Il Governo risponda dei disastri di Delmastro di Stefano Anastasia Il Manifesto, 20 novembre 2024 Confesso che preferivo il Delmastro che rivendicava la sua indifferenza nei confronti dei detenuti, uscendo dal carcere di Taranto l’estate scorsa, al Delmastro che, in confidente dialogo con Pietro Senaldi (Libero, 17.11.2024), si nasconde dietro il paravento della lotta alla mafia per giustificare politicamente il suo scivolone sul trattamento a cui sono o dovrebbero essere sottoposti i detenuti in 41bis, con tanto di dichiarata emozione per il soffocamento delle vittime. Preferivo il Delmastro tarantino perché la diceva come la pensa, senza infingimenti. All’origine c’è quell’apparente compromesso tra le anime della destra al governo contenuto nello slogan “garantisti nel processo, giustizialisti nella pena”, che al contrario tradisce l’idea stessa del garantismo: il rispetto dei diritti fondamentali di tutte le persone, senza distinzione di condizione personale e sociale, che nel diritto penale implica tanto la tutela delle vittime reali o potenziali, quanto degli indagati e degli imputati nel processo, fino ad arrivare a quella dei condannati in esecuzione penale, dentro o fuori il carcere, nelle sezioni ordinarie così come in quelle di alta o massima sicurezza. La legittimità di una democrazia costituzionale si fonda sul riconoscimento dei diritti fondamentali delle persone che la abitano e sui vincoli che ne derivano ai poteri pubblici, a garantire quei diritti, con politiche pubbliche di sostegno e con limitazioni all’esercizio del proprio potere dispositivo. Al fondo c’è l’idea della eguale dignità degli esseri umani, che non può essere revocata per decreto, fosse pure in ragione del più orribile dei delitti. L’intera Costituzione della Repubblica è edificata intorno a questa idea della dignità umana, per ragioni storiche e politiche ben note. Al contrario, la destra al governo ha una concezione meritocratica della dignità, che si acquisisce per nascita (nella Nazione) e si può perdere per demerito (deliberato dai giudici in ossequio alle leggi volute dal sovrano pro tempore). Se la dignità bisogna meritarsela, i condannati se la sono giocata nel reato. Così si comprende quel disegno di legge costituzionale presentato dall’on. Cirielli, nella scorsa legislatura firmato anche dalla presidente Meloni, che subordina l’attuazione della finalità rieducativa della pena a “esigenze di difesa sociale”. Naturalmente questo modo di pensare frutta voti e consensi tra i non esclusi (gli italici osservanti della legge sovrana) e gonfia le vele dei populismi politici, ma la prova del governo è un’altra cosa. Alla prova del governo la destra, soprattutto quella giustizialista, è chiamata a rispondere delle conseguenze delle sue azioni. E alla prova del governo, questa postura machista e forcaiola deve fare i conti con la gestione dell’esecuzione delle pene: da quando il Governo Meloni ha giurato nelle mani del Presidente della Repubblica, la popolazione detenuta è aumentata di 6.275 persone, mentre la capienza delle nostre carceri è rimasta pressoché la stessa; direttori ed educatori sono aumentati (grazie a concorsi programmati dai governi precedenti), ma la polizia e i funzionari amministrativi e contabili restano gravemente sotto organico; le misure alternative alla detenzione e le misure di comunità sono sempre più appannaggio di chi riesce ad accedervi dalla libertà, non certo di chi entra in carcere e vi rimane - nella maggior parte - dei casi fino a fine pena. In queste condizioni, il continuo incitamento alla contrapposizione tra guardie e ladri quotidianamente perseguito dal sottosegretario Delmastro sta producendo disastri, con un livello di disperazione (ottanta suicidi, centinaia tentati e migliaia di atti di autolesionismo) e conflittualità mai visto prima, di cui pagano il conto detenuti e operatori in frontiera, quelli che tutti i giorni vivono il carcere. Di questo deve rispondere il governo, prima che sia troppo tardi. Frase choc sui detenuti, Meloni giustifica Delmastro: “Parlava di mafia, vi scandalizza? A me no” di Ilario Lombardo La Stampa, 20 novembre 2024 Il sottosegretario aveva detto di godere nel non vedere respirare i detenuti nei blindati. La premier lo difende da Rio e si irrita con La Stampa. Il leader di Iv Renzi: “Lui un sadico, si deve curare. E lei mente”. Borghi: “Contro la costituzione”. Serracchiani, Pd: “Invece di fargli scudo dovrebbe farlo dimettere”. La domanda non le piace, e non fa nulla per mascherarlo. E la risposta sarà secca, prima, e molto più irritata dopo, quando la incalzeremo. Ecco la domanda: presidente non pensa di dover almeno censurare il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro che ha confessato di provare “intima gioia nel vedere non respirare i detenuti”. Neanche il tempo di ricordare cosa aveva detto il suo fedelissimo di Fratelli d’Italia, che Giorgia Meloni cerca di tagliare di netto la questione: “Ha detto che gode nel vedere non respirare la mafia, se questo vi scandalizza ne prendo atto”. Lo difende, lo giustifica, dando una lettura del tutto personale delle frasi di Delmastro, pronunciate durante la presentazione della nuova autovettura blindata in dotazione alla polizia carceraria per trasportare i criminali sotto regime di alta sicurezza. La risposta di Meloni, sotto l’hotel che la ospita a Rio de Janeiro, è elusiva. Insistiamo, seguendola verso l’auto che la porta al G20, per capire se crede davvero che non ci sia niente di strano a vantarsi di godere del fatto che i detenuti non respirino durante i trasferimenti nelle auto delle forze dell’ordine. Non la scandalizza, presidente? “Ho detto che sono scandalizzata del fatto che qualcuno dica che questo governo non voglia far respirare la mafia. Se questo la scandalizza credo che sia un problema suo”. Meloni stravolge il senso delle frasi di Delmastro e sembra metterla sul personale con il cronista. Poi entra in macchina, liquidando con sarcasmo e irritazione l’ulteriore tentativo di chiederle se lo sta giustificando: “Lui lo sa cosa ha detto meglio di lei”. A scandalizzarsi sono stati in tanti, in realtà. Tutti i partiti di opposizione, che hanno chiesto le dimissioni del sottosegretario, tra i più vicini alla premier, le camere penali, le associazioni dei detenuti che hanno definito “vergognoso e incivile” le parole del sottosegretario alla Giustizia che ha la delega proprio alle carceri. “Un sadico -la ha definito questa mattina Matteo Renzi, ex premier e leader di Italia Viva - Ha detto una delle cose più disumane che si possano dire”. A scandalizzarsi sono stati in tanti, in realtà. Tutti i partiti di opposizione, che hanno chiesto le dimissioni del sottosegretario, tra i più vicini alla premier, le camere penali, le associazioni dei detenuti che hanno definito “vergognoso e incivile” le parole del sottosegretario alla Giustizia che ha la delega proprio alle carceri. “Un sadico -la ha definito questa mattina Matteo Renzi, ex premier e leader di Italia Viva - Ha detto una delle cose più disumane che si possano dire”. Renzi ci torna poi sopra nel pomeriggio, ospite a Tagadà, su La7 dove ribadisce con ancora più forza il concetto su Delmastro: “È un sadico malato, si deve curare”, e accusa Meloni per le sue dichiarazioni dal Brasile: “Meloni mente sapendo di mentire. Difende Delmastro perché è amichetto suo. Nessuno ha parlato della mafia”. Italia Viva è il partito che più reagisce alla ricostruzione parziale e stravolta che fa la premier da Rio. Enrico Borghi, capogruppo in Senato: “Da oggi abbiamo una premier che in mondovisione difende ed evidentemente condivide il Da oggi abbiamo una premier che in mondovisione difende - ed evidentemente condivide - il sadismo di un membro del suo governo. L’articolo 27 della Costituzione dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Esattamente, a questo punto, chiediamo alla Premier come fa a far coincidere il suo giuramento di fedeltà alla Costituzione con il suo atteggiamento di fedeltà ai precetti di Colle Oppio”. Raffaella Paita, coordinatrice di Italia Viva: “Più imbarazzante del sadismo di Delmastro è la difesa a spada tratta di Meloni”. Anche il Pd stigmatizza l’atteggiamento complice della premier, con Debora Serracchiani, responsabile nazionale giustizia della segreteria di Elly Schlein: “Toppa peggio del buco. Meloni passa il tempo a dare interpretazioni improbabili alle parole inqualificabili e indegne di Delmastro. Sbaglia: invece di difenderlo, dovrebbe pretenderne le dimissioni”. Ministro Nordio, anche lei gode a veder togliere l’aria ai detenuti? di Saverio Lodato antimafiaduemila.com, 20 novembre 2024 Ci permettiamo di scrivere dell’argomento, perché in mezzo ci è finita la parola “mafia”, e in un’Italia nella quale non la si nomina mai, non dobbiamo mai essere noi a lasciarla passare inosservata. Il fatto è noto, e fra un attimo lo riassumeremo. Anche se grandi giornali e tv se ne sono tenuti debitamente alla larga: vuoi per servile rispetto dovuto al manovratore governativo, vuoi - e lo pensiamo per davvero, cioè senza ombra di ironia - perché anche il servilismo più scomposto può a volte provare vergogna, imbarazzo e, perché no? un vago senso di schifo. Il fatto, dicevamo. Intervenendo qualche giorno fa alla cerimonia indetta dalla polizia penitenziaria per la presentazione al pubblico di un nuovo modello di automobile blindata che sarà in dotazione agli agenti penitenziari, il sottosegretario alle carceri, Andrea Delmastro così si espresse: “Ma l’idea di poter vedere sfilare questo potente mezzo che dà il prestigio, con il gruppo operativo mobile sopra, far sapere ai cittadini CHI sta dietro a quel vetro oscurato, come noi sappiamo trattare CHI sta dietro quel vetro oscurato, come noi incalziamo CHI sta dietro quel vetro oscurato, come noi non lasciamo respirare CHI sta dietro quel vetro oscurato, credo sia una gioia, è sicuramente una gioia per il sottoscritto, un’intima gioia”. Solo quest’anno, detto per inciso, 80 suicidi nelle carceri italiane, materia della quale dovrebbe occuparsi il sottosegretario, almeno per ragioni del suo ufficio. Come vedete, nel delirio di Delmastro, la parola “mafia” non compariva. E noi, condividendo in toto le parole del sociologo Luigi Manconi, che, intervenendo alla Sapienza, alla necessità “di un’analisi clinica” era ricorso per spiegare l’intima gioia di un uomo che vede tolta l’aria a un altro essere umano, ci eravamo detti che la enormità di cui trattasi era talmente aberrante che a continuare a parlarne si sarebbe finito con l’ingigantirla. Di diverso avviso la premier, Giorgia Meloni, che a Rio de Janeiro, interpellata sul punto da un giornalista, ha risposto piccata: “Lui ha detto che gode nel vedere non respirare la mafia, se questo vi scandalizza ne prendo atto. Io non sono scandalizzata del fatto che qualcuno dica che questo governo non vuole fare respirare la mafia”. Eh… la Meloni crede di essere la maga imbattibile nell’arte di cadere sempre in piedi… Ma a volta esagera. Non metteva infatti in conto che l’Unione delle camere penali, il sindacato degli avvocati penalisti italiani, sarebbe insorta. E lo ha fatto chiedendo al ministro della giustizia Carlo Nordio, fior da fiore del garantismo italiano, di togliere la delega alle carceri al suo sottosegretario Delmastro perché “palesemente inadatto a interpretare la funzione che gli è stata attribuita”. Siamo dell’avviso che la Meloni, tirando in ballo la mafia, abbia aggravato, ancora di più la situazione del suo protetto. Forse lo avrà fatto pensando che parlare di mafia sia “figo”. Una “paraculata” dialettica, come si dice in questi casi, per non pagar dazio. E ora sarà Nordio a dover prendere davvero le distanze, spiegando che le autorità italiane l’aria non la tolsero mai neanche a Totò Riina. Nelle carceri si soffre, altro che “intima gioia” di Daria Bignardi vanityfair.it, 20 novembre 2024 Nelle nostre galere c’è sempre più dolore e insensatezza. Bisognerebbe avere rispetto per chi soffre. Altro che intima gioia. Perché le parole pronunciate dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro dopo la presentazione della nuova auto per trasporto detenuti 41bis suscitano indignazione. Sono andata a vedere il video perché non ci credevo. Ma il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro lo ha detto davvero. Dopo aver assistito alla presentazione della “nuova autovettura blindata con cellula detentiva, unica nel suo genere, con tre telecamere nell’abitacolo, chiusura della cellula detentiva automatizzata e temporizzata, blocca manette, blocca porte e blocca arma gestibili da consolle”, ha declamato che “l’idea di vedere sfilare questo potente mezzo, far sapere ai cittadini chi sta dietro a quel vetro oscurato, come noi incalziamo chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è sicuramente per il sottoscritto un’intima gioia, e credo che in una visione molto semplificata dell’esistenza sia una gioia per tutti i ragazzi che si affacciano alla vita e vogliono scegliere di servire lo Stato nella Polizia Penitenziaria come prima scelta”. Che i ragazzi che si affacciano alla vita provino un’intima gioia per cose di questo genere mi sentirei di escluderlo. E nemmeno che la provino gli agenti di Polizia Penitenziaria, che, al contrario del sottosegretario, insieme ai detenuti ci passano le giornate e sanno benissimo che più soffrono i detenuti e più soffrono le guardie. Carceri che esplodono come pentole a pressione, detenuti e agenti che si ammazzano per disperazione, minorenni che si tagliano le braccia e si intossicano col fumo dei materassi bruciati, parenti disperati, personale insufficiente e stremato, bambini che con le nuove leggi rientrano in carcere, la Corte europea per i diritti dell’uomo che ci tiene d’occhio pronta a condannarci di nuovo come nel 2013: nelle nostre galere c’è sempre più dolore e insensatezza. Bisognerebbe avere rispetto per chi soffre. Altro che intima gioia. Nordio pensa a un negoziatore per contenere le sommosse carcerarie di Riccardo Carlino Il Foglio, 20 novembre 2024 Dentro le carceri italiane potrebbe arrivare una figura specializzata per sedare e prevenire l’esplosione di rivolte. Un ruolo ancora tutto da costruire, ma che per alcune associazioni a tutela dei diritti è “espressione di una concezione autoritaria e militare”. Si chiama “negoziatore penitenziario” la nuova figura che il ministero della Giustizia vorrebbe introdurre negli istituti penitenziari italiani per tentare di sedare le rivolte e prevenire lo scoppio di tensioni fra detenuti e forze di polizia. Nella bozza di un apposito decreto ministeriale pubblicata all’inizio di novembre, si parla di un ruolo altamente specializzato capace di intervenire nei casi di più speciale complessità “attuando le tecniche operative idonee rispetto al livello di rischio dello scenario”, mirate a una “gestione non conflittuale della situazione”. Nel dettaglio, la presenza di un negoziatore punta a “favorire la de-escalation emotiva dei soggetti coinvolti, il contenimento della minaccia, prendere tempo, salvaguardare la tutela dell’incolumità dei presenti” e, nei casi più gravi, gettare le basi “per la resa del soggetto e l’eventuale rilascio di ostaggi”. Il ministero delinea due gradi di specializzazione, a seconda delle qualifiche attribuite. A un negoziatore di primo livello che interviene direttamente sul campo nelle situazioni di crisi, se ne affianca uno di secondo livello qualificato come istruttore. Il quale “svolge attività di docenza e concorre all’organizzazione delle attività formative di base e di aggiornamento” sia per il negoziatore di grado inferiore che per il resto del personale penitenziario, fornendo il suo supporto anche nei casi di eccezionale gravità. La bozza definisce poi la struttura gerarchica in cui si incardina questo speciale mediatore, che opera all’interno di unità preesistenti come il gruppo operativo mobile, il nucleo investigativo centrale e il gruppo di intervento operativo. Potranno diventare negoziatori solo gli ispettori e i sovrintendenti della polizia penitenziaria. I quali, per candidarsi alla apposita selezione, dovranno possedere un’anzianità di servizio di almeno 5 anni, insieme all’assenza di patologie che arrechino pregiudizio al servizio operativo, e assenza di procedimenti penali in corso o sentenze di condanna. Superata questa fase prenderà il via un corso di specializzazione di almeno tre settimane in un istituto di istruzione designato dall’amministrazione, a cui seguirà un periodo di prova di almeno un anno. Dopo di che, il negoziatore avrà l’obbligo di “permanere nelle funzioni della qualifica per almeno quattro anni”, in modo da assicurare la continuità del servizio. “L’idea che un detenuto con problemi psichiatrici o un ragazzino che proviene da un contesto disagiato, dopo aver avuto un momento di difficoltà invece di finire in una cella di isolamento trovi una persona esperta e formata capace di parlargli e usare tecniche di de-escalation mi sembra un’idea assolutamente condivisibile”, dice al Foglio Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone, attiva da anni a tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. Tuttavia, “questa formazione dovrebbe essere data a tutte le figure, all’educatore allo psicologo al medico e ai poliziotti penitenziari e agli amministrativi. Se scegliamo di creare una figura specifica è un po’ bizzarro che si scelga fra le figure più custodiali che ci sono, ossia i poliziotti del gruppo operativo mobile”, prosegue “ma questa è solo una prima impressione, perché si sa ancora troppo poco”. L’introduzione di una figura di questo tipo può sembrare apparentemente in contrasto con gli interventi panpenalistici portati avanti dal governo Meloni, che sin dal suo insediamento ha introdotto 48 nuovi reati e svariati aumenti di pena. Invece, dice Marietti, “potrebbe essere del tutto coerente con la loro cultura securitaria”. Perché, spiega, “se penso che tutti i problemi del mondo si risolvono mettendo la gente in galera, per evitare l’esplosione di rivolte poi devo assumere persone che sappiano mediare e risolvere conflitti interni con queste tecniche”. L’arrivo di un negoziatore è bocciato con più decisione da Nessuno tocchi Caino, ong italiana impegnata contro la pena di morte e le condizioni estreme di carcerazione. “Trasmette l’idea di una non comprensione di quelle che sono le dinamiche della comunità penitenziaria” commenta la co fondatrice Elisabetta Zamparutti. Secondo cui, in un momento di conflittualità interna al carcere, dovrebbero essere piuttosto “i direttori e gli educatori a cercare di placare la tensione”, ossia “tutte quelle persone di prossimità che quotidianamente sono in contatto con i detenuti, conoscono i loro problemi e sanno come trattarli”, e non un agente della polizia penitenziaria. La creazione di una figura mediatrice è quindi “l’espressione di una concezione autoritaria e militare, di un intervento esterno per salvare la comunità in difficoltà” continua Zamparutti: “Sembra di assistere a un film, quando dopo un sequestro o rapina in banca e arriva il negoziatore insieme alla polizia. Ma la realtà è un’altra”. La misura fa il paio con un altro strumento nato per gestire il fenomeno delle rivolte carcerarie. Introdotto tramite il decreto ministeriale del 14 maggio 2024, il Gruppo di intervento operativo (Gio) è una squadra di oltre 200 unità addestrate per contenere in poco tempo le sommosse nei penitenziari e ripristinare le condizioni di sicurezza nelle carceri italiane. Dovrebbe entrare in funzione già entro la fine dell’anno, con vari distaccamenti regionali. “Anche questo è espressione di una visione militaresca, con un corpo di agenti addestrati per reprimere la rivolta, a cui si aggiunge ora anche un negoziatore” prosegue Zamparutti, che ritiene l’insieme di tutte queste misure rientrante nel medesimo impianto concettuale “improntato al rapporto di forza, quando invece nelle carceri andrebbe costruita la forza dei rapporti”. Chi sbaglia paga, ma il carcere non può diventare una discarica sociale per i minori di Paola Balducci Il Dubbio, 20 novembre 2024 Ci occupiamo spesso dei temi riguardanti il sovraffollamento carcerario, parliamo di come le nostre carceri stiano vivendo un momento drammatico e difficile da oramai troppo tempo. Tuttavia, non possiamo continuare ad ignorare come anche il sistema penitenziario minorile, che ha spesso rappresentato una realtà meno problematica nel sistema carcerario italiano, stia vivendo una realtà drammatica. In un solo anno il numero di ingressi negli istituti penitenziari per minorenni è aumentato esponenzialmente, portando un sistema già di per sé fragile e complesso molto vicino al collasso. La funzione della pena, come sancito dalla nostra Carta costituzionale, è quella di rieducare il reo, di permettergli di rientrare in società ricucendo la frattura dell’ordine sociale creata dal reato, e tale principio fondamentale risulta ancora più urgente ed essenziale nei confronti dei minorenni, con un futuro ancora più ampio da riscrivere e “salvare”. La rieducazione, nell’ottica del sistema carcerario minorile, assume un’importanza fondamentale: dimostrare ai ragazzi cosa significhi il vivere all’insegna