Ci sono 62.000 carcerati in Italia, con punte di sovraffollamento al 130% dire.it, 1 novembre 2024 Il numero più alto dal 2012. Le Regioni a più alto numero di detenuti sono la Lombardia (9mila), Campania (8mila) e Sicilia (7mila). “Il numero dei detenuti al 30 settembre scorso vicino ai 62mila, di cui 20mila stranieri, è il peggiore dal 2012. Diventa questo l’anno in cui il sistema penitenziario italiano ha battuto tutti i record negativi”. Lo sostiene il segretario generale del S.PP. Aldo Di Giacomo sottolineando che le regioni a più alto numero di detenuti sono la Lombardia (9mila), Campania (8mila) e Sicilia (7mila). “Con il sovraffollamento degli istituti, in alcuni con punte del 130 percento, “l’emergenza carcere” ha raggiunto il livello storico più allarmante di sempre determinando una situazione del tutto fuori dal controllo dello Stato. Gli effetti - aggiunge il segretario - sono la sempre più precaria convivenza sino a 12 detenuti a cella che sfocia in risse, condizioni igieniche precarie, diffusione di malattie, impossibilità di sorveglianza degli agenti. Come se questo non bastasse assistiamo al trasferimento di una decina di giovani detenuti da Ipm pugliesi a carceri senza rendersi conto del doppio danno perché detenuti giovanissimi insieme a detenuti di età più adulta sono destinati a “formarsi” alla criminalità. E per restare ai record negativi 2024: dall’inizio dell’anno 195 sono i morti in carcere di cui 78 suicidi con almeno una cinquantina per le quali le cause sono ancora da accertare e per le quali non si può escludere nulla; 7 suicidi tra il personale penitenziario; i tentati suicidi di detenuti sono stati 1.034, per diverse centinaia è stato l’immediato intervento del personale a scongiurare altre vittime; le evasioni e i tentativi di fuga più 700%, con la pronta risposta del personale e comunque la cattura degli evasi; le aggressioni al personale di Polizia penitenziaria (2.050) con le carceri campane al primo posto, seguite da quelle lombarde e laziali. Ancora: i detenuti aumentano in media di 3 mila l’anno (con un tasso pari a +6,8%), e di contro il personale è diminuito (per effetto dei pensionamenti) di 18mila unità, solo in piccolissima parte compensato da nuove assunzioni; il ritrovamento di stupefacenti e di telefonini segnano rispettivamente più 400% e più 600%; i sequestri di droga sono di alcuni chilogrammi in media al mese”. “Questi numeri - rimarca Di Giacomo - fanno diventare, inequivocabilmente, le carceri italiane le peggiori in Europa e le avvicinano a quelle sudamericane, e la situazione si scarica pesantemente in primo luogo sul personale penitenziario - circa 31 mila in servizio - con un forte sottodimensionamento degli organici: su 5 mila assunzioni avvenute con questo Governo per concorsi, almeno 4 mila sono “bruciati” da pensionamenti con una media di 200 pre-pensionamenti l’anno”. “Lo Stato - conclude Di Giacomo - da troppo tempo ha lasciato il personale a combattere una guerra per conto suo come in un campo di battaglia nel quale a perdere è solo lo Stato con il comando consolidato ad opera di clan e gruppi criminali che continuano a controllare i traffici dalle celle con i telefonini e a minacciare le vittime di estorsioni e di tangenti. Una situazione che ci allarma tanto più in assenza di provvedimenti adeguati di intervento perché gli ultimi decreti approvati hanno avuto l’effetto di un’aspirina somministrata ad un malato terminale”. Ho visitato un carcere per adulti pieno di ragazzini: “Per favore, qui stiamo morendo” di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2024 La scorsa settimana ho visitato una grande Casa Circondariale metropolitana del Nord del paese. La sezione cosiddetta “ex art. 32” era piena di ragazzini. L’articolo 32 del regolamento penitenziario afferma che i detenuti “che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele” vengano allocati in sezioni specifiche. La sezione ex art. 32 di questa grande Casa Circondariale metropolitana è un lungo e cupo corridoio su cui si aprono minuscole celle claustrofobiche dal soffitto basso e le finestre piccole che fanno passare poca aria e luce. Le celle ospitano due o tre persone. Le peggiori sono quelle da due, che sono vuote di quasi tutto. Ci sono un paio di letti, vecchi e scrostati come le pareti, con sopra un materasso e delle lenzuola di carta che non sostengano eventuali gesti di impiccagione. Più o meno nient’altro. Buttate sul pavimento, le mele conservate dal giorno prima e la maglietta di riserva per cambiarsi. Sulle pareti del corridoio, cibo appiccicato da chissà quanto tempo, pasta al sugo e zuppa tirata da dietro le sbarre come forma di protesta nella speranza di farsi ascoltare. Mentre passavo per la sezione, da una cella è arrivato un grido di richiesta di aiuto. “Per favore, qui stiamo morendo”, ha urlato un ragazzino. Li ho guardati: lui e il suo compagno di stanza raggiungevano a stento i vent’anni. Probabilmente ne avevano diversi di meno. Posso immaginare che avessero “un comportamento che richiede particolari cautele”. Come tutti i ragazzi - figuriamoci quelli in gabbia, figuriamoci quelli che prima vivevano per strada, figuriamoci quelli con dipendenze, figuriamoci quelli senza genitori e figure di riferimento - saranno stati impulsivi, riottosi, rompiscatole. Ho guardato i volti che si sporgevano dalle sbarre lungo il corridoio. Erano tutti giovanissimi, ragazzini da scuola superiore o poco più. Ragazzini che probabilmente fino a un anno fa si sarebbero trovati in un carcere minorile e che oggi sono mandati a morire nell’anima dentro un carcere ordinario. Rispondendo a un’interrogazione parlamentare, il ministro Nordio ha recentemente raccontato che al 30 giugno 2023 c’erano 3.274 minori di 25 anni nelle carceri per adulti, mentre oggi sono 5.067. Un aumento mai visto, di oltre il 50%. Da dove arriva? La legge italiana permette ai giovani che hanno commesso un reato da minorenni di permanere nei servizi della giustizia minorile - ben più accoglienti e capaci di un’attenzione individuale al singolo percorso di vita - fino al compimento del 25 anno di età. Una scelta che si era dimostrata vincente: la relazione educativa che si instaura tra il ragazzo e gli operatori ha bisogno di tempo, di essere portata avanti con continuità al fine di una vera reintegrazione sociale. Il cosiddetto Decreto Caivano del settembre 2023 ha invece facilitato enormemente l’invio dei ragazzi nelle carceri per adulti al compimento della maggiore età. E tale facilitazione sta venendo utilizzata a piene mani. Le carceri minorili sono oggi sovraffollate: sempre il Decreto Caivano ha ampliato grandemente la carcerazione dei minorenni. Per fare spazio - o a volte per risolvere nel modo più facile ma più dannoso il problema di un ragazzo difficile - al compimento dei 18 anni i ragazzi vengono spediti in quella fabbrica di criminalità che sono le carceri per adulti. E fine. Fine della relazione educativa fine del percorso intrapreso, fine della loro crescita, fine della reintegrazione sociale, a volte fine della loro vita. Un futuro chiuso in celle buie di pochi metri cubi. Senza scuola, senza un libro, senza un dialogo con un adulto di riferimento. Solo mele per terra e cibo spiaccicato alle pareti. *Coordinatrice Associazione Antigone Minori in carcere. Il modello italiano si è rotto di Rachele Stroppa* lavialibera.it, 1 novembre 2024 A lungo elogiato dall’Europa, il sistema penale minorile è in crisi. Prima soltanto il 4 per cento dei giovani autori di reati finiva negli istituti, che oggi sono invece sovraffollati. L’Europa ha sempre ritenuto il sistema italiano della giustizia penale minorile un modello da imitare. Innanzitutto perché considera il carcere l’extrema ratio e, in secondo luogo, perché pone l’ideale educativo al centro dell’intero modello. Dal 1988 - anno dell’entrata in vigore del codice di procedura penale minorile - il sistema è riuscito a rendere residuale la risposta carceraria, puntando su percorsi individuali e di integrazione fondati su studio, formazione, vita comunitaria e sulla connessione costante con le realtà del territorio. Il nostro sistema di giustizia minorile ha funzionato in maniera efficace e i giovani all’interno degli istituti penali per minori (ipm) non hanno mai superato il 4 per cento di quelli complessivamente in carico ai servizi della giustizia minorile. Europa ha sempre ritenuto il sistema italiano della giustizia penale minorile un modello da imitare. Innanzitutto perché considera il carcere l’extrema ratio e, in secondo luogo, perché pone l’ideale educativo al centro dell’intero modello. Dal 1988 - anno dell’entrata in vigore del codice di procedura penale minorile - il sistema è riuscito a rendere residuale la risposta carceraria, puntando su percorsi individuali e di integrazione fondati su studio, formazione, vita comunitaria e sulla connessione costante con le realtà del territorio. Il nostro sistema di giustizia minorile ha funzionato in maniera efficace e i giovani all’interno degli istituti penali per minori (ipm) non hanno mai superato il 4 per cento di quelli complessivamente in carico ai servizi della giustizia minorile. Oggi il sovraffollamento non riguarda soltanto gli istituti penitenziari per adulti, ma anche gli ipm. Al 15 settembre 2024 i giovani detenuti erano 569 e da febbraio superano costantemente le 500 presenze, oscillando tra le 560 e le 580. A ottobre 2022, il momento in cui si è insediato l’attuale governo, le carceri minorili ospitavano 392 persone, in linea con il dato pre-pandemia. In meno di due anni, il numero dei giovani detenuti è aumentato del 48 per cento. Un’impennata che non ha eguali e che non trova alcun fondamento in un parallelo aumento della criminalità minorile, che negli ultimi 15 anni ha avuto un andamento ondivago senza particolari picchi e che anzi nel 2023 ha visto diminuire del 4 per cento, rispetto all’anno precedente, il numero di denunce e arresti. L’aspetto preoccupante è che non si tratta di casi isolati, ma di una situazione diffusa su tutto il territorio nazionale: su 17 Ipm, ben dodici ospitano più ragazzi di quelli che dovrebbero. La situazione peggiore è a Treviso, con 22 ragazzi per 12 posti regolamentari (tasso di affollamento pari al 183 per cento), seguito dal Beccaria di Milano (54 ragazzi per una capienza di 37 posti, tasso di sovraffollamento del 145,9 per cento) e dall’Ipm di Acireale (22 ragazzi per 17 posti, tasso del 129,4 per cento). Il sovraffollamento peggiora le condizioni di detenzione all’interno degli istituti, già provati dai lavori di ristrutturazione e dai danni provocati durante le proteste degli ultimi mesi. Emblematica la situazione a Treviso e Torino, dove le brandine da campeggio sopperiscono alla mancanza di posti letto. Chi c’è dentro le carceri - Al 15 settembre 2024, le ragazze detenute negli ipm rappresentavano il 4,6 per cento del totale, in linea con i numeri registrati sino a ora. Inoltre, sebbene negli istituti possano scontare la pena i giovani fino ai 25 anni (per un reato commesso da minorenni), la fascia di età più rappresentativa va dai 16 ai 17 anni. Oggi circa il 60 per cento dei ragazzi detenuti è costituito da minorenni, mentre fino a qualche anno fa erano in larga parte giovani adulti. Un’inversione di tendenza influenzata dal decreto Caivano, che ha reso più agevole il trasferimento dei giovani nelle carceri degli adulti al compimento della maggiore età. I reati più diffusi sono quelli contro il patrimonio, che rappresentano il 52,2 per cento del totale e che, in quasi il 70 per cento dei casi, sono commessi da stranieri. Diminuiscono, invece, le presenze dei ragazzi non italiani, che al 15 settembre 2024 rappresentavano il 46,7 per cento dei presenti, il 5 per cento in meno rispetto al 15 gennaio 2024. Giovani senza famiglia - Si tratta perlopiù di ragazzi provenienti dal Nord Africa, molti dei quali minori stranieri non accompagnati (msna), costretti a una vita di strada anche per la mancanza di strutture di accoglienza esterne. Spesso questi giovani vengono arrestati nel Nord Italia, ma a causa del sovraffollamento sono trasferiti negli Ipm del Sud e allontanati dai pochi riferimenti territoriali che possiedono. Molti utilizzano psicofarmaci, anche a causa dell’elevato numero di presenze che rende più difficile la presa in carico individualizzata e alla scarsità di comunità in grado di accogliere ragazzi con queste problematiche. Inoltre, i minori stranieri non accompagnati, una volta terminata la fase dell’esecuzione penale, faticano a inserirsi sul territorio e finiscono per tornare all’interno del circuito penale. I minori stranieri non accompagnati sono considerati i responsabili di questa crisi di sistema quando, invece, sono solamente i soggetti portatori di più fattori di marginalità. Molti di loro hanno alle spalle esperienze di viaggio traumatiche, altri hanno già sperimentato la detenzione in Libia. La percezione è che questi ragazzi sentano di non avere ormai più nulla da perdere. Una disperazione che il sistema minorile fatica a interpretare e ad agganciare. Risposte dure alle proteste - Tra gli effetti drammatici della crisi del sistema minorile vi sono senza dubbio gli eventi che si verificano sempre più di frequente negli Ipm: proteste, incendi, casi di autolesionismo ed evasioni dipingono un quadro preoccupante e di non facile soluzione. A fronte di tutto ciò, le istituzioni riducono le ore da trascorrere fuori cella, ricorrono con frequenza all’isolamento e, più in generale, non sembrano favorire un cambiamento di clima all’interno degli istituti. La decisione di imporre l’utilizzo dell’uniforme agli agenti penitenziari in servizio negli Ipm - che fino a pochi giorni fa vestivano abiti civili - sembra rispondere alla necessità di ripristinare l’ordine negli istituti anziché agire sulle vere cause della crisi del sistema. È come se l’ingranaggio di un modello che ha sempre funzionato si fosse inceppato e non si potesse riparare. Caso emblematico è quello dell’Ipm Beccaria di Milano, dove nel 2024 abbiamo appreso con sbigottimento la notizia di presunte torture nei confronti di ragazzi minorenni. All’interno dell’istituto il rapporto fiduciario tra custodi e custoditi si è rotto, creando una situazione che potremmo definire post-traumatica. Ci auguriamo che questa fase così drammatica venga superata il prima possibile. *Ricercatrice dell’Associazione Antigone Studio italiano sulle detenute: l’empatia aiuta il reinserimento sociale dire.it, 1 novembre 2024 È stato pubblicato su Current Psychology di Springer Nature, un recente studio tutto italiano che esplora le complesse associazioni tra attaccamento, empatia, orientamento al futuro e resilienza in un campione di donne detenute in Italia. Intitolato “Association between attachment dimensions and empathy with future orientation and resilience in a sample of women in detention: a multicenter study” l’articolo mostra le evidenze della ricerca condotta in quattro strutture carcerarie italiane, evidenziando come le dinamiche affettive e relazionali influenzino le capacità di adattamento e crescita psicologica di queste donne. Lo studio è stato condotto con il supporto del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), e realizzato all’interno di queste quattro strutture penitenziarie italiane: la Casa di reclusione femminile di Venezia-Giudecca, la Casa circondariale femminile di Pozzuoli, la Casa circondariale Rebibbia femminile di Roma, e la Casa circondariale San Vittore - Francesco Di Cataldo di Milano. Questa collaborazione ha permesso di raccogliere dati preziosi sul desiderio di futuro, sulle dinamiche affettive e sui modelli relazionali delle donne detenute nel contesto italiano e quindi anche sulla vita una volta scontata la pena. Come si torna al mondo? L’ambiente carcerario, di per sé sfidante e spesso destabilizzante, pone le detenute di fronte a situazioni di isolamento e alienazione. Eppure, molte di queste donne- questo emerge dalla ricerca- riescono a dimostrare una notevole capacità di resilienza. Questo studio ha esaminato come l’attaccamento e l’empatia, elementi chiave delle relazioni umane, contribuiscano a rafforzare la capacità di pianificare il futuro e di rispondere positivamente alle avversità. Emanuele Caroppo, psichiatra del Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma 2, coordinatore del gruppo di ricerca e co-autore dell’articolo, ha dichiarato: “La nostra ricerca ha mostrato come il modo in cui le donne detenute stabiliscono legami affettivi possa influenzare la loro resilienza e la loro capacità di guardare al futuro. Questo è un passo fondamentale per costruire programmi di supporto che rispondano alle reali necessità emotive e psicologiche di queste persone, aiutandole nel percorso di reinserimento sociale.” L’empatia, intesa come la capacità di comprendere e condividere le emozioni degli altri, è stata evidenziata come un fattore determinante per la resilienza. “Abbiamo potuto osservare che chi dimostra una maggiore capacità empatica tende a sviluppare un orientamento al futuro più positivo”, ha spiegato Carlo Lai, Professore del Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica e co-autore dell’articolo. “Questo ci permette di strutturare interventi psicologici che sostengano le detenute nella costruzione di un progetto di vita”. