La tortura che non dà respiro di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 21 novembre 2024 Se non ci si indigna di fronte a un poliziotto che riempie di urina una cella di un detenuto o lo pesta senza ragione, vuol dire che siamo di fronte a un processo diseducativo di massa che ha investito le nostre coscienze. Violenze fisiche, forme di scherno e umiliazione nei confronti di persone con disturbi psichici, secchiate di acqua e urina lanciate nelle celle anche in piena notte, frasi offensive condite da razzismo. L’inchiesta trapanese ci conferma quanto sia importante, se non decisivo, avere una magistratura indipendente che indaghi sul potere, in tutte le forme nelle quali esso si esprime. L’inchiesta è durata circa due anni (2021-2023), segno che non ha riguardato un singolo episodio ma una modalità criminale, violenta, truce, e purtroppo non estemporanea, di gestione della pena carceraria nei confronti dei più vulnerabili. La documentazione delle torture sarebbe terminata solo perché a un certo punto, nell’agosto del 2023, è stato chiuso il reparto di isolamento, dove si consumavano le violenze e dove era stata posta l’attenzione, anche con le riprese video (come sempre decisive), da parte degli investigatori. Ed è proprio la non episodicità che dovrebbe allarmare tutti noi. La tortura è qualcosa che riguarda l’intera comunità nonché lo stato della democrazia di un Paese. Se non ci si indigna di fronte a un poliziotto che riempie di urina una cella di un detenuto o lo pesta senza ragione, vuol dire che siamo di fronte a un processo diseducativo di massa che ha investito le nostre coscienze. Vuol dire che è in corso la bancarotta delle agenzie della formazione pedagogica e dei corpi intermedi. Alcune considerazioni a margine dell’inchiesta trapanese. Le violenze sono principalmente avvenute nel reparto di isolamento. Molti suicidi avvengono in isolamento. A volte l’isolamento è imposto come sanzione disciplinare, altre volte invece è una condizione de facto nella quale è posto il detenuto, senza alcuna giustificazione legale. Antigone ha in piedi una campagna a livello globale per abolire questa pratica carceraria, insana, pericolosa, disumana. L’amministrazione penitenziaria dia un segnale in questa direzione. In secondo luogo va evidenziato che l’inchiesta avrebbe avuto il contributo decisivo del Nucleo investigativo della stessa Polizia penitenziaria. Questa è una buona notizia che va in controtendenza a quello spirito di corpo, che è sempre l’anticamera dell’impunità di massa. È evidente che chi, tra gli agenti e gli ufficiali di polizia penitenziaria, ha lavorato all’indagine non ha quella cultura dell’asfissia del sottosegretario Del Mastro. Una notizia invece non abbiamo potuto leggerla. Non abbiamo sentito preannunciare, né dal ministro della Giustizia Nordio, né dalla presidente del Consiglio Meloni, la futura costituzione di parte civile. Antigone è in tanti processi in giro per l’Italia e sarebbe decisivo, anche per il messaggio culturale sotteso, avere società civile e governo dalla stessa parte della legalità nella lotta contro i criminali che torturano. Infine, i torturatori se la prendono molto spesso contro i più vulnerabili, i meno protetti, le persone con disturbi psichici, contro chi non si sa fare la galera, ossia quelli per i quali il governo si è inventato il delitto di rivolta penitenziaria. È questa la manifestazione di una pratica machista contro la quale ci vorrebbe una rivoluzione culturale e formativa nel corpo di polizia penitenziaria. La presidente del Consiglio, per evitare di dover prendere le distanze dalle parole inaccettabili di Del Mastro, ha immaginato che il sottosegretario volesse “soffocare la mafia”. Ma la verità è che la mafia respira ogniqualvolta lo Stato la emula nelle pratiche illegali e violente. *Presidente dell’Associazione Antigone La dottrina Delmastro per soffocare il reato di tortura di Mario Di Vito Il Manifesto, 21 novembre 2024 Le proposte per l’abrogazione e i rapporti stretti del sottosegretario con la penitenziaria. Il Pd: “Nordio riferisca in aula”. “È in attuazione la dottrina Delmastro?”. La domanda la pone in Senato Walter Verini del Pd, mentre invoca la venuta in aula del ministro Nordio per riferire sul caso dell’inchiesta di Trapani sulle torture in carcere. Del resto sono passati pochi giorni da quando il sottosegretario ha parlato della propria “intima gioia” al pensiero che i detenuti non riescano a respirare dietro ai vetri oscurati dei nuovi mezzi della polizia penitenziaria. Un modo per strizzare l’occhio a una platea che ha sempre considerato l’istituzione del reato di tortura, avvenuta nel 2017, come un insulto alla propria professione, trovando ampie sponde politiche proprio in Fratelli d’Italia: Meloni, finché è stata all’opposizione, aveva parlato più volte dell’abrogazione di un reato che “impedisce ai poliziotti di fare il loro mestiere” e l’anno scorso, alla Camera, in una delle rare iniziative parlamentari delle sue rare iniziative parlamentari, FdI lanciò la proposta di ridurre gli articoli 613 bis e 613 ter del codice penale (quelli che circostanziano la tortura) a una semplice aggravante. Andrea Delmastro, che al ministero della Giustizia detiene la delega alle carceri, con la polizia penitenziaria ha sempre avuto un rapporto strettissimo. “È una sua falange privata”, ebbe a dire Matteo Renzi in tempi non sospetti, alludendo ai suoi rapporti strettissimi con gli agenti. Non è un caso che, quando gli venne concessa la scorta ai tempi del caso Cospito, come capo il sottosegretario scelse Pablito Morello, ex ispettore capo della penitenziaria (è in pensione dallo scorso giugno), suo amico fraterno e, particolare per nulla secondario, iscritto a Fratelli d’Italia. Nel giugno del 2023, intervenendo al congresso della Confsal (la Confederazione generale dei sindacati autonomi dei lavoratori) su invito del Sappe, il discorso di Delmastro sulla tortura discorso fu molto chiaro: accusò “i precedenti governi” di volere che “i poliziotti affrontassero i detenuti armati di olio bollente con nulla più che la Costituzione nella mano sinistra e l’ordinamento penitenziario nella destra”. Ma niente paura, aggiunse tra gli applausi della platea, “stiamo definendo protocolli operativi di intervento che vi mettano nelle condizioni di operare”. La questione in realtà non è così facile da sbloccare: Nordio, l’unica volta che è intervenuto sul tema, nel febbraio di un anno fa, disse che qualche modifica era prevista, ma per un fatto puramente tecnico, cioè l’adeguamento alla convenzione di New York. Il ministro al vede così: attualmente la tortura è un reato a dolo generico - viene cioè punito chiunque causi sofferenze a chi è privato della sua libertà - ma bisognerebbe lavorare per renderla un dolo specifico, perché altrimenti sarebbe concreto “il rischio di vedere applicata questa disposizione in caso di casi leciti di tutela dell’ordine pubblico”. Questo perché la convenzione di New York parla della tortura come di un “reato proprio”. La differenza sta nelle sfumature: farne un dolo specifico, separando cioè la tortura dai trattamenti inumani e degradanti, renderebbe pressoché impossibile stabilire cosa siano di preciso l’una e l’altra cosa. Nei fatti sarebbe un’abrogazione. Gli orrori e il degrado nel carcere di Trapani: Delmastro stavolta non ha nulla da dire? di Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo Il Domani, 21 novembre 2024 Siamo addolorati di fronte al ripetersi di queste situazioni inaccettabili e indegne per un Paese che ambisce a esser definito civile e democratico. Anche qui sono le telecamere a inchiodarli. Sono state installate dagli inquirenti nel “reparto blu”, oggi chiuso per carenze igienico sanitarie, dove venivano portati i detenuti in isolamento, con problemi psichiatrici o psicologici: il nostro sottosegretario cosa racconterà? Ci risiamo. Trapani come Santa Maria Capua Vetere? Una nuova inchiesta che vede indagati 46 agenti di Polizia penitenziaria presso il carcere Pietro Cerulli di Trapani, per tortura e concorso in tortura, abuso di autorità contro detenuti e falso ideologico in concorso. Undici agli arresti domiciliari e 14 colpiti da misura interdittiva. I reati sono ricorrenti, gravissimi e più o meno sempre gli stessi, quasi ad integrare un rituale che si ripete. Con ciò non vogliamo certamente dire che tutto questo sia la prassi consolidata delle nostre carceri. Questo assolutamente no. Siamo tuttavia addolorati e basiti di fronte al ripetersi di queste situazioni inaccettabili ed indegne per un Paese che ambisce ad esser definito civile e democratico. Anche qui sono le telecamere ad inchiodarli. Sono state installate dagli inquirenti nel “reparto blu”, oggi chiuso per carenze igienico sanitarie, dove venivano portati i detenuti in isolamento, detenuti con problemi psichiatrici o psicologici. Quel reparto ne era prima sprovvisto e, quindi, era diventato zona franca. Un inferno per detenuti ma anche per gli agenti stessi che si sono lasciati andare a lanci di urine nei confronti dei primi, violenze di gruppo reiterate e documentate in un’inchiesta che ha mosso i suoi primi passi nel 2021. Ancora persone affette da malattie psichiatriche o psicologiche che non solo si trovano dove non dovrebbero stare ma che addirittura vengono bersagliate in siffatti modi violenti e spietatamente umilianti. Una sorta di girone dantesco descritto nei Miserabili da Victor Hugo. Queste sono le parole del Procuratore Gabriele Paci che così ha voluto descrivere lo stato di degrado e stress generale in cui tutti erano costretti a vivere in quel carcere. Sono realtà che ben conosciamo e che, purtroppo, sono comuni a tanti istituti di pena. Le abbiamo viste, sentite e finanche odorate. Sono numerose le richieste di aiuto che ci sono state fatte dagli stessi agenti, durante le ispezioni a sorpresa che abbiamo effettuato, rassegnati e talvolta disperati per le condizioni, anch’esse degradanti cui erano costretti a lavorare. Proviamo tanta pena per i detenuti che rimangono vittime di questi comportamenti criminali così come, allo stesso modo, la proviamo per gli agenti che ne sono responsabili perdendo letteralmente la loro identità come appartenenti al corpo dello Stato e per coloro che vi assistono, impotenti o conniventi che siano. Il nostro gaudente sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove che cosa ci racconterà? Esprimerà ancora una volta la sua solidarietà agli agenti della penitenziaria coinvolti nell’odierna inchiesta, per sottrarsi efficacemente alle proprie responsabilità per la sempre più degenerante situazione in cui versa il nostro sistema carceri? Magari andrà a trovarli col nuovo blindato dai vetri oscurati che tanto lo inorgoglisce. Proviamo orrore per lo scenario che sta delineando certa politica, da vera e propria era post apocalittica. Propaganda, propaganda ed ancora propaganda. Cinica e mendace. La Costituzione non esiste più, bandita nel nome del “O loro o noi, buttiamo via la chiave, facciamoli asfissiare”. Che ne è dell’articolo 27 della Costituzione che impone la funzione rieducativa della pena? In questo oceano di violenze e degrado la luce che ci si chiede di vedere è l’intima gioia di Delmastro. Semplicemente desolante ma gli italiani vogliono questo, direbbe lui. Noi no. E non siamo i soli, o almeno così speriamo. Con l’isolamento in carcere cresce il rischio di tortura. L’inchiesta di Trapani lo mostra di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2024 “A volte i detenuti venivano fatti spogliare, investiti da lanci d’acqua mista a urina e praticata violenza quasi di gruppo, gratuita e inconcepibile”. Questo il racconto del procuratore di Trapani nella conferenza stampa tenuta a proposito dell’inchiesta per le presunte torture nel carcere della città, che ha portato undici poliziotti penitenziari agli arresti domiciliari e altri quattordici sospesi dal servizio. Lo schema si ripete, ogni volta identico seppur diverso: la tortura in carcere, la violenza del pubblico ufficiale verso colui che ha in custodia, vuole annientare la dignità della persona detenuta, calpestare ogni senso di umanità, affermare un’inferiorità ontologica, un disprezzo. Come accadde a Santa Maria Capua Vetere durante il lockdown del 2020, come accadde a Reggio Emilia contro un detenuto denudato e incappucciato per il quale Antigone è oggi a processo, come è accaduto ancora in tante situazioni. Quello stesso disprezzo mostrato dal sottosegretario Delmastro pochi giorni fa verso i detenuti cui la polizia dovrebbe orgogliosamente togliere il respiro e confermato dalla premier Meloni nel dargli ragione. L’ordinanza del tribunale di Trapani applicativa delle misure cautelari disegna un quadro allarmante, dove la violenza non era episodica bensì uno strumento di gestione ordinaria dell’ordine interno. E non da oggi: le indagini sono cominciate nel 2021 e hanno seguito tanti episodi nei quali i poliziotti costruivano squadrette interne per punire arbitrariamente chi ritenevano loro, considerando la legge, i medici che refertavano le ferite, chiunque si contrapponesse a questa gestione da far west come un nemico del corpo di polizia penitenziaria. Il reparto Blu, al centro dell’inchiesta, era quello destinato all’isolamento. Secondo l’accusa vi venivano recluse le persone con problemi di disagio psichico. Erano loro le destinatarie delle sistematiche violenze. L’isolamento fa male, lo andiamo ripetendo da tempo. Antigone ha redatto un documento contenente linee guida per il superamento dell’isolamento penitenziario a livello mondiale. Lo scorso settembre il Consiglio d’Europa ha voluto organizzare un incontro con le amministrazioni penitenziarie di tutti i Paesi Membri per discutere il nostro documento. Ci si rende conto del pericolo che l’isolamento comporta. Anche alcuni organismi delle Nazioni Unite hanno mostrato interesse per il lavoro di Antigone in questo ambito. In Italia, invece, l’isolamento penitenziario è ancora ampiamente utilizzato per motivi disciplinari. Luoghi oscuri, spazi del carcere poco osservati, dove cresce il rischio della tortura. L’inchiesta di Trapani lo mostra con evidenza. La cultura di questo governo sembra voler promuovere il ritorno a un modello di carcere nel quale i detenuti sono privi di ogni diritto. Il disegno di legge governativo oggi in discussione al Senato e già approvato dalla Camera dei Deputati vuole introdurre il reato di rivolta penitenziaria, punito con pene altissime e configurabile anche in presenza della sola ‘resistenza passiva’ a un ordine impartito. Se un poliziotto ordina qualsiasi cosa e il detenuto non fa nulla, è punito con pene che possono raggiungere gli otto anni di carcere aggiuntivo. Rivendicare i propri diritti sarà impossibile in questo scenario. Si vuole tornare a un carcere nel quale i detenuti camminano in silenzio a testa bassa e considerano i poliziotti dei ‘superiori’, come un tempo venivano qualificati fin dall’appellativo. Si vuole tornare a un carcere nel quale i detenuti non hanno dignità. È in questo clima culturale che prolifica la tortura. Ci auguriamo dunque di venire smentiti. Ci auguriamo che il governo prenda una netta posizione sulla vicenda trapanese, dicendo parole chiare sul ruolo democratico e rispettoso della legge che la polizia penitenziaria deve assumere in carcere. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Le torture a Trapani e il carcere, quel buco nero che invoca umanità di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 21 novembre 2024 “A volte i detenuti venivano fatti spogliare, investiti da lanci d’acqua mista a urina” e veniva “praticata violenza quasi di gruppo, gratuita e inconcepibile”. È un esercizio davvero doloroso, quello di ascoltare la ricostruzione del procuratore di Trapani Gabriele Paci, coordinatore dell’inchiesta nata nel 2021 e che ieri ha portato all’emissione di 25 misure cautelari e interdittive a carico di altrettanti agenti penitenziari del carcere Pietro Cerulli. Dentro quelle dichiarazioni, dal buio delle celle arrivano a noi echi degli abissi d’umiliazione, sofferenza e angoscia inflitti a decine di esseri umani. Sì, esseri umani, perché l’aver ricevuto una condanna (o l’essere in attesa di giudizio) per un reato compiuto, anche grave, non può e non deve mai consentire ad altri di cancellare, offendere, calpestare l’umanità del recluso. “Le pene”, è scolpito nella Costituzione, “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. In una nazione con la nostra tradizione giuridica, parrebbe superfluo ribadirlo. E invece no. Perché - ferma restando la presunzione di innocenza per gli indagati di Trapani, che potranno difendersi in sede giudiziaria - lo spaccato di prevaricazioni che tracima dall’inchiesta ha fatto ipotizzare al gip per alcune azioni perfino, in concorso, il reato di tortura (che per inciso, ancora qualcuno chiede beffardamente di abolire o modificare, come se fosse un retaggio di epoche antiche e non un’evidenza della cronaca recente). E quello trapanese non è l’unico caso: proprio in questi giorni, in Campania si sta concludendo il processo per le presunte torture di quattro anni fa su detenuti di Santa Maria Capua Vetere. Le carceri intanto restano un buco nero del Paese: gli spazi di vita sono angusti, con 62mila detenuti chiusi in strutture che dovrebbero ospitarne al massimo 51mila (e un tasso di sovraffollamento medio nazionale sopra il 133%); gli impianti sono obsoleti o malfunzionanti, d’inverno si battono i denti dal freddo e d’estate si boccheggia per il caldo; il malessere e il disagio psichico vengono intercettati tardi o non trovano sostegno, anche per la carenza di psicologi e operatori sociali. Un grumo di disperazione che - come Avvenire continua a denunciare - può indurre i più fragili a gesti estremi, sia fra detenuti (81 i suicidi da gennaio) che fra agenti (7 negli ultimi dieci mesi). Di fronte a tutto questo, e agli spaccati di brutalità svelati dalle indagini, non si può far finta di niente. Occorrono interventi tempestivi ed efficaci, che allevino quel fardello di sofferenza e tensione. Va da sé che certa becera propaganda politica non favorisce un clima sereno. E nemmeno sconcertanti