Giustizia, ecco le sanzioni contro i giudici “di parte”. E c’è la stretta sui database di Francesco Bechis Il Messaggero, 22 novembre 2024 Lunedì il decreto in Cdm: se un magistrato commenta una legge del governo, deve poi astenersi dal trattare casi su quell’argomento. Oppure interviene il Csm. Un ammonimento alle toghe “politicizzate”. Questa volta scritto nero su bianco. Hai criticato apertamente un decreto del governo con un editoriale, in un convegno, sui social network, e ti ritrovi a dover giudicare su quello stesso decreto? Devi astenerti, far spazio a un altro collega con la toga, per ragioni “di convenienza”. Altrimenti scattano le sanzioni del Consiglio superiore della magistratura: ammonimento, censura, perfino sospensione. È una norma che farà discutere, quella contenuta nel provvedimento sulla giustizia che il governo bollinerà lunedì prossimo in Consiglio dei ministri. Che fra l’altro introduce una stretta sui reati informatici e la violazione dei database all’origine degli scandali sui dossieraggi che da mesi preoccupano la premier Giorgia Meloni e l’intero governo: l’impulso sulle indagini, come anticipato, passerà alla procura Antimafia e per chi verrà sorpreso a trafugare informazioni riservate dai database pubblici scatterà l’arresto in flagranza. Una piccola, grande rivoluzione. Ma la novità che più avrà i riflettori addosso, in una fase che ha visto riaccendersi le tensioni tra maggioranza e magistratura, è quella sulle sanzioni disciplinari ai magistrati che vengono meno, per citare il Guardasigilli Carlo Nordio, al loro “dovere di imparzialità”. È il vecchio sogno berlusconiano: se le toghe fanno politica devono togliersi la toga di dosso. Da sogno a realtà, si direbbe leggendo il testo abbozzato dal governo. Ebbene d’ora in poi alle ragioni che giustificano un intervento disciplinare del Csm se ne aggiunge un’altra: “La consapevole inosservanza del dovere di astensione nei casi in cui è espressamente previsto dalla legge l’obbligo di astenersi o quando sussistono gravi ragioni di convenienza”. È tutto qui, nell’ultima frase, il significato della svolta. I giudici hanno il “dovere di astenersi” se sono chiamati a giudicare su una vicenda per cui si sono già espressi ed esposti pubblicamente. A Palazzo Chigi non confermano. Ma è chiaro come la nuova sanzione prenda le mosse dal recente tiro alla fune tra le sezioni immigrazione dei tribunali e il governo sul patto fra Italia e Albania per i riconoscimenti extraterritoriali dei migranti. Con la levata di scudi delle toghe e la richiesta di intervenire alla Corte di Giustizia europea contro il “decreto Paesi sicuri” approvato dal centrodestra per scavalcare l’ostacolo e far ripartire i trasferimenti in Albania. Nel fuoco di fila della maggioranza era finita, poche settimane fa, la giudice Silvia Albano, una delle toghe del tribunale di Roma che si è rifiutata di convalidare il trattenimento di 12 migranti nel centro italiano in Albania. Presidente di Magistratura democratica, la corrente togata “di sinistra” ai ferri corti con Palazzo Chigi, è finita nel mirino della maggioranza perché più volte, nei mesi scorsi, aveva apertamente e duramente criticato il governo per l’accordo albanese su cui si è ritrovata a emettere un verdetto. Per alcune minacce ricevute sui social il Viminale le ha rafforzato la scorta. Insomma, toghe “di parte” avvisate. Facile immaginare che la nuova norma rialzi il polverone con l’Associazione nazionale magistrati, ormai da settimane impegnata a duellare con la destra al governo e a denunciare invasioni di campo. E chissà cosa ne pensa Sergio Mattarella, il Capo dello Stato che solo pochi giorni fa ha richiamato al rispetto tra poteri dello Stato. Intanto il governo va avanti. Proprio come ha fatto spostando la competenza sui trattenimenti dei migranti dalle sezioni immigrazione dei tribunali alle Corti d’Appello. Presentato dalla responsabile immigrazione di Fratelli d’Italia Sara Kelany, l’emendamento è stato bollinato giorni fa dal ministero della Giustizia di Nordio. Dunque nessun passo indietro. Nel decreto, si diceva, entra la stretta sui reati informatici. Anche questa non casuale. Arriva al culmine dello scandalo dossieraggi, riacceso con l’indagine della Dda di Milano contro la “centrale degli spioni” che trafugava milioni di informazioni dalle banche dati del Viminale su personaggi pubblici, figure politiche di primo piano come la premier e sua sorella Arianna, ministri, imprenditori e finanzieri. Dopo due settimane di riflessioni “tecniche”, così le aveva definite il sottosegretario Alfredo Mantovano, ecco la quadra. L’impulso per il reato di estorsione tramite mezzi informatici passerà all’Antimafia. Sarà insomma la procura guidata da Giovanni Melillo ad avviare le indagini contro spioni e funzionari infedeli che trafugano dati e li usano per montare un mercato nero dei dossier. Ipotesi già emersa e che ha fatto alzare qualche sopracciglio al Viminale. Stop ai dossieraggi - Non è tutto: con il decreto pronto al varo di Palazzo Chigi viene introdotto l’arresto in flagranza di reato per “il delitto di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico in sistemi informatici o telematici di interesse militare o relativi all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica o alla sanità o alla protezione civile o comunque di interesse pubblico”. Tradotto: manette ai polsi per chi viene sorpreso a violare le banche dati del governo. Proprio ciò di cui è stato accusato dai pm di Perugia il finanziere Pasquale Striano, nell’indagine che ha dato il via allo “scandalo dossieraggi”. Uno, due, tre. Lunedì il governo riaprirà il fronte con le toghe “di parte”. Cioè “di sinistra”. L’antipasto della riforma delle carriere di giudici e pm che galoppa in Parlamento. Sarà un caldissimo Natale. “Parlare non è conveniente”. Il governo silenzia i giudici di Mario Di Vito Il Manifesto, 22 novembre 2024 Nuovo decreto sulla giustizia. Imparzialità e libertà di espressione nel mirino. E per gli hacker arriva l’arresto in flagranza. Essere imparziali, ma anche sembrare tali. Come la moglie di Cesare: al di sopra di ogni sospetto. È una questione sulla quale i giuristi hanno prodotto nei decenni tonnellate di riflessioni e che, in effetti, dà da pensare anche all’opinione pubblica, con il governo che si propone di sciogliere il nodo per decreto. Ieri mattina, alla riunione preparatoria convocata mentre la premier Meloni è in Sud America dal sottosegretario Alfredo Mantovano in vista del consiglio dei ministri in programma per lunedì, nello schema dell’ennesimo decreto sulla giustizia, al punto 4, leggiamo che tra gli illeciti disciplinari dei magistrati ci sarà anche “la consapevole inosservanza del dovere di astensione nei casi in cui è previsto dalla legge l’obbligo di astenersi o quando sussistono gravi ragioni di convenienza”. Cosa sarebbero le “grave ragioni di convenienza” non lo sa nessuno - il concetto è molto largo - ma certo c’entrano qualcosa le polemiche delle ultime settimane, come quelle contro la giudice di Roma Silvia Albano e il suo collega di Bologna Marco Gattuso, le cui decisioni hanno messo in crisi i piani albanesi del governo e che, tra le altre cose, sono stati accusati di aver già espresso pregiudizi tecnici su certi provvedimenti. Con questo nuovo illecito disciplinare, per dirla meglio, aver espresso critiche su una legge potrebbe diventare “una grave ragione di convenienza”. A ben guardare, comunque, questa nuova norma sbatte con l’articolo 51 del codice di procedura civile, che renderebbe la questione facoltativa: i giudici, cioè, hanno già la facoltà di chiedere ai propri superiori di potersi astenere per tutti i motivi non già espressamente previsti. La motivazione addotta dal governo per questa misura di “straordinaria necessità e urgenza” risiede nell’abrogazione del reato di abuso d’ufficio e ha lo scopo dichiarato di “parificare espressamente, a fini di rilevanza disciplinare, i casi di obbligo di astensione tipizzati dalla legge a quelli in cui l’astensione è soggettivamente rimessa alla sussistenza delle gravi ragioni di convenienza”. Tutto questo mentre per la cancellazione dell’abuso d’ufficio dal codice penale è stata tirata in ballo (da sei ordinanze di rinvio) la Corte costituzionale. “È una norma pericolosa - dice Giovanni Zaccaro, segretario di Area democratica per la giustizia -. Si vogliono ridurre i magistrati a burocrati silenziosi con la conseguenza di impoverire il dibattito culturale e giuridico del paese che rimarrebbe privo del contributo e magistrati che sperimentano sul campo i problemi della giurisdizione”. Anche il consigliere indipendente del Csm Roberto Fontana manifesta qualche perplessità: “Così formulata la norma si presta ad un’estensione dell’esercizio dell’azione disciplinare in particolare ai casi di partecipazione dei magistrati al dibattito pubblico rispetto ai quali sono emerse radicali diversità di opinioni tra esponenti del potere esecutivo e la magistratura”. È evidente, del resto, che nonostante la questione dell’imparzialità sia da sempre centrale e di sicuro meriti più di qualche ragionamento astratto, non si può non rilevare che le tempistiche dell’intervento del governo siano quantomeno sospette, inserendosi nello scontro sempre più duro in atto tra il governo e la magistratura. Giusto mercoledì, votando una pratica a tutela dei giudici di Bologna, il plenum del Csm ha preso una decisa posizione, sottolineando quanto, per così dire, l’esecutivo sia andato molto oltre la legittima facoltà di criticare i provvedimenti della giurisdizione e sia arrivato spesso e volentieri a insultare chi ha assunto certi provvedimenti (in tutta evidenza sgraditi). E poi tutti gli altri capitoli del romanzo della battaglia sulla giustizia: il tentativo per emendamento di esautorare le sezioni specializzate in immigrazione; i decreti scritti e riscritti sulla base delle sentenze sfavorevoli; la richiesta di apertura di una pratica “per incompatibilità ambientale” contro il segretario di Magistratura democratica Stefano Musolino, colpevole di aver criticato il decreto sicurezza; la perenne accusa di “comunismo” scagliata addosso a ogni toga che non si allinea al millimetro con le posizioni del governo. Un elenco lungo e che non appare destinato a chiudersi di qui a breve. Nel pacchetto di misure che finiranno al Consiglio dei ministri, comunque, tra le altre cose, il governo proverà anche a mettere una pezza legislativa ai tanti casi di furto di informazioni dai database investigativi emersi negli ultimi mesi. Come? Inasprendo le sanzioni, nella (vana) speranza che questo possa essere un deterrente: potrà essere arrestato in flagranza chiunque si renderà colpevole del reato di “accesso abusivo a un sistema informatico o telematico in sistemi informatici o telematici di interesse militare o relativi all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica o alla sanità o alla protezione civile o comunque di interesse pubblico”. Ora la maggioranza media sulla norma “blocca-processi” di Errico Novi Il Dubbio, 22 novembre 2024 Ci sarebbe una soluzione. Basata su un ragionevole compromesso. È questa la proposta che il la maggioranza intende accogliere rispetto alla norma “blocca- processi” inserita in Manovra. Si tratta della misura con cui la legge di Bilancio, nella versione originaria disegnata dal Consiglio dei ministri, e in particolare dal Mef, prevede l’estinzione della causa civile nel caso in cui non si provveda preliminarmente al pagamento del contributo unificato. La modifica al codice di rito civile dà facoltà al giudice di dichiarare l’improcedibilità nei casi di domanda riconvenzionale, chiamata in causa, impugnazione incidentale. Secondo fonti di governo, la misura verrebbe modificata in modo da rendere vincolante, per il prosieguo dell’azione legale, solo il versamento di un anticipo, relativamente contenuto, dell’intero contributo unificato. La parte restante continuerebbe a essere assoggettata alla disciplina tuttora in vigore: affidamento, in caso di omesso o insufficiente versamento, della riscossione a Equitalia Giustizia. Si ragiona sull’entità di tale anticipo: aspetto non irrilevante. A quanto risulta, il ministero dell’Economia ritiene necessario modificare il codice in modo che un maggiore gettito, dalla “tassa sulle cause civili”, possa comunque generarsi. La coperta sembra corta: per evitare che il cittadino intenzionato a far valere un proprio diritto in tribunale non rinunci, tout court, all’azione perché in difficoltà economica, si dovrebbe evidentemente prevedere che l’anticipo sia davvero basso. In tal caso andrà verificato quale potrebbe essere l’effettivo introito per l’erario. Ma una cosa è certa: l’obiettivo è intervenire sull’emendamento presentato da Forza Italia, a prima firma del capogruppo Giustizia degli Azzurri a Montecitorio Tommaso Calderone e, come consente il regolamento, prevedere che il governo, in commissione Bilancio, esprima un parere favorevole condizionato alla riformulazione, da concordare fra i partiti. L’altro dato certo è che la mediazione sul parziale passo indietro ha coinvolto, con il guardasigilli Carlo Nordio, tutti i partiti di maggioranza. Dopo l’iniziativa di FI, è stata anche la Lega ad attivarsi per ridiscutere un provvedimento pericolosissimo. Il sottosegretario che al ministero della Giustizia rappresenta il Carroccio, Andrea Ostellari, sostiene la necessità di un ripensamento. Da parte di Fratelli d’Italia non sarebbe emersa, per ora, un’ostilità a una revisione dell’intervento sul contributo unificato: anche i sottosegretari alla Presidenza Alfredo Mantovano e alla Giustizia Andrea Delmastro hanno partecipato al confronto. D’altra parte, l’ipotesi di una barriera fiscale alla giustizia civile sarebbe tradotta di fatto in una selezione per censo del diritto alla difesa: è vero che chi è privo dei mezzi necessari ad affrontare un giudizio e intraprendere un’azione civile può contare sul patrocinio a spese dello Stato, ma è vero anche che, non di rado, chi non rientra formalmente nei parametri per poter accedere al beneficio può trovarsi comunque in condizioni di forte difficoltà, al punto da dover rinunciare alla rivendicazione di un diritto, anche centrale nell’esistenza, nel momento in cui lo Stato subordini la possibilità di quella rivendicazione a un esborso immediato che può superare il migliaio di euro. L’accordo politico in linea di massima c’è. Bisognerà attendere la posizione del Mef. Va ricordato che, dopo il via libera del Consiglio dei ministri alla legge di Bilancio e le prime polemiche sulla norma “blocca- processi”, Forza Italia aveva annunciato di voler proporre un emendamento soppressivo. Con Calderone, protagonisti dell’iniziativa sono gli altri deputati azzurri della commissione Giustizia della Camera: Enrico Costa, Annarita Patriarca