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) ha supportato il progetto, sottolineando l’importanza della collaborazione con istituzioni accademiche e sanitarie per affrontare le sfide del recupero sociale. Carla Ciavarella, già Direttore Responsabile dell’Ufficio di Coordinamento della Cooperazione Interistituzionale del DAP, che ha fortemente voluto la ricerca, ha affermato: “Per il DAP, collaborare con università, enti di ricerca e istituzioni sanitarie è essenziale. Questa sinergia tra competenze scientifiche, cliniche e professionali non solo arricchisce la comprensione delle persone detenute, ma rafforza anche l’impegno dell’amministrazione penitenziaria a offrire reali opportunità di recupero sociale”. I risultati dello studio suggeriscono che programmi di supporto psicologico mirati, che favoriscano l’empatia e la sicurezza dell’attaccamento, possano aiutare le detenute a sviluppare una visione più positiva del loro futuro. “Siamo convinti- ha concluso Emanuele Caroppo- che una comprensione più profonda delle dimensioni dell’attaccamento e dell’empatia possa fare la differenza per costruire programmi di supporto che promuovano un recupero autentico e duraturo”. Questo studio rappresenta un passo avanti per il sistema penitenziario italiano, dimostrando l’importanza di un approccio olistico e di strategie mirate a rispondere alle esigenze psicologiche delle detenute. Attraverso la promozione di resilienza e orientamento al futuro- questa la sfida che emerge dalla ricerca- è possibile immaginare percorsi di reintegrazione sociale che abbiano un impatto duraturo, riducendo i tassi di recidiva e favorendo un reale recupero. Giustizia, blitz del governo: arriva la priorità per i reati di Francesco Grignetti La Stampa, 1 novembre 2024 La maggioranza prepara delle linee guida sui reati che dovranno essere perseguiti per primi. Una norma “non vincolante” rilanciata da Forza Italia, da affiancare alla riforma della giustizia. Non c’è in arrivo solo la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere per i magistrati. Nel corso del 2025 la maggioranza varerà in Parlamento anche un Atto di indirizzo sull’ordine di priorità dei reati da perseguire. Conferma il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto: “È ora che il Parlamento faccia la sua parte. Alle Camere sta maturando l’orientamento su quali reati sono da considerarsi prioritari. Ma non sarà un atto vincolante. Le procure avranno il modo di declinare gli indirizzi secondo le esigenze territoriali”. Quali reati vanno in cima all’agenda, quali in coda. Ecco che cosa dirà l’Atto di indirizzo del Parlamento alle procure. Ben sapendo che se un reato finisce in fondo, con la mole di lavoro che c’è, e i paurosi vuoti di organico sia tra i magistrati che tra il personale amministrativo, quel reato molto difficilmente sarà indagato fino in fondo e la sua sorte sarà di una inevitabile prescrizione. Politicamente parlando, è chiaro che Atto di indirizzo e separazione delle carriere sono due cose diverse, ma che l’una cosa inevitabilmente avrà un effetto sull’altra. Anche la genesi dei due provvedimenti è molto diversa. La separazione delle carriere infatti nasce dal programma del governo Meloni e per quasi un anno la premier ha traccheggiato, pensando più importante e urgente il premierato. Poi però le cose sono cambiate. Gli scontri con i magistrati sono ormai all’ordine del giorno. E così la separazione delle carriere ha preso il sopravvento: sarà in Aula alla Camera il 26 novembre e il governo punta ad incassare il voto entro Natale. L’Atto di indirizzo, invece, nasce in tutt’altra stagione, cioè con il governo Draghi. Porta la firma dell’ex ministra Marta Cartabia, e dietro c’era una maggioranza trasversale ed eterogenea. Unica a fare opposizione era Giorgia Meloni. Che ora però si ritrova a gestire gli aspetti più delicati di quella riforma. Non sfugge infatti la complessità di questo passaggio. L’Atto di indirizzo che affida alla politica le scelte più delicate in materia di giustizia, e le sfila al Csm e alle procure, era una bomba ad orologeria che non ha ticchettato per un paio di anni. Nasceva da una legge delega del settembre 2021, perfezionata nei mesi seguenti. Poi più nulla. Tutto dimenticato. Anche se è legge dello Stato. A dargli nuovo impulso ci ha provato il senatore Pierantonio Zanettin, di Forza Italia, che un anno fa ha depositato un suo ddl. Ora dice: “Siamo in una situazione paradossale che ha lasciato nei guai i procuratori stessi. Premesso che l’obbligatorietà dell’azione penale è una finzione, perché lo sanno tutti che vanno fatte delle scelte su quali reati perseguire e quali no, dieci anni fa ci furono dapprima le circolari dei singoli procuratori (il primo fu il procuratore Marcello Maddalena a Torino) e poi una circolare generale del Consiglio superiore della magistratura. Con la riforma Cartabia, però, dal 2022 quella circolare è decaduta perché la nuova legge è chiara. Tocca alla politica dare gli indirizzi. Peccato che però la politica stessa, che si era riservata questo potere, poi non l’abbia esercitato”. Il ddl Zanettin ha camminato finora con estrema lentezza. La commissione Giustizia del Senato ha svolto anche parecchie audizioni sul merito, ma era chiaro a tutti che il governo non spingeva. Fino a qualche giorno fa. Nel corso di una riunione, Zanettin ha ricordato per l’ennesima volta agli altri partiti di maggioranza che c’era questa questione in sospeso. E di colpo ha avvertito una certa effervescenza. “Se il governo ci mette la testa - dice - possiamo fare anche presto. Sul merito di quali reati mettere in testa all’ordine di priorità e quali in fondo, poi, possiamo confrontarci. Io qualche caso concreto l’ho messo per iscritto nel mio ddl, ma dev’essere il governo a darci le statistiche più aggiornate. Poi, chiaro, mi aspetto i soliti attacchi del M5S sul Zanettin cattivo che colpisce i fragili e i deboli a scapito dei colletti bianchi”. E vediamo allora su quali criteri si sta ragionando in Parlamento. C’era una griglia di partenza già nella riforma Cartabia. Tre i criteri preminenti: gravità dei fatti, anche in relazione alla specifica realtà criminale del territorio e alle esigenze di protezione della popolazione; tutela della persona offesa in situazioni di violenza domestica, o di genere e di minorata difesa; offensività in concreto del reato, da valutare anche in relazione alla condotta della persona offesa e al danno patrimoniale e/o non patrimoniale ad essa arrecato. A questi criteri generali, Zanettin propone di aggiungere alcuni reati per lui particolarmente odiosi: diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti; lesioni personali a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive, nonché a personale esercente una professione sanitaria o sociosanitaria; costrizione o induzione al matrimonio. Il relatore Sergio Rastrelli, FdI, ha proposto di considerare prioritari tutti i reati contro le donne, quelli contenuti nel cosiddetto Codice rosso. E da qui si riparte. Il piano Nordio indebolisce l’obbligatorietà dell’azione penale di Giuseppe Maria Berruti La Stampa, 1 novembre 2024 È una scelta che renderebbe l’Italia più esposta di altri Paesi all’illegalità internazionale. Il giudice non deve essere valutato politicamente, sarebbe in conflitto con la Costituzione Il Parlamento si appresta a varare un atto di indirizzo per decidere l’ordine di priorità sui reati da perseguire. Che cosa cambierebbe nel sistema giudiziario? Un atto di indirizzo del Parlamento serve alle Camere per precisare l’interpretazione di un proprio atto; può essere usato per chiarire una aspettativa politica dell’organo legislativo. Ma qui siamo fuori da questo tipo di attività. Il Parlamento si appresterebbe a limitare l’attività del pubblico ministero, o addirittura a limitarne la obbligatoria competenza. La Costituzione pone la regola della attività del pubblico ministero all’art 112, all’interno delle regole sulla giurisdizione. Questo mette il potere di esercitare la forza anche nei confronti di un cittadino che è non colpevole per presunzione legale, nei caratteri della Giurisdizione della Repubblica. Il modo nel quale il Pm esprime la sua forza è parte dell’idea costituzionale di giurisdizione. Un atto di indirizzo parlamentare di questo tipo quanto è compatibile con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale? L’art 112 stabilisce che l’azione penale è obbligatoria. Il Pm che ritiene (si tratta di valutazioni che il giudice esaminerà nel giudizio) di trovarsi di fronte ad un reato, deve esercitare l’accusa. L’azione penale è obbligatoria anche nella ipotesi in cui il Pm ravvisi una possibile esclusione della responsabilità per condizioni personali dell’autore dei fatti. Deve accusare, e quindi precisare la sua valutazione di una accusa obbligatoria, al giudice, che deciderà definitivamente. Questo modo di esercitare l’azione penale è una conquista della modernità giuridica, che ritiene di imporre la difesa dal delitto anche con atti che precedono l’accertamento dei fatti. Con la cautela di lasciare al giudice la decisione sulla violazione della legge. L’atto di indirizzo in generale, immaginato come inevitabile tecnica di conformazione di un dibattito processuale e del suo esito, mi pare in contrasto con la obbligatorietà. Si tratta di una strada semplice da percorrere o più complicata del previsto? La strada, dato il carattere insufficiente di un atto di indirizzo ad operare nei confronti di norme primarie, mi pare, più che complicata, impossibile. Per un un’Italia così multiforme, dove si va dai reati di mafia a quelli dei colletti bianchi ai crimini comuni, è un sistema che può funzionare? La varietà e la specificità dei delitti che l’Italia conosce, non è diversa da quella di altri Paesi economicamente e culturalmente forti. Le grandi economie si somigliano. Le culture criminali varcano i confini politici. I capitali non hanno una patria. A mio avviso una misura siffatta renderebbe l’Italia più esposta di altri Paesi e un possibile porto per le partecipazioni all’illegalità internazionale. In questo modo i magistrati sarebbero più o meno vincolati della politica nell’esercizio delle proprie funzioni? Se passasse un indirizzo simile, a dispetto dei principi che ho detto, vi sarebbe il caos. Si tratterebbe di un inizio esplicito di riduzione della terzietà del giudice, che di fatto sarebbe chiamato ad osservare criteri extra legali. Il suo operato sarebbe valutato politicamente, ovvero secondo una politica specifica. Sappiamo poco dell’idea, che mi pare affrettata e superficiale. Con la separazione delle carriere cosa potrebbe accadere? La separazione delle carriere non c’entra nulla con il controllo di merito sulla attività dell’accusa e sull’indirizzo delle indagini. Questo modello sembra avvicinarsi molto al modello americano, può funzionare anche da noi? Il modello americano non c’entra. Peraltro il pubblico ministero americano giunge per via politica democratica al suo ruolo. Che talvolta è solo una tappa. Si candida con un programma di lavoro che è un programma politico. L’iniziativa di cui parliamo invece attribuisce alla autorità politica un ruolo giudiziario. Ci sono esempi in Europa che si avvicinano al modello ipotizzato? Esiste in taluni Paesi il potere del ministro della Giustizia di rivolgersi all’autorità giudiziaria sollecitando interventi. Ma va detto con chiarezza che la posizione della magistratura italiana è abbastanza specifica. Di fronte ai problemi della giustizia, come carenze di organico, arretrati, disfunzioni informatiche l’eventuale via libera alla riforma potrebbe migliore il sistema giustizia italiano? Credo di no. Credo che la confusione delle lingue e della consapevolezza collettiva aumenterebbe. Se un magistrato persegue un reato che in realtà non è tra le priorità di quelle percorribili, quale conflitto può nascere? Se fosse una legge ordinaria sarebbe in conflitto con la Costituzione. Si darebbe luogo ad un conflitto di attribuzioni. Il Paese attraversa un momento delicato. Essere consapevoli dei limiti di ciascun potere mi pare ragionevole. La miglior forma di amor di Patria, ci insegnò Luigi Barzini jr, è essere onesti con sé stessi. Prescrizione, la riforma promessa e poi sparita di Errico Novi Il Dubbio, 1 novembre 2024 Votata 9 mesi fa alla Camera e mai apparsa in Senato, nonostante il pressing di FI. È stata approvata in prima lettura alla Camera lo scorso 16 gennaio. Una vita fa. Il Senato dovrebbe semplicemente licenziare il testo così com’è, senza modifiche: bilanciamenti e rifiniture sono già state ampiamente studiate e inserite nel corso dell’esame a Montecitorio, nel pieno accordo fra tutte le forze di governo, oltre un anno fa. Ma a Palazzo Madama non sono neppure cominciate le audizioni in commissione Giustizia. Non si parla di un termine per gli emendamenti. Figurarsi della data di approdo in aula. Di più: l’argomento prescrizione è stato misteriosamente taciuto persino nel doppio vertice convocato dal guardasigilli Carlo Nordio a via Arenula mercoledì scorso. Come se fosse un tabù. A nulla è servita l’incursione del più garantista fra i senatori di maggioranza, l’azzurro Pierantonio Zanettin, che a inizio ottobre era riuscito a strappare alla leghista Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia, e ai colleghi di FdI l’impegno a “scongelare” il dossier, in cambio dell’ok a un ulteriore, e pleonastico, ciclo di audizioni. È il segno che anche in tempi di prevalente concordia sulla