dichiarazioni come quella del sottosegretario alla Giustizia Delmastro, capace di provare “intima gioia” nel far “sapere ai cittadini come non lasciamo respirare” chi è assegnato a regimi carcerari duri. Se restiamo ai fatti, i dati sulle presenze nei penitenziari mostrano come le misure disegnate finora dal Guardasigilli Carlo Nordio e dal governo Meloni non stiano sortendo effetti adeguati. Da settembre, e fino a tutto il 2025, è in carica un Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, Marco Doglio, che dovrà provvedere “alla realizzazione delle opere necessarie per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento”. Ha poco più di un anno di tempo per avviare un programma di lavoro annunciato a onore del vero in passato già da altri esecutivi, senza poi ultimarlo. Anche se dovesse riuscire, non è solo con nuove strutture che si favorirà la rieducazione auspicata dalla Carta: servono cure mediche e psicologiche adeguate, percorsi di pena e di lavoro esterni, serve umanità. Perché se, come ammoniva Dostoevskij, il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni, finché le carceri italiane rimarranno un buco nero, il nostro Paese non potrà dirsi davvero e compiutamente civile. Quelle nostre prigioni come gulag di Adriano Sofri Il Foglio, 21 novembre 2024 Violenze, abusi e omertà degli agenti: l’inchiesta nel carcere di Trapani. Si sceglievano le isole belle per metterci le tristi prigioni. Il mare li isolava, appunto, e quanto a loro, il mare non dovevano nemmeno vederlo, e figurarsi Maria, tranne che sognare lei e il mare nella canzone. Trapani è anche lei una città di due mari, e il suo carcere ne è circondato. I prigionieri non lo vedono, ma l’amministrazione li aveva risarciti con un “Reparto blu”. Non esiste più, era già una sentina puzzolente e senz’aria, ora chiusa, ragioni “igienico-sanitarie”. Prima, per due o tre anni, dal 2021 al 2023, fu il modesto gulag delle imprese di carcerieri, agenti di polizia penitenziaria, sfogate su “italiani e stranieri, quasi tutti detenuti fragili, per le loro condizioni psicofisiche, psichiatriche, persone vulnerabili” (il procuratore capo di Trapani, Gabriele Paci). Andò così, che un numero notevole di agenti, un branco, sfogava i propri istinti, diciamo così, su quei vulnerabili, mentre un numero ancora più notevole di loro colleghi non prendeva parte, e forse provava anche schifo, ma “non sono intervenuti e non li hanno neanche denunciati” - com’era loro dovere, ma chi vuole mettersi nei guai? Attenti allo svolgimento: le violenze, le torture e le umiliazioni - “gettavano addosso ai detenuti denudati acqua e urina”… - duravano impunite: ciascuno degli autori era ostaggio dell’omertà degli altri. Non erano episodi, a quanto pare, era l’abitudine. Mai sottovalutare la forza dell’abitudine. Ma in pochi luoghi le voci corrono come nelle segrete di galera, e magistrati e investigatori (a loro volta uomini e donne della Polizia penitenziaria) messi al corrente dalle voci e dalle denunce arrischiate dei detenuti, riuscirono in un lavoro difficile da credere: installare telecamere nei locali del “Reparto blu” custodendone il segreto. Così quegli ignari continuarono a gavazzare, e gli inquirenti vennero a capo di una documentazione prolungata e soverchiante. (Chissà quanto materiale analogo giaceva nei telefonini degli autori delle soperchierie, chi commette una malefatta non rinuncia a rivedersi e mostrarla alle ammiratrici, vedi Abu Ghraib). Le relazioni di servizio venivano regolarmente falsificate. Ancora il procuratore Paci, che nella conferenza aveva accanto e alle spalle ufficiali e agenti penitenziari, ha detto che “in questa sorta di girone dantesco sembra di leggere parti dei ‘Miserabili’ di Victor Hugo”. Deve conservare una fiducia nel suo prossimo se lo fa ancora capace di leggere “I miserabili” di Victor Hugo e capirlo e ricordarlo, e stare dalla parte di Valjean: provate a immaginare quel librone nelle mani di un miserabile vero, uno che “gioisce intimamente” di una carretta nuova nella quale il prigioniero, chiunque sia, non riesca a respirare. “Un quarto o un quinto gli agenti coinvolti”, continua il procuratore, 55 persone: 11 agli arresti (domiciliari, almeno ai detenuti sarà risparmiata la prosecuzione della compagnia), 46 indagati - “il gip, Giancarlo Caruso, non ha accolto tutte le richieste”. Sapete, l’amarezza della vita ha un solo lenimento, anche nei momenti più infami, e questo è uno di quei momenti: la bizzarria o l’illuminazione delle coincidenze. Ieri, quando nel carcere di Trapani (intitolato a Pietro Cerulli, un agente penitenziario assassinato a Palermo dalla mafia) si riferiva l’indagine, cadeva il trentacinquesimo anniversario della morte di Leonardo Sciascia. Che c’entra? - direte. Niente, non importa. Non datevi pensiero. Ieri si è suicidato in galera l’81esimo detenuto dell’anno - un ventottenne, Ben Mahmood Mussa, tunisino, pizzaiolo, “disturbi mentali”, impiccato, a Marassi. Altri 131 sono morti “per altre cause”. Sette agenti penitenziari si sono ammazzati. E mancano ancora 41 giorni all’anno nuovo, in cui sarà festa tutto l’anno. Nell’aprile del 2023 una vasta indagine, come si dice, “Operazione Alcatraz”…, aveva scoperchiato, come si dice, un largo e protratto smercio di telefonini e droga (e prestazioni sessuali gratuite agli agenti coinvolti) oltre al pestaggio di un detenuto, nel solito carcere di Trapani, e aveva coinvolto quattro agenti penitenziari. Il capo della procura ha voluto sottolineare che le violenze ora denunciate erano “gratuite e inconcepibili”. Un sindacalista degli agenti le ha dichiarate di fatto concepibili concepibilissime: “Sono ormai decine le indagini a carico di appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria e centinaia gli agenti indagati, sospesi dal servizio e talvolta condannati. Ovviamente, chi sbaglia deve essere individuato e perseguito, ma se a farlo, anche solo in via presuntiva, sono centinaia, diventa evidente la patogenicità del sistema che non solo non protegge, ma evidentemente favorisce e addirittura induce all’errore. Non si può parlare di mele marce, ma è la cesta marcia che fa imputridire tutto ciò che contiene”. Ci sono 15 mila detenuti in più, e 18 mila agenti in meno: che oltraggio alla legge della domanda e dell’offerta. Argomentazione attenuante, ma non priva di una seduzione. È l’occasione che fa l’uomo ladro. È la galera che fa l’agente penitenziario torturatore e il detenuto torturato (iniqua divisione del lavoro): questa galera poi! Solo che l’argomento somiglia a quelli ripugnanti che in nome di una condizione collettiva, e magari di ordini (o vaniloqui) superiori, pretendono di far svanire la responsabilità personale. Di ciascuno, guardia o ladro. “Il costo medio di ogni singolo detenuto allo Stato è di 157 euro al giorno”. Dei quali, 20 euro vanno alle spese del detenuto. “E poi fu solo in mezzo al blu”. Il carcere come un lager di Lirio Abbate La Repubblica, 21 novembre 2024 Vittime e carnefici si muovono in uno spazio di fatto abbandonato dallo Stato. L’inchiesta sulle violenze nel carcere di Trapani è un compendio dell’orrore. Abusi, torture fisiche e psicologiche, diritti calpestati, dove vittime e carnefici si muovono in uno spazio di fatto abbandonato dallo Stato. Un inferno, insomma. Che andava avanti da almeno due anni, il tempo dell’inchiesta condotta dal procuratore Gabriele Paci. Era stato dimenticato da tutti, il carcere di Trapani. Erano abbandonati a loro stessi gli agenti della polizia penitenziaria. La direzione era esercitata, “per la firma”, una volta a settimana da un dirigente assegnato ad altro carcere. Non c’erano psichiatri o psicologi, o assistenti sociali. Suppliva la Asl “periodicamente” per non più di due ore la settimana. La sofferenza psichica di chi era dietro le sbarre, soprattutto dei più fragili (tossicodipendenti in crisi d’astinenza o persone affette da malattia mentale), era affare dei soli agenti della penitenziaria. Nessuno controllava come decidessero di “mettere in riga” qualcuno o “mettere ordine” nelle sezioni. A Trapani vigeva la legge più antica. Quella del più forte. E gli agenti più che poliziotti erano diventati sceriffi. Il processo farà il suo corso, sostenuto dalla forza probatoria delle immagini catturate da una telecamera nascosta. E il processo mostrerà che a Trapani la violenza era riservata agli ultimi tra gli ultimi. Detenuti che non si possono permettere avvocati di fiducia, che spesso non hanno nessuno che li vada a trovare in carcere. Hanno avuto il coraggio e la forza di denunciare, facendo partire l’inchiesta. Meritano che la giustizia mostri altrettanto coraggio e determinazione nel perseguire le responsabilità dei loro carnefici. Ma questa storia non è solo una faccenda da codice penale. Perché torna a porre una serie di domande che interpellano la politica. Che carceri ha il nostro Paese? Chi garantisce che all’interno delle loro mura vengano rispettati i diritti? E soprattutto: quale idea del carcere ha questo governo? Abbiamo un ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che dopo il settantaduesimo suicidio di un detenuto ha spiegato che non esiste correlazione tra suicidi e sovraffollamento. Salvo promettere nuovi interventi - rimasti sin qui lettera morta - dopo il deludente decreto “carcere sicuro”. Né si ha traccia del lavoro dell’annunciato commissario straordinario per l’emergenza carceri. Abbiamo anche un sottosegretario alla Giustizia, con delega al Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, Andrea Delmastro, che pochi giorni fa ha manifestato, durante l’intervento autocelebrativo nella sede del Dap, la sua “gioia” nell’auspicare che i detenuti mafiosi trasportati in auto speciali “non riescano a respirare”. Parole shock che la premier Meloni ha provato a edulcorare sostenendo che Delmastro si riferisse alla necessità di usare il massimo del rigore nella lotta alla mafia. Ma il punto è proprio qui. Nel carcere di Trapani, i mafiosi non dovevano avere paura. Perché tra quelle mura e in quegli spazi ridotti a incubatore criminogeno, la violenza degli agenti rispettava la gerarchia della strada. Ai “forti” non veniva torto un capello. Per i deboli nessuna pietà. Gerarchia di strada e gerarchia del carcere come due realtà allo specchio. Ai boss, telefonini e droga. Ai disgraziati, sovraffollamento, mazzate e - come a Trapani - secchiate di acqua e piscio. Non basterà dunque stavolta - come fu dopo le violenze del carcere di Santa Maria Capua Vetere - sostenere la solita teoria delle “mele marce”. Perché le mele marciscono se l’aria in cui sono è cattiva. E l’aria in cui ogni giorno vivono le decine di migliaia di detenuti italiani è pessima. Come ormai documentano da tempo, inascoltate, le associazioni di sostegno per i diritti ai detenuti. Una violenza “normale e diffusa”. Ma quanto diffusa? di Concita De Gregorio La Repubblica, 21 novembre 2024 No, non sono casi isolati. Quelli che emergono quelli di cui si sa perché qualche telecamera riprende i fatti e sfugge alla censura interna, per esempio - sono una litania di violenze sempre identiche, la sopraffazione feroce di persone inermi, non in grado di difendersi né di essere credute, dopo. Da Bolzaneto nei giorni di Genova al carcere di Trapani, ieri, passando per la morte di Stefano Cucchi, i fatti di Santa Maria Capua Vetere, i minori del Beccaria, caserme e penitenziari, luoghi di detenzione di contenzione o di transito. Non si possono trattare come casi isolati, non si può davvero più minimizzare, sedare e sopire, le mele marce, poche, la maggioranza invece. Bisogna prendere sul serio il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, (“che intima gioia sapere che non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro dell’auto oscurato”) e non derubricare le sue parole a una “battuta mal riuscita”. Non una parola ha detto Nordio, il ministro, su quella frase pronunciata in pubblico e in una sede istituzionale. Frase che rivela (non nasconde: rivela) una mentalità diffusa alla quale Delmastro ammicca in cerca di consenso. Perché chi se ne importa dei detenuti, se sono detenuti è perché sono criminali, giusto? Meritano di essere soffocati, picchiati, di subire nudi getti di acqua e lancio di urina, di non respirare. Non sono brava gente. Pazienza per la presunzione d’innocenza, per la detenzione preventiva, le leggi e la Costituzione, per la funzione del carcere in un paese democratico, pazienza per Beccaria. A Trapani undici agenti sono stati arrestati e quattordici sospesi perché le telecamere (di nuovo: le telecamere installate dopo precedenti denunce di abusi. Che cosa succede quando non ci sono, o sono spente?) hanno ripreso violenze “di gruppo, reiterate e inconcepibili” - ha detto il procuratore di Trapani Gabriele Paci. Un “modus operandi diffuso”. Ecco. Una modalità di comportamento standard, un’abitudine. Quanto diffusa, è la domanda Delmastro ignora la Costituzione, la nostra giustizia non è vendetta di Gian Carlo Caselli La Stampa, 21 novembre 2024 La Carta parla di umanità della pena e finalità rieducativa. Principi incompatibili con le parole del sottosegretario. “L’idea di far sapere ai cittadini come noi trattiamo, come noi incalziamo, come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è per il sottoscritto una intima gioia”. Queste parole sono state pronunziate nel corso della presentazione di una nuova auto della polizia penitenziaria. Ormai lo sanno tutti, altrimenti sarebbe stato interessante chiedere in giro di chi mai potessero essere. E sono sicuro che nessuno avrebbe indovinato che si tratta niente meno che del sottosegretario alla Giustizia onorevole Andrea Delmastro Delle Vedove. Perché nessuno potrebbe immaginare che un così alto rappresentante delle istituzioni pubbliche non tenga in conto che l’articolo 27 della Costituzione stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Dalla lettura dell’articolo emergono due principi fondamentali: l’umanità della pena, che vieta le pene lesive del rispetto della persona, e la finalità rieducativa, per cui le pene non devono limitarsi a punire, ma mirare soprattutto alla rieducazione e al reinserimento nella società. Questi principi, un vero baluardo di civiltà, sono assolutamente incompatibili con una “intima gioia” per la sofferenza (non lasciar respirare) inflitta al detenuto. Il nostro ordinamento costituzionale prevede per chi sia recluso un’unica sofferenza, la privazione della libertà personale, e ogni di più è un abuso incostituzionale. Come tale non può far parte del bagaglio argomentativo-culturale di un componente del governo, mentre l’onorevole Delmastro ne ha offerto una sorta di esaltazione propagandistica, per di più con tono compiaciuto e baldanzoso, come si può evincere dalle registrazioni del suo intervento. Vero è che le polemiche immediatamente seguite alle sue incaute parole lo hanno spinto a cercare di rimediare, sostenendo che voleva riferirsi non a tutti i detenuti ma soltanto a quelli mafiosi. Senonché (a parte che la mancanza - sin dall’origine - di una esplicita distinzione tra le due categorie sarebbe comunque un errore) il merito della questione non cambia di molto. Prima c’era la legge del taglione, restituire al male ricevuto altrettanto male. Ora l’articolo 27 della Costituzione ci chiede, con la rieducazione del condannato, di andare oltre il male. Attenzione: questo non significa affatto sminuire il male. Quindi nessun buonismo, sarebbe vanificare la giustizia. Il senso di una giustizia giusta è di evitare che ci si accanisca sul colpevole fino a schiacciarlo e impedirgli di cambiare, scivolando nelle spirali della persecuzione vendicativa che finisce per essere inefficace, sia per chi subisce il castigo sia per chi da quel torto o sbaglio è stato ferito. Il colpevole deve essere trattato secondo le leggi, altrimenti la punizione lo incattivisce ulteriormente, confermandolo in una scuola di violenza che inevitabilmente genera altra violenza, nuovi errori e nuova insicurezza per la società civile. Sono principi basilari in un regime democratico, che valgono per tutti i detenuti compresi i mafiosi. Per questi giustamente la legge prevede un trattamento penitenziario differenziato in considerazione della speciale pericolosità delle organizzazioni criminali di appartenenza. Ma nessuno può sostenere, secondo logica e buon senso, che la differenziazione possa arrivare al punto di “non lasciare respirare” il recluso. Neppure un sottosegretario di Stato, men che mai alla Giustizia. Così il decreto Bonafede ha alimentato il mercato nero dei telefonini in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 novembre 2024 Con l’introduzione del reato di possesso di cellulari, i prezzi per lo smercio sono raddoppiati, facendo la fortuna delle organizzazioni criminali. Da quando è stata introdotta, per volere del governo Conte 2, la norma che prevede una pena da 1 a 4 anni per chi introduce o detiene telefoni cellulari o dispositivi mobili di comunicazione all’interno di un istituto penitenziario, è aumentato lo smercio dei telefonini. Il proibizionismo e il panpenalismo non solo non hanno fatto da deterrente, ma hanno aumentato i profitti del commercio illegale. Appare un paradosso, ma non lo è. Ad offrire una chiave di lettura è Gennarino De Fazio, segretario generale della UilPa Polizia Penitenziaria: “Da quando l’introduzione e il possesso di telefonini in carcere costituisce reato, ne circolano molti di più. Questo perché ne è pressoché raddoppiato il prezzo di smercio, facendo aumentare i profitti e gli interessi per le organizzazioni criminali che ne organizzano e gestiscono i traffici”, spiega il sindacalista. Nel provvedimento del 2020, voluto dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per contrastare il crescente flusso di telefonini che si tenta di far entrare nelle carceri, è stato per la prima volta punito sia chi, dall’esterno, cerca di introdurre un telefono in carcere sia il detenuto che lo possiede. Quest’ultimo caso, fino ad allora, era trattato come illecito disciplinare e sanzionato all’interno dell’istituto. Con il decreto sicurezza approvato il 5 ottobre del 2020, è diventato un vero e proprio reato previsto dal nuovo