Alla Mecca dei detenuti, dove muoiono soffocati anche i detenenti di Sergio D’Elia* L’Unità, 19 novembre 2024 Siamo andati in pellegrinaggio alla Mecca dei detenuti, ma non abbiamo trovato la sacra moschea, non c’era un dio da pregare né una pietra nera da adorare. Il luogo che abbiamo visto è da tempo sconsacrato, lì dio è morto, le tavole della legge di ogni fede sono state frantumate. Non mette conto dire qual è il carcere che abbiamo visitato, perché è ormai un luogo comune a molti altri. In tutti il diritto si è volto al torto e, di torto in torto, la condizione è divenuta ormai, strutturalmente, di tortura. Ne abbiamo visitati 120 l’anno scorso e 90 quest’anno di luoghi di tortura, di torturati senza torturatori. Dove gli esseri viventi che li abitano e ci lavorano - i fuori legge e i tutori della legge, i nemici dello stato e i servitori dello stato - sono, tutti, condannati allo stesso degrado di umanità, a uno stato bestiale di abbandono e di infamia. Per dire, il piano terra di quello che abbiamo visitato di recente era un budello senza luce, senza aria, senza vita. La sezione è destinata ai casi cosiddetti di “ordine e sicurezza”; invece, regna il disordine delle cose e l’insicurezza delle persone. A partire dal corridoio e poi nelle celle, il pavimento è coperto di immondizia: tozzi di pane, frutta marcia, sacchetti di plastica, panni sporchi, materassi, lenzuola e coperte, tutto è buttato per terra. Nella prima cella, di quattro metri per due, c’è un letto a castello con due brande, il cesso è a vista come in tutte le altre celle, non ci sono né sgabelli né tavolo. Le lenzuola sono sporchissime. Non c’è televisore, non c’è uno straccio o una scopa, ovviamente nessun fornello. A mezzogiorno, le persone dormono. Nella seconda cella un detenuto dorme direttamente sul letto di gommapiuma senza lenzuola. Il pavimento è coperto da resti di cibo, bottiglie di plastica e immondizia varia. Nella terza cella c’è un soggetto che gli psichiatri bollano come “antisociale”. È stato all’OPG di Reggio Emilia prima che lo chiudessero. Entra e esci dal carcere, tra minacce, incendi e procurati allarmi, si è fatto quasi trent’anni. Aveva fondato anche una banda armata ma è stato assolto. “Ero solo io, ero sia la mente che il braccio”. Vive da quattro anni in una cella piena di stracci, coperte, asciugamani, tutto sporco e steso per terra. È attaccato tutto il giorno, 24 ore su 24, a una bombola di ossigeno per via di una malattia ai polmoni. Gli hanno diagnosticato una broncopneumopatia cronica ostruttiva, ma gli hanno rifiutato il differimento della pena. Ogni tanto lo ricoverano in ospedale. È assistito da un “piantone” solo per dieci minuti al giorno quando va a mettergli la maschera dell’aerosol. Fuori dalla quarta cella un detenuto ha segnato con strisce di lenzuola una sorta di terra di nessuno, un perimetro di due metri per due che è “vietato valicare”. Nella stanza è tutto per terra, ciotole, panni, sigarette, cibo e anche il materasso, sistemato sotto il lavandino vicino al blindato. Non ha il tubo di scarico, il detenuto lo ha staccato, ha sradicato pure il water e lo ha consegnato agli agenti. Fa tutti i suoi bisogni nel buco rimasto aperto sul pavimento e per lavarsi va alla doccia in comune dei detenuti della sezione. Sono tre i soffioni ma ne funziona solo uno. L’ambiente è piastrellato di rosso e arancione, il pavimento è nero per i grumi di sporco che lo ricoprono. La finestra è chiusa. Il termosifone è stato staccato. In fondo al corridoio, fuori dalle celle, hanno sistemato tre brande per i detenuti che non hanno trovato posto in una stanza. Quando il sottosegretario Del Mastro delle Vedove si gloria del fatto che lui non s’inchina alla Mecca dei detenuti, si rende conto che nella calca che affolla la grande moschea muoiono soffocati anche i suoi custodi? Che nelle carceri-cimitero dei vivi finiscono sotto terra carcerati e carcerieri? Che nella merda in cui vivono i “cattivi” ci lavorano anche i “buoni”? Non gli importa nulla della qualità della vita dei “fuori legge”? Si preoccupi almeno della qualità della vita dei tutori della legge! I diritti umani universali concessi ai “nemici dello stato” sono un lusso inaccettabile? Si assicuri almeno che siano rispettati sul luogo di lavoro quelli particolari, sindacali e ambientali, dei servitori dello stato! Quando il sottosegretario Delmastro delle Vedove gode del fatto - “è sicuramente un’intima gioia”, ha detto - che sulla nuova auto blindata della Polizia penitenziaria per il trasporto di detenuti al 41-bis non lasciano respirare chi sta dietro il vetro oscurato, non si rende conto che sul mezzo di traduzione muoiono asfissiati non solo i tradotti ma anche i traduttori? Io so cosa vuol dire subire un trasferimento di mille chilometri su quel furgone corazzato di colore blu. Chiuso in una cella blindata del cellulare blindato, incatenato con gli schiavettoni ai polsi. Nel fetore di fumo e di vomito lasciato da chi è salito prima di te. Senza luce e senza aria. Alla ricerca disperata attraverso la grata forata di un punto di luce e d’orizzonte fuori dal mezzo per far fronte alla nausea e non perdere i sensi. E, sull’orlo del collasso, implorare il gesto di pietà di un giro di catena in meno e una boccata d’aria in più. Quando il carcere esprime, in tutto e per tutto, della parola il significato originario, fino a consistere esattamente nel “carcar”, nel sotterrare, nel tumulare un essere vivente, vuol dire che è giunta l’ora di superare questo istituto perché manifestamente inumano e degradante. Quando il fine della pena - la rieducazione, la risocializzazione del condannato - è pregiudicato dalla pena stessa, dai luoghi e dai mezzi della sua esecuzione, vuol dire che è giunta l’ora della fine della pena e della tortura insita nella pena. “I primi mesi si era sentito paralizzato, e invisibili fili tenaci lo tenevano inchiodato alla brandina nella sua cella. Quel rottame che, al pari di un sudario, conservava l’impronta e le forme del passaggio di altri corpi, era stato il suo unico principio di realtà. All’inizio aveva dormito confondendo i giorni con le notti e aveva creduto che lo spazio che lo separava dalla libertà sarebbe trascorso così; poi era venuta l’insonnia e tuttavia non riusciva a separarsi da quel luogo di conforto che era il suo letto. Mano a mano si era identificato con esso e aveva sentito il cigolio del proprio corpo simile a quello del letto. Aveva pensato di essere divenuto di ferro.” Così Mariateresa Di Lascia descrive il carcere, trent’anni fa, in “Passaggio in ombra”, il suo capolavoro letterario. Per questo fonda, trent’anni fa, “Nessuno tocchi Caino”, il suo capolavoro civile. Quando la persona della pena arriva a identificarsi col luogo della pena, fino a diventare la persona una cosa, l’uomo un mezzo, non il fine della pena, vuol dire che l’umanità e la civiltà di quella cosa sono morte, che la storia dell’istituto detto carcere è finita e che, a voler essere umani e civili, occorre pensare a un altro sistema, cominciare un’altra storia, un’altra vita. Per il bene di tutti. Sia delle vittime sia dei carnefici. Sia di Abele sia di Caino, i quali sono pur sempre fratelli, diversi ma gemellati dallo stesso dolore, quello che arreca la perdita e quello che genera la vendetta. Caro Delmastro, non limitarti al suono delle fanfare e ai picchetti d’onore. Almeno una volta, vai a visitare i carcerati. Scopriresti come vivono anche i carcerieri, impegnati tutti i santi giorni a tentare di ridurre il danno connaturato a una struttura mortifera qual è il carcere. Ascolta il rumore delle sbarre battute dai detenuti per protesta o per disperazione e passa in rassegna i ragazzi di vent’anni che montano in quella sezione per sorvegliare, ma anche “despondere spem”. Dalla mattina alla sera. Incatenati anche loro in un luogo violento e malsano, costretti a un tempo di lavoro straordinario forzato che non ammette obiezione di coscienza e diritto sindacale di resistenza. Caro Delmastro, vai a vedere i luoghi di pena, scopriresti la pena che fanno, il danno che arrecano, la sofferenza che infliggono. Sono detti luoghi di privazione della libertà, ma la perdita non è solo della libertà, è anche della salute, del senno, della vita, degli stessi sensi fondamentali e dei più significativi rapporti umani. La pena è corporale, il danno è esistenziale, la sofferenza è grave per tutti, non solo per i detenuti, anche per i detenenti. La schiavitù è stata abolita quando è risultata intollerabile non solo per gli schiavi ma anche per gli schiavisti. La tortura è stata interdetta quando è divenuta insopportabile sia per il torturato sia per il torturatore. I manicomi sono stati chiusi quando sono stati gli stessi psichiatri ad aprire i pazzi, a liberarli dall’elettroshock e dai letti di contenzione. La pena di morte è stata abolita perché punizione inumana e degradante, crudele e inusuale non solo per i giustiziati ma anche per i giustizieri. Il carcere farà la stessa fine, è destinato a scomparire in quanto luogo di pena contraria al senso di umanità, istituto inutile e dannoso sia per i carcerati sia per i carcerieri. Con buona pace dei tutori del disordine costituito e dell’illusione autoritaria della sicurezza, degli analfabeti costituzionali della certezza della pena e dei sadici esteti dei mezzi più avanzati e letali di esecuzione. *Segretario di Nessuno tocchi Caino Delmastro e la giustizia giusta: due rette parallele che non s’incontrano mai di Amedeo Laboccetta Il Riformista, 19 novembre 2024 Le dichiarazioni rilasciate del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro in occasione della presentazione di una nuova auto per il trasporto dei detenuti (“è una gioia sapere che chi sta dietro quel vetro non lo lasciamo respirare”) sono raggelanti. Addirittura indegne, se solo si pensa che a pronunciare quelle parole è un uomo dello Stato e, per di più, avvocato. Gongolare per la realizzazione di un nuovo blindato in uso alla polizia penitenziaria, dalle caratteristiche - stando almeno al pubblico giubilo manifestato da Delmastro - non conformi a quel trattamento di umanità che deve comunque essere riservato ai detenuti, molti dei quali in attesa di giudizio e, come tali, presunti innocenti, significa non solo calpestare i più elementari principi di civiltà ma anche ignorare la lettera e lo spirito della nostra Costituzione. Trattandosi di un rappresentante del governo, tuttavia, anche il piano severo dei biasimi non basterebbe, dal momento che le improvvide parole del sottosegretario ne segnalano l’insanabile inconciliabilità In con la funzione svolta, la carica ricoperta ed il governo di cui fa parte. Il programma politico del governo Meloni è infatti del tutto estraneo ai sentimenti manifestati da Delmastro, ragion per cui è lecito chiedersi come sia conciliabile la sua posizione con le battaglie garantiste di cui il ministro Nordio si è reso portavoce ed il governo fautore. Ci riferiamo soprattutto alle tante iniziative messe in cantiere, a cominciare dalla riforma sulla separazione delle carriere, quelle sì in grado di dare piena attuazione al dettato costituzionale. E, allora, come conciliare una così epica battaglia liberale con le dichiarazioni del sottosegretario? Non si può. E, purtroppo, non si tratta neanche della prima volta. Il sottosegretario, nel corso di questi due anni, ha spesso manifestato il proprio personalissimo sentimento di violenta e irriducibile avversione verso i valori costituzionali, mettendo in imbarazzo il governo e, innanzitutto, la premier Giorgia Meloni. Ci spiace davvero doverci unire al coro di chi, dalle opposizioni, invoca le dimissioni - la destituzione - del sottosegretario ma saremmo pavidi e ipocriti se non dicessimo chiaramente che egli si è più volte mostrato incompatibile con l’esercizio della funzione mentre sarebbe sicuramente molto più a suo agio in un’epoca in cui la giustizia si basava su vendetta, faida e capri espiatori. Da allora sono passati secoli ed uno dei maggiori contributi di pensiero alla conquista della giustizia giusta pensa e parla italiano e risponde al nome di Cesare Beccaria. Ecco: il governo deve scegliere tra il grande giurista milanese ed il goffo sottosegretario piemontese, sapendo che solo il primo ci trattiene nei binari di uno stato diritto. Il secondo, al contrario, ci riporta al tempo della caverna e della clava. Le parole di Delmastro sui detenuti strizzano l’occhio a chi vorrebbe abrogare il reato di tortura di Davide Mattiello Il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2024 “L’intima gioia” che il Sottosegretario alla “Giustizia” Andrea Delmastro ha voluto condividere col pubblico qualche giorno fa, oltre ad essere un’offesa ai valori repubblicani, potrebbe anche integrare il reato di istigazione alla tortura e per questo credo che sia stata una uscita tutt’altro che estemporanea. Temo che sia stata piuttosto una tappa ben studiata nel percorso tanto caro a Fratelli d’Italia che punta all’abrogazione del reato di tortura. Il fatto è noto e lo richiamo per sommi capi: il Sottosegretario Delmastro, commentando pubblicamente i nuovi mezzi a disposizione della Polizia Penitenziaria per il trasporto dei detenuti, in un climax retorico per nulla improvvisato, ha evocato l’intima gioia provata nell’immaginare quanto fossero rassicurati i cittadini italiani dal sapere come si possano incalzare, come si possano non far respirare i detenuti dietro quei vetri oscurati. Parole gravissime che hanno richiamato non soltanto precise e micidiali tecniche di contenimento della persona fermata nel corso di attività di polizia, quelle tecniche di immobilizzazione che presuppongono la pressione sul collo del fermato e che in particolare negli Usa sono state causa di terribili uccisioni per soffocamento, come nel caso di George Floyd. Ma, ancor peggio, parole che hanno evocato l’impunità di chi ponga in essere tali condotte: i “vetri oscurati” dietro ai quali può succedere qualunque cosa, a maggior gloria della tranquillità dei cittadini. Non credo sia stato soltanto un eccesso verbale frutto di sbrodolante narcisismo: credo che sia stato un modo preciso per lanciare un messaggio politico a quegli ambienti che non hanno mai digerito l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento e che prima ancora avevano