dovrebbe conoscere l’identità e le relative fedine penali di tutte le persone che incontra per cercare consensi. È molto probabile, cioè, che l’applicazione della riforma nei prossimi anni porterà a inchieste per voto di scambio ancor più numerose e dai presupposti ancora più fumosi. In altre parole, il peggio deve ancora venire. Il fare politica, soprattutto al sud, sarà sempre di più un affare da masochisti. Sicilia. Suicidi, aggressioni, celle affollate: l’inferno delle carceri di Francesco Patanè La Repubblica, 23 novembre 2024 Zoom sui penitenziari dopo il caso Trapani: nelle strutture dell’Isola oltre 7mila reclusi, l’otto per cento in più. Negli istituti minorili di Palermo e Acireale alta tensione fra i ragazzini italiani e gli stranieri. Sono sovraffollate, non hanno medici né psicologi di supporto, in alcuni casi hanno zone senza luce e acqua e arrivano a ospitare fino a 18 detenuti in celle fatiscenti di 30 metri quadrati. Sono le carceri siciliane, 23 strutture fra case circondariali e istituti di pena che cadono a pezzi. Per sorvegliare i 7.073 detenuti il Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) fa i salti mortali: mancano 584 agenti su un organico di 4.195 effettivi. “La carenza è generalizzata - dicono dall’ufficio del garante siciliano per i detenuti - come il sovraffollamento che per fortuna non arriva ai livelli delle regioni del nord. Il problema maggiore sono le strutture carcerarie ormai allo stremo”. I posti disponibili sono 6.518 a fronte di una popolazione carceraria che supera le 7 mila unità (di cui 1.008 stranieri). L’8 per cento in più. Ieri al Pagliarelli di Palermo il combinato disposto di sovraffollamento e carenza di agenti ha prodotto l’ennesima aggressione: un detenuto sorpreso in cella con oggetti non consentiti ha preso a pugni due ispettori. Uno ha riportato la frattura del setto nasale mentre il collega ha subito una frattura alla mano. L’episodio si è verificato nel reparto “Mari” durante alcune perquisizioni a caccia di telefoni e altri strumenti vietati. Attualmente al Pagliarelli sono detenute 1.408 persone a fronte di una capienza massima di 1.165 posti. Di contro gli agenti in organico dovrebbero essere 727 ma in servizio ce ne sono appena 666, sessantuno in meno. Le carceri che cadono a pezzi favoriscono gli episodi di violenza. Lo dimostrano i report di Caltagirone e Augusta, fra i primi istituti in Italia per aggressioni al personale della penitenziaria e per atti di autolesionismo. Ad Augusta quest’anno sono morti due detenuti dopo uno sciopero della fame durato rispettivamente 40 e 60 giorni. Le celle anguste, in alcuni casi senz’acqua e corrente elettrica, scatenano la rabbia dei detenuti, che viene “gestita” da personale sotto organico. Dall’inizio dell’anno i suicidi in Sicilia sono stati già tre. Certo, a livello nazionale i dati sono ancora peggiori, ma il trend siciliano è in pericoloso aumento. “C’è una totale inadeguatezza della risposta alle necessità di trattamenti sanitari per i tanti detenuti affetti da disturbi e malattie psichiatriche certificate”, commenta Giorgio Bisagna dell’associazione Antigone. Proprio i soggetti più fragili sono stati le vittime principali delle torture nel carcere di Trapani, quelli incapaci di sopportare le condizioni limite in cui vivono i detenuti. Lo scrive il gip nell’ordinanza sottolineando le condizioni fatiscenti che hanno fatto da contorno alle sevizie, avvenute in un reparto poi chiuso per manifesta invivibilità. La protesta monta in tutte le carceri dell’Isola: i detenuti rifiutano sempre più spesso di rientrare nelle celle e di consumare il vitto. Negli istituti manca tutto: operatori, educatori, personale medico, psicologi, mediatori. Ad Agrigento dove ci sono cento reclusi in più del consentito per ottenere una visita dentistica un detenuto ha atteso un mese. “E’ rimasto con il mal di denti tutto il tempo, non riusciva a mangiare, ha rischiato un ascesso”, raccontano dall’ufficio del garante regionale per i diritti dei detenuti. Nel nisseno nella struttura detentiva di San Cataldo il garante ha organizzato una raccolta di vestiti da inviare ai detenuti, molti stranieri senza familiari che li assistono. Nelle carceri della Sicilia centrale, San Cataldo in primis, d’estate esplode l’emergenza caldo: nelle celle la temperatura arriva a sfiorare i 45 gradi, non ci sono aperture sufficienti a smaltire il calore. Per affrontare il problema l’amministrazione carceraria in alcuni istituti ha dotato le celle di prese elettriche a cui collegare i ventilatori. Peccato che gli apparecchi li debbano acquistare i detenuti. Nei primi sette mesi di quest’anno le segnalazioni dei detenuti al garante sono state 337. Di queste 88 riguardano questioni legate alla salute e 12 a maltrattamenti ed eventi critici. È emblematica la storia di Ivan Lauria, messinese morto a 28 anni in carcere. Aveva tentato il suicidio proprio al Pietro Cerulli di Trapani, prima di essere trasferito a Catanzaro. Ivan era un tossicodipendente e invalido civile al 75 per cento con gravi problemi di salute mentale. La madre più volte ha chiesto che venisse trasferito in strutture idonee a curarlo. Mai prese in considerazione. Con il sovraffollamento e la carenza di agenti devono fare i conti per la prima volta anche gli istituti penali per minorenni Malaspina di Palermo e quello di Acireale, dove si sono raggiunti tassi di sovraffollamento che oscillano fra il 6 e l’8 per cento. Mancano agenti per tenere a bada il nuovo fenomeno della contrapposizione violenta fra i ragazzi italiani e i minori stranieri. Negli ultimi mesi sono state tre le rivolte sedate a fatica. Catanzaro. Suicidio di un 28enne nel carcere, la Camera Penale: “Cronaca di morti annunciate” Corriere della Calabria, 23 novembre 2024 “Il Governo si compiace del disagio, se non anche della sofferenza inferta ai detenuti nei trasferimenti sui blindati della Polizia Penitenziaria”. “Soltanto pochi giorni fa un giovane detenuto di 28 anni si è tolto la vita nella casa di reclusione di Catanzaro. La notizia, diffusa dalla stampa, suscita tristezza e rinnova il sentimento di sgomento, ci tocca da vicino, perché si tratta di un suicidio avvenuto nelle carceri cittadine e perché questo estremo gesto di disperazione denuncia ancora una volta, ove ve ne fosse la necessità, le gravi inadeguatezze che accompagnano la detenzione”. È quanto evidenzia in una nota il Consiglio Direttivo e l’Osservatorio Carcere della Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantafora”. “Non si tratta soltanto - continua la nota - di rimarcare le condizioni di sovraffollamento, con le ricadute sulla salubrità dei luoghi, sull’assistenza sanitaria, sulla sicurezza e sui percorsi rieducativi, che non sono carenze di poco momento, ma di prendere coscienza che in carcere sono detenuti anche cittadini estremamente fragili, per condizioni di dipendenza dalle sostanze stupefacenti o per via di patologie psichiatriche. È il caso del giovane che ha deciso di togliersi la vita a Catanzaro, il quale sommava in sé le due fragilità e che aveva chiesto di poter essere allocato in una struttura più prossima alla residenza dei familiari e la fruizione di cure psichiatriche aggiuntive, a quanto pare senza esito, per come riportato dalla stampa. Sono note le molte iniziative assunte dalla società civile e dalle associazioni impegnate in questo campo, tra cui - in prima linea - l’Unione delle Camere Penali Italiane e le Camere penali territoriali che, ormai da lungo tempo, denunciano le difficili ed inaccettabili condizioni della detenzione nelle carceri italiane. Tuttavia, l’impegno profuso, pur alimentando il dibattito nel discorso pubblico e sollecitando la coscienza sociale ad occuparsi delle drammatiche condizioni dei “cimiteri dei vivi” (come li definì Filippo Turati in un Suo celebre discorso), non riesce a scuotere i palazzi della politica, nei quali il tema è volontariamente trascurato, chiusi, come sono, in una sorda indifferenza. A rendere più amara la distanza dalla vita reale, la presa d’atto che al Governo si è piuttosto impegnati a compiacersi del disagio, se non anche della sofferenza inferta ai detenuti nei trasferimenti sui blindati della Polizia Penitenziaria; o, ancora, si avverte il senso della sconfitta solo a ipotizzare l’adozione di procedure premiali che, senza automatismi e con adeguate garanzie, potrebbero nel breve periodo ridurre la popolazione carceraria, determinando così il miglioramento delle condizioni di vita all’interno degli Istituti di pena e la fruizione di percorsi di risocializzazione e sanitari almeno sufficienti, se non anche efficaci”. “Senza entrare nel merito della vicenda particolare - viene aggiunto - e lontano dall’esprimere giudizi che non competono, si tratta però e una volta per tutte di prendere coscienza che lo Stato, quando assume la custodia dei cittadini detenuti, ha degli obblighi che non può disattendere, così come nessuno di noi può tollerare che le condizioni di vita nelle carceri possano incidere sulla scelta di smettere di vivere. Non si pensi, allora, che l’Ultimo dei Molti che si sono tolti la vita era un tossicodipendente o un paziente psichiatrico e che l’epilogo era inevitabile, perché l’Ultimo ed i Molti hanno smesso di vivere mentre erano in carcere e non altrove, in una condizione nella quale lo Stato se ne era assunto la custodia, e per cui era tenuto a curarli e a salvaguardarli anche da se stessi. Rinnoviamo la nostra denuncia auspicando “se non ora quando” che la Politica nazionale voglia farsi carico dell’adempimento dei doveri dello Stato verso i cittadini detenuti e tra questi con priorità verso i più fragili”. Ancona. Ha la scabbia, detenuto messo in isolamento tenta il suicidio: è grave anconatoday.it, 23 novembre 2024 Aveva preso la scabbia e per questo era stato messo in isolamento. Lì ha tentato di uccidersi, impiccandosi con un laccio alle sbarre della finestra del bagno. Grave un detenuto di 50 anni, italiano. Il