della legalità, del rispetto delle leggi, dimostrare loro che il loro futuro ha la possibilità di non essere segnato indelebilmente dal reato commesso, riveste un’importanza fondamentale. Come possiamo dunque aiutarli, porre argine alla loro deriva sociale, rinchiudendoli in strutture non idonee, sovraffollate, spesso carenti delle condizioni igienico - sanitarie minime e senza adeguati sostegni educativi e psicologici? Molto spesso i ragazzi negli Ipm vengono da situazioni familiari o sociali disagiate oppure sono soli al mondo, come ci ricorda il dramma dei minori stranieri non accompagnati, che molto spesso si ritrovano a delinquere in quanto convinti che sia solo quella la strada per poter sopravvivere. Ma ancora, abbiamo assistito ad una deriva sociale riguardante moltissimi ragazzi: si pensi solo che anche la percentuale di reati sessuali commessi tra i minorenni è aumentata nel corso del tempo, portando ad un’escalation di violenza nuda e cruda, commessa nell’illusione, molto breve, di non subire conseguenze. C’è chi imputa l’origine della violenza agli ambienti frequentati, all’utilizzo dei social, all’influenza di determinate “culture del crimine” che portano i ragazzi a pensare che delinquere sia un qualcosa di prestigio. Ed è proprio per questo che dovrebbero esserci percorsi di recupero concreti, sostegni incessanti volti all’accoglienza e alla reintegrazione sociale. Ad un anno dall’entrata in vigore del decreto “Caivano”, il carcere minorenne ha iniziato lentamente a mostrare un volto nuovo, più duro, più complicato. Gli istituti penitenziari per minorenni, a parte alcuni esempi virtuosi che risultano comunque molto vicini al collasso, hanno iniziato una costante metamorfosi in piccole discariche sociali per giovanissimi, che finiscono con produrre nuova criminalità ed esacerbare numerosi problemi già presenti. Abbiamo sempre cercato di preservare gli Ipm come luoghi connotati da una pregnante vocazione educativa, in particolare grazie ad attività scolastiche e di reinserimento sociale, ma in queste condizioni risulta veramente difficile offrire speranza a chi la speranza, anche da giovanissimo, sembra non vederla. Occorre pur sempre ricordare che i minori presenti negli istituti sono per la maggior parte infradiciottenni, che stanno vivendo uno dei momenti fondamentali della propria crescita e che li porterà ad essere gli uomini e le donne del futuro. Far espiare loro la pena in tali condizioni, potrebbe contribuire ad alimentare il sistema delle “porte girevoli”: esco dal carcere, ho conosciuto solo il crimine nella mia vita, delinquo ancora, ritorno in carcere. I detenuti chiedono molto spesso di essere visti, di essere ascoltati: è bello ricordare come i giudici della Corte costituzionale abbiano fatto un “viaggio” negli istituti di pena, proprio per toccare con mano le situazioni che si intrecciano al loro interno. A maggior ragione per i ragazzi, il più delle volte già in una situazione di abbandono familiare o sociale, sapere di non essere abbandonati a loro stessi neanche dallo Stato, vedere le istituzioni come vicine, come un’opportunità di ripristino, risulta fondamentale. Diamo una possibilità a questi ragazzi, che non sia un “liberi tutti”: chi sbaglia paga, ma deve pagare in condizioni dignitose e giuste, per non dimenticare mai cosa hanno lasciato e cosa potrebbero trovare oltre delle sbarre che non devono tarpare le ali a chi non ha avuto ancora modo di spiegarle. Grazia Zuffa: “È sessismo e razzismo mettere in prigione le donne incinte” di Angela Stella L’Unità, 20 novembre 2024 Il ddl sicurezza, in discussione ora al Senato, prevede, fra le varie misure repressive, la non obbligatorietà del rinvio della pena per le donne incinte e per le madri di bambini fino a un anno di età. Per questo ieri, in una conferenza stampa a Palazzo Madama, è stata rilanciato l’appello “Madri Fuori, dallo stigma e dal carcere, insieme ai loro bambini e bambine”. Si tratta di una misura “sessista e razzista”, dice à Grazia Zuffa, presidente della Società della Ragione, tra i promotori della campagna. “Con questa norma, non solo si punisce la donna per la “doppia colpa” di aver tradito col reato la “missione” materna, sulla scia dello stereotipo patriarcale; ma si permette che lo stigma ricada pesantemente sui bambini. Inoltre, è stata ritagliata per punire le donne di etnia rom. In generale il ddl sicurezza vuole colpire le categorie più fragili della collettività. In particolare la detenzione delle donne è parte significativa della cosiddetta “detenzione sociale”: persone che non dovrebbero neppure essere punite con la reclusione”, aggiunge Zuffa. “Nessun bambino e bambina dovrebbe stare in carcere, il carcere non è luogo dove la relazione madre bambino possa essere serena, tantomeno può essere il luogo ove una donna possa portare avanti in condizioni di sicurezza e dignità la propria gravidanza e, infine, partorire”. Com’è noto il ddl sicurezza, in discussione ora al Senato, prevede, fra le varie misure repressive, la non obbligatorietà del rinvio della pena per le donne incinte e per le madri di bambini fino a un anno di età. Per questo ieri a Palazzo Madama si è svolta la conferenza stampa “Ogni bambina e ogni bambino ha il diritto di nascere in libertà. No al carcere per le donne incinte” All’iniziativa sono intervenuti, tra gli altri, la senatrice Cecilia D’Elia, e i deputati Paolo Ciani e Riccardo Magi. Noi ne parliamo con Grazia Zuffa, presidente de “La Società della Ragione”, che rilancia appunto la campagna “Madri Fuori, dallo stigma e dal carcere, insieme ai loro bambini e bambine”. Come nasce questa iniziativa? Non è la prima volta che la destra si accanisce contro le madri detenute: nel 2023, nel corso di una discussione alla Camera finalizzata di nuovo ad eliminare il suddetto scandalo dei “bambini dietro le sbarre” e concedere alle detenuti madri misure alternative, esponenti della maggioranza non trovarono di meglio che bloccare l’iniziativa, rilanciando la proposta di togliere la potestà genitoriale, da loro nominata “patria potestà”, con un significativo tuffo nel passato, alle donne condannate con sentenza definitiva. Quella iniziativa parlamentare come quella contenuta nel ddl sicurezza è frutto dell’ideologia patriarcale e dell’intento punitivistico della destra nei confronti delle donne detenute, in genere incarcerate per reati minori. Allora facemmo partire la campagna “Madri Fuori, dallo stigma e dal carcere insieme alle loro bambine e bambini”, lanciando un appello per dedicare la festa della Mamma 2023 alle donne detenute. Eravamo inizialmente un gruppo di donne vicine alla Società della Ragione, poi si aggiunsero molte altre donne e altri uomini e tante associazioni. In diverse parti d’Italia, delegazioni di donne andarono in carcere a incontrare le detenute per la festa della Mamma. Oggi è necessario riproporre quell’appello. Perché? Il ddl sicurezza è in continuità con l’iniziativa del 2023. Con quanto previsto, il governo e la maggioranza riescono persino a peggiorare il codice Rocco, nonostante la Costituzione si esprima in maniera estremamente chiara a favore della tutela della maternità e dell’infanzia e nonostante i pronunciamenti nello stesso senso della Corte costituzionale e delle convenzioni internazionali. Se dovesse usare degli aggettivi per descrivere la norma? Direi sessista e razzista. Con questa norma, non solo si punisce la donna per la “doppia colpa” di aver tradito col reato la “missione” materna, sulla scia dello stereotipo patriarcale; ma si permette che lo stigma ricada pesantemente sui bambini. Inoltre, è stata ritagliata per punire le donne di etnia rom. In generale il ddl sicurezza vuole colpire le categorie più fragili della collettività. In particolare la detenzione delle donne è parte significativa della cosiddetta “detenzione sociale”: persone che non dovrebbero neppure essere punite con la reclusione. Si sostiene da destra che non è più tollerabile che le donne rom, borseggiatrici di mestiere, rimangano costantemente incinte per non andare in carcere... Si risponde che intanto in carcere ci stanno. Come dicevo prima, la stragrande maggioranza delle donne detenute lo sono per reati minori, come può essere il furto o il borseggio. Poi sostenere che le donne rom rimangano appositamente incinte è come dire che rubano i bambini, sono stereotipi frutto di pregiudizi. Può anche darsi che qualcuna che avrebbe dovuto essere incarcerata per furto abbia usufruito del differimento pena perché incinta, ma dubito che al giorno d’oggi ci siano le “incinte seriali”. Scrivere una legge partendo da questo presupposto è davvero ridicolo. Cosa significa per un bambino nascere o stare in carcere? Come scriviamo nell’appello nessun bambino e bambina dovrebbe stare in carcere, il carcere non è luogo dove la relazione madre bambino possa essere serena, tantomeno può essere il luogo ove una donna possa portare avanti in condizioni di sicurezza e dignità la propria gravidanza e, infine, partorire. Secondo lei ci sono margini affinché si modifichi la previsione normativa? Dovrebbe chiederlo ai parlamentari. Quello che posso dire è che abbiamo un Parlamento in cui non si parla più, in cui non si discute più, in cui sembra esserci un’idea per cui “noi siamo la maggioranza e quindi andiamo avanti senza confronto, con la forza dei numeri e tanto basti”. A proposito di patriarcato, il ministro Valditara in un messaggio inviato per l’istituzione di una fondazione dedicata a Giulia Cecchettin ha detto che il patriarcato è finito e che l’aumento delle violenze sessuali è da addebitare all’immigrazione clandestina. Che ne pensa? Il secondo punto è grottesco: la fondazione vuole combattere i femminicidi e proprio la morte di Giulia dimostra che l’immigrazione non c’entra niente. Poi è paradossale che proprio un esponente di questo governo dica che il patriarcato è finito. Lo dimostra quanto dicevo all’inizio: a destra perfino parlano di patria potestà invece che di potestà genitoriale. Certamente il patriarcato non è più dominante, grazie alla presa di coscienza delle donne, però esistono dei nuclei forti di resistenza conservatrice patriarcale proprio all’interno della cultura di destra. Lei sta dicendo che a destra promuovono la cultura del patriarcato ma contemporaneamente la negano per una questione di immagine? Esattamente. Sono ben radicati nella cultura del patriarcato. Siccome però le donne hanno smascherato questa cultura, per loro è scomodo essere inquadrati come i rappresentanti ultimi di quella cultura. E dunque negano che esista. Tra decreti e silenzi la politica non espelle il virus giustizialista di Associazione Extrema Ratio Il Dubbio, 20 novembre 2024 Lo ha sottolineato anche Franco Gabrielli: “Il solito approccio panpenalista è un approccio sbagliato”. In un recente intervento sul Foglio, l’ex capo della Polizia ed ex direttore dell’Aisi, sollecitato da Carmelo Caruso, non si è trattenuto: “L’idea che “tutti in carcere e buttiamo via le chiavi” è una frase a effetto, di colore, per non rispondere alla vera domanda: perché siamo vulnerabili?”. Dunque, altro che “pene più severe”, come incoraggia Giorgia Meloni per risolvere la questione cybersicurezza, evitare i dossieraggi e contrastare gli spioni. Non serve l’inasprimento delle sanzioni, “che è solo fumo negli occhi”, ma un intervento di rinnovamento delle infrastrutture pubbliche digitali, una strategia ben più ampia, faticosa e risolutiva, a lungo termine. Ecco, una proposta che, in altre parole, non somiglia affatto al diritto penale: arma spuntata e di facile consumo, tarata sull’intervento fuori tempo massimo, quando è troppo tardi per offrire un’alternativa a ciò che è successo. Eppure, ogniqualvolta l’attualità spinga e chiami in gioco la politica, il Governo, con riflesso pavloviano, mette in scena un intervento simbolico e punitivo. Così, una storia che quantomeno mette a nudo lo stato di salute delle nostre infrastrutture e le sue fragilità, sfuma nella spy story di bassa lega sull’intreccio di “eversione, complotto e teorie più fantasmagoriche” (per utilizzare sempre le parole di Gabrielli, questa volta sulle pagine di Repubblica). Fumo negli occhi, si diceva. A far riflettere, poi, è che considerazioni del genere giungano da chi, per una vita, ha diretto ai più alti livelli alcuni degli snodi centrali della pubblica sicurezza del nostro Paese, e non dalle solite voci più sensibili al tema (si pensi a certa Accademia, all’U.C.P.I., ad Antigone, a Nessuno Tocchi Caino o a un’altra delle rare realtà che studiano, praticano e vivono il diritto penale). Chissà se basterà per insinuare anche un solo dubbio tra i giustizialisti più fanatici (ecco, speriamo che non si tratti di una velleità da garantisti) sul fatto che l’equazione non vale: all’inflazione penalistica non corrisponde un aumento della sicurezza. A far allarmare, in più, è che l’atteggiamento dell’esecutivo sia il solito, dall’insediamento ad oggi: quello panpenalista, per l’appunto. L’opposto, peraltro, di quanto dichiarato dal Ministro Nordio due anni fa, quando parlava come dottor Jekyll e, nel vetro di qualche locale di un palazzo in via Arenula, non si era ancora specchiato in Mr. Hyde. Per inquadrare il dualismo del già procuratore aggiunto della Procura di Venezia, si noti che perfino la Treccani, alla voce panpenalismo, si avvale ancora delle parole (risalenti) dello stesso Guardasigilli, secondo cui “le pene non devono essere aumentate, semmai diminuite”. Eppure, soltanto con l’abolizione dell’abuso di ufficio e la riformulazione restrittiva del delitto di traffico d’influenze illecite si è invertito (per un brevissimo e isolato lampo) il trend della penalità al rialzo. E il resto? Quasi cinquanta nuove fattispecie di reato. Basterebbe nominare un qualsiasi fatto di cronaca degli ultimi tempi per accorgersi che il Governo ha reagito su misura, in maniera sartoriale, con un reato, una circostanza aggravante, l’inasprimento di una cornice edittale o perfino qualche ostatività, ricorrendo ossessivamente alla decretazione d’urgenza. Il diktat dell’ultima legislatura, allora, è ormai chiaro: il diritto penale è, per la politica, filtro e soluzione alla realtà. In altre parole, un habitus mentale, che per certi versi nella memoria rinvia all’esperienza giallo-verde del primo Conte. Risalendo la cronaca pertanto, dicevamo, sarà facile trovarvi un corrispondente normativo di matrice penale: il decreto “anti-rave” (varato dopo poco più di una settimana dal giuramento del Governo) appare oggi come il terribile presagio della linea proseguita con il decreto Caivano (soprattutto in materia di penale minorile), consolidata dal decreto Cutro (si pensi al cd. reato per gli scafisti), avallata da ldecreto Carcere sicuro o, peggio ancora, svuota carceri (di estrema gravità per ciò che non conteneva, cioè nessuna misura “urgente” rispetto la vera urgenza delle carceri sovraffollate e disumane) e ora culminata con l’ultimo pacchetto sicurezza, ossia un agglomerato di paranoie repressive, scelte propagandistiche e manifesti ideologici (tra tutti, il blocco stradale o ferroviario mediante ostruzione con il corpo, la criminalizzazione delle condotte accessorie al consumo della cannabis light, il delitto di rivolta negli istituti penitenziari, anche nelle modalità passive). Al giro di boa di metà mandato, il carcere (sempre più affollato e scenario di un numero crescente di suicidi) sembra essere fuori da ogni schema o slancio riformatore migliorativo, l’ordinamento penale straborda più di prima e il rapporto sgangherato dell’esecutivo con la magistratura rischia di fare il gioco di chi vuole gettare un pregiudizio su una delle poche proposte meritevoli avanzate dalla maggioranza: la riforma costituzionale della separazione delle carriere, che molto ha a che vedere con il principio del giusto processo e nulla, invece, con lo scontro tra poteri. Ma sono duri i tempi per il garantismo se, davanti a tanto panpenalismo, l’ala più liberale della maggioranza è inerte e nemmeno un meccanismo di pura reazione all’interno del gioco delle parti democratico sia capace di suscitare, nell’opposizione, la riflessione su una proposta politica unita e alternativa, che metta al bando l’utilizzo propagandistico del diritto penale, fuori dal sistema delle opportunità e finalmente sul piano della necessità. Davanti ad una politica che, per ragioni di profitto elettorale, è sempre più sorda alle esigenze costituzionali - si sa, introdurre nuovi reati non pesa (almeno nell’immediato) sulla legge di bilancio ed è assai remunerativo mediaticamente -, bisogna aumentare la domanda sociale di garantismo. Solo così, in una prospettiva a lungo termine, potrà essere messa al centro dell’agenda del Paese. Per ora, come si diceva, sono duri i tempi per il garantismo. Con Dell’Utri e Cospito. E oggi con i migranti e i giudici che li liberano: questo è garantismo di Ilario Ammendolia L’Unità, 20 novembre 2024 Mercoledì scorso, ospite di Lilly Gruber, Salvini supportava le sue accuse contro i giudici “comunisti” con i numeri: 30mila innocenti arrestati negli ultimi trent’anni. Troppi per Salvini e troppi anche per me. Con una differenza: quando nel 2019 scattava l’operazione “Rinascita Scott” che sbatteva in galera quasi 500 calabresi, su Il Riformista definivo quella retata uno show. Salvini che fino a due mesi prima era stato ministro dell’Interno, con un libro di Gratteri sotto il braccio, si recò alla procura di Catanzaro per farsi fare la dedica e congratularsi col magistrato-eroe. Eppure nessun tribunale aveva ancora giudicato, e tantomeno condannato, gli imputati. Oggi, dopo il primo grado di giudizio, sappiamo che molti di loro erano innocenti. Aldilà del merito non abbiamo mai avuto dubbi: quel modo di procedere e di colpire nel mucchio era in aperto contrasto con lo Stato di diritto, sputtanava i calabresi e soprattutto avrebbe rovinato la vita a centinaia di innocenti senza scalfire la ‘ndrangheta. Per sostenere le nostre tesi bisognava sfidare il “pensiero unico” dei media che suonavano la grancassa mettendo sullo stesso piano “Rinascita Scott” col maxi processo di Palermo. Salvini fu tra questi. Probabilmente egli considerava gli innocenti imprigionati “zecche calabre” e quindi di nessuna importanza mentre oggi, è convinto che i giudici sono dei comunisti solo perché tutelano i diritti di pochi disgraziati destinati ad essere internati nello Spielberg di Albania. Semplifichiamo, la magistratura, secondo Salvini (e purtroppo non solo per lui), può fare tutto ciò che vuole purché contro gli ultimi, i senza nome, e soprattutto purché non rompa i coglioni al governo quando vuole rinchiudere in prigione le “zecche nere” che arrivano dall’Africa. In un tale contesto molti sostengono che ci troviamo dinanzi all’ennesimo scontro tra magistratura e politica, invece siamo dinanzi ad un duro scontro di classe dal momento che si vuole togliere agli ultimi dell’Italia e del mondo, la tutela della legge. Bisogna aggiungere che oggi la sinistra ha preso posizione a favore dei giudici che hanno fatto rispettare la legge anche a costo di mettersi contro il governo e di fare arrabbiare Musk. Una posizione giusta, ma sarebbe stata più coerente e credibile se in passato avesse trovato la forza di chiedere il rispetto delle garanzie costituzionali anche e soprattutto quando a violare leggi e regole sono stati gli stessi magistrati. Invece, ha colpevolmente taciuto dinanzi alle mille “retate” che hanno avuto il compito di nascondere il fatto che intere aree del Paese venivano consegnate alle mafie; è stata zitta quando ad essere colpiti da ingiusti provvedimenti della magistratura sono stati esponenti della destra. Non tutti. C’è stato e c’è un garantismo di antica scuola democratica che, nonostante momenti bui, non ha perso la bussola: garantisti con Dell’Utri come con l’anarchico Cospito che, incredibilmente, continua a scontare la pena in regime di carcere duro. Garantisti soprattutto con migliaia di persone sconosciute, ingiustamente arrestate e con tutti coloro che sono detenuti in galere che sono esse stesse un insulto alla Costituzione. Per le cose appena dette e per altre ancora, mi sembra folle confondere l’attacco del centrodestra contro alcuni giudici come una opportunità per arginare lo strapotere di una parte della magistratura (che pur c’è), dal momento che la natura stessa di un tale attacco nasconde una brama di potere assoluto a cui bisogna assolutamente sbarrare il passo. E lo dobbiamo fare come garantisti impegnati su questo fronte da oltre mezzo secolo per contrastare - spesso in solitudine - un progetto eversivo proveniente dall’interno della magistratura. Oggi il posto dei garantisti è accanto agli internati di Albania e, quindi, accanto ai giudici che in nome delle leggi vigenti si oppongono alla deportazione degli ultimi della terra. Non conosco le idee di questi giudici ma dubito che si tratti di comunisti, qualora lo fossero sarebbe un motivo in più per stare al loro fianco. Nessuno lo dovrebbe dimenticare: la Costituzione è firmata dal comunista Umberto Terracini. Non lo cito a caso. Terracini nel 1966 fu il primo a proporre, per il ventennale della Repubblica, un provvedimento di amnistia e indulto, convinto