maledetto le sentenze Cedu con le quali l’Italia è stata ripetutamente condannata per i fatti del G8 di Genova del 2001. Un atto politico, quello di Delmastro, così estremo che potrebbe integrare la fattispecie prevista dall’art. 613 ter che recita: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”. Una fattispecie inserita nel 2017 insieme a quella principale, il 613 bis CP, che appunto sanziona la tortura. L’articolo 613 ter, l’istigazione alla tortura da parte di un incaricato di pubblico servizio, è particolarmente severo perché la condotta è perseguibile anche se l’istigazione non è accolta o il delitto non è commesso (nel qual caso invece si risponderebbe direttamente di concorso nel reato di tortura), proprio a voler rimarcare la gravità della condotta da parte di chi rappresenti le Istituzioni, che mai e poi mai dovrebbe permettersi di incitare colleghi o sottoposti alla prepotenza. La Polizia penitenziaria dipende in maniera funzionale dal ministero della Giustizia: ecco perché credo che il Sottosegretario con le sue parole, da ritenersi “concretamente idonee” proprio perché pronunciate pubblicamente e infarcite di impunità preventiva, possa aver commesso il reato di cui al 613 ter. Si capisce tra l’altro quanto un’ipotesi del genere pretenda - per poter anche soltanto essere messa in discussione - una magistratura indipendente da ogni altro potere dello Stato, che non debba cioè chiedere il permesso al governo prima di cominciare una indagine penale. Mi auguro quindi che la condotta di Delmastro non venga frettolosamente archiviata e consegnata a qualche, pure doverosa e tempestivamente arrivata, presa di posizione politica. Mi auguro che le sue parole siano stigmatizzate dalle rappresentanze delle Forze di Polizia perché non è questa deriva illiberale e sprezzante della dignità della persona che può garantire un futuro migliore anche a chi opera sul difficile margine della esecuzione della pena (mi scuso se mi fosse sfuggito qualche comunicato). Infine è davvero desolante come questo governo di “eredi-al-quadrato” (del Duce e di Berlusconi) continui nell’opera sistematica di demolizione del principio di uguaglianza nella pratica della giustizia, usando la mano pesante (rigorosamente dietro ai “vetri oscurati”) per criminalizzare il dissenso e invece quella di velluto per sollazzare “colletti bianchi” che corrompono ed evadono. L’ultima denuncia su questo punto è contenuta nell’intervista rilasciata proprio oggi a La Stampa da Giuseppe Busia, capo dell’Anac, che conferma: “Senza più reato di abuso d’ufficio sarà più difficile punire la corruzione”. Chi semina impunità raccoglie terrore: lo si dovrebbe tenere presente tanto più quando ci si indigna giustamente per la commemorazione pubblica del mafioso stragista Totò Riina, fatta ieri via social dal figlio omonimo: mai sarebbe potuta crescere così tanto la forza criminale dei sodali di Riina senza qualche “vetro oscurato” di troppo. *Presidente Art. 21 Piemonte ed ex deputato del Partito democratico I guai della giustizia minorile: per chi sbaglia non il carcere ma una “messa alla prova” di Pierfilippo Pozzi* Corriere della Sera, 19 novembre 2024 Se l’obiettivo della giustizia minorile è l’inclusione sociale degli adolescenti che hanno commesso un reato, possiamo dire che la loro detenzione è un fallimento. La buona notizia è che esiste la soluzione. Prima, però, un breve affresco di chi è detenuto e di cosa lo aspetta dentro le mura, senza considerare i casi estremi che trovate sulle prime pagine. Qui parliamo degli invisibili, la quasi totalità. Metà sono minorenni, metà sono stranieri. La maggioranza è in custodia cautelare, generalmente per reati contro il patrimonio. Una discreta percentuale arriva dalla condizione di libertà, maggiorenne, per reati commessi anni prima. Altri arrivano dalle comunità perché si sono agitati troppo. Esprimono alcuni tratti ribelli dell’adolescenza, ma portati all’estremo: sono ostili alle istituzioni perché ne subiscono l’ostilità. Credono di non valere nulla, perché questo vien detto loro; hanno un’identità frammentata, una famiglia quasi sempre assente, scarsi o nulli legami sociali; non hanno niente da perdere perché niente hanno; molti sono arrivati minorenni in Italia, sradicati dalla famiglia. Compiono reati di sopravvivenza senza alcuna visione del futuro. Si sentono esclusi, soli, disperati. E come risposta li rinchiudiamo in una cella dove aumentano l’esclusione, la solitudine, la disperazione. In carcere il percorso educativo è assegnato al direttore, la sicurezza è appannaggio del comandante della polizia penitenziaria. Ma sono due funzioni disarticolate, come se fosse possibile realizzare l’una indipendentemente dall’altra, senza quella orchestrazione che in passato aveva reso il “Beccaria” di Milano un modello da imitare. Per quanto riguarda la sicurezza, assistiamo da tempo a rivolte e azioni repressive che si alimentano a vicenda: alle agitazioni dei ragazzi corrispondono interventi repressivi e violenti, ai quali i ragazzi rispondono con ulteriori agitazioni. Parallelamente, per effetto del decreto “Caivano”, l’aumento dei reati punibili con la carcerazione preventiva ha generato il sovraffollamento, parzialmente risolto (in peggio) con il trasferimento dei neodiciottenni nelle carceri per adulti. A completare il quadro, il suddetto decreto impone l’obbligo di denuncia per ogni gesto di disobbedienza, parolacce comprese. Ricordo che parliamo di adolescenti arrabbiati. Non va meglio dal punto di vista educativo. Se il nodo principale è aiutarli a costruire un’identità, a generare fiducia nelle istituzioni, a intrecciare legami sociali, a confrontarsi con adulti e coetanei di cui fidarsi e dai quali prendere ispirazione, allora l’ambiente chiuso del carcere non può essere lo spazio adeguato, perché esclude alla loro vista proprio ciò di cui hanno più bisogno. Il mondo rimane fuori, ostile o indifferente. L’errore principale è credere che la sicurezza (per i ragazzi reclusi e per noi cittadini) possa produrre l’educazione. La sicurezza è invece l’effetto dell’educazione, non la sua causa. Per quanto li si possa abbellire, gli Ipm rimangono dei luoghi di reclusione per propria natura violenti, incompatibili con la cura educativa che il mondo adulto dovrebbe garantire a questi adolescenti smarriti. E ora, finalmente, la soluzione. Che esiste già. Il percorso dell’8o% dei ragazzi “messi alla prova”, seguiti cioè dai servizi sociali senza passare dalla prigione, ha esito positivo: il reato viene estinto e possono ricominciare il percorso di vita. Esiste il collocamento in comunità, dove i ragazzi possono essere accolti in un ambiente più simile a una famiglia, a patto che la comunità si limiti a un numero accettabile di ospiti, direi una decina. Se proprio devono entrare in carcere perché non c’è posto né in famiglia né in comunità, esiste la possibilità di applicare l’articolo 21 per motivi educativi e formativi: significa farli uscire dal carcere la mattina per farvi ritorno alla sera, così possono intraprendere un processo di socializzazione, possono incontrare adulti di riferimento di cui fidarsi, possono vedere nuove traiettorie di vita. Già ora, quando li lasciano venire nei corsi di formazione di “Credito al Futuro” - non l’unico progetto in città - li vediamo cominciare a respirare aria nuova rispetto alla propria storia di vita. E non dicono più parolacce. Non c’è bisogno che la società civile entri in carcere, è meglio che siano questi ragazzi a entrare nella società civile. Siamo tutti chiamati a prendercene cura, ma fateli uscire, insomma. O ancora meglio, non fateli entrare. *Direttore generale Fondazione Don Gino Rigoldi Fondo per la Repubblica Digitale e DAP: pubblicato bando per i detenuti askanews.it, 19 novembre 2024 Sostenere progetti per il reinserimento sociale delle persone detenute attraverso la formazione digitale, per contrastare il fenomeno della recidiva. Questo l’obiettivo di “Fuoriclasse”, il nuovo bando promosso e sostenuto dal Fondo per la Repubblica Digitale, in collaborazione con il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) e il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Il bando prevede un totale di 5 milioni di euro. Secondo le evidenze emerse nell’ambito dell’iniziativa “Recidiva zero. Studio, formazione e lavoro in carcere: dalle esperienze progettuali alle azioni di sistema in carcere e fuori dal carcere”, organizzata il 16 aprile 2024 dal CNEL insieme al Ministero della Giustizia, e in particolare quanto riportato nello studio di The European House - Ambrosetti, solo il 6% del totale dei detenuti risulta coinvolto in percorsi di formazione professionale. Tuttavia, in termini di corsi offerti, tra il 2021 e il 2023, è aumentato sia il numero di detenuti iscritti che i corsi attivati, le cui tipologie più frequentate includono settori quali cucina e ristorazione, giardinaggio e agricoltura, edilizia. Infatti, dal report della Fondazione Censis emerge che il digitale è oggetto di meno del 5% dei corsi di formazione professionale offerti in carcere. Per Martina Lascialfari, Direttrice Generale del Fondo per la Repubblica Digitale Impresa sociale: “Con “Fuoriclasse” il Fondo prosegue nel suo impegno a sostenere iniziative su scala nazionale mirate a favorire l’inclusione digitale e il riscatto sociale delle fasce di popolazione più vulnerabili. Grazie alla collaborazione con il CNEL e il DAP, ci dedicheremo a potenziare le competenze digitali delle persone detenute, facilitando il loro reinserimento sociale e lavorativo: perseguire questo obiettivo deve essere al centro delle policy di uno Stato di diritto. Invitiamo quindi enti pubblici e soggetti privati non profit a presentare proposte progettuali per promuovere azioni formative e di orientamento digitale sia all’interno che all’esterno degli istituti penitenziari”. Per Renato Brunetta, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro: “La formazione digitale è un elemento chiave nei processi di inclusione socio-lavorativa dei detenuti. Non solo in quanto ambito particolarmente ricco di opportunità occupazionali, ma anche perché può fungere da volano per una maggiore informatizzazione degli istituti penitenziari, contribuendo in modo rilevante a gettare un ponte tra carcere e società civile. Sono temi su cui il CNEL ha posto una grande attenzione, avviando d’intesa con il Ministero della Giustizia e il DAP un programma specifico di attività. In questo contesto si inserisce anche la proficua collaborazione con ACRI, coinvolta nel Fondo Repubblica Digitale in un ottimo esempio di partnership tra pubblico e privato”. Per Giovanni Russo, capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria: “I beneficiari diretti delle attività progettuali saranno detenuti con pena definitiva residua non superiore ai tre anni, in carico agli istituti penitenziari o agli uffici di esecuzione penale esterna. Con il Fondo abbiamo la possibilità di individuare buone pratiche utili all’orientamento delle politiche pubbliche”. FUORICLASSE. Il bando “Fuoriclasse” intende sostenere progetti in grado di realizzare efficaci azioni formative in ambito digitale e di valorizzare le potenzialità, attitudini e ambizioni delle persone detenute tramite una presa in carico personalizzata e la costruzione di percorsi integrati che ne facilitino il reinserimento sociale e lavorativo, con il fine ultimo di contrastare il fenomeno della recidiva. I beneficiari diretti delle attività progettuali dovranno essere detenuti con pena definitiva residua non superiore ai tre anni intra o extra moenia, in carico ad istituti di pena o uffici di esecuzione penale esterna. Il Fondo per la Repubblica Digitale Impresa sociale ha stanziato in totale 5 milioni di euro. Le proposte potranno essere presentate da partenariati formati da un minimo di due ad un massimo di cinque soggetti. Il Soggetto responsabile dovrà essere un soggetto privato senza scopo di lucro. I partner potranno essere enti pubblici o privati senza scopo di lucro. Inoltre, ciascun progetto dovrà prevedere la partecipazione di almeno una struttura penitenziaria. Oltre a tali tipologie di enti, potranno essere coinvolti in qualità di partner - nelle sole attività di formazione digitale e di accompagnamento nel percorso di inserimento lavorativo - anche soggetti for profit che potranno gestire una quota di budget complessivamente non superiore al 30% del contributo richiesto. Ogni progetto può essere sostenuto con un minimo di 150 mila e un massimo di 500 mila euro. C’è tempo fino al 7 febbraio per partecipare al bando attraverso la piattaforma Re@dy. Cos’è il fondo. Il Fondo per la Repubblica Digitale è una partnership tra pubblico e privato sociale (Governo e Associazione di Fondazioni e di Casse di risparmio - Acri), che si muove nell’ambito degli obiettivi di digitalizzazione previsti dal PNRR e dal PNC. Il Fondo è alimentato da versamenti delle Fondazioni di origine bancaria, alle quali è riconosciuto un contributo, sotto forma di credito d’imposta. Il Fondo per la Repubblica Digitale Impresa sociale ha pubblicato i sette bandi. Ad oggi sono stati selezionati e sostenuti 108 progetti di formazione gratuiti che forniscono competenze digitali professionalizzanti, a NEET, donne, disoccupati e inoccupati, lavoratori a rischio disoccupazione a causa dell’automazione e studenti e studentesse delle scuole secondarie di primo e secondo grado. L’obiettivo è valutare l’impatto dei progetti formativi sostenuti - in termini di competenze acquisite e di posti di lavoro creati - affinché le iniziative più efficaci possano essere offerte al Governo, per immaginare future politiche nazionali. Toghe e politica, scontro finale per l’egemonia. E non sarà un pranzo di gala di Davide Vari Il Dubbio, 19 novembre 2024 Siamo al compimento di una guerra iniziata trent’anni fa con Tangentopoli. E la posta in gioco è enorme: il ripristino di un equilibrio che forse non c’è mai stato. A questo punto è chiaro: lo scontro tra questo governo e la magistratura non può essere liquidato come l’ennesimo attrito tra istituzioni; questa volta il conflitto tra toghe e politica è a tutti gli effetti una resa dei conti, una sorta di battaglia finale che ridefinirà i confini tra i due poteri. Forse in modo permanente. “La politica - ha detto il