giustizia, il centrodestra non sempre procede con granitica unità. I motivi sono di ordine politico: sono nelle perplessità di Fratelli d’Italia. Che pure è protagonista, a cominciare da Giorgia Meloni, della resa dei conti con la magistratura. Non mancano dal partito della premier, i messaggi netti contro un ordine giudiziario che, “dalle pronunce sui migranti alle parole del sostituto pg di Cassazione Marco Patarnello sembra essere entrato in guerra col governo di centrodestra”, per citare la senatrice FdI Susanna Campione. Eppure non su tutti i dossier i meloniani sono in perfetta sintonia con i garantisti della maggioranza, con FI. Vale per le intercettazioni come per la prescrizione. Va chiarito: il partito di Meloni non è contrario alla riforma sui “tempi” del processo penale. La sostiene. L’ha auspicata prima ancora della vittoria alle Politiche di due anni fa. La primissima linea di Fratelli d’Italia sulla giustizia, l’attuale sottosegretario Andrea Delmastro, disse: “La prescrizione sostanziale è un principio di civiltà, mai più cittadini indagati e imputati a vita secondo la sgrammaticata parentesi bonafediana”. Vero è che con la riforma Cartabia i rischi di processi infiniti sono stati di fatto eliminati: è tuttora in vigore il meccanismo dell’improcedibilità, che fa decadere il giudizio d’impugnazione qualora vengano sforati i limiti per ciascuna fase processuale. Ma con le norme introdotte dall’ex ministra, resta possibile il paradosso di un’accusa che può restare in piedi nonostante l’epoca del presunto reato sia così lontana da aver visto trascorrere i termini di estinzione. C’è sì l’improcedibilità, ma c’è tuttora anche il “blocca- prescrizione” di Bonafede: dopo la condanna in primo grado, il termine di estinzione del delitto non si calcola più. Non è il massimo. E la riforma del centrodestra pone rimedio all’abominio giuridico, con la soppressione definitiva della riforma targata M5S. Eppure non piace ai magistrati: che sono stati capaci di contestare persino una riforma del genere, ispirata alla relazione Lattanzi, cioè alla via maestra indicata dalla commissione di saggi, nominata nel 2021 da Marta Cartabia e guidata dal presidente emerito della Consulta Giorgio Lattanzi. Ai presidenti delle 26 Corti d’appello italiane non andava bene. Pretesero, in una lettera a Parlamento e guardasigilli, una norma transitoria che rendesse le nuove norme efficaci solo per i reati successivi all’entrata in vigore. Richiesta poco comprensibile: la prescrizione è istituto di “diritto sostanziale”, si applica in base al principio del favor rei. Vuol dire che se pure la riforma fosse accompagnata dalla clausola di “validità solo per il futuro”, qualunque indagato o imputato potrebbe invocare l’efficacia retroattiva delle nuove norme, qualora queste determinassero l’estinzione del reato. Tanto era poco comprensibile la richiesta delle Corti d’appello che Nordio, il suo vice Francesco Paolo Sisto e i due sottosegretari Andrea Delmastro e Andrea Ostellari concordarono, a fine 2023, di ignorare le richieste dei magistrati, e diedero via libera alla nuova prescrizione. Dopodiché il silenzio. Legato appunto alle riaffiorate perplessità di FdI. E slegato dalle questioni relative ai target del Pnrr, come si sarebbe potuto credere. I magistrati, infatti, nella citata lettera, sostennero che un’immediata applicazione della riforma avrebbe costretto i loro uffici a riconteggiare i termini di estinzione dei reati per tutti i giudizi pendenti in secondo grado. Ma da via Arenula assicurano che gli obiettivi di smaltimento dell’arretrato concordati con l’Ue non sarebbero comunque messi in pericolo. Nessun problema di efficienza dunque: solo ritrosie politiche. Tanto è misterioso, il destino della prescrizione, che nelle scorse settimane Zanettin provò a interpellare via Arenula per capire i motivi della paralisi. Il sottosegretario Ostellari spiegò che era in corso “una valutazione da parte del ministero”. La valutazione continua. Alla riunione di mercoledì scorso convocata da Nordio, si è registrato un piccolo incidente, che potrebbe aiutare a capire la chiave del mistero. Fratelli d’Italia ha chiesto di inserire nella legge Zanettin che fissa in 45 giorni il limite perle intercettazioni, un’eccezione per le violenze di genere. È stata Forza Italia a far presente che così quel provvedimento, già approvato a Palazzo Madama, avrebbe dovuto compiere un secondo giro, e ha perciò chiesto di approvare la deroga in un diverso vettore normativo, senza toccare la “Zanettin”. Tanto hanno insistito, gli azzurri, da convincere gli alleati. Ce n’è voluto. Ed è chiaro che per la prescrizione ce ne vorrà ancora un bel po’. Il Csm discute le nuove regole sulle nomine, ma è solo fumo negli occhi di Ermes Antonucci Il Foglio, 1 novembre 2024 I membri del Consiglio superiore della magistratura si stanno confrontando (e dividendo) sulla revisione del testo unico sulla dirigenza giudiziaria. L’obiettivo è ridurre il peso delle correnti, ma le proposte elaborate sono fallimentari. Di Federico: “Solo fumo negli occhi”. Le nomine dei magistrati ai vertici degli uffici giudiziari del paese tornano al centro dell’attenzione del Csm, a cinque anni di distanza dallo scandalo Palamara. Da settimane, infatti, i consiglieri si stanno confrontando (e dividendo) sulla revisione del testo unico sulla dirigenza giudiziaria, necessaria dopo la riforma Cartabia. Lo scopo, almeno a parole, è quello di ridurre il condizionamento delle correnti. Nei fatti, l’obiettivo risulta più lontano che mai. La riforma Cartabia ha introdotto in via generale alcune novità sugli indicatori di cui il Csm deve tenere conto nella scelta dei magistrati ai quali affidare gli incarichi direttivi (come procuratore della Repubblica o presidente di tribunale) e semidirettivi (come procuratore aggiunto o presidente di sezione di tribunale). Il provvedimento ha però rimesso al Csm il compito di attuare nello specifico le nuove disposizioni. Dopo un’intensa discussione, i consiglieri togati hanno elaborato due testi contrapposti. Il primo, nato da un inedito accordo tra la corrente di sinistra Area e Magistratura indipendente, apporta piccole modifiche agli indicatori, lasciando al Csm ampia discrezionalità nella valutazione dei candidati. La seconda proposta, elaborata da Magistratura democratica e Unicost, prevede invece una serie di punteggi predeterminati per i vari indicatori, cercando di ridurre la discrezionalità del Consiglio superiore. “I punteggi prefissati fanno recuperare oggettività alle nomine”, ha affermato il togato Michele Forziati (Unicost). A ben vedere, però, la proposta elaborata da Md e Unicost non riduce affatto la discrezionalità del Csm, e quindi il pericolo di condizionamenti e spartizioni fra le correnti. Senza entrare troppo nei tecnicismi, basta un esempio su tutti. Tra le attitudini dei candidati che il Csm è chiamato a valutare c’è la “capacità di efficiente organizzazione del lavoro”. La proposta di Md e Unicost prevede che per questo parametro possa essere attribuito al candidato “un massimo di cinque punti”. Nulla impedirà, quindi, al Csm di attribuire due punti a un candidato e cinque punti a un altro, sulla base di una scelta discrezionale o figlia di un accordo correntizio (già di per sé, del resto, il concetto di attitudine è quanto di più sfuggente). “Le proposte del nuovo testo unico sulla dirigenza sono solo fumo negli occhi”, dice al Foglio Giuseppe Di Federico, professore emerito dell’Università di Bologna, il più grande studioso italiano di sistemi giudiziari. “Finché le valutazioni di professionalità dei magistrati continueranno a essere di fatto inesistenti, ogni tentativo di ridurre il condizionamento delle correnti nelle procedure di nomina è destinato a fallire”, aggiunge. “La magistratura è la vera erede dell’ideologia studentesca del ‘68. Questa ideologia si fonda su due cardini: il 30 e lode per tutti e le decisioni prese in assemblea al Csm”, afferma Di Federico senza mezzi termini. “Negli ultimi 50 anni il Csm ha deciso di sua iniziativa di promuovere tutti i magistrati fino al vertice della carriera in base all’anzianità salvo i casi di grave e documentato demerito, come condanne penali”. Tradotto: “Dal 1960 la percentuale dei magistrati valutati positivamente ha variato tra il 99,1 e il 99,5 per cento (in Francia soltanto 600 magistrati sul totale raggiungono l’apice della carriera)”. Trenta e lode per tutti, appunto. Ma se tutte le toghe sono “eccellenti” è chiaro che le procedure di nomina dei dirigenti finiscono per essere fortemente condizionate dalla discrezionalità del Csm e dall’influenza delle correnti, come dimostra la storia. “I magistrati coltivano il mito dell’assenza della carriera, ma poi si scannano per gli incarichi direttivi”, sintetizza efficacemente Di Federico. Qual è la soluzione? “Reintrodurre il sistema che è valso tra gli anni 60 e 70 per le valutazioni di eccellenza: esami scritti per un numero limitato di posti e un numero limitato di persone”, risponde Di Federico. “Quelle valutazioni hanno prodotto un effetto incredibile. Fino alla fine degli anni Novanta tutta la dirigenza delle corti d’appello, procura generale e presidenza della Corte di cassazione era ancora costituita dai vincitori dei concorsi di quegli anni. Il Csm, che pur si era opposto agli esami scritti, non ha potuto contestarne i risultati al momento delle nomine e non ci sono stati ricorsi al Tar”. L’idea del leghista Morrone: un Garante per le vittime di reato di Valentina Stella Il Dubbio, 1 novembre 2024 Il deputato del Carroccio presenta una proposta di legge: “Diamo attuazione a una direttiva europea. Ma nessuno vuole togliere garanzie all’imputato”. Mentre al Senato si discute della modifica costituzionale per inserire la vittima in Costituzione, ieri alla Camera è stata presentata una proposta di legge per l’istituzione dell’Autorità garante per la tutela delle vittime di reati. Primo firmatario l’ex sottosegretario alla Giustizia e attuale deputato della Lega Jacopo Morrone: “L’obiettivo - ha spiegato durante la conferenza stampa - è quello di creare una rete strutturata e capillare di servizi di natura assistenziale e di presa in carico delle vittime di reato sull’intero territorio nazionale, attuata da Regioni e Enti locali. A questo scopo è indispensabile l’istituzione di questa Autorità: un organismo indipendente che svolgerà la funzione di pungolo e di stimolo per la creazione di questa rete, per verificarne l’operatività, ma anche per dare ascolto e risposte adeguate alle vittime di reato, dando loro voce e rinnovato protagonismo. Esiste un Garante di tutte le categorie deboli, perché nessuno invece per le vittime di reato?”. “Questa proposta non vuole avere alcun colore politico. Pertanto auspico - ha concluso Morrone - che questo progetto possa raccogliere il più ampio consenso possibile tra tutte le forze politiche”. Il parlamentare ha evidenziato che “con questa proposta si attuano più compiutamente i principi di una direttiva europea del 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti delle vittime di reato, recepita in Italia con il dl 212/ 2015. Il Garante nazionale, come figura istituzionale, si deve far carico della vittima come soggetto meritevole di sostegno pubblico in conformità con il principio solidaristico che rappresenta un asse portante della nostra Costituzione. È infatti paradossale che proprio le vittime di reato, che non hanno scelto di essere vittime ma lo sono diventate loro malgrado, non hanno garanzie di un sostegno pubblico e di una presa in carico come accade per altre categorie fragili”. Gli abbiamo chiesto se condivide l’inserimento della vittima in Costituzione: “Devo approfondire la tematica ma credo che nessuna voglia togliere garanzie all’imputato”. “Dal punto di vista tecnico la proposta di legge è piuttosto dettagliata - ha proseguito Francesco Picozzi, dottore di ricerca in Tecnica legislativa, illustrando l’articolato - e raccoglie molti spunti emersi in questa materia nel corso degli anni. Costituisce quindi un punto di arrivo di un percorso di crescente sensibilità e doverosa attenzione per le vittime di reato. Sarà una Autorità indipendente, rappresentata da una sola persona con uno staff a disposizione”. Quindi non un organo collegiale come, ad esempio, il Garante dei diritti delle persone privata della libertà personale. Le funzioni dell’Autorità riguardano, in primo luogo, il sostegno, l’assistenza e la protezione di carattere sanitario, sociale, legale e psicologico alle vittime di reato; l’organizzazione di eventi di formazione, educazione, mediazione e sensibilizzazione sui temi afferenti alla tutela delle vittime di reato, la diffusione di prassi o protocolli d’intesa per le amministrazioni dello Stato, gli enti locali e territoriali, gli ordini professionali e le amministrazioni delegate allo svolgimento delle attività socio- assistenziali. La proposta di legge non si rivolge solo ai parenti delle vittime di reato ma alle stesse persone offese. Abbiamo chiesto al dottor Picozzi se per ‘ persone offese’ si intenda una qualsiasi persona che denuncia oppure se tale è stata definita, essendo stato l’autore del reato condannato in via definitiva. Ci ha risposto l’esperto: “La tutela è pensata per le vittime in prima persona, nonché nei casi in cui la vittima non c’è più perché deceduta anche per i diretti congiunti. Il supporto è pensato immediato anche in linea con la direttiva europea, quindi non viene dato solo dopo una sentenza di Cassazione che condanna definitivamente l’imputato. Preciso che l’Autorità non prende nessuna parte nel processo, è un mero organo di garanzia e servizi alle persone”. “Con questa proposta di legge ha sostenuto l’avvocato Elisabetta Aldrovandi, presidente Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime - viene istituzionalizzata la sensibilizzazione nei confronti delle vittime di reato. Viene riconosciuta dignità istituzionale e sociale a chi, suo malgrado, si è ritrovato al centro di un fatto di reato grave, che spesso ha dovuto affrontare senza i necessari supporti e senza la necessaria conoscenza degli strumenti a sua tutela”. Poi due testimonianze. La prima di Manilo Tomassini: “Ho perso mia madre nel 2016, è stata picchiata e strangolata da una persona che non le voleva pagare l’affitto. Dopo l’accaduto non sapevo cosa fare, a chi rivolgermi, non sapevamo quando ci avrebbero restituito il corpo”. Quindi ha preso la parola Giovanni Maiorano: “Mia sorella è stata ammazzata con numerose coltellate nel 2018 dal marito davanti ai figli. Non solo in tutto questo tempo non abbiamo avuto sostegno psicologico ma il giorno dopo il brutale assassinio siamo andati in caserma e una assistente sociale ci ha chiesto chi si sarebbe occupato dei figli, altrimenti li avrebbero portati subito in una casa famiglia. Non abbiamo scelto di essere vittime ma abbiamo bisogno di essere tutelati”. La deposizione di Turetta e la moralità secondo Abelardo: quanto la società forma l’intenzione di Daniela Mainenti* Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2024 La deposizione di Filippo Turetta ha aperto un dibattito complesso tra giuristi e nell’opinione pubblica, toccando temi che vanno oltre la responsabilità individuale per coinvolgere dinamiche culturali profonde. In un contesto giudiziario, ogni parola e gesto dell’imputato sono scrutati attentamente: capire se l’azione di Turetta