com’era che quasi mai il carcere possa essere l’antidoto giusto per arginare la violenza e la criminalità, mentre spesso è un moltiplicatore di violenza e terreno fertile per la criminalità organizzata. Terracini non parlava a caso, avendo trascorso ben 11 anni della sua vita nelle galere fasciste che somigliavano tremendamente al carcere costruito in Albania. Il diritto di critica dei magistrati di Paolo Borgna Avvenire, 20 novembre 2024 Anche i più severi critici di certe improvvide esternazioni di alcuni magistrati dovrebbero fare un salto sulla sedia nel leggere la notizia che due consigliere del Csm avrebbero invocato una censura disciplinare per il magistrato Stefano Musolino (segretario nazionale di Magistratura democratica) per alcuni suoi interventi pubblici critici verso il ddl “sicurezza”. Lo stupore aumenta se si leggono le frasi incriminate: “Siamo molto preoccupati. Esiste un problema di gestione del dissenso che non può essere affrontato attraverso strumenti penali. I conflitti possono essere deleteri se non si basano sul rispetto reciproco delle posizioni e possono essere invece molto fruttuosi se vengono gestiti e governati. Ma per farlo, non si può ricorrere allo strumento penale. Non si possono inventare nuove norme per radicalizzare il dissenso e, addirittura, criminalizzarlo”. E ancora: “Non esiste un’imparzialità come condizione pre-data, come stato del magistrato, l’imparzialità è qualcosa verso cui si tende”. Parecchi anni fa, in un contesto politico molto diverso, quando a essere criticata da alcuni magistrati era una riforma voluta da un governo di centro-sinistra, ci capitò di ricordare che Kant, in “Che cos’è l’illuminismo”, rivendicava, per chiunque sia inserito in un particolare meccanismo statale, il diritto di fare pubblicamente uso del proprio intelletto. E che, a ben vedere, il filosofo tedesco affermava qualcosa di più: è quasi un dovere, per il servitore dello Stato, mettere la sua esperienza e competenza tecnica a disposizione del miglior funzionamento dell’amministrazione, non rinunciando a parlare in prima persona. Ma, chiarito questo punto, ricordavamo anche che il magistrato e storico Alessandro Galante Garrone ci rammentava che nell’espressione del proprio pensiero il magistrato deve “avere, nelle forme, un self control particolare”. Spiegando che, nei suoi interventi esterni, “il giudice deve evitare qualunque atteggiamento che lo faccia apparire legato ad una piuttosto che ad un’altra parte, o che possa far sorgere, nella persona che da quel magistrato si trova ad essere giudicata, l’impressione, seppure erronea, di una pregiudiziale tendenza alla simpatia o all’antipatia”. E - in piena epoca post “Mani pulite” - scriveva: “Soprattutto negli anni scorsi, ho trovato qua e là un’imprudente accentuazione di passione politica unilaterale da parte di qualche giudice” (Il mite giacobino, 1994, pp. 45-46). Esercitare il diritto di critica non può voler dire lanciare anatemi e interdizioni morali; atteggiamento che è sempre infruttuoso ma che è ancor più irritante se assunto da un magistrato, perché da troppi anni serpeggia, in un’ampia fascia dell’opinione pubblica, la tendenza a vedere i pubblici ministeri come tutori della morale più che come garanti dei diritti. Aggiungeva, il nostro maestro, che nel parlare in pubblico il magistrato deve rifuggire da atteggiamenti di schieramento, senza farsi trascinare in personalizzazioni. Senza trattare come “nemici della democrazia” coloro che sostengono tesi opposte. Senza pensare di dover fermare i “barbari alle porte”. Demonizzare chi la pensa diversamente da te può servire a suscitare l’applauso della platea. Ma non fa fare un passo avanti. Ebbene, ci pare che le espressioni usate da Stefano Musolino non abbiano affatto superato questi limiti, delineati da Galante Garrone. Le due consigliere del Csm che oggi vorrebbero censurare Musolino aggiungono una circostanza illuminante: evidenziano che in un caso egli ha pronunciato le sue critiche a un convegno di un’associazione “avente una spiccata connotazione antigovernativa”. Domanda: se il magistrato fosse intervenuto ad un convegno “governativo”, tutto sarebbe andato bene? Si pretende che i magistrati aprano bocca solo in consessi “filogovernativi”? Alle due consigliere vorrei ricordare un fatto di 34 anni fa. Paolo Borsellino - che in gioventù era stato dirigente del Fuan, associazione degli universitari di estrema destra - nel settembre 1990 partecipò a Siracusa alla Festa nazionale del Fronte della Gioventù (organizzazione giovanile del Msi); salutando i giovani missini con queste parole: “Potrei anche morire da un momento all’altro, ma morirò sereno pensando che esistono giovani come voi a difendere le idee in cui credono”. Il Msi, all’epoca, aveva una “spiccata connotazione” contraria al Governo (un “pentapartito”, Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli, presieduto da Giulio Andreotti). Il ministro della Giustizia dell’epoca era il grande antifascista Giuliano Vassalli; il quale neppure per un secondo pensò di esercitare l’azione disciplinare contro Borsellino. Avrebbe forse dovuto farlo? Attenzione a invocare le censure. Soprattutto, attenzione alla logica dei “due pesi, due misure”. E non dimentichiamo la lezione di uomini come Vassalli. Giudici all’opposizione, un errore di prospettiva di Guido Clemente di San Luca* Il Manifesto, 20 novembre 2024 Nella quotidiana vita giudiziaria, diversamente da quanto appare, è tutt’altro che raro rinvenire sentenze favorevoli agli interessi delle maggioranze. I cardini dello Stato di diritto - è sotto gli occhi di tutti - sono in grave crisi. Il principio di legalità - intesa come il primato della legge, quale espressione della volontà della maggioranza liberamente espressa secondo i meccanismi della democrazia rappresentativa - viene gravemente svuotato di senso laddove s’intenda per legge solo quella in senso formale. Sono “legge”, e dunque paradigma di legalità, tutte le fonti giuridiche che disciplinano ogni singola fattispecie concreta: dalla regolazione europea e/o internazionale fino alla normazione secondaria. Naturalmente ciò comporta un’attività ermeneutica inevitabilmente complessa, chiamata a dirimere le dispute interpretative per la individuazione della fonte prevalente in sede di applicazione al caso concreto. Ciò significa che la volontà della maggioranza parlamentare trova un limite invalicabile nella normazione di rango superiore - costituzionale, europeo o internazionale - alla legge formale. Violando quel limite, la manifestazione della maggioranza espressa nella legge formale viola la legalità. Ciò nondimeno, la regolazione della vita associata, pur con il limite richiamato, resta di prioritaria spettanza della legge. E questa non può essere svuotata di effettiva capacità disciplinare, in nome di una prospettiva “sostanzialistica”, che, invocando un “buon senso” soggettivo - implicante il diritto a non rispettare quella ritenuta ingiusta (richiamando di volta in volta, a seconda del proprio comodo, la nobile posizione di Antigone) - considera che la legge non sia “più di moda”, non “conti più”, dovendo essere sostituita dalla “sapienza” del giudice. È così che entra in gioco l’altro principio cardine dello Stato di diritto, quello di separazione dei poteri. Il quale significa che unicuique suum, e cioè che il sistema democratico si fonda sulla divisione, e sul bilanciamento e controllo reciproco, dei poteri. Quello legislativo (e/o amministrativo) non può invadere il terreno proprio del giudiziario. A sua volta, quello giudiziario, non può invadere il terreno proprio del legislativo (e/o amministrativo). Pertanto, dentro i confini dello Stato di diritto democratico, un legislatore non può pretendere che il giudice non applichi le fonti superiori alla legge. Ma un giudice non può consentire che venga violata la legge, anche se ad opera di una maggioranza. Se ne consegue, in conclusione, che, per il rispetto della separazione dei poteri, spetta al giudice - e non al legislatore - stabilire, di volta in volta, quale sia il paradigma di legalità applicabile alla questione sottoposta alla sua delibazione. Al tempo stesso, però, per il rispetto del medesimo principio, al giudice è precluso di violare la legge, sia pur in nome della sua personale, più “virtuosa” (in via presunta e sedicente), capacità di decidere la controversia sottoposta alla sua delibazione, in spregio del paradigma normativo di riferimento. Purtroppo, viviamo il tempo, desolante e disperante, in cui l’un potere e l’altro si esibiscono in un avvilente, sconcertante e dannosissimo sfoggio di potenza muscolare. E noi siamo costretti ad assistere, disarmati, da un lato, ad esternazioni di (anche eminenti) esponenti politici gravemente compromettenti la tenuta dei principi di legalità e di separazione dei poteri. E, dall’altro, ad una giurisprudenza che, di regola - fatte salve alcune virtuose eccezioni che assurgono agli onori della cronaca, pur rappresentando la manifestazione di un orientamento certamente non maggioritario -, nel decisum sacrifica i diritti delle minoranze. In altre parole, nella quotidiana vita giudiziaria, diversamente da quanto appare nell’informazione mainstream, è tutt’altro che raro rinvenire sentenze in cui i giudici decidono in modo da consentire agli interessi delle maggioranze (di ogni specie e tipo, come quelle dell’assemblea di un’associazione, o quelle degli organi delle istituzioni rappresentative) di essere soddisfatti prevalendo su quelli delle minoranze, in nome della loro forza numerica, anche contra jus e talora persino senza possibilità di rimedi giurisdizionali, così finendosi per mortificare le tante, virtuose, battaglie civili per il rispetto di diritti inviolabili delle minoranze di ogni specie ormai giuridicamente riconosciuti: dai migranti, ai professanti religioni diverse, ai componenti della comunità Lgbtqia+ e altre ancora. *Professore Facoltà di Giurisprudenza Università della Campania “Luigi Vanvitelli” Separazione delle carriere, si preannuncia uno scontro durissimo di Angela Stella L’Unità, 20 novembre 2024 A gennaio atteso il primo sì della Camera sulla riforma dell’ordinamento. Lo scontro si preannuncia durissimo. Sul decreto flussi è botta e risposta tra l’Anm e Nordio. L’inverno sarà caldissimo e non sarà certo colpa del cambiamento climatico bensì dello scontro durissimo che si preannuncia tra governo e magistratura in concomitanza sia del primo sì alla Camera sulla separazione delle carriere, previsto al massimo per gennaio, sia per le decisioni che arriveranno dalle toghe sui migranti portati in Albania a cui seguiranno anatemi da parte della maggioranza. Il problema è che né il governo né le toghe arretreranno di un millimetro rispetto alle reciproche posizione in tema di riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario: il primo intende accelerare per giungere quanto prima al referendum, che si vuole promuovere come indice di gradimento sulla magistratura in generale, le seconde hanno convocato una assemblea straordinaria per il 15 dicembre per valutare qualsiasi iniziativa per contrastare la modifica costituzionale. Non si esclude tra le opzioni lo sciopero o subito o nei prossimi mesi. Resta accesa comunque la polemica sulla questione migratoria e il decreto flussi in discussione a Montecitorio che ingolferà il lavoro delle Corti di Appello. Tutte le correnti, nel parlamentino che si è riunito nel fine settimana, senza distinzione alcuna, anzi con gli stessi toni accesi, hanno ribadito che non si faranno intimidire dalla politica, continueranno ad intervenire nel dibattito pubblico e si opporranno fortemente a qualsiasi tentativo di “dossieraggio” sulle loro vite private da parte di alcuni media. I magistrati hanno sottoscritto, infatti, un documento riguardante gli attacchi subiti a seguito di decisioni sgradite al governo. “Nell’ultimo periodo abbiamo assistito da parte di una certa politica ad attacchi sempre più frequenti a provvedimenti resi da magistrati italiani nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali, criticati non per il loro contenuto tecnico-giuridico, ma perché sgraditi all’indirizzo politico della maggioranza governativa”. Inoltre, “a questi attacchi sono seguite operazioni di indebita ricostruzione della vita privata dei magistrati autori di quelle decisioni finalizzate a selezionare e rendere pubbliche scelte personali ritenute correlate ai provvedimenti adottati”. Per il Cdc dell’Anm “sostenere, senza alcun fondamento, che un magistrato ha adottato un provvedimento per perseguire finalità diverse da quelle proprie dell’esercizio della giurisdizione è un’accusa grave che non può più essere tollerata”. Pertanto, si è deciso di invitare “ogni attore politico al rispetto del principio costituzionale della separazione dei poteri e di autonomia e indipendenza dell’ordine giurisdizionale; di trasmettere copia della presente delibera al Csm per le valutazioni dell’organo di governo autonomo e per le conseguenti iniziative a tutela della indipendenza e dell’autonomia della magistratura; di trasmettere la medesima copia al Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti”. Ieri mattina è arrivata la puntuta replica del Guardasigilli che , in una intervista al Corriere della Sera, rispondendo ad una domanda sul fatto che l’Anm denunci attacchi mirati ad assoggettare i giudici alla politica, ha dichiarato aspramente: “Non capisco da dove traggano questa convinzione. Mi attendo argomentazioni logiche, non slogan folcloristici”. Mentre il viceministro Sisto a Repubblica ha aggiunto che i magistrati non hanno legittimazione popolare. Ha replicato ad Agorà il Segretario generale del “sindacato” delle toghe, Salvatore Casciaro: “Argomentazioni logiche? Ci sono stati alcuni provvedimenti delle sezioni specializzate immigrazione che non hanno convalidato i trattenimenti di migranti, ritenendo che potesse essere a rischio la loro incolumità se fossero stati respinti in Paesi non sicuri. A fronte di questo ci sono state reazioni vibranti, impetuose, concitate di esponenti della maggioranza. I magistrati sono stati accusati di politicizzazione, magistrati comunisti, anti-italiani. Ma c’è una sentenza del 4 ottobre della Corte di Giustizia europea che dice che l’ultima parola spetta al giudice comunitario per l’individuazione dei Paesi sicuri. Sono poi state individuate soluzioni sul piano normativo, processuale che pongono il serio rischio che il nostro Paese possa perdere i finanziamenti del Pnrr. Ora, in questo contesto, è evidente, credo, che si vorrebbero dei magistrati allineati a quelle che in qualche modo sono le indicazioni della politica”. Nel dibattito è intervenuto anche il deputato di Forza Italia Enrico Costa: “L’Anm ha perfettamente ragione a lamentarsi per le intrusioni nella vita privata. Ma non c’è solo quella dei magistrati di vita privata. C’è anche quella dei cittadini ripetutamente violata da informazioni tratte da intercettazioni colorite, senza attinenza con le accuse, allegate agli atti per “chiarire il contesto” e sbattute sui giornali per dare visibilità alle inchieste. Anche quella è vita privata da proteggere, secondo la Costituzione, ma dall’Anm neanche un cenno. Due pesi, due misure”. “Nessuno scontro con la magistratura: rispettiamo e tuteliamo il valore e l’indipendenza dei giudici ma siamo contrari all’uso politico della giustizia. Spetta al parlamento fare le leggi e non alle sentenze creative di qualche tribunale. La politica, tutta, dovrebbe condividere e difendere questo principio” ha aggiunto il leader di Noi moderati, Maurizio Lupi. Da registrare che mentre è in corso il Cdc, è arrivata la notizia di una richiesta di pratica contro il segretario di Magistratura, Stefano Musolino, per alcune sue dichiarazioni sul ponte di Messina e a Piazza Pulita, da parte delle consigliere laiche del Csm Bertolini e Eccher. Per adesso Musolino non commenta, ma ha ricevuto la solidarietà di tutti i gruppi associativi, preoccupati di veder lesa la loro libertà di espressione. Ha parlato però Silvia Albano, presidente di Md: “per esserci uno scontro bisogna essere in due, ma io non mi sento parte dello scontro. Noi giudici abbiamo applicato solo la legge e cercato di garantire la legalità. Noi siamo anche giudici dell’Unione europea: con i nostri provvedimenti non abbiamo fatto opposizione politica, abbiamo fatto il nostro lavoro”. Ha aggiunto: “Quelli che più dicono che i giudici non devono parlare nei dibattiti, sono quelli che più vogliono un giudice accondiscendente col governo. Ma se i magistrati collaborassero col governo non sarebbero più imparziali e indipendenti. Io e Marco Gattuso (giudice di Bologna, ndr) siamo magistrati da molti anni: non è in discussione l’imparzialità e l’indipendenza dei singoli giudici, ma la fisionomia della futura magistratura”. Il Csm vota sul nuovo sistema per ridurre la discrezionalità nelle nomine dei magistrati di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 20 novembre 2024 Ma al plenum le correnti si sono spaccate. Meglio un sistema più rigido, con un’inedita griglia di punteggi per ridurre al minimo il potere delle correnti, o uno più “largo”, che lascia maggiore discrezionalità limitandosi a mettere ordine nella giungla dei criteri di valutazione? Il dibattito riempie da settimane le chat e le mailing list di giudici e pm in vista di un voto decisivo a cui mercoledì sarà chiamato il Consiglio superiore della magistratura: l’approvazione del nuovo Testo unico sulla dirigenza giudiziaria, la circolare interna che fa da vademecum per le scelte dei capi di Procure, Tribunali e Corti di tutta Italia. La questione è tecnica ma ha ricadute importantissime, perché i difetti dell’attuale Testo unico hanno aperto la strada al mercato delle nomine venuto a galla con lo scandalo Palamara: la circolare in vigore, infatti, detta una lunghissima serie di parametri, i cosiddetti “indicatori”, che descrivono innumerevoli esperienze e qualità raccomandate a chi aspira a dirigere i diversi uffici, senza però stabilire in modo chiaro quali di questi criteri debbano prevalere sugli altri. Così, fino adesso, le diverse maggioranze politiche al Csm hanno avuto gioco facile a “gonfiare” gli indicatori in possesso dei “loro” candidati ridimensionando quelli favorevoli agli avversari, senza che i giudici amministrativi (Tar e Consiglio di Stato) potessero intervenire ad annullare le nomine, se non in casi clamorosi. Per questo la riforma Cartabia del 2022 ha imposto al Consiglio di riscrivere il Testo unico, fornendo una serie di indicazioni sui parametri da valutare “specificamente” nell’assegnazione di un determinato posto a concorso. Al momento di tradurre quelle indicazioni in una nuova circolare, però, a palazzo Bachelet si è creata una spaccatura trasversale tra filosofie diverse, che ha messo insieme la corrente progressista di Area e i conservatori di Magistratura indipendente (Mi) in un’inedita alleanza contro il sistema dei punteggi, proposto invece da Magistratura democratica (Md, altra storica corrente di sinistra) e dai “moderati” di UniCost (l’ex gruppo di Palamara, impegnato in uno sforzo di rinnovamento dopo lo scandalo). La Commissione competente, la Quinta, ha quindi varato due testi contrapposti, tra i quali il plenum (l’organo al completo) dovrà scegliere nella seduta del 20 novembre. La proposta 1, quella senza i punteggi, ha raccolto in Commissione i tre voti del presidente Ernesto Carbone, consigliere laico in quota Italia viva, e dei togati Maurizio Carbone di Area ed Eligio Paolini di Mi: prevede in sintesi una scala di importanza tra i diversi indicatori, assegnando il peso maggiore al fatto di aver già svolto “le medesime funzioni del posto a concorso” (ad esempio, chi ha già fatto il procuratore capo o il presidente di un Tribunale sarà preferito nel concorso per ricoprire lo stesso incarico in un ufficio più grande). A parità di curriculum, però, nella valutazione potranno essere considerati una serie di criteri generali - ad esempio la “capacità di efficiente organizzazione del lavoro”, le “capacità relazionali” o l’“efficace utilizzo delle tecnologie” - che secondo i critici faranno rientrare la discrezionalità dalla finestra, consentendo in ogni caso, anche se meno di prima, di “aggiustare” le motivazioni delle nomine a seconda del candidato più gradito. La proposta 2, votata in Commissione da Mimma Miele di Md e Michele Forziati di UniCost e sostenuta pure dai togati indipendenti Roberto Fontana e Andrea Mirenda, prevede invece un articolato sistema di punteggi da assegnare per ciascuno degli indicatori previsti dalla legge Cartabia: in alcuni casi si tratta di un punteggio fisso, in altri di un range tra un minimo e un massimo. Ad esempio: cinque punti per ogni valutazione di professionalità positiva (criterio che valorizza l’anzianità), da 0,3 a un punto per ogni anno di esperienza fuori ruolo, fino a cinque punti per “ogni altra specifica competenza”, più un punteggio aggiuntivo per ogni anno di esperienza in uffici simili a quello che si vorrebbe dirigere (da 0,3 punti a un punto, a seconda di quanto l’esperienza svolta è assimilabile a quella del posto a concorso). Secondo i proponenti, questo metodo riduce al minimo la discrezionalità e quindi il potere delle correnti, dettando le “regole del gioco” fin dall’inizio e costringendo a giustificare le scelte in modo analitico; secondo gli oppositori, invece, i punteggi costituiscono una gabbia eccessivamente rigida, che svilirebbe l’autonomia del Csm e produrrebbe risultati controproducenti, finendo in parecchi casi per favorire i meno meritevoli. La proposta senza i punteggi parte in vantaggio in plenum, potendo contare sui sei voti di Area, i sette di Mi e quello di Ernesto Carbone; per i punteggi, invece, sono sicuri i quattro di UniCost, Miele, Fontana e Mirenda. Decisivi saranno i voti dei laici, i componenti eletti dal Parlamento: la loro unica rappresentante in Commissione, la leghista Claudia Eccher, si è astenuta, lasciando una grossa incognita su come si orienterà la pattuglia del centrodestra. I consiglieri in quota centrosinistra, Roberto Romboli per il Pd e Michele Papa per il M5s, dovrebbero invece appoggiare il testo che prevede i punteggi. Illegittimi i concorsi della Polizia penitenziaria per distinzione di genere Il Fatto Quotidiano, 20 novembre 2024 La Consulta: “Violato il diritto delle donne”. Non è un lavoro per soli uomini. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 181, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale il decreto legislativo 29 maggio 2017, n. 95, nella parte in cui distinguono secondo il genere, in dotazione organica, i posti da mettere a concorso nella qualifica di ispettore del Corpo di Polizia penitenziaria. Le disposizioni in esame erano state censurate dal Consiglio di Stato per la violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.) e, in riferimento all’art. 117, primo comma, per il contrasto con il principio di parità di trattamento fra uomo e donna, sancito dal diritto dell’Unione europea. La Corte costituzionale, in primo luogo, ha dichiarato ammissibili le questioni sollevate in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., per violazione della normativa direttamente applicabile del diritto dell’Unione europea. Nella prospettiva del concorso di rimedi, che esclude ogni preclusione, il giudice può sollevare questione di legittimità costituzionale anche in caso di contrasto con il diritto dell’Unione dotato di efficacia diretta, allorché la questione “presenti ‘un tono costituzionale’, per il nesso con interessi o principi di rilievo costituzionale”. La dichiarazione di illegittimità costituzionale offre un surplus di garanzia al primato del diritto dell’Unione europea e “salvaguarda in modo efficace la certezza del diritto, valore di sicuro rilievo costituzionale”. La Corte costituzionale ha ricordato che “Il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) e le prescrizioni poste dal diritto dell’Unione europea convergono nel rendere effettiva la parità di trattamento, in una prospettiva armonica e complementare, che consente di cogliere appieno l’integrazione tra le garanzie sancite dalle diverse fonti”. La sentenza ha affermato che “il trattamento differenziato in base al genere nella dotazione organica del ruolo degli ispettori, che si associa alla ‘netta preponderanza della presenza maschile’, non trova una ragionevole giustificazione nelle peculiarità del ruolo degli ispettori e non persegue, dunque, un obiettivo legittimo. Tale ruolo, difatti, non ha nel “diretto e continuativo contatto con i detenuti” una sua “connotazione qualificante e indefettibile”. La disciplina esaminata con questo verdetto dalla Consulta, non solo non persegue un obiettivo legittimo, “legato all’esigenza di preservare la funzionalità e l’efficienza del Corpo di Polizia penitenziaria”, ma si pone anche in contrasto “con il canone di proporzionalità, proprio per l’ampiezza del divario che genera”. Le discriminazioni nell’accesso al ruolo degli ispettori, pertanto, “vìolano il diritto delle donne di svolgere, a parità di requisiti di idoneità, un’attività conforme alle loro possibilità e alle loro scelte e di concorrere così al progresso della società” e, nel discostarsi da criteri meritocratici di selezione del personale, producono “effetti distorsivi che si ripercuotono sull’efficienza stessa dell’amministrazione”. Genova. Ben Mahmud, 28 anni, è l’ottantunesimo suicida nelle nostre carceri di Fulvio Fulvi Avvenire, 20 novembre 2024 L’ultima vita perduta è quella di un tunisino di 28 anni che si è impiccato a Genova Marassi. Aumentano le aggressioni. A Milano San Vittore sovraffollamento record. Dietro le sbarre si muore ancora. Sono 81 i suicidi di persone detenute dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane. E 131 sono quelle decedute per altre cause: 212 vittime in tutto, un numero mai così alto dal 1992, e l’anno deve ancora finire. Nel tragico conto vanno aggiunti, inoltre, i 7 agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita negli ultimi dieci mesi. Un altro segno che al disagio e alla disperazione di chi vive “dentro” non è stata ancora data una risposta concreta. L’ultima vita perduta è quella di Ben Mahmud Moussa, un tunisino di 28 anni che si è impiccato nella sua cella della Casa circondariale Marassi di Genova. Gli addetti alla sorveglianza hanno cercato di salvarlo ma è spirato in ospedale poche ore dopo. Fuori aveva un lavoro, faceva il pizzaiolo, ed era in cura per disturbi mentali. Arrestato in stato confusionale, all’udienza preliminare il suo legale aveva chiesto una perizia psichiatrica, che non è stata mai eseguita. E anche Ivan Domenico Lauria, 29 anni di Messina, recluso nell’istituto penale “Caridi” di Catanzaro (dove i tentati suicidi rilevati sono stati finora 84) ha cessato di vivere, per cause da accertare (il referto medico parla di arresto cardiocircolatorio) e aveva bisogno di essere seguito più da vicino a causa di patologie di carattere psichiatrico legate perlopiù alla tossicodipendenza e a una invalidità riconosciuta al 75%. “Sul corpo del ragazzo sono stati rilevati evidenti ematomi e ferite da taglio sanguinanti - afferma il difensore del giovane, avvocato Pietro Ruggeri - e la famiglia vuole vederci chiaro: abbiamo già presentato una denuncia e nominato un consulente per l’esame autoptico”. “Sono oltre 15mila i ristretti oltre i posti disponibili e più di 18mila le unità mancanti alla Polizia penitenziaria. Qualsiasi azienda o organizzazione complessa sarebbe già fallita da tempo - commenta Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa-Polizia penitenziaria -. Ma è chiaro, almeno a noi, che di questo passo anche il sistema penitenziario sprofonderà sempre più. Servono misure immediate per deflazionare la densità detentiva, adeguare concretamente gli organici della Polizia penitenziaria e riorganizzare, riformandolo, l’intero apparato”. Tornando ai suicidi, risulta che la maggior parte riguarda detenuti tra i 26 e i 39 anni, come sottolinea la relazione diffusa ieri dall’ufficio del Garante nazionale delle persone private della libertà personale. E circa i due terzi dei reclusi che si sono tolti la vita erano accusati o erano stati condannati per reati contro la persona. L’istituto dove è avvenuto il maggior numero di suicidi è quello di Prato (4). Sconcertante è anche il numero delle aggressioni registrato dal 1° gennaio 2024 a oggi: sono state 5.094, ovvero 392 in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Di queste, quasi 2.000 sono state quelle contro agenti di polizia penitenziaria, anch’esse in sensibile aumento. Sei le rivolte dietro le sbarre (erano state 2) e 1.842 i tentati suicidi (126 in più). Va ricordato, infine, il tasso di affollamento delle strutture carcerarie, con punte che superano il 200% a Milano San Vittore e nella Casa circondariale di Foggia. A livello nazionale il sovraffollamento medio è del 133,25%: alla data del 18 novembre i detenuti presenti nei 189 penitenziari italiani erano 62.323 (il 31,91% stranieri) rispetto a una capienza regolamentare di 51.162 posti. Sono circa 10.000 i ristretti in attesa di primo giudizio e 9.367 quelli in Alta Sicurezza. Il costo medio di ogni singolo detenuto è di 157 euro al giorno. Perugia. Un morto a Capanne, detenuti in rivolta. L’allarme del Garante rainews.it, 20 novembre 2024 Da chiarire le circostanze del decesso. Giuseppe Caforio lancia l’ennesimo allarme sulla condizione degli istituti penitenziari. Ancora tensioni nelle carceri umbre, ancora proteste dei detenuti contenute a fatica dal personale della polizia penitenziaria. Succede a Capanne questa volta, dove a scatenare la sommossa è la morte, per cause naturali, di un detenuto nigeriano di 37 anni in attesa di giudizio. Minuti concitati durante i quali, mentre gli agenti prestavano i primi soccorsi dopo la scoperta dell’uomo agonizzante in cella e in attesa dell’arrivo del personale del 118, i detenuti hanno iniziato a protestare cercando di uscire in corridoio lamentando ritardi nell’intervento e scarsa informazione. Proteste che nel corso della giornata si sono verificate poi, in forma molto più contenuta, anche nel carcere di Spoleto. Ennesimo segno di una situazione ormai sull’orlo del collasso, con carceri sempre più piene, un numero altissimo di detenuti psichici non adeguatamente trattati quando non incompatibili con la detenzione e servizi sanitari sempre più carenti. A Capanne, ma non soltanto. Su quanto accaduto la procura di Perugia ha aperto un fascicolo per omicidio colposo a carico di ignoti affidato al sostituto procuratore Mario Formisano, che a breve disporrà l’autopsia sul cadavere del detenuto per chiarire le cause della morte. Che ad un primo esame sembrerebbero naturali. Resta tuttavia la preoccupazione di una situazione sempre più esasperata in cui, denuncia il segretario nazionale del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria Donato Capece “i problemi si ingigantiscono e le soluzioni non vengono ascoltate”. “Tra le principali riforme che hanno destabilizzato il sistema carcere - denuncia il Sappe - vi è anche l’eliminazione della sanità penitenziaria. Aver ricondotto tutto sotto la gestione della sanità pubblica e delle Ausl ha determinato notevoli disservizi e incapacità di avere una adeguata gestione interna”. Verona. La disinformazione sull’omicidio Diarra alimenta il razzismo di Mackda Ghebremariam Tesfaù Il Domani, 20 novembre 2024 Un mese dopo la tragica morte di Moussa Diarra, colpito da un colpo di arma da fuoco sparato da un agente della Polizia nella stazione di Verona Porta Nuova, su quanto accaduto ci sono sempre meno luci e più ombre. Il 31 ottobre, infatti, una rete locale, velocemente ripresa da altri media e testate nazionali, ha diffuso la notizia che i video delle telecamere di sorveglianza - inaccessibili perché sotto segreto istruttorio - avrebbero ritratto Moussa Diarra intento ad aggredire i poliziotti a distanza ravvicinata. Per questa ragione, il 12 novembre Paola Malavolta e Francesca Campostrini, avvocate di Djemagan Diarra, fratello di Moussa, hanno chiesto di poter visionare i contenuti delle telecamere, dato che da giorni la stampa dava per assodata questa ricostruzione dei fatti. Il giorno successivo, il procuratore di Verona Raffaele Tito, dichiara che la telecamera centrale è stata oggetto di un malfunzionamento. Al contempo, le telecamere circostanti, più lontane, avrebbero registrato l’episodio in maniera approssimativa: i filmati sarebbero stati mandati a Padova in un tentativo di migliorarne la definizione. Le immagini di cui parlavano i media prima dell’intervento del procuratore non erano state visionate dai giornalisti, bensì riferite da (almeno) una fonte ritenuta affidabile dagli stessi. La stampa, i media sono un oggetto politico in sé, e possono divenire facilmente uno strumento di offesa. Nel caso di Diarra così è stato. La narrazione della “colpevolezza certa”, basata sui filmati delle telecamere, è stata decisiva a livello di opinione pubblica, ed è divenuta una fonte di legittimazione dei discorsi d’odio della politica. Non a caso, appena uscita la notizia delle supposte riprese incriminanti, Matteo Salvini, che si era già espresso in merito alla morte del ventiseienne, ha ribadito: “Onore al poliziotto”. Sin dalle prime ricostruzioni infatti Moussa è stato dipinto come un soggetto violento e minaccioso, in preda a una furia cieca, capace di mettere in fuga diversi poliziotti. È stato insinuato - e subito smentito - che potesse essere un terrorista. Che fosse intento in attività criminali. Che stesse trasportando della droga. Tutte informazioni che spariranno in breve tempo dal discorso, ma che lasceranno un segno. Al contrario, l’agente che ha sparato è stato descritto come di grande esperienza e rigore morale. La devianza di Moussa è costruita anche attraverso l’esaltazione delle virtù civiche attribuite alla controparte. Questo è evidente dall’attenzione e dal linguaggio utilizzati per parlare del “disperato tentativo di rianimazione” a seguito del colpo inferto, o del modo in cui è stato ripreso il comunicato della procura, in cui si parla della “grande lealtà d’animo” e del “forte senso istituzionale” dell’agente. Pochi giorni dopo la morte di Moussa, a Cittadella, in provincia di Padova, un uomo italiano bianco di 34 anni, armato di coltello, ha fatto irruzione in ospedale ferendo un carabiniere e un dottore, e aggredendo altri nel personale medico. L’uomo è stato contenuto attraverso l’uso del taser, senza riportare danni permanenti. La vicenda di Cittadella tuttavia è stata raccontata in modo molto diverso. Il malessere di natura psichiatrica dell’uomo è stato posto al centro della narrazione, pur veicolato attraverso termini quali “esagitato”, e la sua azione descritta come uno “stato di agitazione”. Nuovamente vediamo media e politica utilizzare discorsi, archivi e vocabolari diversi nella rappresentazione di soggetti immigrati e razzializzati rispetto a quanto non avvenga con persone bianche di origine italiana. Ed è questo riscontro fondamentale del linguaggio politico e dei contenuti mediatici che fa sì che oggi il razzismo in Italia sia un fatto sistemico e, soprattutto, istituzionale. Martedì 19 si è tenuta una nuova conferenza stampa, a cui hanno partecipato i famigliari di Diarra e il Comitato costituitosi per chiedere “verità e giustizia” sulla morte del giovane. È stata annunciata anche un’interrogazione parlamentare in merito al caso, portata avanti dalla senatrice Ilaria Cucchi di Sinistra italiana. Nella stessa serata, sempre nella stazione di Verona Porta Nuova, è stato chiamato un momento di ricordo e responsabilità, perché l’assenza delle registrazioni della telecamera rende essenziale la collaborazione dei testimoni oculari. Bologna. “Cucine rotte e celle sovraffollate. Ecco cosa ho visto nel carcere della Dozza” di Nicola Maria Servillo bolognatoday.it, 20 novembre 2024 Il racconto dell’ex sottosegretario alla Giustizia, Franco Corleone, che dopo la visita alla casa circondariale bolognese lancia l’allarme: “Sta diventando una discarica sociale”. Ha visitato il carcere della Dozza in questi giorni il politico e attivista Franco Corleone. Fondatore e presidente della Società della ragione onlus, ex sottosegretario alla Giustizia nei governi Prodi I, D’Alema I e II e Amato II, ha dedicato gran parte della sua carriera alla difesa dei diritti umani e alla promozione di politiche alternative alla detenzione. Dopo la visita alla casa circondariale bolognese, avvenuta lo scorso mercoledì, lo storico esponente radicale ha fatto il punto sulla crisi della struttura e formulato una serie di proposte per assecondare i bisogni dei detenuti e del personale carcerario. Qual è la situazione attuale delle carceri in Emilia Romagna e a Bologna? Il quadro in Emilia-Romagna e a Bologna conferma che il carcere in Italia è ridotto a una discarica sociale, un luogo dove prevalgono povertà e sovraffollamento. Quest’ultimo è causato da molteplici ragioni, ma la principale è la legislazione proibizionista sulle droghe. Prendiamo, per esempio, il carcere della Dozza: ha una capienza di 500 posti, ma ospita 842 detenuti. Questo rende il carcere l’unico luogo pubblico in cui non viene rispettata la capienza regolamentare. In ogni altro spazio pubblico, come teatri o cinema, il numero di posti è fisso e in caso di sovrannumero intervengono i vigili del fuoco. In carcere, invece, la situazione è fuori controllo, e questo si traduce in condizioni di vita incivili. Esistono delle differenze nelle condizioni tra la sezione maschile e quella femminile? Sì, nell’ala femminile non si riscontra sovraffollamento. Ci sono 76 donne in celle da due, dotate di doccia e acqua calda, un requisito essenziale. Tuttavia, la cucina nella sezione femminile è rotta da mesi e il cibo arriva freddo dalla cucina maschile, il che è intollerabile. Questi problemi si sommano alla situazione maschile, dove le condizioni sono peggiori. Quali crede siano le cause principali del sovraffollamento? Il sovraffollamento è in gran parte dovuto a cause legate alla normativa sulle droghe. Ben 230 detenuti su 842 alla Dozza sono incarcerati per violazioni dell’articolo 73 del Dpr 390, che riguarda il possesso e il piccolo spaccio di sostanze stupefacenti. Un altro 25-30% dei detenuti è composto da cosiddetti tossicodipendenti, che commettono reati predatori come furti e scippi. Sommando queste due categorie, metà della popolazione carceraria è in carcere per questioni legate alla tossicodipendenza e alla legislazione proibizionista. La prigione diventa così la soluzione proposta per affrontare problemi sociali che potrebbero essere risolti diversamente. Quali sono gli altri problemi che affliggono il sistema carcerario? Sul fronte lavoro c’è una grave carenza di opportunità e posti per i detenuti, così come la carenza di attività trattamentali. Ad esempio, nell’industria meccanica interna sono impiegati solo 12 detenuti, mentre il caseificio è ancora chiuso. Per quanto riguarda le condizioni di vita, nella sezione maschile le docce non sono nelle celle e il cibo è di scarsa qualità. Chi ha disponibilità economica si compra alimenti migliori, creando disparità tra detenuti poveri e meno poveri. Inoltre, la metà dei detenuti è straniera. Ci sono nuove emergenze nelle carceri? Sì, c’è una nuova emergenza legata all’aumento dell’incarcerazione di giovani, dovuta al recente decreto Caivano del governo. Le carceri minorili, per la prima volta, scoppiano e i giovani adulti, che prima venivano detenuti nei minorili, ora sono trasferiti nelle carceri ordinarie. Alla Dozza ci sono 50 giovani adulti con problematiche molto complesse, che richiederebbero un supporto psicologico specifico da parte del sistema sanitario pubblico. Ma c’è anche un problema di prevenzione, legato alle condizioni strutturali e igieniche che influenzano la salute. Vite sospese e famiglie spesso assenti. La vita dei minorenni in carcere Esistono soluzioni per migliorare la situazione dei detenuti che potrebbero accedere a misure alternative? Sì, un dato importante riguarda i 242 detenuti che dovrebbero uscire entro il 2026-2027, ma che restano in carcere perché non hanno accesso a misure alternative come l’affidamento. Questo accade poiché mancano risorse come il lavoro e un alloggio. La Regione dovrebbe elaborare un piano di housing sociale per facilitare l’integrazione e l’affidamento esterno. Il tasso di suicidi e autolesionismo nelle carceri italiane è elevato. Quali misure si potrebbero adottare? La situazione è allarmante. Quest’anno si sono registrati 80 suicidi e numerosi tentativi, oltre a casi di autolesionismo, un fenomeno che porta sangue nelle celle. Questa è una situazione di tortura vera e propria. Papa Francesco ha recentemente richiesto un provvedimento straordinario di amnistia e indulto per ridurre la popolazione carceraria. Un indulto di due anni libererebbe circa 16.000 persone, riportando la capienza nei limiti regolamentari. Tuttavia, è necessario accompagnare l’indulto con proposte di legge come il numero chiuso e case di reinserimento per le pene sotto i 12 mesi. Solo così potremmo realizzare il dettato costituzionale dell’articolo 27 ed evitare sanzioni dalla Corte Europea dei Diritti Umani. Torino. “Mentre indagavo sul carcere, contro di me 200 lettere anonime” di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 20 novembre 2024 Violenze al Lorusso e Cutugno, in aula l’ex comandante del Nic. “Contro di me oltre 200 lettere anonime in cui venivo diffamato. Furono spedite a diverse persone che gravitavano nel mio ambiente lavorativo: al direttore del carcere di Torino Domenico Minervini e a molti colleghi”. Il retroscena racconta il clima che serpeggiava tra gli uomini della polizia penitenziaria torinese all’indomani delle misure cautelari emesse nell’autunno 2019 per le presunte violenze a cui venivano sottoposti alcuni detenuti del padiglione C del Lorusso e Cutugno, quelli rinchiusi per crimini sessuali. A svelare il contesto di rabbia e indignazione è stato l’ex comandante regionale del Nic (Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria) Roberto Streva in occasione della sua audizione nel processo in cui sono imputati 22 agenti, la maggior parte per tortura. Streva è l’uomo che per mesi, sottotraccia, ha indagato sui comportamenti di colleghi e superiori, destreggiandosi tra