presidente dell’Anm Santalucia - attacca i giudici per screditarli e assoggettarli”. Parole dure, pronunciate peraltro da un magistrato solitamente assai cauto e dialogante. La verità è che siamo al compimento di una guerra iniziata trent’anni fa con Tangentopoli, ovvero quella fase storica in cui la magistratura si è insediata negli spazi della politica ponendosi non più come giudice dei reati, ma arbitro dei valori etici, custode della giustizia, legislatore morale. Ora, però, la politica sembra aver deciso di reagire, di riconquistare l’egemonia e quella che una volta si chiamava “agibilità”. Insomma, non è più la solita schermaglia. È qualcosa di più, di diverso, di definitivo. Questo governo ha l’intenzione (quasi) dichiarata di tornare a una dinamica politica-magistratura pre-tangentopoli attraverso riforme sacrosante e alcune forzature del diritto decisamente discutibili. Non v’è dubbio, infatti, che in questi tre decenni la magistratura si è autoassegnata un ruolo che va ben oltre il controllo di legalità, ponendosi come custode dei valori etici e motore di un rinnovamento politico e morale. Ha travalicato le sue funzioni, ha sovrapposto i suoi obiettivi alle sue funzioni costituzionali, creando un equilibrio instabile tra i poteri. Angelo Panebianco ha descritto in modo efficacissimo questa postura della magistratura parlando di “burocrazia guardiana” che “tiene sotto il tallone le classi politiche democraticamente elette”. Ma ora questo ruolo egemonico vacilla. L’emendamento al Decreto flussi, la delegittimazione crescente delle correnti giudiziarie, il richiamo insistente alla separazione delle carriere: sono tutti segnali di un cambiamento imminente che la magistratura non ha alcuna voglia di far passare senza lottare. Il caso dell’emendamento al decreto flussi, criticato dallo stesso Santalucia, è il più emblematico. Spostare la competenza delle convalide alla Corte d’Appello è visto come uno stravolgimento delle regole. E in effetti si tratta di una scelta assai fragile da punto di vista tecnico-giuridico. È dunque evidente che c’è di più, c’è dell’altro; si tratta infatti di una reazione politica a una “provocazione” altrettanto politica da parte della magistratura “engagé”. La scelta di “rivolgersi” alle Corti d’Appello, è dunque un modo per ridisegnare i confini e riequilibrare le forze, è la risposta di un potere che tenta di emanciparsi dalla tutela delle toghe. In un fondamentale articolo pubblicato qualche tempo fa su costituzionalismo.it, Livio Pepino ha provato a smontare un luogo comune spesso associato a questo scontro: ovvero la “presunta politicizzazione della magistratura” come corpo unico. Pepino sottolinea come il numero di magistrati impegnati direttamente in politica sia oggi minimo rispetto al passato. Ma lo stesso Pepino riconosce il potere strabordante della magistratura, il suo crescente impatto sui diritti dei cittadini: “Sempre più il potere giudiziario incide sui diritti, sui beni, sull’onore, sulle libertà, sulla vita delle persone”, osserva. Il problema, allora, non è quella manciata di magistrati che abbandona la toga per entrare in politica, ma tutti coloro che continuano a indossarla e a utilizzarla per orientare i processi sociali e politici dalle aule di giustizia. Ed è qui che si gioca il vero scontro: non solo tra politica e magistratura, ma tra due diverse concezioni dello Stato di diritto. Insomma, non stiamo assistendo a una semplice lotta tra poteri, ma a una narrazione “tragica”, un confronto tra due visioni del mondo. Da un lato una magistratura che si è illusa di essere garante dei valori costituzionali e arbitro dell’etica pubblica; dall’altro una politica che, pur con tutti i suoi limiti, tenta di riappropriarsi della capacità di governare. La posta in gioco è enorme: il ripristino di un equilibrio che forse non c’è mai stato, la definizione di confini chiari tra giustizia e politica. Non si sa chi vincerà questa battaglia, ma una cosa è certa: il sistema democratico italiano non sarà più lo stesso. È storia che si scrive sotto i nostri occhi. E non sarà un pranzo di gala. “Sta finendo l’era dell’egemonia della magistratura. La politica ora prova a sistemare le cose” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 19 novembre 2024 L’ex presidente della Camera Luciano Violante: “Bisogna battersi seriamente per difendere l’indipendenza delle toghe, ma ciascun magistrato deve comprendere che si tratta di una responsabilità”. Violante interviene sul rapporto tra politica e magistratura e spiega che “il magistrato, vista la quantità di poteri discrezionali che esercita nei confronti della reputazione, della libertà e dei beni delle persone, non è un cittadino come gli altri” e che è in corso “un riequilibrio” tra poteri dello Stato. Presidente Violante, crede che quello in atto tra governo e pm sia l’ennesimo capitolo della guerra trentennale tra politica e magistratura? A partire dalla seconda metà degli anni Settanta abbiamo avuto una fase di forte espansione del potere giudiziario rispetto al potere politico soprattutto per la lotta contro il terrorismo. Oggi c’è un governo che non sempre in modo corretto sta cercando di costruire un riequilibrio attraverso processi di riduzione dei poteri giurisdizionali e di mortificazione della reputazione dei magistrati. Il riequilibrio può piacere o meno, ovviamente, ma non va fatto pensando di poter prevalere attraverso un abuso degli strumenti a propria disposizione. Eppure l’attuale governo ha attaccato frontalmente i giudici e le loro decisioni sul “caso Albania”, anche ricordando una certa “militanza” delle toghe. Che ne pensa? Qualche magistrato ha sbagliato gravemente con dichiarazioni incompatibili con il suo ruolo. Il magistrato, vista la quantità di poteri discrezionali che esercita nei confronti della reputazione, della libertà e dei beni delle persone, non è un cittadino come gli altri. Deve contenersi ed essere sobrio nelle sue manifestazioni. Non può apparire né come parte né come controparte. Così si riduce la propria credibilità e di danneggia tutta l’istituzione. Dall’altro lato la magistratura si tiene stretta la sua indipendenza dalla politica, nell’ottica della separazione dei poteri propria dello stato di diritto... L’indipendenza da ogni altro potere è un diritto dei cittadini e necessità di un esercizio responsabile dei comportamenti privati e di quelli pubblici. Nel mondo politico si manifestano a volte posizioni che o per ignoranza o per convincimento pronunciano dichiarazioni provocatorie. Sono piccole trappole alle quali bisogna sfuggire con intelligenza senza diventare controparte. Molti vedono in Tangentopoli l’inizio della fine del primato della politica, in favore di un sempre più accresciuto potere della magistratura. È così? La questione va molto più indietro, la riporterei ai tempi del terrorismo. In quegli anni la magistratura è emersa come unico soggetto che combatteva e spesso moriva per difendere le istituzioni della Repubblica. E questo ha dato alla magistratura un rilievo importante, basti pensare anche a tutti quei magistrati, magari meno noti, uccisi dalla mafia o dai terroristi. Poi abbiamo avuto il ‘92 e Tangentopoli ma la storia della “supplenza” comincia molto prima, quando si diceva che la magistratura interveniva laddove non lo faceva la politica. Non crede tuttavia che con Tangentopoli si assistette a un “cambio di passo” nello squilibrio di poteri tra legislativo ed esecutivo, da un lato, e giudiziario dall’altro? A me capitò di scrivere un articolo sull’Unità nel 1993 in cui sostenni che nessun paese può resistere a lungo dall’ingessatura che viene dallo strapotere giudiziario nella società, perché prima o poi arriverà un soggetto regolatore che metterà le cose a posto. Ecco, penso che ora siamo in questa fase. Questo è il corso della storia che stiamo vivendo. Ma ho l’impressione che non tutti i magistrati abbiano colto il senso della storia. Siamo nel primo quarto del nuovo secolo, non più nell’ultimo quarto del secolo precedente. Fino alla volontà da parte della maggioranza di mettere mano alla Costituzione e realizzare, ad esempio, la separazione delle carriere... Bisogna battersi seriamente per difendere l’indipendenza della magistratura; ma ciascun magistrato deve comprendere che si tratta di una responsabilità, non di un beneficio. La separazione tra pm e giudici è inutile perché c’è già ed è dannosa perché maschera un intento che può diventare in qualche caso prevaricatorio. Secondo la maggioranza la magistratura ha “troppo potere”. Condivide? A me sembra che abbia un eccesso di esposizione mediatica. Per il resto, i magistrati applicano le leggi che fa il Parlamento. Leggo che negli ultimi mesi sono state create 49 nuove figure di reato. Il che vuol dire 49 nuove possibilità di poter intervenire nella vita delle persone. Queste leggi danno alla magistratura un potere di intervento molto alto ma sono decisioni del Parlamento. Ogni volta che si approva una legge si attribuisce un potere in più al magistrato. Non ha senso approvare tante leggi, spesso confuse, e poi dire che i magistrati hanno troppo potere. Altro capitolo è quello della disapplicazione in via di fatto di alcune leggi penali. È una questione che merita uno specifico approfondimento. Crede che da questo punto di vista il “colore” politico del governo in questione faccia o abbia fatto la differenza in questi decenni? Chiunque eserciti un potere di governo, di qualunque colore politico esso sia, non vede con particolare simpatia l’intervento giudiziario. Ricordo per esempio una critica di una persona che stimo come Romano Prodi nei confronti dei tribunali amministrativi. Il punto è che politica e magistratura sono due sovranità confinanti, nel senso che la politica è sovrana nei confronti dell’intero paese mentre il giudice è sovrano nei confronti del soggetto che ha di fronte in quel momento, ma sono comunque due sovranità. E, di conseguenza, nel momento in cui una arretra l’altra avanza. Pensa anche lei, come diversi esponenti di governo, che la magistratura stia mettendo degli ostacoli alla maggioranza proprio per evitare che la politica riconquisti il suo “primato”? Se ci fosse sarebbe uno scontro puramente ideologico. Chi governa sa che in uno Stato di diritto come il nostro il potere del governo non è illimitato. Quel che si può dire è che nella cultura di sinistra, anche se non in tutta, c’è l’idea che il potere politico debba fare i conti anche con gli altri poteri mentre in quella di destra è più presente l’idea dell’intangibilità del potere politico in quanto tale. Tant’è che il governo si è spinto ad approvare un decreto con la famosa lista dei “paesi sicuri”. Funzionerà? L’hanno fatto, ora vedremo se funzionerà. Credo che occorra aspettare quattro o cinque mesi per vedere se funziona e soltanto dopo saremo in grado di esprimere valutazioni o giudizi. Bisogna anche vedere cosa succederà a livello europeo. Sta di fatto che sull’immigrazione nessuno ha trovato una soluzione, che di certo non può essere quella di rimpallarsi a vicenda il problema come per anni è stato fatto e come molto spesso viene fatto tuttora. Piemonte. Penalisti contro il sottosegretario Delmastro per la frase choc sui detenuti di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 19 novembre 2024 “Ha disonorato il suo ruolo e la professione”. Una lunga lettera inviata dalle Camere penali del Piemonte ai parlamentari eletti in regione e in Valla d’Aosta, per sottolineare la gravità - a loro avviso - delle ultime dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia. “Esiste un limite anche nella manifestazione delle idee contrarie al diritto e ai diritti. E questo limite è stato superato. L’onorevole avvocato Delmastro Delle Vedove ha disonorato, non per la prima volta, il ruolo che ricopre e la professione che pure ha svolto con parole che non possono appartenere a un rappresentante del Governo”. Inizia così una lunga lettera inviata dalle Camere penali del Piemonte - regione nella quale il sottosegretario esercita la professione, nel foro di Biella - ai parlamentari eletti in regione e in Valla d’Aosta, per sottolineare la gravità - a loro avviso - delle ultime dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia, in relazione ai detenuti, “che non lasciamo respirare”. La lettera è firmata dalla Camera penale della Valle D’Aosta e del Piemonte Occidentale “Vittorio Chiusano” e da quelle di Alessandria e Verbania. “La manifestazione di “intima gioia” che il Sottosegretario prova per l’idea che il detenuto venga incalzato e non lasciato respirare dietro un vetro oscurato, dove evidentemente tutto può accadere, non è soltanto una sgrammaticatura istituzionale, ma - scrivono i rappresentanti delle Camere penali - l’espressione di un approccio limitativo della libertà personale che non può appartenere ad una società democratica, le cui linee guida sono tracciate dalla nostra Carta Costituzionale”. Gli avvocati penalisti affermano anche che “il silenzio del Governo di fronte alle idee manifestate dal sottosegretario Delmastro Delle Vedove è assordante, al pari di quello, ad esempio, degli esponenti della Polizia Penitenziaria”. Milano. Detenuti suicidi e Delmastro, scontro in Consiglio comunale di Massimiliano Melley milanotoday.it, 19 novembre 2024 Scintille in consiglio comunale tra Alessandro Giungi (Pd) e Michele Mardegan (Fdi), avvocati e consiglieri, sui suicidi in carcere e la frase del sottosegretario Delmastro sul non far “respirare” i detenuti nei blindati. Scontro tra avvocati in consiglio comunale a Milano, lunedì 18 novembre, sulle carceri. Sul ‘ring’ Alessandro Giungi del Partito democratico e Michele Mardegan di Fratelli d’Italia. L’uno, vice presidente della sottocommissione carceri a Palazzo Marino, spesso interviene per parlare dei problemi dei detenuti; l’altro, dal profilo più riservato, quando si sente colto sul vivo non le manda a dire. Motivo del contendere, il ruolo del governo per quanto riguarda l’aumento dei detenuti (e anche dei suicidi), il prossimo decreto sicurezza, ma anche l’affermazione del sottosegretario Andrea Delmastro (di Fdi): “Proviamo intima gioia nel non far respirare i detenuti” nei nuovi blindati Kgm-Ssangyong appena presentati. Affermazione tutt’altro che ritrattata: “Ci mancherebbe altro che diamo respiro