e Pietro Pittalis. Il viceministro Francesco Paolo Sisto sarebbe a propria volta attivo per trovare l’intesa. La prima ipotesi di FI era sottoporre la modifica soppressiva agli alleati prima ancora di formalizzarla. Poi i tempi stretti nella selezione degli emendamenti hanno indotto i deputati berlusconiani a muoversi senza una convergenza preliminare con Lega e FdI. Il che però richiederà, a questo punto, un reset politico e poi “finanziario”, con l’adozione, in commissione Bilancio, di una correzione in corsa. Va ricordato che anche i partiti d’opposizione hanno assunto un’iniziativa nettamente contraria alla trasformazione del contributo unificato in un esborso pregiudiziale rispetto all’azione civile. Il Pd e il Movimento 5 Stelle, in particolare, hanno depositato emendamenti soppressivi analoghi a quello di Forza Italia. Anche considerato il pressing delle opposizioni, andrà verificato poi il contenuto di dettaglio della “norma riformulata”. Attualmente, il famigerato articolo 105 introduce un nuovo articolo 307- bis 76 nel codice di procedura civile, secondo cui il “processo” si estingue “per omesso o parziale pagamento del contributo unificato”. Più precisamente, prosegue la norma, “alla prima udienza il giudice, verificato l’omesso o il parziale pagamento, assegna alla parte interessata termine di trenta giorni per il versamento o l’integrazione del contributo e rinvia l’udienza a data immediatamente successiva. A tale udienza il giudice, in caso di mancato pagamento nel termine assegnato, dichiara l’estinzione del giudizio”. Nei casi di “domanda riconvenzionale”, “chiamata in causa”, “impugnazione incidentale”, interviene, come detto, “l’improcedibilità”. Il vincolo riguarda l’intero processo civile eccezion fatta per i procedimenti cautelari e possessori. Il governo, nel proprio disegno di legge, ha tenuto ad avvertire che non sarebbero risparmiati né il “rito del lavoro” né il “processo esecutivo”. Che le cose restino così, è improbabile. Ma la partita non è chiusa. E la minaccia al diritto di difesa potrà dirsi sventata solo una volta che la Manovra sarà in Gazzetta ufficiale. Nasce un nuovo processo “trattativa: ora tocca agli ex Dia a Caltanissetta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 novembre 2024 Il teorema della trattativa Stato- mafia, che nel corso degli anni è cambiato in corso d’opera, prevede anche che Bernardo Provenzano sia stato protetto per anni attraverso un patto tra mafia e politica, con l’ausilio di soggetti deviati e i soliti ex Ros. La vicenda, che muore a Palermo, entra nell’imminente processo di Caltanissetta attraverso il rinvio a giudizio degli ex generali dei carabinieri della Dia in pensione Alberto Tersigni e Angiolo Pellegrini oggi 82enne, e dell’ex poliziotto Giovanni Peluso, accusato di aver protetto Cosa Nostra in concorso con soggetti dei servizi segreti non identificati. Si tratta della tesi elaborata anche dalla procura generale di Palermo, all’epoca guidata dal procuratore Roberto Scarpinato, ed emersa durante il processo d’appello sulla trattativa. Dal capo d’accusa della procura di Caltanissetta sottoscritto dal sostituto procuratore Pasquale Pacifico e dai magistrati Domenico Gozzo e Salvatore Dolce della procura nazionale antimafia, emerge che gli ex generali Pellegrini e Tersigni erano stati intercettati in vista della loro audizione come testimoni al processo d’appello sulla trattativa. Secondo l’accusa, avrebbero concordato cosa riferire. Eppure, secondo l’avvocato Basilio Milio, uno dei legali dell’ex generale Tersigni, hanno semplicemente dialogato per ricordarsi a vicenda i fatti di venti anni fa. In fondo non ci sarebbe nulla di male. Per fare un esempio, questo è accaduto anche con l’ex magistrato Giuseppe Ayala, sentito nel 2019 al processo depistaggio Via D’Amelio. All’ennesimo cambio di versione, lui stesso ha affermato: “Prima di venire qui ho chiamato Lo Forte e telefonicamente mi ha assicurato che non era lui la persona che mi aiutò a riconoscere Borsellino. Io quindi ricordavo male”. Nessuno ha avuto nulla da ridire o insinuare che si siano accordati. Ma ritorniamo al rinvio a giudizio. L’ex colonnello Pellegrini è stato il braccio destro di Falcone, uomo di fiducia del Pool antimafia che ha portato a compimento le più importanti indagini nei confronti di Cosa Nostra. Il “rapporto dei 161”, firmato dai poliziotti Ninni Cassarà e Francesco Accordino e, appunto, da Angiolo Pellegrini, è stato all’origine del maxiprocesso dove, tra gli altri, compare anche Provenzano. La tesi contro lui e Tersigni è quella di non aver vagliato le dichiarazioni di Pietro Riggio, ora collaboratore di giustizia e che all’epoca operava da infiltrato per conto della Dia stessa con lo scopo di arrivare alla cattura di Bernardo Provenzano. In quel periodo, da confidente, raccontò agli ex ufficiali di aver appreso dall’ex poliziotto Giovanni Peluso che nel 2001 c’era un progetto di attentato nei confronti del giudice Leonardo Guarnotta, che all’epoca presiedeva il processo di primo grado nei confronti dell’allora senatore Dell’Utri. Per la procura nissena i due ex generali della Dia non avrebbero messo al vaglio tali dichiarazioni. Anzi, sono accusati di aver affermato il falso (e quindi depistato) dinanzi alla procura che chiedeva chiarimenti sui fatti, non avrebbero detto ciò che sapevano e avrebbero addirittura ostacolato le indagini finalizzate ad acquisire elementi per comprovare l’autenticità delle dichiarazioni di Riggio. Che abbiano riferito male è un dato di fatto. Ma dopo anni, forse è pacifico non ricordarsi più alcuni fatti e fare confusione. D’altronde questo avviene anche con ben altri personaggi, che però non risulta siano stati raggiunti da avvisi di garanzia. La notizia clamorosa è che per la procura nissena Riggio è credibile. O meglio, sono credibili i racconti che Peluso avrebbe fatto a lui. Ma chi è quest’ultimo? Proviene dal nutrito sottobosco composto da falsari, truffatori, papponi. Lo stesso Peluso - come si legge nelle motivazioni della sentenza d’appello trattativa - era un pregiudicato per truffa, violenza sessuale, sfruttamento della prostituzione e altri reati. Costui si spacciava per uno che avrebbe commesso l’attentato di Capaci, di far parte dei servizi deviati e altro ancora. Protagonista di delitti eclatanti e trame eversive decisamente non alla portata della sua statura. Tra i vari racconti che fece a Riggio, uno è quello del sedicente progetto di attentato nei confronti di Guarnotta. E nel capo d’accusa, per la procura nissena, è tutto vero. Gli ex colonnelli Tersigni e Pellegrini hanno fatto finta di nulla? Nonostante sia già poco credibile di suo, visto che dopo la sconfitta dell’ala stragista la mafia ha usato la tattica della “sommersione” (leggasi intercettazione di Pino Lipari, uomo di Provenzano, del 2 agosto 2000), e quindi nessun rumore e nessun eclatante attentato, gli ufficiali della Dia misero subito sotto intercettazione telefonica Peluso. Ma non solo. La Dia avvisò correttamente l’allora procuratore Pietro Grasso. Come si legge nell’informativa della Dia, si parla di una fonte (ovvero Riggio) che rivela ai carabinieri “non meglio indicati soggetti, presumibilmente non in linea con gli attuali orientamenti di Cosa Nostra, potrebbero avere in mente di porre in atto un episodio eclatante, verosimilmente nel capoluogo dell’isola”. La fonte dice che tali soggetti, per l’attentato, potrebbero servirsi di “tale Peluso Giovanni”. Quindi presero sul serio questo racconto de relato, appurando nello stesso tempo che Peluso era un pregiudicato per prostituzione e truffa. Quest’ultimo reato è stato per Grasso un campanello d’allarme, tant’è vero - come si legge nell’informativa - che ha concordato l’avvio delle indagini preventive “con la possibilità, tenuto conto dei precedenti penali del Peluso, che possa trattarsi di millanterie nei confronti della fonte”. Alla fine la nota del 2001 dell’ex colonnello Pellegrini chiariva che le indagini non avevano confermato alcun coinvolgimento di Peluso in reati di criminalità organizzata. Dalle intercettazioni era emerso soltanto un tenore di vita irregolare e contatti con persone sospette, ma nessun elemento concreto di affiliazione mafiosa. Piuttosto il linguaggio criptico delle conversazioni e i precedenti penali di Peluso lasciavano intendere un probabile coinvolgimento in attività truffaldine. Che un collaboratore come Riggio si sia convinto delle veridicità riferite da Peluso, ci può stare. Poi sta agli inquirenti verificare che ciò sia vero. Eppure per la procura, l’ex poliziotto Peluso, l’ex delinquente Antonio Mazzei, assieme a soggetti dei servizi segreti non identificati (quindi se non individuati, rimane una ipotesi), in realtà non volevano catturare Provenzano all’epoca ricercato con una taglia milionaria, ma proteggerlo. Quella stessa combriccola fu convocata dagli ex colonnelli, che speravano nella cattura di Provenzano. Pellegrini successivamente li avrebbe definiti truffaldini e millantatori. Costoro indicarono Riggio, allora detenuto, come possibile fonte, prospettandogli garanzie processuali in cambio di informazioni. Una volta scarcerato, Riggio rientrò nelle estorsioni per Cosa Nostra, fornendo alcuni risultati investigativi come l’individuazione di una talpa in procura e informazioni sulle dinamiche criminali locali. Ma finì lì. Molto utile per le cose che conosceva, ma nulla per le cose che apprendeva de relato da Peluso. Quest’ultimo è stato rinviato a giudizio, ma il paradosso è che ci si basa sui suoi racconti che avrebbe fatto a Riggio e, forse, alla sua ex compagna Marianna Castro. Quindi ancora una volta si riesuma la trattativa, questa volta ordita in particolar modo da un politico ben specifico. Non compare nel capo d’accusa. Ma c’è nell’indagine della procura di Firenze sulle stragi continentali: Marcello Dell’Utri. In fondo Riggio lo cita come colui che avrebbe indicato i luoghi da colpire nel 1993. Ma non era stato, secondo i teoremi riesumati, il neofascista Paolo Bellini? Difficile trovare un filo logico in tutto questo calderone. Resta il fatto che ancora una volta, prevale la tesi della mafia eterodiretta. Il contrario di ciò che hanno combattuto, e sono morti per aver messo il becco sugli affari di Cosa Nostra con le grandi imprese, anche se ci si ostina a non voler vedere, Falcone e Borsellino. Passa la legge contro i maltrattamenti sugli animali, ma sempre panpenalismo è di Riccardo Carlino Il Foglio, 22 novembre 2024 L’aula di Montecitorio approva il pacchetto di norme firmato da Michela Brambilla: un poderoso incremento di pene detentive e pecuniarie accompagnato da nuovi reati e aggravanti. Sognando una deterrenza sempre più mitica. “Vittoria! La Camera ha approvato la mia legge per inasprire le pene per i reati contro gli animali! Basta impunità!”. Festeggia così Michela Vittoria Brambilla, deputata di Noi Moderati e presidente dell’Intergruppo parlamentare per i diritti degli animali, subito dopo il via libera di Montecitorio con 101 voti a favore, 95 astenuti e 2 contrari del suo disegno di legge recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni per l’integrazione e l’armonizzazione della disciplina in materia di reati contro gli animali”. La definisce una “rivoluzione”, dedicata “alle vittime mute e invisibili, al cane Aron, al gatto Leone e a tutti gli animali di cui non si è mai parlato e mai si parlerà”, anche se nella sostanza si tratta dell’ennesimo intervento in chiave panpenalista attuato da un membro della maggioranza. Il testo, spiega Brambilla, “aumenta le pene, sia detentive che pecuniarie, per i principali reati e illeciti a danno degli animali: l’uccisione, il maltrattamento, l’organizzazione di combattimenti”. E infatti chi provocherà volontariamente la morte di un animale non rischierà più dai quattro mesi a due anni di reclusione, bensì dai sei mesi a tre anni, oltre a una nuova multa che va da 5 mila a 30 mila euro. La pena aumenta fino a quattro anni se il fatto è commesso con sevizie, caso in cui raddoppia l’importo da pagare (fino a 60 mila euro). Si arriva poi al reato di maltrattamento di animali, in cui cresce il minimo della pena detentiva (da tre a sei mesi) e anche il massimo (da diciotto mesi a due anni) corredato da una multa tra i 5 mila e i 30 mila euro. Per questi reati, inoltre, viene aumentata la pena fino alla metà “se l’autore dei fatti diffonde descrizioni o immagini dei medesimi attraverso strumenti informatici o telematici”. Analogamente, anche per l’abbandono di animali viene prevista la reclusione da uno a cinque anni e una multa dello stesso importo dei precedenti reati. Qui la questione diventa più complessa, in quanto l’articolo che riguarda questo reato, il 727 del codice penale oltre a punire certi comportamenti “con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro”, rientra anche fra quelli modificati dal nuovo Codice della strada approvato due giorni fa, il quale aumenta di un terzo la pena per chi abbandona sulla carreggiata i propri animali domestici. Se non fosse che proprio questo articolo viene abrogato dalla legge Brambilla: un cortocircuito sfuggito ai deputati di Montecitorio, su cui presumibilmente interverranno i colleghi di Palazzo Madama. A seguire, chi organizzerà spettacoli e manifestazioni “con sevizie e strazio per gli animali” arriverà a pagare una multa massima di 30 mila euro (15 mila in più rispetto a prima), con incrementi di pena per chi organizza o partecipa a combattimenti non autorizzati (che rischiano rispettivamente fino a quattro e due anni di prigione, più la multa). Non solo si agisce sull’assetto sanzionatorio già esistente, ma vengono creati nuovi reati ad hoc. Tipo l’articolo 544-septies che introduce per la prima volta in Italia delle pene per chi uccide o maltratta un animale a seguito di comportamenti con negligenza, imprudenza o imperizia (dunque con colpa) e senza alcuna volontà di danneggiarlo (dolo). A ciò si aggiunge il nuovo 544 octies, che incrementa le aggravanti se i fatti sono commessi alla presenza di minori, oppure “nei confronti di animali conviventi”, usando armi o nell’esercizio di un’attività commerciale. Viene istituito anche il reato di preparazione e abbandono di esche e bocconi avvelenati - “contenenti sostanze nocive o tossiche, compresi vetri, plastiche, metalli e materiale esplodente” - in danno della salute pubblica e degli animali, punito con la reclusione da quattro mesi a due anni e con la multa da 5 mila a 20 mila euro. E per concludere, il divieto di tenere il cane alla catena - previsto solo da alcune leggi regionali- si estende livello nazionale, accompagnato da sanzioni pecuniarie da 500 a 5 mila euro. “Di fronte all’obiettiva gravità di certe condotte, partiti, associazioni, società civile reclamavano sanzioni più severe, più deterrenza” commenta la prima