sia il frutto di una scelta autonoma o il risultato di un condizionamento culturale diventa cruciale. Analizzare una deposizione significa decifrare non solo le parole, ma anche la costruzione complessiva dell’atto comunicativo. Il linguaggio del corpo e il tono delle risposte possono rivelare rimorso, tentativi di giustificazione o minimizzazione, o ancora segnali di una personalità influenzabile. Tali aspetti sono essenziali per delineare un profilo comportamentale e valutare la responsabilità dell’individuo, con implicazioni decisive per la strategia difensiva e l’accusa. Dal punto di vista processual-penalistico, la deposizione assume un ruolo chiave nella qualificazione del reato e nella determinazione della responsabilità. Le dichiarazioni di Turetta e i dettagli emersi possono fornire elementi utili a stabilire l’elemento soggettivo del reato, come il dolo o la premeditazione, influenzando anche la presenza di aggravanti o attenuanti, come pure una ridotta capacità di intendere e volere richiederebbe prove solide per essere accolta. L’analisi delle sue parole può anche rivelare elementi di premeditazione o crudeltà che influiscono direttamente sull’entità della pena. Se emergessero (come sembra) dettagli che indicano una pianificazione dell’atto, tali elementi potrebbero far ricadere l’accusa in una categoria più grave, aumentando la severità della condanna. La domanda centrale a mio avviso è: Turetta ha agito con piena consapevolezza e determinazione, oppure è stato influenzato da un sistema di valori che ha alterato la sua percezione e la sua colpevolezza? Vorrei qui richiamare il pensiero di Pietro Abelardo, filosofo medievale che poneva l’intenzione come fulcro della moralità, perché ci spinge a riflettere su quanto un sistema culturale patriarcale possa distorcere la percezione di chi ne fa parte, legittimando comportamenti violenti o possessivi. Per Abelardo, non è l’azione in sé a essere moralmente rilevante, ma l’intenzione con cui viene compiuta. Questo apre una riflessione importante: quanto un sistema culturale che normalizza atteggiamenti di controllo può influire sull’intenzione e, di conseguenza, sulla colpevolezza? Il patriarcato, infatti, influenza profondamente i ruoli e le dinamiche di potere, e questo può portare le persone a interiorizzare comportamenti di possesso e controllo come espressioni accettabili di affetto. Associare il tema dell’intenzione con il patriarcato, nell’interpretazione di un caso come quello di Filippo Turetta, ci porta a esplorare come certi atti possano essere influenzati non solo dalle motivazioni individuali ma anche dai condizionamenti culturali e sociali. In un contesto patriarcale, le intenzioni degli individui possono essere plasmate da norme, valori e stereotipi che giustificano o alimentano specifici comportamenti, soprattutto nei confronti delle donne. Per questo, se analizziamo il concetto di intenzione di Abelardo alla luce del patriarcato, emergono domande complesse: quanto un sistema culturale che tende a giustificare o tollerare atteggiamenti di possesso e controllo può distorcere le intenzioni di chi cresce e vive in esso? In un contesto patriarcale, le persone possono interiorizzare ruoli di genere che normalizzano il possesso o la prevaricazione. Ciò significa che l’intenzione di un soggetto potrebbe non essere completamente autonoma, ma condizionata da una cultura che legittima certi comportamenti, come la gelosia o la necessità di dominare il partner. Per Abelardo l’ambiente culturale può incidere profondamente su ciò che una persona percepisce come moralmente giusto o accettabile. In un contesto patriarcale, un individuo potrebbe legittimare - anche inconsapevolmente - comportamenti violenti o possessivi come una manifestazione di affetto o di “protezione”. Questo solleva un interrogativo abelardiano di fondo: se l’intenzione è condizionata da un sistema di valori distorto, quanto possiamo considerarla davvero “libera”? Quanto sono davvero liberi questi maschi che si comportano così? E ciò mette in discussione anche l’idea stessa di responsabilità individuale. Una giustizia ancora più moderna, allora, che da retributiva e poi riparativa divenisse trasformativa, dovrebbe considerare non solo l’intenzione individuale, ma anche il ruolo della società nel formare tali intenzioni. Questo non significa annullare la responsabilità che è personale, ma riconoscere che l’atto è anche il risultato di un fallimento collettivo, quello di non aver sfidato e trasformato un sistema culturale radicato. In un caso come quello di Turetta, riposizionando la lente, la giustizia non si limiterebbe a punire con durezza l’atto, ma cercherebbe di intervenire sulle cause culturali, favorendo un cambiamento profondo. Ecco perché la sentenza su Filippo Turetta, al di là della severità con cui sarà formulata, rappresenta un’opportunità per il sistema giudiziario di indicare la strada verso una società più equa e consapevole. Come osservava Pietro Abelardo, la vera giustizia è quella che comprende l’intenzione e cerca di trasformare l’animo umano, un principio che, sebbene antico, resta di straordinaria attualità. *Professore Straordinario in Diritto Processuale Penale Comparato Verona. “Moussa ucciso, chi ha visto parli” di Angiola Petronio Corriere di Verona, 1 novembre 2024 Gli attivisti: “Torniamo per lui e per il sogno di ridare vita a questo luogo”. Un appello. Tre domande. E quattro richieste, che sono dei pilastri. Continua a sciabordare l’onda lunga sulla morte di Moussa Diarra. E lo fa spinta da una corrente che chiede “verità e giustizia” per il 26enne maliano ucciso il 20 ottobre davanti alla stazione da un colpo di pistola sparato da un agente della Polfer. È nato un comitato, per Moussa. Il “comitato verità e giustizia per Moussa Diarra”. Ed è da lì che germina l’appello a “chiunque abbia assistito ai fatti o li abbia ripresi con il cellulare” che viene “pregato, in coscienza, di inviare ogni informazione utile via e-mail all’indirizzo: permoussadiarra@gmail.com o al cellulare 3510921865”. Spiega, il comitato che “ogni minimo dettaglio potrebbe essere cruciale per fare chiarezza” e che verrà garantita la massima riservatezza. Le domande - Ricerca di testimonianze che vuole essere propedeutica a ricostruire quanto accaduto quella domenica mattina, sia davanti alla stazione che nelle ore precedenti. Quelle in cui il male di vivere che attanagliava Moussa da qualche tempo è tracimato in una crisi psicotica. “Condanniamo fermamente - dice il comitato - la narrazione mediatica che ha ritratto Moussa come un “mostro”, dipingendolo come lo stereotipo dello straniero pericoloso e instabile. Questa narrazione discriminatoria è inaccettabile in uno stato democratico. Esigiamo un’inchiesta seria, trasparente e indipendente che risponda alle tante domande ancora inevase”. Tre, in particolare, quelle che pone il comitato: “Perché, nonostante Moussa fosse stato avvistato in stato confusionale alle 5 del mattino, ha continuato a vagare per ore senza ricevere assistenza? È stata chiamata l’assistenza medica, come previsto in tali situazioni? La scelta di aprire il fuoco poteva essere evitata?”. Domande a cui dovrà rispondere l’inchiesta in corso. Le richieste - E con il comitato che chiede “Verità e giustizia per Moussa; il riconoscimento e il rispetto dei diritti fondamentali, inclusi documenti, residenza, accesso a un alloggio e a un lavoro dignitoso; una sicurezza basata sulla giustizia e sul rispetto della dignità umana e non sulla repressione e sulle armi; una risposta forte, collettiva e unanime della società civile contro ogni forma di razzismo”. Domani a Quinzano - Moussa il cui ricordo permeerà domani la villa di Quinzano che dovrebbe essere un bene pubblico, lasciata implodere da oltre vent’anni. È lì che sarebbe dovuto andare il giorno prima di morire. Lui che era uno dei 40 migranti - con contratti di lavoro regolari - che un posto per dormire lo avevano trovato solo al Ghibellin Fuggiasco, che adesso è in procinto di chiudere. Era uno di quei lavoratori, Moussa, che Verona usa per produrre, ma per i quali non trova spazi abitativi. Chi viveva con lui, gli attivisti del laboratorio autogestito Paratodos e altre associazioni ed enti del terzo settore domani torneranno a Quinzano, in quegli spazi di proprietà degli Iciss che loro hanno iniziato a ripulire. “Torniamo - annunciano - per Moussa, per noi, per tutti. Torniamo per continuare il sogno di ridare presto vita a questo luogo meraviglioso e abbandonato al degrado”. Prima le pulizie, poi il pranzo sociale. Alle 15 un’assemblea pubblica “per discutere su come continuare il recupero dello spazio, i prossimi passi e idee per farlo rinascere”. Ma anche per parlare di Moussa. “Per fare il punto su quanto si sa dell’inchiesta. Perché quel recupero e quel percorso sono quelli a cui avrebbe dovuto partecipare anche lui”. Viterbo. Rita Bernardini sul suicidio di Andrea Di Nino: “I familiari non ci hanno mai creduto” tusciaweb.eu, 1 novembre 2024 La presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino interviene dopo le rivelazioni del supertestimone secondo cui il detenuto è stato ucciso: in un post su Facebook fa specifico riferimento ad Andrea Di Nino e alla svolta delle indagini che sarebbe giunta sei anni dopo la tragedia grazie alle indagini difensive della famiglia, che il 22 ottobre ha depositato tramite il proprio difensore gli atti relativi presso il Tribunale e la Procura della Repubblica di Viterbo. Andrea Di Nino è il 36enne romano morto a Mammagialla il 21 maggio 2018, che secondo un altro detenuto, un supertestimone rintracciato solo di recente dai familiari, non si sarebbe tolto la vita impiccandosi in cella, ma sarebbe stato vittima di un pestaggio da parte della “squadra della morte” che all’epoca avrebbe imperversato all’interno della casa circondariale di Viterbo. “Mai così tanti morti in carcere nella storia penitenziaria italiana”, scrive Bernardini. “Una cifra che spaventa - prosegue - al 30 ottobre,195 persone detenute hanno perso la vita nei luoghi di privazione della libertà. 78 sono stati i suicidi e 117 i morti per altre cause; fra questi ultimi, i decessi per malattia o per cause da accertare. Un numero di morti mai registrato nella storia penitenziaria italiana mentre mancano ancora due mesi alla fine di questo anno orribile”. “Questa settimana - prosegue nel post pubblicato ieri - parliamo del triste argomento con l’avvocato Nicola Trisciuoglio, difensore dei familiari di Andrea Di Nino, deceduto nella sua cella di isolamento nel carcere Mammagialla di Viterbo il 21 maggio del 2018; causa ufficiale ‘suicidio’, al quale però i suoi congiunti non hanno mai creduto. Andrea Di Nino aveva 36 anni, era padre di cinque figli e gli rimaneva meno di un anno per uscire in libertà”. Sulla vicenda - ricorda Bernardini - è in corso un procedimento penale per ‘omicidio colposo’ con rinvio a giudizio di due agenti e un sanitario mentre il direttore, che ha scelto il rito abbreviato, è stato assolto. La novità recente riguarda le dichiarazioni di un supertestimone che invece afferma che Andrea Di Nino è stato ucciso. La prossima udienza si terrà a gennaio 2025 e non si può non constatare che sono già passati più di sei anni dal quel tragico evento. Roma. Processo per truffa nella fornitura dei pasti al carcere di Rebibbia di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 1 novembre 2024 “Ai detenuti cibi scaduti, verdure marce, latte con acqua”. Una truffa ai danni del Ministero della Giustizia, quella del cibo nelle carceri di Lazio e Abruzzo. Una “frode nelle pubbliche forniture” per utilizzare i termini del codice penale con i quali il procuratore aggiunto Paolo Ielo e la sostituta Giulia Guccione hanno ottenuto il processo nei confronti di Umberto e Achille Ventura, ai vertici della società omonima. La prima udienza è fissata per venerdì 22 novembre. Ma cosa accadeva (e tuttora accade se si considera che la ditta non è mai cambiata) dietro le sbarre di penitenziari come ad esempio la popolosissima Rebibbia? Qui la società appaltatrice forniva “intenzionalmente alimenti scadenti non aventi le qualità indicate dal capitolato di gara” si legge nelle carte. Quei prodotti venivano camuffati “con vari espedienti” individuati dai finanzieri del Nucleo di polizia valutaria che hanno effettuato prelievi di cibo sotto la direzione dei magistrati. E che, in seguito, hanno sottoposto ad analisi di laboratorio il contenuto. Il risultato che se ne ricava appare sconcertante e descrive una vera e propria truffa ai danni dell’amministrazione penitenziaria. “Ridotto il peso degli alimenti” - Ventura, infatti, riduceva “il peso degli alimenti forniti anche in misura inferiore rispetto alla tabella ministeriale, mescolando la carne con alimenti di qualità inferiore o gonfiando le salsicce con acqua, o ancora optando per carni con percentuali di grasso superiori al 25% o diluendo il latte con acqua; ovvero mescolando latte intero con latte scremato”. Nulla era ciò che appariva secondo la tabella di composizione degli alimenti. Lo scandalo era emerso durante la consiliatura di Virgilia Raggi, quando l’allora garante comunale, Gabriella Stramaccioni, aveva portato in Procura le lamentele dei detenuti, costretti giorno dopo giorno a un regime alimentare pressoché punitivo. Le prove - I pm hanno raccolto prove inconfutabili di una truffa clamorosa che, nel silenzio di molti, andava avanti attraverso escamotage plateali. Stando alla richiesta di rinvio a giudizio si modificavano “le etichette dei prodotti” per somministrarli ben oltre la data di scadenza, si offriva burro ed olio “di qualità diverse e deteriori rispetto a quelle indicate nel capitolato ovvero pasta all’uovo non contenente i nutrienti dichiarati, ovvero frutta e verdura marce”. In tutto ciò la ditta aggiudicatrice dell’appalto guadagnava con il meccanismo del sopravvitto, ossia lo spaccio interno al penitenziario, i cui prodotti lievitavano di prezzo “artatamente”. Un meccanismo perverso censurato a suo tempo anche dalla magistratura contabile. Le testimonianze dei detenuti - Al processo saranno acquisite le testimonianze dei detenuti che, a proprio rischio e pericolo (e in qualche caso subendo ritorsioni), hanno raccontato ciò che avveniva nelle cucine del carcere. Caffè confezionato con i fondi, carni che scolorivano a contatto con l’acqua, insaccati scadenti, latte insapore e il resto. Alla vigilia dell’udienza fissata dal Tribunale ecco il commento di Stramaccioni: “É la conferma che quanto segnalato in maniera documentata alla Procura, pur procurandomi un inspiegabile isolamento, era vero”. Roma. Suicidi e atti di autolesionismo in carcere, firmato il protocollo di prevenzione romatoday.it, 1 novembre 2024 Nella Casa circondariale di Regna Coeli si registra il numero più alto di suicidi. Quintavalle (Asl Roma 1): “Promuoviamo un contesto più sicuro per le persone in carcere”. Ridurre i rischi di atti di autolesionismo e suicidi in carcere, promuovendo la salute mentale e il benessere dei detenuti. Con questo obiettivo è stato firmato, presso la Casa circondariale di Regina Coeli, in cui si registra il più alto numero di suicidi in Italia, il protocollo di prevenzione e gestione del rischio autolesivo e suicidario. A siglarlo sono stati: la direttrice della casa circondariale, Claudia Clementi e il commissario straordinario della Asl Roma 1, Giuseppe Quintavalle, alla