alla mafia”, ha poi detto l’esponente di Fdi. Ma torniamo al duello in consiglio. Il ‘la’ di Giungi, quando ha preso la parola ricordando “80 persone detenute suicide, quest’anno, oltre a 7 agenti di polizia penitenziaria”, ma anche “la fatiscenza delle carceri, che riguarda non solo questo governo”, e il miliardo di euro speso “inutilmente in Albania per un Cpr non utilizzato perché, ovviamente, i giudici italiani ed europei, applicando le norme, impediscono la deportazione di persone straniere”. Governo Meloni “peggio del fascismo” “Davanti a questa condizione terribile”, ha proseguito Giungi, “il governo è stato capace di abrogare il reato di abuso di ufficio, che riguarda poche centinaia di persone, tutti colletti bianchi che di solito, anche grazie alle possibilità economiche, in carcere non ci vanno”. E poi il futuro decreto sicurezza, ancora da approvare. Per Giungi sarà peggio del fascismo: “Contiene l’automatismo, per le donne incinte e le mamme detenute con figli fino a 1 anno, di finire in carcere. Perfino il fascismo, nel Codice Rocco, in questi casi prevedeva il differimento della pena. E poi i detenuti che metteranno in atto resistenze passive, come il rifiuto di un pranzo, senza violenza, rischieranno pene severissime”. In questo quadro, Giungi ha citato la dichiarazione di Delmastro: “Una frase orribile. Il garantismo deve valere in ogni condizione, non solo quando ci troviamo davanti ai reati da colletti bianchi. Penso siano necessarie le sue scuse”. Poco dopo, Michele Mardegan ha preso la parola ed è intervenuto anche sull’argomento: “Non è il governo ad avere stabilito 15mila carcerati in più”, ha detto il consigliere di Fratelli d’Italia: “I carcerati vengono condannati a questa drammatica situazione dai giudici a motivo di comportamenti inurbani. Non è colpa del governo se è aumentata la popolazione carceraria”. E poi le scintille, quando Mardegan ha proposto la sua soluzione: “Sono d’accordo che le carceri siano inadeguate, e mi domando perché non abbiamo mai preso in considerazione l’ipotesi di realizzare un nuovo carcere a Milano”. Mentre Giungi lo interrompeva urlandogli di vergognarsi, Mardegan ha proseguito: “Voi volete che la gente non stia in carcere, mentre la vera soluzione è creare carceri adeguate alla dignità delle persone. Così si sta veramente dalla parte dei detenuti”. Milano. Il carcere Beccaria sorvegliato speciale: per guidarlo chiesti requisiti “extra” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 19 novembre 2024 Claudio Ferrari lascia dopo un anno, direzione vacante. Nell’istituto minorile evasioni e rivolte. Innalzata l’anzianità richiesta per guidare una sede ritenuta ora “di livello superiore” anche per le sue criticità. L’attuale direttore passa a nuovo incarico. La complessità gestionale “di alto livello” associata alla “specificità criminologica milanese” richiede adesso come direttore dell’Istituto penale minorile una figura con requisiti di anzianità “elevati, stringenti e inderogabili”, ovvero almeno nove anni e mezzo di esperienza nel sistema penitenziario. Il Beccaria diventa quindi uno dei due sorvegliati speciali della giustizia minorile in Italia, insieme al Nisida di Napoli. Ma a differenza di quest’ultimo, che ha Gianluca Guida come direttore da 28 anni, il Beccaria - ora che è qualificato come “sede di incarico superiore” - deve vedere l’ennesimo cambio al vertice a meno di un anno dall’arrivo di Claudio Ferrari. L’attuale direttore era risultato primo in Italia al concorso e lo scorso dicembre, con il suo insediamento, aveva interrotto la girandola di figure part time che si erano avvicendate per oltre vent’anni. Ma non ha l’anzianità richiesta e assumerà un nuovo incarico come dirigente minorile in Dipartimento a Roma. Riavvolgendo il nastro, con il decreto ministeriale del febbraio 2019 erano stati designati come uffici di livello dirigenziale “non generale”, e dunque complesso, sette dei 17 Ipm italiani: Milano, Napoli, Bari, Torino, Roma, Airola e Catania. Ora per Milano e Napoli scatta il nuovo livello di guardia. Anche perché gli ospiti del Beccaria, attualmente 58, in gran parte di origine straniera e spesso con disagio psichico difficile da affrontare, potrebbero salire fino a 90 entro l’estate quando i gruppi detentivi, con la consegna dei nuovi spazi, potrebbero passare da quattro a sette. A livello di tempistica i prossimi passaggi saranno cruciali: agli atti preparati dagli uffici manca la firma del Ministro che emanerà il decreto e sancirà la nuova classificazione e il cambio di normativa. A quel punto dovrebbe essere bandito un interpello nell’ambito degli istituti per adulti. Fin d’ora però a Ferrari, che nel corso del suo mandato ha lavorato in modo indefesso e senza quasi neanche un giorno di vacanza, è stata affiancata come collaboratrice e “apporto consulenziale” la direttrice reggente dell’Uepe Teresa Mazzotta. In una girandola di nomi quest’ultima potrebbe spostarsi alla casa circondariale di San Vittore in sostituzione di Giacinto Siciliano, promosso alla direzione del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria di Roma. Anche alla casa di reclusione di Opera, tra l’altro, il direttore è vacante: Silvio Di Gregorio è stato promosso come dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria e temporaneamente la gestione è affidata a Stefania D’Agostino. Tornando al Beccaria, il mese scorso c’è stata una nuova ispezione, l’ennesima per le criticità che hanno portato l’Istituto alla ribalta delle cronache tra evasioni, rivolte e inchiesta della Procura sui presunti maltrattamenti sfociata nell’arresto di 13 agenti e nella sospensione di altri 8, ora reintegrati in sedi diverse dagli istituti penitenziari; agli agenti è stata data da indossare la divisa, a lungo bandita dalla giustizia minorile, mentre si fanno strada i faticosi tentativi di riportare il sereno. Il 9 settembre si è insediato il nuovo temporaneo comandante di reparto Raffaele Cristofaro, i cappellani don Claudio Burgio e don Gino Rigoldi sono sempre presenti e grazie a tre milioni di fondi Fami sono attesi mediatori culturali, etnopsichiatri e educatori per garantire più ampia copertura dei turni e maggior cura ai bisogni di ogni singolo ragazzo. Trieste. Detenuti aumentati del 25% in due anni: il caso approda in Consiglio comunale di Stefano Mattia Pribetti triesteprima.it, 19 novembre 2024 Allarmanti i dati riferiti dalla garante dei detenuti di Trieste, l’avvocato Elisabetta Burla, convocata in consiglio comunale dai consiglieri di opposizione, che hanno rivolto all’amministrazione comunale un appello per favorire percorsi di reinserimento degli ex detenuti nella società. La popolazione carceraria al Coroneo è cresciuta di oltre il 25 per cento in due anni, e non accenna a diminuire nonostante un sovraffollamento superiore al 70 per cento. Questo e altri allarmanti dati sono stati riferiti dalla garante dei detenuti di Trieste, l’avvocato Elisabetta Burla, convocata in consiglio comunale dai consiglieri di opposizione, che hanno rivolto all’amministrazione comunale un appello per favorire percorsi di reinserimento degli ex detenuti nella società. La garante ha illustrato la relazione che si riferisce al periodo dal luglio del 2023 al luglio del 2024. Dopo la rivolta dello scorso luglio, a quanto appreso, i numeri non hanno accennato a calare significativamente, senza mai scendere al di sotto dei 250 detenuti. La prossima settimana è stato programmato un sopralluogo del Comune nella struttura carceraria. Dati allarmanti - Nel momento in cui è stata stilata la relazione, nella casa circondariale di via Coroneo erano presenti “259 persone detenute di cui 25 nella sezione femminile. L’anno precedente erano 205, quello ancora precedente 178. Una progressione inaccettabile”. In pratica, oltre il 25 per cento in più in soli due anni. La situazione è preoccupante anche a livello nazionale, in cui dal luglio del 2023 fino a oggi, 81 detenuti e sette agenti di polizia penitenziaria si sono tolti la vita (nessuno di questi a Trieste). Per quanto riguarda la situazione triestina, Burla ha parlato del problema del caldo torrido in estate con “33 gradi la mattina alle otto, in stanze da sei o sette persone” e la “mancanza di relazioni significative con i parenti”. Criticità abitative - Carente inoltre, secondo il garante, l’attivazione di progetti educativi all’interno del carcere e di percorsi professionali successivamente alla detenzione per mancanza di fondi pubblici. Tuttavia il reinserimento nella società non riguarda soltanto la questione lavorativa ma anche la situazione abitativa, poiché alcuni detenuti, non solo stranieri ma anche italiani, non possono scontare le misure alternative ai domiciliari perché sprovvisti di un’abitazione. “Durante la detenzione - spiega poi il garante - le persone possono perdere la casa che avevano e l’immobile, ad esempio se si tratta di casa Ater, viene rilasciato se non viene pagato l’affitto. Se invece si tratta di abitazione privata, chi sconta la pena in carcere deve pagare l’Imu perché quella diventa la sua seconda casa”. Problemi, soprattutto burocratici, si presentano anche nel caso di pene alternative al carcere, in particolare il braccialetto elettronico come misura cautelare meno afflittiva: “In un caso - riporta Burla - a dicembre c’è stata la convalida della misura, ma il braccialetto elettronico non c’era fino a marzo, la persona per tre mesi è stata in carcere contribuendo ad aumentare il numero delle presenze e il sovraffollamento della struttura”. L’avvocato Burla ha poi richiamato l’attenzione sul tema della detenzione delle madri con figli al seguito. “Ci sono studi sul fatto che la limitazione della libertà renderà complicata la crescita e la formazione di quel bambino, anche di alcune sue parti del cervello”, e in particolare questa situazione potrebbe “portare il bambino a rimanere in carico alla società per tutta la vita”. Per quanto riguarda le strutture speciali per le detenute madri con i figli fino ai sei anni, “in Friuli Venezia Giulia non ce ne sono, ce ne sono quattro in tutta Italia”. Il garante ha poi affrontato il problema della carenza di organici nella polizia penitenziaria, ma anche nella magistratura di sorveglianza, con due magistrati su tre avviati al pensionamento e mai sostituiti. Fattore, questo, che rallenta le procedure per assegnare ai detenuti pene alternative. La consigliera Kakovic (Adesso Trieste), prima firmataria della mozione per la convocazione del garante (sottoscritta poi dall’opposizione tutta), ha lanciato un appello alla Giunta per un possibile ruolo del Comune nell’avviare percorsi di reinserimento dei detenuti nella società con lavori di pubblica utilità e ha lamentato “chiacchericcio e maleducazione da diversi membri della maggioranza” e una “continua mancata regia politica della maggioranza, che si rifiuta di gestire una situazione che ha ben oltrepassato il limite come dimostrato dalla rivolta di luglio.” Durante la discussione, con svariati interventi da parte di opposizione e maggioranza (tutti a sostegno della funzione riabilitativa del carcere), è intervenuto l’assessore al sociale Massimo Tognolli con dati relativi alla presa in carico di persone detenute da parte dei servizi sociali. “Sono circa 140, (tra detenuti, ex detenuti, persone ai domiciliari e minori con procedimenti penali) - ha dichiarato l’assessore - le persone che sono seguite in carico ai servizi sociali per interventi riguardanti supporto economico, accompagnamento nella ricerca e gestione della casa e del lavoro. Catanzaro. Detenuto 28enne morto in carcere, con l’autopsia si cerca la verità sulle ferite messinatoday.it, 19 novembre 2024 Sarà conferito domani l’incarico per l’autopsia sul corpo del giovane messinese morto venerdì scorso nel carcere di Catanzaro. La procura calabrese ha deciso di vederci chiaro dopo la denuncia presentata dai familiari, assistiti dall’avvocato Pietro Ruggeri, che chiedono chiarezza sul decesso “per arresto cardiaco”. Sul corpo del 28enne di Giostra troppe le ferite, gli ematomi e parti del corpo sanguinamenti documentate con una cinquantina di foto scattate dalla mamma sulla salma che ha dunque deciso di denunciare tutto all’autorità sanitaria. Una vicenda dolorosa che riaccende i riflettori anche sull’emergenza carceri che in Italia registrano un crescente numero di decessi prematuri, non solo legati ai suicidi. Una strage silenziosa che secondo l’ultimo dossier di Ristretti Orizzonti sono in costante aumento: 810 registrati nel quinquennio 2020-2024. Si parla quindi di persone che sono morte per omicidio, per overdose, per cause non chiare e per i suicidi (il 42% del totale). Il caso di Ivan Domenico Lauria è fra quelli destinati a far discutere: il giovane era tossicodipendente e invalido civile al 75% con gravi problemi di salute mentale accertati anche da consulenti d’ufficio nominati nei vari procedimenti. La madre era stata nominata amministratore di sostegno e aveva ripetutamente chiesto l’avvicinamento in carceri dove fosse più facile raggiungerlo e accudirlo. Secondo la denuncia innumerevoli le istanze fatte anche Dap e ministero di giustizia perché venisse collocato in una struttura adeguata alle sue gravi patologie, fra l’alto avallate e richieste anche dall’Asp di Trapani e dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria della casa circondariale di Trapani dove era stato rinchiuso per scontare un cumulo di pene (11 anni, due mesi e giorni 21). La famiglia ha già individuato il consulente di parte per l’esame autoptico che dovrà fare chiarezza sulle cause del decesso e sulle ferite che il cadavere presenta. Si tratta della dottoressa Elvira Ventura Spagnolo. Sulla vicenda è intervenuta anche la Garante per i diritti dei detenuti Lucia Risicato. “Invano, negli ultimi mesi, i garanti territoriali hanno testimoniato la situazione drammatica delle carceri italiane: 80 suicidi dall’inizio dell’anno, a fronte di un sovraffollamento quasi superiore a quello per il quale, nel 2013, l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Lo iato tra la dimensione costituzionale dell’esecuzione della pena e quella reale è ben espresso dalle circostanze della morte di questo giovane, su cui ci auguriamo venga fatta immediata chiarezza”. “La chiarezza è necessaria - continua Risicato - perché il legale documenta segni di violenza sul corpo che richiedono una spiegazione. Perché, come spesso Leonardo Sciascia ha sottolineato, quando un uomo entra vivo in edificio dello Stato e ne esce morto, siamo di fronte a una sconfitta dello stato di diritto, ma soprattutto perché un detenuto tossicodipendente, invalido al 75 per cento e affetto da gravi problemi di salute non avrebbe dovuto trovarsi in carcere e, meno che mai, in un carcere lontano dal suo luogo di residenza”. E ancora: “La chiarezza, beninteso, è necessaria anche nell’interesse di tutti gli operatori penitenziari e, in particolare, della polizia penitenziaria, che agisce in condizioni spesso difficilissime condividendo i disagi dei detenuti. Sebbene le gravi parole del sottosegretario alla Giustizia Delmastro sulle nuove auto in dotazione alla polizia penitenziaria lascino trapelare idee medievali sul trattamento delle persone ristrette, dobbiamo riaffermare il valore prioritario della dignità, che non si acquista per meriti e non si perde per demeriti, e la necessità che la pena non sia disumana. Se lo fosse, saremmo diventati disumani anche noi”. Melzo (Mi). 