firmataria. Ma gli strumenti con cui raggiungerla sono gli stessi di solito: aumenti muscolari delle pene e reati nuovi di zecca. Oltre al forte riferimento ai casi di cronaca, (in discussione fioccano i ricordi per il “cane Angelo, torturato a morte nel Cosentino, il cane Aron, bruciato a Palermo, il gatto Leone, scuoiato vivo nel salernitano, il gatto Green ucciso a botte in Veneto”). Gli atti violenti sui detenuti sono torture di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2024 Il reato scatta anche se il comportamento è isolato nel tempo. Reato di tortura per più condotte violente commesse nei confronti dei detenuti, ai quali vengono provocate acute sofferenze fisiche e un verificabile danno psichico. La Cassazione, (sentenza 42649 e altre), respinge i ricorsi - contro la sospensione cautelare dal servizio per un anno - proposti dal coordinatore del Corpo di Polizia penitenziaria di Foggia e da alcuni agenti, accusati di aver torturato due detenuti. La Suprema corte respinge la tesi della difesa degli indagati, secondo la quale, la contestazione del reato (articolo 613 bis del Codice penale) era infondata in assenza della reiterazione richiesta anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Di diverso avviso i giudici di legittimità che, con un verdetto in linea con la Cedu, chiariscono che l’accusa può essere mossa anche nell’ipotesi di plurime condotte di violenza e minaccia pur se messe in atto “in un unico contesto spazio temporale”. In base a quanto scritto dal Gip, un detenuto era stato costretto da tre o quattro agenti a rientrare in cella dove, a turno, alcuni indagati lo avevano picchiato, dopo aver rotto i suoi occhiali. Alla base dell’aggressione il comportamento di uno dei detenuti, con problemi psicologici, che aveva scioccato un’ispettrice tagliandosi davanti a lei. Botte anche al compagno di cella che lo aveva difeso. Non passa neppure la contestazione sull’impossibilità di usare i filmati girati negli spazi comuni del carcere perché non sono luoghi di privata dimora. Quanto al coordinatore, oltre ad aver partecipato a una aggressione, per aver trattenuto nel centralino un detenuto, è accusato di tortura per non essersi attivato, come era suo dovere, per impedire le violenze. Napoli. Detenuto suicida, Poggioreale è un inferno di Luigi Sannino Il Roma, 22 novembre 2024 Quarto episodio dall’inizio dell’anno, la rabbia del garante Ciambriello: “Il sistema penitenziario sull’orlo del baratro”. Un nuovo suicidio nel carcere di Poggioreale, dove si è tolto la vita un uomo di 28 anni, Benito Viscovo, originario di Nola. È il quarto suicidio dall’inizio dell’anno a Poggioreale, l’undicesimo in tutta la regione. Sono 81 in tutta Italia, con il carcere di Prato e quello di Poggioreale al primo posto per numero di detenuti che hanno deciso di togliersi la vita. “Il sistema penitenziario - spiega il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive Samuele Ciambriello - è sull’orlo del baratro, una strage continua ma la politica tace ed è assente. Nessun argine da provvedimenti governativi o parlamentari, solo populismo mediatico e penale anche contro la dignità delle persone detenute, dei diversamente liberi. Celle sovraffollate e tensione alle stelle, condizioni difficili che favoriscono atti di autolesionismo, scioperi della fame, scioperi sanitari. Nessun commento pubblico sui suicidi di Stato, che interrogano anche l’opinione pubblica. Ci sono omissioni di Stato, questi suicidi e gli atti di autolesionismo e le proteste rilevano un quadro inquietante che è sotto gli occhi di tutti. Indignarsi non basta più”. “Dall’inizio dell’anno - prosegue Ciambriello - sono 1.842 i tentativi di suicidio, 11.503 gli atti di autolesionismo. Tra gli 81 detenuti che si sono suicidati l’età media è di 40 anni, tra questi otto avevano un’età compresa tra i 18 e 25 anni”. “Le condizioni in cui i detenuti del carcere di Poggioreale sono costretti a vivere sono una ferita aperta per tutti noi e una mortificazione della vita umana. Sovraffollamento, mancanza di igiene, strutture fatiscenti e condizioni che annientano la dignità non possono essere ignorati o tollerati”. Bruno Zuccarelli, presidente dell’Ordine Dei Medici di Napoli, commenta così la notizia dell’ennesimo suicidio avvenuto nel carcere di Poggioreale, un tema sul quale già in passato il presidente dell’Ordine Dei Medici è intervenuto con forza, chiedendo un radicale cambio di paradigma e soprattutto un potenziamento del personale sanitario all’interno delle strutture penitenziarie. “La situazione dell’assistenza sanitaria all’interno degli istituti penitenziari italiani, a partire da Poggioreale, in particolare per quanto riguarda il supporto psicologico e psichiatrico ai detenuti è a dir poco carente”, conclude il presidente Zuccareli. Perugia. Detenuto di 37 anni morto in carcere: oggi l’autopsia umbria24.it, 22 novembre 2024 Il medico legale Luca Tomassini ha il compito di accertare le cause del decesso. L’autopsia sul corpo del detenuto di 37 anni, trovato morto nella sua cella martedì mattina nel carcere di Capanne, verrà effettuata questa mattina. Il pubblico ministero Mario Formisano ha incaricato il medico legale Luca Tomassini di accertare le cause del decesso e l’esatto momento in cui è avvenuto. Questi elementi saranno cruciali per orientare le indagini, che attualmente si concentrano sull’ipotesi di omicidio colposo a carico di ignoti. Le prime verifiche indicano che la morte potrebbe essere dovuta a cause naturali, ma, alla luce delle tensioni emerse tra i detenuti, saranno effettuati ulteriori accertamenti. La giornata di martedì è stata segnata da gravi momenti di agitazione. Secondo quanto riportato, sarebbe stato necessario l’intervento del reparto antisommossa per contenere le proteste scoppiate tra i detenuti. I tentativi di rianimazione dell’uomo, durati circa 40 minuti, sono risultati vani, ma durante le operazioni i soccorritori sono stati bersaglio di violenze. Alcuni detenuti avrebbero cercato di aggredirli, mentre una bomboletta di gas da cucina è stata lanciata da una finestra in direzione degli operatori, senza provocare danni. Un altro episodio critico si è verificato quando un detenuto ha tentato di colpire i sanitari con una sedia, accusandoli di aver tardato nei soccorsi. Insulti e urla hanno accompagnato le operazioni, nonostante il tempestivo intervento degli operatori del 118 e della polizia penitenziaria. L’intervento degli agenti ha permesso di ristabilire l’ordine, ma la tensione ha evidenziato il clima di disagio all’interno del penitenziario. Le indagini proseguiranno per chiarire i contorni di quanto accaduto, mentre si attendono i risultati dell’autopsia per fare luce sulle cause della morte del detenuto. Trapani. Era “un girone dantesco”. Cosa c’è nell’indagine per le torture sui detenuti di Rino Giacalone articolo21.org, 22 novembre 2024 Tutto avveniva dietro i cancelli del “reparto blu”. È lì che sarebbero stati commessi torture e abusi ai danni dei detenuti. Non siamo in un paese straniero, in un carcere egiziano, dove sotto tortura fu ucciso Giulio Regeni, siamo nella casa circondariale “Pietro Cerulli” di Trapani. Quel carcere dove all’ingresso è posta una targa a ricordo di un poliziotto, Giuseppe Montalto, ucciso il 23 dicembre 1995 dai mafiosi che lo ammazzarono come regalo di Natale ai boss detenuti al 41 bis. L’esempio di quel poliziotto è finito calpestato e vilipeso dai suoi stessi colleghi. È di ieri la notizia del blitz del nucleo di Polizia Penitenziaria che ha visto finire ai domiciliari su ordine del gip del Tribunale di Trapani, giudice Giancarlo Caruso, undici agenti in servizio nel carcere, per altri ventiquattro è scattata la misura cautelare della sospensione dal servizio, ma di indagati ce ne sono almeno altri dieci. In conferenza stampa il Procuratore della Repubblica di Trapani Gabriele Paci ha espressamente indicato il “reparto blu” come una sorta di “lager”, “un girone dantesco, una zona franca - ha detto il procuratore che ha coordinato le indagini con i pm Sara Morri e Francesca Urbani - dove tutto quello che di peggio si poteva fare veniva fatto”. Un reparto che è stato chiuso già da meno di un anno per le sue condizioni strutturali e igienico sanitarie risultati incompatibili con la detenzione. Lì dentro a star male erano detenuti e agenti. Ma questi ultimi hanno sfogato il malcontento con istinti bestiali. A pagare le conseguenze i detenuti, tutti soggetti fragili. “L’indagine - ha confermato il procuratore - è stata avviata nel 2021 ed è continuata sino al 2023, le sevizie e le torture sono emerse chiaramente grazie a video camere che sono state collocate negli spazi occupati dai detenuti”. Vittime sono risultati essere una ventina di detenuti. E a questo punto i particolari forniti dal procuratore Paci sono stati davvero pesanti. “I detenuti che abbiamo visto subire ogni genere di abusi erano sia italiani che stranieri quasi tutti detenuti fragili, per le loro condizioni psicofisiche, psichiatriche, persone vulnerabili… detenuti che venivano fatti spogliare, colpiti con lanci di acqua e urina”. Gli agenti indagati “si inventavano situazioni inesistenti… hanno sottoscritto denunce di reato, palesando aggressioni subite o comportamenti illeciti quando semmai per quanto emergeva dalle intercettazioni a commettere i reati sarebbero stati loro”, i detenuti subivano ritorsioni incredibili, “senza aver fatto nulla venivano malmenati…violenze gratuite e sproporzionate sono state messe in atto”. Lo scenario è angosciante e lo è ancora di più per un altro particolare indicato dal procuratore della Repubblica: non tutti gli agenti erano violenti ma tra gli agenti penitenziari c’era chi era a conoscenza di quello che accadeva all’interno di questa sezione del carcere, “ma non ha mai denunciato avendo invece il dovere di farlo”. E così ai reati più gravi contestati, come quello della tortura si sono aggiunti falso e omessa denuncia. Gli atti di violenza venivano messi in atto da parte degli agenti profittando si una circostanza precisa: “Quello - ha spiegato il procuratore Paci - era un reparto a differenza di tutti gli altri, sprovvisto di video camere”. Gli agenti erano certi quindi di non essere visti, ignoravano però che frattanto per l’indagine in corso, erano state collocate microspie capaci di riprendere quello che accadeva nei corridoi e nelle celle nonché negli angusti spazi di comunità. Insomma chiamare questa sezione “reparto blu” sembra essere stata una grande incongruenza, il blu è il colore del mare, dovrebbe ispirare serenità, e invece all’interno del “Pietro Cerulli” di Trapani quel blu era sfocato, impercettibile, tendeva al grigio, al nero, per i drammi che si consumavano all’interno. C’è voluto del tempo, ma adesso questa sezione è stata chiusa, eppure le condizioni di invivibilità erano palpabili, a cominciare dall’aria che non circolava liberamente e dalla luce che dall’esterno arrivava appena fin dentro le celle di due metri per quattro, attraverso finestrelle di 50 centimetri per 40 posti in alto a 25 centimetri dal soffitto. Più volte, nel tempo, diverse associazioni, tra le più attenti “Nessuno tocchi Caino”, si sono interessate alle condizioni del “Cerulli” e proprio della sezione “blu”, i report hanno messo nero su bianco “trattamento inumani e degradanti”, inflitti ai detenuti quanto ai loro vigilanti, ma adesso sono quest’ultimi a uscire malmessi. Un reparto composto da appena 20 celle, uno stretto spazio di comunità, un locale per la doccia. Dietro l’inferriata del reparto finivano i detenuti destinati all’isolamento diurno o per punizioni conseguenza di violazioni disciplinari. Particolari che inquietano quelli venuti fuori, come la organizzazione di una “squadretta” di agenti incaricata di infliggere punizioni corporali ai detenuti. Agenti lasciati con le mani troppo libere, forse spinti anche da come certi governanti e certa politica intendono la detenzione in carcere. Dinanzi all’indagine della Procura di Trapani colpiscono un paio di cose, certi sindacati della polizia penitenziaria che parlano di “gogna mediatica”, e il silenzio di chi sta al governo. Il Pd con Verini ieri al Senato ha chiesto al ministro Nordio di venire a riferire in aula. Intanto il Dap e il ministero della Giustizia adesso dovranno correre ai ripari. Il “Pietro Cerulli” già con enormi vuoti di organico vede allargarsi la forbice dei posti vacanti, considerato che l’indagine tocca il 50 per cento del personale di polizia penitenziaria in servizio. Trapani. I segni del pestaggio? “È nero, non si vedono” di Luigi Mastrodonato Il Domani, 22 novembre 2024 Pestaggi con un “intento persecutorio”. Tra le vittime anche un cittadino di origine rumena che ha tentato il suicidio una volta fuori dal carcere. L’inchiesta rivela un “metodo” oltre Trapani. Sono decine gli episodi brutali nel fascicolo relativo alle presunte violenze e torture nel carcere di Trapani per cui sono indagati 46 agenti, circa il 20 per cento del totale, e dieci sono finiti ai domiciliari. Tanti mattoncini che costruiscono un modus operandi che secondo il procuratore Gabriele Paci “non era episodico, bensì una sorta di metodo per garantire l’ordine”. “Un intento persecutorio”. È la formula che compare con frequenza nel fascicolo, riferita all’atteggiamento che avrebbero tenuto gli agenti nei confronti di alcuni detenuti. Nella gran parte dei casi le violenze non sarebbero state isolate, ma indirizzate come mezzo di coercizione verso soggetti specifici: quelli che soffrivano di disturbi psichici e quelli più agitati. Una delle storie più eclatanti è quella che avrebbe vissuto un detenuto romeno tra il 2022 e il 2023. C’è un episodio in cui l’uomo viene colpito da un agente con una manata in faccia durante il trasporto nel reparto di isolamento, senza che stesse opponendo alcuna resistenza. In un altro caso viene picchiato da un suo compagno e gli agenti non intervengono, osservando la scena. Una settimana dopo, l’uomo, in biancheria intima, viene trascinato per il corridoio da due agenti e poi buttato nella cella usando la forza. “È stato picchiato in più occasioni, non aveva letto o materasso in cella e dormiva per terra, l’ho visto tutto spaccato e sporco di sangue”, la testimonianza di un compagno. Secondo il procuratore il detenuto romeno avrebbe subito in modo persecutorio un trattamento inumano e degradante da parte degli agenti. Il giorno successivo all’uscita dal carcere l’uomo si è impiccato ed è rimasto per parecchio tempo in coma in ospedale. Il suo stato di salute fisico-mentale era così compromesso nei mesi scorsi che non è stato possibile per gli inquirenti raccogliere la sua testimonianza. Umiliazioni e razzismo - Tra le costanti che emergono dall’indagine sono le violenze, compiute da una “squadretta”, e le umiliazioni. Un detenuto viene fatto