gesto risale a mercoledì scorso ed è avvenuto nel carcere di Barcaglione. A salvarlo sono stati i poliziotti della penitenziaria che si sono accorti e sono entrati nella cella tagliando subito il cappio. Lo hanno adagiato sul pavimento. Non respirava e hanno iniziato le manovre per rianimarlo. Nel frattempo è stato chiamato il 118 e sono arrivati i sanitari in carcere che hanno continuato con la rianimazione. Quando ha ripreso a respirare è stato portato d’urgenza in pronto soccorso all’ospedale di Torrette. Poi il trasferimento al nosocomio di Jesi dove è ricoverato in prognosi riservata. L’uomo era arrivato a Barcaglione da qualche mese, prima era nel carcere di Montacuto. Deve scontare una pena per reati di droga ma a marzo sarebbe uscito. Non si conoscono i motivi del gesto. La scabbia gli era stata diagnosticata dopo un controllo sanitario. Per non contagiare gli altri detenuti era stato messo in isolamento. La direzione del carcere ha attivato il gruppo di valutazione del rischio suicidario che si occuperà del detenuto non appena le sue condizioni miglioreranno. Sarà attivato anche uno psicologo. Prato. Mazzetti: “Basta demagogia sul carcere, mancano agenti e figure apicali” di Giovanni Fiorentino firenzetoday.it, 23 novembre 2024 La deputata di Forza Italia punta il dito contro le problematiche della struttura. “Ho visto una situazione sicuramente difficile e complessa, ma non così drammatica come qualcuno vuol fare credere. A mio avviso, il problema principale del carcere di Prato, come già avevo denunciato ad agosto, è la pianta organica: mancano dipendenti e figure apicali. Lo scorso settembre ho consegnato una relazione al viceministro Francesco Paolo Sisto. E dopo il consiglio comunale, solleciterò altri interventi risolutivi”. È il pensiero della deputata Erica Mazzetti, al termine della visita effettuata nelle scorse ore all’interno del penitenziario di via Montagnola, a margine della quale ha preannunciato per il carcere di Maliseti un intervento da mezzo milione di euro che riguarderà l’efficientamento energetico della struttura e il rifacimento delle docce (sulla base di una delle carenze evidenziate). Un sopralluogo arrivato a qualche giorno di distanza da quello effettuato dal presidente della Provincia Simone Calamai e dalla consigliera provinciale Federica Palanghi, con Calamai che aveva puntato il dito contro il sovraffollamento e lanciato al governo e al Ministero l’appello per “una progettazione specifica sulla Casa circondariale di Prato, perché si possano creare sia per gli agenti che per i detenuti le condizioni di sicurezza e benessere per lavorare al meglio”. La situazione della casa circondariale sarà oggetto di una seduta del consiglio comunale, alla sarà presente anche la stessa parlamentare: Partito Democratico, La forza del noi, Questa è Prato, Sinistra Unita Prato, Movimento 5 Stelle per la maggioranza e Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno presentato una mozione per la costituzione della “consulta del carcere”, mentre i soli gruppi di maggioranza hanno protocollato un ordine del giorno sulle condizioni dell’immobile. Del resto, la Dogaia è più volte tornata alla ribalta delle cronache negli ultimi mesi a causa dei quattro detenuti suicidatisi in questo 2024, nonché motivo di scontro politico fra centrodestra e centrosinistra ad ogni livello. L’ultimo episodio in ordine cronologico risale allo scorso mese, quando un detenuto di cinquant’anni si è tolto la vita impiccandosi nella propria cella. “La situazione è certamente difficile, nessuno lo nega. Così come il tema dei suicidi è un problema grave, ma che non deve essere usato come demagogia. Ho visitato anche le carceri di Pistoia e Firenze, ma è Prato ad avere il maggior numero di detenuti: circa 600, di cui oltre il 60% stranieri - ha aggiunto Mazzetti - posso confermare che il personale fa il massimo e cerca di ascoltare e sostenere tutti, cercando di assecondare le richieste. La criticità maggiore riguarda tuttavia il sottodimensionamento: la pianta organica è di circa 220 unità, quando dovrebbe essere di 260. Il direttore del penitenziario dovrebbe inoltre disporre di due vice-direttori, che ad oggi mancano. E poi c’è la guardia penitenziaria: c’è un comandante, ma mancano tre vice. Ed è su questo aspetto che è necessario puntare”. La deputata forzista si è focalizzata anche su alcune problematiche dell’impianto. Cominciando dall’operazione di efficientamento, da attuare tramite un fondo nazionale voluto dal ministero della Giustizia. “Altro aspetto su cui intervenire sono gli impianti, principalmente le docce, che in un reparto perdono molta acqua, e il riscaldamento. È stato approvato autorizzato dal Ministero un finanziamento di circa 500mila euro - ha confermato, non risparmiando una “stoccata” al PD - di recente si è aggiunto il problema delle cimici, portate a quanto pare da un detenuto proveniente da Sollicciano. Questi sono i punti su cui battersi e su cui chiedere un impegno a tutte le Istituzioni. In questi mesi ho visitato anche altre carceri, come Sollicciano e posso confermare quanto detto la scorsa estate: Prato, per le risorse e per l’organico a disposizione, fa molto, fa anche troppo. E credo che non abbia senso fare propaganda ideologica ed allarmistica”. Firenze. Il caso Sollicciano. L’ex cappellano attacca: “Carcere abbandonato” La Nazione, 23 novembre 2024 Don Vincenzo Russo: “Forse dovrebbero essere trasferiti tutti i detenuti”. Su Sollicciano non intendendo placarsi i venti di bufera. Dopo l’ennesimo provvedimento del tribunale di sorveglianza che bacchetta l’amministrazione penitenziaria per le condizioni igienico-sanitarie del penitenziario, anche l’ex cappellano Vincenzo Russo torna sul tema dei diritti dei detenuti e soprattutto delle responsabilità dei vertici del dipartimento. “Nell’ultimo periodo il carcere di Sollicciano è senza direttore, a motivo di assenza per malattia”, esordisce il religioso. “Questa mancanza non è qualcosa che si possa trascurare - continua - dal momento che un luogo così gravato da preoccupanti problemi e questioni non risolte non può permettersi il lusso di rimanere senza riferimenti certi e soprattutto operativi”. Sull’ultima sentenza commenta: “È intimato un termine di sessanta giorni all’amministrazione del carcere per realizzare i numerosi interventi già programmati e necessari per intervenire a vari livelli”. Il pronunciamento è nato su istanza presentata dal legale di un detenuto, “il quale ha portato per l’ennesima volta a evidenza il carattere disumano di quell’istituto - aggiunge -, dove spesso manca l’acqua per la doccia e quella calda nelle celle è una chimera”. Il giudice chiede quindi di risolvere i problemi, pena il trasferimento del detenuto in un altro carcere. “Viene da chiedersi: stando così le cose, non dovrebbero forse essere trasferiti tutti i detenuti, sancendo definitivamente la necessità che su un simile carcere cali definitivamente il sipario?”, tuona l’ex cappellano. Che poi affonda la l’accusa sul Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: “Di fronte a tutto quello che accade - dice -, quello che sorprende è, particolarmente, il silenzio fattuale del Dap, dal quale non sembrano provenire indicazioni alcune volte a porre finalmente un vero stop a quanto di inaccettabile, ormai da troppi anni, sta accadendo a Sollicciano”. Sono note e continuano ad ogni livello “le degradate ed insalubri condizioni degli ambienti - conclude -, le criticità cui sono sottoposte le persone detenute nel vivere quotidiano, la fatiscenza di locali e di percorsi trattamentali del tutto insufficienti”. Soprattutto è noto “il dramma di quelle persone per le quali, proprio per le condizioni della detenzione, il carcere è diventato tomba. Quelle pareti si sono chiuse intorno a loro diventando muri che hanno diviso per sempre quello spazio dalla vita”. Catania. Giustizia riparativa, i costruttori supporteranno il reinserimento sociale dei detenuti ancecatania.it, 23 novembre 2024 Intesa tra Ance, Ente Scuola Edile, Udepe e Associazione Difesa e Giustizia APS ETS. Prosegue l’impegno di Ance Catania nel sociale e nel processo di rieducazione dei condannati attraverso la formazione professionale e il lavoro. Un nuovo passo è stato fatto con il protocollo firmato dai Costruttori etnei, dall’Associazione Difesa e Giustizia APS ETS, dall’Ente Scuola Edile e dall’UDEPE (Ufficio Distrettuale di Esecuzione penale Esterna) di Catania. Tra i pilastri dell’accordo l’articolo 15 e il 17 della Costituzione che, rispettivamente, prevedono che “il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, della formazione professionale, del lavoro e della partecipazione a progetti di pubblica utilità, della religione, delle attività ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia” e che “la finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private dell’azione rieducativa”. Nei due articoli si riflette perfettamente uno dei punti dello statuto di Ance Catania, che “tra gli obiettivi ha quello di sollecitare e promuovere la formazione di maestranza per l’edilizia anche con la promozione di enti e scuole professionali di categoria a norma del Ccnl di settore, con lo scopo di elevare moralmente e culturalmente i lavoratori, oltre a garantirne benessere e crescita professionale - ha commentato il presidente dei Costruttori etnei Rosario Fresta - lo scopo è favorire lo sviluppo e il progresso nel settore delle costruzioni e promuovere la qualificazione tecnico-professionale e la specializzazione delle imprese. Rispondiamo alla domanda di mercato delle imprese che richiedono forza lavoro, e nello stesso tempo, grazie a questo protocollo d’intesa, puntiamo a favorire il reinserimento sociale delle persone detenute, dei soggetti imputati in regime di messa alla prova o delle persone condannate in regime di misura alternativa alla detenzione o di una pena sostitutiva alle pene detentive brevi”. “L’Ente Scuola Edile si impegnerà