presenza del garante per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio Stefano Anastasìa. Con questo documento, la Regione e la Asl puntano a rafforzare le misure di intervento, supporto e monitoraggio in carcere, integrando le competenze del personale sanitario e penitenziario in un intervento di sistema volto a ridurre i rischi di suicidi e di atti di autolesionismo. Tra le azioni previste, in particolare, la valorizzazione degli interventi dei peer supporter (detenuti che, una volta adeguatamente formati, possono diventare figure di supporto e di riferimento per altri detenuti), i colloqui e l’osservazione da parte dei diversi operatori per favorire adeguati processi di adattamento, l’informazione sull’offerta e le attività delle aree sanitarie, educative e di sicurezza e sulle modalità di richiesta di supporto, l’organizzazione di gruppi di accoglienza con psicologi della Asl ed educatori, il monitoraggio dei casi più vulnerabili, la formazione degli operatori per la rilevazione dei rischi e gli interventi di primo soccorso con esercitazioni periodiche. “L’adozione del protocollo - spiega Stefano Anastasìa - è un passaggio importante di condivisione degli interventi da parte della Asl e della Direzione dell’istituto. Sappiamo quanto Regina Coeli sia la frontiera più esposta al rischio suicidario a Roma e nel Lazio, fino ad avere il tragico record di 14 suicidi, il maggior numero di casi registrati in Italia tra il 2020 e il 2024”. Una situazione che, per il garante dei detenuti è effetto di una serie di fattori “della sua utenza, particolarmente vulnerabile, della carenza del personale, della vetustà e inadeguatezza della struttura, cui si aggiunge un tasso di affollamento del 188 per cento, tra i più alti in regione e a livello nazionale. Con questo Protocollo - prosegue Anastasìa -, la direzione dell’istituto e i servizi sanitari disciplinano le loro modalità di attivazione e intervento a sostegno delle persone che manifestino un rischio suicidario, già prevedendo momenti congiunti di valutazione della sua implementazione. È un segnale importante di reazione istituzionale alla drammatica successione di suicidi a cui stiamo assistendo a livello nazionale. Speriamo che sia finalmente seguito da analoga sensibilità di altri interlocutori istituzionali, ciascuno per la propria competenza, nella riduzione delle cause ambientali del rischio suicidario, a partire dal cronico sovraffollamento e dal depauperamento dei servizi socio-sanitari sul territorio che ne è spesso l’origine”. “La sinergia tra istituzioni e personale sanitario e penitenziario - spiega il commissario straordinario della Asl Roma 1, Quintavalle - testimonia l’impegno comune verso una gestione umanizzata e attenta, con l’obiettivo di promuovere un contesto più sicuro per le persone sottoposte a misure restrittive. Questo è un inizio: crediamo fermamente che tale approccio, con interventi multidisciplinari e tempestivi, possa fare la differenza, contribuendo a promuovere una cultura della salute e del sostegno in grado di prevenire proattivamente episodi di autolesionismo e di suicidio in carcere”. Alla firma del protocollo erano presenti anche il direttore del Dipartimento di Salute mentale della Asl Roma 1 Giuseppe Ducci, la direttrice della Uosd (Unità operativa semplice di dipartimento) Salute mentale e dipendenze in ambito penale della Asl Roma 1 Adele Di Stefano, il direttore della Uosd Assistenza sanitaria Regina Coeli - Distretto 1, Luigi Antonio Persico e del comandante di polizia penitenziaria Francesco Salemi. La casa circondariale di Regina Coeli è il primo carcere per numero di suicidi, come documenta il report suicidi 2024 elaborato da “Ristretti Orizzonti” (giornale dalla Casa di reclusione di Padova e dell’Istituto di pena femminile della Giudecca) nel dossier “Morire di carcere”. La Capitale vede anche il carcere di Rebibbia quasi nella top ten, all’undicesimo posto con sette suicidi dal 2020 al 2024. Livorno. Il Garante: “Sgombero immediato di celle e spazi con muffa e infiltrazioni” inconsiglio.it, 1 novembre 2024 Il Garante dei detenuti della Toscana in visita al penitenziario denuncia numerosi problemi strutturali, celle sovraffollate, di piccole dimensioni e fornelli per cucinare vicini ai servizi igienici. La sala polivalente chiusa da 15 anni e ancora manca un progetto di ristrutturazione. Carcere Le Sughere di Livorno: malgrado il lodevole impegno della direzione e del personale le condizioni igienico sanitarie sono assenti, le celle presentano muffa alle pareti ed infiltrazione di acqua, si sono sezioni chiuse da oltre un decennio e zone ristrutturate ancora non sfruttate. “I detenuti devono essere immediatamente spostati in luoghi salubri e riaperti gli spazi nei quali le condizioni di vita sarebbero nettamente migliori”. È quando chiede il Garante dei detenuti della Toscana, Giuseppe Fanfani, che ieri ha visitato la struttura insieme ai funzionari Katia Poneti e Paolo Scalabrino e al Garante del Comune di Livorno Marco Solimano. “L’istituto - afferma Fanfani - presenta numerosi problemi dal punto di vista strutturale e architettonico, con varie zone inagili per pericolo di crollo e per infiltrazioni d’acqua. La parte in cui si trovano gli studi medici ha la copertura, che pure è stata rifatta completamente 9 anni fa, piena di infiltrazioni: vi sono angoli in cui la muffa ha ricoperto l’intera parete e vi sono secchi per raccogliere l’acqua quando piove. Molte stanze sono inagibili per le infiltrazioni d’acqua, sia nel reparto medico che in quello dedicato alla scuola”. “Le sezioni della media sicurezza ospitano circa 120 detenuti, distribuiti in quattro sezioni. I numeri non sono in assoluto alti, ma le condizioni della struttura sono fatiscenti: cemento distaccato e struttura in ferro arrugginita, tetto a rischio di crollo, acqua che entra dalle finestre per le infiltrazioni, locale docce completamente ricoperto di muffa”. “Inoltre - prosegue il Garante - le sezioni sono sovraffollate, con celle piccole che ospitano due persone e fornellini per cucinare posizionati accanto ai servizi igienici”. “La sala polivalente, in cui un tempo c’erano il teatro e varie stanze per attività, è chiusa da 15 anni e non vi è nemmeno un progetto per la ristrutturazione. Anche la sala conferenze è chiusa perché considerata inagibile. Così come la mensa del personale, in cui però i lavori inizieranno a novembre con previsione di concluderli a febbraio. Manca, dall’alluvione del 2017, la videosorveglianza: poche zone sono coperte, la maggioranza è senza. Inoltre, i due padiglioni che sono stati ristrutturati (potranno ospitare 260 detenuti), con lunghi anni di lavori, devono ancora essere sottoposti a collaudo, ma la ristrutturazione stessa presenta varie problematiche”. Dalla visita, a cui ha preso parte anche l’architetto responsabile per l’istituto penitenziario, è emerso che “i lavori effettuati presentano carenze di vario tipo”. Dal punto di vista architettonico gli spazi in alcuni casi non sono stati ben calcolati (celle in cui la porta del bagno non si potrà aprire completamente una volta inserito il letto, corridoi le cui porta di accesso non permettono il passaggio di barelle) e dal punto di vista della sicurezza alcune scelte non sono adeguate (come la collocazione dell’idrante all’interno della sezione, il posizionamento delle scale di sicurezza a fianco del muro di un cortile di passeggio, la presenza di spazi non controllabili a vista all’interno delle celle). “Inoltre, l’accesso a uno dei due padiglioni è inagibile. L’intero complesso disporrebbe in teoria di molti spazi, ma purtroppo una gran parte id questi risulta inagibile”. A detta di Fanfani, la parte migliore del carcere è quella che ospita l’alta sicurezza, recentemente ristrutturata. Ciò che di positivo circonda il carcere, anche grazie all’opera meritoria del garante comunale e del volontariato, è il territorio di Livorno, che è presente, con l’Amministrazione comunale e numerose iniziative trattamentali. Inoltre, la presenza del personale educativo, del vice direttore e del comandante, con assegnazioni stabili, ha reso l’intervento sul reinserimento più sistematico. Tuttavia, persistono problemi per quanto riguarda il lavoro: vi sono state offerte da parte di imprenditori di realizzare attività all’interno dell’istituto, per corsi e successivi inserimenti lavorativi, che il carcere non ha potuto accettare per mancanza di spazi idonei all’interno della struttura. A breve avrà inizio un progetto di cassa ammende che supporta l’accompagnamento all’esterno e le borse lavoro. Dal 29 ottobre, infine, è attivo il gruppo di etnopsichiatria, con lo stesso progetto che è in corso a Sollicciano: ne fanno parte psicologi, antropologi, uno psichiatra, mediatori culturali. Napoli. Arte contro ergastolo e pena di morte, domani una manifestazione all’ex Opg napolimonitor.it, 1 novembre 2024 Avrà luogo a Napoli, sabato 2 novembre, dopo le prime due svoltesi a Roma, la terza edizione di Arte contro le pene capitali, una manifestazione organizzata da Monitor, “Sensibili alle foglie” e dal gruppo carcere dell’ex Opg - “Je so’ pazzo”. In Italia la pena di morte e? stata abolita con il nuovo codice penale militare di guerra nel 1994 e in Costituzione solo nel 2007. Nel codice penale vi è tuttavia ancora la pena dell’ergastolo, che non costituisce un’alternativa alla pena di morte, in quanto essa stessa e? una pena fino alla morte. Nei paesi in cui è in vigore, inoltre, la stessa pena di morte non e? piu? lo spettacolo patibolare di un tempo ma una esecuzione durevole nel tempo, che si puo? protrarre anche per molti anni prima dell’azione del boia. Pena di morte ed ergastolo sono quindi due istituti che inducono l’agonia nelle persone che vi vengono condannate, decretandone la morte a ogni prospettiva sociale e un lento “vivere morendo”. Nel corso dei mesi passati, il gruppo organizzatore della manifestazione ha diffuso una call invitando artisti a sollecitare la propria vena creativa intorno al tema dell’ergastolo e della pena di morte. Questo è il programma delle esibizioni live che avranno luogo sabato: ore 15.30 - Apertura in piazza a Materdei con la Banda Basaglia ore 17.00 - Michele Fragna, Poesie ore 17.30 - Arrevuoto Teatro e Pedagogia e Chi rom e chi no, L’ultimo giorno di un condannato a morte ore 18.00 - Stefania Musto, Firdaus ore 18.30 - Teatro Popolare e Collettivo delle arti, Fine bianca ore 19.00 - Antonio Raia, Come se ore 20.00 - Gruppo popolare Terra e lavoro, Le pene del capitale ore 21.00 - India Santella, Da qui il mare non si vede ore 21.30 - Dolores Melodia, Canzoni e musiche sul carcere ore 22.00 - Dem Pasan, Danza contro la pena di morte ore 22.15 - Caterina Bianco e Nicola Valentino, Mc Pherson lament ore 23.00 - Frente Murguero Campano, Danze e musiche tradizionali per i condannati a morte Dalle 16 fino a mezzanotte saranno inoltre visibili in mostra le opere degli artisti che hanno contribuito e che trovate qui in locandina. A seguire potete leggere alcuni estratti dal libro collettivo Morire di pena. Per l’abolizione di ergastolo e 41-bis, in cui si riflette sulla presenza nel codice del nostro paese dell’ergastolo come pena di morte mascherata. *** Al contrario della vulgata corrente, l’ergastolo in Italia esiste eccome: la differenza numerica tra i detenuti che una volta condannati all’ergastolo ci rimangono fino alla morte e quelli che ottengono i benefici per uscirne è incommensurabile (sulla base di questo dato il gruppo di Morire di pena rifiuta la differenziazione tra ergastolo ostativo e non ostativo, rivendicando l’eliminazione dell’istituto in toto e il diritto, per qualsiasi essere umano, di poter conoscere, al momento della propria condanna, il momento in cui potrà essere liberato). Dai primi anni Novanta (il cosiddetto “periodo stragista”) a oggi, inoltre, gli ergastoli sono più che quadruplicati. Al 31 dicembre 1992 erano 408, mentre allo stato attuale i detenuti condannati all’ergastolo sono 1864, due terzi dei quali ostativi. Eppure il numero degli omicidi nel paese è letteralmente crollato: negli anni Novanta si sfiorava quota duemila l’anno, mentre oggi siamo a meno di trecento. Anche solo questi dati, nudi e crudi, dovrebbero indurre a riflettere. Ergastolo ed ergastolo ostativo - L’articolo 4-bis viene introdotto nell’ordinamento penitenziario tra il 1991 e il 1992. La disciplina, assai discussa negli anni in termini di incostituzionalità, ha come caratteristica una differenziazione del trattamento penitenziario dei condannati per reati legati alla criminalità organizzata o per altri gravi delitti: subordina, infatti, l’accesso ai benefici previsti dalla legge a una condizione: l’avvenuta collaborazione con la giustizia. Ne risulta che un ergastolo “ostativo” - applicato automaticamente in caso di condanna all’ergastolo per uno dei reati di cui sopra - conduce il detenuto fino alla morte in cella, perché gli impedisce di uscire di prigione anche dopo decenni di detenzione, a meno che questi non “decida” di collaborare con la giustizia. Se è vero, inoltre, che è l’”ostatività” a privare i detenuti condannati all’ergastolo della possibilità di accedere ai benefici penitenziari, è vero anche che pure per gli altri ergastolani, non soggetti a condanna ostativa, questa possibilità è estremamente residuale. Sono pochi gli ergastolani, in sostanza, che non restano in cella fino alla morte, e pertanto il tanto discusso tema dell’eliminazione eventuale dell’ostatività è solo una parte del problema, mentre la vera questione è l’eliminazione dell’ergastolo in toto (i numeri d’altronde ci dicono che tra il 2008 e il 2020 sono state concesse trentatré liberazioni condizionali, mentre centoundici persone soggette all’ergastolo sono morte in galera). Una recente legge approvata dal parlamento, riduce ulteriormente le possibilità di ottenere una liberazione condizionale: bisogna essere sopravvissuti a trent’anni di pena scontata (e non più a ventisei), senza contare che numerose altre condizioni rendono altamente improbabile la possibilità di affrancamento dalla pena. La più dura tra queste prescrive che il detenuto sia obbligato a fornire (dal carcere!) elementi che consentano di escludere l’attualità di collegamenti non solo con l’organizzazione ma anche con il contesto nel quale il reato è stato commesso (una interpretazione, quella del “contesto”, che può essere estesa per esempio a un qualsiasi rapporto di parentela, a una residenza in una stessa città o paese rispetto a membri o ex membri dell’organizzazione, rendendo quindi l’attribuzione del beneficio ancora una volta estremamente difficile e discrezionale). Va ribadito, infine, che la previsione di una pena perpetua contrasta con la Costituzione: se la pena deve tendere alla rieducazione, il fine pena mai è estraneo a questo principio (“rieducare” in vista di cosa?). Per l’eliminazione dell’ergastolo - Nel 1981, con un referendum promosso dal partito Radicale più di sette milioni di italiani si espressero per l’abolizione del “fine pena mai”. Negli anni successivi il movimento “Liberarsi dalla necessità del carcere” nacque tra Parma e Trieste e crebbe rapidamente in tutta Italia, fondato sulla lucidità di operatori con grande sensibilità sociale, legati perlopiù al movimento per l’abolizione dei manicomi, ma anche sull’alleanza con battaglieri amministratori locali. Per citare epoche più recenti, infine, si può tornare