denudare completamente davanti a sette agenti penitenziari, che lo sbeffeggiano per le dimensioni dei suoi genitali. L’uomo poi viene costretto a percorrere il corridoio nudo, cosa che avrebbe causato “un verificabile trauma psichico”. Una notte di aprile 2023 un gruppo di agenti si scontra verbalmente con un altro detenuto in stato di agitazione. Come emerge dalle intercettazioni, gli agenti decidono di fargliela pagare e organizzano una spedizione punitiva. Uno di loro entra in bagno ed esce poi con un secchio pieno di liquido. “È pisciazza immischiata con l’acqua”, rivela a un collega. Poi la secchiata di acqua e urina viene lanciata contro il detenuto dallo spioncino. L’uomo inveisce contro gli agenti, che decidono di sedarlo contro la sua volontà: recuperano una sigaretta da un vicino di cella, ci mettono una qualche sostanza chimica dentro e gliela danno da fumare. “C’ho paura che arriva a morire”, confida uno dei due agenti all’altro. Il procuratore scrive che a Trapani, nel periodo sotto indagine, è emerso un “totale disprezzo della figura del detenuto”. Nei confronti dei reclusi è stato usato un linguaggio offensivo, come “coso inutile”, “sei un cane”, “ammazzati”, con anche la matrice razzista. In un’intercettazione un gruppo di agenti parla di come picchiare i detenuti senza lasciare segni. Qualcuno suggerisce di coprire il colpo con un lenzuolo, che poi è quello che sarebbe stato fatto in ospedale a danno di un detenuto ricoverato, secondo quanto ricostruito nell’indagine. Riferendosi a un altro detenuto un agente sottolinea che il metodo del lenzuolo non serve perché “tanto è nero e non si vede un cazzo”. Il metodo Ivrea - Tra gli episodi più inquietanti c’è il riferimento diretto, da parte di uno degli agenti sotto indagine, a un altro carcere su cui sono accesi i riflettori della magistratura. “Gli si devono dare legnate… i colleghi non si toccano… a Ivrea noi facevamo così, appena toccavano un collega… a sminchiarli proprio”, dicono intercettati. Il riferimento è all’inchiesta su una ventina di agenti del carcere di Ivrea rinviati a giudizio dopo un’indagine sulle presunte violenze sistematiche commesse nel carcere piemontese a partire del 2015. L’accusa, che era di tortura, è stata derubricata a lesioni, ma l’intercettazione venuta fuori da Trapani potrebbe rimescolare le carte e aprire un nuovo filone d’indagine. Sul clima di terrore creato dagli agenti a Trapani pesano invece anche alcune dichiarazioni dei detenuti, che entrano nel campo della manipolazione mentale. “Non avevo denunciato le botte perché pensavo di essermele meritate”, racconta uno di loro. “Non essendo mai stato in galera credevo che fosse normale tutto questo”, confida un altro. Firenze. Il carcere è “disumano”: detenuto da trasferire se non fanno i lavori di Stefano Brogioni La Nazione, 22 novembre 2024 La sorveglianza boccia Sollicciano: se entro 60 giorni non verranno sanate alcune problematiche croniche, il recluso ha diritto a un altro penitenziario. In cella a Sollicciano senza acqua calda, senza riscaldamento, tra le cimici. Il tribunale di sorveglianza emette un’altra ordinanza severissima contro il carcere “disumano”: il giudice Susanna Raimondo ha infatti accolto gran parte delle doglianze presentate dall’avvocato Gianni Salocchi per conto di un suo assistito (I.P., un “definitivo” che ha già passato circa tre anni dietro le sbarre) e ordinato all’amministrazione penitenziaria di intervenire sulle carenze ormai croniche. Entro sessanta giorni, il carcere dovrà assicurare “la ripresa degli interventi già programmati di efficientamento energetico e sostituzione degli infissi, di manutenzione delle coperture e delle facciate”, dovrà provvedere alla “realizzazione delle dorsali degli impianti idrico-sanitari in vista dell’adeguamento dei servizi igienici”, e completare la “centrale idrica di accumulo e gruppo spinta” oltre che intervenire alla “manutenzione cucina 1”. Per quanto riguarda le cimici, il tribunale di sorveglianza ha ordinato “di provvedere all’adeguata disinfestazione di tutti i locali di soggiorno e pernottamento della popolazione detenuta, degli arredi, del corredo e del vestiario” al fine di eliminare i parassiti, “anche predisponendo la temporanea chiusura a rotazione dei reparti allo scopo di un’integrale eradicazione”. E se nei sessanta giorni successivi al deposito dell’ordinanza, datato 19 novembre, Sollicciano non ha dato seguito ai dettami del giudice, scatterà il trasferimento del detenuto “in un diverso istituto ove siano garantite le minime condizioni di vivibilità”. Per l’avvocato Salocchi non è solo una vittoria in tribunale, ma un successo anche dal punto di vista sociale ed umano. Il giudice Raimondo, le cui conclusioni probabilmente sono destinate a non restare isolate, è entrata anche nel merito di alcune questioni non certo secondarie riguardo alle condizioni di vivibilità dentro al carcere. Ricordate l’ordinanza di un altro giudice di sorveglianza sull’acqua calda non così necessaria? “Sebbene la corte di Cassazione abbia ritenuto che la mancanza di acqua calda nelle celle configuri una situazione di ‘mero disagio’ e non di violazione di diritti fondamentali - scrive il giudice - va considerato tuttavia che il ‘grave pregiudizio’ resta integrato allorché la mancanza di acqua calda nelle camere integri a pieno titolo uno dei rilievi da tenere in considerazione nella valutazione generale delle condizioni di detenzione, a causa dell’effetto cumulativo che tale fattore determina insieme alle altre condizioni in concreto valutate. Orbene, nell’istituto di Sollicciano, già particolarmente degradato, infestato da cimici, affetto da scarsa igiene, soggetto ad infiltrazioni idriche frequenti, materassi logori ed altre gravi carenze, la mancanza di acqua calda corrente in cella contribuisce cumulativamente a rendere la condizione detentiva particolarmente disumana e degradante. A ciò va aggiunto che ai detenuti di Sollicciano non è sempre possibile effettuare la doccia quotidianamente anche perché l’impianto è gravemente carente e spesso l’acqua, soprattutto nelle sezioni poste ai piani superiori, non arriva”. Avellino. La Camera Penale Irpina: “Nel carcere di Bellizzi condizioni disumane” di Katiuscia Guarino Il Mattino, 22 novembre 2024 Condizioni disumane nelle celle, carenza idrica e emergenza sanitaria: sono queste le criticità riscontrate nel carcere di Bellizzi dai rappresentanti della Camera Penale Irpina e degli esponenti dell’associazione Nessuno tocchi Caino nel corso della visita nella casa circondariale. Ieri mattina l’iniziativa, alla quale è seguita la presentazione di un libro, presso la struttura di contrada Sant’Oronzo. Le problematiche rilevate sono state al centro del dibattito che si è tenuto al termine della visita e che ha visto la partecipazione della direttrice in missione del carcere, Maria Rosaria Casaburo; il presidente della Camera Penale Irpina, Gaetano Aufiero; il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Avellino, Fabio Benigni; l’ex parlamentare Rita Bernardini e Sergio D’Elia segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino. “Il carcere di Avellino: un contesto degradato dove non lavora bene nessuno” afferma la presidente Bernardini. “Per fare un caso specifico: mancava l’acqua e recentemente è stata tolta del tutto. È paradossale che nella provincia con la maggiore abbondanza d’acqua in Italia, dove sgorga ovunque, in un carcere questa risorsa essenziale non sia disponibile. Questo perché, negli anni, non sono state realizzate le opere strutturali necessarie”, sottolinea Bernardini che rimarca le difficoltà legate alla presenza dei detenuti con problemi psichici. “Il carcere di Avellino è pieno di detenuti che avrebbero bisogno di cure, ma che invece vivono in condizioni disperate e finiscono per compiere atti estremi, come incendiare la cella, aggredire altri detenuti o autolesionarsi. L’area sanitaria è un disastro. Manca un dirigente sanitario e i detenuti spesso attendono mesi o addirittura anni per una visita. Il carcere, dunque, rischia di diventare il simbolo stesso dell’illegalità”. All’emergenza sanitaria si somma quella delle condizioni in cui sono ristretti i detenuti. “Durante la visita, siamo stati nel reparto di isolamento che definire disumano sarebbe un eufemismo” afferma il presidente della Camera Penale, Gaetano Aufiero. “Le condizioni di detenzione non rispettano i principi di umanità sanciti dalla nostra Costituzione. Abbiamo riscontrato celle sovraffollate, mancanza d’acqua, sporcizia e situazioni sanitarie indegne. Questa realtà è lontanissima dai principi di civiltà giuridica. In una cella destinata a due persone erano in cinque. In altre aree, quattro detenuti condividevano pochi metri quadrati. La carenza d’acqua peggiora la situazione, soprattutto di notte e nei mesi estivi”, conclude Aufiero. Sulla stessa linea Sergio D’Elia: “Nella sezione di isolamento il degrado è evidente sia dal punto di vista generale sia strutturale. In quel luogo si trovano persone con dipendenze da sostanze o con gravi problemi mentali. Persone che, per la loro condizione, non dovrebbero essere in un luogo di privazione della libertà. Bisogna trovare soluzioni alternative”. Presente alla visita anche il deputato del Movimento Cinque Stelle, Michele Gubitosa che propone “la realizzazione di case di comunità per il reinserimento sociale ove destinare i detenuti con pena residua fino a 12 mesi. Aiuterebbe a decongestionare il sovraffollamento carcerario. Per noi è fondamentale anche mettere risorse per potenziare il reinserimento lavorativo che abbatte la recidiva”. All’incontro hanno partecipato Carlo Mele, garante provinciale dei diritti dei detenuti e Giovanna Perna, componente dell’Osservatorio carcere campano. Bologna. Il Cardinale Zuppi: “Sofferenza dei detenuti in preoccupante aumento” agi.it, 22 novembre 2024 “L’emergenza carcere c’è da sempre: è un problema che va affrontato con risolutezza perché la sofferenza dei detenuti è in preoccupante aumento”. Così mons. Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana parlando oggi nel capoluogo emiliano romagnolo davanti a circa 200 persone, tra volontari e addetti ai lavori, durante il convegno ‘Carcere, esecuzione penale esterna e volontariato: bisogni, idee e sfide fra presente e futuro’ organizzato dal garante dei detenuti Roberto Cavalieri. “Il report sul volontariato carcerario presentato oggi - ha aggiunto - propone soluzioni adeguate, a partire da temi che possono sembrare marginali, ma che in realtà non lo sono, come l’assenza dei prodotti per l’igiene”. “Il ruolo del volontariato - ha concluso l’arcivescovo - è centrale nel sistema carcerario, anche perché contribuisce a fare cultura fuori da pregiudizi e distorsioni”. Il volontariato penitenziario rappresenta per il detenuto “un supporto fondamentale per ripartire, durante la pena e al suo termine”, ha spiegato Roberto Cavalieri. “Gli interventi a favore dei detenuti devono poter contare sulla collaborazione degli enti locali e dell’amministrazione penitenziaria. Dunque, serve lavorare insieme per superare le sfide che il carcere propone incessantemente”. Sul tema del lavoro in carcere, poi, il garante è andato contro gli stereotipi: “Non è detto che il lavoro sia l’antidoto per tutti i detenuti, anche perché non tutti possono ottenerlo. Serve, quindi, valutare percorsi diversi”. Inoltre “i dati ci dicono che il lavoro in carcere non necessariamente è uno strumento utile a contrastare le recidive”, ha concluso. Roma. Carcere e tossicodipendenze, conferenza stampa del Cnca: “Vuoti a prendere” agensir.it, 22 novembre 2024 A Roma, nella Sala stampa della Camera dei deputati - in via della Missione 4 - il 26 novembre, alle 14.45, si svolgerà la conferenza stampa “Vuoti a prendere”, che ha per sottotitolo: “L’affidamento in prova in comunità per i detenuti tossicodipendenti, una pratica in calo mentre il sovraffollamento carcerario aumenta”. Nell’annuale relazione al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia 2024 elaborata dal Dipartimento per le politiche antidroga e presentata il 25 giugno scorso dal Governo si evidenzia come al 31 dicembre 2023 erano presenti negli istituti di pena 17.405 detenuti tossicodipendenti, pari al 29% della popolazione carceraria totale (60.166). “A fronte di questa situazione e anche considerando le misure previste per l’accesso alle pene alternative alla detenzione per le persone con problemi di dipendenza patologica (art 94 - 309/90 per cui l’affidamento in prova in casi particolari può essere concesso solo quando deve essere espiata una pena detentiva, anche residua e congiunta a pena pecuniaria, non superiore a sei anni) solo il 7% degli assistiti detenuti con problematiche legate all’uso di sostanze viene inserito in comunità terapeutiche come misura alternativa al carcere - ricorda il Cnca -. Nel corso dell’anno 2023, le persone alcol/tossicodipendenti in carico agli Uepe per misure alternative sono state 6.270, di queste la maggior parte proveniva dallo stato di detenzione (47%), il 20% erano persone in misura provvisoria dalla detenzione e solo il 23% si trovavano in stato di libertà”. Malgrado sia evidente lo stato di cronica emergenza in cui versano gli istituti di pena in Italia, con tasso di sovraffollamento medio del 120%, “l’applicazione della misura alternativa alla detenzione per persone alcol/tossicodipendenti è in calo rispetto agli scorsi anni”, denuncia il Cnca, che è una rete di 240 organizzazioni del terzo settore italiane ed è la rete più ampia e numerosa di servizi del privato sociale per persone che usano sostanze e con dipendenze da uso non controllato di sostanza e gioco d’azzardo. La rete è attiva da più di 40 anni nell’accoglienza di persone in misura alternativa alla detenzione. Della rete fanno parte oltre 150 comunità terapeutiche residenziali e semi residenziali accreditate che propongono percorsi per persone con problemi di dipendenza da sostanze o da gioco d’azzardo. Nell’ultima rilevazione le comunità terapeutiche residenziali ospitavano quasi 400 persone in misura alternativa alla detenzione (affidamento), ma quasi altrettanti posti sono ancora disponibili nelle comunità della rete sparse per l’Italia. Interverranno alla conferenza stampa Caterina Pozzi, presidente del Cnca, Sonia Caronni, referente area penale adulti del Cnca, Riccardo de Facci, referente rapporti istituzioni sulle dipendenze del Cnca, Denise Amerini della Cgil, Stefano Anastasia, garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Franco Corleone de La società della Ragione, Antigone e Federserd. Milano: Carceri, progetto di riqualificazione con oggetti e arredi dismessi dalle aziende La Repubblica, 22 novembre 2024 Il recupero di prodotti che rischierebbero di essere smaltiti donati a quattro strutture detentive milanesi: San