a formare soggetti sottoposti a misure di sicurezza - ha dichiarato Carmelo Belfiore, presidente Ente Scuola Edile di Catania - e metterà in campo azioni di supporto al processo di reinserimento sociale delle persone private della libertà personale, offrendo la possibilità di un cambiamento degli stili di vita e un processo di crescita personale e di effettiva partecipazione alla vita sociale a partire dal lavoro”. Il protocollo avrà validità di un anno e potrà essere rinnovato alla scadenza in accordo di tutte le parti interessate: “Oggi con l’adesione dell’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna di Catania al protocollo siglato nel novembre 2023 tra l’Associazione Difesa e Giustizia, l’Ance Catania e l’Ente Scuola Edile di Catania, si rafforza la consapevolezza che il lavoro e la formazione specializzata debbano essere al centro del trattamento per coloro che affrontano misure alternative alla detenzione o pene sostitutive alle pene detentive brevi - ha affermato Massimo Ferrante, presidente dell’Associazione di Promozione Sociale “Difesa e Giustizia” - Il percorso di reintegrazione sociale e di riscatto non può prescindere da questi momenti che arricchiscono l’opera trattamentale”. “La sottoscrizione del protocollo - ha aggiunto la direttrice dell’UDEPE Mariapia Fontana - rappresenta una grande opportunità per la nostra utenza e si pone sul solco di incrementare le possibilità di inclusione sociale e l’offerta di concrete opportunità di reinserimento, attraverso un ampliamento delle competenze tecnico professionali nel settore edilizio, così come anche delle possibilità di orientarsi nel mercato occupazionale. Ciò, concretamente, consente di ampliare lo spettro degli interventi rieducativi nell’ambito dell’esecuzione penale esterna e contribuisce a personalizzare e arricchire i nostri progetti di recupero, che vanno calibrati sulle caratteristiche individuali di ogni singola persona. Poter avere la disponibilità di svolgere un lavoro conforme alle proprie attitudini e competenze e la possibilità di intraprendere un percorso di autonomia e di svincolo dal bisogno economico - ha concluso - contribuiscono sensibilmente a prevenire la reiterazione di condotte devianti e rappresentano un’efficace strategia per assicurare reali opportunità di integrazione”. Roma. Quel che resta di Olympe di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 novembre 2024 A Regina Coeli, in scena la pièce delle ex detenute “Le donne del muro alto”. La cella dove Olympe de Gouges venne rinchiusa prima di salire al patibolo, rea secondo i suoi giudici - tutti uomini - di aver espresso nei suoi scritti proto femministi pensieri troppo libertari e contrari alla violenza di Stato, era “lunga 6 piedi e larga 4”. A conti fatti, equivalgono a circa 2,5 metri quadri, secondo il sistema metrico decimale che sarebbe stato introdotto di lì a poco nel mondo dalla Francia repubblicana giacobina. Non i 3 metri quadri di spazio vitale - esclusi arredamenti - richiesti oggi per ciascun detenuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (a cui l’Italia ancora troppo spesso non si attiene), ma per essere il 1793 neppure così male, verrebbe da pensare. Chissà se è un pensiero che sfiora la Garante nazionale dei detenuti Irma Conti e i quaranta reclusi - tutti uomini - che in una piccola sala dell’area trattamentale di Regina Coeli assistono in un pomeriggio di metà novembre allo spettacolo “Olympe” messo in scena dalla regista Francesca Tricarico con la sua compagnia “Le donne del muro alto”. Diritti, libertà, giustizia, equità, resistenza all’oppressione, separazione dei poteri, Costituzione. Le parole recitate dalle quattro attrici - tre ex detenute e una ex stagista che il carcere lo ha scelto senza averlo mai subito - riecheggiano tra le mura antiche, già erette al tempo dalla “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” che Olympe de Gouges contrappose impavidamente a quella redatta dai suoi concittadini, soli uomini seppur rivoluzionari. Ma Bruna Meira (nei panni di Olympe), Chiara Ferri, Daniela Savu e Bianca Meira avevano bisogno di spiegare il dolore, l’emozione che ogni volta provoca loro varcare di nuovo, anche se da donne libere, le soglie di un carcere, rivedere le divise degli agenti, sentire “le mura raccontare le mille storie di chi vi è stato recluso”, per usare le parole di Tricarico che ha lasciato perciò alle attrici introdurre con un proprio prologo la pièce nata nel 2015 nei laboratori teatrali tenuti a Rebibbia, l’altro carcere romano. “Questo mondo lo voglio divorare, mangiare a morsi”, dice Bianca che della onnivora “fame” fa la sua cifra stilistica, l’impulso che muove il suo essere. Ciascuna parla di sé, ma è come se parlasse per tutte, del coraggio di guardare in faccia le proprie paure, “in nome di un femminismo reale”, del proprio modo di riprendersi la vita andando oltre la disperazione, la vergogna, lo stigma, il rimorso verso i figli. “Bella parola la libertà di scelta, ma bisogna saper scegliere”. “Per le donne il carcere non è mai un vanto, perché la società non le perdona”, ragiona la regista riferendo della difficoltà di lavorare con le detenute in carcere: “Ho lottato per anni per conquistare la loro fiducia. È più facile lavorare con gli uomini perché sono meno arrabbiati, perfino meno violenti, meno diffidenti. Ti mettono meno alla prova. Le donne - approfondisce Tricarico - vivono un abbandono maggiore, sentono di più la solitudine, si portano dentro storie personali di fiducia tradita. Il rapporto con i figli, poi, è devastante. Però sono più coraggiose: non hanno paura di guardare nei loro abissi. E il teatro diventa un luogo di condivisione, apre loro porte psichiche che non si erano mai concesse, le fanno uscire da quello che credevano fosse il loro destino fin dalla nascita. Ma è un percorso molto doloroso”. Le “Donne del muro alto” discutono sempre a lungo dei loro personaggi, di come interpretarli, di cosa mettere delle proprie esperienze. “Usando il mito di Didone anni fa lavorammo sulla maternità negata, un argomento importante per chi magari ha passato o rischia di passare in carcere gli anni dell’età fertile”. Tricarico racconta delle discussioni aperte sulle libertà femminili: “L’aborto per esempio è un grande tabù. Si vergognano di parlarne. Tutte si dicono contrarie, anche se poi a ben vedere non vorrebbero mai che la legge 194 cambiasse, che si negasse alle donne questa possibilità”. D’altra parte, aggiunge quasi con rinnovato stupore, “quando iniziai a lavorare in carcere 15 anni fa, non immaginavo di incontrare così tante persone carcerate che votano a destra. Mi sono chiesta perché, credo sia una questione di linguaggio, di immedesimazione, di emotività”. E infatti il linguaggio di Olympe de Gouges, interprete di istanze di libertà e uguaglianza tra i sessi, sia pur antico è ancora oggi a volte mal digerito. Lo dimostrano perfino i detenuti che hanno chiesto di assistere alla rappresentazione teatrale e che alla fine si confrontano con quelle donne con cui hanno condiviso l’esperienza della privazione della libertà. “Gli occhi di una persona che è stata in carcere si riconoscono sempre”, dice Daniela che per anni ha nascosto perfino ai figli questo suo violento vissuto. Ma quegli uomini che ha davanti, di tutte le nazionalità, giovani e anziani, sembrano distanti. Insofferenti, davanti a certi ragionamenti. Qualcuno lo dice apertamente, esprime dissenso, non capisce - non vuole capire - quell’anelito di libertà tutta al femminile. Forse, anche in questo contesto c’è troppo dolore. “Prima che sia troppo tardi”: l’educazione all’affettività a scuola potrebbe essere un primo passo di Andrea Polo* Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2024 Marco ha 18 anni, Giovanni 14; ormai stanno per affacciarsi all’età adulta e, nonostante qualche arrabbiatura scolastica, dico con soddisfazione che sono dei bravi ragazzi e se c’è una cosa che mi rende orgoglioso di loro è il grande rispetto con cui trattano le altre persone e il modo con cui da sempre risolvono e hanno risolto i loro piccoli e grandi conflitti. Mai con le mani, sempre con le parole. Questo imprimatur, spero, farà di loro uomini corretti nei rapporti interpersonali; primo fra tutti quello con l’altro genere. Purtroppo, le cronache di questi anni raccontano troppo spesso di violenze e maltrattamenti nei confronti nelle donne e la mia paura, ammetto, è che sentirne parlare così spesso rischi di farci sembrare la cosa “normale”, quando normale non lo è affatto. Negli scorsi giorni è stata presentata una bellissima indagine condotta per conto di Inc Non Profit Lab da AstraRicerche, e realizzata con il patrocinio di Rai Per la Sostenibilità - Esg su un campione di italiani tra i 18 e i 75 anni in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne (25 novembre). Si intitola Prima che sia troppo tardi. Educare i giovani all’affettività per contrastare la violenza di genere e ha messo in evidenza alcuni dati importantissimi e dai quali partire per prendere iniziative forti e concrete per contrastare questo fenomeno. Il primo è quello secondo cui meno di 4 ragazzi su 10 con un’età compresa fra i 18 e i 24 ritengono i femminicidi un’urgenza da affrontare in maniera prioritaria; il secondo quello in base a cui, se da un lato più di 9 italiani su 10 vorrebbero campagne di sensibilizzazione sulla violenza di genere nelle scuole, dall’altro il 24% (vale a dire quasi un quarto) dei maschi under 25 si dichiara apertamente contrario. Ultimo, ma non meno importante, quasi tutti affermano di aver visto e ricordare le molte campagne realizzate per contrastare il fenomeno, ma al contempo le giudicano “troppo retoriche e poco concrete”, in generale “poco utili a generare un effettivo cambiamento in chi pratica o potrebbe praticare violenza psicologica o fisica”. E allora? Come fare? Forse proprio ripartendo dalle basi, insegnando ai ragazzi e alle ragazze, sin da quando sono