mezze verità, sussurri e la paura dei detenuti di subire angherie peggiori. A lui, ieri mattina, il pm Francesco Pelosi ha chiesto di ripercorrere i passaggi investigativi. Durante la lunga deposizione, durata oltre due ore, l’ex comandante ha raccontato anche ciò che accadde quando l’inchiesta divenne di dominio pubblico. Quando, evidentemente, agli occhi di alcuni era diventato un nemico. Lo testimoniano le 200 lettere anonime circolate in quelle settimane. “Tra le varie offese c’era scritto che non avevo i titoli per ricoprire l’incarico alla guida del Nic, che ero uno da cui tenersi alla larga e che ce l’avevo con l’allora comandante della polizia penitenziaria perché apparteneva a una sigla sindacale diversa dalla mia”, ha spiegato. Le missive non erano firmate e gli autori sono ancora sconosciuti, ma è chiaro che l’obiettivo era quello di screditarlo e, forse, cercare di mettere un freno all’azione investigativa. L’inchiesta di Torino non è stata l’unica di cui si è occupato Streva, sulla sua scrivania è passato anche il fascicolo sulle presunte torture nel carcere di Cuneo. “Non ho portato a termine quell’indagine - ha rammentato il comandante, che oggi è in pensione -. Alla vigilia delle perquisizioni sono stato trasferito”. La testimonianza di Streva è una delle 189 che verranno ascoltate nel dibattimento. Dopo di lui davanti ai giudici si è seduto un ex detenuto, un uomo che ha scontato 3 anni e 11 mesi al Lorusso e Cutugno. “Fin da subito ho avuto problemi con alcuni agenti”, ha raccontato. “I primi colpi, schiaffi e pugni, li ho ricevuti mentre salivo le scale per raggiungere il padiglione C. All’inizio gli agenti erano in 4 o 5, ne ricordo uno molto alto che mi diede una pedata sulla caviglia, per mesi ho zoppicato - ha proseguito. Poi siamo giunti alla rotonda, a quel punto gli agenti sono diventati otto. Hanno formato un cerchio e io ero spalle al muro: a turno mi hanno schiaffeggiato. Mi sentivo un flipper, rimbalzavo da una parte all’altra”. Il detenuto è stato poi portato nella sua cella: “Il mio compagno di stanza mi chiese se mi avessero “fatto il battesimo”. Subito non capii, poi fu più esplicito e mi domandò se mi avessero picchiato. Gli dissi di sì, e lui rispose che era normale. Ma che, se non avevo toccato bambini, potevo stare tranquillo: non mi sarebbe successo nulla”. Trapani. Torture sui detenuti, arrestati undici poliziotti penitenziari di Francesco Patanè La Repubblica, 20 novembre 2024 Altri 14 agenti sono stati sospesi. A incastrarli le telecamere installate dopo le denunce dei reclusi. Sono accusati di tortura e abuso d’autorità. Undici agenti penitenziari in servizio nel carcere “Pietro Cerulli” di Trapani sono stati arrestati e messi ai domiciliari. Altri 14 sono stati sospesi dal servizio in esecuzione all’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Trapani su richiesta del procuratore capo Gabriele Paci. Per i 25 indagati i reati contestati, a vario titolo e in concorso, sono nel dettaglio, tortura, abuso di autorità contro detenuti, falso ideologico, calunnia, nei confronti di persone detenute nella casa circondariale di Trapani. Complessivamente sono 46 gli indagati per cui è scattata la perquisizione domiciliare. Le indagini sono partite nel 2021. L’ordinanza è stata eseguita dal nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria di Palermo, con l’ausilio di alcuni reparti territoriali coordinati dal nucleo investigativo centrale. L’indagine è scattata dopo alcune denunce dei detenuti del penitenziario trapanese che avrebbero subito maltrattamenti in luoghi privi di telecamere, che una volta installate avrebbero registrato violenze reiterate da parte degli agenti nei confronti dei reclusi. “Un modus operandi diffuso”, affermano gli inquirenti, consistente “in violenze fisiche e atti vessatori nei confronti di alcuni detenuti”. Condotte “peraltro reiterate nel corso del tempo e messe in atto in maniera deliberata da un gruppo di agenti penitenziari in servizio nella casa circondariale di Trapani”. Massa Carrara. Una “Seconda chance” è possibile, i detenuti scommettono sul futuro di Alfredo Marchetti La Nazione, 20 novembre 2024 L’inclusione passa dal lavoro. Il progetto presentato ieri mattina offre un doppio vantaggio al recluso e alle imprese: sgravi fiscali per le aziende che partecipano e un nuovo inizio per chi ha commesso un errore. Un nuovo inizio è possibile per tutti. Commettere un errore ci fa scoprire chi siamo, ovvero esseri umani. E se c’è il pentimento e la voglia di riscatto, è doveroso dare una seconda chance. E proprio così si chiama l’associazione che fa da tramite tra aziende e casa di reclusione di Massa (già modello virtuoso), per il progetto che punta a far uscire i detenuti più meritevoli per entrare nel mondo del lavoro e, una volta scontata la pena, avere uno strumento in più per stare nella società legalmente. Se poi, grazie alla legge Smuraglia le aziende dell’edilizia che assumono i detenuti hanno degli sgravi fiscali, meglio ancora. Presentato ieri mattina dalla direttrice Antonella Venturi il progetto: presenti Roberto Biancolini, vice presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili per la Costa Toscana, Stefano Fabbri di Seconda chance, l’imprenditore apuano Andrea Biancolini, Elena Ghiloni, responsabile del settore educativo dell’istituto. “Il nostro primo obiettivo - ha detto Venturi - era quello di portare all’esterno il progetto anche in collaborazione con l’associazione Seconda chance. Assieme a Ance abbiamo avviato le persone detenute all’esterno in attività lavorative, grazie all’articolo 21. Persone che sono a fine pena o che per buona condotta possono lavorare all’esterno e costruire qualcosa dopo che la pena è stata scontata. Oltre all’aiuto che diamo a queste persone, c’è un vantaggio anche per le imprese che decidono di assumere queste persone, ovvero sgravi fiscali. Certo, c’è un beneficio economico per l’azienda in questione, ma la nostra vuole essere una visione solidaristica: le persone che hanno sbagliato, ma che hanno intenzione di rimettersi in gioco, hanno il diritto di provarci. I benefici alla società sono chiari: fare parte di questo reinserimento sociale permette ai detenuti di non ricadere negli stessi errori. Questo è possibile però solo se società è sensibile al tema. Prima o poi usciranno: saggio è prepararla”. Ma come avviene questo iter? “Prima c’è la valutazione del detenuto: professionisti giudicano il percorso della persona, la valutazione viene fatta a monte. Fondamentale, durante questo processo è abbattere il pregiudizio e riscoprire la persona”. La parola è poi passata Ghironi: “Affrontiamo un lavoro sia interno, che ci consente di sperimentare la persona, puntando su percorsi di formazione, dal controllo impianti elettrici all’Haccp, con percorsi da 260 ore, uno strumento spendibile in ambito lavorativo. Sia esterno, con una sperimentazione con l’edilizia e la ristorazione: per il momento questi progetti sono andati bene. Siamo noi che scegliamo, dopo un’attenta analisi, chi è pronto ad affrontare questa possibilità”. Da tramite tra mondo esterno e casa di reclusione c’è l’associazione: “Seconda chance - dice Fabbri - organizza colloqui di lavoro. Molti sono al loro primo colloquio. Di solito gli imprenditori che si mettono in discussione e danno ai detenuti un’opportunità, escono molto diversi da come sono entrati dalla stanza. Il dato Cnel dice che il 60 per cento dei detenuti è già stato in carcere. Invece solo il 2 per cento di chi trova lavoro torna in detenzione. Questo progetto è quindi un bene per la società. Ci sono 370 inserimenti, 10 per cento in toscana. Il 90 per cento delle persone che ha aderito a questo progetto rimane a lavorare nell’azienda che l’ha testati”. Ance Toscana con Roberto Biancolini, racconta le esperienze degli stessi imprenditori: “Durante gli incontri che abbiamo come associazione abbiamo avuto modo di parlare con gli imprenditori: hanno conosciuto il progetto, che è stato recepito con molta soddisfazione. C’è poi chi ha deciso di intraprendere questo percorso: hanno trovato molta disponibilità. Io sono rimasto molto colpito dai colloqui con i ragazzi: persone interessate, con voglia di fare e imparare. Persone con valori. L’associazione tiene a questo progetto. Un imprenditore serio dovrebbe provare”. E c’è chi ha provato il progetto, ovvero Andrea Biancolini, della Tecnopali apuana, azienda che si occupa del consolidamento frane, con 18 dipendenti, di cui uno assunto dopo il reinserimento: “E abbiamo intenzione di assumerne un altro. La cosa fondamentale è abbandonare il pregiudizio: ho trovato una persona molto responsabile e desiderosa di cambiare. Poi il fatto che la casa di reclusione controlla e vigila sul suo operato è garanzia di sicurezza”. Cagliari. Desirè Manca: “Più formazione nelle carceri, per un percorso di speranza” cagliaripad.it, 20 novembre 2024 Per l’assessora al Lavoro, compito delle istituzioni è quello di consentire a chi sta scontando una pena di avere la possibilità di costruire il proprio percorso di rientro nella società. L’assessora del Lavoro Desirè Manca ha espresso la necessità di avviare maggiore formazione nelle carceri nel corso di un incontro con la Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Irene Testa, e i Garanti degli istituti penitenziari di tutti i territori della Sardegna. “Su una popolazione carceraria di centinaia di detenuti, nei casi più critici, soltanto poche decine di persone hanno la possibilità di accedere ad un corso di formazione, di essere impegnate durante la giornata, ma soprattutto di avere una nuova opportunità per riprendere in mano la propria vita e riabilitarsi, di reinserirsi nella società grazie a un impiego”. Al centro di questo primo incontro, tenutosi a Cagliari, le gravi criticità relative all’inadeguatezza degli spazi, alla carenza di personale e alla carenza di medici. “Compito delle istituzioni è quello di consentire a chi sta scontando una pena di avere la possibilità di costruire il proprio percorso di rientro nella società, di lasciare una strada fatta di buio per immettersi in un sentiero di luce. In quest’ottica ho voluto incontrare oggi i Garanti dei detenuti per un proficuo confronto, e grazie al loro prezioso contributo iniziare ad affrontare una dopo l’altra tutte le problematiche che impediscono al sistema di formazione di funzionare a regime”. Volterra (Pi). Studio, teatro, cene galeotte: se il carcere “funziona” si abbassa il rischio recidiva di Andrea Ceredani agensir.it, 20 novembre 2024 L’allarme è di quelli che si rincorrono periodicamente e si ripetono, drammaticamente, senza differenze. L’ultima segnalazione ufficiale è arrivata all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024, quando sono stati pubblicati i numeri del sovraffollamento nelle carceri. Preoccupante in molti istituti penitenziari toscani. Ne parliamo con don Paolo Ferrini, fresco di nomina a Delegato regionale toscano dei cappellani delle carceri e sacerdote della diocesi di Volterra. L’allarme è di quelli che si rincorrono periodicamente e si ripetono, drammaticamente, senza differenze. L’ultima segnalazione ufficiale è arrivata all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024, quando sono stati pubblicati i numeri del sovraffollamento nelle carceri. Preoccupante in molti istituti penitenziari toscani. I picchi si raggiungono a Pisa, dove risiedevano 128 detenuti ogni 100 posti letto e a San Gimignano, 132 su 100. A fronte di una media nazionale, pur sovraffollata, di 112 persone ogni 100 posti. Non solo. A preoccupare, è il tasso di suicidi: a Sollicciano, il carcere di Firenze, tra il 1° luglio 2022 e il 30 giugno 2023, 4 detenuti si sono tolti la vita e 44 hanno praticato autolesionismo. Un clima di tensione che si riversa anche sul personale della polizia penitenziaria che, nello stesso lasso di tempo, ha subito 124 aggressioni in tutta la regione. In realtà, il numero di detenuti è in calo rispetto agli anni precedenti ma spesso per loro, come denuncia il garante dei detenuti della Toscana Giuseppe Fanfani, “manca un percorso di reinserimento”. “È anche questo il ruolo, ecclesiale, dei cappellani e dei religiosi che operano in carcere. Sono persone che vivono con gioia il loro ministero e, quindi, spero che si intensifichi sempre di più la comunione delle varie diocesi della Toscana con i loro istituti penitenziari”. È questo l’augurio di don Paolo Ferrini, fresco di nomina a Delegato regionale toscano dei cappellani delle carceri e sacerdote della diocesi di Volterra. Don Paolo, come si spiega tutta questa violenza - anche autoinflitta - nelle carceri? “È un percorso di degrado lungo, purtroppo. Ci si è arrivati organizzando il carcere come un luogo di espiazione della pena e non come un luogo di recupero per voltare pagina. Quindi ci sono situazioni di degrado. Ricordiamoci che i detenuti, quasi tutti, devono uscire dal carcere e, perciò, devono avere la possibilità di recuperare”. Lei individua dei responsabili per questo degrado? “C’è carenza di personale, ma soprattutto di personale che abbia anche il ruolo di impostare programmi di recupero. Ci sono comandanti a capo di più di un istituto, ma mancano anche educatori e agenti. Fortunatamente in Toscana adesso stanno arrivando nuovi direttori, ringraziando il cielo”. Leggiamo di suicidi e autolesionismo in carcere, è un’emergenza? “No, purtroppo è ormai una condizione stabile da tempo. Servono interventi che nascono, sì, dalle emergenze ma che agiscono sul lungo termine. Bisogna cambiare l’idea del carcere - come dicevo - e in questo modo si abbassa anche la recidiva. Chiaramente c’è da fare anche un discorso su cosa succede fuori dagli istituti ma, se un carcere funziona, la recidiva si abbassa anche di moltissimo e, quindi, lo stesso sovraffollamento può essere risolto dentro all’istituto penitenziario. Se il carcere non funziona, chi entra continua a delinquere. E la recidiva aumenta”. Statisticamente, però, la recidiva si abbassa molto quando vengono applicate misure alternative alla detenzione, che però sono minoritarie. Mancano strutture o volontà di applicarle? “Le strutture ci sono, ma non sono mai abbastanza. Naturalmente si apre il tema della formazione e di chi promuove queste strutture. Io credo che dobbiamo riscoprire quello che si può già fare in carcere per gestire in modo diverso chi sconta pene più e meno lunghe”. Un esempio di quello che dice è proprio Volterra. La sua è una esperienza alternativa? “L’esperienza di Volterra è il frutto anche di una direzione illuminata, sotto varie guide, che ha portato buoni risultati nel tempo. Qui, il percorso trattamentale cerca di essere il più possibile improntato al recupero della persona attraverso le scuole, innanzitutto. Molti detenuti si diplomano e possono laurearsi anche con l’Università di Pisa”. Non solo. Siete famosi anche per il vostro teatro… “Sì, l’attività teatrale è molto conosciuta e permette un contatto importantissimo con l’esterno. Ma abbiamo anche le “Cene galeotte” organizzate dai nostri detenuti. Tutto questo, voglio dire, non porta in automatico al recupero di ciascuno, ma è l’unica strada percorribile per sperare che il maggior numero di persone possa uscire dal carcere in modo positivo”. E funziona? “Nel mio caso, posso dire di sì. Ma sono in contatto anche con altri cappellani toscani e questa strada alla fine paga. Pure negli istituti più critici tentiamo questo lavoro”. Quanto è importante, quindi, il ruolo dei cappellani e della società civile? “Moltissimo, lo sguardo della cittadinanza verso i propri detenuti è fondamentale. Ricordo che la maggior parte delle carceri sono costruite lontano dalla città e già questo è un ostacolo. Ma, poi, anche dal punto di vista ecclesiale, serve che le carceri siano sempre più realtà in comunione con le diocesi. Perché questa è la strada che ci permette di rendere più efficace il recupero di persone che sono in carcere e di avere una sensibilità diversa anche all’esterno”. La vicinanza della cittadinanza aiuterebbe anche la polizia penitenziaria, secondo lei? “Certo, serve un approccio umano che purtroppo, per una serie di condizioni, stenta a esserci. Nella mia esperienza personale, ma anche dal punto di vista degli educatori e degli psicologi, serve moltiplicare nelle carceri queste possibilità: dallo studio al lavoro interno, fino a progetti e laboratori. Bisogna credere in un’idea di carcere che sia bella, vincente e che sappia far stare in piedi le persone. Recuperarle. È difficile ma i cappellani toscani sono persone splendide che, nel loro ministero, si impegnano per questo”. Palermo. Laboratorio di lettura con detenuti e giovani adulti in misure alternative redattoresociale.it, 20 novembre 2024 Ieri a Palermo incontro tra le persone all’interno del Co-Housing del progetto Ortis 2 e lo scrittore Giankarim De Caro. L’iniziativa, realizzata dall’associazione Un Nuovo Giorno è avvenuta nell’ambito del Festival dell’illustrazione e della lettura per l’infanzia “Illustramente”. Un laboratorio di lettura per favorire la riflessione su alcuni temi sociali e le potenzialità creative dei giovani adulti che hanno misure alternative alla pena e delle persone detenute che sono state accolte dentro il Co-Housing del progetto Ortis 2.0, realizzato dall’associazione Un Nuovo Giorno. Per l’occasione, ieri mattina, è intervenuto l’autore del romanzo “Fiori mai nati”, Giankarim De Caro. Lo scrittore, originario del quartiere Borgo Vecchio, racconta la storia della famiglia Calamone, gente “miserabile, arrogante, cattiva” con un romanzo in cui le vicende del protagonista Piero si legano a quelle dei suoi familiari. Sullo sfondo viene resa la Palermo buia e decadente degli anni ‘70, devastata prima dalle bombe americane e poi dall’abusivismo edilizio di stampo mafioso. È possibile scegliere di cambiare il proprio destino? De Caro non dà risposte, ma offre gli strumenti per confrontarsi sull’argomento. L’iniziativa, realizzata dall’associazione Un Nuovo Giorno, è avvenuta nell’ambito del Festival dell’illustrazione e della lettura per l’infanzia “Illustramente” che coinvolge oltre a Palermo, Roma, Trapani, Messina e Catania. Il laboratorio si inserisce dentro il progetto Odisseo, comunità educante. Dopo la lettura di alcuni passi del libro si è aperto un confronto con le persone del circuito penale. “Oggi rispetto agli anni 70 il carcere è molto diverso - dice Antonino, in misura alternativa -. Sono stati fatti tanti passi avanti ma ancora se ne devono fare tanti altri”. “Sicuramente, oggi in carcere l’approccio è meno punitivo e più educativo - continua Angelo, anche lui in misura alternativa -. Il problema maggiore è la mancanza del reinserimento lavorativo perché, una volta che esci dal carcere, rischi di rimanere solo e senza un lavoro. Bisognerebbe che lo Stato lavorasse per garantire alle persone ex detenute una seconda possibilità di vita”. “In carcere, per qualsiasi bisogno devi aspettare perché i tempi sono sempre molto lunghi - racconta Nicola che vive nel Co-Housing e si occupa dell’orto sociale -. Il cambiamento vero dell’organizzazione del carcere può avvenire solo dallo Stato. Da quando vivo in Housing la mia vita è completamente cambiata in meglio. C’è chi crede in me e cerco di darmi molto da fare”. “Provengo da un quartiere popolare e sono diventato uno scrittore per caso - dice Giankarim De Caro -. Nella mia giovinezza ho vissuto e toccato con mano i diversi problemi del Borgo Vecchio. Oggi stata una bella giornata perché ho incontrato delle persone che stanno facendo un percorso di vita diversa. Da loro ho imparato tantissimo. Dal confronto è emerso, soprattutto, il loro forte desiderio di reinserirsi in società con un lavoro che garantisca una vita dignitosa. Lo Stato deve impegnarsi per riconoscere alle persone detenute una seconda possibilità di vita”. “Crediamo che la promozione della lettura, possa contribuire in modo significativo al percorso di crescita e di autonomia dei nostri ospiti - afferma Antonella Macaluso presidente di Un Nuovo Giorno -, molti dei quali sono impegnati in attività di reinserimento sociale e lavorativo. C’è anche chi non avendo avuto la possibilità di studiare, viene aiutato ad iniziare un percorso di apprendimento di base. È, sicuramente, anche un’opportunità preziosa per arricchire l’offerta formativa e culturale all’interno del nostro progetto di Co-Housing che vuole favorire l’inclusione sociale delle persone detenute. A volte con loro leggiamo pure i giornali. La cultura li stimola a riflettere dando una maggiore apertura mentale che li aiuta a vivere meglio il quotidiano”. Cinema. Per un carcere diverso, il teatro diventa un film di Alessandra De Luca Avvenire, 20 novembre 2024 Con la regia di Gianfranco Pannone, il progetto di Armando Punzo per l’istituto di detenzione di Volterra diventa il documentario “Qui è altrove: buchi nella realtà”. Alla ricerca di un altro carcere possibile, di una nuova strada da percorrere, di una via di uscita dalla propria condizione negativa. A Volterra, nell’istituto di detenzione all’interno della Fortezza Medicea, da cui prende il nome la realtà che fa capo al regista Armando Punzo, Compagnia della Fortezza, si lavora con detenuti e allievi