Vittore, Bollate, Beccaria e Opera. Un progetto di riqualificazione delle carceri permetterà il recupero e la distribuzione di prodotti e arredi che rischierebbero di essere gettati via, ma che invece verranno donati da aziende del territorio, con un beneficio in termini di emissioni evitate di CO2 e un buon impatto sociale sulle comunità. L’iniziativa è coordinata dal Comune di Milano e supportata da Regusto, prima piattaforma ESG blockchain per la lotta allo spreco. Le quattro carceri coinvolte. Regusto mette in contatto Aiutility, ente non-profit di riferimento per il progetto nel territorio, con alcune aziende che si sono rese disponibili per ottimizzare il recupero e la distribuzione di prodotti e arredi che vengono messi a disposizione di quattro carceri sul territorio milanese. Le strutture coinvolte sono: San Vittore, Bollate, Beccaria e Opera. Recuperati già 27.000 kg di prodotti destinati allo smaltimento, per un valore economico di 70.000 € e un risparmio di 16 tonnellate di CO2, che equivale all’aver salvato 650 alberi dall’abbattimento. Le due aziende coinvolte nel recupero e distribuzione. Le aziende interessate, dunque, possono donare prodotti usabili ma invendibili, e che andrebbero quindi smaltiti con un impatto a livello economico, ambientale e sociale. I prodotti sono recuperati e distribuiti alle strutture attraverso l’associazione Aiutility, ente capofila dell’iniziativa. Il progetto è attivo e andrà avanti anche per il prossimo anno, con il coinvolgimento del Comune di Milano e del consigliere comunale Alessandro Giungi. Le aziende al momento coinvolte nel processo di recupero e ridistribuzione di prodotti sono Saipem e Tecnomat. Nello specifico Saipem ha contribuito con una donazione di 578 pezzi dal valore economico di 51.600 € e un peso complessivo di 23.000 kg. Tecnomat ha già effettuato due donazioni dal valore economico di 19.500€ di merce e un totale di 3.680 kg. Il recupero anche della dignità della vita in carcere. Commenta Alessandro Giungi, consigliere comunale di Milano: “Il progetto di Aiutility e di Regusto è davvero molto bello. L’idea di coinvolgere grandi realtà quali catene di alberghi e importanti multinazionali nel recuperare arredi e mobili per migliorare la qualità della vita nelle carceri è importante a livello sociale, ambientale e culturale. Le carceri devono diventare luoghi in cui trascorrere il periodo di pena in maniera dignitosa e in ambienti che permettano una socializzazione e una vita in un ambiente dotato di arredi e sanitari in buone condizioni. Con questo progetto tale obiettivo si avvicina, dando una nuova vita ad oggetti che altrimenti, pur nuovi, sarebbero stati distrutti”. Recuperati 27mila kg di materiale. Da inizio progetto sono stati recuperati oltre 27.000 kg di prodotti e arredi invenduti o destinati allo smaltimento, corrispondenti a circa 4.000 unità di prodotti di vario genere che ricevono una nuova vita. In questo modo sono state riqualificate e rinnovate alcune parti delle strutture detentive fornendo un prezioso supporto a livello sociale ed economico. Tra i prodotti recuperati e donati: accessori bagno e sanitari (lavabi, wc, bidet, piatti doccia e rubinetti) e arredo (scrivanie, armadi, sedie, tavoli, ecc). Il recupero di materiale a rischio spreco permette alle aziende un risparmio in termini di costi di stoccaggio e smaltimento, generando anche un positivo impatto ambientale sui prodotti che non finiscono in discarica. “Il luogo dov’è possibile un’altra possibilità”. “Il carcere dovrebbe essere per definizione il luogo del recupero, della seconda possibilità - dice Giacinto Siciliano, direttore della casa circondariale di San Vittore - siamo contenti di questa importante collaborazione che consente di migliorare le condizioni di vita all’interno della struttura e contribuire al miglioramento ambientale. Ancora una prova di grande attenzione del territorio alla realtà del carcere e all’integrazione - aggiunto il direttore - con le istituzionali e il Terzo Settore”. Un progetto replicabile in altre parti d’Italia. Il circolo virtuoso che si è innescato permette così alle aziende di abbattere i costi di smaltimento e stoccaggio e generare un impatto positivo sull’ambienta e sul sociale. Il progetto andrà avanti coinvolgendo tutte le aziende interessate a donare le proprie eccedenze e potrà essere replicato in altre parti d’Italia con il prezioso supporto delle istituzioni. Perugia. La cucina rende liberi: nel carcere le lezioni per diventare cuochi di Lara De Luna La Repubblica, 22 novembre 2024 Coinvolta nel progetto anche la chef Ada Stefani, del ristorante stellato Ada Gourmet: “A parte i figli, questa è la cosa più bella che ho fatto in vita mia”. “Insegniamo loro non solo un lavoro, ma li accompagniamo verso un reinserimento alla vita”. Sono parole intense quelle con cui Ada Stefani del ristorante perugino Ada Gourmet, racconta un progetto a cui ha aderito in collaborazione con la cooperativa sociale Frontiera Lavoro: un corso di cucina con finalità di reinserimento lavorativo dedicato ai detenuti del Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia. Un corso giunto alla sua ottava edizione che ha come focus quella che è una delle sfide più importanti della società: rieducare e riposizionare nella vita civile un detenuto che ha terminato il suo percorso. “È un progetto in essere da molti anni - spiega la chef - la cooperativa Frontiera Lavoro si impegna da tempo, nell’ambito delle realtà carcerarie, con diverse tipologie di corsi e io sono onorata di far parte di questo progetto. Lavoro con loro da tre anni e mi sono immediatamente innamorata di questo progetto: utilizzare il mio lavoro per un qualcosa di così importante come aiutare una persona detenuta a cambiare - o provare a - il proprio destino, è dopo i miei figli la cosa più bella che sento di aver fatto nella vita”. Corsi di cucina completi per 10 allievi all’anno, che non solo forniscono competenze tecniche spendibili all’esterno, ma diventano quasi delle terapie dell’anima. “Certo, cerchiamo di impartire loro le basi della cucina attraverso una serie di lezioni, ma non è solo questo. Per quanto mi riguarda provo a entrare in sintonia con loro con una grande normalità, oltre quelli che sono i doveri di un insegnante. Ovviamente sono tutte situazioni di vita molto particolari (i detenuti che possono accedere ai corsi sono accuratamente selezionati dai responsabili del progetto, ndr), quelle che portano all’interno della cucina, ma provo a rapportarmi con loro come faccio ogni giorno con i ragazzi della mia brigata, di trasmettergli la mia passione per questo lavoro che è duro, non glielo nascondo, ma anche bellissimo. Provo anche a distrarli dai loro pensieri, dalle loro storie, insegnandogli una ricetta o una tecnica. A volte facendo una battuta. Penso inoltre che con la nostra presenza, nonostante i nostri impegni, dimostriamo loro attenzione, cura e fiducia, e diventiamo dei punti di riferimento importanti”. Favorire l’accesso a percorsi di formazione culinaria per i detenuti - sottolineano gli organizzatori del progetto - significa investire in una seconda chance, promuovendo la riabilitazione, riducendo il rischio di recidiva e creando le basi per un futuro diverso. Dignitoso e produttivo, fin da subito. “Per loro - continua la Stefani - è una grande opportunità, concreta, di vita. Una volta usciti dal carcere i ragazzi selezionati vengono indirizzati verso un percorso lavorativo in strutture adeguate. Uno degli studenti degli ultimi corsi per esempio già lavora, anche se in regime di semilibertà e la sera - ogni sera, rigorosamente - torna alle 20 a dormire in carcere. Ha uno stipendio, che viene custodito, ma è a disposizione sua e della sua famiglia”. Momenti importanti per la rinascita e la rieducazione, in cui Frontiera Lavoro e i responsabili del progetto non lasciano mai soli i ragazzi: “Anche una volta usciti dal penitenziario e inseriti nel mondo del lavoro sono seguiti con grande attenzione. Non tutti i luoghi di lavoro vanno bene per loro, si sta attenti alle condizioni umane, relazionali, e anche economiche. Un ristoratore non in regola con i pagamenti, per esempio, non ha i requisiti necessari. È già capitato che, a fronte di una situazione simile, venisse poi cercato per la persona in questione un nuovo impiego”. Il corso, parte del progetto “Opportunità lavorative professionalizzanti”, è sovvenzionato dal ministero della Giustizia. “Negli ultimi due anni sono stati attivati, per mancanza di fondi, solo i corsi nel ramo maschile del carcere. Durante il mio primo anno di insegnamento, invece, la stessa opportunità era stata data anche ad alcune detenute. Ma il corso di addetto cucina - che è il più dispendioso per necessità di attrezzature e di presenza docenti -, non è l’unico presente nel planning del progetto sulle opportunità lavorative. Nella sezione femminile, per esempio, c’è stato un corso i cui frutti del lavoro sono stati esposti alla Fiera dei Morti di Perugia. Il ricavato è andato a sovvenzionare altre attività”, in un ricircolo virtuoso. “Studiano per circa 215 ore lavorative suddivise in quattro giorni di lezione a settimana, dal lunedì al giovedì, ognuno con un insegnante diverso. Io quest’anno mi sono occupata di tecniche di cucina legate al pesce, con anche uno sguardo sulla sostenibilità in cucina. Altri colleghi si occupano chi di panificazione, chi di altre aree di insegnamento. Il tutto per un mese e mezzo di lezione”. Le lezioni sono iniziate il 31 ottobre e il 13 dicembre, per quanto riguarda la classe in corso, finiranno; il 17 dello stesso mese affronteranno l’esame finale del corso. Ogni anno, inoltre, poco prima della fine delle lezioni viene individuata una data utile (per il 2024, il 21 novembre), mai troppo vicino alle festività natalizie per motivazioni pratiche, in cui viene organizzata una cena di gala, “Golose Evasioni”, in cui i detenuti preparano una cena per un pubblico civile. Per loro è la coronazione di un percorso, anche se non è la fine effettiva dello studio, per me è una fase importante umanamente per i ragazzi. Un po’ come quando a fine lezione mangiano quello che hanno preparato: è un contatto, fondamentale, con la vita”. Forlì. Il carcere si trasforma in un palcoscenico con lo spettacolo “Un rumoroso silenzio” forlitoday.it, 22 novembre 2024 Lunedì 25 alle 15.00 e in replica martedì 26 novembre alle14.30, il festival “Trasparenze” di Teatro carcere arriva in Romagna e precisamente a Forlì, dove la Casa Circondariale di via della Rocca si trasforma in palcoscenico per accogliere “Un rumoroso silenzio”, una produzione di Contatto Odv e Malocchi e profumi Aps e Coordinamento teatro carcere Emilia-Romagna. Lo spettacolo, che ha la regia di Sabina Spazzoli, Michela Gorini e Davide Zagnoli, che firmano anche la drammaturgia, vede in scena attori detenuti della Casa Circondariale forlivese, sezioni maschile, femminile e protetti e allievi del Liceo classico Monti di Cesena. Così nelle note di regia: “Un rumoroso silenzio chiude il percorso triennale “Miti e utopie”. In una continuità ideale con Città sul filo, spettacolo presentato lo scorso anno, si volge ancora una volta lo sguardo verso un mondo ideale, un mondo utopico, dove protagonisti involontari sono i libri rinchiusi nella biblioteca di un carcere. Nessuno li legge più, impolverati, abbandonati all’oblio, vengono privati della loro funzione vitale: trasmettere conoscenza, emozioni, storie. Vivono un’esistenza statica e malinconica, chiusi negli scaffali, privi di lettori. Accade allora che, in un atto di ribellione, i protagonisti dei romanzi decidano di spezzare le catene metaforiche e rivendichino la loro libertà. Non si ribellano all’autore, ma al silenzio. Vogliono essere letti, vogliono avere voce, essere ascoltati, riscoperti. Vogliono dire chi sono, affermarsi. Il tema centrale dello spettacolo diventa allora una riflessione sul valore della cultura, la necessità di mantenerla viva e la pericolosità di un mondo che se ne dimentica.” La quarta edizione del festival Trasparenze di Teatro carcere che si tiene in sette Istituti Penitenziari della regione Emilia-Romagna è un percorso tra gli spettacoli del coordinamento Teatro carcere Emilia Romagna, formato delle compagnie che operano con progetti teatrali nelle carceri della regione Emilia-Romagna e organizzato dal Teatro del Pratello. Nove le città coinvolte: Bologna, Castelfranco Emilia, Ferrara, Pontelagoscuro, Forlì, Modena, Parma, Ravenna, Reggio Emilia. Per info e prenotazioni teatrodelpratello@gmail.com - 3331739550. Ingresso unico 10 euro. Prenotazione consigliata. È possibile accedere anche senza prenotazione fino a esaurimento posti Giancarlo De Cataldo: “Ho condannato tanti all’ergastolo, ma lotto perché venga abolito” di Tommaso Labate Corriere della Sera, 22 novembre 2024 L’ex magistrato, scrittore e sceneggiatore: “È una violenza legale, autorizzata. In certi casi irrinunciabile, certo, ma sempre violenza è. Mi dà da pensare come la nostra società occidentale, che ha tanto investito nella cultura giurisdizionale, non sia ancora riuscita a superare il carcere e l’ergastolo”. Giancarlo De Cataldo, il suo primo impatto con la Banda della Magliana? “Claudio Sicilia, pentito, incontrato in carcere. La prima volta che l’ho visto mi disse “sapesse, dottore, che cos’hanno combinato questi qua”. La volta dopo? “Non ci fu perché lo ammazzarono prima del processo”. Come ci era finito lei in quel processo? “Nessun giudice voleva farlo. Il mio presidente fu chiamato in Corte d’Assise a celebrarlo e mi chiese di andare con lui. Fino ad allora avevo fatto il magistrato di sorveglianza. Da quel momento in poi, mi resi conto che la cosa più lieve di cui mi sarei occupato sarebbe stata un omicidio”. Romanzo Criminale come nasce? “Da un racconto scritto per Lo Straniero, la rivista diretta da Goffredo Fofi, intitolato Dandi’s blues. Avevo già in mente quel personaggio, ispirato a Renatino De Pedis”. Firmò il pezzo con nome e cognome? “Lo firmai “Anonimo Romano”. Rincorrevo il sogno di fare un grande libro. Fofi mi disse “molla tutto e concentrati su questa storia”“. E poi? “Studiavo le carte delle inchieste e del processo. Leggevo e rileggevo ma non riuscivo a scrivere nulla. Come se avessi paura dell’impatto di quella storia con la scrittura. Poi, per fortuna, la paura venne superata e venne fuori la prima stesura”. Buona la prima? “Macché. Mancava lo Stato. Non c’era un poliziotto neanche per sbaglio. Così venne fuori la figura del commissario Scialoja”. Einaudi ci credette subito? “Ci credettero Paolo Repetti e Severino Cesari, che avevo conosciuto vent’anni prima collaborando con una radio libera di Roma, Radio Rol. Un altissimo dirigente dell’Einaudi dell’epoca, di cui non le faccio il nome, era più che scettico. “Vabbe’, lo pubblichiamo, ma non venderà una copia”. Al contrario, Roberto Cerati, che era stato il braccio destro di Giulio Einaudi, benedisse l’opera. Ricordo come mi introdusse in una riunione nella mitica sala ovale di via Biancamano a Torino. “Questo giovane è dei nostri”. Segno che la casa editrice ci puntava, e parecchio”. Fecero bene... “Il libro uscì di giovedì. Il giorno dopo ero a Napoli con alcuni amici. E, pur non essendo certo un autore conosciuto, come tutti gli autori che cercano il loro libro in libreria entrai da questo libraio come si entra in farmacia per comprare i preservativi. “Ne avevo tre. Due vendute, una la sto leggendo io”, mi rispose. Dopo quel fine settimana, ricevetti la telefonata della mia mitica agente, Giovanna Cau. “Spegni il telefono che sul libro si sta scatenando un’asta tra i produttori cinematografici...”