19enne legato a letto per 8 giorni nell’ospedale psichiatrico: Italia condannata dalla Cedu di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 19 novembre 2024 “Trattamento inumano”. Il caso del 2014: il giovane aveva dato una spinta alla madre, uno schiaffo al padre e un pugno in faccia al medico. È in quel frangente che l’ospedale aveva praticato la “contenzione meccanica”. Italia condannata dalla Corte europea per i diritti dell’Uomo di Strasburgo (Cedu) sul tema delle misure di contenzione meccanica di persone con problemi psichiatrici nei reparti ospedalieri: e cioè per violazione dell’articolo 3 della Convenzione sul divieto di trattamenti inumani o degradanti, e per non avere l’Italia assicurato una soddisfacente indagine sull’accaduto. Benché la sentenza riguardi la specifica vicenda di un ragazzo da poco maggiorenne nel 2014 nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Melzo (oggi confluito in quello di Melegnano), il principio ha impatto su un fenomeno ben più diffuso in Italia, se l’ultima statistica disponibile - relativa al 2022 e basata sui dati nemmeno di tutte le Regioni ma solo di 12 di esse - indicava quell’anno il ricorso alla contenzione meccanica in oltre 7mila casi. Il 19enne, rendendosi conto di avere bisogno di essere aiutato, nel 2014 aveva accettato di farsi ricoverare, ma dopo una settimana aveva deciso d’andarsene. I genitori e il primario avevano cercato di convincerlo a restare, ma il giovane aveva dato una spinta alla madre, uno schiaffo al padre e un pugno in faccia al medico. È in quel frangente che l’ospedale aveva praticato la contenzione meccanica, cioè lo aveva fatto legare al letto, dove era rimasto trattenuto 8 giorni di fila, per poi subire altri 20 giorni di contenzione invece farmacologica tramite sedativi. Ne era scaturita una denuncia e un procedimento in Procura a Milano, definito solo dopo tre anni con richiesta di archiviazione poi accolta dal gip. Nella causa davanti alla Corte di Strasburgo i difensori Antonella Calcaterra e Antonella Mascia sono stati “appoggiati”, nella veste di amicus curiae, da professori di diritto costituzionale come Davide Galliani, dall’ufficio del Garante nazionale delle persone private della libertà, da associazioni di settore come L’Altro Diritto-Società della Ragione onlus e Fondazione Franco Basaglia: unanimi nell’argomentare che la contenzione, fisica o farmacologica, non sia atto terapeutico, ma strumento a cui poter far ricorso solo in caso di necessità (di salvare sé o altri da un pericolo di danno grave alla persona), e con criteri di stretta proporzionalità. Ora la Cedu ravvisa che il mantenimento della misura restrittiva per 8 giorni sia stato non rispettoso della dignità umana del giovane in quanto sproporzionatamente lungo, non strettamente necessario, non giustificabile perché la condizione di pericolo che l’aveva determinata era presto scemata di intensità. In più per la Corte, che si riferisce all’inchiesta per maltrattamenti archiviata a Milano, le autorità statali non hanno poi condotto un’indagine effettiva sulle accuse di maltrattamenti. Ma oggi quel giovane come sta e dove sta? Bene, e a casa sua. Nel 2014, dopo la contenzione meccanica e quella farmacologica, e dopo un trattamento sanitario obbligatorio, dall’ospedale partì una segnalazione di pericolosità sociale alla Procura, che imboccò la strada della misura provvisoria di sicurezza a Castiglione delle Stiviere. Ma la perizia psichiatrica, bivio decisivo di queste vicende, fu per lui una svolta positiva perché, dopo alcuni mesi, escluse che il giovane fosse socialmente pericoloso. Sono passati dieci anni, oggi e da allora senza più problemi per sé e per gli altri. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuti realizzano le camicie per gli agenti della polizia di Ernesto Di Girolamo casertanews.it, 19 novembre 2024 Per offrire un’opportunità concreta di reinserimento lavorativo ai detenuti vicini al fine pena. Un laboratorio di camiceria all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere diventa un database a disposizione delle aziende del territorio per offrire un’opportunità concreta di reinserimento lavorativo ai detenuti vicini al fine pena. Obiettivo: ridurre la recidiva dei detenuti con benefici sulla sicurezza e coesione dell’intera comunità. È il progetto “Lavoro in corso” della Fondazione Isaia e Maria Pepillo premiato, in Campania, da “Percorsi di Innovazione Sociale”, la innovation academy di Human Foundation dedicata all’empowerment delle imprese sociali e del Terzo Settore del Centro e Sud Italia. Un corso di formazione e accompagnamento totalmente gratuito grazie al sostegno di Eni attraverso Joule, la sua scuola per l’impresa. La Fondazione Isaia e Maria Pepillo e il progetto “Lavoro in corso” sono stati premiati, insieme ad altri 4 progetti ritenuti meritevoli dalla giuria di qualità di Human Foundation, con un programma di accelerazione e capacity building della durata di ulteriori 20 ore complessive durante le quali riceverà il supporto volto ad accrescere l’impatto del progetto perfezionando il livello di dettaglio dei progetti per facilitare la sua fattibilità e verificarne la sostenibilità economica e sociale nel lungo periodo. “Lavoro in corso” raccoglie in un database il profilo dei detenuti prossimi al fine pena che hanno frequentato il corso di camiceria organizzato nel Carcere di Santa Maria Capua Vetere e la sua condivisione con le aziende del settore per la realizzazione delle divise del personale della polizia penitenziaria. Mission della Fondazione Enrico Isaia e Maria Pepillo Onlus è la difesa e la valorizzazione dei “saperi” presenti sul territorio campano, in stretta collaborazione con tutti i soggetti pubblici e privati che hanno a cuore i medesimi valori. Le iniziative della Fondazione si articolano lungo quattro direttrici: l’attività di inclusione sociale attraverso la sartoria napoletana, i progetti di ricerca mirati sia all’approfondimento storico che all’innovazione soprattutto in chiave digitale, i progetti di valorizzazione del patrimonio culturale campano e del territorio. Merito del progetto “lavoro in corso” è anche la sua replicabilità in altri istituti penitenziari italiani dai quali, entro l’anno, usciranno 5.980 detenuti, un target su cui è possibile applicare percorsi personalizzati di reinserimento lavorativo specifici in modo da produrre un maggiore impatto sul tasso di recidiva generale, evitando che dopo il fine pena si disperda il patrimonio di conoscenze trasferite al detenuto durante la detenzione. Tra i progetti premiati da Human Foundation e Eni al termine della prima fase di “Percorsi di Innovazione Sociale” ci sono anche “REsta In Ascolto dell’associazione Il Fiore del Deserto (Lazio), uno sportello di ascolto e supporto antiviolenza per donne, giovani, minori e persone Lgbtq+ esposte a forme specifiche di violenza; “Io posso” di 2HE Center for Human Health and Environment (Puglia), un b&b diffuso per persone con disabilità che fa “rete” sul territorio con i proprietari di immobili e gli esercizi commerciali più accessibili; “So good” dell’associazione YOLK (Lazio/Sicilia), un percorso di accompagnamento dei ragazzi e le ragazze tra i 13 e i 24 anni di Palermo verso la prosecuzione degli studi oltre l’obbligo scolastico e, infine, il progetto “Una cascina per la vita” della Fondazione Giovanni Campaniello ETS (Lazio), una Farm Community dove le persone con disturbi dello spettro autistico possono vivere, anche nella fase del c.d. “dopo di noi”, sviluppando le autonomie personali, l’ autosufficienza e l’inserimento nel mercato del lavoro. “Percorsi di Innovazione sociale” ha offerto a 30 organizzazioni già attive sul territorio di 8 regioni d’Italia (Abruzzo, Basilicata, Campania, Lazio, Marche, Puglia, Sicilia e Umbria) un percorso di 30 ore di formazione frontale a cura di Human Foundation su temi come la governance, il project management, la valutazione di impatto socio-ambientale e il fundraising. 5 di loro hanno avuto accesso a un programma di accelerazione e capacity building finalizzato a perfezionare il livello di dettaglio dei progetti per accrescerne l’impatto, facilitarne la fattibilità e verificarne la sostenibilità economica e sociale nel lungo periodo. La collaborazione ad alto impatto tra Eni e Human Foundation ha consentito a “Percorsi di Innovazione Sociale” di arrivare alla sua terza edizione, facendone un modello di formazione e capacity building per il Terzo Settore del Centro e Sud Italia. Rieti. Il Garante Anastasìa in visita al carcere: “Sovraffollamento e carenza di personale” garantedetenutilazio.it, 19 novembre 2024 Sovraffollamento e carenza di personale rendono difficile lo svolgimento delle attività trattamentali. Venerdì 15 novembre, il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, si è recato in visita alla Casa circondariale di Rieti. Il Garante è stato ricevuto dalla direttrice, Chiara Pellegrini, la quale ha rappresentato le difficoltà in cui versa l’istituto, a causa del sovraffollamento e della carenza di personale. A fronte di 295 posti regolamentari, nel carcere di Rieti sono presenti 509 detenuti, di cui circa il 60 per cento stranieri. Le stanze da due posti letto sono state attrezzate con due letti a castello - per quattro posti in tutto - nelle quali attualmente alloggiano almeno tre detenuti. A fronte di una pianta organica di 182 unità di Polizia penitenziaria, a causa dei numerosi distacchi, nell’istituto sono operative 126 unità. Con questi numeri, secondo la direttrice è difficile lo svolgimento delle attività trattamentali. Il Garante è stato poi accompagnato nelle sezioni dal commissario Pierpaolo Milanese, vicecomandante del reparto di Polizia penitenziaria dell’istituto, e dal capo dell’area trattamentale, Luca Agabiti. Nel corso della visita, Anastasìa ha ascoltato alcuni detenuti che gli hanno esposto le loro doglianze ed è stato in visita alla sezione G, all’area sanitaria, composta dagli ambulatori e da tre stanze di degenza. Tra le altre criticità, l’istituto è piuttosto lontano dal centro abitato di Rieti, il che rende difficoltose le visite, tanto più che la stragrande maggioranza dei detenuti è non reatina. Inoltre, si fa fatica di affiancare all’attività trattamentale dell’amministrazione con l’apporto della società civile e dell’imprenditoria locale al percorso di reinserimento dei detenuti: attualmente le persone che svolgono attività lavorativa all’esterno, ex art. 21 O. P., sono solo tre. Vicenza. “Libere golosità” e il nuovo laboratorio, un ponte tra carcere e libertà di Claudia Milani Vicenzi ilgiornaledivicenza.it, 19 novembre 2024 Si va verso l’apertura di una sede esterna che potrà dare lavoro sia a ex detenuti sia a persone in semi-libertà. Un nuovo laboratorio per aumentare la produzione, far fronte alle richieste di prodotti e garantire più posti di lavoro. Un obiettivo che sta prendendo forma, un legame tra il carcere e il “mondo esterno” sempre più forte. Si tratta di “Libere golosità” che punta a espandersi e a crescere “perché non parliamo solo di numeri, ma delle vite e destini di persone che insieme abbiamo il potere di cambiare”. “Immagina di svegliarti ogni giorno nello stesso spazio ristretto, circondato da mura che confinano il tuo corpo e il tuo pensiero. Immagina di vivere in un mondo in cui ogni piccola libertà è un lusso che non ti appartiene più. Ora, immagina un luogo in cui queste mura diventano un ponte verso un nuovo e vero inizio. Dove l’arte della pasticceria si trasforma in uno strumento di emancipazione e riscatto. Questo luogo esiste e questo è il laboratorio di pasticceria artigianale di Libere golosità”. Sono queste le parole con cui la cooperativa sociale il Gabbiano 2.0 illustra un progetto decollato nel 2019 e che, adesso, sarà appunto ulteriormente ampliato offrendo un’occasione sia a chi è in semi-libertà sia a chi, dopo aver scontato la propria pena, deve affrontare il “dopo”. Un momento, quello del reinserimento sociale, che spesso non è affatto facile. “La visione è chiara: offrire continuità lavorativa a coloro che escono dal carcere affinché la libertà non sia un traguardo, ma un autentico nuovo inizio - ha spiegato Luca Sinigallia, presidente di Gabbiano 2.0 -. Lo scorso giugno abbiamo dunque acquistato lo stabile, un ex laboratorio orafo in strada dei Molini, a Vicenza. Una sede che, naturalmente, dovrà essere sistemata e richiederà numerosi interventi, dall’acquisto di una nuova caldaia all’installazione dei pannelli fotovoltaici: lavori per i quali abbiamo fatto domanda di finanziamenti. Non solo, il nostro obiettivo è di acquistare un grande forno rotativo che ci permetterebbe di aumentare in modo considerevole la produzione”. Il forno ha un costo di ventimila euro: diecimila sono stati raccolti e, per riuscire a raggiungere la cifra necessaria, proprio in questi giorni ha preso il via un crowdfunding e collegandosi alla pagina eppela.vom/liberegolosita sarà possibile dare il proprio contributo. “Nel laboratorio ci sono cinque detenuti che lavorano in modo continuativo; nei periodi di maggior produzione, come Pasqua e Natale, si organizzano turni e si