articolo 391-ter del codice penale. Come prevedibile, non ha risolto nulla. Anzi, come ha ben spiegato De Fazio, il traffico dei cellulari è diventato ancora più redditizio. Non esistono dati ufficiali, ma fonti interne parlano di 3.606 cellulari sequestrati nel 2023. Gli ultimi dati ufficiali riguardano invece i primi 9 mesi del 2020: 1.761 gli apparecchi rinvenuti nelle carceri. Questi numeri confermano che il decreto Bonafede, nato con l’intento di scoraggiare il flusso di telefonini che si tenta di far entrare nelle carceri, è stato del tutto fallimentare. Soluzioni? Come sempre, è la liberalizzazione la risposta. L’associazione Antigone, da anni, in particolare a seguito dell’emergenza Covid, si è battuta affinché ci sia un intervento legislativo che aumenti sia il numero che la durata delle telefonate, e che soprattutto garantisca uniformità tra tutti gli istituti penitenziari sul territorio. Un’occasione persa si è avuta durante il governo Draghi, quando come ministra della Giustizia c’era Marta Cartabia. La liberalizzazione delle telefonate rientrava tra le proposte della commissione presieduta da Marco Ruotolo (ordinario di Diritto costituzionale nell’Università Roma Tre) voluta dalla guardasigilli. Tra le linee guida c’era appunto la “liberalizzazione” delle telefonate per i detenuti appartenenti al circuito di media sicurezza qualora non vi siano “particolari esigenze cautelari, per ragioni processuali o legate alla pericolosità”. In particolare, la proposta prevedeva la possibilità di acquistare al sopravvitto apparecchi mobili “configurati in maniera idonea e funzionale con le dovute precauzioni operative (senza scheda e con la possibilità di chiamare solo i numeri autorizzati) per evitare qualsiasi forma di utilizzo indebito”. Per cui il detenuto sarebbe libero di utilizzare l’apparecchio nei tempi e con le modalità indicate dall’Amministrazione (es. solo nella camera di pernottamento). “Ciò - si legge nella Relazione depositata inutilmente due anni fa - consentirebbe di alleggerire il sistema con evidenti benefici per coloro (e non sono pochi) che, non avendo disponibilità economiche, potrebbero chiamare gratuitamente avvalendosi delle video-chiamate con Skype o simili applicazioni, come già sta avvenendo”. La proposta avrebbe potuto risolvere anche l’annoso problema, legato alle difficoltà di verifica dell’intestazione dell’utenza telefonica, soprattutto per i detenuti stranieri. Le videochiamate potrebbero essere effettuate con i cellulari di recente acquistati dall’Amministrazione (3.200) o nelle sale attrezzate e videosorvegliate, già predisposte in diversi istituti, secondo le esigenze organizzative interne di ciascuno di questi. L’attuale ministro della Giustizia Nordio cosa ha fatto? Il decreto carcere, convertito in legge quest’estate, ha avuto l’intento di rispondere alla richiesta di un maggiore accesso alle telefonate, proveniente sia dal mondo carcerario che dalla società civile. Tuttavia, la nuova disposizione non chiarisce la questione e genera confusione. Vediamo perché. La norma prevede che, entro sei mesi, un decreto modifichi il regolamento di esecuzione per aumentare il numero di telefonate mensili da quattro a sei. Tuttavia, questa concessione appare insufficiente, limitandosi ad aggiungere solo due telefonate in più al mese. Inoltre, non si capisce perché sia necessario attendere una modifica regolamentare, quando la normativa primaria potrebbe intervenire subito, come già accaduto con l’art. 2 quinquies della Legge n. 70/2020, che aveva agito in situazioni di urgenza. Nel frattempo, fino all’adozione del nuovo decreto, è possibile autorizzare telefonate oltre i limiti attuali, come previsto dall’art. 39 comma 2 del Regolamento di esecuzione. Ma resta poco chiaro se ci si riferisca alle telefonate “ordinarie” (fino a sei al mese) o a quelle “straordinarie”, il cui numero sarebbe lasciato alla discrezionalità delle autorità competenti. Per ora, tutto è come prima, con il risultato dell’aumento del traffico illegale di telefoni cellulari. Nessun bambino può stare in carcere, neanche uno di Denise Amerini collettiva.it, 21 novembre 2024 Il carcere non è luogo dove nessun bambino, neanche uno, può stare, può vivere un’infanzia serena. Lì i bambini vedono il cielo attraverso finestre con le sbarre, al raggiungimento dell’età prevista subiscono un brusco allontanamento dalla madre, difficilmente sviluppano un rapporto positivo con le istituzioni. Il carcere non è luogo dove le madri possano vivere né sviluppare una genitorialità compiuta e serena. E non si può neanche pensare di separare i neonati dalle madri (per quel pensiero per cui alcune donne non rispondono allo stereotipo della buona madre), addirittura rispolverando concetti ormai superati come quello della patria potestà, abolita da 50 anni. Ce lo ricorda la Corte europea dei diritti dell’uomo. L’appello della società civile - Per questo oltre 100 esponenti e organizzazioni della società civile hanno lanciato l’appello, raccolto anche da parlamentari dell’opposizione, affinché una norma del disegno di legge sicurezza che peggiora notevolmente le condizioni delle donne detenute con figli a carico, non passi. Appello che è stato rilanciato nell’evento “No al carcere per le donne incinte. Ogni bambino e ogni bambina ha il diritto di nascere in libertà”, che si è tenuto al Senato. La norma in questione, una volta approvata, renderebbe facoltativo il rinvio della pena per le donne madri di figli fino a un anno di età, e per le donne in stato di gravidanza, consentendo, per la prima volta, l’ingresso in carcere alle donne incinte. Dare affettività - Nella scorsa legislatura era stata presentata una proposta di legge, primo firmatario l’onorevole Siani, che la Cgil ha sostenuto anche con iniziative pubbliche, per normare e dare effettività alle case famiglia per le madri in carcere con i loro bambini. Si tratta di strutture già previste dal nostro ordinamento, ma che non sono mai state realizzate, tranne una a Roma e una a Milano, perché non sono stati previsti finanziamenti. La proposta è stata poi ritirata per la mole di emendamenti, tutti assolutamente peggiorativi, presentati dalle forze di maggioranza. Istituti a custodia attenuata - Esistono, per accogliere le madri con i loro bambini, gli Icam, Istituti a custodia attenuata, quattro in tutta Italia, che però, per come sono strutturati e organizzati, sempre carceri restano, seppur più dignitosi e più belli. Il principio che ci ha sempre guidato, nelle nostre elaborazioni, nelle nostre iniziative, è che il carcere debba essere l’estrema ratio sempre, in ogni caso, e che nessun bambino dovrebbe mai stare in carcere, superando sia gli Icam che le sezioni nido interne al carcere. Passi indietro - Oggi con il ddl Sicurezza si torna invece indietro persino rispetto al codice Rocco, di epoca fascista, con una norma che rivela una chiara matrice di stampo etnico e razzista. Abbiamo purtroppo sentito tutti le affermazioni da parte di autorevoli esponenti del governo, secondo i quali finalmente si andranno a colpire le donne Rom “abili borseggiatrici che si fanno mettere incinta solo per continuare la loro attività”. Questo, nonostante i pronunciamenti della Corte Costituzionale e delle convenzioni internazionali, che tutelano sempre il primario interesse del bambino. Principi universalmente riconosciuti - Ricordiamo l’art. 3 comma 1 della convenzione delle Nazioni unite sui diritti del fanciullo, e l’art. 24 comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In entrambi si dice che l’interesse superiore del bambino deve essere sempre preminente, in ogni atto compiuto da autorità pubbliche, istituzioni private, tribunali, autorità amministrative, organi legislativi. Ogni bambino e ogni bambina ha diritto a una infanzia serena, a possibilità di crescita e relazioni sane, e, proprio per il senso e il significato che la Costituzione attribuisce alle pene, alle donne deve essere garantita la possibilità di essere madri nel modo migliore. Abbiamo sostenuto il diritto all’affettività delle persone ristrette, e in questo senso si è espressa la Corte Costituzionale a gennaio scorso. Ma anche in questo caso è passato un anno e nulla è stato fatto. Vivere la gravidanza in carcere - Oggi per la prima volta con la non differibilità obbligatoria della pena, si consentirebbe l’ingresso in carcere anche alle donne incinte, come se vivere la gravidanza in carcere potesse essere un’esperienza serena, come se non sapessimo lo stato in cui versano quei luoghi, lo stato della sanità penitenziaria, con la riforma del 2008 che ancora non è compiutamente applicata. Non è difficile immaginare cosa potrebbe succedere se una donna incinta si dovesse trovare di fronte a un evento di parto improvviso o se avesse problemi durante il parto. Opporsi strenuamente - È necessario opporsi strenuamente al ddl Sicurezza e a questa norma del disegno di legge. Lo chiediamo alle realtà della società civile, dell’associazionismo, al mondo accademico, a tutti i soggetti che hanno condiviso con la nostra organizzazione “La Via Maestra” in difesa della Costituzione e dei valori che ispirano la nostra Carta fondamentale. Chiediamo a tutti coloro che non vogliono arrendersi e che credono che una società migliore e più giusta sia possibile di impegnarsi attivamente perché si conosca quanto il governo intende fare con il disegno di legge sicurezza, perché non passi. Anche per questo saremo in piazza il 29 novembre, per una società migliore e più giusta, dove i diritti di ogni persona, soprattutto di chi è più debole e fragile, siano garantiti. Deserto il bando per i nuovi Comandanti in cinque Istituti penali per i minorenni d Luca Bonzanni Avvenire, 21 novembre 2024 Nessuno si candida per i posti dirigenziali a Roma, Bologna, Treviso, Pontremoli e Catanzaro. La Uil: è il segno delle carenze anche organizzative. Roma, Bologna, Treviso, Pontremoli, Catanzaro. Solo in quei cinque istituti penali per minorenni (Ipm), ci sono oltre 150 giovanissimi, in bilico sul sottile filo tra la speranza di un futuro diverso e un presente spesso scavato dalle tensioni. Le difficoltà della giustizia minorile sono raccontate dai dettagli: per queste cinque carceri non si trovano comandanti della Polizia penitenziaria, nessun funzionario ha presentato domanda per quei posti vacanti. È nero su bianco in una nota del dipartimento di Giustizia minorile e di comunità inviata ai sindacati di Polizia penitenziaria, che Avvenire ha potuto visionare: in estate il ministero aveva avviato le “procedure di acquisizione di disponibilità per gli incarichi di comandante” negli Ipm di Roma, Bologna, Treviso, Pontremoli e Catanzaro, ma “purtroppo i predetti interpelli si sono conclusi senza alcuna domanda di partecipazione da parte dei funzionari del corpo di Polizia penitenziaria”. È l’ulteriore segnale di come questo ramo della giustizia viva una fase di costante fatica, anche nel personale. La stessa nota del Dipartimento cita il “particolare momento che stanno attraversando gli istituti penali peri minorenni”: e dunque, “atteso che non sono pervenute istanze di manifestazione di disponibilità a ricoprire l’incarico di comandante di reparto dei predetti istituti, lasciando vacanti i posti per tale incarico”, è stato chiesto al Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) di “effettuare con urgenza una ricognizione a livello nazionale estesa alla qualifica dei commissari capo e al ruolo degli ispettori per l’attribuzione provvisoria dei predetti incarichi”. In altri termini, si proverà a cercare disponibilità anche tra chi ha un grado più basso, così da affidare a loro una direzione temporanea, in attesa di tempi migliori: accadrà probabilmente per il prossimo giugno, al termine dell’ultimo corso di formazione per neo-commissari. Perché nessuno ha fatto domanda, finora? La mancanza di candidature, osserva Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil Polizia penitenziaria, “è il segno di carenze anche organizzative. È vero che c’è un’insufficienza organica in tutti i ruoli, compresi quelli dirigenziali, ma molto spesso si sceglie di impiegare queste figure negli uffici e non nelle carceri”. Mancano agenti e funzionari, mancano anche gli educatori, mentre la popolazione delle carceri minorili continua a crescere. I dati ufficiali del ministero aggiornati a metà ottobre indicano 555 reclusi negli Ipm, contro i 463 che si contavano a metà ottobre 2023 (+19,9% in un anno) e i 392 di metà ottobre 2022 (+41,6% in due anni). Soprattutto, aumentano gli adolescenti: negli Ipm possono teoricamente restare anche i “giovani adulti”, i ragazzi dai 18 ai 24 anni, ma nell’ultimo biennio è esplosa e oggi sono 42 contro i 24 del 2022, +75% e dei 16-17enni (dai 163 del 2022 ai 295 attuali, +81%). A oltre un anno dal Decreto Caivano e dall’escalation dei reclusi, il ministero della Giustizia sta approntando un piano per aprire (o riaprire) altre quattro carceri minorili tra L’Aquila, Lecce, Rovigo e Santa Maria Capua Vetere per rispondere all’espansione dei numeri. Per farlo servirebbe anche più personale, in teoria, ma il personale già oggi pare quantitativamente insufficiente: “Peri comandanti il problema dovrebbe tendenzialmente mitigarsi nei prossimi mesi, perché si sta svolgendo un corso di formazione per funzionari che porterà a immissioni in ruolo nel 2025 - riconosce De Fazio -. Rimane però il problema complessivo degli organici: quando col Decreto Carceri si annunciavano mille nuovi agenti in più, segnalammo che non sarebbero stati sufficienti neanche per garantire il turnover. E negli Ipm la situazione è amplificata, perché rispetto agli adulti c’è una forbice numerica enorme”. Il sovraffollamento, stando all’ultimo dossier del Garante nazionale dei detenuti, riguarda 6 dei 16 Ipm maschili ed entrambi gli Ipm femminili. Intanto i “giovani adulti” tracimano dai minorili alle carceri per adulti: “Le carenze d’organico riguardano anche gli educatori - aggiunge Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone e responsabile dell’Osservatorio minori dell’associazione. Il progetto del governo sembra sia quello di smantellare le specificità che la giustizia minorile ha da 35 anni, la capacità di guardare al singolo ragazzo e all’approccio educativo, mentre da ogni parte giunge un messaggio di criminalizzazione e sulla necessità di gestire i minori con la stessa durezza che si ha con gli adulti”. La giustizia e le leggi di “interpretazione autentica” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 21 novembre 2024 Colpisce che il metodo di questi interventi legislativi venga ignorato o accolto senza grandi reazioni dall’opinione pubblica. Sulle leggi di “interpretazione autentica” - nelle quali cioè il legislatore, per ovviare a una situazione di pretesa incertezza giuridica, impone che una certa norma sia interpretata dai magistrati secondo un significato selezionato tra i vari possibili - si può sostenere tutto e il contrario di tutto, visto che negli anni i giuristi dei più vari orientamenti, scervellandosi sul sottile confine con l’intromissione abusiva e sostanzialmente retroattiva nello svolgimento dell’amministrazione della giustizia, hanno via via definito queste leggi “rapsodiche” (Verde), “labirintiche” (Pugiotto), “Torre di Babele” (Antonini). Ma almeno una cosa non si può far finta di non vedere nell’emendamento di interpretazione autentica delle norme urbanistiche oggi in approvazione alla Camera, così come pochi mesi fa nell’altra legge di interpretazione autentica “paracadutata” per timbrare la natura pubblica anziché privata della Fondazione Milano-Cortina 2026: non si può far finta di non vedere la (persino dichiarata) volontà di sterilizzare l’inchiesta milanese sulle tacite deroghe alla legge urbanistica incoraggiate per anni dal Comune di Milano per favorire il “dinamismo” di costruttori e investitori, esattamente come in estate il proposito di circoscrivere sul nascere l’altra indagine appena avviata sul comitato organizzatore delle Olimpiadi invernali. Un identico schema azione-reazione sta del resto carburando le nuove norme (già fatte per decreto o in via di attuazione) sullo spostamento delle competenze delle sezioni immigrazioni fra Tribunali e Corti d’Appello (dopo le sentenze sgradite a Roma, Bologna e Catania sui trattenimenti in Albania), o sulla centralizzazione al Tribunale di Roma di tutti gli appelli contro i sequestri di aziende di interesse strategico nazionale (dopo i sigilli a Siracusa al depuratore di Priolo e il lungo contenzioso sull’Ilva di Taranto). E se sul merito dei singoli temi a volte si sviluppa un minimo di attenzione, colpisce invece che il metodo di questi interventi legislativi a gamba tesa venga dall’opinione pubblica o ignorato o accolto con reazioni di intensità nemmeno lontanamente paragonabili a quelle suscitate dalle leggi “ad personam” nell’era Berlusconi. Forse non è solo perché quelle erano vissute come lontani favori dall’alto, che l’allora legislatore faceva a se stesso o al proprio entourage, mentre le odierne leggi “ad personas” (come ad esempio anche tutti i vari provvedimenti agevolativi di chi non ha pagato le tasse, o la recente abolizione dell’abuso d’ufficio, o le norme derogatorie alla sicurezza del lavoro e dell’ambiente per dare priorità alle attività industriali battezzate di “interesse strategico nazionale”) sorridono a intere corporazioni, a ben individuati e coltivati blocchi sociali, a robuste categorie di operatori economici. Forse è anche effetto dell’inconsapevolezza - nei cittadini appartenenti agli altri blocchi sociali - non soltanto di non essere tra i beneficiati da queste tutele legislative, ma di esserne anzi penalizzati nella quotidianità della propria (dis)eguaglianza: ad esempio quando sarà la loro impresa a essere tagliata fuori da una commessa affidata a un “amico degli amici” grazie all’assenza di gara in un ente decretato per legge “privato”; o quando sará il loro figlio a essere preso in giro dopo anni di studi in un concorso universitario truccato o in una selezione di personale in cui il curriculum (senza più abuso d’ufficio) valga come carta igienica; o quando davanti alla luce della propria finestra spunterà