Ai responsabili dei laboratori di scrittura e delle attività di informazione e sensibilizzazione dal carcere e dall’area penale esterna Ristretti Orizzonti, 17 novembre 2024 Gentili tutti, il Terzo Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere, che si è svolto l’11 ottobre a Opera, è stato un momento importante per ritrovarci, e tornare a parlare insieme dei temi che ci sono cari. Il passo successivo è l’organizzazione di una videoconferenza per rilanciare le nostre attività. Noi della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ci occupiamo da anni di informazione e comunicazione, in particolare con il Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere, per questo riteniamo importante chiedervi di manifestarci il vostro interesse a partecipare a un incontro in ZOOM in data da stabilire per sviluppare i temi trattati a Opera con Luigi Ferrarella, anche in considerazione dell’uso delle tecnologie nelle carceri, che riteniamo vada rafforzato e promosso con determinazione. Fra gli altri obiettivi, anche quello di creare una rete che aiuti i tanti volontari interessati a dar vita a un’esperienza di informazione sulle pene e sul carcere a operare in un contesto sempre più difficile. Per la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Ornella Favero, presidente Carla Chiappini, responsabile della comunicazione Segnalare la propria adesione alla mail ornif@iol.it Polveriera carceri, mondo ingestibile di David Allegranti La Nazione, 17 novembre 2024 Al 31 ottobre scorso in Italia c’erano 62.110 detenuti nelle carceri italiane: una polveriera ingestibile. Pochi giorni prima che Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia con delega all’amministrazione penitenziaria, si esaltasse per la nuova dotazione tecnologico-automobilistica per il trasporto dei detenuti in regime di 41 bis e di Alta sicurezza, il suo ministero aggiornava i dati sul numero di detenuti presenti all’interno delle carceri italiane. Al 31 ottobre 2024 c’erano 62.110 detenuti. “Era dal 2013, cioè dall’anno della Sentenza Torreggiani con cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva condannato l’Italia per i trattamenti inumani e degradanti generalizzati nelle carceri italiane, che non si registravano numeri così elevati”, afferma Patrizio Gonnella, presidente di Antigone: “Solo nell’ultimo anno sono quasi 3.000 i detenuti in più presenti nelle carceri, laddove i posti disponibili conteggiati dal Ministero della Giustizia sono 51.196, mentre a metà ottobre sappiamo che tra questi 4.445 non lo erano realmente”. In 23 delle 73 carceri visitate da Antigone nell’ultimo anno sono state trovate celle che non rispettavano il parametro minimo dei 3mq. Una condizione riconosciuta dagli stessi Tribunali di Sorveglianza italiani che sistematicamente condannano l’Italia. Nel 2023, su 9.574 istanze per sconti di pena ne avevano decise 8.234 e di queste accolte 4.731 (il 57,5%). “Le politiche governative, a partire dal ddl sicurezza, non fanno altro che spingere il sovraffollamento carcerario”, dice ancora Gonnella. Oltre ai 62 mila detenuti in carcere, al 15 ottobre 2024 c’erano 140.774 persone sottoposte a misure alternative, pene sostitutive, libertà vigilata, eccetera. Un numero enorme, cresciuto nel tempo, utile a capire quanto sia vasta l’area dell’esecuzione penale in Italia. Non ci si deve dunque stupire dei reiterati episodi di protesta nelle carceri italiane, come quello piuttosto scenografico di qualche settimana fa a Regina Coeli. Per non parlare degli 81 suicidi tra i ristretti, l’ultimo avvenuto venerdì scorso (un ventottenne nel carcere di Marassi). Il triste record del 2022, 84 suicidi, rischia di essere superato da qui alla fine dell’anno. La vita in carcere, come si capisce da episodi di tensione come questi, non è incredibilmente complessa solo per i detenuti, ma anche per gli agenti di polizia penitenziaria. Secondo i dati dell’osservatorio Cerchio Blu aggiornati al settembre 2024, i suicidi tra gli agenti sono stati 7. Anche loro, a loro volta, sono dei reclusi. Il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, il dottor Marcello Bortolato, ama sempre ricordare che cosa succede in Francia, dove l’École nationale de la magistrature prevede da anni degli stage penitenziari obbligatori per coloro che vogliono fare i magistrati. È successo anche in Italia, quando Presidente della Scuola Superiore della Magistratura era il professor Valerio Onida e i giovani magistrati in tirocinio erano tenuti a frequentare degli stage penitenziari addirittura per 15 giorni. Poi prevedibilmente ci furono delle polemiche e non se ne fece più niente. Uno stage di pochi giorni in un istituto penitenziario forse potrebbe farlo anche qualche scanzonato sottosegretario. La Conferenza nazionale dei Garanti dei detenuti risponde a Delmastro Ristretti Orizzonti, 17 novembre 2024 “Ci indigna l’intima gioia per la sofferenza dei carcerati! Parole prive di umanità e dignità istituzionale”. Il Portavoce della conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private della libertà personale *Samuele Ciambriello*, che è il garante campano dei detenuti rende noto una indignazione degli stessi rispetto alle