bimbi e bimbe, che l’altro va rispettato. Anche e soprattutto per la sua unicità e differenza. Inserire l’educazione all’affettività fra le materie insegnate a scuola, come vorrebbero ben 8 italiani su 10 secondo l’indagine, potrebbe essere un primo passo importante. I temi da trattare con maggiore priorità, si scopre scorrendo i dati dell’indagine, dovrebbero essere come riconoscere i segnali della violenza di genere (72,6%), come superare gli stereotipi di genere (48,1%), come affrontare il tema della rabbia (45,6%) e quello dei rapporti sentimentali e amorosi (40,1%). A parlare di questo importantissimo tema dovrebbero essere le famiglie, ma anche la scuola e, non ultime, le istituzioni. Insomma, di violenza di genere oggi si parla, ma spesso lo si fa senza una vera incisività e troppo tardi. Cominciamo a parlarne a scuola, in casa, con i nostri figli e le nostre figlie. Perché il rispetto si impara. E si impara meglio e più in fretta quando si è piccoli. *Esperto di comunicazione e… papà Come combattere la violenza dei figli sani del patriarcato di Adil Mauro Il Manifesto, 23 novembre 2024 Centri antiviolenza. Tra le luci e le ombre dei Centri in cui ci si occupa degli uomini che maltrattano. In Italia sempre più realtà associative affrontano la violenza contro le donne occupandosi degli uomini che la agiscono. I centri per uomini autori di violenza (Cuav) sono in rapido aumento, come evidenzia la seconda indagine nazionale del 2023 realizzata nell’ambito del “Progetto ViVa”, frutto di un accordo di collaborazione tra Cnr e Dipartimento per le pari opportunità. Al 31 dicembre 2022 i Cuav presenti sul territorio erano 94, con 141 punti di accesso totali tra sedi principali e secondarie. La prima struttura in Italia a farsi carico di uomini autori di comportamenti violenti nelle relazioni affettive è il Centro di ascolto uomini maltrattanti (Cam) di Firenze. Si tratta di una realtà nata nel 2009 sulla scorta delle esperienze portate avanti dal Centro antiviolenza fiorentino Artemisia. Nel novembre 2014 un’altra tappa fondamentale: la nascita di Relive (Relazioni Libere dalle Violenze), associazione nazionale che riunisce nove fra i primi centri che attuano programmi per autori di violenza di genere e aderisce al network europeo dei centri per maltrattanti Wwp (Work With Perpetrators). Per quanto riguarda il Servizio sanitario nazionale gli interventi in questo ambito sono episodici e maggiormente concentrati nelle regioni del nord che, recependo le linee guida contenute nella Legge 119 del 2013 (quella sul femminicidio), hanno promosso alcuni progetti degni di interesse. Tra gli altri il programma Liberiamoci dalla Violenza (Ldv), il primo Centro italiano gestito da un ente pubblico, l’azienda Usl di Modena, che fornisce un percorso di accompagnamento al cambiamento per gli uomini. Dal 2011 ad oggi, Ldv si è diffuso in altre città dell’Emilia Romagna grazie al coinvolgimento della rete delle aziende sanitarie locali. Queste esperienze, non solo in Italia, nascono dalla consapevolezza che la risposta delle istituzioni alla violenza di genere si basa prevalentemente su norme repressive. Una risposta che finisce col rendere i comportamenti violenti maschili casi eccezionali, patologici. Un approccio che non mette in discussione i modelli culturali fondati su equilibri patriarcali di potere. Un celebre slogan spiega bene il concetto: “Il violento non è un malato, è il figlio sano del patriarcato”. Un passaggio importante, utile per inquadrare la questione da un punto di vista storico, avviene a metà degli anni Ottanta negli Stati Uniti quando Edward Gondolf e David Russell pubblicano un breve testo: Man to Man. Il volume deve molta della sua efficacia all’esperienza decennale iniziata nel 1977 a Boston dal primo programma volontario per uomini violenti Emerge. Centrale l’idea che la violenza, nelle relazioni di intimità, sia qualcosa che si può superare: non è un dato di natura e neppure una malattia, dunque non appartiene ad una minoranza di uomini disturbati. Il tema della violenza maschile viene affrontato esplicitamente a livello europeo nel 2002 quando il Consiglio d’Europa sollecita gli Stati membri ad attuare “programmi d’intervento per gli autori di violenza”. Nel 2011 è il Parlamento europeo ad approvare una Risoluzione sulle priorità e sulla definizione di un nuovo quadro politico dell’UE in materia di lotta alla violenza contro le donne in cui “ribadisce la necessità di lavorare tanto con le vittime quanto con gli aggressori”. L’articolo 16 della Convenzione di Istanbul del 2011 contro la violenza sulle donne prevede inoltre l’adozione di misure legislative per istituire o sostenere programmi rivolti agli autori di atti di violenza domestica e programmi di trattamento per prevenire la recidiva (in particolare per i reati di natura sessuale). Il 70% dei Cuav mappati dal “Progetto ViVa” hanno iniziato le loro attività a partire dal 2020, dopo l’avvento del Codice rosso del 2019. Dalla sua introduzione si è verificata una diminuzione drastica degli accessi spontanei, dal 40% del 2017 al 10% del 2022. In 5 anni gli invii dai professionisti (solitamente avvocati) sono passati dal 10% al 32%, dall’11% al 20% quelli dall’autorità giudiziaria e dall’1% al 13% quelli dal Questore. Il Codice rosso permette infatti a coloro che hanno un procedimento penale, una sentenza o un processo in corso, di ottenere agevolazioni, come sconti della pena o la sospensione condizionale della pena, se decidono di intraprendere un percorso di recupero psicologico. Per le persone che lavorano con gli uomini autori di violenza le sfide sono quindi molteplici. Tra queste la necessità di operare in una cornice professionale chiara e definita (serve quanto prima un elenco ufficiale dei Cuav a livello nazionale), costruire e mantenere un dialogo costante con i centri antiviolenza che seguono le donne vittime di violenza e non essere usati da uomini interessati più a evitare il carcere che a un reale percorso riabilitativo. Migranti. Congelato il progetto Albania. Della coop restano sette italiani di Giansandro Merli Il Manifesto, 23 novembre 2024 Partono gli operatori sociali, l’ente gestore mantiene solo direttore e amministrativi. “Lo staff presente nei centri in Albania è stato ridotto al livello minimo, restano solo i lavoratori necessari per la manutenzione della struttura e per fornire i servizi di base agli agenti che si occupano della sicurezza e a quelli presenti nel penitenziario”, afferma l’eurodeputato tedesco di Volt Damian Boeselager. Ieri ha visitato il centro di Gjader con una delegazione del suo partito, “movimento progressista pan-europeo”, che a Strasburgo ha eletto cinque deputati. Nella visita ne erano presenti quattro - da Germania e Olanda - insieme ai co-presidenti italiani di Volt Daniela Patti e Guido Silvestri e a quella Ue Francesca Romana D’Antuono. La delegazione ha potuto raccogliere informazioni che certificano che il progetto Albania è di fatto congelato. Come anticipato ieri dal manifesto, tutti gli operatori italiani dell’ente gestore Medihospes, ovvero quelli che avrebbero dovuto assistere i richiedenti asilo, sono tornati a casa o lo stanno facendo in queste ore. “Ci hanno confermato che restano solo sette lavoratori italiani: il presidente della cooperativa, che abbiamo incontrato con un delegato dell’ambasciata e un dirigente di polizia, oltre ad alcuni amministrativi”, afferma Patti. Con loro un centinaio di dipendenti albanesi: da quanto è stato riferito si occupano soprattutto dell’assistenza medica, da garantire in ogni caso agli agenti, e delle pulizie. Altre figure professionali svolgeranno invece dei corsi di formazione, utili se le strutture dovessero entrare davvero in funzione. “Nel centro avrebbero dovuto lavorare centinaia di forze di polizia italiana e circa 800 persone come traduttori, mediatori culturali, medici, psicologi e personale per i servizi”, scrive Volt in un comunicato in cui afferma che gli agenti rimasti sono “meno di 100”. In teoria ne erano previsti 295, al secondo round di trasferimenti erano 220, la settimana scorsa ne rimanevano 170. Per ora, quindi, non sono attesi nuovi migranti. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha ribadito mercoledì che il governo “attende la pronuncia della Cassazione sulle nostre impugnazioni”, ovvero sui ricorsi contro le prime non convalide dei trattenimenti decise dal tribunale di Roma. L’udienza sarà a breve: il 4 dicembre. Ma se il Viminale pensa davvero che quello sarà un punto di svolta perché oltre Adriatico c’è aria di smobilitazione? “A noi le autorità presenti in loco hanno detto che prevedono che la Cassazione rinvierà alla Corte di giustizia Ue. Per questo hanno ridotto il personale”, afferma Silvestri. “Il governo è riuscito nell’impresa dei rimpatri. Dei migranti? No, degli operatori italiani mandati in Albania”, ironizza il segretario di +Europa Riccardo Magi. “Tornano gli operatori, i centri rimangono vuoti. La campagna elettorale è finita e non servono più. Se ne riparla alla prossima”, attacca la parlamentare di Avs Elisabetta Piccolotti. Dal Viminale insistono che i centri restano operativi e vigilati: il personale è stato ridotto in base alle esigenze del momento. A parte la vigilanza, abbandonare le strutture a se stesse dopo i primi due flop sarebbe un’autorete clamorosa, non si capisce quale sia l’operatività visto che non ci sono richiedenti asilo e non se ne vedono all’orizzonte. Se tutto si giocherà davanti alla Corte dell’Unione europea la sentenza non arriverà prima della prossima primavera. Nel migliore dei casi, ovvero se sarà adottata una delle procedure speciali previste per accelerare i tempi. Intanto ieri il comitato centrale della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo) ha risposto all’appello lanciato da varie ong - tra cui Mediterranea, Msf ed Emergency - e dalla Società italiana di medicina delle migrazioni in cui veniva denunciato che “la pratica