come un fungo un quasi grattacielo “regolarizzato” a posteriori da una norma urbanistica di interpretazione autentica. Ed é indirettamente questa inconsapevolezza dei cittadini a rendere non più tabù anche ciò che fino a pochi anni fa un po’ tabù era ancora. E cioè chiedere ai magistrati “responsabilità” nelle scelte, in realtà per pretendere che stiano bene attenti a considerare, più dei torti e ragioni, i rapporti di forza tra chi ha torto e chi ha ragione; invocare il valore della “prevedibilità” delle loro decisioni, in realtà per ottenere che i tempi di un’indagine siano scanditi in modo da non interferire con i tempi di marcia di opere pubbliche o eventi internazionali; invitare le toghe alla “sobrietà”, in verità per invitarle ad agire intimorite dai possibili contraccolpi personali delle proprie decisioni; e additare il corretto criterio della “proporzionalità”, in realtà per indurre i magistrati a subordinare le proprie decisioni alle supposte “compatibilità” della contingenza economica e a farsi condizionare dalla ricerca di sintonia con le supposte aspettative sociali. La magistratura alza il muro contro il limite alle intercettazioni di Valentina Stella Il Dubbio, 21 novembre 2024 In Commissione alla Camera il niet delle toghe contro la proposta di legge Zanettin: “Pericolosa”. Le obiezioni: limite inferiore a quello massimo di durata delle indagini preliminari. Iniziate ieri in Commissione giustizia della Camera le audizioni in merito alla proposta di legge “Modifiche alla disciplina in materia di durata delle operazioni di intercettazione”. La norma, a prima firma del senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, è già stata approvata a Palazzo Madama lo scorso 9 ottobre, con i voti della maggioranza e di IV. Al momento né il regime ordinario (267, comma 3, cpp durata massima delle operazioni di 15 giorni, prorogabili per periodi successivi di 15 giorni) né il regime speciale (reati di criminalità organizzata) delle intercettazioni prevedono un limite massimo di durata delle operazioni; limite che la proposta di legge in esame introduce, invece, in rapporto al solo regime ordinario. Si compone, infatti, di un solo articolo per cui “le intercettazioni non possono avere una durata complessiva superiore a 45 giorni, salvo che l’assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione”. Come concordato in un vertice di maggioranza a via Arenula a fine ottobre, la disciplina non si applicherà ai reati di Codice Rosso, così come già avviene per i reati di mafia e terrorismo. Il primo ad essere ascoltato il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia: “La norma ha degli aspetti di poca chiarezza rispetto alla proroghe che possono essere predisposte”, ha spiegato il consigliere di Cassazione. E ha aggiunto: “Il disegno di legge vuole evitare ascolti improduttivi, ma è una prospettiva fuori asse. Il fatto che non emerga nulla non significa far venir meno l’assoluta indispensabilità sul piano logico delle captazioni. Anzi, può significare esattamente il contrario”. Per l’Anm intervenuto anche il pubblico ministero Enrico Infante: “Ci sono tantissimi reati per cui gli elementi di prova sono emersi ben dopo i 45 giorni, e sono emersi soltanto grazie alle intercettazioni. È incredibile che per l’omicidio non vi sia una deroga - perché la deroga è prevista per i reati di criminalità organizzata - ma non c’è la deroga per tutti i reati di quell’articolo 407, comma 2 lettera A - rapine aggravate, estorsioni aggravate, omicidi -. Banalmente, quante volte è successo che di fronte ad un omicidio la polizia giudiziaria e la Procura brancolassero nel buio e solo l’intercettazione non per 15 giorni, non per 30, ma per mesi del nucleo delle persone gravitanti sulla vittima abbia permesso dopo quattro mesi di intercettazione l’ipotesi di sciogliere il bandolo della matassa? Qui rischiamo di lasciare impuniti proprio reati così gravi. E non c’è solo l’omicidio, anche il sequestro di persona. Quante volte i sequestratori si sono messi in contatto con la famiglia della vittima ben dopo il 45esimo giorno?”. Approvare la norma, per Infante, significherebbe “dire ai criminali incalliti, esperti, che conoscono l’ordinamento: “se sequestri una persona, per i primi 45 giorni non prendere contatto per il riscatto con la famiglia della vittima. Aspetta almeno il 46esimo giorno”. Poi è toccato al Procuratore nazionale e antiterrorismo, Giovanni Melillo, per il quale “l’aspetto più difficilmente comprensibile del disegno legge è il disallineamento tra termini massimi per le indagini preliminari e i termini di intercettazione”, ha osservato il responsabile di via Giulia, ricordando che di frequente le indagini per reati che non rientrano nella deroga sono “complesse” anche dal punto di vista tecnico, basti pensare al tempo che occorre per le traduzioni dal cinese, albanese, nigeriano che spesso necessitano più di 45 giorni. In un’epoca caratterizzata dalla “digitalizzazione - ha proseguito -, disciplinare i tempi delle attività di intercettazioni, che sono ormai quasi sempre telematiche, davvero si risolve in una incomprensibile compressione delle scelte investigative”. Inoltre “l’area protetta dall’impatto applicativo della norma è un’area troppo ristretta perché le indagini in materia di mafia e terrorismo si nutrono anche delle indagini su delitti che esorbitano dall’area derogatoria prevista e che sarebbe necessario allargare. La mia proposta è estendere l’area derogatoria almeno a tutti i delitti di cui all’articolo 407 comma 2 lettera A, non senza considerare che i delitti di cui alla lettera B presenterebbero spesso le stesse esigenze. Io credo che l’ampliamento dell’area derogatoria consenta di riconoscere dei margini di ragionevolezza dello sforzo, pure apprezzabile, di estendere la protezione dei diritti individuali. Altrimenti il sistema processuale e delle indagini vivrà contraddizioni e rischi di paralisi continua che non sembra davvero consono, razionalmente e ragionevolmente giustificarsi”. Intervenuto anche Pasquale Fimiani, avvocato generale presso la Corte di Cassazione: per quanto concerne gli elementi specifici e concreti si tratta di “una normativa che si presta a due opzioni interpretative e questo potrebbe avere delle ricadute sull’uniforme esercizio dell’azione penale”. Infine anche Gianluigi Gatta, professore di diritto penale presso l’Università degli Studi di Milano, ha sollevato delle criticità, pur riconoscendo che “la proposta di legge muove verosimilmente da nobili ragioni garantiste (non esplicitate peraltro nella relazione illustrativa)”. In particolare, “la fissazione di un limite massimo di durata delle intercettazioni, ben inferiore rispetto al limite massimo di durata delle indagini preliminari, pone a mio avviso problemi dal punto di visto della coerenza del sistema e della ragionevolezza”. Per Gatta, che è stato consigliere speciale dell’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia, “se la legge consente di compiere atti di indagine fino a due anni, in ragione della gravità del reato o della complessità delle indagini (v. art. 407 c.p.p.), sembra irragionevole limitare nell’arco di questi due anni a soli 45 giorni un mezzo di ricerca della prova come quello delle intercettazioni; tanto più che si tratta notoriamente, in presenza di indagini complesse, di uno dei più efficaci messi di ricerca della prova. È come dire a uno scienziato che sta compiendo una complessa ricerca per individuare una possibile e grave malattia: puoi farlo per due anni, ma puoi usare il microscopio solo per un mese e mezzo”. Da 6 mesi a 3 anni di carcere per chi uccide un animale senza motivo: ecco la nuova legge di Alessandro Sala Corriere della Sera, 21 novembre 2024 Brambilla: “Storico”. Via libera alla Camera, il testo passa al Senato. Salgono le sanzioni per tutte le fattispecie di reato. L’uccisione non necessaria di un animale sarà punita con la reclusione da 6 mesi a 3 anni, che possono salire a quattro se questa avviene “con sevizie o prolungandone volutamente le sofferenze”. In altre parole, per la prima volta si apre la possibilità per i responsabili di tali azioni di finire davvero in carcere, considerando che le pene fino a tre anni non comportano una reale detenzione. È una delle principali novità della proposta di legge sul maltrattamento degli animali, che porta la prima firma di Michela Vittoria Brambilla, deputata di Noi Moderati e presidente dell’Intergruppo parlamentare per i diritti degli animali, approvata oggi dall’Aula della Camera con 101 voti a favore e 95 astenuti, oltre a 2 soli contrari. Si tratta di un primo ma importante passo, anche perché tra le diverse modifiche che il testo punta ad introdurre nell’ordinamento, incentrate su inasprimenti di pene per le diverse fattispecie, è prevista una modifica sostanziale anche dal punto di vista concettuale: il titolo del Codice penale che raccoglie questi reati non sarà più “Dei delitti contro il sentimento dell’uomo per gli animali”, che sostanzialmente tutelava le persone dando valore alla loro empatia e alla loro pietas nei confronti di altri esseri viventi, ma diventerà “Dei delitti contro gli animali”, che li trasforma di fatto in soggetti e non più semplicemente oggetto del diritto. Una rivoluzione quasi filosofica, anche se nel Codice civile continueranno ad avere lo status di “res”, ovvero di cose, con tutto quello che ne consegue a livello di tutela legale, ma questo cambiamento potrà agevolare in futuro un’armonizzazione. Le nuove norme aumentano dunque le pene con l’obiettivo di accrescere la deterrenza. “Sappiamo bene che alla base di tanti delitti commessi contro gli animali c’è una diffusa percezione di impunità - commenta l’on. Brambilla -. Ora tutto questo cesserà e nei casi più gravi ci sarà la reale prospettiva del carcere. Per numero e importanza degli articoli modificati, si tratta senza dubbio della riforma più incisiva da decenni su questa materia, una riforma per cui mi batto da quattro legislature e che finalmente inizia a vedere la luce. Un atto doveroso che risponde alle istanze di tante associazioni ambientaliste e animaliste e soprattutto di tutti gli italiani che amano gli animali e vogliono vederli rispettati”. Le pene aumenteranno in tutte le situazioni di violenza nei confronti degli animali. Nel caso del maltrattamento senza uccisione le pene salgono fino a 2 anni, con un minimo di 6 mesi, accompagnati da una multa tra i 5 e i 30 mila euro che oggi è invece alternativa alla reclusione. La multa in caso di uccisione dell’animale è invece raddoppiata e andrà da 10 a 60 mila euro. Raddoppia anche la sanzione pecuniaria massima per chi organizza spettacoli e manifestazioni “con sevizie e strazio per gli animali”, che passa da 15 a 30 mila euro. Aumentano poi le pene per la violazione del divieto di combattimenti o competizioni clandestine tra animali: la detenzione sale anche in questo caso fino ad un massimo di 4 anni, quindi con possibilità di carcerazione. Passerà guai anche chi partecipa a qualsiasi titolo a questi eventi, con condanne da 3 mesi a 2 anni e multe tra i 5 e i 30 mila euro. Diventano poi perseguibili d’ufficio l’uccisione o il danneggiamento degli animali altrui, con pene che pure qui arrivano fino a quattro anni, a cui potrà essere aggiunta una sanzione da 10 a 60 mila euro. Vengono inoltre estese le misure di prevenzione previste dal codice antimafia anche ai soggetti abitualmente dediti all’organizzazione dei combattimenti o al traffico di cuccioli. Per quest’ultimo è previsto un aumento delle pene fino a 18 mesi con multa fino a 30 mila euro. Sono poi stabilite nuove aggravanti per tutti i reati se i fatti sono commessi alla presenza di minori, nei confronti di più animali o se il fatto viene poi documentato e diffuso via web, come avvenuto in recenti casi di cronaca come quello della capretta di Anagni maltrattata durante una festa in un agriturismo o del gatto gettato “per divertimento” da un cavalcavia a Lanusei. A livello nazionale viene introdotto il divieto di tenere cani o altri animali alla catena, già previsto da alcune leggi regionali, con sanzioni da 500 a 5 mila euro. Su questo punto le opposizioni avrebbero voluto eliminare le eccezioni previste, considerate peggiorative rispetto a quanto previsto da alcune Regioni dove il divieto è più rigido. Aumentano le pene in caso di uccisione, cattura e detenzione di animali di specie protette con un passaggio di quelle massime a un anno, con ammenda raddoppiata a 8 mila euro. Si inasprisce anche la punizione per la distruzione e il deterioramento di habitat in siti protetti, essendo la tutela della biodiversità fondamentale per la sopravvivenza della fauna selvatica, oltre che oggetto di tutela introdotto due anni fa nella Costituzione, per cui si prevede l’arresto da 3 mesi a 2 anni (prima il tetto era 18 mesi), con raddoppio dell’ammenda fino a 6 mila euro. Infine un punto su cui è stata registrata l’unanimità dell’aula, ovvero l’aumento delle pene pecuniarie previste dall’art 727 per l’abbandono o la detenzione degli animali in condizioni incompatibili, che passano a un massimo di 10 mila euro con un minimo di 5 mila, che in combinazione con le nuove norme del Codice della strada che prevede una pena maggiore in caso di abbandoni sulle strade o nelle loro pertinenze (rientranze, aree di sosta, svincoli) porta l’ammenda minima a poco meno di 7 mila euro. “Questo - sottolinea ancora Brambilla - è il cambiamento che in molti attendevano, credo che se ne coglierà presto la portata. Alla percezione di sostanziale impunità, che accompagna chi commette crimini contro gli animali, corrisponde un sentimento di profonda indignazione in ampi settori dell’opinione pubblica, di tutti gli orientamenti politici e culturali, un sentimento che non era e non è possibile ignorare. A chi invece sogna l’impunità, e qualcuno c’è anche nell’Aula della Camera, solo perché le vittime sono animali e non possono parlare, dico che continui a sognare o si trasferisca in un altro Paese, perché qui per l’impunità non c’è più spazio”. Napoli. Detenuto 28enne suicida a Poggioreale: è il quarto caso da inizio anno dire.it, 21 novembre 2024 Suicidio nella notte nel carcere napoletano di Poggioreale. A togliersi la vita un giovane di 28 anni, originario della provincia di Napoli. Quest’ultimo è il quarto suicidio dall’inizio dell’anno nel penitenziario partenopeo, l’11esimo in Campania, l’81esimo in Italia. Con il carcere di Prato quello di Poggioreale è al primo posto per numero di suicidi. “Il sistema penitenziario è sull’orlo del baratro, una strage continua ma la politica tace ed è assente”. Così il Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello che aggiunge: “Nessun argine da provvedimenti governativi o parlamentari, solo populismo mediatico e penale anche contro la dignità delle persone detenute, dei diversamente liberi. Celle sovraffollate e tensione alle stelle, condizioni difficili che favoriscono atti di autolesionismo, scioperi della fame, scioperi sanitari. Nessun commento pubblico sui suicidi di Stato, che interrogano anche l’opinione pubblica. Ci sono omissioni di Stato, questi suicidi e gli atti di autolesionismo e le proteste rilevano un quadro inquietante che è sotto gli occhi di tutti. Indignarsi non basta più”. Dall’inizio dell’anno ad oggi, riporta Ciambriello, sono 1.842 i tentativi di suicidio, 11.503 gli atti di autolesionismo. L’età media degli 81 detenuti che si sono suicidati è di 40 anni, tra questi 8 avevano un’età compresa tra i 18 e 25 anni. Trapani. Torture e violenze sui detenuti, 46 indagati. Ai domiciliari undici agenti di Emilio Minervini Il Dubbio, 21 novembre 2024 Il Pd chiede un’informativa urgente a Nordio. Sono scattate all’alba le perquisizioni, disposte dal gip di Trapani Gabriele Paci, a carico di quarantasei persone, accusate per le violenze perpetrate all’interno delle mura della Casa circondariale “Pietro Cerulli”. L’operazione ha portato all’arresto di undici agenti di Polizia penitenziaria, colpiti dalla misura cautelare degli arresti domiciliari, e alla sospensione dal servizio per altri quattordici agenti. L’ordinanza è stata eseguita dal Nucleo investigativo regionale della Polizia penitenziaria di Palermo sotto la coordinazione del Nucleo investigativo centrale. Gli addebiti per i venticinque indagati sono di tortura, abuso di autorità contro detenuti, calunnia nei confronti di persone recluse e falso ideologico. Secondo quanto dichiarato dagli investigatori, è emerso un “modus operandi diffuso consistente in violenze fisiche ed atti vessatori nei confronti di alcuni soggetti detenuti, condotte peraltro reiterate nel corso del tempo e messe in atto in maniera deliberata da un gruppo di agenti penitenziari”. Il procuratore di Trapani Gabriele Paci ha descritto alcune delle pratiche di cui sono accusati gli agenti: “I detenuti venivano fatti spogliare e diventare bersaglio di getti d’acqua mista a urina. I detenuti in isolamento con problemi psichiatrici e psicologici venivano condotti nel reparto blu, ora chiuso per carenze igienico sanitarie e subivano violenze e torture. Parte degli agenti agiva con violenza sistematica per assicurare l’ordine all’interno della casa circondariale”. Le attività d’indagine hanno avuto inizio nel 2021 a seguito delle denunce, eseguite da persone ristrette, di torture e abusi perpetrati dal personale di sicurezza in luoghi non coperti dagli impianti di videosorveglianza. A seguito delle querele, gli inquirenti hanno installato le telecamere nei posti privi di copertura e sono così riusciti a immortalare e documentare le condotte criminali reiterate dagli agenti della penitenziaria. “Ci auguriamo che venga fatta piena chiarezza su quanto accaduto riconoscendo in sede d’indagini e processuale le eventuali responsabilità - dichiara Pietro Gonnella, presidente di Antigone -. Non possiamo però che esprimere soddisfazione nel sapere che all’interno dell’Amministrazione penitenziaria ci siano professionalità in grado di far respirare le persone detenute riconoscendo i loro diritti”. Le forze di opposizione attaccano, anche a seguito delle dichiarazioni del sottosegretario Andrea Delmastro sul trattamento dei detenuti, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha preferito il silenzio. “Chiediamo una informativa urgente del ministro Nordio sui gravissimi fatti avvenuti nel carcere di Trapani con accuse molto gravi di tortura e sistemi di detenzione che superano la legalità - ha dichiarato Debora Serracchiani, deputata e responsabile nazionale Giustizia del Pd durante il suo intervento in aula -. Questi episodi sporcano il lavoro durissimo che correttamente svolgono quotidianamente le donne e gli uomini della polizia penitenziaria con senso del dovere e svolgendo mansioni che spesso neppure gli competono. Noi chiediamo che venga fatta chiarezza in primo luogo in aula dal ministro Nordio oppure dal sottosegretario Delmastro che ha la delega al dipartimento penitenziario, magari evitando che lo facesse con intima gioia”. La notizia delle violenze di Trapani arriva a sei giorni dall’ultima rivolta del carcere Regina Coeli e lo stesso giorno in cui viene raggiunta quota ottantuno suicidi all’interno dei penitenziari italiani, con il suicidio del ventottenne Ben Mahmud, impiccatosi nella sua cella della Casa circondariale di Marassi a Genova. Trapani. Il Garante: “Sistema malato voluto dal Governo, i detenuti vengono visti come scarti” di Irene Carmina La Repubblica, 21 novembre 2024 “Ciò che è accaduto nel carcere di Trapani non è un caso: è il risultato di una propaganda al veleno fatta ogni giorno dalle istituzioni, che alimenta un clima di odio nei confronti di chi sta scontando una pena”. Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo, commenta così la notizia dei 46 agenti di polizia penitenziaria indagati per tortura a danno di un gruppo di detenuti del Cerulli. “Sono sgomento, è ora di invertire la rotta e di smettere di credere alla storiella dei detenuti caduti dalle scale: dietro un braccio rotto o un livido in faccia, quasi sempre, c’è un atto di violenza”. Perché accadono fatti del genere? “Chieda a Delmastro. Secondo lei è normale che un sottosegretario alla Giustizia, riferendosi ai detenuti, usi la frase “non lasciamoli respirare”? Parole così legittimano la violenza, acuiscono l’odio, giustificano un sistema carcerario malato in cui il detenuto è visto come uno scarto della società che vive in condizioni disumane di sovraffollamento, di mancanza di tutela della salute e di affettività. E, in tutto ciò, la sola cosa che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è riuscito a fare è parlare di un nucleo speciale antisommossa. La strada indicata dal governo è la repressione, non la riabilitazione”. Lei conosce le carceri siciliane da dentro. Quanto è frequente l’uso della violenza nei penitenziari? “Abbastanza da riguardare tutte le carceri italiane, non solo quelle siciliane, specie nelle zone senza telecamere. L’eccezione non è la violenza in carcere, semmai il fatto lodevole che ci sia un’indagine in corso. Il problema è che la formazione della polizia penitenziaria si basa su principi punitivi. Così, basta uno sguardo per suscitare reazioni violente e spropositate. Ai detenuti non è concesso rivendicare i propri diritti in carcere: sono invisibili e devono tacere. Per fortuna, generalizzare è sempre sbagliato e ci sono agenti di polizia penitenziaria che si comportano in modo esemplare. Come le agenti donne del reparto femminile del Pagliarelli”. Nel caso di Trapani, i detenuti non sono rimasti in silenzio: hanno denunciato... “Denunciare è l’unica via per estirpare dal carcere le condotte deviate. Esorto sempre i detenuti a parlare, durante i colloqui che svolgo con loro quasi quotidianamente all’Ucciardone e al Pagliarelli. Se c’è una notizia di reato, denuncio. È un obbligo di legge e un dovere morale”. L’ultima volta che ha denunciato un caso di violenza in carcere? “Di recente, dopo una visita all’Ucciardone con Ilaria Cucchi”. È stato anche al carcere di Trapani? “Lo conosco bene, ci andavo quando ero presidente di “Antigone”. Mi colpì il degrado e la fatiscenza della struttura: nelle celle di isolamento non c’era pavimentazione, ma terra battuta e, vicino al gabinetto, un buco da cui uscivano i topi. Ma vennero fatti degli interventi e sistemarono le celle. Certo è che vivere nel degrado non aiuta a stabilire un clima sereno. Il carcere è un inferno”. Lo è anche per gli agenti di polizia penitenziaria? “Sicuramente, ci vorrebbe maggiore attenzione anche nei loro confronti. La polizia penitenziaria è sottodimensionata e sottorganico. All’Ucciardone, ad esempio, manca il venti per cento dell’organico. Pensi a un agente che ha che fare con una sezione di tre piani di notte. Non è facile. Non a caso, i suicidi in carcere riguardano sia i detenuti che gli agenti in servizio”. Intravede soluzioni? “Ripensare il sistema carcerario, puntando sulla riabilitazione. Riconoscere i diritti dei detenuti, a partire da quello alla salute che è di fatto calpestato. Garantire l’affettività che è spesso ciò che tiene in vita i detenuti. Pene alternative ai tossicodipendenti, che non traggono alcun beneficio del carcere. E formare correttamente gli agenti di polizia penitenziaria. Se ciò non avverrà, tra pochi anni i detenuti da 62mila diventeranno 65mila e le morti sospette in carcere continueranno ad aumentare”. Catanzaro. Detenuto morto nel carcere, la famiglia denuncia: “Sul corpo lividi e ferite” di Simona Berterame fanpage.it, 21 novembre 2024 L’autopsia sul corpo del detenuto Domenico Ivan Lauria servirà a chiarire cosa è davvero accaduto il 15 novembre all’interno del carcere di Catanzaro. L’avvocato della famiglia a Fanpage.it: “Il corpo del ragazzo presentava evidenti ematomi e ferite da taglio oltre che parti del corpo sanguinanti”. Quando la mamma di Domenico Ivan Lauria, detenuto morto nel carcere di Catanzaro, ha visto il corpo di suo figlio non poteva credere ai suoi occhi. Poche ore prima (circa alle ore 23 del 15 novembre 2024) aveva ricevuto la telefonata che nessun genitore è mai pronto a ricevere: “Signora Lauria suo figlio si è sentito male ed è deceduto”. Da Messina la famiglia Lauria si è precipitata a Catanzaro ma le condizioni di Domenico sono sembrate subito sospette. “Aveva ematomi e tagli su tutto il corpo - racconta una parente presente insieme alla mamma del ragazzo deceduto - abbiamo quindi deciso di scattare diverse fotografie e presentare una denuncia. Le condizioni di quel corpo non possono essere compatibili con un semplice malore”. Il giorno seguente la mamma di Domenico presenta un esposto allegando gli oltre 60 scatti sul corpo del figlio. Il sospetto della famiglia è che il ragazzo possa essere stato malmenato e che le percosse abbiano provocato un arresto cardiocircolatorio. Domenico Ivan Lauria aveva 28 anni compiuti neanche un mese prima, era soggetto tossicodipendente, invalido civile al 75 % con gravi problemi di salute mentale accertati anche da consulenti d’ufficio nominati nei vari procedimenti penali. Ora sarà l’autopsia a fare luce su quanto è accaduto davvero a Domenico. Dopo la denuncia presentata dalla famiglia Lauria, la Procura di Catanzaro ha avviato infatti una serie di accertamenti per capire davvero cosa è accaduto al detenuto e il primo passo sarà l’esame autoptico previsto per la giornata odierna. “Secondo i certificati medici - ci spiega l’avvocato della famiglia Pietro Ruggeri - Domenico sarebbe deceduto per ‘tossicodipendenza inveterata da cocaina oppiacei ed abuso alcolico 2 insufficienza cardiocircolatoria criptogenetica e arresto cardiocircolatorio’. Eppure - sottolinea ancora il legale - il corpo del ragazzo presentava evidenti ematomi e ferite da taglio oltre che parti del corpo sanguinanti”. Nel 2023 il Tribunale di sorveglianza di Palermo ha rifiutato il differimento dell’esecuzione della pena e già due anni prima Lauria Michela, la mamma del ragazzo, aveva chiesto il suo trasferimento in strutture più vicine per permetterle di accudirlo. Inoltre, ci spiega sempre l’avvocato di famiglia, sarebbero state fatte diverse istanze anche al DAP e al Ministero di Giustizia perché venisse collocato in una struttura adeguata alle sue gravi patologie. Invece Domenico Ivan è stato trasferito solo in altri carceri (Palermo, Rossano, Catanzaro) sempre più distanti dalla madre, l’ultimo a Catanzaro dove venerdì pomeriggio è deceduto. “Noi non sapevamo neanche che era stato trasferito - ci racconta una parente al telefono - la mamma non aveva sue notizie dal 2 novembre e quando ha ricevuto la chiamata dal carcere di Catanzaro pensavo che le dovevano solo comunicare del trasferimento”. Torino. Detenuto morto soffocato, rinviata a giudizio per omicidio colposo una psichiatra di Luca Ronco torinotoday.it, 21 novembre 2024 Il processo sui fatti avvenuti il 15 agosto 2022 inizierà a giugno 2025. Non ci sono dubbi che quello di Alessandro Gaffoglio, detenuto nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino trovato morto soffocato il 15 agosto 2022 all’interno della sua cella, sia stato un gesto volontario. Secondo la Procura, la responsabile della tragedia sarebbe una psichiatra che opera nel penitenziario. È l’unica indagata per i fatti di 2 anni fa e oggi, mercoledì 20 novembre 2024, è stata rinviata a giudizio. L’accusa è omicidio colposo e il processo che proverà a fare chiarezza sulla vicenda inizierà a giugno 2025. Un passato difficile - Gaffoglio aveva 24 anni e una storia complessa alle spalle, come hanno raccontato i suoi genitori dopo la sua morte: lunghi periodi in ospedale, difficoltà a metabolizzare traumi subiti da bambino… Tante fragilità che si intrecciano, compreso il consumo di droghe e alcune rapine per cui era finito in carcere. Le carte dell’inchiesta - Al Lorusso e Cutugno, secondo l’accusa, la psichiatra avrebbe provocato la sua morte per “negligenza, imprudenza o imperizia”. Nel mirino del pubblico ministero è finito il “declassamento” di Gaffoglio dal livello medio di sorveglianza a quello lieve, a opera dell’imputata. In conseguenza di questo, sarebbero stati restituiti al detenuto degli indumenti in una busta di plastica, che lui avrebbe utilizzato per il suo gesto volontario. Il capo di imputazione parla anche di presunte mancanze nella somministrazione dei farmaci antidepressivi di cui Gaffoglio aveva bisogno. Il processo - La famiglia della vittima si è costituita parte civile con le avvocate Laura Spadaro e Maria Rosaria Scicchitano. Il legale Gian Maria Nicastro, invece, difende l’imputata. “Dimostreremo durante il dibattimento l’innocenza della mia assistita - guarda avanti l’avvocato - Il detenuto aveva il sacchetto dei vestiti a disposizione già prima della revisione del livello di sorveglianza”. Viterbo. Detenuto strangolato dal compagno di cella, rinviato a dicembre il processo all’omicida di Barbara Bianchi tusciaweb.eu, 21 novembre 2024 Imputato un 22enne. La vedova e i due figli della vittima hanno sporto denuncia nei confronti del carcere. È stato rinviato all’11 dicembre per un legittimo impedimento del giudice il processo con l’abbreviato in programma ieri davanti al gip Savina Poli per il detenuto 22enne di origini bulgare Tsvetkov Krasimir Ilyianov che il 19 dicembre dell’anno scorso ha strangolato il suo compagno di cella a Mammagialla. Vittima Alessandro Salvaggio, un 49enne siciliano, originario di Mazzarino in provincia di Caltanissetta e residente a Barrafranca in provincia di Enna, con precedenti per spaccio, che a Viterbo stava scontando una condanna a due anni per evasione. La vedova Lucietta Carnazzo e i due figli di 24 e 25 anni, che hanno sporto denuncia nei confronti del carcere “Nicandro Izzo”, sono assistiti dall’avvocato Giacomo Luca Pillitteri del foro di Enna. Il giovane omicida è assistito dall’avvocato Giacomo Marganella. L’omicida avrebbe ucciso il compagno di cella con un calzino stretto attorno al collo. Il particolare sarebbe emerso dalla consulenza medico-legale disposta dalla procura. All’autopsia ha preso parte anche la famiglia col medico legale Cataldo Raffino di Catania. Cagliari. La denuncia della Garante: “Detenuti nel carcere al freddo, senza cuscini né coperte” L’Unione Sarda, 21 novembre 2024 Irene Testa: “In questo modo non si fanno vivere neanche le bestie figuriamoci gli esseri umani”. Troppo affollamento nel carcere di Uta, e i detenuti restano senza cuscini e coperte. Lo denuncia Irene Testa, garante dei detenuti in Sardegna. “762 detenuti a fronte di una capienza di 560. Intere sezioni con 4 letti in celle da due - spiega - Non ci sono neanche i cuscini sufficienti tanto è l’affollamento della struttura. Gli agenti fanno i salti mortali per recuperare cuscini e coperte. Nella sezione dove si trovano gli isolati, la maggior parte dei quali malati psichiatrici non solo vengono custoditi nelle celle lisce senza arredi con la sola branda ma persino senza coperte sufficienti. Ne hanno una a disposizione ma fa molto freddo. Ora è chiaro che se ancora non possono essere accesi i termosifoni non si può però far morire di freddo chi sconta una pena, non è umano e non è in alcun modo accettabile”. “Va anche ricordato - prosegue - che i detenuti pagano il vitto e l’alloggio in carcere ma in questo modo non si fanno vivere neanche le bestie figuriamoci gli esseri umani. Alcune sezioni sono umide e fredde e in questo contesto sono costretti a vivere detenuti e agenti che sono costretti a turni massacranti. Due agenti in ogni sezione per più di 150 detenuti a piano. Il dipartimento di amministrazione penitenziaria e il Ministro Nordio che hanno scambiato la Sardegna per una cayenna dove oltre la metà dei detenuti non proviene dall’Isola, anziché continuare ad affollare gli istituti utilizzassero le colonie penali semivuote”. Monza. La seconda chance con un lavoro in un fast food: il progetto per chi è a fine pena monzatoday.it, 21 novembre 2024 L’iniziativa della nota catena di ristoranti che vuole puntare sull’inclusività. Fin dal 2014 è stato intrapreso un percorso di crescita puntando sul valore dell’inclusività. Che si riassume oggi con 290 dipendenti, di cui il 52% donne e il 35% stranieri, di 34 diverse nazionalità provenienti dai 5 continenti. Oltre a progetti di inserimento lavorativo a sostegno delle persone richiedenti asilo e di quelle fragili. L’Asc srl, la società che gestisce i McDonald’s di Monza, Concorezzo, Biassono e Vimercate, non ha però intenzione di fermarsi. Nei prossimi giorni, grazie a una collaborazione con l’associazione “Seconda Chance”, nata per favorire l’integrazione lavorativa di detenuti meritevoli e a fine pena, saranno infatti 4 i nuovi inserimenti all’interno dei team dei ristoranti brianzoli. Si tratta appunto di 4 detenuti ammessi al lavoro esterno, che saranno assunti per entrare a far parte dello staff, avendo così la possibilità di riscattarsi. “Siamo estremamente orgogliosi di aver intrapreso questo nuovo percorso a fianco di ‘Seconda Chance’ - dichiara Antonio Scanferlato, licenziatario dei McDonald’s di Monza e della Brianza - Un’esperienza preziosa con cui vogliamo offrire una seconda possibilità a chi ha scontato il suo debito con la giustizia, nella convinzione che, attraverso il lavoro, ciascuno possa trovare la propria dignità”. Progetti che mettono al centro le persone - “La nostra è una realtà che da sempre ha scelto di concentrare le proprie risorse a sostegno di progetti che mettono al centro la persona e l’inclusione e che possono avere una reale ricaduta sulla vita di ciascuno, offrendo un lavoro e un luogo in cui sentirsi accolti e accompagnati in un percorso di integrazione sociale e crescita professionale. Un investimento che porta grandi benefici, sia alla persona che all’azienda” chiarisce ancora Scanferlato. La sua azienda, l’Asc srl, appunto licenziataria McDonald’s Italia, fin dai primi anni di attività, ha promosso progetti a sostegno dei più fragili, offrendo opportunità lavorative e di crescita professionale. Ne sono una testimonianza gli 85 inserimenti lavorativi per richiedenti asilo avvenuti dal 2016 ad oggi, 16 dei quali tutt’ora parte dello staff dei ristoranti. Un impegno che, da tre anni a questa parte, viene riconosciuto ai McDonald’s di Monza e della Brianza dal programma “Welcome Working for refugee integration” di Unhcr - Agenzia Onu per i rifugiati - attraverso l’assegnazione del premio “Welcome - working for refugee integration Italy”, riservato alle aziende dedite all’integrazione lavorativa dei beneficiari di protezione internazionale. Tirocini a 50 persone fragili - Negli anni, inoltre, Asc srl ha inoltre attivato 62 tirocini che hanno coinvolto 50 persone fragili, raggiungendo quasi il doppio del numero di assunzioni di persone che fanno parte delle categorie protette previste dalla legge. Per l’inserimento delle persone con fragilità, Antonio Scanferlato ha aderito al progetto TikiTaka, sostenuto dalla Fondazione Cariplo, in connessione con la Fondazione della Comunità di Monza e Brianza. Si tratta di un tavolo tematico tra imprenditori, volontari, persone con fragilità, famiglie e professionisti del lavoro nel settore pubblico e privato del sociale, uniti al fine di promuovere e renderne possibile l’inclusione in attività lavorative e di volontariato. Oltre 2mila pasti ai bisognosi - L’impegno dei ristoranti McDonald’s di Monza verso chi ha bisogno oltrepassa i confini del ristorante, attraverso l’adesione all’iniziativa nazionale del brand “Sempre aperti a donare” in collaborazione con Banco Alimentare, donando circa 2.100 pasti all’anno ai bisognosi del territorio. “Seconda Chance”, associazione no profit del Terzo Settore, è stata fondata nel 2022 dalla giornalista Flavia Filippi per far conoscere alle imprese la legge Smuraglia (193/2000) che offre agevolazioni a chi assume, anche part time o a tempo determinato, detenuti ammessi al lavoro esterno. Partita dal carcere di Opera a Roma, questa realtà coinvolge oggi diverse carceri in tutta Italia e rappresenta un ponte tra queste e le imprese disposte ad agevolare il reinserimento lavorativo dei detenuti a fine pena. Vasto (Ch). Shopper fatte a mano: detenuti all’opera contro la violenza di genere vastoweb.com, 21 novembre 2024 In occasione dell’evento “Visionaria”, organizzato dalla Camera di Commercio di Chieti Pescara, i detenuti del carcere di Vasto hanno realizzato delle shopper utilizzando