al 1998 quando centosette senatori (contro cinquantuno contrari e otto astenuti) votarono a favore dell’abolizione dell’ergastolo partendo da un testo promosso dalla senatrice comunista Ersilia Salvato, prima che la legge si arenasse alla Camera e poi venisse per sempre archiviata con la caduta del governo Prodi, pochi mesi dopo. Da quell’ultimo tentativo sono passati vent’anni, non cento. Abbiamo oggi, trasversalmente, una classe politica più rozza e opportunista, e il bombardamento mediatico che propone le prigioni come il più efficace strumento di gestione dell’ordine sociale e come anestetico alle paure della popolazione ha raggiunto i suoi scopi. Tuttavia - lo spiega bene Sergio Segio in un testo pubblicato qualche tempo fa sulla rivista Vita - anche nelle esperienze appena citate si poteva percepire l’esistenza di “un paese comunque più civile e avanzato dei suoi rappresentanti politici, in maggioranza schierati per la permanenza dell’ergastolo, tentennanti o silenti”. Allo stesso modo, dal basso, “dalla capacità di proporre riflessione, confronto, sensibilizzazione e iniziativa, sia all’interno delle carceri che della società libera”, partirono in quegli anni le spinte che poi sono state all’origine delle innovazioni più avanzate della riforma Gozzini (1986). Perché, allora, questo non può accadere oggi? La battaglia politica per l’abolizione dell’ergastolo può essere portata avanti da ognuno di noi nelle forme e nelle modalità che gli sono più consone, mantenendo ferma all’orizzonte l’idea del necessario superamento della più antistorica delle nostre istituzioni: il carcere. Un obiettivo di civiltà e progresso, che oggi non può e non deve più essere considerato utopia. Cagliari. Socialismo Diritti Riforme: “Nuovo corso di sartoria al carcere di Uta” reportsardegna24.i, 1 novembre 2024 Otto detenute che hanno partecipato a un corso di sartoria, tenuto gratuitamente dalla stilista Emma Ibba nella sezione femminile della Casa Circondariale di Cagliari-Uta, hanno ricevuto, ieri mattina, alla presenza del Direttore Marco Porcu, della responsabile dell’Area Educativa Giuseppina Pani, di Maria Grazia Caligaris, Rina Salis e Anna Lusso di SDR, il primo attestato di partecipazione. Promosso dall’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV” per offrire un’opportunità di formazione, il corso, articolato in tre fasi, si concluderà nei prossimi mesi con il confezionamento di un capo di abbigliamento, a scelta dalle detenute. Con il primo degli attestati, ottenuto anche in seguito a una prova pratica, le allieve hanno appreso la conoscenza dei tessuti e il loro utilizzo, l’imbastitura e l’utilizzo delle macchine lineare e tagliacuci. Come si eseguono le cuciture e le rifiniture. Il programma - ha spiegato Emma Ibba - si è svolto tenendo conto di diversi fattori, a partire dalle capacità innate. Il percorso è stato soddisfacente e ha permesso loro di apprendere le basi di un mestiere artigianale che, soprattutto negli ultimi tempi, è molto ricercato anche nelle case di moda e nelle grandi sartorie. Conoscere l’arte sartoriale può offrire diverse opportunità di lavoro. La consegna dell’attestato conclude solo una prima tappa del progetto che proseguirà nei prossimi mesi. L’intento, oltre a occupare il tempo in modo utile e finalizzato a imparare i rudimenti di un mestiere, è anche quello di far apprezzare il lavoro e accrescere il senso di collaborazione, apprendere a lavorare in equipe”. “Il nostro Istituto - ha sottolineato il Direttore Marco Porcu - è impegnato a offrire corsi di tirocinio formativo alle detenute che spesso, per diversi fattori ed in particolare per il loro esiguo numero, sono di difficile organizzazione. In quest’ottica le attività trattamentali come quella proposta hanno un grande valore”. “Il progetto della stilista Emma Ibba - ha aggiunto Giuseppina Pani - contribuisce in modo sostanziale a quello che è lo scopo rieducativo del carcere. Non si tratta semplicemente di “passare il tempo fuori dalla cella” ma di far condividere momenti di crescita anche professionale insieme al rispetto delle regole”. Soddisfazione è stata espressa dalle detenute che hanno apprezzato l’approccio all’attività e le finalità. Nell’occasione sono stati anche presentate le altre iniziative in fase di definizione. “L’associazione - ha aggiunto Maria Grazia Caligaris presidente di SDR ODV - guarda con particolare favore e sostiene le iniziative culturali che possono mitigare la perdita della libertà favorendo l’attivazione di corsi professionalizzanti, che anche con pochi mezzi possono offrire concrete prospettive di lavoro dopo il carcere a donne che, seppure private della libertà, si sentono parte attiva nella loro riabilitazione sociale”. Napoli. A Secondigliano manifestazione conclusiva del progetto “Cambiamenti” ilsud24.it, 1 novembre 2024 Nel corso dei mesi, il progetto ha coinvolto un gruppo di detenuti in un percorso di formazione e riflessione, volto a stimolare la consapevolezza sulle proprie azioni e a fornire strumenti utili per la gestione dei conflitti in modo pacifico. Attraverso laboratori interattivi, incontri con esperti e testimonianze. I partecipanti hanno avuto l’opportunità di esplorare temi fondamentali quali la comunicazione non violenta, la gestione delle emozioni e la costruzione di relazioni positive. La Cooperativa Il Quadrifoglio ha contribuito con la propria esperienza e competenza nel settore del supporto sociale e della formazione nello sviluppo della progettualità. La sinergia tra Il Quadrifoglio, le istituzioni e il mondo del volontariato si è rivelata fondamentale per il successo di questa iniziativa. Alla manifestazione di chiusura ha presenziato il Garante Regionale dei Detenuti, Samuele Ciambriello insieme a Giulia Russo direttrice della Casa Circondariale di Secondigliano, Carlo Berdini, direttore della Casa Circondariale di Poggioreale, Roberta Gaeta Consigliera regionale, Patrizia Mirra Presidente del Tribunale di Napoli e Lidia Ronghi Presidente de il Quadrifoglio. Durante l’evento, sono intervenuti anche Marina Izzo psicologa, Erica Gigante criminologa, Giacomo Di Gennaro docente universitario e Marialuisa Iavarone docente universitario che hanno sottolineato l’importanza di affrontare insieme le sfide della reintegrazione sociale. “Occuparsi di questi diversamente liberi con un problema in più significa guardare le loro storie da diversi punti di vista e aiutarli a comprendere i loro errori ad essere consapevoli che possono responsabilmente, anche dentro le mura, ripartire. Ecco il valore promosso dalla cooperativa “Il Quadrifoglio” e dai professionisti che hanno operato, che hanno dato un valido contributo ad un cambio di prospettiva anche relativamente al concetto di violenza che ha radici antiche e responsabilità personali ma anche collettive e istituzionali, soprattutto quando si vive l’indifferenza, la non prevenzione o quando si rimuove il tema del carcere” cosi il Garante Regionale dei Detenuti Samuele Ciambriello. “Cambiamenti ha messo in luce l’importanza di creare spazi di confronto e dialogo, in cui i detenuti potessero esprimere le proprie esperienze e difficoltà, ma anche aspirare a un futuro diverso. I risultati ottenuti sono incoraggianti: molti partecipanti hanno dimostrato una crescente consapevolezza riguardo alle conseguenze delle proprie scelte e hanno manifestato un forte desiderio di intraprendere un percorso di cambiamento personale” è quanto dichiarato da Lidia Ronghi, Presidente della Cooperativa il Quadrifoglio. “Siamo convinti - aggiunge la Ronghi - che il cambiamento sia possibile e che, attraverso la formazione e il supporto, si possano costruire alternative valide alla violenza. Il progetto “Cambiamenti” rappresenta un passo importante verso una cultura della responsabilità e della non violenza. Auspichiamo che esperienze simili possano essere replicate in altre realtà”. Il cinema è arrivato a Eboli. I film in anteprima per detenuti e clochard di Laura Aldorisio Corriere della Sera, 1 novembre 2024 Dal 2020 la società di distribuzione cinematografica e audiovisiva “Invisible Carpet” porta anteprime cinematografiche nelle carceri, nelle case famiglie, nelle stazioni ferroviarie, nei quartieri difficili. Silenzio. Il proiettore irradia le prime scene del film. Il fiato sospeso per più di un’ora. Scorrono i titoli di cosa. Silenzio. Sotto il cielo stellato di Eboli. Poi, tutti vogliono parlare, si apre un vero dibattito, un cineforum, ma uno tra loro all’improvviso si alza e dice: “Questa sera sono al cinema e vedo le stelle, ma non da dietro le sbarre, qui, nel chiostro. E mi sento libero”. Lui è uno dei detenuti che nel luglio 2020 assiste, dentro all’Istituto a custodia attenuata a Eboli, alla prima proiezione organizzata da Stefania Rifiordi. Sua è la pazza idea di Invisible Carpet, la società di distribuzione cinematografica e audiovisiva, che realizza anteprime cinematografiche per gli invisibili. “Perché tutto questo? È quello che mi domando anch’io”, dice sorridendo. Rifiordi nasce come giornalista, si converte alle attività di ufficio stampa per il cinema e, così, entra a stretto contatto con i luccicosi red carpet, da Venezia a Cannes. Ma in lei queste occasioni non giocano solo l’attrattiva inevitabile. “Mi ribellavo all’evidenza che, mentre le grandi star solcavano quel tappeto, molti altri non l’avrebbero mai nemmeno sfiorato. Per me era assolutamente ingiusto”. Poi l’intuizione. “Se le luci del cinema non possono illuminare tutti, allora portiamo il cinema a tutti gli invisibili”. Bussa svariate porte, non poche, finché si apre uno scorcio con Invitalia che le chiede di presentare un progetto. Il via le viene concesso l’8 marzo 2020, all’alba del lockdown. “Dopo il primo sconforto, mi sono messa a lavorare, investimento puro. Compravo i film che volevo portare agli invisibili, cercavo sponsor perché acquistassero i biglietti sospesi, la formula che mi avrebbe sostenuto”. E le prime risposte arrivano, tra cui la Nazionale Cantanti. Così, passo passo Stefania porta il cinema dentro i posti più delicati e nascosti. Come in una casa famiglia a Battipaglia. “A raccontarlo mi viene ancora il groppo in gola”. Era Natale, ha steso il tappeto rosso, portato le poltrone da cinema, i bicchieri con i popcorn, la coca cola. “I bambini si sono sentiti al centro perché era un’anteprima cinematografica, “Ana” con Andy Garcia, tutta per loro”. Poi, mentre Babbo Natale, che lei stessa aveva invitato, distribuisce i regali, si avvicina all’albero di Natale e legge le letterine. Chiedevano tutti i palloni e la maglia del Napoli. “Come avevo fatto a non pensarci?”. Non si scoraggia, riesce a contattare De Laurentis che fa recapitare ai bambini gli oggetti dei loro desideri. “Era tutto sovrabbondante, ma più di tutto mi ha sorpreso il loro affetto, erano loro ad accogliere me, proprio loro che sono invisibili, che sembrano lontani da noi, che vivono ai margini, non connessi con il tessuto sociale. Attraverso il cinema, invece, si sono trovati sotto i riflettori”. Ma non è tutto. Un’altra anteprima ha sorpreso migliaia di viaggiatori che, solitamente, camminano in fretta per non perdere il treno. La scena era particolare: decine di senzatetto sedute sulle poltrone da cinema, con le cuffie, che guardavano un film proiettato negli schermi a lato del tabellone degli orari. Con la collaborazione di Grandi Stazioni e a braccetto con Fondazione Arca è stato possibile nello stesso giorno in contemporanea nelle stazioni Termini a Roma, Milano centrale, Napoli centrale. “Era bellissimo quando qualcuno mi chiedeva “ma noi possiamo?” e io dicevo: no, è solo per loro, gli invisibili. Dall’altra, i senzatetto mi chiedevano: “ma tutti i giorni ci sarà il cinema?” o altri che mi dicevano “sono sette anni che non vedevo un film”“. Poi ancora nei quartieri difficili, Corviale a Roma, Rione Sanità a Napoli. Ora una grande novità: “Invisible carpet per la prima volta esce al cinema con un film di cui ancora si può dire poco, se non che vuole portare attenzione ai giornalisti ostacolati nel loro mestiere da diversi regimi”. Appuntamento al 28 novembre. Il futuro, poi, per Stefania veste anche la possibilità di produrre, oltre che distribuire. “Ma siamo alla continua ricerca di sponsor, è un’avventura aperta. So che è una goccia nell’oceano, ma io intanto voglio fare di tutto perché quella goccia arrivi nell’oceano”. Procida, Ventotene, S. Stefano: la rinascita delle ex isole-carcere dei Borboni di Marco Molino Corriere della Sera, 1 novembre 2024 I luoghi di detenzione e sofferenza abbandonati da tempo di queste tre gemme del Tirreno sono in via di recupero per finalità storiche, artistiche o culturali. Gli ottomila chilometri di coste italiane sono impreziositi da una costellazione di circa ottocento isole, al novanta per cento disabitate. Oasi senza tempo che purtroppo l’intervento dell’uomo ha tramutato talvolta in luoghi di pena. Un’oscura deriva che cancella l’originaria dimensione del sogno ma che non è irreversibile, come dimostrano le comunità di Procida, Ventotene e Santo Stefano, le tre gemme tirreniche che divennero carcere in epoca borbonica e oggi sono invece protagoniste di una nuova stagione di valorizzazione del patrimonio culturale. Il vento sibila incessante lungo i corridoi ormai disabitati delle imponenti strutture penitenziarie circondate dal mare in cui furono segregati pericolosi criminali ma anche oppositori politici della casa regnante. Intrise di sofferenza, quelle mura sono testimoni di cruente vicende spesso dimenticate. In quei bagni penali scoppiavano frequenti rivolte tra i detenuti e terribili erano le punizioni inflitte dalle guardie. Il patriota napoletano Luigi Settembrini, recluso a Santo Stefano dal 1851 al 1859, rievocò in un suo scritto le cosiddette battute: “Il colpevole è disteso bocconi sopra uno scanno in mezzo al cortile, e da due aguzzini con due grosse funi impiastrate di catrame ed immollate nell’acqua, è battuto fieramente sulle natiche e sui fianchi”. Nella prigione edificata “a ferro di cavallo” nell’arcipelago ponziano, scontò la sua condanna per cospirazione pure il filosofo Silvio Spaventa, la cui salute fu irrimediabilmente minata dalle precarie condizioni detentive. Pochi anni prima, nel 1848, il carcere di Procida fu invece sconvolto da un vero e proprio eccidio con la morte di 141 galeotti “trapassati nel conflitto del fuoco - riporta la cronaca dell’epoca - fatto dalle truppe in occasione della tentata evasione dei servi di pena”. “Isolamenti” è il significativo titolo di una mostra organizzata nel 2023 dall’Archivio di Stato di Napoli, evento che ha dato il via ad una sorta di gemellaggio tra la piccola isola del Golfo partenopeo e i due avamposti in provincia di Latina con una raccolta complessiva di mappe, planimetrie e corposi registri dell’amministrazione penitenziaria. Ma anche struggenti lettere dei detenuti, memoriali e illustrazioni. Preziosi documenti che ripercorrono quasi un secolo di storia, dal 1770 al 1860. “La mostra ha evidenziato come i Borbone, dinastia aperta alle influenze dell’illuminismo ma insieme espressione di un potere assoluto, abbiano interpretato nelle tre isole diverse forme di carcerazione e repressione”, spiega Silvia Costa, già commissario straordinario per il recupero dell’ex carcere di Santo Stefano-Ventotene, che insieme all’Archivio partenopeo ha avviato un progetto di digitalizzazione delle carte