riesce a impiegare il doppio di personale. Dobbiamo fare i conti però con spazi ridotti. Non solo: per questioni organizzative la produzione attualmente è limitata a prodotti che durino più giorni - ha spiegato il presidente -. Con il nuovo laboratorio daremo lavoro a più persone e amplieremo la produzione, penso per esempio al pane. Non solo: nei periodi di punta sarà possibile soddisfare tutte le richieste. Oggi come oggi siamo invece costretti a rifiutare ordinativi”. E per quanto riguarda i tempi? “Fare delle previsioni non è facile - ha considerato ancora Sinigallia. Perché tutto dipenderà da quando arriveranno i finanziamenti. Se tutto filerà liscio si potrebbe ipotizzare l’apertura già in tarda primavera, inizio estate. Altrimenti si slitterà di qualche mese”. Gabbiano 2.0 è attiva anche su altri fronti: all’interno della casa circondariale gestisce infatti non solo “Libere Golosità” ma anche un laboratorio per attività di assemblaggio conto terzi. “Estendiamo la nostra azione anche al di fuori delle mura carcerarie, fornendo ad enti pubblici e clienti privati servizi di manutenzione del verde, custodi di parchi, pulizia e sanificazione - hanno spiegato - Gestiamo inoltre altri tre laboratori esterni specializzati in assemblaggio, confezionamento e controllo qualità, creando opportunità lavorative e percorsi occupazionali che promuovono lo sviluppo di competenze professionali”. Cagliari. “La luna del pomeriggio”, spettacolo teatrale sulla vita dei detenuti in Alta sicurezza sardegnaierioggidomani.com, 19 novembre 2024 Il 28 novembre, alle ore 20.30, andrà in scena al Teatro del Segno di Cagliari lo spettacolo di Simone Gelsomino “La luna del pomeriggio - Dal carcere al teatro”, liberamente ispirato dal libro “La luna del pomeriggio” a cura di Giovanni Gelsomino, con i testi originali della popolazione detenuta nella Casa di Reclusione ad Alta Sicurezza “Paolo Pittalis” di Nuchis. Lo spettacolo apre una breccia sul complesso mondo del carcere e della rieducazione - tematiche che la società percepisce erroneamente distanti dal quotidiano - presentando, attraverso una narrazione onirica, la doppia dimensione del carcere (quella personale e quella collettiva) per poter concepire, su un unico tavolo, tante idee, tante vite, tanti racconti, tanti punti di tensione paradossale. Si indagano le connessioni umane, il linguaggio che va oltre ciò che si può - deve - dire, si indaga il concetto di carcere come oggetto del quotidiano, come luogo senza tempo: un limbo, che ti tiene congelato per anni e poi ti ributta in strada, nella migliore delle ipotesi, identico a come sei entrato. Il compito di questo spettacolo non è giustificare o mistificare la figura del detenuto, ma piuttosto far sorgere dei dubbi nello spettatore e nella spettatrice: crediamo che il teatro non sia il luogo delle risposte, ma delle domande, e la genesi di dubbi dà senso allo sforzo teatrale. Lo spettacolo, sostenuto dalla Fondazione Sardegna, vanta repliche su tutto il territorio nazionale. Sul palco: Ignazio Chessa, Antonella Masala, Eliana Carboni, Claudio Dionisi, Fabio Masala, Lello Olivieri. Dopo Cagliari si prosegue il 30 novembre, alle 20.30, al Teatro Comunale di Ittiri “Un impegno sociale perché le nostre sorelle rimangano vive” di Luciana Cimino Il Manifesto, 19 novembre 2024 “Dal giorno in cui è mancata la mia Giulia sono state uccise altre 120 donne soltanto in Italia. Migliaia nel mondo. Numeri inimmaginabili, non possiamo permetterci di essere indifferenti, non c’è più tempo per voltare lo sguardo altrove”. Gino Cecchettin, il padre della studentessa uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta un anno fa esatto, ha presentato alla Camera dei Deputati la fondazione che porta il nome della figlia. Che, specifica Cecchettin, “oltre a essere un omaggio a Giulia alla quale si ispira, è un impegno, un richiamo collettivo e un aiuto concreto per chi vive nella paura”. Nell’ultimo anno la famiglia della studentessa ha ricevuto centinaia di “messaggi strazianti di donne intrappolate nella paura”, racconta Cecchettin e ne legge alcuni davanti alla sala gremita: “Ho paura di tornare a casa, so cosa mi aspetta”, ha scritto Rosa. “Lui si apposta davanti a casa, osserva me e le mie figlie. Suona il campanello di continuo. Siamo prigioniere”, è la lettera di Anna. Mentre Vanessa mette per iscritto la paura che hanno molte: “Ho denunciato tre mesi fa, ma sono ancora in casa con lui. Se prima era difficile, ora è diventato un inferno. Sono sola, sarò la prossima?”. “La violenza di genere non è una questione privata, è un fallimento collettivo”, ha sottolineato Cecchettin. Presenti la ministra per le Pari opportunità e la Famiglia, Eugenia Roccella, il il vicepresidente di Montecitorio Giorgio Mulè (che hanno fatto due interventi molto sobri rispetto a quello del ministro Valditara) e l’ex nuotatrice Federica Pellegrini che farà parte del consiglio di amministrazione della fondazione. Nel corso della presentazione, è stato anche letto un messaggio del cardinale Matteo Zuppi che ha assicurato il suo aiuto all’ente. La fondazione Giulia Cecchettin, le cui attività partiranno nei primi mesi del 2025, intende combattere la violenza di genere attraverso progetti educativi e campagne di sensibilizzazione, erogherà borse di studio per le materie Stem, e offrirà supporto legale, consulenza psicologica e assistenza socio-economica alle vittime. “Questa lotta prende anche la forma di un impegno sociale per poter iniziare un processo di cambiamento. Che le nostre sorelle rimangano vive”, ha commentato la sorella di Giulia, Elena Cecchettin. Che ha poi ringraziato il padre per il progetto della fondazione e per non aver “mai smesso di lottare con il dolore”. “Negare il patriarcato non lo fa cessare. E chi ha ucciso mia figlia è italiano” di Giovanni Viafora Corriere della Sera, 19 novembre 2024 Gino Cecchettin, padre di Giulia: “Il mio è soltanto uno sforzo d’amore. Problemi con il governo? Solo se il nostro spirito non verrà capito, ma il nostro sforzo educativo è rivolto all’amare”. Gino Cecchettin, il patriarcato è davvero “finito”, come dice Valditara? “Ma lui l’ha descritto benissimo. Non è che se neghi una cosa questa non esiste”. Cosa intende? “Che il ministro ha parlato di soprusi, di violenze, di prevaricazione. È esattamente quello il patriarcato ed è tutto ciò che viene descritto nei manuali. Mi sembra solo una questione di nomenclatura. È la parola, oggi, che mette paura: “patriarcato” spaventa più di “guerra”“. Il ministro sostiene che sia ideologia. Cosa ne pensa? “Semplicemente che non dovremmo vederla così. È un problema sociale, non ideologico. Quando ci riapproprieremo tutti del significato di questa parola, vorrà dire che avremmo fatto metà della strada”. E sulla questione dell’immigrazione illegale che sarebbe alla base dell’aumento della violenza sulle donne (sempre Valditara)? “Vorrei dire al ministro che chi ha portato via mia figlia è italiano. La violenza è violenza, indipendentemente da dove essa arrivi. Non ne farei un tema di colore, ma di azione. Di concetto”. In sala, alla Camera, ha letto i messaggi di aiuto che le arrivano quotidianamente da donne in pericolo... “Sono donne che spesso si sono già trovate davanti un muro di gomma. Di fronte alle loro richieste ci si sente impotenti. Loro sanno benissimo che a volte hanno a disposizione solo qualche ora, si trovano sul baratro e non si riesce a fare niente. La Fondazione nasce anche per dare una voce a tutte queste donne. Ma c’è tanto da fare”. Per esempio? “Esiste una questione legata alla prontezza con cui si interviene. Le forze dell’ordine seguono pedissequamente i protocolli. Ma forse è giunto il momento di cambiarli. Per alcune persone è davvero questione di tempo”. Ha parlato di una “missione”: portare l’educazione all’affettività nelle scuole... “È il progetto principale. Il tema educativo è nello statuto. Abbiamo coinvolto alcuni dei più importanti specialisti italiani, dalla professoressa Chiara Volpato della Bicocca a Barbara Poggio dell’Università di Trento. Ma vorrei citare anche Irene Biemmi di Firenze, il linguista Lorenzo Gasparrini. Partiremo con gli incontri nelle scuole già dalla prossima settimana”. Non teme di trovare difficoltà (specie con questo governo)? “Se lo spirito non verrà capito appieno, sì. Ma il nostro è un sforzo educativo rivolto all’amare, non all’odiare. Per questo sono sicuro che non ci saranno problemi”. Qual è stato l’ostacolo più duro da affrontare fin qui? “Prodigarsi per gli altri a volte viene visto come un apparire. Non è così. Io non riesco a percepire ancora tutto quello che è stato costruito. Vado avanti a testa bassa, vedo solo dei frammenti. Dico sempre che si può essere aderenti alla Fondazione anche senza aderire. Mi spiego: basta applicare gli insegnamenti di Giulia, essere predisposti a seguire l’amore e l’altruismo per esserci vicini”. Il 18 novembre di un anno fa le dissero (e dissero a tutta Italia) che il corpo di Giulia era stato trovato... “Mi chiamò l’avvocato. Voleva che lo sapessi da lui e non dai giornali. Ebbi un crollo”. Oggi Giulia dov’era? “Più vicina che mai. Alle volte l’ho vista sorridere vicino a me. Potrebbero essere illusioni, ma l’ho vista. E vuol dire che è una cosa positiva. Giulia è una guida ed è un’ispirazione”. Elena e Davide, i suoi figli, alla Camera non c’erano... “Cercano di studiare. Oggi il primo messaggio è stato il loro: “Papà, siamo con te”“. E il suo futuro? “Mi resta la forza di un movimento che abbiamo generato. Si è creata un’onda, che vorrei che si autoalimentasse. E questo indipendentemente da me”. Ma il privilegio maschile non è cosa del passato di Elisa Messina Corriere della Sera, 19 novembre 2024 Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha detto che “è una visione ideologica quella che vorrebbe risolvere la questione femminile lottando contro il patriarcato” ma queste affermazioni non sono corrispondenti a quello che dicono i dati e le storie. Secondo il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara “L’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e devianza in qualche modo discendenti dalla immigrazione illegale”. Ha affermato anche che “è una visione ideologica quella che vorrebbe risolvere la questione femminile lottando contro il patriarcato” sottolineando che la via giusta per contrastare la violenza è quella “concreta, ispirata ai valori costituzionali”. Lo ha detto in un videomessaggio nel giorno in cui, alla Camera, Gino Cecchettin presentava la Fondazione che si occupa di progetti di prevenzione nelle scuole. Queste affermazioni non sono corrispondenti a quello che dicono i dati e le storie. Proviamo ad argomentare. 1) Tutti i dati (compresi quelli del ministero dell’Interno) non registrano un aumento dei fenomeni di violenza sulle donne, che dal punto di vista dei reati, sono sostanzialmente in numero stabile rispetto agli anni passati. Semmai aumentano le denunce, ma questo dipende, per fortuna, dalla più diffusa consapevolezza da parte delle donne. 2) Violenza e immigrazione irregolare: a guardare i reati più gravi, ovvero gli omicidi di donne commessi in ambito familiare o affettivo, questi sono commessi per la maggior parte da italiani. 3) La violenza sulle donne in tutte le sue forme (fisica, psicologica, sessuale ed economica) è purtroppo un fenomeno trasversale alle classi sociali e non è riducibile solo a “forme di marginalità e devianza”. 4) Il ministro riduce la questione del patriarcato all’aspetto giuridico che, osserva, “è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975”. Vero, ma per patriarcato non si intende solo questo, bensì il persistere di una asimmetria tra uomini e donne nella società. Basta aprire un manuale di sociologia. Oppure, ancora più semplice, aprire la Treccani, proprio come fece Gino Cecchettin. Dove, alla voce “patriarcato” si legge: “Tipo di sistema sociale in cui vige il ‘diritto paterno’, ossia il controllo esclusivo dell’autorità domestica, pubblica e politica da parte dei maschi più anziani del gruppo”. La posizione di privilegio che ancora resiste, anche se non più in senso giuridico, ha come conseguenza il fatto che l’uomo possa arrivare a pensare di poter possedere una donna. Questa è la radice culturale della violenza. Ridurla a “residui di maschilismo e di machismo” come dice il ministro, significa smontare ogni sforzo di prevenzione alla violenza. Ovvero proprio quella che lo stesso Gino Cecchettin si prefigge di fare con la fondazione. Affettività a scuola e formazione, le promesse tradite dal Governo di Flavia Amabile La Stampa, 19 novembre 2024 I progetti per i giovani e gli operatori non sono decollati, il testo unico è fermo. La Fondazione Una, nessuna, centomila: “È stato l’anno più buio di sempre”. È il 18 novembre del 2023 quando il corpo di Giulia Cecchettin viene ritrovato in fondo a un canalone, dopo essere stata uccisa con 75 coltellate da quello che avrebbe voluto essere ancora il suo fidanzato ma da tempo non lo era più. L’ondata di sdegno diventa una commozione che investe l’Italia intera. Purtroppo per il governo l’assassino non ha nulla del violentatore o del femminicida onnipresente nei loro racconti. È bianco, di buona famiglia, ed è nato e cresciuto nel cattolicissimo e leghistissimo Veneto. Ma rimanere in silenzio è impossibile. Ha inizio una gara a colpi di buoni propositi, annunci dai toni trionfalistici e bersagli da indicare per allontanare dalla pubblica opinione l’idea che il codice rosso e l’apparato punitivo su cui da tempo il governo sta lavorando siano inefficaci come da tempo sostengono dalle file dell’opposizione. Il ministro della Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo chiede un “grande sforzo dal punto di vista culturale per insegnare ai nostri giovani il rispetto delle donne”, senza scendere in dettagli. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio è più esplicito. Sottolinea che “come diceva Manzoni quando uno dà uno schiaffo nemmeno il Papa lo può togliere”, e quindi poiché “l’attività repressiva non è adeguata a intimidire chi vuole commettere un reato”, bisogna svolgere un’attività “essenzialmente preventiva” e “educare i genitori oltre ai figli”. Il ministro degli Esteri Tajani, aver deciso di illuminare di arancione la Farnesina e aver chiesto scusa come uomo, chiama anche lui in causa le famiglie perché a loro spetta la responsabilità di “far capire che non ci sono persone di serie A e di serie B”. Insomma, per una parte dell’esecutivo la violenza è un problema da risolvere tra le mura di casa. E poi c’è il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara che dall’estate, dopo il clamore suscitato dagli stupri di Palermo e di Caivano, sta lavorando a un grande progetto per portare nelle scuole l’educazione al rispetto nei confronti delle donne. Con grande senso dei tempi, ha organizzato una solenne presentazione in Senato. Accompagnato dai ministri Roccella e Sangiuliano, annuncia il via libera - forse già dalla primavera successiva ma di sicuro dal settembre 2024 - di corsi con gruppi di discussione e autoconsapevolezza tra gli studenti delle superiori, il coinvolgimento di influencer e di una folla di addetti ai lavori tra psicologi, pedagogisti, giuristi, esperti e associazioni di vario tipo tranne quelle che si occupano di violenza contro le donne. La sottosegretaria all’Istruzione Paola Frassinetti ne è sicura: “Si va verso lo smantellamento della cultura del possesso”. Il ministro della Salute Schillaci invece vorrebbe che “il rispetto” venisse insegnato alle scuole elementari. Mentre nel governo si cerca una difficile linea comune, sospinte da quest’onda di commozione che non sembra arrestarsi, il 22 novembre anche la segretaria del Pd Elly Schlein e la presidente del Consiglio Giorga Meloni si sentono al telefono e annunciano di essere d’accordo sulla possibilità di “trovare un terreno comune per far fare un passo avanti al Paese sulla prevenzione della violenza di genere”. Il giorno dopo viene approvato all’unanimità il ddl Roccella che rafforza le norme penali già esistenti, ma vengono anche approvati gli ordini del giorno del Pd e della maggioranza per accelerare i tempi per una discussione in aula sull’introduzione dei corsi antiviolenza nelle scuole e per stanziare risorse per la formazione di operatori e operatrici. Ormai siamo a poche ore dal 25 novembre, la giornata contro la violenza sulle donne. C’è tempo per un ulteriore annuncio, stavolta da parte di Martina Semenzato, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio: “È il momento di lavorare a un testo unico sulla violenza di genere”. E poi? Che cosa resta di tante parole un anno dopo? “Una totale inerzia istituzionale” risponde Antonella Veltri, presidente di D.i.Re., la più grande rete italiana di centri antiviolenza. “Del progetto di Valditara sappiamo che in alcune scuole è girata una circolare che dava la possibilità a chi voleva di attivarsi, e non molto di più”. Nessuna notizia del progetto nelle scuole anche secondo Valeria Valente, senatrice del Pd ed ex presidente della Commissione sul femmincidio: “Mi viene da dire che è preferibile che non ce ne sia traccia: se a sovrintendere era lo stesso Valditara che ha parlato alla presentazione della Fondazione Cecchettin avrei avuto più di una preoccupazione”. Sul testo unico Valeria Valente spiega che dopo dodici mesi si è ancora “alla ricognizione dei testi normativi esistenti”. “Non ci sono passi avanti, anzi si rischia soltanto di tornare indietro”, conclude. Per Lella Palladino, vicepresidente della Fondazione Una nessuna centomila, l’anno appena trascorso “è stato il più buio per i diritti di tutti” perché “l’Italia ha perso posizioni in tutti gli indicatori sul gender gap mentre nella violenza sulle donne registriamo un pericoloso abbassamento dell’età di aggressori e vittime. Non pervenuto il progetto di Valditara, non pervenuti gli interventi su formazione e prevenzione mentre dalle donne che passano per i centri abbiamo notizia di una quota troppo elevata di archiviazioni e assoluzioni dei casi denunciati”. Un anno e tante parole perse, insomma, è la risposta di chi si occupa da anni di questo tema. Un anno in cui, come ha ricordato ieri Gino Cecchettin, dopo la morte di Giulia sono state uccise “altre 120 donne soltanto in Italia”. Migranti. Decreto flussi, lite infinita. Le toghe “chiamano” il Colle di Valentina Stella Il Dubbio, 19 novembre 2024 Mentre l’Anm alza ancora i toni nei confronti di Nordio e il ministro replica alle critiche, ecco la lettera dei presidenti delle Corti d’appello. Che chiedono di fermare le norme con cui l’esecutivo assegna ai loro uffici i ricorsi sui migranti. Nessuna tregua fra magistratura e politica, anzi: da ambo le parti si affilano le armi per lo scontro finale: il referendum sulla separazione delle carriere. A nulla è servito il messaggio conciliatorio del ministro della Giustizia Carlo Nordio e del numero due di via Arenula, Francesco Paolo Sisto, dieci giorni fa alla festa per i sessant’ anni di Magistratura democratica. È trascorsa solo una settimana da allora e il clima è tornato nuovamente rovente. Da una parte l’Associazione nazionale magistrati che, nel “parlamentino” riunito nel week end, ha deliberato, con il consenso di tutti i gruppi associativi compatti, un’assemblea straordinaria da tenersi il 15 dicembre a Roma, dal tema “Riforme e assetto costituzionale della magistratura”. In più, il Comitato direttivo centrale (definizione formale dell’organismo) dell’Anm ha invocato un intervento del Consiglio superiore della magistratura a tutela dell’autonomia e indipendenza delle toghe. Dall’altra parte il guardasigilli, che in un’intervista al Corriere della Sera, rispondendo a una domanda sul fatto che l’Anm denunci attacchi mirati ad assoggettare i giudici alla politica, ha replicato seccamente: “Non capisco da dove traggano questa convinzione. Mi attendo argomentazioni logiche, non slogan folcloristici”. Mentre Sisto, a Repubblica, ha aggiunto: “I magistrati non hanno legittimazione popolare”. La “difesa” di Casciaro, segretario Anm - Ha replicato ad “Agorà”, su Rai3, il segretario generale del “sindacato” delle toghe, Salvatore Casciaro: “Argomentazioni logiche? Ci sono stati alcuni provvedimenti delle sezioni specializzate Immigrazione che non hanno convalidato i trattenimenti di migranti, ritenendo che potesse essere a rischio la loro incolumità se fossero stati respinti in Paesi non sicuri. A fronte di questo ci sono state reazioni vibranti, impetuose, concitate di esponenti della maggioranza. I magistrati sono stati accusati di politicizzazione: ‘magistrati comunisti’, ‘anti-italiani’... Ma c’è una sentenza del 4 ottobre della Corte di giustizia europea che dice che l’ultima parola spetta al giudice comunitario, per l’individuazione dei Paesi sicuri. Sono poi state individuate soluzioni sul piano normativo, processuale, cioè spostare”, ha ricordato Casciaro, “la competenza dalle sezioni specializzate Immigrazione, che svolgono questa materia con affidabilità e professionalità da molti anni, alle Corti d’appello, rischiando di mettere in ginocchio le stesse Corti e far saltare anche il conseguimento degli obiettivi del Pnrr, con perdita di finanziamento dell’Unione europea. Ora in questo contesto è evidente”, secondo il segretario dell’Anm, “che si vorrebbero dei magistrati allineati a quelle che in qualche modo sono le indicazioni della politica”. Il riferimento è al decreto Flussi, nel quale il centrodestra ha deciso di inserire un emendamento, firmato dalla relatrice Sara Kelany, che priva appunto le sezioni Immigrazione dei Tribunali civili della facoltà di decidere sui trattenimenti dei migranti da parte del Questore, demandando tutto alle Corti d’appello civili. Trasferimento di competenze ai giudici di secondo grado che si aggiunge al ripristino di un’ulteriore, “vecchia” competenza, per le Corti d’appello, nello stesso ambito: il reclamo contro i provvedimenti dei Tribunali distrettuali in materia di protezione internazionale, le “richieste d’asilo”. Reclamo in appello che era stato soppresso nel 2017 dall’allora guardasigilli dem Andrea Orlando proprio per deflazionare il carico di pendenze. Paradossalmente, rispetto agli intenti del governo che vorrebbe espellere dal nostro territorio quanti più migranti possibili, “l’inserimento di un nuovo grado di impugnazione allungherà l’iter d’accertamento dello status dell’immigrato e determinerà il rischio di una permanenza maggiore in Italia di chi potrebbe non avere diritto a soggiornarvi”, spiega un documento dell’Anm. Ma a pesare è, più ancora, il grido d’allarme lanciato proprio dai magistrati che guidano quegli organi giurisdizionali a rischio “sovraccarico”. La lettera al Colle dalle Corti d’appello - Sono i presidenti delle 26 Corti d’appello a compiere una mossa che rischia di far saltare l’ingranaggio immaginato dall’Esecutivo con l’emendamento Kelany, predisposto, in particolare, negli uffici del ministero dell’Interno. In una lettera rivolta anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, i presidenti delle 26 Corti di secondo grado italiane chiedono di scongiurare il “disastro annunciato”, e i “gravi esiti” sul lavoro degli uffici giudiziari, del decreto Flussi. La nota è rivolta, oltre che al Quirinale, al titolare del Mef Giancarlo Giorgetti, a Nordio e ai presidenti di Camera e Senato Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa. Nel mirino, proprio la “reintroduzione” del ricorso in appello contro i provvedimenti di protezione internazionale e l’emendamento che attribuisce, appunto, al giudice di secondo grado anche la “competenza per i provvedimenti di convalida dei trattenimenti”, quelli emessi dal Questore. Modifiche che, “a prescindere da ogni considerazione circa l’alterazione del sistema di impugnazioni”, dicono i presidenti delle Corti d’appello, vengono proposte a “organici invariati e senza risorse aggiuntive”. Un fatto che accade a pochi anni dall’”incremento degli organici e delle risorse” per le sezioni Immigrazione dei Tribunali di primo grado, a questo punto inutili. Ne deriverà, secondo i presidenti, un “disastro annunciato per tutte le Corti di appello italiane”, si renderanno “irrealizzabili gli obiettivi del Pnrr” e si determinerà “un’ulteriore recrudescenza dei tempi e dell’arretrato dei processi”. Una mobilitazione e un allarme che inaspriscono ulteriormente, questo è certo, il contrasto fra governo e magistratura. D’altra parte l’obiettivo di governo e maggioranza è mostrare all’opinione pubblica che si sta facendo tutto il possibile per difendere la propria politica migratoria e, nello stesso tempo, che si cerca di porre un freno a quello che è ritenuto uno straripamento del potere da parte della magistratura. In prima linea, in questa strategia, Matteo Salvini con le sue critiche quotidiane e spesso ripetitive all’Anm: indebolita la battaglia sull’autonomia differenziata, in parte bocciata dalla Consulta, ora anche la Lega punta ad attribuirsi la riforma della giustizia. Si può citare anche la richiesta di una “pratica” al Csm portata avanti da due consigliere laiche, Isabella Bertolini (FdI) e Claudia Eccher (Lega), contro il segretario di Magistratura democratica Stefano Musolino. Secondo la lettura condivisa dall’Anm nel proprio Parlamentino, si tratterebbe di una strategia ben più ampia concepita per “svilire ogni tentativo da parte dei magistrati di esprimersi pubblicamente”. Sullo sfondo, quella che, come detto all’inizio, è la vera partita: la separazione delle carriere e, soprattutto, il referendum che dovrà “confermare” la riforma. Come ricordato sabato su queste colonne, l’idea che Nordio ha condiviso, negli ultimi giorni, con chi ha avuto modo di confrontarsi con lui, è che la vittoria al referendum sarà a portata di mano se solo la comunicazione politica verrà affidata a una semplice domanda: “Siete contenti, cari cittadini, di com’è oggi la magistratura? Se non lo siete, votate sì al referendum confermativo”. Gli aveva replicato il presidente Anm Giuseppe Santalucia: “È una domanda che chiama un referendum non sulla separazione delle carriere ma sul gradimento della magistratura e quindi del servizio giustizia: la risposta non riguarderebbe solo la magistratura, ma anche il ministro. Se così fosse i cittadini risponderebbero, ciascuno, pensando ai ritardi, alle attese che hanno dovuto patire per avere giustizia”. Insomma nessuna tregua neanche per Natale. La grande illusione della vittoria su Putin ha trascinato nel baratro Kiev e l’Europa di Domenico Quirico La Stampa, 19 novembre 2024 Sanzioni e aiuti militari non hanno funzionato. Lo Zar ha il tempo dalla sua parte e aspetta Trump. Si sta per chiudere il sipario su migliaia di morti. Il caso è grave: mille giorni di inutile guerra. Quando si sono pronunciate queste poche sillabe, e intanto in Ucraina uomini e cose si rarefanno, appassiscono, cadono a pezzi, si è detto tutto, si è risposto a tutto e la vittoria non è nemmeno più una speranza. E allora siamo alla domanda, indefettibile: perché ci hanno ingannato promettendoci la vittoria? Chi dovrà renderne conto? L’argomento è scabroso, non lo nego. I progressi della tecnica, e della bugia, hanno reso molto feroci non soltanto questa guerra ma anche la (possibile) tregua. Non dimentichiamo questi due anni di malattia della verità, le false certezze per cui si è accettato un massacro progressivamente e umanamente premeditato: Putin sarà sconfitto, punto! Sarà Zelensky a stabilire quando la vittoria gli apparirà sufficiente perché totale! Mai trattative con Putin che è un criminale di guerra! L’economia russa non resisterà un mese al martello implacabile delle sanzioni! L’esercito russo è formato da aspiranti disertori portati in trincea con il fucile alla schiena! Eroismo ucraino e carri armati Leopard: risultato sicuro! A Mosca scoppierà la rivoluzione, oligarchi orfani di yacht e vacanze, generali umiliati, dissidenti impavidi fatevi sotto! Abbiamo guardato, al di là del ragionevole, il feticcio della vittoria innalzato al di sopra della popolazione ucraina da certi ipnotizzatori che guariscono la vertigine con il sonno. I guerrafondai atlantici, politici, affaristi e accademici, da quasi tre anni non chiudono occhio: hanno pensato, elaborato, progettato la megamacchina del conflitto nel centro dell’Europa innescato da Putin come gigantesca occasione di business economico e politico senza rischi per loro, nascondendo tutto sotto retorici svolazzi: il diritto internazionale violato e da ricucire con virtuose cannonate ridimensionare la Russia come potenza addomestichiamola