materiali di riciclo. Questa iniziativa, che va ben oltre la mera produzione artigianale, rappresenta un percorso di riscatto e reinserimento sociale per i detenuti coinvolti che hanno svolto queste attività come lavoro di pubblica utilità e in maniera volontaria. Coordinati dalle donne del Centro Antiviolenza Dafne di Vasto, i detenuti hanno lavorato con dedizione e impegno per creare le shopper, ideate dalla stilista Simona De Thomasis e che saranno presentate durante l’evento. Le stoffe utilizzate sono tutte fatte con materiali di riciclo e donate da aziende abruzzesi, tra cui Fabrizio Colantonio di Gissi. Il ricavato andrà a incrementare il Fondo Eva destinato a sostenere le donne che stanno uscendo da situazioni di violenza. L’idea di coinvolgere i detenuti in questo progetto nasce dal Comitato per l’Imprenditoria femminile della Camera di Commercio di Chieti Pescara, presieduto dall’imprenditrice vastese Antonella Marrollo. Questo progetto dimostra come la collaborazione tra diverse realtà del territorio possa generare valore sociale ed economico, contribuendo al contempo a cause di grande importanza come il sostegno alle vittime di violenza. La presentazione delle shopper, realizzate con cura e passione, avverrà durante l’apertura dell’evento “Visionaria” al Padiglione Espositivo D. Becci, presso il porto turistico Marina di Pescara, il 20 novembre, dalle 9:30 alle 20:00. Sarà un momento significativo per riconoscere l’importanza del lavoro svolto e per sensibilizzare il pubblico sulla necessità di sostenere le donne in difficoltà. Inoltre, questa iniziativa offre ai detenuti un’opportunità preziosa per dimostrare il loro impegno nel contribuire positivamente alla comunità. Partecipare a un progetto di tale impatto sociale può rafforzare il loro percorso di riabilitazione e integrazione, fornendo loro un senso di realizzazione e appartenenza. Roma. Carceri e minori: l’impegno di imprese, Terzo settore e Chiesa di Filippo Passantino agensir.it, 21 novembre 2024 Dal progetto all’insegna dell’arte in una periferia romana a una comunità canonica solidale nel Fiorentino, le esperienze di impegno per una nuova vita dei ragazzi dopo l’ipm. L’arcivescovo Gambelli: “Quanto più noi cerchiamo di mettere assieme le forze per far fronte a questa emergenza educativa tanto più noi costruiamo una società che abbia un futuro, una società solida”. L’annuncio è arrivato nei giorni scorsi dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio: “Entro dicembre entreranno in servizio 354 funzionari pedagogici e 450 addetti ai servizi sociali”. Il sottosegretario, Andrea Ostellari, spiega la ‘ratio’ di questa scelta: investire sulle persone che possano sostenere i minori negli ipm. Si tratta di “ruoli fondamentali per cercare di ridare dignità ai ragazzi”. “Il funzionario pedagogico li sostiene in percorsi di recupero - osserva -. Assieme alla polizia penitenziaria devono alimentare la speranza”. Perché “il nostro ordinamento determina di tenerla accesa attraverso strumenti riabilitativi. E noi lo facciamo con la formazione e il lavoro, con le persone che ci accompagnano nel circuito carcerario, assieme al Terzo settore, alle imprese e la Chiesa”. E gli attori di questi tre ambiti si sono ritrovati a dialogare con alcuni esponenti del governo nel confronto sul loro ruolo “a supporto della riabilitazione dei giovani negli istituti minorili”, promosso dall’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede in collaborazione Eni Foundation. La voce delle imprese è rappresentata proprio da Eni che ha presentato il proprio impegno nel sociale, soprattutto attraverso la propria fondazione, con l’attività di “costruire reti”, “intercettandole, attraverso il potenziamento delle infrastrutture istituzionali, che sono di solito quelle dei ministeri della Salute dei Paesi dove operiamo, e lo riferiamo ai servizi eventuali presenti sul territorio - spiega il presidente Domenico Giani -. Lo stesso facciamo attraverso questa rete per introdurre nella società i giovani”. Per il Terzo settore la voce è quella di Lucia Ercoli, presidente dell’Associazione Fonte d’Ismaele OdV, che con il supporto di un atelier d’arte ha realizzato un laboratorio di mosaico. Un manufatto è stato allestito e installato nel sottopasso che congiunge Tor Bella Monaca a via Casilina, a Roma: 350 bambini di 40 nazionalità hanno lavorato insieme con il coinvolgimento dei genitori. Nel loro mosaico hanno disegnato il loro quartiere, Tor Bella Monaca - periferie est della Capitale - nella prospettiva della città ideale. Hanno partecipato anche minori del dipartimento per la messa alla prova. “Quello più violento per i suoi metodi ha riconosciuto col suo gergale di aver collaborato a qualcosa di bello per cui vale la pena cambiare”, racconta Ercoli. L’impegno della Chiesa ha il volto e le mani di don Raffaele Palmisano, che dal 2008 ha avviato l’esperienza della comunità canonica solidale per “fare sentire che l’accoglienza è gratuita: perché i ragazzi non sono accolti come utenti ma come ospiti”. “Infatti, la casa si gestisce assieme e si fanno i progetti per il futuro”. “Se stiamo attenti alla prevenzione cercando di offrire opportunità ai giovani, possiamo costruire una società solidale - dice l’arcivescovo di Firenze, mons. Gherardo Gambelli -. Il Papa ci ricorda sempre che solidarietà e solidità vanno sempre assieme”. “Per cui quanto più noi cerchiamo di mettere assieme le forze per far fronte a questa emergenza educativa tanto più noi costruiamo una società che abbia un futuro, una società solida”. Infine, l’impegno del governo, nei numeri snocciolati dal viceministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Maria Teresa Bellucci: “Sono stati stanziati 250 milioni di euro come risorse straordinarie per le comunità per l’infanzia e l’adolescenza nei luoghi dove la violenza è più alta, nell’ottica di una alleanza tra lo Stato e il privato sociale. Oltre 300 milioni per il potenziamento dei servizi sociali e delle equipe multi-disciplinari con psicologi, pedagogisti, funzionari pedagogici. Per i minori che entrano nelle maglie di criminalità e strutture detentive una dote di 29 milioni per la loro autonomia. Così i ragazzi dai 14 anni che si trovano in comunità possono vedere riconosciuti fino a 10mila euro per avviare il loro percorso di recupero nella vita”. Ancona. Salute in carcere: il PD Marche accende i riflettori su diritti e dignità corrieredelconero.it, 21 novembre 2024 Il 18 novembre scorso si è tenuto a Chiaravalle, l’incontro organizzato dal PD Marche con il Tavolo Diritti, Pace e Immigrazione su “La salute in carcere”. Grandissima e significativa è stata la partecipazione all’iniziativa che ha acceso i riflettori sulla condizione delle persone detenute nelle carceri marchigiane. Sono intervenuti esponenti nazionali, regionali e locali del Partito Democratico, esperti e volontari nelle persone di Silvano Schembri della Caritas diocesana e Samuele Animali dell’associazione Antigone, nonché l’avvocato Andrea Nobili, ex Garante dei detenuti per le Marche. Anna Rosa Cianci, referente per i Diritti Umani del PD Marche, ha condotto la discussione: “I relatori hanno esaminato gli aspetti giuridici sociali, sanitari, politici e amministrativi in merito alla detenzione e alla tutela della salute in carcere. Sono emerse gravi carenze strutturali e un’insufficiente tutela del diritto alla salute per i detenuti. Molte le criticità che permangono negli istituti, come la mancanza di cure adeguate, l’assenza di consapevolezza da parte dei detenuti riguardo ai propri diritti sanitari e condizioni di vita inaccettabili che vanno ben oltre la privazione della libertà personale”. Gli intervenuti hanno sottolineato quindi che il carcere debba garantire comunque l’accesso a cure mediche essenziali a una popolazione spesso esclusa dai servizi sanitari di base. Le deputate Dem Irene Manzi e Debora Serracchiani, quest’ultima responsabile Giustizia del PD, hanno partecipato attivamente al confronto con contributi particolarmente significativi. Serracchiani non ha risparmiato critiche alle recenti dichiarazioni del sottosegretario Delmastro, ribadendo l’importanza di un approccio rieducativo e di cura, pilastri irrinunciabili di una giustizia rispettosa della Costituzione. Il dibattito ha quindi messo in luce dati allarmanti relativi al 2024: 76 suicidi, 1.778 tentati suicidi e oltre 11.000 episodi di autolesionismo nelle carceri italiane, spesso causati da precarietà igienico-sanitaria e difficoltà nell’accesso alle cure, inclusa la medicina di genere. Inoltre, è stato evidenziato il contributo della legge sulle droghe al sovraffollamento delle carceri, con oltre il 20% dei detenuti affetti da dipendenze. “In prigione tutto si distorce e tutto si amplifica se non arrivano risposte adeguate dall’esterno - si rammarica Anna Rosa Cianci. - Il disagio è forte e il principio di equivalenza delle cure con i cittadini liberi non rispetta quello di equità. Occorre lavorare prima di tutto sul piano culturale per decostruire l’idea della inevitabilità del carcere; è necessario impegnarsi politicamente in favore di una giustizia riparativa e per la prevenzione della commissione di reati. Purtroppo, è in atto da parte della destra meloniana un preoccupante processo disumanizzazione nei confronti delle persone fragili e che nella vita hanno sbagliato. Le soluzioni adombrate sono un ritorno al passato”. All’incontro sono anche intervenuti la capogruppo Anna Casini e i consigliari regionali del Partito Democratico Mangialardi, Mastrovincenzo e Bora, attenti e critici osservatori della condizione delle persone detenute nelle carceri marchigiane. La referente del Tavolo Diritti umani, Anna Rosa Cianci, ha chiuso l’evento garantendo l’impegno del Partito: “Il PD Marche continuerà a porre al centro del dibattito pubblico la questione delle carceri, proponendo soluzioni concrete come la necessità di aumentare i posti REMS, il miglioramento delle condizioni di detenzione, la tutela dei minori a rischio, il diritto all’ascolto”. È necessario, ha affermato, combattere un processo di disumanizzazione in atto, proponendo al contrario una giustizia riparativa e politiche orientate alla prevenzione. Milano. Fili rossi lavorati all’uncinetto. I detenuti di Bollate e l’arte della consapevolezza di Roberta Rampini Il Giorno, 21 novembre 2024 L’artista Nadia Nespoli: “Non un semplice pannello monocromatico ma ore di dialogo, lavoro manuale e profonda riflessione”. Fili rossi per dire stop alla violenza sulle donne. Fili rossi lavorati all’uncinetto da uomini che hanno commesso reati contro le donne. “I fili rossi” è il titolo di un’opera nata dalla collaborazione tra il laboratorio Artemisia dei detenuti del settimo reparto del carcere di Milano-Bollate e l’artista milanese Nadia Nespoli in mostra al Tribunale di sorveglianza di Milano fino al 15 dicembre. Un’opera d’arte tessile che rappresenta un potente messaggio contro la violenza sulle donne e la discriminazione di genere. La scelta del colore rosso non è casuale, ma rappresenta il simbolo universale della lotta contro la violenza di genere. Oltre al messaggio sociale c’è anche un altro aspetto che lo rende particolare: nel processo creativo i detenuti hanno imparato una tecnica tradizionalmente femminile come l’uncinetto. “I fili rossi” non è semplicemente un pannello monocromo - spiega Nadia Nespoli - ma rappresenta ore di dialogo, di lavoro manuale e di profonda riflessione. Ogni filo intrecciato racconta una storia di consapevolezza e di trasformazione”. Il progetto rappresenta anche un esempio concreto di come l’arte possa diventare strumento di rieducazione e di sensibilizzazione sociale, creando un ponte tra il “dentro” e il “fuori” delle mura carcerarie. “Questa opera rappresenta perfettamente il modello di reinserimento che caratterizza il nostro istituto - dichiara Giorgio Leggieri, direttore del carcere -: vedere i detenuti impegnati in un’attività artistica che li porta a riflettere sulla violenza di genere è un esempio concreto di come l’arte possa diventare strumento di rieducazione e cambiamento”. I ragazzi con il coltello in mano di Letizia Magnani Grazia, 21 novembre 2024 Il bambino di 10 anni che ha colpito un coetaneo a Napoli. Le risse della movida a Milano. La guerriglia tra minorenni a Genova. C’è allarme per la diffusione di armi tra i giovani. Grazia ha indagato per capire le cause di una ferocia che esplode per motivi banali. Ferocia. È la parola che meglio descrive la violenza dei più giovani. Come quella del bambino di 10 anni che ha colpito con un coltello alla coscia un tredicenne: gli aveva chiesto il pallone con cui stava giocando con gli amici. È accaduto il 16 novembre a Giugliano, in provincia di Napoli. I dati della Polizia di Stato e le numerose vicende di cronaca dicono una sola cosa: si è abbassata l’età delle vittime di violenza, ma anche di chi commette i reati. Gli uni e gli altri hanno 15, a volte persino 13 o 10 anni, come si è visto. Il procuratore capo del Tribunale per i minorenni di Milano, Luca Villa, ha recentemente parlato di una “generazione con il coltello in mano”. Gli episodi in città nel 2024 in cui si è usata un’arma, quasi sempre, appunto, un coltello, sono stati 80. Moda? Tendenza? Nuova ondata di machismo? A commettere reati sono giovani sempre più piccoli, italiani, oppure minori non accompagnati arrivati da Paesi lontani o di seconda generazione. Ad accumunarli, la povertà e l’aggressività. La conferma di una generazione con il coltello in tasca arriva un po’ da tutta Italia. A Pisa una baby gang guidata da un quindicenne ha preso a calci e pugni alcuni coetanei, estraendo il coltello. Nel centro di Genova ogni notte è guerriglia e le forze dell’ordine fermano molti minorenni violenti. “A volte sono così giovani da non essere imputabili”, dicono le forze dell’ordine. A Napoli, come a Torino, Milano, Rimini (dove sono appena stati arrestati tre giovani per una presunta violenza sessuale di gruppo), ragazzini poco più che adolescenti girano armati di pistole e sempre più spesso di coltelli, rompono i vetri delle auto in sosta, aggrediscono coetanei e adulti, con particolare accanimento verso controllori di treni e autobus, ma anche di persone considerate deboli, come disabili o persone dichiaratamente Lgbtqia+. “Deve fare riflettere l’aumento della violenza, in particolare delle rapine con l’utilizzo di un’arma, quasi sempre un coltello (80 episodi da gennaio a Milano), degli omicidi e dei tentati omicidi che nel giro di tre anni sono passati da 5 ai 24 dell’ultimo anno”, dice ancora Villa, Procuratore capo a Milano. Alle sue parole fanno eco quelle della procuratrice dei minori di Napoli, Maria de Luzenberger. “Mai visto reati così feroci in 18 anni di lavoro in procura. Poca scuola, famiglie assenti o spesso legate alla criminalità organizzata: questo è l’identikit dei responsabili di omicidi, rapine e sparatorie. Nessuna empatia da parte dei minori arrestati, nessuna consapevolezza del dolore che provocano. Servono modifiche alla legge con misure più severe”, dice de Luzenberger. Don Claudio Burgio è il cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano e ha fondato la comunità Kayròs di Vimodrone (Milano). Il religioso ha preso il testimone da don Gino Rigoldi, che, a 85 anni, è ancora per strada ad aiutare i giovani. “Dal mio osservatorio vedo ragazzi molto fragili, analfabeti dal punto di vista emotivo e sentimentale. Non riconoscendo le proprie emozioni, e quelle altrui, sono spesso aggressivi, hanno scatti d’ira anche per motivi molto futili. Tengono alla loro immagine sociale più che a tutto il resto”, dice don Claudio, autore del libro Il mondo visto da qui. Riflessioni di un prete in carcere al tempo delle baby gang (Piemme). Nella sua comunità, dove attualmente ci sono 50 ragazzi, il più giovane ha 13 anni. “Al Beccaria, quando incontro i ragazzi per la prima volta, hanno un atteggiamento di sfida, spesso manipolatorio: sanno che posso farli uscire dal carcere”, dice don Claudio. “Non esistono, a mio avviso, ragazzi “cattivi”, sicuramente quello che alcuni di loro hanno commesso è molto grave, efferato, ma di base, e non è certo una scusa, sono ragazzi soli, senza adulti di riferimento. Quella del coltello è una moda, ma è anche qualcosa di più preoccupante. Quando li conosci, capisci che sono l’antibullo, ma nel coltello o nella pistola, nelle droghe, questi giovani trovano - è il loro pensiero - il modo per farsi rispettare”. A Jesi i giardini pubblici sono stati presi di mira da una baby gang capitanata da un ragazzo di 19 anni. Ora i giovani sono assicurati alla giustizia, ma le rapine, le aggressioni e le violenze con pistole e coltelli sono ancora vivide nel ricordo dei cittadini. Le baby gang sono un po’ ovunque, da Padova a Napoli, e il copione è sempre lo stesso. Ragazzini armati, che scorrazzano per città e paesi, aggredendo le persone, senza un apparente motivo, ma con violenza inedita e sempre più feroce. In Campania, e a Napoli in particolare, le baby gang sono spesso legate alla criminalità organizzata, allo spaccio, ma c’è un problema in più, ovvero il fatto che molti dei baby criminali non vanno a scuola. “La prima regola per far rispettare la legalità nella nostra regione è l’obbligo scolastico”, sottolinea la procuratrice Maria de Luzenberger. “La maggior parte dei minori che finiscono davanti alla giustizia ha alle spalle un percorso scolastico interrotto”. Senza scuola, adulti di riferimento, ma con coltelli e pistole in tasca, i ragazzini si avvicinano alla criminalità. Cosa dice all’Italia la Napoli violenta di Angelo Scelzo Avvenire, 21 novembre 2024 C’è la variante degli apparenti “futili motivi” nell’epidemia di violenza e morte che colpisce i giovani e i ragazzi di Napoli. Per l’ultimo, Arcangelo Correra, appena 18 anni, freddato sotto casa, in una piazzetta dei Tribunali, si parla di un “incidente” o di uno scherzo finito male. Ma già altre volte è bastato uno sguardo, un parcheggio conteso per la moto, una scarpa sporcata per ammassare i numeri per la più tragica delle sequenze che la città ricordi. C’è la costante di una pistola o di un coltello sempre a portata di mano a rendere insopportabile questa