. Una settimana dopo i diritti erano già stati venduti. E il resto è storia”. Lei scrisse la sentenza di condanna di Scattone e Ferraro per l’omicidio di Marta Russo. Di cui, però, nel suo ultimo libro non c’è traccia... “Nell’arco della mia vita da magistrato, tutte le volte in cui ho avuto la sensazione che non ci fosse la prova della colpevolezza ho votato o comunque contribuito all’assoluzione degli imputati, anche se erano pessimi figuri. E, mi creda, se qualcuno mi portasse la prova che ho sbagliato a giudicare, anche a tanti anni di distanza, sarei pronto a riconoscere l’errore”. Da come parla, non sembra questo il caso... “No. E guardi che già all’epoca del processo le condanne per l’omicidio di Marta Russo furono molto contestate. Come se l’accademia, e in quel caso l’istituto di Storia del diritto romano della Sapienza, fosse un luogo sacro in cui un magistrato non aveva il diritto di mettere il naso. Prima o poi tornerò su quel caso, credo. In passato ho evitato di farlo anche quando si trattava di dovermi difendere da una calunnia”. Cioè? “Un professore di cui non ricordo il nome scrisse sulla rivista Liberal che avevamo condannato Scattone e Ferraro perché ce l’aveva chiesto il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, con l’obiettivo di salvare la faccia della Procura di Roma che non era stata in grado di trovare gli assassini di Massimo D’Antona. Mi immaginai la scena di Scalfaro che telefonava per dettarci la sentenza e noi che rispondevamo “signorsì, presidente, procediamo con la condanna”“. Querelò? “All’inizio lo citai in giudizio. Poi venne ad abitare nel mio palazzo Massimo De Angelis, il direttore della rivista, che mi convinse del fatto che quel pezzo nascondeva una sorta di punto di vista intellettuale sul caso. Convinse non del tutto, come può immaginare. Però ritirai l’azione”. Simonetta Cesaroni e il giallo di via Poma... “Il primo applauso ricevuto in vita mia alla lettura di una sentenza; quella di assoluzione in appello di Raniero Busco, il fidanzato della povera Simonetta all’epoca in cui era stata uccisa, indagato, rinviato a giudizio e condannato in primo grado a più di vent’anni dall’omicidio”. Il vero omicida si troverà mai? “Mai non lo dico mai. Certo, a trentaquattro anni di distanza, col il Dna ormai esaurito, non esistono tante combinazioni possibili per arrivare alla soluzione di un caso”. Dorme tranquillo un magistrato in pensione? “Glielo dicevo prima: se qualcuno mi portasse le prove che qualche volta ho agito male, lo riconoscerei senza difficoltà. Segno che, se mai ho sbagliato, l’ho fatto in buona fede”. Crede nell’efficacia dell’ergastolo? “Ho fatto per tanti anni il giudice di sorveglianza, credo nella rieducazione e nell’articolo 27 della Costituzione. Anche se ne ho comminati parecchi no, non ci credo, ho anche firmato per la sua abolizione. È una violenza legale, autorizzata. In certi casi irrinunciabile, certo, ma sempre violenza è. Mi dà da pensare come la nostra società occidentale, che ha tanto investito nella cultura giurisdizionale, non sia ancora riuscita a superare il carcere e l’ergastolo”. Che cosa facevano i suoi genitori? “Erano due insegnanti. Mamma democristiana; papà socialista autonomista, come tutta la famiglia De Cataldo, di quelli convinti che c’erano Nenni, Saragat e Pertini ma che i democristiani fossero baciapile e i comunisti liberticidi. Entrambi odiavano l’Italsider, che poi sarebbe diventata l’Ilva, perché affezionati alla vecchia Taranto degli ufficialetti di marina e dei teatri sempre pieni”. È stato uno studente politicizzato? “Dopo dieci minuti di assemblea studentesca iniziavo a pensare ai fatti miei. Detto questo, i rossi erano più simpatici dei neri. E io comunque ero socialista”. Sempre votato a sinistra? “All’inizio il Psi. Poi, con l’arrivo di Craxi, il sogno socialista si è spostato nel Pci di Enrico Berlinguer. Col tempo ho avuto una sbandata per il Pd, anche se non ne ho mai compreso fino in fondo le tendenze inclini al maggioritarismo e al governismo sfrenati, entrambi ostacolo al manifestarsi della sovranità popolare che solo un sistema proporzionale può garantire appieno”. Il sogno di ragazzo era fare il magistrato? “No, era scrivere. Infatti la prima idea era quella di andare al Dams, anche se tutti quelli che l’avevano fatto finivano per sconsigliarlo. La laurea in giurisprudenza fu quel pezzo di carta a partire dal quale uno poi poteva decidere davvero che cosa fare. A me sono toccate in sorte le due cose, magistrato e scrittore. E sono stato contento così”. Mai tentato dalla politica? “Una volta, quando sindaco di Taranto era Ezio Stefàno e c’era una giunta di centrosinistra, mi chiesero di fare l’assessore alla Cultura, che tra l’altro era compatibile col lavoro di magistrato. Risposi di no, perché convinto che della città dovesse occuparsi chi ci aveva buttato il sangue, non io che me n’ero andato a fare il signorino a Roma centro. Mi sono salvato, perché fare progetti culturali che avessero finanziamenti a Taranto avrebbe voluto dire relazionarsi con l’Ilva e con il responsabile delle relazioni istituzionali Girolamo Archinà. Magari sarei finito sotto processo anche io, come tanti altri”. Chi c’è nel suo pantheon personale? Chi sono i personaggi che l’hanno ispirata? “Leonard Cohen, di cui traducevo le poesie, e Balzac; i miei maestri di diritto, Luigi Saraceni e Francesco Amato, perché mi hanno insegnato che il magistrato è prima di tutto un uomo; mia moglie Tiziana, su tutti”. Ricostruiamo la partecipazione con i referendum di Franco Corleone L’Espresso, 22 novembre 2024 Di fronte alla deriva autocratica, le consultazioni sono uno strumento per risanare i guasti di democrazia. Le elezioni americane, con la vittoria a valanga di Trump negli Stati decisivi e con il sostegno di immigrati e di ceti sociali poveri, conferma l’agonia della democrazia condizionata dai poteri finanziari e speculativi. Il controllo dei media rappresenta un altro aspetto di subordinazione dei cittadini e delle persone più deboli, usate come “parco buoi”. La metà degli elettori non ha votato - e quindi con il consenso esplicito solo del trenta per cento del popolo - la destra estremista si è assicurata il controllo del Congresso oltre quello della Corte Suprema. Uno scenario senza contrappesi, da incubo. Sarà indispensabile un’analisi che scavi nel profondo sulla realtà della globalizzazione, sulla speculazione delle Borse, sull’industria delle armi e sulla conquista dello Spazio come parco giochi dei miliardari. L’autentico sicofante Elon Musk ha minacciato i giudici italiani, rei di avere applicato le leggi italiane ed europee; noi che sosteniamo, seguendo il pensiero di Sandro Margara, di non rispettare le leggi ingiuste e razziste chiamiamo alla disobbedienza civile, cominciando col boicottare X-Twitter e le auto Tesla. Tornando al punto fondamentale e all’Italia: quale legittimità possiede oggi la democrazia rappresentativa? Chi rappresenta chi è un interrogativo che si pone con forza. Non è più tollerabile la truffa di ricorrere a leggi elettorali che consegnano il potere a minoranze neppure consistenti. L’assenza dei partiti e la crisi della politica hanno reso evidente la scomparsa della figura retorica del popolo e i cittadini sono ridotti a consumatori. Il gioco delle ombre e dei fantasmi cancella autonomia e soggettività; per non parlare della responsabilità. La provocazione non si ferma, infatti la proposta di elezione diretta del capo del governo darebbe il colpo finale alla democrazia che dalla finzione si trasformerebbe in autocrazia. È immaginabile la riappropriazione dell’azione politica da parte dei cittadini? Come esortava a fare Carlo Rosselli, ricordando dieci anni dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti che l’indicazione all’antifascismo era il carattere, l’antiretorica, l’azione. Il Parlamento è stato svuotato del potere legislativo ed è ridotto alla mera registrazione dei decreti legge; quindi l’esecutivo somma due funzioni. Altro che la separazione dei poteri! È un vizio che viene da lontano, ma il governo Meloni ha impresso una svolta autoritaria. Con la pretesa di cambiare la storia d’Italia con la limitazione dei diritti politici e addirittura la condanna a cinque anni di carcere per atti di resistenza passiva. Punire la nonviolenza ha il senso - e speriamo non il risultato - di spingere allo scontro fisico, se non a prove di guerra civile. Ricostruire la partecipazione e la resistenza non è dunque facile. Un’arma a disposizione oggi è rappresentata dallo strumento del referendum. Sono in campo quesiti decisivi, sulla sicurezza del lavoro, sull’autonomia differenziata delle regioni (anche se picconata dalla Corte costituzionale) e sulla cittadinanza di persone immigrate, che devono attendere più di dieci anni per non essere discriminati e ottenere diritti civili. L’ammissibilità dei referendum spetterà probabilmente alla Corte attuale prima della occupazione meloniana. Il quorum previsto è una norma vessatoria che va cancellata, oppure andrebbe estesa a tutte le elezioni. La democrazia - insomma - va reinventata. Prima che sia troppo tardi. Violenza contro le donne, l’ignoranza rivelatrice di Lea Melandri Il Manifesto, 22 novembre 2024 Violenza maschile Cosa ci dicono le uscite disastrose di Valditara e Meloni sulla strada che resta da fare contro stupri e femminicidi e per intervenire sul terreno che li condiziona. Ci voleva l’intervento provocatorio e interessato di Valditara per riportare di nuovo il femminicidio dalla cronaca nera all’onore delle prime pagine dei giornali, un esito sicuramente contrario a quello che si proponeva. L’obiettivo era di sviare l’attenzione dalla cerimonia che si stava svolgendo in una sala del parlamento per presentare la Fondazione Giulia Cecchettin, e quello che il femminicidio della giovane studentessa ha rappresentato grazie alle parole del padre e della sorella: l’uscita della violenza contro le donne dal “privato”, la consapevolezza che si tratta di una questione sociale e politica del massimo rilievo, che come tale interessa tutti gli uomini. Ma ci voleva anche l’ignoranza o la dabbenaggine di un ministro della istruzione che riduce un fenomeno storico politico e culturale, come il sessismo o il dominio millenario di un sesso sull’altro, a un fatto giuridico, la modificazione del diritto di famiglia del 1975, per capire quanto sia ancora poco conosciuta nel nostro Paese la cultura femminista. A ciò si è aggiunta la falsa, maldestra, risibile attribuzione del femminicidio alla presenza di “migranti illegali” nel nostro Paese, per capire che a Valditara della educazione dei sentimenti, della problematica dei generi interessa soprattutto che non entri nella scuola, e che la campagna su cui la destra può trovare consensi è la paura dello “straniero”, del “diverso”, il nuovo capro espiatorio. Quale altra discutibile pensata dei Ministri del governo Meloni dobbiamo aspettarci ancora per non lasciar cadere nell’indifferenza complice dei politici, intellettuali, opinionisti di questo Paese, consapevolezze e cambiamenti che hanno ormai una storia alle spalle, una produzione di sapere e pratiche politiche indispensabili per affrontare la violenza sessista, che si dice a parole di voler “prevenire”? La mattina del 19 novembre abbiamo potuto ascoltare nelle rassegne stampa le semplificazioni di Valditara, che faceva coincidere la fine del patriarcato con la riforma del diritto di famiglia del 1975, cioè con una norma giuridica che riconosce la parità dei sessi all’interno della famiglia. La sera, su La7, la giornata si è chiusa con le semplificazioni di Cacciari, per il quale il patriarcato tramonta col romanticismo, quando l’autorità del padre comincia a declinare. Quello che non ci si aspettava dalla rozzezza dell’attuale ministro dell’istruzione, si è constatato con stupore di non trovarlo nemmeno nelle parole di un filosofo di conclamato rispetto. Come è possibile confondere la patria potestà con quel “principio paterno”, di ben più remota origine, che Bachofen nel matriarcato definisce come “natura superiore”, “liberazione dello spirito dai fenomeni naturali”, in contrapposizione al “principio della maternità”, rimasta a rappresentare la “componente carnale dell’uomo”, la “sfera inferiore della creazione”? Forse è per l’ambiguità della parola “patriarcato” che ho sempre preferito usare altri termini, come “dominio maschile” o “sessismo”, per definire un rapporto di potere che ha visto una maschilità e virilità vittoriosa, porsi come l’Umano nella sua assolutezza. Scrive Sandro Bellassai nel suo libro La mascolinità contemporanea: “L’uomo - il maschio - è quasi scomparso, l’Uomo - l’essere umano - ha invaso tutta la scena. Sovrapponendosi i due termini (allo scopo di mantenere agli uomini il primato) il maschile si nasconde dietro l’universale, o meglio, “si traveste da universale (…) la parzialità maschile scompare, in apparenza, nella solennità di una voce da unità di misura del mondo umano; il femminile è invece differenza, parzialità, genere, alterità, specificità. L’uomo è norma, la donna eccezione (…) gli uomini sono incapaci di vedere la propria identità di genere”. Il commento di Giorgia Meloni all’intervento di Valditara sui femminicidi è stato ancora più pesante delle parole del Ministro, in quanto ne ha avvalorato la falsità e l’intento subdolo di spostare la violenza contro le donne sulla campagna contro i migranti - facile capro espiatorio del disagio - e far passare in ombra al medesimo tempo il salto della coscienza storica prodotto dalla scelta dei familiari di Giulia Cecchetin di non additare nell’assassino il mostro, ma la ricaduta di una cultura millenaria che alimenta la violenza maschile contro e donne in tutte le sue forme, invisibili e manifeste. Forse non è casuale se un fenomeno come il sessismo, che a tratti si impone come emergenza politica per poi scomparire altrettanto improvvisamente, torna a occupare le prime pagine dei giornali in prossimità della Giornata internazionale della