per mettere in scena la vita, non la morte. Come ogni estate, Punzo allestisce il suo spettacolo nel carcere, mentre alcune compagnie teatrali che operano in vari istituti di pena italiani animano il progetto “Per Aspera ad Astra”, promosso da Acri e sostenuto da 12 fondazioni. Gianfranco Pannone è stato chiamato a realizzare un documentario sull’esperienza di Punzo, dal titolo “Qui è altrove: buchi nella realtà”, che ha aperto la 65ª edizione del Festival dei Popoli di Firenze e ora si appresta a intraprendere un tour in tutta Italia. Un lavoro corale che testimonia il lavoro della Compagnia della Fortezza, concentrata sul primo capitolo dell’ambizioso progetto, Atlantis cap.1 - La Permanenza. La macchina da presa di Pannone “pedina” i protagonisti seguendo due diversi percorsi: se nella prima parte del film carcere e città sono luoghi ben distinti, realtà diverse e distanti, nella seconda parte quei due mondi si impastano fino a diventare una cosa sola. I professionisti della scena, i detenuti e gli allievi di una masterclass dove si discute del senso del teatro stesso, vivono dunque un’esperienza totalizzante che diventa il film. “Conosco bene Armando Punzo e Cinzia De Felice, che sono l’anima della Compagnia della Fortezza - dice Pannone - e da molti anni e seguo i loro spettacoli. Il nostro rapporto di amicizia e stima reciproca è sfociato l’anno scorso con questa “chiamata” a realizzare non un documentario celebrativo, né istituzionale. Il titolo rimanda proprio al teatro di Armando dove c’è una dimensione altra. L’altrove è il carcere, ma il campo si può allargare a tutte le nostre prigioni mentali. È stato interessante approfondire il rapporto del regista con i detenuti attorti, la sua capacità di estrarre l’impossibile dando loro dei testi che non conoscono, lavorando su qualcosa che non appartiene alla loro cultura”. Non testi classici dunque, ma scritti sperimentali, astratti, parole di filosofi e scrittori che richiedono un grosso lavoro da parte di chi decide di farli propri. “Volevo che nel documentario rimanesse questa astrazione, per questo non sono entrato nel senso dello spettacolo che mettono in scena. Mi interessa la partitura per corpi e volti, il contrasto tra testi alti e i visi autentici di questa persone impegnate in un rito collettivo, qualcosa di corale che li fa uscire, seppure momentaneamente, dalla dimensione del carcere”. Pannone insiste sul senso più profondo dell’esperienza teatrale di Punzo, che il suo documentario intende restituire. “L’obiettivo non è quello di fare del facile sociologismo del carcere, ma piuttosto sottrarre qualunque elemento di pietismo. Il carcere diventa una piazza dove si comunica, un luogo da scardinare attraverso il teatro. Punzo guarda in faccia il detenuto come persona e io ho cercato di trasmette tutto questo trasformando i detenuti in esseri umani da collocare in una dimensione corale. In questo sta la rivoluzione del teatro in carcere. Un altro carcere deve essere possibile se solo nel 2024 si sono suicidati 70 detenuti. Il gesto che facciamo diventa anche politico, ma io guardo alla capacità di papa Francesco di trasmettere grande attenzione verso il mondo delle carceri in una società dove esiste la convinzione che il detenuto debba soffrire. Idea della persona è fondamentale. Il mondo deve allora paradossalmente aprirsi verso l’interno, facendo in modo che le sbarre svaniscano. Solitamente i detenuti vivono isolati, si ha paura di loro. Noi vogliamo mostrare un mondo che cambia attraverso l’azione teatrale: solo in questo modo il teatro diventa liberatorio”. A colpire nel film è anche la dedizione che i detenuti dimostrano verso il progetto. “Armando riesce ad attivare intorno a se un’attenzione particolare. Chi vive in prigione ha l’occasione di uscire dalla sua routine quotidiana, ma c’è tanta voglia di crescere. La cosa più commovente è stata vedere Elio, tornato in libertà con un diploma e la passione per Shakespeare. Ha trovato un’altra dimensione, ha capito che teatro è un modo per crescere e la cultura è il mezzo attraverso cui spingersi fuori dalla propria condizione di vita. Non ho chiesto la biografia a nessuno dei detenuti, non so per quali reati siano li. Ma è stato bellissimo vederli cambiare e crescere. Non abbiamo mai avuto intenzioni “salvifiche”, ma l’uomo ha la possibilità concreta di uscire dalla propria condizione negativa. Molte persone si salvano da sole grazie al teatro, che mostra altre strade possibili. A chiunque può capitare di sbagliare, ma chiunque ha diritto a una possibilità di riscatto. Se mostri un’altra strada possibile a chi ha commesso un errore, questa può reinventarsi una vita. Un messaggio importante in un momento storico di grande intolleranza, violenza e sopraffazione”. Femminicidi: dati, numeri e parole di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 20 novembre 2024 Nel 2022, ultimo dato disponibile, l’Istat certifica che il 92,7% degli italiani uccisi è ucciso da italiani e tra le donne italiane assassinate da italiani questa quota sale al 93,9%. “Tra il 2013 e il 2022 sono 201 le donne straniere conteggiate come vittime di femminicidio in Italia: di queste, oltre la metà (102) sono state uccise da uomini italiani”. Basterebbero queste righe, dal libro che sta scrivendo Emanuela Valente fondatrice del primo sito che ha preso nota di tutti i femminicidi (inquantodonna.it) per capire quanto sia velenosa l’insinuazione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara sull’aumento dei femminicidi causato “anche da forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale”. Per iniziare: a dispetto degli immigrati, gli omicidi complessivi (inclusi i femminicidi) sono da anni (evviva!) in calo costante e cioè meno della metà rispetto al 2004 e meno di un quinto rispetto al 1990 salvo un lieve rimbalzo da 325 a 330 nel 2023. Ma i veri e propri femminicidi all’interno della coppia (il 92,7% delle donne uccise in Italia è vittima d’un uomo, nella stragrande maggioranza dei casi il marito, il fidanzato, il compagno o ex...) calano meno rispetto agli omicidi complessivi. Questo è il vero problema. Attribuire ciò agli stranieri, però, è una forzatura: nel 2022, ultimo dato disponibile, l’Istat certifica che il 92,7% degli italiani uccisi è ucciso da italiani e tra le donne italiane assassinate da italiani questa quota sale al 93,9%. Il resto è frattaglia propagandistica. Basata su “percezioni”. Quanto valgano queste percezioni, però, Valditara potrebbe chiederlo ad Alfredo Mantovano che anni fa spiegò che stando all’inaugurazione dell’anno giudiziario nel distretto della Corte d’appello di Lecce (province di Lecce, Brindisi e Taranto) “dal 1 luglio ‘90 al 30 giugno ‘91 c’erano stati 149 omicidi” poi scesi secondo “la stessa identica relazione” dal 1 luglio 2007 al 30 giugno 2008” a 13 omicidi. “Eppure, pare impossibile, la gente non ha mai percepito tanta insicurezza come ora”. Mai fidarsi, delle chiacchiere al bar. Compito della buona politica, come giustamente esortava a fare quello che oggi è il braccio destro di Giorgia Meloni, non è cavalcare le “percezioni” ma governare con saggezza e buonsenso. Tanto più se, come ha accertato Emanuela Valente sui dati ufficiali, gli stranieri autori di femminicidi negli ultimi anni non erano clandestini ma “quasi tutti residenti in Italia da anni e produttivi in termini di lavoro”. Tra loro due ingegneri, un docente universitario, un militare statunitense, un manager della Nestlé, un prete… Le parole della politica che ci riportano indietro di Fabrizia Giuliani La Stampa, 20 novembre 2024 Questo è un pezzo sul 25 novembre, sul peso delle parole e delle parole che vengono dalle istituzioni e dalla politica. È un pezzo sulla paura e sul coraggio, la responsabilità e l’assoluzione. Ma soprattutto è un pezzo sul cammino, sul movimento, progresso o avanzamento, scegliete dal mazzo. Trasformazione, mutamento, possibilità di. Perché al fondo, la battaglia contro la violenza si gioca tutta su questo crinale: si può cambiare qualcosa che per secoli ha avuto la stessa forma, lo stesso assetto, lo stesso ordine, lo stesso significato, gli stessi silenzi e gli stessi colpi? Un sistema, detta altrimenti, che ha sempre funzionato così? A questo ci riferiamo quando a gran voce invochiamo il “mutamento culturale”, a questo si riferisce, da un anno, Gino Cecchettin, il padre che ha cambiato la storia, ha girato il cappello come dice un detto latino-americano, segnando un punto di non ritorno nella tormentata storia italiana del contrasto alla violenza contro le donne. Con il suo gesto inedito, rovesciando ogni copione, ha preso su di sé la responsabilità, che non è la colpa: non è difficile distinguere i due concetti, si può fare. Ha descritto la cultura nella quale è cresciuto: il sistema e le sue regole, le sue battute, gli ordini e l’ubbidienza, la disponibilità, la divisione dei compiti; ha pensato a quanto aveva assorbito acriticamente, quanto aveva spezzato e quanto riprodotto. Si è chiesto se quella catena avesse pesato su Giulia. La sua grandezza non è solo nella scelta di affrancarsi da ogni logica primordiale di odio e vendetta, ma nel non chiamarsi fuori: ha detto “io c’entro”, che non vuol dire fustigarsi ma lavorare perché cambi la cultura di cui ci si riconosce parte, ossia quel piano che sembra non cambiare mai. Non c’è cambiamento senza responsabilità: lo sa un padre e dovrebbero saperlo gli adulti, tutti. Invece assistiamo alla fuga, che vanifica ogni sforzo. È stato necessario un lavoro lungo e tenace per portare alla luce la natura della violenza, renderla riconoscibile, individuarne le radici. Quintali di ricerche, studi nazionali e internazionali per dimostrare che gli abusi sono endemici, sono nelle relazioni, nelle coppie, nelle famiglie. Sono anche per strada sì, ma quelli nascosti, quelli che degenerano e uccidono prima di morire sono nelle case. Decenni per rompere il mandato del silenzio, condannare legalmente chi li esercita e non moralmente chi li subisce, decenni di “Signora torni a casa, vedrà che un bel ragù sistema le cose” nelle caserme, e di “È sicura di aver espresso chiaramente il suo rifiuto?” nelle aule di tribunale. Decenni per dire che la responsabilità, nella stragrande maggioranza dei casi non è dell’uomo nero ma di chi ha le chiavi di casa e affermare che lo Stato deve sostenere e aiutare, in ogni sua articolazione, il coraggio delle donne che non intendono subire più. Decenni perché il patriarcato è vivo e lotta in ogni colpo di coltello che registriamo, in ogni bambina che vola dai balconi. Per questo parole come “la responsabilità della violenza è degli immigrati” non si possono accettare. Non sono vere, sono autoassolutorie e cariche di conseguenze. Valditara e Meloni invece di evocarle dovrebbero schierarsi a fianco di chi lotta ogni giorno dentro le case e nei tribunali contro i cascami di una cultura che non ammette la libertà delle donne, dovrebbero sottrarre la violenza allo scontro politico, alla paura, e riconoscere che la lotta contro i femminicidi è battaglia di tutti, è battaglia per la dignità del Paese. Il padre che ha cambiato la storia lo ha fatto, non deve essere lasciato solo. Gino Cecchettin: “Non è una questione geografica, dietro alla violenza c’è una cultura” di Maria Corbi La Stampa, 20 novembre 2024 Il padre di Giulia: “Bisogna far capire che esiste un’alternativa a distruggere una vita. La propaganda non serve alla causa, maggioranza e opposizione lavorino insieme”. Deve essere stato complicato non pronunciare mai la parola “patriarcato” durante l’iniziativa “#Nessuna scusa” promossa da Mara Carfagna contro la Violenza di genere. Non lo fanno i ministri Piantedosi, Roccella e Nordio, non lo fanno gli altri oratori e nemmeno la moderatrice Maria Latella quando intervista Gino Cecchettin davanti alla platea di studenti della Luiss. Una parola “avvelenata” che però fuori dallo spalto Cecchettin pronuncia eccome, sempre con quel suo garbo così naturale e potente: “Per fare dei passi avanti dobbiamo comprendere tutti che alla base della violenza contro le donne c’è una cultura”. Ossia il patriarcato, parola che chissà perché la destra ha fatto diventare divisiva. “Nessuno si può chiamare fuori”, dice Cecchettin aspettando di parlare. “Non ha senso fare polemiche comunque perché questo allontana dall’obiettivo”. A uccidere la figlia, come ricorda, è stato un “bravo ragazzo” italianissimo. “Non è una questione di provenienza geografica la violenza di genere”. Ma quest’uomo vorrebbe finirla qua, non commentare le parole della premier e nemmeno le parole della figlia Elena che sui social è stata netta: “Forse, se invece di fare propaganda alla presentazione della fondazione che porta il nome di una ragazza uccisa da un ragazzo bianco, italiano e “per bene”, si ascoltasse non continuerebbero a morire centinaia di donne nel nostro paese ogni anno”. “Orgoglioso di lei come di tutti i miei figli”, dice quest’uomo che prende forza dal dolore. “Quello che faccio lo faccio da papà per far rivivere Giulia. E sono contento che inizino a vedersi i frutti con l’aumento delle telefonate di denuncia o di richiesta di aiuto, non solo da parte delle vittime ma anche dei familiari. Ma c’è ancora tanto da fare”. Spera che, come dopo l’omicidio di Giulia - quando ci fu la telefonata tra Schlein e Meloni per combattere la violenza sulle donne - sul tema si instauri un patto virtuoso tra governo e opposizioni. “Questa è una battaglia di tutti”. E il ragionamento da fare è più complesso della “linea dura” evocata dopo ogni morte. “Si parla di inasprimento delle pene, di leggi, ma quando qualcuno commette una cosa del genere non pensa alle conseguenze, ha deciso di farlo indipendentemente dal suo futuro. È il processo a monte che dobbiamo fermare, quella cultura che porta a questa distruzione. Far capire che c’è sempre una scelta”. Quanto è distante il mondo collerico della politica da quest’uomo che mette al servizio della società la sua storia, la sua sofferenza. “Ho sempre empatizzato con tutti, anche con chi mi ha creato dolore”, dice. Nemmeno una sillaba è intrisa di odio. “Perché da papà poi ti dai tante colpe e pensi di non aver fatto abbastanza. Io per mesi ho sognato di arrivare a Fossò, dove Giulia ha sperimentato quello che sappiamo, me la caricavo in macchina e la salvavo. E allora proprio in quei momenti io pensavo a cosa avesse scatenato tutto questo”. Parla dell’assassino della figlia per capire e volgere la rabbia inevitabile in qualcosa che costruisca e non distrugga ancora. “Filippo ha avuto un’escalation, da fidanzato affettuoso, a stalker, a omicida. In questo suo percorso non ha capito che stava facendo del male a se stesso per primo”. “Giulia, racconta, non lo aveva capito. Io premevo la chiudesse anche il rapporto di amicizia, perché so che alcuni maschi si comportano quando hanno la possibilità di vedere la porta aperta, ma lei mi ripeteva “Filippo non farebbe del male a nessuno”. È qui il problema che non abbiamo la percezione dell’escalation di questo problema che è radicato. E ai tanti ragazzi con cui parlo voglio dire che la vita non finisce con un “no”. In questo caso per Filippo la scelta sarebbe stata tra due vite vissute pienamente e due vite mancate. Io soffro per la mancanza di Giulia ma penso che ci siano altri due genitori che soffrono per Filippo che non ha potuto godere appieno del dono che è la vita”. Ricorda quando disse addio alla moglie: “Nell’ultimo suo istante di vita ha avuto la gioia di vedere i suoi affetti, mentre Giulia non ha avuto qualcuno che amava vicino a lei”. “Però - continua - bisogna andare avanti, cercando di onorare questa vita che è solo una ed è breve. E io lo faccio ogni giorno, perché voglio rendere Davide ed Elena felici. E quando li vedo felici mi unisco a loro. Il percorso che ho fatto dall’anno scorso non esclude momenti di felicità intensa che condivido con le persone a cui voglio bene”. E il primo momento di felicità è stato alla prima riunione per la creazione della Fondazione di Giulia. “Per la prima volta mi è scesa una lacrima di gioia e ho capito di essere sulla strada giusta, ma il percorso da fare è ancora lungo”. La riflessione sulla Gpa rimane un percorso incompiuto di Gianfranco Pellegrino* Il Domani, 20 novembre 2024 Per fuoriuscire dal patriarcato bisogna schiacciare tutta la genitorialità sulla maternità gestazionale? O forse la riflessione su forme di paternità non patriarcale, su come armonizzare i diritti delle gestanti e quelli genitoriali serve anche a quelle femministe che teorizzano l’importanza della differenza tra i sessi? Ora che la Gpa è stata dichiarata reato universale, c’è un imperativo per le femministe che avversano questa pratica: differenziarsi dalle donne di destra che pure sono contrarie e usano la loro contrarietà per difendere un modello patriarcale di famiglia e di donna. Negli stessi giorni in cui la legge sul reato universale è stata firmata dal presidente Sergio Mattarella, un gruppo di donne di destra ha rivendicato la “maternità come potere della donna” (lo ha detto Annalisa Terranova) e il ministro Giuseppe Valditara ha detto in faccia a Gino Cecchettin che i femminicidi sono commessi soprattutto da immigrati e la lotta al patriarcato è solo “visione ideologica”. In un libro coraggiosissimo che tenta proprio questa operazione Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo spiegano benissimo perché per loro e altre la differenza sessuale, cioè il fatto di avere sessi diversi e la capacità delle donne di procreare, faccia una enorme differenza, senza che ciò però significhi che le donne siano essenzialmente madri, destinate alla cura e alla vita casalinga, confinate nella naturalità, distinte dal regno della cultura e della verità, appannaggio esclusivo degli uomini (Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa), Mondadori, 2024). Parlando della Gpa, le autrici mettono in luce tutti i problemi di questa pratica (lo sfruttamento, la medicalizzazione del corpo femminile, la separazione fra madre gestazionale e nascituro), cercando di evitare che possano condurre a esiti tradizionalisti e a diminuire la libertà delle donne. Una visione da elaborare - E tuttavia il percorso rimane incompiuto, almeno a mio parere. Vero è, e tocca sempre ribadirlo, che la differenza sessuale è un fatto prevalente - anche se ci sono ovviamente casi e vite meno nette, che bisognerebbe rispettare (il libro tenta di smontare la contrapposizione fra universo lgbt e femminismo della differenza, illuminando le distinzioni teoriche non negoziabili e la possibile strada comune). Vero è pure che il patriarcato ha occultato, mistificato, addomesticato il fatto della differenza sessuale, facendone un pretesto per asservire le donne. Vero e ovvio è, infine, che la gestazione è un’esperienza indicibile per chi, come chi scrive, non può averla, un’esperienza che segna l’orizzonte di vita delle donne, e ha valore in sé. Ma questi punti di partenza non esauriscono tutto. La madre gestazionale ha diritti che forse la Gpa viola. Ma di questi diritti fa parte sempre e comunque quello di curare il figlio? La madre gestazionale è sempre il miglior genitore dal punto di vista dell’interesse del nascituro? Per come viene condotta prevalentemente, la Gpa separa la gestazione dalla cura genitoriale. Non sarebbe necessario: famiglie non monogamiche e non nucleari potrebbero essere formate da madri gestazionali e madri o padri intenzionali. Ma questa è forse un’utopia. I diritti da bilanciare - Ma ovviamente la separazione fra madre gestazionale e nascituro, così come le varie limitazioni della libertà della madre, o il possibile sfruttamento, sono difficili da accettare (per quanto la penalizzazione non risolverà, ma creerà solo mercati clandestini). Tuttavia, si può dire che la cura di chi non può partorire sia sempre imperfetta? E che chi ha una gestazione abbia automaticamente il diritto di essere genitore, di essere madre? È facile, forse, vedere in una coppia di uomini che pagano una donna sottraendole il frutto del suo grembo un atto patriarcale, giacché tutto questo sembra così simile a ristabilire il presunto diritto esclusivo dei padri alla proprietà dei figli, che nei secoli ha nascosto il fatto che tutti veniamo da corpi di donna e che solo le donne possono partorire. È ovvio che la madre gestazionale ha il diritto alla relazione con il figlio, se vuole. Ma ha automaticamente il diritto alla cura, o garantisce sempre la cura migliore? Per fuoriuscire dal patriarcato bisogna schiacciare tutta la genitorialità sulla maternità gestazionale? Chi è lì dopo il parto, nelle famiglie tradizionali, nelle famiglie adottive, o nei casi migliori di Gpa (quelli rarissimi dove non ci sia né denaro né costrizione), e si prende cura del nato non fa niente di paragonabile a quello che fa la madre gestazionale, dunque? Forse non si può chiedere alle femministe, che giustamente parlano dal punto di vista delle donne, di occuparsi di tutto il resto, di chi può dare cure nell’interesse dei figli pur senza poterli portare in grembo. Ma in questa discussione ne va anche delle nuove forme di paternità non patriarcale che potrebbero essere alleate del femminismo. Non nasconderle e valorizzarle potrebbe