di selezione sanitaria come criterio per le deportazioni in Albania viola il codice deontologico”. Il testo continua a raccogliere firme, al momento sono 1.250: 400 medici, 115 infermieri, 125 psicologi e una trentina tra associazioni che si occupano di sanità o di migranti. “Il medico ha un’unica finalità: curare le persone senza discriminazioni - scrive Fnomceo - Tale finalità dovrà essere perseguita in tutti i percorsi del protocollo Italia-Albania che coinvolgono i medici. La selezione dei migranti ai fini amministrativi non costituisce un processo di cura”. La Federazione afferma anche che per “le peculiari caratteristiche del servizio appare necessario prevedere la presenza di figure professionali adeguatamente formate o con specifica competenza specialistica, dotate di adeguati strumenti sanitari, senza i quali non è possibile una corretta valutazione complessiva dello stato di salute della persona”. Evidentemente nei primi due round di trasferimenti questi elementi mancavano. Migranti in Albania, cento agenti pagati per presidiare il nulla di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2024 Tra disillusione sui rimpatri e futuro incerto: “Si riparte ad aprile, forse”. Dopo il trattenimento di una ventina di migranti, tutti trasferiti in Italia per incompatibilità tra le procedure d’asilo svolte e il diritto europeo, nei centri di Shengjin e Gjader è rimasto solo il personale e gli operai che lavorano nei cantieri di strutture ancora da completare. Tanto che la visita della delegazione di Volt Europa e dei suoi europarlamentari “è stata accolta come piacevolissimo diversivo”, raccontano i due copresidenti del “primo partito paneuropeo” in Italia, Daniela Patti e Guido Silvestri, al termine del loro giro a Gjader. “Sulle procedure di rimpatrio non c’è un protocollo, dicono che va ancora definito”, è stato spiegato loro dai funzionari dell’ambasciata e di polizia che li hanno accompagnati. “Non è chiaro se chi non ottiene l’asilo va prima portato in Italia o se potrà essere imbarcato grazie a un accordo con l’aeroporto di Tirana”. Non proprio dettagli, ma poco male, per ora. Perché del cortocircuito normativo che ha bloccato i piani del governo non si tornerà a parlare fino al 4 dicembre, quando la Cassazione si pronuncerà sulla famosa questione dei “Paesi sicuri” e sui ricorsi del Viminale contro i decreti dei magistrati di Roma che a metà ottobre avevano liberato e inviato in Italia i primi 12 richiedenti. “Ma da quanto ci è stato riferito si attendono che la Cassazione rinvii tutto alla Corte di giustizia europea”, spiegano quelli di Volt. Anche a ottenere la procedura d’urgenza, perché la Corte Ue si esprima serviranno mesi. In altre parole, “qui non si aspettano nuove indicazioni prima di aprile, né nuovi trasferimenti di migranti”. E tuttavia chiudere non è possibile. Intanto perché un terzo del centro di Gjader è ancora da costruire e non ci sono nemmeno i “mille posti iniziali” previsti dal governo. Costruzione dei centri e forniture annesse valgono 70 milioni di euro dei circa 700 previsti per il primo quinquennio. “Ad oggi sono disponibili 200 posti per i richiedenti, appena 24 nel Cpr destinato alle persone da rimpatriare e altrettanti nella struttura detentiva presidiata dagli agenti della penitenziaria”, spiegano Patti e Silvestri, che durante la visita si sono mossi tra mezzi per il movimento terra, fermi per la pioggia battente che ha accolto la delegazione. Anche l’ospedale “da campo”, dicono, va completato con una sala chirurgica e l’allestimento di sale isolate per i casi di malattie infettive. Un presidio attivo nonostante il centro vuoto perché l’italico baluardo del contrasto all’immigrazione va presidiato e solo per il perimetro e le torrette “servono quotidianamente dieci turni di guardia per un totale di 150 persone”. Dopo il rientro in patria di una cinquantina di agenti, tra l’hotspot nel porto di Shengjin e Gjader, “le forze di polizia ancora presenti sono un centinaio scarso”, riporta la delegazione di Volt. Lo stesso Viminale ha spiegato che il personale varia in base alle esigenze del momento. Così per la cooperativa che si è aggiudicata l’appalto per la gestione dei centri, il colosso Medihospes già attivo in Italia, “che a regime ha previsto l’impiego di 800 persone, tra medici, mediatori, interpreti, manutentori, eccetera”. E che invece ha rimandato in patria il personale italiano lasciando un piccolo contingente di 7 persone per l’amministrazione e la necessaria formazione del personale albanese, assunto con stipendi che per gli standard albanesi sono di tutto rispetto. “Un centinaio di persone, per ora, nonostante il contratto d’appalto col Viminale non sia ancora stato perfezionato. Mentre oggi le uniche persone operative che abbiamo incrociato sono quelle dedite alle pulizie”. Tutto fermo e, per adesso, senza certezze. “Sembra una caserma vuota, dove tutto è nuovo ma non si sa come impiegare il tempo”, è l’idea che si è fatto Silvestri. Così anche l’urgenza che ha sottratto alla disciplina degli appalti pubblici la grande maggioranza delle opere diventa paradossale, rendendo ancora più indigesta la scarsa trasparenza con la quale si è deciso di gestire le cose. Quanto agli alloggi, Volt parla di una struttura sicuramente più dignitosa di tanti Cpr operativi in Italia. “Quello che ci ha colpito sono invece le due sale adibite ai colloqui telematici dei migranti con la commissione territoriale che decide delle richieste d’asilo o col proprio rappresentante legale, che difficilmente potrà mai essere incontrato di persona visto il risibile rimborso di 500 euro previsto: quale avvocato partirebbe dall’Italia a queste condizioni?”, si domandano i presidenti di Volt, confermando i timori sull’effettività del diritto alla difesa che da sempre accompagnano il Protocollo Italia-Albania. Ma non è tutto. Se mai torneranno i migranti, quelli che non avranno diritto all’asilo andranno trasferiti nell’area adibita a Centro per il rimpatrio e, come in Italia, potrebbero restarci fino a 18 mesi secondo la riforma voluta dal governo Meloni. Una prospettiva che desta perplessità pure tra i funzionari di Gjader. Anche a farli funzionare, per le procedure di rimpatrio i centri albanesi dipendono dagli accordi di riammissione coi Paesi d’origine, esattamente come per i Cpr in Italia dai quali l’anno scorso sono state rimpatriate appena 2.900 persone. E se gli accordi non ci sono, i rimpatri non si fanno. “Cosa ci è stato risposto? Nemmeno a loro è chiaro, perché due mesi sembrano essere più che sufficienti per capire se una persona torna o non torna, se l’accordo col suo Paese c’è o no, e trattenerla 18 mesi non cambia nulla”, riferiscono i due presidenti di Volt. “Violenza sulle donne come arma di guerra: con la nostra legge sarà reato universale” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 23 novembre 2024 Le donne non sono più soltanto un bottino di guerra. Peggio: sono il terreno sul quale oggi si combattono i conflitti. Ad ogni latitudine, in ogni parte del mondo in cui il corpo delle donne è ancora usata come arma. Perché sono le donne, nelle zone di guerre, a pagare il prezzo più alto. Senza alcun bisogno di stilare una gerarchia del dolore tra le popolazioni civili che ne subiscono le conseguenze più drammatiche. È questo il messaggio che la senatrice Susanna Donatella Campione ha voluto rilanciare a una manciata di giorni dal 25 novembre. Componente della commissione Giustizia di Palazzo Madama e della delegazione italiana presso l’Assemblea Parlamentare dell’Osce, la parlamentare di Fratelli d’Italia è impegnata in una battaglia mirata a disciplinare l’uso della violenza sessuale come strumento di guerra. Una battaglia nazionale e internazionale, che si declina nel nostro Paese con un disegno di legge attualmente all’esame dalla commissione Giustizia. Un testo che riflette l’impegno assunto lo scorso luglio con il via libera della commissione politica dell’Osce alla risoluzione presentata da Campione. “La violenza sulle donne in contesti guerra è una piaga antica come il mondo, ma solo in tempi recenti è stata considerata come un crimine contro l’umanità”, spiega la senatrice avviando i lavori del convegno sul tema che si è tenuto ieri a Palazzo della Minerva. Tra le convenzioni internazionali che trattano il tema, Campione mette in evidenza quella di Lubiana del 2024, che invita gli Stati aderenti ad adottare norme proprie e specifiche sul tema e a cooperare sul piano giudiziario per poter indagare e processare questi crimini. Di qui l’iniziativa della senatrice: il testo della nuova norma delinea il reato all’interno del nostro ordinamento come crimine universale. Rendendo possibile perseguirlo anche quando viene compiuto da un cittadino italiano all’estero, o da un cittadino straniero all’estero, ogni volta che l’autore del crimine fa ingresso nel nostro territorio. Un’urgenza messa in luce anche dai relatori del convegno, tra i quali Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia del Senato. “La violenza sulle donne è atroce per tutte. L’errore sta nello stabilire la gerarchia della violenza considerata più atroce”, sottolinea la senatrice della Lega. Che auspica un sostegno trasversale e bipartisan a questo progetto, come già è accaduto in altre occasioni, e in particolare per la norma promossa da Bongiorno che ha introdotto il reato di stalking. “Quella legge viaggiò con la spinta di tutte le donne, che devono essere unite. Sarebbe un errore pensare di fare una legge soltanto per una parte di donne che oggi stanno subendo violenze sessuali. Ci sono da sempre, è vero, ma ora c’è un’escalation sul senso che hanno le violenze sulle donne: diventa uno sfregio, una volontà di uccidere due volte”, spiega Bongiorno. Che considera necessaria la legge promossa dalla senatrice Campione anche per un motivo “tecnico”: “Se il nostro ordinamento non ha strumenti per perseguire un fatto, allora quel dato fatto non è più di competenza