violenza contro le donne. E lo fa con interventi di una gravità evidente, come possono avere quelli che vengono dai massimi rappresentanti del governo di un Paese. C’è un solo modo efficace per tentare di prevenire non solo i femminicidi e gli stupri, ma anche il terreno che nascostamente, invisibilmente li condiziona, ed è andare alla radice dell’umano: un’educazione al rapporto col diverso che cominci dai primi gradi di istruzione, l’attenzione all’individuo nella sua interezza, corpo e pensiero, sentimenti e ragione. Non è proprio questo ripensamento dei saperi, delle discipline e dei linguaggi, nati da tutti i dualismi che abbiamo ereditato, che è temuto da chi ci governa, in quanto portatore di un cambiamento che si lascia alle spalle la tradizionale retorica autoritaria e populista del motto “Dio, Patria e Famiglia”? Violenza sulle donne, è lite. Il governo: abbiamo fatto tanto. Schlein: così nessun dialogo di Maria Corbi e Eleonora Camilli La Stampa, 22 novembre 2024 Alla vigilia della Giornata del 25 novembre, i partiti si scontrano anche sulla parola “patriarcato”. La leader Pd: “Serve formazione”. La ministra Roccella: “Aumentati i fondi per le case-rifugio”. Un anno fa il femminicidio di Giulia Cecchettin scosse l’Italia e, per un attimo, con la telefonata tra la premier Giorgia Meloni e la segretaria del Pd Elly Schlein sembrò che potessimo essere tutti dalla stessa parte per combattere la violenza sulle donne. Ma come nel gioco dell’oca siamo di nuovo tornati al punto di partenza, con fronti politici che litigano e la destra che pensa bene di trasformare il termine “patriarcato” in una parola divisiva. E questa cesura viene sottolineata da Elly Schlein che ieri al Nazareno ha fatto il punto su questo tema: “Il Pd ha presentato molti emendamenti in manovra sul tema della violenza di genere, in vista della Giornata nazionale del 25. Abbiamo provato anche questa volta a lavorare in dialogo con la maggioranza, ma non è stato possibile, perché voleva inserire riferimenti inaccettabili in questo testo, perché continua ad avere un problema con la piena attuazione della convenzione di Istanbul, oltre alle dichiarazioni inaccettabili di Valditara, sostenute dalla presidente Meloni”. Ma anche il presidente del Senato Ignazio La Russa, a margine di un evento in Senato, rispondendo sulle parole di Valditara ha voluto ribadire: “È un problema di statistiche, ci sono le statistiche”. Il tema delle violenze di genere è all’ordine del giorno nel Pd, che martedì riunirà la segreteria anche per mettere a terra l’iniziativa sulla sanità. “Speriamo - continua la leader Pd - che in Parlamento si possa costruire una convergenza di fronte a un’urgenza per il Paese. Per noi è una questione fondamentale, dobbiamo fare molto di più”. Schlein contesta una politica di contrasto alla violenza di genere che si basi solo sulla repressione: “Abbiamo votato misure che rafforzano la repressione. Ma dobbiamo fare di più sulla prevenzione, a partire dalla formazione degli operatori e delle operatrici. E agire sull’educazione alle differenze in ogni ciclo scolastico, affinché le differenze non diventino disuguaglianze”. “Le donne - aggiunge - vengono discriminate in tanti ambiti di vita. La violenza di genere è un fenomeno strutturale che discende da una cultura patriarcale. Non esiste nessun diritto di possesso sul corpo delle donne. Non ci sono scuse per la violenza sulle donne”. La segretaria del partito democratico fa riferimento alla campagna Onu #Nessunascusa rilanciata in Italia da Mara Carfagna. E guardando nel video di promozione, Arianna Meloni e Elly Schlein che dicono le stesse cose e si segnano lo zigomo con un tratto di penna rossa, nessuno direbbe che invece proprio su questo tema si sia creata una crepa profonda tra gli schieramenti. Si elogiano le parole civili e inclusive di Gino Cecchettin, ma poi si cerca in ogni modo di dividersi anche sul vocabolario con quella parola, “patriarcato”, che per la destra diventa una parolaccia da non pronunciare. Dalla maggioranza si rivendicano invece i successi di un “governo che ha fatto molto per le donne”. L’occasione è una conferenza stampa organizzata in Senato da Ester Mieli dal titolo “Pari opportunità per la libertà”. Al tavolo si alternano gli esponenti di Fratelli d’Italia. Lucio Malan ricorda che questo esecutivo è il primo con una presidente del Consiglio donna, “un simbolo”. Sulla stessa linea il responsabile organizzativo del partito, Giovanni Donzelli: “Giorgia ha rotto il tetto cristallo. E questo dice alle donne: potete arrivare dove volete”. Anche per la ministra della Famiglia e le pari opportunità, Eugenia Roccella, il governo Meloni “ha messo al centro le donne”. E rivendica i risultati raggiunti negli ultimi due anni: “Abbiamo varato un’ottima legge preventiva, che interrompe il ciclo della violenza appena si innesta. La sinistra dice che non bastano le leggo, ma le leggi sono un punto di partenza”. Per Roccella si sta anche lavorando sull’empowerment femminile: “Abbiamo cercato di rendere le donne libere di fare le scelte che vogliono, di lavorare e di non lavorare, di essere madri e conciliare la vita professionale con la vita privata”. Infine la ministra parla dei fondi per i centri antiviolenza e le case rifugio, “che abbiamo aumentato, anzi quasi raddoppiato”. Fronte aperto è sul reato di molestie sessuali con l’aggravante dei luoghi di studio e di lavoro: “Volevamo che fosse approvato all’unanimità ma la Lega che si è messa di traverso”, dice la senatrice Pd Valeria Valente, “noi speriamo ancora che si possano costruire convergenze in Parlamento, anche sulla legge sul consenso e su quella sull’educazione all’affettività”. Il “no” alla mafia? È donna. Legalità, diritti e parità nel nome di Delia-Cortellesi di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 22 novembre 2024 Nelle Marche nasce un’associazione ispirata al nome della protagonista di “C’è ancora domani” in stile don Ciotti. In 100 città italiane l’iniziativa legata a “Liberi di scegliere” voluta dal sacerdote per i ragazzi. Ancora non lo sa Paola Cortellesi: ma Delia, la protagonista del film su come eravamo, sul diritto e sulla gioia della donna di votare, diventa il nome di un’associazione appena nata a Macerata e pronta ad espandersi, si spera, in cento città. Obiettivo dichiarato delle organizzatrici, anzi, degli organizzatori perché sono già coinvolti tanti uomini, è di accendere “nelle scuole, nei posti di lavoro” l’attenzione sulla Costituzione, sui diritti, su una effettiva parità fra uomo e donna. Parità non compiuta, benché lontani da remissività e acquiescenza cucite come una condizione obbligata su Delia che, nell’ultima sequenza di “C’è ancora domani”, sogna il simbolo del riscatto, in fila alle urne per quel voto finalmente possibile, nel 1946. Tutto ciò per diventare, su diversi fronti, “libere di scegliere”. Come è stato detto al primo evento di questa gioiosa armata civile partita dalle Marche. Un’immagine che riporta al progetto animato da don Ciotti con “Libera”. Il progetto “Liberi di scegliere” legato alle donne e ai ragazzi che recidono i legami subculturali con le mafie, ragionando anche su intrighi e inconfessabili segreti delle loro stesse famiglie. Prendendo distanza, se necessario, da padri o fratelli, com’è accaduto in qualche caso anche a donne che hanno pagato con la vita. Tutte da ricordare e studiare per trasformare le loro esistenze in leva di conoscenza attraverso seminari, presentazioni di libri, mostre. Partendo anche dalla proiezione del film e dalla figura di Delia. Per farlo hanno cominciato alla Biblioteca statale di Macerata con una serata dedicata a Francesca Morvillo. La magistrata legata a Giovanni Falcone e, da giudice minorile, pioniera di quel progetto poi diventato “liberi di scegliere”, come dice la senatrice Enza Rando, invitata al battesimo dell’associazione, braccio destro di don Ciotti, avvocato, artefice di percorsi liberatori ispirati al sacrificio di Lea Garofalo, uccisa per avere detto no alla ‘ndrangheta e alla cosca del compagno-boss. “Attraverso l’idea delle tante “Delie” che potranno sorgere nel Paese, vogliamo accendere soprattutto nelle scuole un dialogo su tante donne e sul segno impresso nella vita civile”, spiega la più giovane delle prime socie, Benedetta Petroselli, saggio d’esordio per l’università di Macerata nel 2021, “La violenza contro le donne nella storia”. Tema analizzato da un’altra promotrice, Ninfa Contigiani, docente nello stesso ateneo di “Storia del diritto penale”, studi sulla “Repressione dei reati di sangue intrafamiliari tra il XIX e il XX secolo”, segretaria e consigliera comunale del Pd. Un’appartenenza politica casuale perché vogliono tutte creare “uno spazio trasversale”. Non è roba di un partito, pur attiva con loro la deputata Irene Manzi, eletta qui per il Pd, capogruppo in commissione Cultura alla Camera: “Ottima l’idea di collegare donne e associazioni già presenti sul territorio per fare rete”. Non è più tempo d’essere sottomesse a chi soffoca la libertà di scegliere, di esprimere opinioni, di coltivare aspirazioni. Per fare riecheggiare questo semplice proclama soprattutto fra i giovani hanno cominciato da Macerata. Ma ci sono già fermenti in Emilia e in Calabria. Ed è pronta la tessera da consegnare a Paola Cortellesi con il nome del suo personaggio diventato acronimo di “Donne empatiche libere intrepide associative”. Educazione civica - Prossima tappa il coinvolgimento della regista, di tante donne e uomini da affiliare come messaggeri capaci di accendere nelle scuole il dialogo con gli studenti, “non solo ragazze, ma soprattutto con i maschi”. Partendo dalla visione del film, dal tormento di Delia, dal travolgente finale nel quale tanti leggono una straordinaria lezione di educazione civica, spinta per una consapevole riflessione sulla parità. Miracoli del cinema dove un film può trasformare le sequenze in semi capaci di fare sbocciare tante “Delie”. Migranti, la sfida della sicurezza di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 22 novembre 2024 La vera questione non sono gli sbarchi, ma i rimpatri e una massa di irregolari impossibile da smaltire. Chi dovesse passare una domenica dalle parti della stazione di Napoli potrebbe scoprire, attorno alla quattrocentesca Porta Nolana, un’enclave di illegalità: interi marciapiedi coperti di mercanzia variamente trafugata e riciclata, l’ormai famoso “mercato degli stracci” gestito da un popolo di migranti irregolari, là dove non osano i vigili urbani. A Roma l’oscena tendopoli di viale Pretoriano, addossata alle Mura Aureliane, è stata sgomberata da qualche settimana, dopo infinite proteste dei residenti, dalla polizia municipale. Ma una piccola parte dello slum s’è spostata appena di pochi metri, più a ridosso del perimetro della stazione Termini, e il grosso tornerà prima o poi a dispetto delle recinzioni, basta attendere. Provvisori gli interventi, vani i “tavoli” e i “patti istituzionali”, queste sono scene ormai comuni nelle grandi città e persino nelle cittadine. Nei sottopassi di Milano come attorno alla stazione di Lodi. Sugli argini dei fiumi, nelle piazze storiche come in quelle di periferia. E nei “non luoghi” di passaggio teorizzati dal grande Marc Augé, talvolta occupati da frammenti quotidiani di vita degli “invisibili”, quell’esercito sofferente di stranieri senza permesso e senza identità che la Fondazione Ismu ha stimato lo scorso febbraio attorno alle 458 mila anime. Ultimi che si mescolano ai penultimi, i nostri disagiati autoctoni, e che fingiamo di ignorare finché non sentiamo messa a repentaglio la nostra incolumità, perché cercare soluzioni può condurre su percorsi impervi. La vera questione migratoria dell’Italia non è a mare: è in terraferma. Gli sbarchi sono attestati su una media di cinquanta, sessantamila l’anno: una cifra assolutamente tollerabile, benché ottenuta tramite accordi con le varie guardie costiere nordafricane non sempre da esibire al festival dei diritti umani; e tuttavia prevale un silente pragmatismo bipartisan, a protestare sono rimaste quasi solo le Ong. Ma è il sistema a terra che non funziona. Scarsi o pressoché nulli i rimpatri, del tutto pleonastici i decreti di espulsione consegnati agli irregolari, è di fatto impossibile o quasi smaltire una massa critica di illegalità che si è creata negli anni e si perpetua nei gangli d’una macchina amministrativa farraginosa e negli interessi inconfessabili di un sistema economico talvolta connivente. A fronte di una questione strutturale, deflagrata a metà degli anni Dieci, la sinistra ha deciso di voltarsi dall’altra parte (con l’eccezione virtuosa di Marco Minniti, ministro degli Interni nel 2017-18), trovando troppo arduo conciliare il proprio apparato di valori con il diritto a un’ordinata convivenza che, com’è evidente, sta più d’ogni altro a cuore ai comuni cittadini. La destra ha deciso di farne una bandiera ma ha colpevolmente azzoppato la piccola accoglienza nei Comuni (una volta si chiamava Sprar), la sola che in qualche misura tentava di assorbire gli ultimi arrivati nel tessuto sociale. La questione è, ovviamente, planetaria. L’antropologo Michel Agier prevede entro il 2050 un miliardo di sfollati nel mondo: persone che si spostano per mera sopravvivenza da una parte all’altra del pianeta. Trump ci ha vinto le elezioni, promettendo deportazioni di massa. E, dopo il ritorno del tycoon, il New York Times ha acceso un faro sull’Europa, dove “il sentimento anti-immigrati è fiorente” perché “l’80% dei richiedenti asilo respinti non se ne va mai”, e sull’Italia, col progetto Albania di Giorgia Meloni, “un’idea che sta guadagnando favore, con altri leader che stanno anche considerando di pagare Paesi per esaminare le domande di asilo e possibilmente espellere coloro che hanno avuto respinte le richieste”. In verità il progetto albanese appare davvero solo come “un’idea” (uno spot, secondo molti) comportando alla fine perdite di energie e di danaro e tensioni tra poteri dello Stato per un meccanismo che, quand’anche superasse lo sbarramento dei giudici e andasse a regime, toccherebbe sì e no una frazione minuscola del flusso di sbarchi. E però un’idea serve. Se da un lato sarebbe prezioso ridare ossigeno all’accoglienza secondaria, quella dei piccoli numeri nei Comuni, è altrettanto evidente che un mezzo milione di fantasmi a zonzo per l’Italia pone un problema gigantesco. È ciò che ha detto, sbagliando luogo, tempi e modi, il ministro Valditara, travolto dalle polemiche per l’infelice videomessaggio alla Fondazione Giulia Cecchettin nel quale dichiarava estinto ope legis il patriarcato e stabiliva un nesso tra immigrazione illegale e violenza sessuale. Giulia è stata uccisa da un fidanzato “bianco e perbene”, ha ricordato la sorella Elena. E gran parte dei femminicidi ha una chiave familiare, è