che si può chiamare emergenza, ma solo per tenere in campo un termine convenzionale e tuttavia largamente abusato. Ma stavolta è diverso, perché ancora più allarmanti sono i segnali di un malessere che sembra allargare a dismisura, perfino oltre il tragico quadrante della malavita organizzata, il ricorso alle armi come un qualcosa di ordinario, poco più del cambio di cellulare, nella vita di giovani e ragazzi di Napoli. Lo scenario della città a mano armata non è certo estraneo alla realtà napoletana segnata dai raid di bande camorristiche, in lotta tra loro, ma sulle spalle dell’intera comunità. Questa Napoli, nella mattanza di questi giorni, paradossalmente s’è vista però solo nella sua pur torbida controluce. Dire che sia rimasta dietro le quinte è troppo perché si tratta di una presenza in ogni modo cupa e incombente. E un’amara e beffarda coincidenza l’ha resa ancora più manifesta. È stato quando il corteo di mobilitazione e preghiera, convocato da un appello del Pastore della città, don Mimmo Battaglia, è stato raggiunto dall’ennesima uccisione di un giovane, quando era ancora in corso. Come dire che non si fa in tempo neppure a ricordare o commemorare perché troppo forte e veloce è diventata l’onda di morte che continua a sconvolgere Napoli. Non è stata avara, la cronaca di questi giorni, anche di altri delitti di cui sono stati vittime giovani in altre parti del Paese. Non si spara e si muore solo a Napoli, si è detto. Serve davvero a poco una così triste e falsa “consolazione”, che certo non annulla, né ridimensiona, una specificità tutta napoletana, inquinata dalla presenza attiva e costante della camorra che spara, ammazza e sparge veleno nel cuore della città. Punta i giovani, molti ne prende in ostaggio e non solo li arma, ma impone i suoi modelli di vita, sempre al confine stretto con la morte. Sta di fatto che lo sfondo di queste tragedie ha portato alla luce una città diversa, immersa perfino in un clima sociale più disteso, visibilmente testimoniato dalla folla di visitatori - nelle strade, nelle piazze o in coda alle file dei suoi tanti monumenti - che ha dato da pensare, per Napoli, a una sorta di prolungata stagione turistica, quasi un momento di stacco da affanni che certo esistono ma talvolta è bene mettere da parte. A Napoli, in realtà, da tempo è calato il vecchio sipario. Il palcoscenico della vita, quasi uno dei suoi tanti sinonimi, non è più qui e, anzi, con una città così non ha più niente a che fare. Quella città è diventata una cartolina sbiadita. Ora Napoli ripudia la scena e mette da parte la sua teatralità. Ora sembra vivere un’altra vita. Va solo in onda, sempre più immersa in una bolla digital-virtuale che la racconta come un sequel a temi ed episodi: Gomorra, per il suo lato violento e oscuro, le fiction - vecchie sceneggiate due punto zero - per gli intrecci di una vita che, sotto quel cielo e in riva a quel mare, impone storie complicate, e con al centro i disagi e il malessere di ragazzi e giovani in primo piano. Poi la schiera di registi e cineasti, a completare, anche con qualche firma d’autore, il quadro, anzi l’affresco sull’immagine complessiva. È parso emblematico, a suo modo, che dal racconto di Paolo Sorrentino, Napoli sia stata rappresentata da una figura umana, Parthenope che sorge dal mare. Prevedibile, per lo stile di Sorrentino, la natura onirica e grottesca di una rappresentazione che va alla fine incontro a una deriva oscena e blasfema. Niente, purtroppo, di nuovo sotto il cielo di Napoli. Ma con lo sguardo lungo, può essere in sé una deriva anche questa massiccia svolta nella narrazione di una città, sempre più indotta a mutare tono e, in sostanza, ad abbassarlo per un necessario (ma solo supposto) adeguamento ai tempi. La città più carnale di tutte si è così data all’immagine, ha fatto il salto, consegnandosi a un tempo nuovo che, a poco a poco, ne sta stravolgendo la vita. La Napoli vecchio e reale palcoscenico del vivo, si è trasformata in un set a cielo aperto. È questo il passaggio chiave nella sua storia moderna. Un vero e proprio cambio di stato, con il rischio del passaggio da una dimensione concreta e reale, per quanto spesso drammatica, a uno stato liquido e virtuale. Se la cultura della città cambia tono, sono le antenne dei giovani a captarne per primi i segnali, e a valutarli per quel che a Napoli rappresentano: in questo caso un ordinario adattamento ai tempi. Niente più di questo, soprattutto se si tien conto dello spessore della storia di una città che conserva il rango di antica capitale. E allora qualche obiezione finisce per chiamare in causa anche quella sorta di trionfalismo che sembra far da sfondo a quell’ondata turistica capace di inebriare una città a cui non pare vero di trovarsi tra le mani una carta finalmente vincente e sulla quale investire (giustamente) molto. È bene chiarirlo. Sarebbe da miopi e incoscienti sbarrare le porte a chi arriva da ogni parte del mondo per ammirare le bellezze di Napoli e aumentarne allo stesso tempo il gettito che si traduce in nuove risorse e posti di lavoro. Eppure, stride e convince poco, come un qualcosa fuori luogo l’ostentata esultanza che accompagna non solo i numeri, ma anche la qualità e il tono di un certo diportismo. È solo da qualche tempo che Napoli sembra non riuscire più a contenere l’emozione per l’arrivo di qualche vip, e non stare nella pelle quando al largo (più o meno) delle sue coste c’è in vista qualche mega-yacht della nutrita pattuglia di tycoon in giro per i mari del mondo. L’enfasi è di per sé fuori misura, ma questo rapporto così impetuoso, e in sostanza nuovo, con il flusso di chi arriva a visitarla, mostra che Napoli sta investendo prima di tutto sé stessa. Tutta Napoli sembra al lavoro ai cancelli non tanto virtuali di questo ramo di industria sorto da una natura compiacente. Ma sì deve anche aggiungere che non sembra pensare ad altro. Non è una faccenda di poco conto, perché da queste parti non si conoscono le mezze misure e l’impegno è diventato totalizzante. Con i riflettori accesi e sempre puntati addosso, si può finire per mettere talvolta da parte anche la vita vera e ordinaria, impegnarsi su un fronte e trascurarne altri, magari più deboli e vulnerabili. È forse accaduto. La terribile sequenza di questi giorni ha come fatto emergere lo sfondo di un’altra Napoli, dove si può restare uccisi per le faide e le lotte di camorra, ma dove, davanti a giovani e ragazzi lasciati allo sbaraglio, si apre anche il baratro della morte per (apparenti) futili motivi. La morte senza ragioni, ammesso che possano mai esservene. Tante, e mai troppe, ragioni ha invece la speranza invocata per le strade da chi ha davvero a cuore Napoli e innanzitutto i suoi giovani. Nelle strade è scesa anche la Chiesa. Ha preso il suo posto a fianco della sua gente. Ha chiesto a chi ne possiede di deporre le armi. La speranza, ma anche il coraggio sono il segno di una chiesa che non può rassegnarsi a vedere i suoi giovani uccisi per strada. Quando accade, muore un po’ anch’essa. Violenza sulle donne e immigrazione illegale, quella di Valditara è una visione del tutto distorta di Laura Onofri* Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2024 Quello che ha dichiarato il ministro Valditara alla presentazione della Fondazione dedicata a Giulia Cecchettin alla Camera ha del paradossale, ma non stupisce perché anche sul tema della violenza contro le donne la destra ha una visione assolutamente distorta da quella che è la realtà e la usa strumentalmente per fomentare paure, ignorando volutamente i dati e gli esperti di psicologia sociale che da anni ci indicano quali sono le cause di questo fenomeno. Due sono i passaggi che più hanno innescato reazioni critiche e riprovazione e che di certo non ci si aspetta siano pronunciati dal ministro dell’Istruzione. Queste le esatte parole di Giuseppe Valditara: “Abbiamo di fronte due strade - ha detto il ministro riferendosi alle soluzioni contro la violenza sulle donne -, una concreta, ispirata ai valori costituzionali e un’altra ideologica. La visione ideologica è quella che vorrebbe risolvere la questione femminile lottando contro il patriarcato”. Questa affermazione è grave perché ridurre, quella che ormai tutta la letteratura in materia indica come causa sistemica e strutturale della violenza contro le donne e cioè il patriarcato, a semplice visione ideologica, significa non aver capito che la violenza contro le donne deriva da un’asimmetria di potere che in un sistema sociale prevede che gli uomini lo detengano ancora in tutti gli ambiti. Significa non aver capito che la violenza contro le donne si sconfigge cercando di decostruire gli stereotipi legati al genere e i pregiudizi sessisti che sono alla base di quella asimmetria e che confinano donne e uomini in ruoli tradizionali, limitandone quindi lo sviluppo personale, educativo e professionale e le opportunità di vita in generale. Significa forse non aver mai letto la Convenzione di Istanbul, che è legge dello Stato, che sancisce che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne e che il patriarcato e i rapporti di potere degli uomini sulle donne si manifestano al loro massimo livello proprio con la violenza e ne sono quindi la causa e l’effetto. Affermare, come ha fatto il ministro che “il patriarcato come fenomeno giuridico è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975 che ha sostituito alla famiglia fondata sulla gerarchia, la famiglia fondata sull’eguaglianza” significa non aver capito che il problema è culturale e non giuridico perché il patriarcato non si elimina con un colpo di penna cancellando norme e imponendo un’eguaglianza e una parità solo formali. Il patriarcato si elimina costruendo una società realmente paritaria in ogni aspetto e in ogni ambito e non paternalista. Le donne non hanno bisogno di nessuno che le protegga, hanno invece bisogno che i principi di autonomia e autodeterminazione non rimangano sulla carta ma siano concretamente realizzati. L’altro passaggio è quello più strumentale ed è un classico del repertorio della destra. Infatti il titolare dell’Istruzione ha completato la sua analisi sul fenomeno della violenza aggiungendo che: “Non si può far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e devianza in qualche modo discendenti dalla immigrazione illegale”. Una retorica xenofoba, ripresa anche dalla Presidente del Consiglio, che, come ormai succede sistematicamente, butta lì delle frasi che fomentano paure verso l’altro, verso il diverso, verso chi arriva nel nostro Paese non su comodi jet ma sui barconi. Una retorica non supportata dai dati che anzi ci dicono altro. Un primo dato è che il 78% dei femminicidi sono commessi da italiani legati alla vittima da un rapporto affettivo. Ma anche analizzando il fenomeno delle violenze sessuali, a cui si riferisce il ministro, si capisce che forse sia Valditara che Meloni dovrebbero essere più attenti ai numeri. Secondo l’ultimo report della Direzione centrale della polizia criminale (riportato da Mattia Feltri su La Stampa), non si sarebbe verificato negli ultimi anni un reale aumento delle violenze sessuali, come invece sembra aver ipotizzato il ministro. Nel 2022 sono infatti aumentate del 9%, ma nel 2023 sono scese del 12%.. La percentuale dei casi di violenze sessuali commesse da stranieri è invece rimasta sostanzialmente invariata: infatti nel 2021 era il 27% del totale e si è assestata al 28% nel 2022 e nel 2023. Queste percentuali comprendono sia stranieri regolari che immigrati illegalmente nel nostro Paese, perché non ci sono dati ufficiali a questo riguardo. Però mettendo in relazione i dati delle violenze sessuali, che sono stabili, con la presenza di immigrati clandestini e riscontrando che il numero di questi ultimi è calato progressivamente negli anni (nel 2023 erano circa 450 mila, 506 mila nel 2022, 519 mila nel 2021 e 706 mila nel 2006) si può affermare che non esiste correlazione fra le violenze sessuali e l’immigrazione clandestina. Queste affermazioni stridono enormemente anche rispetto al contesto in cui sono state pronunciate: la presentazione della Fondazione dedicata a Giulia Cecchettin e fortemente voluta dal padre e dalla sorella Elena che dal primo momento ha affermato che il femminicidio è un delitto di potere e che quelli che vengono definiti “mostri”, mostri non sono, non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro. Anche ieri Elena, dopo le parole del ministro, ha pubblicato questo messaggio su Instagram: “Forse, se invece di fare propaganda alla presentazione della fondazione che porta il nome di una ragazza uccisa da un ragazzo bianco, italiano e ‘per bene’, si ascoltasse non continuerebbero a morire centinaia di donne nel nostro paese ogni anno”. È chiedere troppo che su questi femminicidi, su queste morti, su queste violenze non si faccia propaganda? *Attivista e Femminista Migranti. Non basta cambiare giudici per cancellare il flop del modello Albania di Vitalba Azzollini* Il Domani, 21 novembre 2024 Certe decisioni di alcuni giudici non piacciono alla maggioranza di governo? Basta cambiare i giudici, e il gioco è fatto. Questa è la “ratio” dell’emendamento al decreto Flussi con cui la Lega intende sottrarre alle sezioni dei tribunali specializzate in materia di immigrazione le decisioni sulla convalida del trattenimento dei migranti sottoposti a procedure accelerate di frontiera, quindi anche di quelli portati in Albania. È previsto che la competenza sia spostata alle corti d’Appello, che giudicheranno in composizione monocratica. I fatti - Nelle ultime settimane, una serie di tribunali si sono espressi sulla convalida del trattenimento di richiedenti protezione internazionale. Tra i casi più noti, c’è quello dei giudici di Roma che, il 18 ottobre, non hanno convalidato il fermo di 12 migranti in Albania, disponendo il loro ritorno in Italia; gli stessi giudici, l’11 novembre, hanno sospeso la decisione sulle convalide riguardanti 7 migranti, chiedendo alla Corte di giustizia dell’Unione europea di valutare la compatibilità delle norme italiane rispetto a quelle europee sui paesi sicuri. Anche il tribunale di Catania, il 4 novembre, non ha convalidato il trattenimento di un migrante. Ancora, il 6 novembre, il tribunale di Palermo ha sospeso il giudizio di convalida del trattenimento di due stranieri, rinviando anch’esso alla Corte Ue la questione della conformità della legge nazionale rispetto a quella europea. Il governo aveva provato a bloccare questo tipo di pronunce trasfondendo la lista dei paesi sicuri in un decreto legge, fonte di rango primario. Avevamo scritto che ciò sarebbe stato inutile. E siccome così è stato, la maggioranza ora tenta la strada di rimescolare le competenze, forse al fine di ottenere decisioni diverse. La Corte di giustizia Ue - Le decisioni di mancata convalida o di sospensione del giudizio di convalida del fermo dei migranti sono state determinate dalla nota sentenza della Corte di giustizia Ue del 4 ottobre scorso. Secondo l’interpretazione del tribunale di Roma, tale sentenza ha disposto che un paese non possa essere qualificato come sicuro a meno che non lo sia per ogni categoria di persone e in ogni parte del suo territorio. A chi provenga da paesi non sicuri il tribunale ha ritenuto non applicabile la procedura accelerata di frontiera: i tempi ristretti e la compressione dei diritti dei migranti che connotano tale procedura rendono a questi ultimi materialmente impossibile provare la loro appartenenza a categorie a rischio nel paese di origine. Per tale motivo va applicata la procedura standard, che è quella a cui i migranti trasferiti in Albania sono sottoposti a una volta riportati in Italia. L’inutilità dell’emendamento - L’emendamento che sposta alle corti d’Appello la competenza a giudicare sui trattenimenti dei migranti, farà sì che i trattenimenti stessi saranno convalidati senza problemi? Se ne può dubitare. È difficile che tali corti si discostino dall’orientamento espresso dai tribunali che finora non hanno convalidato i fermi o hanno manifestato dubbi sugli stessi. A ciò si aggiunga che le sentenze della Corte di giustizia Ue sono vincolanti per tutti i giudici di ogni stato membro. Pertanto, anche se la competenza circa la convalida dei fermi dei migranti viene spostata da un giudice a un altro, il secondo giudice dovrà comunque tenere conto della citata pronuncia della Corte Ue esattamente come doveva farlo il giudice precedente. Ma soprattutto, considerate le questioni sollevate dinanzi alla Corte di giustizia Ue circa la non compatibilità della legge nazionale rispetto a quella europea, è difficile che nuovi giudici applichino la prima, sulla cui conformità al diritto dell’Ue sussistono dubbi, correndo il rischio di incorrere in responsabilità civile per “violazione manifesta (…) del diritto dell’Unione europea”, qualificata come colpa grave (legge 18/2015). Infine, l’emendamento appare come una forzatura: una prima istanza o una convalida assegnata a un giudice di appello sarebbe un “unicum” nel nostro ordinamento. E non avrebbe alcuna giustificazione nemmeno sul piano operativo, considerato che le sezioni specializzate dei tribunali hanno una competenza ed esperienza in tema di immigrazione di cui le corti d’Appello attualmente non dispongono. Insomma, essendo preclusa la possibilità di adottare il “metodo Musk” attraverso la rimozione dei magistrati, li si cambiano confidando forse in giudici più accondiscendenti. L’impressione è quella di una maggioranza che sull’immigrazione, e in particolare sul protocollo con l’Albania, tenti disperatamente di tenere il punto con metodi scadenti, per usare un eufemismo, e nemmeno si renda conto della pessima figura che sta facendo. *Giurista Le nuove tappe del conflitto sugli immigrati: Corte Ue e Corti d’Appello di Pier Luigi Portaluri Il Foglio, 21 novembre 2024 Dai quesiti del tribunale di Roma alla corte europea sui paesi sicuri, fino all’emendamento che sposta le convalide sui flussi migratori alle Corti d’Appello: un nuovo scontro tra giudici e governo ridisegna i confini tra diritto e politica. À la guerre comme à la guerre, senza le solite ipocrisie che di regola ammorbano i conflitti istituzionali, sopra tutto se