prima che aggredisca il mondo poiché è malata inguaribilmente di bulemia territoriale… Ma come la mettiamo con il Fatto che Putin ha l’Arma? Niente paura, non ci sarà bisogno di lanciare i definitivi megatoni. Attenzione però: nei viaggetti in treno a Kiev e dopo non ci avevate promesso la salvezza dell’Ucraina, quella si poteva assicurare in altro modo nel 2014 o ancora nel 2022. Voi avete garantito ben altro, la vittoria. A volte la Storia tartaglia. Mentre seguivamo il conflitto dalla prospettiva ingannatrice delle notizie del giorno che voi ci fornivate, simili a squarci di cielo illuminati dai lampi durante una tempesta, abbiamo notato o, meglio, scoperto che qualcosa non andava, c’era nello sviluppo delle operazioni una imperfezione, un difetto di base che neppure una accorta censura, il chiasso della vostra propaganda speculare a quella dell’Altro, riusciva a occultare. Insomma: Putin, l’invasore che bisognava punire con la pace ovviamente “giusta”, non stava affatto perdendo la guerra. Anzi con il passare dei mesi la stava inesorabilmente, metodicamente, pazientemente vincendo. La parola è sussurrata all’anniversario dei mille giorni nel mormorio di chi abbandona l’ultima speranza: i russi avanzano! Un miracolo che di questa grave realtà si trovi traccia in mezzo a tanta spacconeria, cupidigia, smemoratezza e vanità occidentale. Il fallimento o il successo nella lotta per la sopravvivenza tra nazioni e sistemi: questa è, ahimè, l’unica norma morale. Giusto è ciò che sopravvive. Putin è sopravvissuto con la sua prepotenza, per questo purtroppo ha vinto. E può proseguire nel suo “terrore vegetariano’”. Dopo mille giorni il Mefistofele in miniatura, soddisfatto, allinea al Cremlino le figurine dei nemici, i sacerdoti della umanità che invece sono scomparsi nel nulla della Storia: Biden che ha trascinato con sé nella sconfitta il partito democratico, un paio di primi ministri di sua maestà britannica che volevano rianimare con la guerra anglosassone una isola ormai irrilevante, Macron che vivacchia in attesa di una costituzionale pensione, Scholz che prepara il trasloco dalla Cancelleria. E la Nato! Il Gran Comandante, l’azzimato Stoltenberg che ha salutato tra inni e tamburi appena in tempo per non certificare la disintegrazione della più grande alleanza militare di tutti i tempi. L’insipienza che ha guidato la condotta occidentale in questa guerra ha fatto sì che la putiniana propaganda infarcita di retorica patriottarda trovasse conferma nei fatti: la Santa Russia ha fermato, da sola, l’aggressione americana e dei suoi vassalli ucraini ed europei! I russi così tireranno avanti, come sempre, per l’ennesima volta, nella loro coscienza sdoppiata, sospesi nel trepido ascolto del cupo bisbiglio del destino. E qualunque trattativa dovrà partire dalla situazione militare sul terreno: altro che pace giusta con la restituzione di ogni centimetro conquistato e annesso dal 2014 a oggi! E adesso, tra formule trite e anemici artifici, si prepara in Europa l’ennesima giravolta per liquidare il fantomatico e sfuggente Graal della vittoria e giustificare la sconfitta, si annuncia cioè che la necessità di trattare con il criminale Putin è tutta colpa dell’avvento dello sciagurato Trump, delle sue sgangherate simpatie putiniste! Da soli abbiamo le mani legate! E il buon diritto, e la-sorte-del-mondo-è-nelle-nostre-mani e la corte dell’Aja? L’importante è celebrare la seconda morte dell’Europa senza dirlo, nell’ipocrisia. Dunque: meno male che è arrivato Trump poiché nelle cancellerie non si aspettava altro che una buona scusa per finirla. Al di fuori dell’esplicito tutto diviene sopportabile, i sorrisi rifioriranno. Il faccia a faccia con la seconda morte dell’Europa è angoscioso perché la subiamo e la compiamo. Un flash-back si impone: dell’Ucraina e di Zelensky a Washington e a Bruxelles non è mai importato nulla. Se la fede nella giustizia non fosse stato solo un molle guanciale era una causa per cui avrebbero dovuto pagare il prezzo di scendere direttamente in campo. Ma per l’amministrazione americana era soltanto una ghiotta occasione per logorare Putin, mettere il guinzaglio agli europei e fare buoni affari con armi e energia. Sempre senza mai superare una certa linea, senza impegnarsi a fondo. Si poteva cambiare idea ad ogni momento. Trump tirerà solo, maleducatamente, le conclusioni. Per molti governi europei, deboli, discussi, in crisi di legittimità, la improvvisa febbre di fedeltà atlantica era una necessità di politica interna: zitti, dobbiamo salvare l’Ucraina e respingere Putin! Poi a un certo punto è diventato un affare lucroso: il nuovo eldorado della economia di guerra. Si comincia già a telefonare al criminale... bentornato Trump! Zelensky dovrà rassegnarsi. E soprattutto il business dei carri armati continuerà: siamo deboli, dobbiamo armarci. Russia. Rischia la galera chi resiste alla “non guerra” ma i piccoli gesti ora fanno paura allo zar di Raffaella Chiodo Karpinsky Avvenire, 19 novembre 2024 Dopo mille giorni la vita di chi in Russia si oppone alla logica della guerra è sempre più dura e a rischio. Eppure sono tanti quelli che continuano a resistere. Ognuno a modo suo esprime il dissenso. Chi pubblicamente andando incontro alle note conseguenze e chi nelle relazioni più strette imparando a schivare le delazioni che portano a perdere il lavoro, il conto in banca e alla gogna. Agenti stranieri e traditori della patria. Cresce la lista di chi viene arrestato, riceve condanne da due a vent’anni anni di carcere. Negli ultimi mesi è evidente - soprattutto dallo storico scambio di prigionieri e il rilascio di importanti figure politiche - il disegno che mira a dividere il fronte dell’opposizione. In questo senso la scelta di espellere dal Paese chi dal carcere esercitava un ruolo di troppo richiamo. È il caso di Vladimir Kara Murza e Ilya Yashin. Vale anche per Oleg Orlov, leader di Memorial, premio Nobel per la pace e per l’impatto della sua resistenza civile durante il processo e le conferenze stampa davanti al tribunale o per le “ultime parole” pronunciate dagli imputati meno noti prima della sentenza. Attivisti, artisti, medici o studenti troppo fastidiosi. Mettere in salvo le loro vite era la priorità e rispondeva all’appello dell’altro Premio Nobel, Dmitrij Muratov. Ma il regime sapeva che avrebbe favorito l’acuirsi della divisione tra chi è dentro e chi è fuori del Paese. Tra chi è contro la guerra, sostenendo la necessità di sconfiggere sul campo Putin, e chi è contro la guerra ma pur opponendosi a Putin dà priorità assoluta al cessate il fuoco mettendo fine al bagno di sangue di civili e soldati sui due fronti. È questo il crocevia drammatico, il cuore dello scontro tra la diaspora egli “interni” che restano nel Paese. Un’ulteriore impennata nella divisione è arrivata con la contro-invasione ucraina nel Kursk e i droni che hanno raggiunto zone del Paese anche ben lontane dal confine. Le immagini delle distruzioni su siti e sui social delle istituzioni locali, regionali e nazionali e sui media sulle conseguenze ha il suo effetto. “Che status abbiamo?”, chiede una signora al sindaco e al presidente. La gente alle sue spalle grida: “Ditelo che è una guerra! Cos’altro è se le nostre case sono rase al suolo dalle forze che si combattono?”. Voci che rimbalzano tra gli account indipendenti, ma non solo su questi, riportando la guerra nelle cucine e sui telefonini di tutto il Paese. Serve a poco che la propaganda le presenti come distruzioni provocate dal nemico, perché sono la prova che di guerra si tratta. I video che mostrano il prima e il dopo del passaggio dei soldati, denunciando gli sciacallaggi, fanno il resto. Di ieri l’appello di cittadini del villaggio di Olgovka, rivolto a Putin: “Siamo all’inferno da tre mesi. A chi dovremmo rivolgerci, dove possiamo trovare la salvezza? Vi chiediamo di porre fine a questa dannata guerra, che ha causato molte vittime innocenti. Vogliamo che i nostri figli vedano un cielo sereno e non debbano sentire il segnale di pericolo missilistico. Esamina questa situazione e ascolta i residenti di confine. Non è di nostra spontanea volontà che sopportiamo tutto questo”. Intorno a questo triste anniversario continua a farsi sentire la voce di chi fa appello per il cessate il fuoco e per negoziati per mettere fine al bagno di sangue. Tra questi Lev Schlosberg giornalista storico ed esponente di Yabloko nella città di Pslcov è sotto attacco perché chi vuole la pace, e l’immediata fine del massacro, e non la sconfitta armata, è di fatto avversato trasversalmente. Di questi giorni l’appello di Muratov per l’apertura di un corridoio umanitario per gli abitanti di Sudzha a 9 km dal confine con l’Ucraina. Stride con gli slogan della propaganda: “È tutto sotto controllo”, “Non c’è nulla di cui preoccuparsi” o il mantra: “Noi non abbandoniamo i nostri!”, che in genere è riferito ai soldati. Muratov chiede “perché i nostri civili di Sudzha vengono invece abbandonati? Non sono nostri anche loro?”. Sono tre mesi che proseguono gli scontri armati tra l’esercito ucraino e quello della federazione russa e ci sono “centinaia e centinaia di cittadini in trappola”. L’appello è rivolto alla Commissione dell’Onu per i diritti umani, al difensore civico russo Tatyana Moskalkova e al presidente del Comitato internazionale della Croce Rossa. “Almeno un migliaio di civili rimangono nella regione di confine di Kursk. La maggior parte di loro sono anziani, famiglie con bambini e persone gravemente malate che non hanno accesso ai medicinali necessari”. “L’unica garanzia per salvare i civili è creare un corridoio umanitario. Vi chiedo di aiutarci con la sua immediata organizzazione. Entrambe le parti in conflitto devono garantire l’evacuazione sicura dei civili, soprattutto anziani e bambini, in conformità con la Convenzione di Ginevra. Annunciate questa evacuazione con le risorse del Ministero russo per le emergenze e organizzatela subito”. Hong Kong. Condannati i 45 democratici che volevano elezioni libere di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 19 novembre 2024 Il maxiprocesso ha applicato la Legge di sicurezza cinese. Dieci anni al professore di diritto Benny Tai, fondatore del Movimento degli Ombrelli. Altri quattro anni di carcere a Joshua Wong. La lettura delle condanne ha fatto calare il sipario sul processo “Hong Kong 47” e su quel che restava del sogno democratico. Decine di esponenti dell’opposizione anticomunista dovranno scontare fino a dieci anni di carcere per aver violato la Legge di sicurezza nazionale cinese imposta nel 2020. Dieci anni fa di questi giorni il professore di diritto Benny Lai e lo studente Joshua Wong erano in testa a cortei oceanici a Hong Kong. I loro volti erano sulle prime pagine della stampa mondiale che seguiva i 79 giorni della Rivoluzione degli Ombrelli, la sfida democratica lanciata nel 2014 nelle strade dell’ex colonia britannica alla Cina. Quegli ombrelli gialli aperti dai ragazzi di Hong Kong servivano inizialmente a ripararsi dagli idranti e dagli spray urticanti della polizia. Divennero rapidamente il simbolo di un territorio che reclamava elezioni a suffragio universale e piena democrazia, una richiesta che minava le fondamenta del Partito comunista cinese. Il potere vacillò a Hong Kong, ma Xi Jinping non ammise concessioni in quella ricca periferia dell’impero ancora sensibile ai valori occidentali. Nel 2019 il fronte democratico si mobilitò ancora, per l’ultima volta, con altre manifestazioni di massa e anche guerriglia urbana. Quel tempo è passato per sempre. Oggi i due alfieri del sogno infranto e decine di loro compagni di impegno politico hanno ascoltato la sentenza di condanna per “cospirazione al fine di sovvertire l’ordine costituzionale”. Il professore Lai ha ricevuto 10 anni di carcere, il giovane Joshua Wong 4 anni e 8 mesi. Gli altri imputati e imputate dovranno scontare tra i quattro e i sette anni di detenzione. Tutti sono in cella dal gennaio 2021, quando una retata all’alba rastrellò il gruppo dirigente del movimento di opposizione hongkonghese. In tutto, 47 uomini e donne del campo democratico furono chiusi in carcere per aver ordito un “malefico piano sovversivo” che infrangeva la nuova Legge di sicurezza nazionale cinese. Il piano “malvagio” consisteva nell’aver organizzato o partecipato nel 2020 alle primarie per selezionare i candidati di opposizione alle elezioni legislative. Nonostante le minacce delle autorità, a quell’ultima mobilitazione avevano partecipato 610 mila cittadini di Hong Kong, che si misero in fila per votare in seggi improvvisati dagli attivisti. L’obiettivo dichiarato del fronte di opposizione era conquistare la maggioranza dei seggi al Legislative Council e mettere il veto alle leggi proposte dall’esecutivo sottomesso a Pechino. Portare alle primarie 610 mila cittadini, su un totale di 7 milioni di abitanti, fu l’ultima grande prova di forza della City che voleva resistere all’abbraccio illiberale e soffocante della “madrepatria cinese”. Il governo a quel punto cambiò il sistema, imponendo una nuova norma che consente la candidatura solo ai “patrioti”. E per essere definito un patriota ora a Hong Kong bisogna garantire fedeltà al Partito comunista cinese e al governo centrale di Pechino. Non restava che saldare i conti con gli oppositori delle primarie. Dei “47 di Hong Kong” solo due sono stati prosciolti, tra i 45 condannati molti, compreso Joshua Wong e Benny Tai, si erano dichiarati colpevoli di cospirazione per ottenere i benefici di legge ed evitare il rischio dell’ergastolo. Per essere certo del verdetto, il governo della City (guidato dall’ex ufficiale di polizia John Lee) aveva scelto i tre giudici del maxiprocesso, escludendo la giuria popolare. È la nuova giustizia in stile mandarino, che ha soppiantato il sistema garantista ereditato dal “common law” britannico e che Pechino si era impegnata a mantenere per cinquant’anni a partire dalla restituzione del territorio celebrata nel 1997. Uno a uno i giudici internazionali che erano in servizio nella City stanno lasciando la toga per non dover diventare semplici esecutori della linea dettata dal governo. Dimettendosi da giudice dell’Alta Corte di Hong Kong a giugno, il britannico Lord Jonathan Sumption ha ammonito che la City “sta lentamente diventando un regime totalitario”.