noto: il maschio è ancora troppo spesso tiranno domestico. Tuttavia, provate a chiedere a un’amica, una vicina, una collega se girando da sola di sera si senta minacciata più dall’oscuro patriarca che forse l’attende a casa o dagli sbandati che facilmente può incontrare dietro l’angolo. Qui non si tratta di deportare nessuno e di sicuro l’Albania non servirà a questo. Ma è difficile negare l’utilità di luoghi di contenimento dove raccogliere una massa di senza regole ora sparsa nelle nostre strade. Non si chiamino più Centri per il rimpatrio e non siano più le voragini per anime perse che sono adesso. Siano legati anche a percorsi di recupero e di formazione per chi vuole e può. E intanto si renda reale il Piano Mattei e si garantiscano i 120 mila migranti regolari l’anno che invocano le nostre imprese per sopravvivere, senza il trucco delle sanatorie e cancellando la Bossi-Fini che impedisce l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. S’investa sui migranti anziché inorridirsene. Può la sinistra formulare un progetto pragmatico sulle migrazioni, al netto dei furori ideologici? Se non può, continuerà a regalare alla destra il più popolare e democratico degli argomenti: la sicurezza dei più deboli e dei più fragili. Migranti. Ondei replica: la paralisi in appello ci sarà di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 22 novembre 2024 “Premesso che le norme le leggiamo bene, nessuno vuole polemizzare con le scelte della politica in tema di immigrazione. Il nostro voleva solo essere un contribuito tecnico”, afferma, in un colloquio con il Dubbio, il presidente della Corte d’appello di Milano Giuseppe Ondei, divenuto ormai il “referente” di tutti i presidenti di Corte in questa quanto mai incandescente materia. Il decreto “Flussi” approderà in aula alla Camera lunedì prossimo. Su proposta della relatrice del testo, la deputata Sara Kelany (FdI), la commissione Affari costituzionali ha approvato questa settimana una serie di modifiche fortemente 0volute dalla maggioranza. Quella più contestata è la norma che toglie alle sezioni Immigrazione dei Tribunali la competenza sulle convalide dei trattenimenti nei Cpr (incluso quello di Gjader in Albania) dei migranti, oltre a i reclami sulle sospensive, per assegnarla alle Corti d’appello. Al fine di bilanciare il carico per gli uffici di secondo grado, lo stesso emendamento elimina l’attribuzione (prevista in origine dal Dl Flussi) alle Corti del ricorso relativo all’eventuale diniego della richiesta stessa di asilo. La norma, però, è fortemente contestata proprio dai presidenti delle Corti d’appello, che hanno espresso tutta la loro preoccupazione in una lettera alle alte cariche dello Stato. “Sul punto è necessaria una premessa: poco più di un anno fa il ministero della Giustizia ha potenziato le sezioni Immigrazione dei Tribunali al fine di far gestire loro al meglio tutta la procedura. Tanto per dare qualche numero, a Roma se ne occupano 10 magistrati, a Milano 7, portandone così gli organici ai livelli di un Tribunale di piccole dimensioni, come può essere, in Lombardia, quello di Lodi o di Sondrio. Adesso”, prosegue il presidente Ondei, “che le convalide diventano invece di competenza delle Corti d’appello, non sono previste variazioni di organico. Tralasciando ogni considerazione sull’aver trasformato le Corti in uffici giudiziari monocratici di primo grado, sarà inevitabile un aumento dei tempi di decisione delle altre cause civili, tra le 400 e le 500 solo a Milano. Considerato che si dovranno rispettare i tempi previsti per le convalide dei trattenimenti, tutte quelle altre cause passeranno in secondo piano, e quindi non potranno essere trattate con gli standard attualmente raggiunti e finalizzati al raggiungimento degli obiettivi del Pnrr”. Il Csm ha stimato un aumento addirittura del 37% delle pendenze civili presso le Corti d’appello, qualora dovessero arrivare tutti i reclami in materia di immigrazione. “Ci sarà da organizzare il lavoro: la Corte d’appello non è strutturata per lavorare su turni”, ricorda ancora Ondei. La decisione del governo di spostare alle Corti d’appello le convalide potrebbe, in linea teorica, avere un risvolto paradossale. Non si può escludere, in astratto, che per far fronte ai carichi di lavoro venga deciso di applicare presso le Corti d’appello proprio quei magistrati che attualmente prestano servizio nelle sezioni Immigrazione dei Tribunali. Col risultato che a decidere siano gli stessi giudici che il governo ha privato della competenza in materia. Ma è davvero solo un’ipotesi astratta. Migranti. Flop Albania, rientrano in Italia gli operatori dei centri per migranti di Giansandro Merli Il Manifesto, 22 novembre 2024 L’ente gestore smobilita entro il fine settimana. Per ora non sono previsti ricambi. Il ministero dell’Interno insiste: andiamo avanti con il progetto. Piantedosi: “Il modello è stato tracciato. Non faremo passi indietro. Attendiamo a breve la pronuncia della Cassazione sulle nostre impugnazioni”. Gli operatori di Medihospes, l’ente gestore dei centri italiani di Schengjin e Gjader, stanno rientrando dall’Albania: saranno tutti a casa entro il fine settimana. Per loro al momento non sono previsti ricambi, mentre non è ancora chiaro cosa accadrà con i contratti dei lavoratori selezionati ma mai partiti. Del resto, ha denunciato mercoledì altreconomia, anche il contratto tra la prefettura di Roma e Medihospes è ancora “fantasma”, a sei mesi dall’aggiudicazione. Già nei giorni scorsi alcuni operatori avevano ripreso l’aereo per l’Italia, ieri anche gli altri hanno iniziato a fare le valigie. Le informazioni trapelano attraverso diversi canali informali, mentre i dirigenti della cooperativa non hanno voluto rilasciare dichiarazioni in merito: sulle strutture detentive d’oltre Adriatico vige un “assoluto riserbo” in base agli accordi con le autorità. La smobilitazione di Medihospes è uno dei tasselli utili a comporre il quadro. La scorsa settimana gli agenti in trasferta, che a pieno regime dovrebbero essere 295, erano stati ridotti quasi di un quarto: da 220 a 170. Fonti governative confermano che è stata prevista una rimodulazione, non occasionale. I funzionari della commissione territoriale per la protezione internazionale di Roma che erano stati incaricati delle interviste in Albania, intanto, sono stati messi a fare altro. Del resto dal centro di trattenimento di Gjader, dove dovrebbero essere esaminate le richieste d’asilo, sono transitate finora solo 18 persone: all’orizzonte non se ne vedono altre. Dopo il secondo round di trasferimenti è tornato a casa anche il personale sanitario dell’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti ed il contrasto delle malattie della Povertà (Inmp) presente nell’hotspot. Ordinaria amministrazione: la sua presenza è prevista solo quando arrivano i migranti e questo può essere comunicato anche pochi giorni prima. Dopo il nuovo flop dei trattenimenti, però, l’argomento Albania è stato messo da parte a livello dirigenziale: al momento non si parla di nuove trasferte. “Ogni tanto qualche italiano viene ancora, ma non è più come prima”, commentano amaramente dalla trattoria di Shengjin intitolata a Meloni. Insomma tutto suggerisce che con l’arrivo dell’inverno il progetto Albania resterà congelato. Certo la stagione fredda complica le cose: gli sbarchi tendono a diminuire, il mare a peggiorare e i trasbordi su e giù per la nave Libra a diventare più difficili. “Gli spazi dedicati alle operazioni di pre-selezione e all’accoglienza dei migranti a bordo non sembrano adatti a operazioni in condizioni meteorologiche avverse o a basse temperature”, dice un report interno dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), che ha personale impiegato sul mezzo militare, riguardante la missione di due settimane fa. I problemi principali, però, prima che logistici sono giuridici: se non cambia qualcosa dal punto di vista legale sul governo rischia di abbattersi la Corte dei conti, con possibili cause per danno erariale. La prossima novità sarà la conversione in legge del decreto flussi in cui è stato inserito l’”emendamento Musk”, a firma di Sara Kelany (FdI), per spostare la competenza sulle convalide dei trattenimenti dalle sezioni specializzate in immigrazione alle Corti d’appello. Poi il 4 dicembre ci sarà la Cassazione sui ricorsi del ministero dell’Interno contro le prime non convalide dei trattenimenti in Albania disposte dalle toghe capitoline e, insieme, su un rinvio dello stesso tribunale in merito ai poteri di controllo della magistratura sulla lista dei “paesi sicuri” (precedente alla sentenza della Corte Ue). È su questo passaggio che dichiara di puntare il ministro Matteo Piantedosi: “Il modello è tracciato. Non faremo marcia indietro. Attendiamo con interesse il pronunciamento della Cassazione davanti alla quale abbiamo impugnato i provvedimenti adottati dalla magistratura finora”. Molti esperti della materia, però, dubitano fortemente che da quella sede possano venire notizie positive per l’esecutivo. L’esito più probabile sembra un nuovo rinvio in Lussemburgo. Davanti alla Corte di giustizia Ue pendono già diversi rinvii sul decreto-legge che trasforma la lista “paesi sicuri”, ovvero la base legale dei trattenimenti in Albania dei richiedenti asilo, in norma primaria. Quel dl è poi confluito nel decreto flussi che lunedì arriverà alla Camera. I quesiti ai giudici europei sono partiti dai tribunali di Bologna, Palermo, Catania e Roma. Tutti hanno chiesto l’attivazione della procedura d’urgenza o, in subordine, accelerata. La Corte ha iscritto queste domande di pronunce pregiudiziali, che verosimilmente saranno accorpate in un solo procedimento, assegnando loro il numero di pratica. Non ha ancora stabilito, però, quale sarà il tipo di procedura. Quella più rapida richiede tre mesi, la seconda sei/otto, quella ordinaria fino a due anni. È difficile dunque che la sentenza, dall’esito non scontato, arrivi prima della prossima primavera. A essere ottimisti. La lotta delle donne pakistane: storie di resistenza femminista di Sara Tanveer Il Domani, 22 novembre 2024 Malala Yousafzai, Nobel per la Pace ad appena 17 anni, ha dimostrato che le donne del paese sono politicizzate e attive, mentre nell’opinione comune esistono solo come vittime, mai emancipate, mai soggetti politici. Dalla clandestinità sotto la dittatura alla rivendicazione del proprio corpo, fino alla forte intersezionalità con le lotte per l’emancipazione omosessuale e trans: ma non mancano ostacoli. Nell’immaginario comune le donne pakistane esistono solo come vittime. Sono donne che vengono ammazzate dai mariti, dai genitori, dallo Stato, ma non sono mai emancipate, non sono mai un soggetto politico. Malala Yousafzai, premio Nobel per la Pace nel 2014 ad appena 17 anni - e di gran lunga la donna pakistana più celebre al mondo - ha dimostrato che le donne pakistane sono politicizzate e attive. Già dall’epoca dei moti indipendentisti del 1947 le donne hanno attivamente partecipato alla lotta per la liberazione dal colonialismo inglese e dopo l’indipendenza hanno sempre rivendicato una centralità nella vita sociale e politica. Dittature e repressione - La storia del femminismo pakistano va di pari passo con la instabile storia politica del paese: nel corso di 77 anni di storia ci sono stati in tutto 3 dittature militari (di cui una basata sulla sharia) che hanno plasmato l’identità del paese e il suo rapporto con il genere femminile. In particolar modo il generale Zia Ul Haq, al potere dal 1977 al 1988, nel suo progetto despotico di islamizzazione forzata del paese colpì in particolar modo il genere femminile, isolandolo dalla vita pubblica e imponendo una morale e un’idea di decoro estremamente misogina. Questi 11 anni hanno prodotto non solo repressione, ma anche una tradizione femminista clandestina. Tra i vari movimenti è possibile citare il WAF, nato proprio per contrastare queste leggi e idee apertamente misogine e regressive. La resistenza femminista è sempre stata pacifica e pluralistica, in cui donne, cisgender e trans, si sono unite al grido di uguaglianza. Le figlie e le nipoti della generazione femminista degli anni 80 si sono a loro volta organizzate, portando la questione di genere a livello di massa grazie alle Aurat March - la marcia delle donne - che dal 2018 incendia le strade non sono delle metropoli ma anche delle zone remote alle pendici dell’Himalaya o al confine con l’Afghanistan. “Il corpo è mio” - Le richieste sono molteplici ma si possono riassumere in un semplice “Il corpo è mio e decido io”, che in Pakistan ha una valenza politica ben precisa. Si protesta contro l’ipocrisia della società patriarcale che vuole le donne pakistane assoggettate alla morale islamista ma senza il riconoscimento dei diritti e le protezioni che lo stesso islam dà alle donne. In quest’ottica “il corpo è mio e decido io” significa rifiutare apertamente questa morale e decidere veramente per sé stesse in ogni sfera della propria esistenza. Significa rifiutare ogni responsabilità di una violenza subita, in strada o in famiglia. Significa avere una possibilità di scelta se sposarsi o meno, senza pressioni o forzature. Significa prendere spazio nei luoghi pubblici senza indossare un velo, che non è obbligatorio ma è rimasto come retaggio della sharia degli anni Ottanta. Lotta di classe - Un altro aspetto chiave del femminismo pakistano è la sua forte intersezionalità con le lotte per l’emancipazione omosessuale e trans, in un paese dove essere omosessuali è ancora reato. Spesso le Aurat March sono guidate da esponenti delle comunità trans e non binarie, proprio a simboleggiare l’unità delle due lotte. La comunità trans è storicamente stata la più grande alleata delle donne sud asiatiche in quanto “ponte” con la maschilità ma anche come soggetto marginalizzato dal patriarcato. L’emancipazione delle soggettività marginalizzate passa anche dalla lotta di classe: infatti molte sono le donne che si identificano come libertarie e socialiste. Ogni anno in ogni città viene organizzata la marcia tenendo in forte considerazione la partecipazione delle donne appartenenti alle classi più povere della città, come le fabbricanti di mattoni a Multan o le lavoratrici domestiche a Lahore, quasi sempre ridotte in semi-schiavitù. Ostacoli - Queste battaglie però non sono ben accolte, infatti spesso la società civile e la politica, dominata da uomini, si è detta contraria a questo genere di manifestazione e di idee. Il femminismo viene percepito come estraneo al decoro conservatore pakistano e soprattutto contrario alle idee di famiglia e di tradizione. Bollate come libertine, osteggiate e pubblicamente umiliate, le femministe pakistane non si fermeranno così facilmente e soprattutto non dobbiamo mai compatirle, bensì prendere esempio dalle loro idee e dal loro coraggio.