riguardano governo e magistratura. Nel libro di bordo sono due gli ultimi fatti rilevanti: la nuova “chiamata in campo” della Corte europea di giustizia da parte del Tribunale di Roma e l’emendamento Kelany al decreto flussi che sposta la competenza per la convalida del trattenimento dai tribunali alle corti d’appello territoriali. Primo fatto. Alcuni giudici avevano discutibilmente disapplicato il decreto legge sui paesi sicuri, ritenendo di averne il potere e senza preoccuparsi delle conseguenze in termini di incertezza del quadro normativo. Giorni fa il Tribunale capitolino, nell’intento di chiudere il conflitto, s’è invece rivolto alla Corte europea di giustizia. La decisione del giudice unionale dovrebbe delineare gli ambiti di competenza del potere politico e di quello giurisdizionale. Le domande poste alla Corte sono quattro, tutte finalizzate ad ampliare il controllo del giudice sulle scelte politiche degli organi (governo e parlamento) del circuito democratico e rappresentativo. Già il primo quesito è significativo: la designazione di paese sicuro può avvenire con legge? Il giudice romano lo esclude, poiché i criteri della scelta resterebbero “coperti”, cioè senza motivazione: necessaria invece se il governo decidesse mediante un atto amministrativo. Chiaro: se non vi è motivazione, un giudice non può spingersi sino in fondo nel sindacare l’attendibilità della scelta stessa. Secondo quesito, eguale finalità. Il togato romano chiede alla Corte di valutare la possibilità (da lui ovviamente scartata) che il “legislatore nazionale, nel designare un paese terzo come paese di origine sicuro, non espliciti il metodo di valutazione e i criteri di giudizio adoperati in concreto, nonché le fonti dalle quali ha tratto le pertinenti informazioni su quel determinato paese”. Strategia evidente: se la legge dovesse indicare tutti questi dati, il giudice potrebbe sindacarne la congruità e l’adeguatezza. Col terzo quesito si entra nel cuore del conflitto: “Se il giudice possa servirsi di proprie fonti informative qualificate al fine di ricercare e acquisire elementi di conoscenza che possano essere confrontati con quelli su cui si fonda la qualificazione di uno stato terzo come paese di origine sicuro (qualora tali elementi di conoscenza siano stati esplicitati nel provvedimento o in un suo allegato o comunque in un documento che lo accompagni) ovvero (nel caso in cui gli elementi e le fonti utilizzati dall’autorità che ha qualificato come “sicuro” un determinato paese siano rimasti ignoti) che possano essere adoperati per svolgere un’autonoma valutazione della qualificazione dello stato terzo come paese di origine sicuro”. In breve: un giudice può fare accertamenti istruttori per proprio conto, e arrivare a conclusioni opposte a quelle del decisore politico? L’ultimo, infine. Un paese è sicuro anche se alcune categorie di persone - per esempio, dissidenti, attivisti per i diritti umani, omosessuali - sono minacciate? Lo schema si ripete. Sarebbe il giudice interno a poter verificare questa situazione a discapito della diversa valutazione fatta dal decisore politico. Veniamo adesso al secondo fatto di rilievo. Con l’emendamento al decreto flussi il governo intende attribuire la competenza alle corti d’appello, togliendola alle sezioni specializzate dei tribunali. Lasciamo perdere la retorica vacua: non vedo una ricerca di giudici compiacenti. Non ce ne sono, né devono assolutamente esserci. A pensar male (giammai lo farò), vista la provenienza delle critiche si potrebbe al contrario ritenere che con l’emendamento il governo voglia affrancarsi dal giudice avverso. A me pare che dietro l’emendamento ci possa essere un pensiero diverso. Legittimo (e criticabile) così come i provvedimenti dei tribunali. Mosso da due considerazioni. Anzitutto, la recente sentenza della Corte europea, dietro la quale si sono via via “nascosti” i vari tribunali italiani, non è affatto chiara: non a caso il tribunale romano l’ha investita con quei quattro quesiti, per consentirle - direbbe Gaber - di spiegarsi un po’ meglio. Seconda considerazione. Poiché è equivoca, quella sentenza - nell’attesa che si pronunci la Corte europea - va comunque interpretata. E un giudice d’appello potrebbe avere un approccio più riflessivo e cauto rispetto a un togato di primo grado. Meno condizionato dall’obbiettivo, per alto e nobile che sia (o lo si ritenga). Restiamo positivi. Meglio attendere una risposta definitiva da parte della Corte che assistere alle fughe in avanti di un singolo giudice: il quale disapplica le leggi italiane trovando certezze in un diritto dell’Unione sino a oggi abbastanza poco chiaro. Armi Usa senza più freni: a Kiev anche le mine antiuomo di Sabato Angieri Il Manifesto, 21 novembre 2024 Per fermare l’avanzata delle truppe russe nel Donetsk il Pentagono invierà i pericolosi ordigni proibiti dalla Convenzione di Ottawa. Dopo i missili a lungo raggio, le mine antiuomo. Le ultime settimane della presidenza Biden stanno diventando una miniera d’oro per l’Ucraina che, stando ad alcune indiscrezioni pubblicate dal Washington Post, riceverà a breve una grande fornitura di questi armamenti proibiti dalla Convenzione di Ottawa. “La Russia sta attaccando le linee ucraine nell’est con ondate di truppe, a prescindere dalle perdite - scrive il Wp - Gli ucraini ovviamente subiscono molti danni e sempre più città e insediamenti rischiano di cadere. Queste mine sono fatte appositamente per contrastare tale tendenza”. Gli ufficiali che hanno passato la soffiata al quotidiano statunitense hanno inoltre palesato la “forte preoccupazione per i recenti attacchi russi contro le linee ucraine”. Non sapendo come arginare i progressi delle truppe di Mosca, il Pentagono avrebbe valutato che “la fornitura di mine sia tra le mosse più utili che gli Usa possano fare per contribuire a rallentare gli attacchi russi”. La fonte del Post specifica che gli esplosivi sarebbero forniti per essere utilizzati solo in territorio ucraino, soprattutto nel Donetsk, e che gli ucraini si sono impegnati a non utilizzarle in aree densamente popolate. Inoltre, si tratterebbe di ordigni in grado di autodistruggersi o di diventare inattivi, “riducendo i rischi nel medio e nel lungo termine per i civili”. Ma l’esperienza che abbiamo dei conflitti del Novecento in cui sono state utilizzate le mine antiuomo ci fa temere ben altri scenari. Non può essere un caso se tra tutte le armi utilizzate dagli eserciti del mondo la maggior parte degli stati abbia deciso nel 1997 di riunirsi per firmare un impegno vincolante per “la proibizione dell’uso, stoccaggio, produzione, vendita di mine antiuomo e la loro distruzione”. Tra i 133 paesi firmatari e i 164 aderenti al Trattato non figurano gli Usa, la Russia e la Cina, 3 membri su cinque del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. L’allarme sull’avanzata russa nel Donetsk si fa sempre più assillante per i sostenitori di Kiev, i quali temono che se una delle roccaforti del fronte dovesse cedere l’intero fronte potrebbe collassare. Dunque, non c’è convenzione o scadenza di mandato che tenga, per Biden l’intento è solo quello di “contribuire a una difesa più efficace” delle posizioni ucraine. Insieme alle mine Kiev riceverà a giorni un nuovo pacchetto di armi del valore di 275 milioni di dollari dagli Usa e un’altra fornitura molto ingente (che include munizioni e mezzi corazzati) dalla Germania. Il Cremlino ha accusato l’attuale amministrazione di Washington di “fare di tutto” per continuare la guerra nell’Est dell’Europa. Ma la giornata diplomatica a Mosca è stata segnata dall’apertura di Putin ai negoziati con la Casa bianca. Non con quella attuale, ovviamente. Il portavoce del presidente, Dmitry Peskov, ha dichiarato all’agenzia Tass di essere pronto al dialogo con la sua futura omologa statunitense, Karoline Leavitt, appena nominata da Trump. La notizia arriva dopo che in mattinata l’agenzia Reuters aveva scritto “il presidente russo è aperto a discutere con Trump un accordo per il cessate il fuoco in Ucraina, ma esclude di fare concessioni territoriali importanti e insiste che Kiev abbandoni le ambizioni di entrare nella Nato”. Dal Cremlino non hanno commentato, ma Peskov ha chiarito che i russi non prenderanno in considerazione “nessuno scenario di congelamento del conflitto”. Intanto la guerra sul campo continua. Ieri Kiev ha fatto sapere di aver utilizzato i missili a lungo raggio britannici, gli Storm Shadow, contro obiettivi all’interno del territorio russo. Sui social media russi sono apparse alcune foto di frammenti di missile con la scritta in inglese ben visibile. Nella capitale ucraina invece è stata una giornata di grande apprensione. Al mattino presto l’intelligence Usa aveva avvertito l’ambasciata a Kiev di un possibile “attacco aereo massiccio” in risposta ai raid ucraini del giorno precedente. Gli uffici dell’ambasciata hanno chiuso e il personale è stato evacuato con tanto di messaggio pubblico di avvertimento. Poco dopo l’ambasciata italiana, quella greca e quella spagnola (tra le altre) hanno preso la stessa decisione. Nel primo pomeriggio, tuttavia, l’allarme è rientrato. Molto critica l’Ucraina che ha invitato gli occidentali a non “alimentare le tensioni” e a non cadere negli “attacchi psicologici del nemico”. Se l’ansia di vittoria cancella ogni divieto di Domenico Quirico La Stampa, 21 novembre 2024 Sapete cosa resterà della guerra nel Donbass e a Kursk tra dieci, venti anni? Memorie di glorie, eroismi, manovre fulminanti e penose ritirate? Niente di tutto questo. Resteranno i campi minati, mille campi di tenebre accanto all’altra orribile immondizia della guerra. Quando i trattori areranno i campi di grano in autunno e primavera verranno alla luce elmetti armi brandelli di uniformi piastrine di riconoscimento obici di cannone e bombe di aereo. E soprattutto mine, mine anticarro ed antiuomo. Questa è l’eredità di quando una storia finisce e forse già si parlerà di nuove guerre e di nuove crisi; la fine riserva queste memorie e questi oggetti dimenticati sul palcoscenico di uno spettacolo concluso. I funebri arredi della guerra. Ma non tutti saranno cimeli inerti. Con le mine la guerra realizza, annullando il tempo, la sua losca perfezione, l’ecatombe degli uomini giusti, il massacro degli innocenti. Sotto le macerie delle città, il fogliame caduto delle foreste, la sabbia dei deserti questi diabolici arnesi continuano a restare in agguato nel suolo, pronti a scatenare una morte invisibile e ancor più atroce perché coinvolgerà civili che credono di aver trovato il tempo della pace. Come in Vietnam, in Iraq, in Libia, in Afghanistan, in Siria. Una parte di quelle mine con cui sono state arate le campagne avranno la scritta “made in Usa” e allungheranno le terre di Caino su un fronte molto più largo. Sono le mine che il presidente Biden ha concesso agli ucraini da spargere davanti alle loro linee difensive e da lanciare sul territorio di Kursk precariamente occupato. La perdita del potere lo ha travolto nel lucido delirio di un re Lear che vuole prolungare un segno al di là di se stesso, una follia avventurosa e malefica che ipoteca il futuro, una eredità di Armageddon: missili micidiali e mine. La guerra contro Putin non l’ha vinta, ormai è un patetico ex, ma lavora perché quella guerra continui. Da oggi a gennaio ci saranno forse altre micidiali sorprese. Una decisione presa dopo anni di cautele, in un clima di umiliazione e isterismo morale, non una iniziativa militare calcolata ma espressione di un amor proprio ferito. I russi le hanno largamente utilizzate per la Maginot con cui hanno spezzato la fallita controffensiva di Zelensky. Avremmo desiderato che questo capitolo confermasse, anche nei mezzi usati, il racconto di una guerra tra luce e tenebre, illuminismo e barbarie, tra diritto e brutale prevaricazione. Poi constatiamo che tra gli oltre cento Paesi che hanno firmato l’accordo di messa al bando delle mine mancano tre nomi: Russia Ucraina e Stati Uniti. Come per le corti di giustizia internazionali: non aderisco, voglio avere le mani libere. Poiché tutto ciò che è ignobile ama circondarsi con i veli della ipocrisia il segretario alla Difesa americano ha puntualizzato che agli ucraini dovrebbero esser forniti ordigni “non persistenti”, ovvero che diventano inerti dopo un periodo di tempo prestabilito. Il timer della morte ovviamente non viene precisato. La tecnologia invocata in soccorso alla pulsione bellicosa, il diaframma della modernità, l’ammanta di giustificazioni, di vie di fuga. “Non saprei neppure immaginare che gli americani…”. La commedia continua. Mentre soffia l’alito incandescente di un conflitto nucleare, se credete che in guerra per democrazie e tirannidi l’unica legge non sia la necessità di vincere che cancella ogni divieto, Biden vi ha smentito. Così la guerra non finisce mai: le mine antiuomo distruggono l’ecosistema di Francesca Caruso Il Domani, 21 novembre 2024 Sono tra gli aspetti più problematici per l’applicazione del diritto umanitario internazionale. Pronte a fare vittime anche dopo la fine dei conflitti, “non distinguono tra un soldato e un bambino”. Ed è infatti tra i bambini che fanno il maggior numero di vittime. Oltre a tutto questo, le conseguenze ambientali del loro utilizzo sono devastanti. L’ambiente è una vittima silenziosa della guerra. Le immagini dall’Ucraina o dal Sudan ci ricordano che i conflitti non distruggono solo il tessuto sociale ed economico di un paese, ma anche il suo ecosistema, compromettendone così lo sviluppo e la ricostruzione in tempi di pace. La comunità internazionale ne è consapevole da tempo ed è per questo che la protezione ambientale durante i conflitti armati è tutelata direttamente e indirettamente da diversi trattati internazionali. Già nel 1977, la Convenzione di Ginevra fu aggiornata con un protocollo che proibisce l’utilizzo dell’ambiente come obiettivo militare. Da una prospettiva inversa invece, è più recente l’idea che lo stesso cambiamento climatico può indirettamente provocare tensioni che possono sfociare in conflitti. Un esempio emblematico, per chi conosce l’Africa, è il problema della transumanza. Dal Corno d’Africa al Sahel, la riduzione delle terre fertili, l’aumento della popolazione e il prosciugamento frequente dei bacini idrici hanno accentuato i conflitti, sia a livello nazionale che transnazionale, tra pastori e agricoltori. Queste dinamiche mostrano chiaramente quanto conflitti e cambiamenti ambientali siano strettamente legati, e sottolineano la necessità di adottare approcci sempre più integrati per affrontare queste sfide. Le mine letali - Nonostante la questione climatica sia ormai al centro dei dibattiti sui conflitti, sorprende però la quasi totale assenza di attenzione verso una delle minacce più pericolose alla pace: le mine. Riprendendo le parole di Jody Williams, premio Nobel per la pace, le mine non distinguono un bambino da un soldato e non sanno quando una guerra è finita: una volta a terra “sono eternamente pronte a fare vittime”. Non solo: la loro presunta o confermata presenza priva le comunità dell’accesso a terre e risorse naturali. Una volta che esplodono, la produttività agricola del suolo è compromessa. E le attività di sminamento hanno un costo ambientale altissimo. In Vietnam, dopo la guerra, si era registrata una riduzione del 50 per cento nella produzione di riso per ettaro nelle terre contaminate. Tutto ciò va ricordato perché purtroppo, come sostiene l’ultimo rapporto della Croce rossa internazionale, ancora oggi le mine rappresentano una delle maggiori sfide all’applicazione del diritto umanitario internazionale. Secondo il Land Monitor, le mine - e in particolare le munizioni a grappolo - vengono regolarmente utilizzate da gruppi armati statali e non-statali in Colombia, India, Myanmar, Ucraina e nel Sahel. Nel 2022 almeno 4.710 persone sono state uccise o ferite da mine e residui bellici esplosivi. Tra questi, l’85 per cento erano civili di cui la metà bambini. Mentre in Ucraina, come sostiene il rapporto, la Russia ha ampiamente utilizzato mine e ordigni esplosivi sin dall’inizio dell’invasione, la situazione in Africa è anche particolarmente allarmante, non solo per l’utilizzo delle mine, ma anche per il contesto in cui ciò accade. Oggi il continente affronta sfide significative legate al cambiamento climatico, a una crescita demografica esponenziale, a crisi di governance e a emergenze umanitarie. Ma a rendere il quadro ancora più preoccupante è l’attenzione limitata che i grandi paesi donatori riservano al continente. Diffusione fuori controllo - Dal 2014 a oggi, secondo Small Arms Survey, la diffusione di ordigni esplosivi improvvisati in Africa occidentale sarebbe “fuori controllo”. Si tratta di mine artigianali o, come sostiene il rapporto del centro di ricerca, di mine anti carro per lo più di origine belga che giacevano in depositi libici. Con la caduta di Gheddafi sarebbero poi passate di mano in mano, fino ad arrivare nella Repubblica Centrafricana, a migliaia di chilometri di distanza. Purtroppo però i finanziamenti per rispondere a questo fenomeno sono per il momento del tutto inadeguati. Sempre secondo Land Monitor, nel 2022 i finanziamenti destinati all’azione contro le mine costituivano lo 0,4 per cento del totale dell’Aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) a livello mondiale. E questo è ancora più preoccupante se si considera che quell’anno i finanziamenti avevano registrato un aumento del 52 per cento, equivalenti a 314,5 milioni di dollari rispetto al 2021. Tuttavia, è fondamentale sottolineare che la maggior parte di questi fondi è stata indirizzata all’Ucraina, grazie all’ampio sostegno finanziario fornito da Stati Uniti e Unione europea. Paesi come Iraq e Afghanistan hanno invece ricevuto somme inferiori rispetto all’anno precedente. Sempre nel 2022, anche in Africa si è registrato spesso un aumento di finanziamenti (come in Etiopia, Mali o Niger), ma perché la cifra iniziale era praticamente pari allo zero. Basta fare un confronto: se l’Ucraina ha ricevuto 162 milioni di dollari, l’Iraq 89, l’Afghanistan 66 e lo Yemen 64, il Mali ne ha ricevuti 2, il Burkina 2,5, il Niger poco più di 1 e il Ciad meno di 1.