essere ciò che separa il femminismo dal tradizionalismo neocattolico. *Filosofo Migranti: la paura e la buona politica di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 20 novembre 2024 La sfida per la sinistra è quella di mantenere fermo il legame con i principi generali (diritti umani, giusto trattamento, integrazione dei regolari), e applicarli alla realtà dei fatti, tenendo in conto le paure dei cittadini. Cavalcata dai partiti della destra “patriota” (e dal trumpismo negli Usa), l’immigrazione resta uno dei temi politici più caldi in tutti i Paesi. Nei sondaggi, gli elettori hanno atteggiamenti ambivalenti. Se li si interroga sull’argomento, molti si dichiarano impauriti e percepiscono gli “stranieri” come una minaccia per l’ordine pubblico, i posti di lavoro, il welfare. Le cose cambiano se si chiede di indicare le principali preoccupazioni. Ai primi posti emergono le questioni economiche (reddito e potere d’acquisto) e sociali (sanità e pensioni). Nella scala di priorità dei cittadini, l’immigrazione scende al terzo o al quarto posto, in Italia si colloca addirittura dietro al cambiamento climatico e al debito pubblico. I partiti di destra sanno sfruttare con scaltrezza questa ambiguità. Soprattutto quando sono al governo, accentuano il carattere “sociale” (la difesa dei ceti più deboli) della loro agenda. Continuano però ad aizzare opportunisticamente la paura dei migranti alla prima occasione utile (un fatto di cronaca, una scadenza elettorale). I partiti di sinistra faticano a reagire a questa tattica. Per loro l’immigrazione solleva imbarazzi ideologici. Inoltre le paure dei cittadini vengono considerate come effetto secondario della diffusa insicurezza economica e sociale. Aleggia la convinzione che se si adottassero misure incisive di redistribuzione, l’ostilità contro i migranti diminuirebbe. E tornerebbero all’ovile le ampie quote di classe operaia (in senso lato) che non votano più a sinistra. È fondato questo approccio? E quanto paga in termini di consenso? Laddove è stato sperimentato, i risultati sono stati deludenti. L’ultimo caso in ordine di tempo è quello del partito socialdemocratico austriaco. La sua campagna per le elezioni politiche dello scorso ottobre ha puntato tutto sulla redistribuzione. Il piatto forte è stata la proposta di una imposta sul patrimonio e sulle successioni, che avrebbe colpito il 2% dei contribuenti più ricchi. Ebbene: la percentuale di voti socialdemocratici è lievemente calata rispetto al 2019. Non solo, ma il partito ha perso ulteriori elettori a vantaggio del partito di estrema destra, che ha fatto campagna contro l’immigrazione. Il tentativo di resuscitare la tradizionale coalizione di classe del secondo Novecento è chiaramente fallito. In molti Paesi la sinistra è divisa. La definizione di una ambiziosa strategia redistributiva suscita tensioni fra le componenti riformiste (come il Pd, ad esempio), quelle massimaliste (Alleanza Verdi e Sinistra) e quelle a vocazione populista (Movimento 5 Stelle). Le visioni sono diverse, così come i bacini sociali di riferimento. In Francia e Germania, la sinistra si è peraltro divisa anche sul tema dell’immigrazione. Il partito di Mélenchon - La France insoumise - e quello di Sahra Wagenknecht in Germania - erede della Linke - si sono avvicinati all’agenda nativista delle destre “patriote”. Una mossa, anche qui, volta a recuperare un po’ di classe operaia impaurita. Ma al prezzo di tradire i valori cardine della tradizione socialista, senza peraltro elaborare proposte concrete. Se vuole recuperare terreno, la sinistra riformista deve uscire dall’angolo. Come ha già fatto su altri versanti, deve modernizzare la propria strategia sui temi caldi legati ai flussi migratori. Senza trascurare alcuni aspetti scomodi come i rapporti con le minoranze islamiche, il contrasto al fondamentalismo religioso, la prevenzione del terrorismo. Definire una posizione riconoscibile e alternativa richiede uno sforzo di riflessione su valori e politiche pubbliche. In alcuni think thank europei di area progressista iniziano a circolare idee nuove e promettenti. La sfida è quella di mantenere fermo il legame con i principi generali (diritti umani, giusto trattamento, integrazione dei regolari e così via), e applicarli alla realtà dei fatti, tenendo in conto le paure dei cittadini. Come si gestisce in modo equo ma efficace l’immigrazione irregolare? Come si rispettano i diritti di chi chiede asilo, limitando inevitabilmente la loro libertà di movimento durante gli accertamenti? È opportuno perseguire accordi di rimpatrio e partenariato con i Paesi di origine, anche se in maggioranza si tratta di regimi autoritari? Una scorsa veloce ai siti internet e ai recenti programmi elettorali dei partiti di sinistra conferma la persistenza di un approccio molto generico. Prevale ovunque l’auspicio di una comune strategia europea, basata su “condivisione e responsabilità”. Giusto. Peccato che questa strategia sia ancora tutta da elaborare. Siccome non possiamo aspettarci che siano i partiti di destra a farlo, per le sinistre riformiste non c’è più il tempo di aspettare Godot. Migranti. Umiliati e respinti, gli stranieri rinchiusi nelle “celle” degli aeroporti di Luigi Mastrodonato Il Domani, 20 novembre 2024 A Malpensa, nel 2023, più di 200 stranieri sono stati rinchiusi in cella per giorni. Non potevano comunicare con l’esterno. Una cubana ha fatto ricorso, vincendolo. In Italia ci sono luoghi di detenzione amministrativa ancora più invisibili dei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr). Come le zone di transito degli aeroporti, aree franche dove le persone straniere a cui è precluso l’ingresso nel territorio nazionale rimangono per giorni, private della libertà personale e costrette a sopravvivere in locali inadeguati e isolati dal mondo esterno. In assenza di un quadro normativo di riferimento. L’articolo 10 del testo unico dell’Immigrazione stabilisce che quando un cittadino straniero arriva in Italia, se non è in possesso della documentazione necessaria o è segnalato, può essere respinto ai valichi di frontiera. Per la legge italiana il respingimento deve essere immediato, ma, dal momento che per molte destinazioni gli aerei non hanno cadenza quotidiana, il respingimento in aeroporto si trasforma in una detenzione non regolamentata che può andare avanti per giorni. Hanyi, 37enne cubana, ha vissuto questa esperienza in prima persona. Al ritorno da una vacanza a Cuba, durante la quale le era decaduto il permesso di soggiorno perché stava divorziando dal marito italiano e non viveva più con lui, si è vista bloccare l’ingresso nel paese all’aeroporto di Malpensa. “Mi è cascato il mondo addosso. Vivevo in modo regolare in Italia da anni, avevo un lavoro, non capivo cosa mi stesse succedendo perché nessuno mi comunicava nulla”, spiega. Le autorità di frontiera l’hanno rinchiusa in una sala con altre persone. “Era come un labirinto privo di finestre e orologi”, ricorda. “Per cinque giorni non ho avuto idea di che momento della giornata fosse, era una situazione umiliante”. Qua e là c’era buttata qualche brandina da campo, le coperte erano quelle dell’aereo. Ad Hanyi è stato sequestrato il cellulare e non è stato permesso di recuperare gli effetti personali nella sua valigia. “Sono stata cinque giorni con gli stessi vestiti, per fortuna due donne moldave mi hanno prestato una felpa”, continua. “Non avevo nemmeno uno spazzolino e non ho potuto fare la doccia per tutto il tempo della detenzione”. “Nelle zone di transito aeroportuale le persone sono detenute in maniera del tutto informale”, sottolinea Annapaola Ammirati, operatrice legale dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). “Le persone di fatto sono private della libertà personale senza un provvedimento, e quindi senza la possibilità di fare ricorso”. Hanyi in effetti è stata rimpatriata a Cuba e solo da quel momento ha potuto parlare con il suo avvocato, per capire come tornare in Italia. Durante tutta la permanenza nell’area di transito di Malpensa le è stata vietata ogni forma di comunicazione, una prassi che viola tanto il diritto alla difesa quanto il diritto alla richiesta di una tutela giurisdizionale. E che si verifica di frequente. “Spesso accade che le persone vengano effettivamente rispedite nei loro paesi di origine perché non gli è stato dato modo di entrare in contatto con chi avrebbe potuto aiutarli, come interpreti, mediatori o avvocati, come sarebbe loro diritto”, denuncia Ammirati. Come ribadisce un report sulle aree di transito aeroportuali dell’Asgi, “le autorità attuano sistematicamente prassi lesive dei diritti dei cittadini stranieri finalizzate a impedirgli l’ingresso nel paese” e a subirne gli effetti sono stati nel tempo richiedenti asilo, soggetti vulnerabili e anche minori non accompagnati. Nel report ampio spazio viene dedicato alle condizioni di trattenimento delle persone straniere. Vengono denunciate situazioni di sovraffollamento, con più persone presenti rispetti ai posti di fortuna organizzati nella sala, ma anche l’assenza di prassi obbligatorie per legge in caso di privazione della libertà personale, come l’accesso giornaliero all’aria aperta e una qualche forma di luce naturale. Non è un caso che il tribunale di Brescia, pronunciandosi sul caso del respingimento di Hanyi a Cuba e decretandone l’illegittimità, abbia rilevato una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quello che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Un uso sistematico - Chi è recluso nelle zone di transito aeroportuali non può comunicare con l’esterno, ma anche chi è all’esterno fa fatica a sapere cosa succede in queste aree franche del diritto. Nel 2021 la richiesta dell’Asgi di visita a Milano Malpensa e Roma Fiumicino in quanto luoghi di privazione della libertà personale, dunque accessibili alla società civile, è stata negata dal ministero dell’Interno. Solo nel febbraio 2023 il quadro è cambiato, con la sentenza del Tar del Lazio che ha dato ragione all’associazione. Questo ha permesso anche di avere accesso a qualche dato. Nel primo semestre del 2023 nella zona di transito di Milano Malpensa 215 persone sono rimaste recluse tra le 24 e le 48 ore, 14 persone per circa 48 ore, tre persone per tre giorni e una persona per quattro giorni. Su Fiumicino i dati sono meno strutturati, ma si parla di permanenze fino a cinque giorni. Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute parla di detenzioni che arrivano fino a otto giorni e “condizioni che non soddisfano i requisiti minimi standard stabiliti per la detenzione amministrativa ordinaria”. Anche il Comitato europeo per la prevenzione della tortura si è espresso sul tema, stabilendo che le zone di transito aeroportuali non sono attrezzate per privazioni della libertà personale superiori alle 24 ore. Secondo Ammirati, “negli ultimi anni si è continuato a fare un uso sistematico della detenzione nelle zone di transito aeroportuali, per quanto non ci sia modo al momento di avere dati relativi all’ultimo anno”. In assenza di numeri aggiornati, non resta che affidarsi alle storie. Come quella di una donna camerunense e i suoi quattro figli minorenni, fermati lo scorso settembre all’arrivo all’aeroporto di Malpensa e reclusi per due giorni nella zona di transito, nonostante avessero regolare visto turistico. La legge italiana stabilisce che questo non sia sufficiente, perché le persone sono sottoposte anche a una sorta di profilazione economica: se non si offrono garanzie adeguate di poter affrontare le spese di permanenza, si può essere respinti. E così è stato per loro, senza possibilità di fare ricorso. Segno di come gli aeroporti italiani siano luoghi di detenzione e respingimento discrezionale e arbitrario. Di fatto, zone franche del diritto. Migranti. Decreto Flussi, i giudici lo attaccano senza manco leggerlo di Errico Novi Il Dubbio, 20 novembre 2024 I presidenti delle 26 Corti d’appello italiane hanno chiesto a Mattarella di fermare l’emendamento di FdI al decreto “Flussi” perché avrebbe reintrodotto il ricorso sulle richieste d’asilo. E invece l’emendamento lo cancella, quel ricorso. Capita, per carità, di non comprendere al volo il contenuto di una legge. Figuriamoci di un emendamento presentato in corsa. Ma a volte basta attendere. E invece no: i magistrati, l’Anm ma soprattutto i presidenti delle Corti d’appello (tutti e 26 i presidenti della Corti d’appello italiane!!!) non hanno aspettato. Hanno bombardato di critici l’emendamento della maggioranza sui migranti, al voto in queste ore alla Camera, senza nemmeno leggerlo. Si sono affidati a notizie di stampa. Eppure sono magistrati. Leggere gli atti è il loro mestiere. Conoscere le norme, e leggerle prima di interpretarle, è il presupposto, del loro mestiere. Niente: bordo di critiche. Ma non solo. Pure una lettera al presidente della Repubblica, addirittura con la richiesta per nulla velata di fermare le nuove norme. Un anatema contro il “disastro” che l’emendamento al Dl “Flussi”, a prima firma di Sara Kelany, deputata di Fratelli d’Italia, avrebbe provocato all’intero sistema giustizia. Un “disastro” così epocale che, nella nota diffusa ieri, i presidenti delle 26 Corti d’appello hanno chiesto a Sergio Mattarella di scongiurare il baratro. Ma il baratro non esisteva. L’oggetto del contendere, prima di andare nel dettaglio, è il ripristino del reclamo in appello per il diniego della “protezione internazionale”, cioè dell’asilo politico. “La reintroduzione” del ricorso in secondo grado contro i “provvedimenti emessi dalle Commissioni territoriali costituirà”, secondo i presidenti dei 26 più alti uffici giudicanti d’Italia, “un disastro annunciato per tutte le Corti di appello italiane” e “renderà irrealizzabili gli obiettivi del Pnrr”. Il redivivo (era stato soppresso nel 2017 da Andrea Orlando) diritto d’impugnazione per i richiedenti asilo avrebbe fatto saltare il sistema giustizia perché si sarebbe sommato a un’altra materia che lo stesso emendamento Kelany trasferisce alle Corti d’appello: i reclami contro i trattenimenti nei Cpr (incluso il centro di Gjader in Albania, divenuto pomo della discordia fra governo e toghe) decisi dai questori. Ieri, il grido di dolore rivolto dai capi delle 26 Corti al presidente Mattarella (oltre al Quirinale, la lettera era indirizzata pure al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, al guardasigilli Carlo Nordio e, ovviamente, ai presidenti di Camera e Senato). Ma prima ancora, solo poche ore prima, era intervenuto il segretario dell’Anm, Salvatore Casciaro, che aveva espresso gli stessi concetti. E prima ancora di lui, sabato scorso, era stato l’intero “parlamentino” dell’Associazione magistrati, all’unanimità (sic!), ad approvare un documento appena meno solenne, con cui si criticava il ripristino del reclamo in appello sui no alle richieste di asilo: “Paradossalmente, rispetto agli intenti del governo che vorrebbe espellere dal nostro territorio quanti più migranti possibili, l’inserimento di un nuovo grado di impugnazione allungherà l’accertamento dello status dell’immigrato e determinerà il rischio di una permanenza maggiore in Italia di chi potrebbe non avere diritto a soggiornarvi”, chiosava il “sindacato” delle toghe. Argomentazione un po’ curiosa, se proposta dai magistrati, cioè dalla categoria che ha fatto di tutto per tutelare i migranti con le decisioni contrarie al decreto Paesi sicuri. Ma vabbe’, capita. Ora, ripetiamo, il punto è che l’emendamento di FdI indica come il meteorite che avrebbe incenerito la giustizia italiana non prevede affatto la contemporanea istituzione del trasferimento alle Corti d’appello dei reclami contro i trattenimenti in Albania, da una parte, e dei ricorsi per le richieste d’asilo, dall’altra. Il motivo è semplice: tale ultimo provvedimento era contenuto nella versione originaria del decreto in questione, il 145 del 2024, noto a tutti come decreto Flussi, ma l’emendamento Kelany provvede invece a cancellarlo, quel ripristino. Proprio perché dà priorità al trasferimento alle Corti d’appello della competenza sui Cpr. Alleggerisce gli uffici di secondo grado della prima materia in modo da rendere sostenibile l’assegnazione della seconda. “A prescindere da ogni considerazione circa l’alterazione del sistema di impugnazioni”, per parafrasare le parole scandite nella lettera dei 26 presidenti. I quali si sono ben guardati dal leggere l’emendamento prima di incenerirlo. E perché mai scomodarsi, prima di scrivere al Quirinale? Ma la cosa è, se vogliamo, anche più antipatica: che il ripristino dell’appello sui richiedenti asilo fosse stato cancellato, lo aveva detto, sempre due giorni fa, molte ore prima della famosa lettera, il ministro della Giustizia Carlo Nordio. E non lo aveva detto all’usciere di via Arenula, ma al maggiore quotidiano d’Italia, il Corriere della Sera. In un’intervista. Nella risposta a una delle prime domande. Nordio ignorato. Tanto per dire quanto siano attendibili le toghe che, come Nicola Gratteri, sommergono il guardasigilli di critiche, magari a “Otto e mezzo”, in prima serata, come accaduto sempre lunedì, giornata decisamente particolare. Ieri il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, persona perbene che di ingranaggi normativi ne capisce (è stato il capo del legislativo di Orlando) ha riconosciuto l’errore. Ha parlato di “confusione”, anche se ne ha incolpato la politica. Certo: ci sarà, un po’ di confusione. Ma non nell’emendamento Kelany. Casomai a livello mediatico. E la netta sensazione è che i magistrati, i presidenti delle Corti d’appello innanzitutto, si siano comportati come un qualsiasi partito d’opposizione, non come giuristi. Hanno bombardato una legge senza conoscerla. Come farebbe un leader assetato di polemiche. Ma visto che le toghe si ritengono custodi della morale, be’, svarioni del genere dovrebbero evitarli, no? “Le nuove regole sui migranti sono uno tsunami per le Corti d’appello” di Mario Di Vito Il Manifesto, 20 novembre 2024 “Perché lo fanno? Il motivo mi sfugge, ma è molto probabile che qualsiasi giudice arriverà alle stesse conclusioni alle quali si è arrivati nelle ultime settimane”. Andrea Natale, giudice a Torino e membro dell’esecutivo di Magistratura democratica, sembra quasi che con questo trasferimento di competenze alle Corti d’appello la destra voglia fare un favore a voi giudici delle sezioni immigrazione, lasciandovi senza lavoro. In realtà non è così, alle sezioni specializzate resterebbero comunque tutte le procedure classiche di protezione internazionale, che sono comunque parecchie. Con i due provvedimenti ora all’esame del parlamento, alle Corti d’appello verranno attribuite nuove competenze in materia di convalida dei trattenimenti e in materia di reclamo contro le decisioni dei tribunali sulla sospensione degli ordini di allontanamento accessori ai dinieghi di protezione internazionale deliberati in sede amministrativa. Lì il carico di lavoro aumenterà... Soprattutto sulle Corti d’appello interessate dalle procedure accelerate di frontiera rischia di abbattersi un vero e proprio tsunami. L’emendamento, che ho letto solo in bozza, mi sembra decisamente irrazionale sotto più profili. Perché? Per vari ordini di motivi. Il sistema giudiziario ha investito molto per formare i magistrati delle sezioni specializzate. Si tratta di un lavoro che richiede competenze nella raccolta e nella valutazione delle informazioni sui paesi di origine, oltre che nella conoscenza di un corpo normativo in cui si stratificano fonti sovranazionali e fonti interne. Per orientarsi in questa materia serve tempo e non ci si può improvvisare. Certo, in prospettiva, i giudici d’appello diventeranno bravissimi, ma fare dall’oggi al domani questo intervento su una materia così tecnica mi pare davvero molto poco razionale. A questo bisogna aggiungere che così vanno sprecate le competenze e gli sforzi organizzativi profusi negli anni dai tribunali di primo grado. E poi c’è l’aspetto degli obiettivi del Pnrr legati allo smaltimento degli arretrati. Le Corti d’appello, con un enorme sforzo organizzativo, stavano avvicinandosi alla meta. Adesso invece si tornerà indietro. Per quale motivo secondo lei stanno cercando di esautorare così le sezioni specializzate? Non voglio avventurarmi in dietrologie, quindi mi limito a rispondere che questo motivo, a me, sfugge. Peraltro, insomma, è molto probabile che qualsiasi giudice che si trovi ad applicare le norme sovranazionali e costituzionali arrivi alle stesse conclusioni alle quali si è arrivati nelle ultime settimane. Prima il tentativo di forzare la mano, per così dire, era arrivato con il cosiddetto decreto sui paesi sicuri... Hanno codificato l’elenco dei paesi sicuri dandogli forza di legge, forse, nel tentativo di sottrarre alla possibilità di sindacato del giudice la valutazione fatta dal legislatore. Questo è oggetto di un quesito specifico fatto dai tribunali di Bologna, Roma e Palermo alla Corte di giustizia Ue. Ma credo che il cambio di fonte non possa mutare il risultato. Poi la primazia del diritto Ue consente al giudice che ritenga non sicuro il paese di origine, non per capriccio ma all’esito di una valutazione giudiziaria, di disapplicare anche le norme di legge. Ci sono