dell’Italia. E noi non possiamo permetterci di perdere pezzi di giurisdizione”, conclude la senatrice. Prima del suo intervento, in collegamento, l’intervento di Hamda bint Hassan Al Sulaiti, vice presidente del parlamento del Qatar, che ha raccontato le storie di dolore e abusi subiti dalle donne palestinesi. A condividere l’approccio di Campione anche il senatore Giulio Terzi di Sant’Agata, presidente della Commissione Politiche dell’Ue. Il quale ha passato in rassegna gli strumenti che il diritto internazionale e consuetudinario mette a disposizione per perseguire questi crimini, che riflettono “la violenza organizzata sulle donne per distruggere l’identità di interi popoli”. Non soltanto per punire tali reati, ma anche per prevenirli. A chiudere l’evento il senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia. Ai quali sono affidate le conclusioni sui lavori in corso sul testo di Campione, con l’auspicio che il nostro patrimonio giuridico possa essere un faro per l’umanità. Quando la violenza sulle donne è legge di Sara De Vido* Il Manifesto, 23 novembre 2024 La prospettiva del diritto internazionale sulla discriminazione di Stato, ancora diffusa in molti Paesi. La violenza di genere contro le donne, come afferma la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa per la prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica del 2011, entrata in vigore dieci anni fa, “è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione”. La violenza di genere contro le donne è tanto una violenza che si produce tra singoli individui, per la prevenzione e la repressione della quale gli Stati hanno precisi obblighi internazionali, quanto istituzionale, che si compie per il tramite di organi dello Stato, politiche o leggi. La violenza istituzionale, quella che produce ma anche tollera la violenza di genere contro le donne, assume le sue forme più gravi quando la legge espressamente prevede che possano essere compiuti atti inumani volti al mantenimento di forme di dominazione sistematica degli uomini nei confronti delle donne. È quello che viene definito “gender apartheid”. Il termine è stato coniato da attiviste per i diritti delle donne in Afghanistan per descrivere leggi come quella talebana sui vizi e le virtù, che impedisce alle donne di uscire dalle loro abitazioni a meno che non siano completamente velate e proibisce loro di cantare, parlare in contesti pubblici e studiare. La repressione è istituzionale, sistemica, vuole le donne invisibili: così anche in Iran, dove le donne sono vittime di violenza “di Stato”, i cui diritti sono costantemente calpestati per il solo fatto di essere donna. Il termine apartheid, tradotto dall’Afrikaans “separazione”, descrive la politica di segregazione dei neri da parte della classe politica dominante bianca in Sudafrica, proseguita fino al 1994. Sul piano giuridico, la Convenzione internazionale per l’eliminazione e la repressione del crimine di apartheid del 1973, definisce l’apartheid un crimine contro l’umanità, caratterizzato da atti inumani aventi lo scopo di “dominare” un altro gruppo razziale e “opprimerlo sistematicamente”, quali, ad esempio, la negazione a uno o più membri del gruppo del diritto alla vita e della libertà o ancora il diniego del diritto all’istruzione, al lavoro, al movimento, alla libertà di espressione. Non è difficile vedere la similitudine tra questi comportamenti, che configurano il crimine di apartheid ai sensi della Convenzione, e le forme di oppressione delle donne in Afghanistan e Iran. L’apartheid (razziale) è anche incluso tra i crimini contro l’umanità dello Statuto di Roma che ha istituito la Corte penale internazionale. L’apartheid (sempre e solo razziale) rientra nella definizione di crimini contro l’umanità del Progetto di Articoli sulla prevenzione e la repressione dei crimini contro l’umanità, adottato nel 2019 dalla Commissione di diritto internazionale e oggetto di discussione in queste settimane nella Sesta Commissione dell’Assemblea generale dell’Onu. Un progetto di articoli non è ancora un trattato internazionale, ma lo potrebbe diventare se adottato dall’Assemblea o se base di lavoro per una conferenza di plenipotenziari. Attiviste per i diritti delle donne, esperti delle Nazioni unite (ad es. Richard Bennet, relatore speciale per l’Afghanistan), giuriste e giuristi, organizzazioni non governative ritengono che la definizione di apartheid nel Progetto di Articoli, al momento riferita ai soli gruppi razziali, debba includere anche il termine genere. Nello Statuto di Roma, così come nel Progetto di Articoli, è presente la persecuzione sulla base del genere, dove per persecuzione si intende la privazione seria e intenzionale di diritti fondamentali contraria al diritto internazionale in ragione dell’appartenenza a un gruppo. La definizione è importante ai fini del riconoscimento dello status di rifugiata a donne e ragazze che fuggono dall’Afghanistan. Così, il 4 ottobre scorso, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha ritenuto che, in casi come quello in esame, ovvero la situazione di due donne afghane che chiedevano lo status di rifugiata in Austria in ragione delle misure discriminatorie adottate nei loro confronti dal regime dei Talebani, non fosse necessario dimostrare un rischio diretto e specifico di persecuzione in caso di ritorno nel paese di origine, quando erano stati dimostrati gli elementi relativi alla loro situazione individuale, quali nazionalità o sesso. L’essere donna in Afghanistan costituisce una ragione di persecuzione che legittima il riconoscimento di protezione. Nonostante questi positivi sviluppi, il riconoscimento del gender apartheid come crimine internazionale permetterebbe di cogliere l’elemento sistematico e diffuso, come hanno detto bene esperti Onu, delle privazioni dei diritti delle donne in paesi quali Afghanistan e Iran e di sancire sia la responsabilità statale sia la responsabilità penale individuale. Su tali privazioni potrebbe pronunciarsi la Corte internazionale di giustizia. Paesi Bassi, Germania, Australia e Canada hanno recentemente dichiarato, sostenuti da altri 26 governi, di voler proporre un ricorso alla Corte internazionale contro l’Afghanistan lamentando la violazione di numerose disposizioni della Convenzione Onu sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, ratificata anche dall’Afghanistan. Una sentenza della Corte dell’Aja avrebbe di certo un impatto sulla definizione del crimine di gender apartheid stesso. Ancorché non priva di ostacoli, è tuttavia una strada che sul piano giuridico merita di essere intrapresa. Pur in assenza di un trattato internazionale, ci si potrebbe infine chiedere se il divieto di gender apartheid non si sia già consolidato come norma cogente del diritto internazionale, cioè una norma fondamentale dell’ordinamento. Alcuni giuristi potrebbero manifestare forte disappunto. Eppure, già nel 1993, le giuriste Hilary Charlesworth (oggi giudice della Corte internazionale) e Christine Chinkin scrivevano che il concetto di norma cogente “non è mai stato davvero universale in quanto il suo sviluppo ha privilegiato le esperienze degli uomini su quelle delle donne”. La storia del diritto, anche del diritto internazionale, è stata (ed è) una storia di silenzi. È tempo di romperli, di dare un nome a ciò che avviene e di promuovere una cultura giuridica che sia davvero attenta al genere. *Docente di diritto internazionale all’Università Ca’ Foscari di Venezia Medio Oriente. La mossa della Cpi sfida la credibilità europea di Riccardo Redaelli Avvenire, 23 novembre 2024 La decisione della Corte penale internazionale era attesa, prevista e di fatto quasi inevitabile, alla luce dei massacri di civili compiuti vicendevolmente da Hamas e dalle forze militari israeliane. Così come del tutto prevedibili le reazioni indignate da parte di Tel Aviv e degli Stati Uniti ai mandati di arresto contro il primo ministro Bibi Netanyahu e l’ex ministro della difesa Yoav Gallant, con la solita accusa alla Corte di essere “antisemita”. Il governo di estrema destra israeliano, del resto, usa questa accusa con troppa facilità contro chiunque dissenta dai metodi brutali usati contro i palestinesi o si indigni per i quasi cinquantamila morti, moltissimi dei quali donne e bambini. Ma cosa succederà ora, ci si chiede? Risposte troppo frettolose confermano la parola “nulla”: la Corte non ha potere coercitivo e tanti Paesi non ne riconoscono il ruolo. Quindi Bibi e il suo ex ministro possono continuare a dormire tranquilli. Non è così in realtà, perché questo mandato di arresto produrrà delle conseguenze - in un verso o nell’altro - tanto in Israele quanto in Occidente. A livello immediato, il primo ministro israeliano diventa un paria della politica internazionale, al pari di Putin, anch’egli inseguito dalla Corte penale. Entrambi dovranno calcolare in quali Paesi rischiano l’arresto e in quali possono ancora circolare; quanti governi si chiederanno se possono dialogare tranquillamente con dei “latitanti”, perché questo è il loro status giuridico internazionale. Le conseguenze più a lungo termine, tuttavia, si riverbereranno a tre livelli. Riguardando l’Occidente, il rapporto fra Stati Uniti ed Europa e nei confronti dei Paesi del Sud Globale, sempre più irritati dalla stridente differenza fra i valori che diciamo di voler promuovere e i nostri comportamenti reali. Washington ha bollato come vergognosa la decisione della Corte dell’Aja; reazione attesa da parte di un governo sempre schierato con Israele e che non ha mai riconosciuto l’autorità dei giudici internazionali. E peggio ancora sarà con l’avvento di Trump, il quale in passato avrebbe vagheggiato di “invadere l’Aja”. Si potrebbe sorridere dinanzi a un simile delirio, ma invece questo dà la cifra del fastidio degli Stati Uniti dinanzi a un giudice indipendente. Non a caso essi sono in buona compagnia con Cina e Russia nel non riconoscere l’autorità della Corte: le grandi potenze