riguardanti la storia dell’ergastolo laziale in epoca preunitaria. Oltre al contributo dei documenti, possiamo ancora “ascoltare” l’eco di quel mondo che risuona nelle superstiti strutture carcerarie. A Procida i prigionieri erano rinchiusi nel cinquecentesco Palazzo d’Avalos, oggi al centro di radicali interventi di riqualificazione con l’obiettivo di creare “un ecosistema di ricerca, arte e cultura”. L’area museale del rigenerato complesso - che insieme alle ex celle comprende la direzione carceraria, l’ex opificio, la medicheria e il padiglione delle guardie - sarà dedicata proprio alla memoria di quegli sventurati che vedevano il mare da dietro le sbarre. Anche per la casa circondariale dell’isola di Santo Stefano, chiusa definitivamente nel 1965, è in corso il restauro finalizzato ad ospitare la “Scuola di Alti Pensieri” intitolata a David Sassoli per lo studio e la formazione dei diritti umani e del moderno concetto di pena. Previsto inoltre un percorso museale di carattere storico, uno spazio artistico creativo e opportunità di studio per giovani ricercatori. La piena operatività sarà raggiunta nel 2031, ma è già attualmente visitabile. E pure nella Ventotene santuario degli ornitologi, tristemente nota come luogo di confino in epoca fascista per intellettuali e politici invisi al regime, si tengono seminari presso l’Istituto di Studi Federalisti Altiero Spinelli, intitolato all’autore del Manifesto di Ventotene “Per un’Europa Libera e Unità”, redatto nel 1943 insieme ad Ernesto Rossi. Lezioni di dignità e giustizia nelle ex isole carcere. Con il ddl sicurezza il codice penale fa un salto nel passato di Stefano Zirulia Il Manifesto, 1 novembre 2024 Si rischia il ritorno a una condizione dei rapporti tra Stato e individui che ci eravamo illusi di avere archiviato. Alcune nuove delle disposizioni sono campanelli d’allarme. L’espressione “fascista”, riferita a riforme e altre iniziative della maggioranza al governo, dovrebbe essere utilizzata con cautela, non foss’altro perché si tratta pur sempre (per ora) di provvedimenti adottati nella cornice di uno stato democratico di diritto. Non è così per il codice penale. Entrato in vigore nel cuore del ventennio, il codice che porta la firma del ministro Alfredo Rocco riflette ancora alcune caratteristiche tipiche di un regime autoritario: pene detentive estremamente severe, misure di sicurezza, reati di opinione, forme di responsabilità oggettiva e via dicendo. La sopravvivenza del codice Rocco alla caduta del fascismo e all’avvento della Costituzione si spiega non solo in ragione del fallimento dei progetti di nuova codificazione, ma anche e soprattutto alla luce di puntuali interventi della Corte costituzionale (si pensi alla cancellazione del reato di sciopero), all’attività interpretativa della magistratura ordinaria, nonché alle riforme che, dal dopoguerra a oggi, ne hanno via via smussati gli angoli più appuntiti. Tuttavia, riforme come quella racchiusa nel “ddl sicurezza” vanno nella direzione diametralmente opposta, riportando pericolosamente le lancette del tempo verso una condizione dei rapporti tra Stato e individui che ci eravamo forse illusi di avere definitivamente archiviato. Alcune delle nuove disposizioni rappresentano veri e propri campanelli d’allarme di questa deriva. Si pensi al nuovo reato di lesioni lievi o lievissime ad agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza: condotte finora sanzionate con la reclusione da sei mesi a tre anni verranno punite con la reclusione da due a cinque anni, ossia una pena che consentirà di applicare la custodia cautelare in carcere durante le indagini e l’eventuale processo. Ma non è tutto. Se il reato verrà commesso durante manifestazioni in luogo pubblico, il sospettato potrà essere arrestato non solo se colto in flagranza, come accade di regola per intuitive esigenze di garanzia, ma anche nelle 48 ore successive, laddove sia identificato sulla base di video o fotografie (“flagranza differita”). Si tratta di novità che tendono a ripristinare quella “concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini” che la Corte costituzionale ha già avuto modo di censurare nella sentenza sull’oltraggio a pubblico ufficiale del 1994. Nella stessa direzione va anche il rafforzamento dell’apparato sanzionatorio dei reati di violenza o resistenza a pubblico ufficiale. Se la legge entrerà in vigore, alle sanzioni scaturite dalla penna, tutt’altro che leggera, di Alfredo Rocco, si affiancherà una circostanza aggravante applicabile nel caso in cui il reato venga commesso contro agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, nonché nel caso in cui il reato sia commesso al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o un’infrastruttura strategica. Sorgono, anche qui, seri dubbi sulla legittimità costituzionale della riforma, alla luce del principio di proporzionalità della pena. All’obiezione per cui tali novità sarebbero destinate a colpire soltanto gli autori di condotte violente (obiezione che in ogni caso non restituirebbe legittimità costituzionale a disposizioni che ne sono prive), è facile rispondere che l’impianto generale del ddl rivela finalità repressive ben più estese: la criminalizzazione del blocco stradale e quella della resistenza passiva in caso di rivolte nelle carceri e nei centri di trattenimento per migranti (non solo i Cpr), luoghi dove le condizioni di vita risultano spesso oggettivamente intollerabili, sono infatti pensate proprio per colpire anche coloro che protestano, o manifestano un disagio, in maniera risoluta ma pacifica. Di segno diametralmente opposto è il messaggio rivolto alle forze dell’ordine, alle quali la riforma concede il diritto di portare le armi da fuoco, senza licenza, quando non sono in servizio; un beneficio economico a copertura delle spese legali per i fatti inerenti all’esercizio delle funzioni (salvo rivalsa in caso di condanna per reato doloso); e al contempo si limita a prevedere la facoltà (non l’obbligo) di indossare le bodycam (non vi è traccia, invece, del codice identificativo sulle divise, di cui Amnesty International invoca da anni l’introduzione). Posto che difficilmente si assisterà, negli ultimi passaggi parlamentari, a significative modifiche, una volta che il pacchetto sicurezza sarà in vigore la parola passerà inevitabilmente agli avvocati difensori e alla giurisdizione, ordinaria e costituzionale, ai quali spetterà il compito di riportare nei binari della Costituzione un codice penale il cui volto umano, certo ancora imperfetto, rischia di essere presto sfregiato. Scuola. Così la polizia spiega agli studenti come usare il manganello di Valerio Cuccaroni Il Domani, 1 novembre 2024 Il 29 ottobre una classe di un liceo di Genova è stata all’Expo Training 2024 di Milano per completare il PCTO (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento). Davanti a loro hanno trovato un dispiegamento di stand delle forze dell’ordine. Una delle studentesse ha ascoltato promuovere l’uso “gratificante” del taser e pronunciare battute sessiste, da parte dei militari, sull’impiego delle manette. Allibito dalla scena che si è trovata davanti, qualcuno ha iniziato a filmare. Nel video si scorge un agente di polizia che insegna a uno studente come si usa il manganello. Prima fa sistemare un altro ragazzo dietro uno scudo di gommapiuma, poi porge il manganello allo studente. A fianco del ragazzo con lo scudo, si vede una persona tutta vestita di rosso, compreso il casco che porta in testa. Uno studente commenta: “Lo fa apposta per imitare i comunisti”; una studentessa gli fa eco, sussurrando, forse scherzosamente: “Comunisti merda”; un altro sta al gioco ed esclama: “Rosso!”; una voce femminile differente interviene: “Guarda che sono i comunisti, è allenamento”; lo studente reagisce: “Sì, è allenamento alla violenza, però”; un’altra incalza: “Contro i comunisti”; il ragazzo conferma: “Sì”; a quel punto, uno stupito domanda: “Oh, ma gli hanno dato un manganello?” e l’altro risponde: “Sì, è un manganello”. Insomma, i liceali genovesi hanno osservato dei loro coetanei e ragazzi più piccoli a cui le forze dell’ordine insegnavano a manganellare e fra loro si sono chiesti se quella non fosse istigazione alla violenza. Alcatrazland - All’interno della fiera, nello stand della Polizia penitenziaria, c’era anche una cella. Una specie di Alcatrazland. La mamma di una studentessa ha scritto al preside del liceo di Genova che si è detto disponibile ad approfondire. Lo scopo dell’uscita didattica era accumulare ore di PCTO per alcuni allievi che ne erano sprovvisti e le spese per l’attività sono state ricavate dai fondi Pnrr. Venuta a conoscenza dell’accaduto, la segretaria generale Flc Cgil di Genova, Elena Bruzzese, ha così commentato l’accaduto: “Il ricorso alla violenza promosso attraverso la militarizzazione della scuola e delle attività didattiche connesse è quanto di più lontano sia previsto dai piani dell’offerta formativa e dalle finalità stesse dell’educazione alla pace e alla convivenza democratica. Quanto ci hanno riportato alcuni genitori circa l’accaduto all’Expo Training 2024 di Milano, se confermato, è molto grave. I percorsi nati dall’esperienza scuola/lavoro, come tutte le esperienze didattico educative all’interno della scuola pubblica, devono educare alla pace, ancor più oggi in un contesto globale di guerre e tensioni internazionali”. La presenza delle forze dell’ordine a Expo Training è prevista da anni e le scuole hanno assistito a scene del genere anche in passato: qualche studente ha anche provato “l’emozione” di entrare nella cella riprodotta in loco. L’episodio è stato segnalato all’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e dell’università, che mercoledì 30 ottobre ha promosso un convegno online, in collaborazione con l’associazione “Per una scuola della Repubblica”, sul “4 novembre. Fuori la guerra dalla storia e dalla scuola”, con il presidente di Pax Christi Don Giovanni Ricchiuti, i professori universitari Laura Marchetti (antropologa e pedagogista) e Charlie Barnao (sociologo), tra gli altri. Presente al convegno anche il docente antimilitarista e giornalista Antonio Mazzeo, che insieme alla segretaria nazionale della FLC CGIL, Gianna Fracassi, interverrà a un’iniziativa formativa sull’argomento, il 5 dicembre, a Torino e in Valle d’Aosta. Migranti. Gli emendamenti eterodossi di Forza Italia sull’accoglienza di Kaspar Hauser Il Manifesto, 1 novembre 2024 Proposte di modifica identiche a quelle delle opposizioni. L’esecutivo potrebbe andare sotto. Il Decreto flussi all’esame della Commissione affari costituzionali della Camera non diventa più solo il contenitore entro cui far confluire il decreto “Paesi sicuri”. La presentazione degli emendamenti da parte dei gruppi parlamentari, avvenuta martedì pomeriggio, apre una prospettiva politica inedita: infatti Forza Italia ha depositato alcune proposte di modifica “eterodosse”, che mirano a favorire l’integrazione degli stranieri che lavorano in Italia. Si tratta di emendamenti ufficiali e non dell’iniziativa del singolo parlamentare, dato che sono firmati dal responsabile immigrazione del partito, Alessandro Battilocchio, un fedelissimo di Tajani, oltre che dal capogruppo in commissione Paolo Emilio Russo. Quest’ultimo ha sottoscritto tre emendamenti per certi versi ancora più clamorosi: chiedono di sopprimere tre articoli del decreto che a loro volta abbassavano le garanzie degli stranieri nelle controversie sulla revoca dei permessi di soggiorno. Emendamenti soppressivi identici a quelli presentati dalle opposizioni, che la prossima settimana - quando si inizierà a votare - avranno l’occasione di provocare una spaccatura nella maggioranza, se appoggeranno le proposte di Fi. Il primo emendamento Battilocchio, “in attesa di rilascio di permesso di soggiorno” al cittadino straniero che ne fa richiesta, consente “l’apertura di conto corrente al lavoratore straniero in possesso di passaporto e che abbia sottoscritto il contratto di soggiorno unitamente al datore di lavoro”, e questo “al fine di garantire la tracciabilità dei flussi di denaro”; in buona sostanza per contrastare il lavoro nero e il caporalato. Il secondo emendamento prevede che “le associazioni di rappresentanza dei lavoratori stranieri, iscritte al Registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività in favore degli immigrati”, possano “svolgere il compito di accompagnamento dei lavoratori in ingresso fino all’assunzione tramite percorsi informativi e canali di dialogo con prefetture e questure”. La terza proposta mira all’integrazione del lavoratore straniero: chiede l’istituzione di un “Fondo a sostegno della formazione professionale e civico-linguistica degli stranieri”, dotato inizialmente di 5 milioni per il 2024, a cui potranno accedere gli enti che presentino programmi di formazione professionale e civico-linguistica. La Commissione affari costituzionali è composta da 31 deputati (30 se non si conta il presidente che solitamente non vota, Nazario Pagano di Fi), di cui 18 del centrodestra, compresi 3 di Fi e due di Noi moderati. Se Fi, magari appoggiata da Noi moderati, insistesse sulle proprie proposte, le opposizioni avrebbero la possibilità di mandare sotto il governo e soprattutto di aprire un dibattito sulla condizione dei cittadini stranieri che vivono in Italia e sulla gestione dei loro ingressi. Interessanti anche i tre emendamenti soppressivi di altrettanti articoli del decreto. Sono emendamenti garantisti, visto che mantengono l’attuale previsione che sia un giudice collegiale e non monocratico a pronunciarsi sulle istanze di revoca dei permessi di soggiorno, come invece vuole fare il decreto. Finalmente un garantismo a favore di chi ne ha bisogno. Migranti. Nella Manovra norme già rinviate alla Consulta dai tribunali perché discriminatorie di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2024 Nel testo del disegno di legge di Bilancio inviato al Parlamento il governo ha infilato alcune novità già accusate di discriminare gli stranieri che risiedono nel nostro Paese. A puntare il dito individuando i passaggi controversi nel testo è l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi). La stessa che ha appena ottenuto il rinvio alla Corte Costituzionale della finanziaria dell’anno scorso che escludeva le lavoratrici straniere madri con contratti a termine e di lavoro domestico dal taglio del cuneo contributivo. I legali Alberto Guariso, Livio Neri e Mara Marzolla, hanno ottenuto il rinvio dal Tribunale di Milano perché la norma nega un vantaggio retributivo proprio alle donne che generalmente hanno paghe più basse. Intanto la norma è già stata ripresa identica dalla nuova legge di Bilancio 2025. E a questa discriminazione delle persone straniere, avvertono gli avvocati dell’Asgi, si aggiungono adesso altri tre nuovi casi. Aumento del contributo per le controversie in materia di cittadinanza - Il primo caso segnalato dai legali di Asgi riguarda l’articolo 106 della proposta di legge, che prevede l’aumento a 600 euro del contributo per le “controversie relative all’accertamento della cittadinanza italiana”. L’innalzamento colpirebbe in particolare le domande di cittadinanza iure sanguinis che attualmente pagano già un contributo unificato di 518 euro, costringendo le famiglie a pagare la somma rincarata per ciascun componente che richiede la cittadinanza anche se la domanda è presentata congiuntamente