anche altri aspetti discutibili... Sì, diversi. Sono stati espunti dalla lista dei paesi non sicuri, e va bene, ma lo hanno fatto sulla base delle stesse informazioni che c’erano prima, a conferma di quanto siano poco solide le basi dell’intervento. Vengono dunque attribuite nuove competenze alla Corte d’appello. È un ritorno a quanto accadeva prima della Minniti-Orlando? Non direi. Dipende dall’andamento dei lavori parlamentari, con la quasi inedita sovrapposizione di due decreti legge a distanza di poche settimane. Nella versione originaria del decreto paesi sicuri vi sarebbe un sostanziale ritorno a quel sistema. Con l’emendamento di cui si discute verrebbe attribuita alla Corte di appello la competenza in materia di reclamo sulle decisioni cautelari dei tribunali. In che senso? Cerco di essere più chiaro: la regola è quella per cui in caso di diniego di protezione internazionale, un eventuale ricorso ha efficacia sospensiva, che impedisce il rimpatrio. In alcuni casi, come per esempio, quelli di chi proviene da un paese sicuro, l’eventuale ricorso è esecutivo e non c’è effetto sospensivo automatico. Qui i tribunali, per gravi motivi, possono disporre o non disporre la sospensione dell’ordine di allontanamento in pendenza della decisione sulla richiesta di protezione internazionale. Ed è questa decisione che con il decreto paesi sicuri diventa reclamabile. Con un distinguo importante, però. Ora il reclamo non sospenderà l’efficacia esecutiva dell’eventuale diniego. Mi sembra un altro aspetto problematico: con un diniego in sede cautelare, si rischia di espellere un richiedente asilo al quale poi magari il giudizio di merito darà ragione. In pratica: è sicuro l’aggravio di lavoro per le Corti di appello, ma non aumentano le garanzie per il richiedente. Cannabis light, il ddl considera droga ciò che droga non è: fanatismo proibizionista di Roberto Spagnoli Il Riformista, 20 novembre 2024 C’erano una volta gli Stati Uniti d’America, fortezza del proibizionismo globale, inventori ed esportatori della “War on drugs”. Oggi sono diventati probabilmente il più interessante laboratorio di nuove politiche delle droghe. Un cambiamento di prospettiva insolitamente rapido e talmente diffuso nelle opinioni dei cittadini che entrambi i candidati alla presidenza - Kamala Harris e Donald Trump - si sono detti, per esempio, a favore della legalizzazione della cannabis, con il vincitore Trump che sostiene anche l’allentamento delle restrizioni federali. C’erano una volta gli Stati Uniti e invece, purtroppo, c’è sempre l’Italia. Le commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato stanno esaminando il Ddl Sicurezza. Le opposizioni hanno presentato circa 1.500 emendamenti. Nessuna proposta di modifica è stata invece avanzata dalla maggioranza. È evidente che lo scopo è quello di blindare il provvedimento, bloccare ogni tentativo di cambiamento e far approvare a Palazzo Madama, probabilmente con un voto di fiducia, il testo già passato alla Camera. Il Ddl dispone molte modifiche al codice penale estendendo sanzioni e aggravanti, formulando nuovi reati e in alcuni casi ampliando le pene previste per quelli già esistenti. L’articolo 18 recepisce l’emendamento voluto dal Governo che mette al bando la commercializzazione delle infiorescenze di canapa per usi diversi da quelli indicati dalla legge 242 del 2016 relativa alla canapa industriale. Alle infiorescenze si applicheranno, quindi, le sanzioni previste dal Testo unico sugli stupefacenti e le sostanze psicotrope. I chiarimenti - Lo scorso 10 settembre il Dipartimento per le politiche antidroga ha pubblicato sul proprio sito internet dei cosiddetti “chiarimenti” secondo i quali il Ddl Sicurezza “non criminalizza né incide sulla coltivazione e sulla filiera agroindustriale della canapa” e “non crea contrasti normativi e giuridici con altri Paesi EU, essendo in linea con la normativa europea e la Convenzione Unica sugli Stupefacenti”. Io non so chi siano gli esperti interpellati dal Dipartimento, ma le cose mi pare stiano in maniera diversa. Infatti, il 4 ottobre scorso la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha emesso una sentenza che chiarisce definitivamente la questione della coltivazione e della commercializzazione della canapa industriale. I giudici hanno stabilito che gli Stati membri non possono imporre limitazioni alla coltivazione, inclusa la coltivazione indoor e quella finalizzata esclusivamente alla produzione di infiorescenze, a meno che tali restrizioni non siano supportate da prove scientifiche concrete riguardanti la tutela della salute pubblica. Prove che non ci sono. I chiarimenti del Dpa - I cosiddetti “chiarimenti” del Dpa non riportano che a livello comunitario la canapa è classificata come “prodotto agricolo” e “pianta industriale” senza alcuna distinzione tra le varie parti. Poiché le infiorescenze coprono circa un terzo della pianta e dato che queste e gli estratti di Cbd rappresentano una buona parte dei prodotti in vendita, vietare la loro lavorazione significa privare agricoltori e produttori della maggiore fonte di reddito e scoraggiare la coltivazione della canapa. Ma non solo. Le infiorescenze contengono una quantità di delta-9-tetraidrocannabinolo (Thc, il principio psicoattivo della canapa) inferiore a quella in grado di provocare il cosiddetto “effetto drogante” e sono invece ricche di cannabidiolo (Cbd). Il cannabidiolo - Già nel 2019 l’Organizzazione mondiale della sanità aveva invitato l’Onu a togliere il cannabidiolo dalle tabelle degli stupefacenti e nel 2020 una sentenza della Corte di giustizia europea aveva dichiarato che non è uno stupefacente giudicando legittima la sua estrazione dall’intera pianta di canapa, non solo dalle fibre e dai semi. I cosiddetti “chiarimenti” del Dpa sostengono invece che il Cbd, derivato dalla cannabis, è un prodotto contenente princìpi attivi tali da averne reso necessario l’inserimento nelle tabelle dei medicinali allegate al Testo unico sugli stupefacenti. Ma lo scorso 11 settembre il Tar del Lazio ha sospeso il decreto del ministero della Salute del 27 giugno che inseriva le “composizioni per somministrazione ad uso orale di cannabidiolo ottenuto da estratti di cannabis” nelle tabelle delle sostanze stupefacenti e psicotrope: l’udienza di merito si terrà il 16 dicembre. Le inflorescenze e i suoi derivati - C’è ancora dell’altro: secondo il Dpa, dopo l’entrata in vigore della legge 242 del 2016, “è stata avviata, illecitamente, anche la produzione e la commercializzazione, nei cosiddetti “cannabis shop”, di inflorescenze e suoi derivati, acquistati per un uso ricreativo, insinuando nella collettività la falsa idea di legalizzazione di una cannabis definita, erroneamente, “light”. Non c’è niente di illecito: la produzione e la commercializzazione delle inflorescenze e dei derivati non sono espressamente indicati (e questo è un limite della legge), ma non sono nemmeno proibiti. In uno Stato liberale ciò che non è proibito è lecito (purché, ovviamente, non metta a rischio la sicurezza e la salute pubblica, ma non è questo il caso). È secondo questo principio che è nata la “cannabis light” con un Thc inferiore allo 0,2% (priva dunque di “effetto drogante”) e ricca di Cbd che ha effetti calmanti, antidolorifici e antinfiammatori. Affermare che produzione e commercio hanno insinuato “la falsa idea di legalizzazione di una cannabis definita, erroneamente, “light” è un’accusa infondata che diffama agricoltori, produttori e commercianti. Droga ciò che droga non è - Sostenere che l’articolo 18 del Ddl Sicurezza “non incide e non altera il mercato da essa derivato, consentendo la prosecuzione delle attività di chi ha investito nel settore”, come si legge nei chiarimenti del Dpa, non corrisponde al vero. Non lo dico io: lo dicono gli agricoltori, i produttori e i commercianti. È un provvedimento che considera droga una sostanza che droga non è, sanziona penalmente ogni attività di lavorazione e commercio delle infiorescenze e dei prodotti derivati e distruggerà il comparto produttivo e commerciale della canapa causando la chiusura di centinaia di aziende e la perdita di migliaia di posti di lavoro. C’è qualcosa di peggio del proibizionismo: è il fanatismo proibizionista. Il risultato è una politica sempre più separata dalla realtà, preda di un furore repressivo e punitivo che prende il sopravvento sulle evidenze e sul buon senso. L’escalation nucleare da deterrenza a ricatto di Nathalie Tocci La Stampa, 20 novembre 2024 L’invasione russa dell’Ucraina, che dura da oltre mille giorni, attraversa un nuovo ciclo di escalation da parte della Russia. L’attacco di droni e missili sulle città di Odessa e Sumy, così come il dispiegamento di circa 11mila soldati, missili e artiglieria pesante nordcoreani nella regione russa di Kursk - è la prima volta in cui soldati dall’Asia-Pacifico combattono su suolo europeo dalla seconda guerra mondiale - ne sono manifestazioni lampanti. Così come lo è la revisione della dottrina nucleare della Russia, proposta a settembre e approvata ieri dal presidente Putin. I cambiamenti determinano le nuove condizioni, infinitamente più lasche, che permetterebbero l’utilizzo di armi nucleari. Già da tempo Mosca ha sfumato la distinzione tra il convenzionale e il nucleare, essenzialmente vedendo entrambi gli strumenti militari come potenzialmente utilizzabili in guerra. Ora specifica che un attacco di uno Stato non-nucleare (tradotto, l’Ucraina), se appoggiato da Stati nucleari (tradotto Usa, Francia e Regno Unito), sarebbe considerato un attacco congiunto, che a sua volta legittimerebbe una risposta nucleare della Russia. Nella guerra in Ucraina, la minaccia nucleare da parte del Cremlino non è una novità. Sin dai primi mesi del conflitto, quando l’illusione di Putin di una rapida vittoria si infranse contro la realtà della resistenza ucraina, Mosca ha utilizzato la minaccia politica dell’uso dell’atomica come uno strumento, purtroppo molto efficace, nella sua strategia di guerra. Se non ci fosse stato il terrore nucleare, che il presidente americano uscente statunitense Joe Biden ha ripetutamente definito come lo spettro della terza guerra mondiale, l’Occidente non avrebbe ritardato e limitato il suo sostegno a Kyiv, di fatto sostenendo l’Ucraina sì, ma legandole altresì un braccio dietro la schiena. Dico purtroppo per due motivi. Il primo è legato al fronte bellico. Se Washington, Berlino e le altre capitali europee non fossero state vittime della propria paura, la guerra probabilmente sarebbe già finita, con una sconfitta delle ambizioni imperiali della Russia non solo in Ucraina ma nel resto dell’Europa orientale. Il secondo motivo è perché la paura occidentale ha permesso a Mosca di storpiare, fino a distruggere, il concetto alla base della deterrenza nucleare. La deterrenza nucleare, incardinata nel principio che una guerra nucleare non può essere vinta e quindi non deve essere combattuta, è stato trasformato in ricatto nucleare: una guerra non deve essere per forza vinta attraverso strumenti convenzionali; basta minacciare l’uso dell’arma atomica e il gioco è fatto. La fine della deterrenza nucleare non è significativa “solo” in Ucraina, ma sta incentivando la corsa al nucleare in altre regioni. Basti pensare al Medio Oriente dove l’Iran, avendo visto l’indebolimento di due dei suoi tre pilastri di deterrenza (la difesa missilistica e le milizie filo-iraniane) con ogni probabilità punterà sull’accelerazione del terzo pilastro: il proprio programma nucleare. Non è un caso che Putin abbia dato luce verde alla revisione della dottrina nucleare russa in seguito al sì statunitense all’utilizzo di missili lungo raggio in Russia da parte di Kyiv, disco verde che l’Ucraina ha già utilizzato per colpire un deposito di armi nella regione russa di Bryansk, a 115 chilometri dal confine. Il Cremlino aveva già minacciato ripetutamente di interpretare l’eliminazione delle restrizioni occidentali sull’impiego oltrefrontiera dei missili a lungo raggio come evidenza dell’entrata dei Paesi Nato in guerra, sfoderando nuovamente la minaccia atomica. Ora, la revisione della dottrina nucleare russa va ad alimentare il ricatto. Finora la minaccia nucleare non è stata che una minaccia, e ciò ne ha determinato l’efficacia. Non possiamo sapere se ora cambierà qualcosa. Sappiamo invece che aver ceduto fino ad ora al ricatto non ha portato alla fine della guerra in Ucraina, ma ha incentivato la proliferazione nucleare altrove. C’è chi pensa o spera che questo ciclo di escalation sia la tempesta prima della calma, una calma che presumibilmente arriverebbe quando il presidente eletto Donald Trump, svendendo l’Ucraina, raggiungerà con l’amico Putin un accordo sopra le teste degli ucraini e di tutti gli europei. Ma l’escalation in corso racconta un’altra storia. Non è affatto escluso che Putin veda in questo momento l’opportunità di affondare il colpo, proseguendo la guerra in Ucraina e forse andando oltre. Interpretare la luce verde ai missili a lungo raggio come sintomo dell’entrata in guerra dei Paesi Nato potrebbe essere funzionale a un possibile allargamento del conflitto da parte della Russia. Né possiamo escludere che così facendo vedremo di nuovo Putin fare il passo più lungo della gamba. Se la cautela e la paura hanno caratterizzato le politiche dell’amministrazione Biden (e degli alleati europei) a spese dell’Ucraina, non è detto però che la stessa prudenza sarà il marchio di fabbrica della nuova amministrazione americana. Può essere che arriverà la calma dopo la tempesta, ma oggi, oltre alla tempesta, si intravedono solo nubi nere all’orizzonte. Gli arsenali del terrore: 12mila testate atomiche in mano a nove Paesi di Francesco Semprini La Stampa, 20 novembre 2024 Cinque Stati ufficialmente nucleari, altri quattro di fatto, compresi Israele e la Nord Corea. Nei silos di tutto il mondo ci sono 12mila ordigni, tre quarti in possesso di Stati Uniti e Russia. È di almeno 12.100 unità il totale combinato delle testate atomiche conservate negli arsenali nucleari di nove Paesi, mentre sono 22 sono gli Stati in possesso di materiali utilizzabili per armi nucleari, secondo i dati di Arms Control Association. Gli Stati dotati di armi nucleari sono Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti, ufficialmente riconosciuti come in possesso di armi nucleari dal “Trattato di non proliferazione nucleare” (Tnp), che riconosce gli arsenali nucleari di questi Stati, ma ai sensi dell’articolo VI non ne prevede un mantenimento a livello numerico perpetuo. Russia - Secondo la dichiarazione New Start di settembre 2022, la Russia schiera 1.549 testate strategiche su 540 sistemi di lancio strategici (missili balistici intercontinentali, missili balistici lanciati da sottomarini e bombardieri pesanti). A causa della sospensione del New Start - ovvero la versione aggiornata del “Strategic Arms Reduction Treaty”, che riguarda i negoziati tra Usa e Urss (poi Federazione Russa) per la riduzione delle armi strategiche con raggio d’azione intercontinentale - da parte della Russia nel febbraio 2022, non ha adempiuto ai suoi obblighi di trattato di fornire dati aggiornati. Tuttavia, sia la Russia che gli Stati Uniti si sono impegnati a rispettare i limiti del trattato fino al 2026. L’intelligence americana sostiene che, a dicembre 2022, la Russia deteneva anche un arsenale di 1000-2000 testate nucleari non strategiche e quindi non disciplinate dal New Start. Stati Uniti - Secondo la dichiarazione New Start di marzo 2023, gli Stati Uniti schierano 1.419 testate nucleari strategiche su 662 sistemi di lancio strategici (missili balistici intercontinentali, missili balistici lanciati da sottomarini e bombardieri pesanti). Gli Stati Uniti hanno anche circa 100 bombe nucleari a gravità B-61 che sono schierate in avanti in sei basi Nato di cinque Paesi europei: Aviano e Ghedi in Italia, Büchel in Germania, Incirlik in Turchia, Kleine Brogel in Belgio, Volkel nei Paesi Bassi. Il 19 luglio 2024, il dipartimento dell’Energia Usa ha declassificato i dati relativi al numero totale di testate “attive” e “inattive” degli Stati Uniti pari a 3. 748 a settembre 2023. Cina - Ricercatori indipendenti stimano che la Cina abbia circa 440 testate nucleari con cui armare missili balistici terrestri, missili balistici marittimi e bombardieri. Di quel totale, stimano che la Cina abbia assegnato circa 310 testate a 206 lanciatori strategici (missili intercontinentali e missili balistici lanciati da sottomarini). Dagli anni Novanta, la Cina ha modernizzato le sue forze nucleari, sebbene il numero e i tipi di armi schierate siano aumentati in modo significativo negli ultimi anni. A ottobre 2023, il dipartimento della Difesa ha stimato che se la Cina mantiene la sua traiettoria attuale, potrebbe avere fino a mille testate nucleari entro il 2030. Francia - La Francia ha una scorta militare di 290 testate operative disponibili per l’impiego su 98 sistemi di trasporto strategico. Questa consiste in 48 missili balistici lanciati da sottomarini e 50 missili da crociera lanciati da aerei assegnati per aerei da caccia con capacità duali terrestri e imbarcati su portaerei. Parigi ha varato un programma di modernizzazione a lungo termine per le sue forze nucleari, ma non prevede di aumentarne le dimensioni. Regno Unito - A gennaio 2022, il Regno Unito contava su un arsenale di 225 testate, di cui circa 120 sono operativamente disponibili per l’impiego su 48 missili balistici lanciati da sottomarini e 105 ferme in deposito. Il Regno Unito possiede un totale di quattro sottomarini missilistici balistici a propulsione nucleare Trident di classe Vanguard, che insieme costituiscono il suo deterrente nucleare esclusivamente basato in mare. Il disarmo nucleare spiegato in 2 minuti: dal trattato del ‘68 alla sospensione di Putin Le armi nucleari dei non-Tnp - India, Pakistan e Israele non hanno mai aderito al Tnp e sono noti per possedere armi nucleari. Si stima che l’India possieda fino a 172 testate nucleari, il Pakistan possieda circa 170 testate nucleari. Israele possiede 90 testate nucleari, con scorte di materiale fissile per circa 200 armi. Lo Stato ebraico non ammette né nega di avere armi nucleari e afferma che non sarà il primo a introdurre armi nucleari in Medio Oriente. Stati monitorati - La Corea del Nord ha aderito al Tnp come stato non dotato di armi nucleari, ma ha annunciato il suo ritiro nel 2003. Si stima che la Pyongyang abbia circa 30 testate nucleari e probabilmente possiede ulteriore materiale fissile ancora in lavorazione, ma c’è un alto grado di incertezza che circonda queste stime. L’Iran ha sviluppato le capacità necessarie per costruire armi nucleari. Nel maggio 2018, gli Stati Uniti si sono ritirati dal Jcpoa (siglato nel 2015 per limitare la proliferazione della Repubblica islamica) e hanno reimposto le sanzioni all’Iran. Come reazione Teheran ha iniziato a violare le restrizioni previste dall’accordo stesso, sebbene sostenga di non avere intenzione di perseguire armi nucleari (sulla cui produzione ci sarebbe una fatwa della Guida Suprema). Lunedì, però, l’ex viceministro degli Esteri e consigliere di Ali Khamenei, Mohammad-Javad Larijani, ha dichiarato che l’Iran potrebbe sviluppare capacità nucleare militare entro 48 ore, riducendo potenzialmente quel tempo a 24 ore. Egitto. Processo Regeni, il testimone: “Ho visto Giulio bendato e sfinito dalle torture” di Alberto Sofia Il Fatto Quotidiano, 20 novembre 2024 “Ho visto Giulio Regeni che usciva dall’interrogatorio, sfinito dalla tortura. Era tra due carcerieri che lo portavano a spalla, lo riportavano alle celle”. Questo il racconto di un ex detenuto palestinese in un video di Al Jazeera mostrato in Aula nel corso del processo sul sequestro, le torture e l’omicidio del giovane ricercatore universitario. Imputati nel processo sono 4 quattro 007 egiziani: ovvero, Usham Helmi, il generale Sabir Tariq e i colonnelli Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, accusati del reato di sequestro di persona pluriaggravato (mentre al solo Sharif sono contestati anche i reati di concorso in lesioni personali aggravate e di concorso in omicidio aggravato, ndr). Nel corso dell’udienza, davanti ai giudici della corte d’assise di Roma, parte del reportage è stato trasmesso in aula, con la testimonianza dei due testi: “Ho visto Giulio il 29 gennaio 2016, tra il pomeriggio e la sera, mentre usciva dalla palazzina del carcere e dalla palazzina dove sono le celle. Passando nel corridoio, diretto al luogo dove avveniva l’interrogatorio. C’erano anche ufficiali che non avevo mai visto prima. Giulio era ammanettato con le mani indietro, con gli occhi bendati. Era a circa 5 metri da me. Indossava una maglietta bianca, pantalone larghi e blue scuro”, ha raccontato l’altro ex detenuto. E ancora: “Insistevano molto con la domanda a Giulio: ‘Dove hai imparato a superare le tecniche per affrontare l’interrogatorio’. Ricordo più volte questo interrogativo, pure in dialetto egiziano. Non so se Giulio ha risposto, ma insistevano molto su questo punto, erano nervosi. Usavano la scossa elettrica e lo torturavano”. “Siamo stati sequestrati, detenuti e poi liberati senza un perché. Non ho mai avuto un processo”, hanno concluso i due testi.