vogliono le mani libere, e lo vorranno sempre più in un mondo che purtroppo sembra tornare velocemente alle logiche della pura potenza di stampo ottocentesco. Il secondo livello delle conseguenze sarà l’allargamento delle differenze fra Stati Uniti e Europa, in una fase di crescente fastidio e preoccupazione reciproca. Anche qui l’avvento di Trump si annuncia tempestoso per le relazioni trans-atlantiche, e le differenze nei confronti di questi mandati d’arresto non potranno che acuirle, dato che vari Paesi dell’Unione hanno già dichiarato di volerli rispettare. Le voci politiche più sagge del Vecchio Continente - non che ve ne siano molte, in verità - spingono perché da una dinamica politica negativa come l’allontanamento delle due sponde atlantiche scaturisca un rafforzamento dell’Unione e un superamento delle tradizionali, miserevoli rivalità fra gli Stati europei. Il rischio, invece, con il quale si dovrà lottare, è che i governi facciano a gara nello scodinzolare attorno al prossimo inquilino della Casa Bianca, indebolendo ulteriormente il ruolo e la forza dell’Europa. Infine, l’onda lunga di questa decisione si avrà fra Europa e Paesi del Sud Globale, in Asia, Africa e America Latina. Da tempo cresce l’insofferenza per il cosiddetto “double standard”, il doppio registro che usa l’Occidente, sempre implacabile nel sottolineare le violazioni ai diritti umani e alle regole internazionali dei Paesi non amici, mentre siamo distratti - o del tutto ciechi e sordi - quando si tratta di Paesi alleati. Tutto ciò ha negli anni minato la nostra credibilità come promotori di politiche globali, favorendo l’immagine di un Occidente eminentemente ipocrita, a tutto vantaggio di quei Paesi che di diritti umani e di rispetto della dignità umana non vogliono sentir parlare. E le decine di migliaia di morti a Gaza e ora l’allargamento del conflitto in Libano sono per tanti governi del Sud del mondo la cartina di tornasole dei nostri comportamenti reali. Se l’Europa non vuole perdere del tutto la credibilità come promotore di diritti condivisibili da tutto il sistema internazionale deve tenere la barra dritta, rispettando fino in fondo, volente o nolente, le decisioni della Corte penale internazionale. Medio Oriente. Esiste ancora una giustizia internazionale di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 23 novembre 2024 Le reazioni stupefatte e indignate al mandato d’arresto della Cpi per Netanyahu e Gallant ci dicono che il diritto c’è ancora, ma i potenti non sono disposti a sopportarlo. Il mandato di arresto per crimini contro l’umanità e per crimini di guerra, emesso dalla Corte penale internazionale contro il premier israeliano Benjamin Netanyahu, l’ex ministro della difesa Yoaf Gallant e il capo militare di Hamas Mohammed Deif, ci dice una cosa elementare ma inaccettabile per gli odierni poteri selvaggi. Ci dice che esiste ancora un diritto internazionale; che c’è un giudice all’Aja; che all’esercizio sregolato della forza ci sono ancora limiti giuridici. Le motivazioni del mandato informano i governanti di Israele e l’intera comunità internazionale che i palestinesi sono esseri umani. Che perciò non è lecito usare la fame come un’arma di guerra, privando “intenzionalmente la popolazione civile di Gaza di beni indispensabili alla loro sopravvivenza, tra cui cibo, acqua, medicine e forniture mediche, nonché carburante ed elettricità”; che è un crimine contro l’umanità ostacolare gli aiuti provenienti dall’estero e costringere i medici a operare i feriti e a eseguire amputazioni senza anestesie; che è un crimine di guerra attaccare intenzionalmente le popolazioni civili e bombardare ospedali e scuole provocando decine di morti - sette donne e bambini su ogni dieci civili uccisi - solo per colpire un capo nemico. In questi tempi tristi e crudeli, nei quali l’Onu viene insultata, le sue risoluzioni sono ignorate e le sue forze di interposizione Unifil sono bombardate, gli organi giurisdizionali di garanzia, grazie alla loro indipendenza, hanno dato un segno di vitalità, affermando il diritto contro l’uso illimitato della forza. Naturalmente i potenti hanno reagito con durezza. Pronuncia “antisemita”, “oltraggiosa”, “assurda e falsa”, hanno dichiarato i governanti israeliani. Una decisione viziata dall’assenza di giurisdizione della Corte, hanno affermato gli Stati Uniti, rilevando che Israele non ha ratificato lo statuto della Corte: circostanza questa, hanno precisato i giudici dell’Aja, che non toglie la loro competenza, dato che tale statuto è stato ratificato nel 2015 dalla Palestina e il suo art. 12 la prevede per i crimini commessi nel territorio di uno Stato-parte. Il nuovo leader dei repubblicani al Senato John Thune, è giunto a minacciare misure contro i giudici dell’Aja “in segno di ritorsione”. “È una vergogna”, ha detto a sua volta il premier ungherese Victor Orbán. Analoga reazione ha avuto il presidente argentino Javier Milei. “Sentenza assurda e filo islamica” ha infine dichiarato, in Italia, la Lega di Matteo Salvini. Evidentemente, per tutti questi potenti, grandi e piccoli, è impensabile che ci sia un giudice che ricordi che il loro potere non è assoluto e che alcune cose non si possono fare. Le reazioni stupefatte e indignate provocate da questo mandato d’arresto ci dicono perciò un’altra cosa, anch’essa semplice ed elementare: che se è vero che ancora il diritto esiste, i potenti non lo sopportano, né sono disposti a sopportarlo. Esse ci fanno capire il senso dell’intolleranza che rivestono, in tutto il mondo, gli attacchi ai controlli giurisdizionali di qualunque tipo: la riforma giudiziaria voluta dalla destra israeliana nel gennaio 2023 e consistente nella neutralizzazione della Corte suprema e nella sostanziale subordinazione della giurisdizione al potere politico; la recente riforma giudiziaria in Messico, che integra tutti i giudici nel potere politico rendendoli elettivi; la pretesa avanzata dal multi-miliardario Elon Musk che i giudici italiani che non hanno convalidato le deportazioni dei migranti in Albania “se ne devono andare”; lo stupore espresso dalla nostra presidentessa Giorgia Meloni per la non collaborazione di tali giudici con il governo; in breve, l’irritazione stupefatta dei potenti per non poter fare, indisturbati, tutto ciò che vogliono. È questa la nuova e purtroppo antica ideologia di tutti gli autocrati del mondo. Diritti fondamentali e separazione dei poteri - i due elementi senza i quali, dice l’articolo 16 della Dichiarazione del 1789, non c’è Costituzione - per costoro non contano. Non ne comprendono neppure il senso. Democrazia e libertà sono le parole, da essi sottratte al lessico progressista, con le quali chiamano e legittimano i loro arbitrii e le loro illegalità. L’aspetto allarmante di questo disprezzo del diritto e di questa aggressione ai diritti è il loro carattere globale. Globale è la logica del nemico che legittima guerre e massacri di massa indiscriminati. Globale è il disprezzo suprematista per i popoli e le persone che non appartengono al nostro nobile Occidente. Globale è l’attacco alla sfera pubblica, la devastazione della natura e la guerra contro i poveri e contro i deboli. Per questo l’opposizione a questi attacchi non può che essere a sua volta globale. Per questo l’alternativa ai sempre più potenti poteri selvaggi degli Stati sovrani e dei mercati globali non può che essere l’allargamento alla loro altezza delle garanzie costituzionali: non solo la difesa e il rafforzamento dell’ancora imperfetta giustizia internazionale, ma anche il disarmo globale e totale a garanzia della pace e della sicurezza, un demanio planetario che sottragga i beni comuni della natura all’attuale mercificazione e devastazione, servizi sanitari e scolastici globali a garanzia dei diritti alla salute e all’istruzione. Solo grazie a queste garanzie globali, pace e uguaglianza cesseranno di essere promesse non mantenute. Sembra un sogno. E invece è la sola alternativa razionale e realistica a un futuro di catastrofi planetarie. Medio Oriente. Il diritto internazionale non è un’opinione politica di Gabriele Della Morte Il Domani, 23 novembre 2024 “Ci sono fondati motivi per ritenere che non sia possibile individuare alcuna chiara necessità militare o altra giustificazione per le restrizioni poste all’accesso delle operazioni di soccorso”. Appaiono ineccepibili le dichiarazioni che accompagnano la decisione della Camera preliminare della Corte penale internazionale di accettare la richiesta del procuratore della scorsa primavera e di emettere dei mandati di arresto con riferimento alla situazione palestinese. Benché si tratti di semplici comunicati stampa - gli atti ufficiali sono secretati per ragioni di sicurezza - essi lasciano intravedere un quadro probatorio di grande rilevanza. Ma procediamo con ordine. Il 20 maggio scorso il procuratore Khan aveva reso irritualmente pubblica la richiesta di cinque mandati di arresto nei confronti di tre leader palestinesi (Sinwar, Haniye e Al-Masri, rispettivamente: vertici politici di Hamas e comandante delle Brigade di Al-Qassam) e di due leader israeliani (Netanyahu e Gallant, rispettivamente premier israeliano ed ex ministro della Difesa). L’irritualità era dovuta al fatto stesso di rendere nota la richiesta prima della relativa approvazione da parte dei giudici, ma la scelta era presumibilmente giustificata da una strategia di più ampia portata volta a contenere la drammatica escalation del conflitto in corso. Sullo sfondo della sostanziale perduranza, da un lato, della crisi degli ostaggi catturati il 7 ottobre, dall’altro, dell’offensiva militare e dei suoi drammatici effetti della popolazione civile a Gaza, la Camera preliminare ha emesso, il 21 novembre 2024, tre dei cinque mandati di arresto richiesti, specificamente nei confronti di Netanyahu, di Gallant e di Al-Masri, dal momento che di Sinwar e di Haniye era stato frattanto accertato il decesso. Il provvedimento non era scontato, soprattutto