dal nucleo. Un caso unico, “perché in tutti gli altri contenziosi giudiziari con più attori, come nel caso dei condomini che agiscono assieme, il contributo da pagare allo Stato è unico”, fa notare Asgi. Certa che tale misura ostacoli l’accesso alla giustizia per le famiglie più vulnerabili per scoraggiare le richieste di cittadinanza. “Se il governo intende ridurre le possibilità di acquisizione della cittadinanza iure sanguinis lo faccia apertamente, modificando la legge, non certo scoraggiando l’accesso alla giustizia delle persone più povere”, scrive l’associazione. Esclusione delle detrazioni fiscali per i cittadini extra Ue - Il secondo profilo critico emergerebbe dall’articolo 2, comma 10, che limita l’accesso alle detrazioni fiscali per le famiglie con figli a carico residenti all’estero esclusivamente ai cittadini italiani e dell’Unione europea. L’esclusione dei cittadini extra Ue sarebbe però in aperto contrasto con le normative europee. L’articolo 11, comma 1, lett. e) della Direttiva 109/2003 e l’articolo 12, comma 1, lett. f) della Direttiva 198/2011 prevedono - rispettivamente per i titolari di permesso di lungo periodo e per i titolari di permesso unico lavoro - la parità di trattamento con i cittadini dello stato ospitante per quanto riguarda le “agevolazioni fiscali”. La legge di bilancio violerebbe entrambe le direttive, già al centro di contenziosi poi chiariti, si sperava una volta per tutte, dalla Corte di Giustizia Ue e dalla Consulta. Insomma, ci sarebbe sufficiente giurisprudenza perché il legislatore non decidesse di perseverare. Niente “bonus nuove nascite” alle donne con protezione internazionale - Il terzo punto riguarda l’introduzione del “bonus nuove nascite”, previsto dall’articolo 31, un contributo una tantum di mille euro per ogni figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2025. Le donne titolari di protezione internazionale, tuttavia, vengono escluse da questo beneficio, contravvenendo all’articolo 29 della Direttiva 2011/95, che garantisce parità di trattamento con i cittadini del paese ospitante. Asgi chiede, per ragioni di equità, che “il permesso di soggiorno per protezione internazionale (rifugiato politico o titolare dello status di protezione sussidiaria) sia inserito nella lista di titoli idonei per la fruizione della prestazione”. Esclusione delle lavoratrici a termine e domestiche dalla riduzione contributiva - Infine c’è l’articolo che mantiene l’esclusione delle lavoratrici già rinviato alla Consulta il 23 ottobre scorso dal Tribunale di Milano. Riguarda le madri con contratto a termine e quelle con rapporto di lavoro domestico a cui già la scorsa finanziaria negava la riduzione della quota contributiva e così il relativo aumento della retribuzione netta. Il Tribunale ha evidenziato come l’esclusione rappresenti una discriminazione indiretta nei confronti delle lavoratrici straniere che viola gli articoli 3 e 31 della Costituzione. Non solo. Secondo la magistratura milanese, “l’esclusione contrasta anche con la direttiva europea che vieta disparità di trattamento tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato ed è indirettamente discriminatoria nei confronti delle lavoratrici straniere che, molto più spesso delle italiane, sono presenti nel mercato del lavoro con rapporti a termine o di lavoro domestico”, ha riportato l’Asgi in un suo comunicato. Turchia. Erdogan come Putin, gli avvocati nella tenaglia della repressione di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 1 novembre 2024 Il quadro desolante sui diritti in Turchia che emerge dall’ultimo rapporto dell’Oiad: processi sommari, intimidazioni, minacce, torture e difensori assimilati ai loro clienti. L’Oiad (Osservatorio degli avvocati in pericolo al quale aderisce anche il Consiglio nazionale forense), ha presentato alla Nazioni Unite il rapporto sulla situazione dell’avvocatura in Turchia. Il quadro è desolante. I legali che difendono gli oppositori politici vengono assimilati ai loro assistiti - una vera e propria aberrazione giuridica alla quale si assiste pure nella Russia di Putin - con costanti pericoli. Processi sommari, violazione delle più elementari garanzie processuali, condanne e trattamenti disumani in carcere, tortura compresa, sono una triste realtà. I principii fondamentali di libertà di espressione e indipendenza dell’avvocatura vengono sistematicamente violati. Per questo motivo l’Oiad ha voluto sensibilizzare le Nazioni Unite rispetto ad una realtà che non può essere relegata in un angolo e sacrificata in nome di un rapporto con la Turchia di Erdogan basato solo su questioni economiche e di convenienza. “Da diversi anni - evidenzia l’Oiad - molti avvocati sono vittime di persecuzioni di massa, detenzioni arbitrarie e arresti per l’impegno nella difesa dei diritti fondamentali dei loro clienti. Questa situazione allarmante è aggravata dal fatto che gli avvocati sono spesso associati ai loro clienti, rendendoli vulnerabili alle rappresaglie delle autorità. Inoltre, la mancata attuazione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo sottolinea il crescente disprezzo per gli standard internazionali sui diritti umani. Le accuse di tortura e i maltrattamenti in detenzione evidenziano le condizioni disumane alle quali sono sottoposti gli avvocati, con la compromissione non solo della loro sicurezza, ma anche dell’integrità del sistema giudiziario nel suo complesso. Il nostro rapporto mira a esaminare una preoccupante realtà e a evidenziare le sfide affrontate dagli avvocati in Turchia nell’esercizio della professione forense. Per affrontare questa situazione, lo Stato deve adottare misure concrete per proteggere gli avvocati, garantire l’indipendenza dell’avvocatura e rispettare gli impegni internazionali sui diritti umani”. La situazione si è via via aggravata ed è precipitata otto anni fa, dopo il tentato colpo di Stato del 15 luglio 2016 che ha generato norme liberticide (si pensi alla legge antiterrorismo). A farne le spese migliaia di legali. Il presidente dell’Ordine degli avvocati di Konya è stato arrestato. Dal 2016 sono stati perseguiti più di 1.700 avvocati, 700 sono stati sottoposti a custodia cautelare in carcere. Più di cinquecento professionisti sono stati condannati a un totale di 3.380 anni di carcere. La legge di contrasto al terrorismo è una nota dolente, una sorta di clava con la quale le autorità turche sono in grado di colpire indiscriminatamente cittadini e avvocati critici nei confronti del governo. “La Turchia - scrive l’Oiad - ha utilizzato arbitrariamente la legislazione antiterrorismo per perseguire i dissidenti, in particolare avvocati, giornalisti e politici dell’opposizione. La definizione eccessivamente ambigua e ampia di terrorismo e appartenenza a un’organizzazione terroristica, indicata dalla legge, consente di classificare gli avvocati, compresi quelli che si occupano di diritti umani, come “criminali terroristi”, aumentando le azioni penali arbitrarie e l’intervento giudiziario”. È utile ricordare che l’articolo 314 del Codice penale turco non contiene una definizione né di “organizzazione armata” né di “gruppo armato”. Un’ambiguità che permette di applicare in maniera arbitraria le norme. Il report dell’Oiad è il risultato delle numerose missioni alle quali hanno partecipato avvocati di diversi Paesi, Italia compresa con gli avvocati Barbara Porta e Antonio Fraticelli, per verificare l’andamento dei processi nei quali sono imputi i colleghi turchi e i trattamenti loro riservati in carcere. Sono stati segnalati cinque casi di tortura. In questo contesto l’indipendenza della magistratura e le garanzie di un giusto processo sono a dir poco assenti. Il documento dell’Osservatorio degli avvocati in pericolo si conclude con alcune raccomandazioni. L’organizzazione con sede a Parigi chiede che agli avvocati turchi sia garantita la possibilità “di svolgere tutte le loro funzioni senza intimidazioni, ostacoli, molestie o interferenze improprie”. Inoltre, si chiedono il rilascio degli avvocati che sono stati “imprigionati per aver esercitato la loro professione” e la valorizzazione “del ruolo chiave degli avvocati impegnati nella difesa dei diritti umani e dello Stato di diritto”. Una piccola speranza si è però accesa in Turchia. Riguarda la recente elezione del costituzionalista Ibrahim Kaboglu alla carica di presidente dell’Ordine degli avvocati di Istanbul (si veda Il Dubbio del 23 ottobre). Kaboglu (74 anni) è considerato, anche per i trascorsi politici, una figura di equilibrio, da sempre attento ai diritti umani. L’Ordine di Istanbul è uno dei più grandi del mondo con oltre 64 mila iscritti. “L’avvocatura - ha commentato Kaboglu subito dopo essere stato eletto - deve offrire costantemente un contributo al legislatore, affinché si ispiri ogni giorno ai principii che ci stanno a cuore. L’avvocatura di Istanbul è una grande realtà, composta da avvocati che svolgono un servizio pubblico, mettono in risalto la legge e difendono lo Stato di diritto”. Iran. La Nobel per la Pace Mohammadi trasferita dal carcere di Evin all’ospedale di Greta Privitera Corriere della Sera, 1 novembre 2024 “Sono nove mesi che chiede di essere curata”. La Repubblica islamica le ha permesso il ricovero: “Con nove settimane di ritardo”, scrivono al Corriere dalla Free Narges Coalition. Dopo nove settime, alla fine, le autorità carcerarie di Evin hanno chiamato l’ambulanza. Questa mattina, l’attivista iraniana e Nobel per la Pace, Narges Mohammadi, è stata portata in ospedale. La Repubblica islamica le ha permesso il ricovero: “Con nove settimane di ritardo”, scrivono al Corriere dalla Free Narges Coalition. La Coalizione Free Narges chiede, supplica, pretende che a Mohammadi venga concesso un congedo medico per ricevere un trattamento completo per molteplici condizioni fisiche, gravi. “Il semplice trasferimento in ospedale non risolverà i gravi problemi di salute causati da mesi di abbandono e privazione di cure”, scrivono. Chiediamo di spiegarci in modo dettagliato quali siano i problemi di salute di Mohammadi. E ci mandano un bollettino medico che spiegherebbe il suo stato di malessere: “Secondo un referto angiografico del 18 marzo 2024, l’arteria principale del cuore, su cui è stato applicato nel 2021 uno stent a causa di un’ostruzione del 75%, riscontra nuovi danni e necessita al più presto di un’altra angiografia. Durante un esame avvenuto l’8 luglio 2024, i medici hanno scoperto un nodulo al seno destro. Sebbene i test abbiano confermato che il nodulo è benigno, richiede follow-up e monitoraggio. Secondo le istruzioni di uno specialista, Narges, che soffre di gravi dolori alla schiena, necessita di sedute di fisioterapia, negate dal regime”. Il 9 ottobre, dalla cella del carcere di Evin, Mohammadi ha rilasciato un’intervista esclusiva al Corriere in cui raccontava come la Repubblica islamica la stesse ricattando negandole le cure: “Le mie visite mediche sono state gravemente ostacolate. Nell’ultimo mese, nonostante un ordine di un cardiologo per una coronarografia urgente, non mi è stato concesso di uscire. In generale, la strategia del regime è il deterioramento della mia salute fisica”. Mohammadi è condannata a 36 anni e 9 mesi di carcere per aver difeso i diritti delle donne. Sabato, le autorità iraniane hanno emesso contro di lei un’ulteriore condanna a sei mesi dopo che l’attivista ha protestato contro l’esecuzione di un altro prigioniero politico. Venezuela. Gettati in una prigione e torturati: il dramma dei ragazzi “terroristi” di Estefano Tamburrini Avvenire, 1 novembre 2024 Miguel ha 16 anni, da 3 mesi è in carcere: il regime lo accusa di aver partecipato alle manifestazioni contro Maduro. La madre: non mangia più. Gli avvocati: cancellato il diritto alla difesa. Terrorista: così viene chiamato Miguel Urbina, sedicenne venezuelano in carcere da tre mesi dove viene sottoposto a torture quotidiane: calci, pugni, scosse elettriche. Talvolta nelle celle viene lanciato anche il gas lacrimogeno. Miguel ha detto a sua madre di non voler più mangiare. Il regime lo accusa di aver partecipato alle manifestazioni post-voto scoppiate la sera del 28 luglio contro Nicolàs Maduro, contestato per l’ultima frode elettorale e la persecuzione capillare contro ogni forma di dissidenza. Irregolarità queste già denunciate dal Centro Carter in sede Onu e dallo stesso Parlamento Europeo, che a tale proposito ha consegnato il premio Sakharov 2024 all’ex candidato presidenziale Edmundo Gonzalez Urrutia e alla leader dell’opposizione Maria Corina Machado. “Ma Miguel non ha partecipato alle proteste”, sostiene la madre mentre denuncia le condizioni inumane della sua prigionia: “L’ho trovato percosso, con segni di tortura; ha perso qualche chilo e non ha la possibilità di lavarsi”. La storia di Miguel è anche quella di altri 68 ragazzi, tra i quattordici e sedici anni, accusati anche loro di terrorismo. Sono stati portati via durante la cosiddetta Operaciòn Tun Tun, che prevede irruzioni improvvise dei corpi di sicurezza nelle abitazioni di attivisti e sostenitori dell’opposizione. “Non vediamo l’ora di uscire da questo inferno”, si legge in una lettera firmata dal giovane e da altri adolescenti compagni di cella: “Stiamo pagando per reati che non abbiamo commesso?”. Una via d’uscita era stata offerta dalle guardie a suo tempo: confessare per essere rilasciati. Dovevano dire in pubblico di essere stati pagati dall’opposizione per destabilizzare il Paese. Loro però non ce l’hanno fatta, subendo l’accanimento delle guardie. E dietro la loro Via Crucis restano soltanto le madri, che recentemente si sono recate alla prigione di Tocuyito, tra le più pericolose del Paese, per chiederne la scarcerazione. Qualche settimana prima erano andate davanti all’Unicef di Caracas. Hanno l’espressione stanca e lo sguardo colmo di ansia e disperazione. Ciascuna porta sempre con sé la foto del figlio: quei sorrisi ancora infantili, che non combaciano con le accuse di terrorismo. “Innocenti o meno, questi detenuti non contano sul diritto alla difesa”, sottolineano gli avvocati di “Foro Penal”, associazione legale pro bono che assiste le persone detenute arbitrariamente: 18mila nell’arco di un decennio, di cui 9mila sotto libertà condizionata e quasi 2mila ancora dietro le sbarre. “È una storia già vista e il tempo non scorre a loro favore: assistiamo persone che da più di sette anni aspettano l’udienza preliminare”. Dal canto suo, il regime non si fa scappare alcun cenno di pietà. A confermarlo è il numero due, Diosdado Cabello, che all’emissione “Con el mazo dando” (cioè “Colpendo con la mazza”) ha bollato il caso come una “campagna mediatica dell’opposizione, in cerca di impunità per continuare a usare i figli del popolo”. A pochi metri dal presepe allestito per il Natale anticipato per decreto, Cabello ha aggiunto che “si tratta di una battaglia che andrà fino in fondo, non importa quanto duri”. E la “battaglia” può raggiungere chiunque, come sostiene Marta Valiñas, rappresentante della missione Onu nel Paese sudamericano, che ha denunciato “l’intensificarsi dell’apparato repressivo dello Stato in risposta a tutto ciò che viene percepito come critica”. Tant’è che l’eccessivo uso della forza rischia di isolare il regime da quelli che un tempo, nell’era Chàvez, furono i suoi stretti alleati. Lo ha dimostrato il veto posto dallo stesso presidente brasiliano, Luiz Inàcio Lula Da Silva, sulla candidatura di Caracas ai Brics.