perché nelle settimane seguenti l’annuncio del procuratore erano giunte, dinanzi alla Corte, un numero eccezionale di richieste interlocutorie, da parte di Stati, organizzazioni non governative, esperti indipendenti, e diverse tra esse peroravano il difetto giurisdizionale della Corte. I giudici della Camera preliminare, con due circostanziate decisioni che accompagnano l’emissione dei mandati, sgomberano chiaramente il campo da tali obiezioni, rammentando che sebbene Israele non compaia tra i 124 Stati che hanno ratificato lo Statuto della Corte internazionale, la Palestina ha provveduto in tal senso, e i crimini oggetto di indagini sono stati presuntivamente compiuti da cittadini dello Stato palestinese (con riferimento agli attacchi del 7 ottobre) oppure sul territorio riferibile a quest’ultimo (con riferimento alla reazione israeliana), e che il c.d. “criterio della territorialità” e quello della c.d. “nazionalità dell’accusato” sono indiscutibilmente riconosciuti come legittimi tanto dal diritto internazionale generale quanto dallo Statuto istitutivo della Corte. Premesse tali specificazioni, doverose per separare la correttezza del discorso giuridico dal libero mercato delle opinioni politiche, è opportuno osservare più da vicino le accuse contestate, pur nella consapevolezza che se ne potrebbero aggiungere di ulteriori, come dimostra il caso del mandato nei confronti di Putin e della commissaria dei diritti dei fanciulli, cui hanno fatto seguito altri quattro mandati di arresto nei confronti dei più alti vertici militari russi. Le accuse riferibili al comandante delle Brigade di Al-Qassam, Al-Masri fanno riferimento a numerose condotte che includono gli omicidi compiuti nel quadro degli attacchi generali e sistematici compiuti il 7 ottobre 2023 nei confronti della popolazione civile israeliana (qualificabili come crimini contro l’umanità), la prese di ostaggi (qualificabili come crimini di guerra), e gli stupri e le altre sevizie compiute nei confronti di questi ultimi (qualificabili tanto come crimini contro l’umanità quanto come crimini di guerra). Anche le accuse riferibili Netanyahu e Gallant sono rubricate come crimini contro l’umanità e crimini di guerra, ma qui le condotte prese in considerazione si riferiscono a situazioni differenti. Esse comprendono, tra le altre, le politiche volte alla privazione sistematica dei beni necessari alla vita della popolazione civile a Gaza, quali il cibo, l’acqua, le medicine e l’elettricità (qualificabili come crimini di guerra) e ancora gli omicidi, gli atti di persecuzione, e gli altri atti inumani condotti nel quadro di un attacco generale e sistematico contro la popolazione civile (qualificabili come crimini contro l’umanità). Per determinare questi ultimi, in particolare, la Camera preliminare prende in esame numerosi fattori, quali ad esempio le grandi sofferenze causate dall’assenza di anestetici. La conclusione è quella che “le condizioni di vita calcolate per distruggere in parte la popolazione civile di Gaza, hanno determinato la morte di civili, inclusi bambini per malnutrizione e disidratazione”. Approvata la richiesta ed emessi i mandati, gli stessi sono obbligatori, e tutti i 124 Stati che hanno ratificato il Trattato sulla Corte - tra i quali l’Italia - sono obbligati a garantire l’attuazione. Come dimostrano le precedenti incriminazioni internazionali dei più alti livelli politici: sarà un cammino lungo e incidentato - persino Milosevic venne catturato ed estradato due anni dopo il mandato di arresto, e dietro al Tribunale per la ex Iugoslavia c’era addirittura il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite - ma la strada appare segnata. Medio Oriente. Perché il mandato d’arresto per Netanyahu isola Israele e allontana la pace di Renzo Guolo* Il Domani, 23 novembre 2024 La decisione della Cpi renderà impossibile ogni processo negoziale a Gaza e in Libano. Gli estremisti Ben Gvir e Smotrich già reclamano l’annessione di “Giudea e Samaria”. Il mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale per Netanyahu e Gallant, avrà effetto sulla guerra in Medio Oriente? Condizionerà in un senso o nell’altro i protagonisti del conflitto, Israele e Hamas, l’Iran e i suoi proxies, o i paesi arabi della regione? La risposta è no. Almeno sul breve termine. Può, invece, ottenere l’irrigidente effetto di rendere impossibile ogni residua prospettiva negoziale. Come mostrano le reazioni in Israele alla pronuncia dell’Aja, sfociate nella dura, trasversale, prevedibile critica a organismi internazionali, si tratti dell’Onu o della Cpi, ai quali non riconosce alcuna legittimità. Corredata dall’istintivo riflesso a “contare sulle proprie forze”, a fare da soli. Dove soli significa, naturalmente, con l’appoggio più o meno totale degli Stati Uniti, sia che nello Studio Ovale ci sia Biden oppure l’atteso e più gradito Trump. Nessuna critica ammessa - Il bollare le accuse dei magistrati internazionali, che pure non hanno sollevato la contestata questione “genocidio”, come antisemitismo risponde a due necessità. In primo luogo, creare all’esterno un palese effetto interdittivo, impedendo ogni critica a scelte politiche e militari che paiono, più che sproporzionate, indifferenti alle sorti di chi non è israeliano. Scelte che paiono escludere qualsiasi prospettiva alla formula “due popoli, due stati”, sposata dalla comunità internazionale dopo lo scioccante massacro del 7 ottobre. Condotta che disorienta le opinioni pubbliche occidentali, anche perché Israele si presenta come la sola democrazia della regione. La strategia di Bibi - In seconda battuta, alimentare all’interno, oltre che la continuità di governo del longevo e inguaiato Bibi, quella sindrome del nemico che favorisce il serrare i ranghi, il respingere qualsiasi interferenza esterna, ritenuta inammissibile. Prospettiva, e narrazione, che consente di continuare la guerra a oltranza, destinata a ridisegnare - di sicuro a sud, e se serve, e sarà possibile, anche a nord - i confini dello stato ebraico. La presenza pochi giorni fa di Netanyahu in riva al mare, al termine del corridoio di Netzarin - che dovrebbe segnare il nuovo confine, con l’annessione di fatto della parte settentrionale di Gaza dopo aver fatto evacuare, in quella meridionale o altrove, la popolazione civile ancora presente - non voleva essere solo un’incoraggiante visita, di stampo churchilliano, alle truppe dell’Idf lì dislocate. Il trionfante Bibi voleva far vedere al mondo islamico, e a chi lo sostiene in patria, compresi i coloni guidati dalla storica leader del movimento Daniela Weiss che chiedono il ritorno a Gaza, chi era ormai il nuovo padrone di quella strategica parte della Striscia. Tassello definitivo di questa fase dovrebbe essere, per i leader della destra estrema messianica come il kahanista Ben Gvir e il nazionalreligioso Smotrich, che ora la reclamano come “compensazione” allo “sfregio” dell’Aja, l’annessione di “Giudea e Samaria”, ovvero dei Territori occupati in Cisgiordania. Del resto, questi ambienti politici estremisti hanno sempre considerato favorevoli le fasi di “isolamento” di Israele, poiché si prestano a colpi di mano favoriti dal rarefarsi di relazioni ritenute “pericolose”. Dunque, Netanyahu farà della “persecutoria” decisione della Cpi, contando sull’indefettibile appoggio degli Usa che come Israele non ne riconosce l’autorità, occasione per stravolgere ulteriormente il gioco, per tagliarsi i ponti alle spalle con i paesi decisi a far rispettare la decisione della Corte. Opzione che consente di ridurre l’effetto pressione, in particolare dei paesi alleati, sulla condotta della guerra. Gli effetti sul lungo periodo - Sul lungo periodo, invece, la decisione dei giudici internazionali rafforzerà l’isolamento già forte di Israele, non solo nel cosiddetto “sud globale”, ma anche nelle opinioni pubbliche occidentali, sopratutto tra i più giovani e tra quanti sono favorevoli alla formula “due popoli, due stati”, che criticano duramente Netanyahu e la destra nazionalista e nazionalreligiosa messianica, che lo appoggia e insieme lo tiene in ostaggio, non per supposto antisemitismo, accusa rivolta spesso strumentalmente anche a chi per valori, orientamento culturale e politico, di certo antisemita non è. Un fattore che potrebbe avere, in determinate fasi del ciclo politico internazionale - non parrebbe l’attuale - un certo peso. Ma sul punto Bibi è temporalmente “keynesiano”: sul lungo periodo, sosteneva il pur preveggente Lord Maynard, chi vivrà vedrà. Un effetto diverso la pronuncia dell’Aja potrebbe avere, più che sul campo “antisionista” guidato dall’Iran - Teheran e i suoi stretti alleati non avevano certo bisogno della decisione de l’Aja per ridefinire il volto del Nemico - nei cosiddetti paesi arabi “moderati” (termine che, fuori dalla retorica, nulla ha a che fare con il moderatismo di questo o quel regime, ma con la collocazione internazionale non ostile all’Occidente). Più complesso, infatti, per i paesi che intendono stringere rapporti con Israele, e liberarsi definitivamente della questione palestinese, ignorare gli effetti delle accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità nei confronti di un paese con il quale i regimi dell’area vorrebbero normalizzare i rapporti. Difficile anche per governanti come il Bin Salman, che non ha ancora il pieno controllo del campo religioso e teme insidie che possono venire da ambienti ostili dell’estesa famiglia reale. Firmare gli Accordi di Abramo, prevedibile iniziativa degli Usa in salsa trumpiana per chiudere, anche diplomaticamente, ogni spiraglio al ritorno in scena sotto forma statuale della questione palestinese, potrebbe essere complicato in presenza di accuse, come quelle rivolte a Israele, difficili da ignorare anche in un mondo arabo ormai disincantato: persino per lo spregiudicato principe saudita. Un tassello del complicato puzzle mediorientale che né Netanyahu né Trump vorrebbero vedere riporre nel cassetto.