frasi, toni e ambientazioni del sottosegretario alla giustizia Delmastro, in contrasto con il dettato costituzionale e la dignità delle singole persone. Parole prive di umanità e di dignità istituzionale. “La Conferenza nazionale dei Garanti territoriali dei Diritti delle Persone private della libertà personale esprime la più profonda indignazione per le parole espresse dal Sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, nel corso della presentazione della nuova auto della Polizia Penitenziaria. Parole di una gravità inaudita che, proprio perché pronunciate da un rappresentante del Governo della Repubblica, che ha giurato sulla Costituzione, appaiono ancor più inaccettabili, in quanto profondamente offensive della dignità umana delle persone che vivono in condizione di privazione della libertà personale e perché dette espressamente in violazione dei basilari principi costituzionali in tema di esecuzione penale. Esse alimentano un già acceso clima di odio, che impedisce di trovare concrete soluzioni alle tante e gravi criticità delle condizioni di vita delle persone detenute presso i nostri Istituti penitenziarie, di cui il Sottosegretario alla Giustizia dovrebbe seriamente farsi carico. Parole che sono funzionali a rappresentare una visione stereotipata e distorta della vita penitenziaria, che finisce finanche per delegittimare il complesso e delicato lavoro di tutti gli Operatori Penitenziari ed in particolare della Polizia Penitenziaria. Per noi Garanti, la Comunità penitenziaria è costituita da detenuti e “detenenti”, che, come luogo di riscatto personale, deve essere sempre caratterizzato dal rispetto reciproco, dalla non violenza e dalla tutela della dignità delle persone. È evidente che, pronunciando queste parole, il Sottosegretario alla Giustizia dimostra di non conoscere nemmeno il motto della Polizia penitenziaria: “Despondere spem est munus nostrum”. L’iperblindato ferox del sottosegretario Delmastro camerepenali.it, 17 novembre 2024 La nota della Giunta dell’Unione delle Camere penali italiane sulle esternazioni del sottosegretario alla Giustizia Delmastro. Diceva il Sottosegretario Delmastro di “non avere i detenuti nella sua delega”, ma evidentemente il suo cuore batteva comunque per loro. Tanto da gioire nel proprio intimo nel pensarli dietro i vetri oscurati dei moderni blindati tecnologici messi a disposizione della polizia penitenziaria. Se ne occupa, quindi, dei detenuti, al di là delle deleghe, e lo fa dal punto di vista del più truce dei carcerieri. Interprete della visione, al tempo stesso ridicola e brutale, di uno Stato cinico e vendicativo, che gioisce nel vedere il recluso incalzato e schiacciato senza respiro nell’acciaio feroce del suo blindato. Eppure non era proprio il Sottosegretario Delmastro a dire “garantisti nel processo… giustizialisti nell’esecuzione”? E non sa forse che al 41-bis e all’Alta Sicurezza, al cui servizio è destinato l’iperblindato della sofferenza, sono destinati indifferentemente anche gli indagati e gli imputati presunti innocenti? Se questa è la sua idea delle garanzie chissà cosa starà ora escogitando per il trasporto esclusivo dei condannati. Quale nuova sadica macchina restrittiva giustizialista, da mostrare con orgoglio ai giovani di questo Paese, starà progettando, è difficile immaginarlo. Ma se simili sforzi della fantasia il sottosegretario Delmastro li facesse lontano dal Ministero della Giustizia, sarebbe certo meglio per tutti, e soprattutto per l’idea della sicurezza che dovrebbe avere a cuore questo Paese, ben più sana, civile e rispettosa della dignità della persona. Il buco nero dei “luoghi idonei alla detenzione” di Luigi Mastrodonato Il Domani, 17 novembre 2024 Stanze di detenzione di cui nessuno parla. Sono all’interno delle questure, liberalizzate dal decreto Salvini. Usate per le persone che vanno a chiedere il permesso di soggiorno, ora sono diventate una terra di nessuno fuori da ogni forma di controllo. In Italia ci sono luoghi di detenzione più invisibili delle carceri e dei centri di permanenza per i rimpatri (Cpr). Sono i cosiddetti luoghi idonei presso le questure e le zone di transito aeroportuali. Qui i cittadini stranieri in attesa di esecuzione del rimpatrio vengono trattenuti per ore, se non per giorni, in un contesto normativo grigio, dove non esistono tutele e monitoraggio. Se le carceri italiane sono un buco nero della democrazia e i Cpr dei lager di stato, i luoghi idonei presso le questure e le zone di transito aeroportuali sono aree di detenzione amministrativa discrezionale che per la legge è come se non esistessero, ma a cui il governo sta facendo sempre più ricorso. Nel 2018 in Italia è entrato in vigore il cosiddetto “Decreto Salvini”. La legge, sbandierata come argine al boom degli sbarchi, è intervenuta tra le altre cose sul tema della detenzione amministrativa degli stranieri in attesa di rimpatrio, prevedendo che essa potesse avvenire non più solo nei Cpr, ma anche in “strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza”, nel caso in cui negli stessi Cpr non ci fosse più posto. È con questa formula molto generica che in Italia è stata inaugurata la stagione dei luoghi idonei presso le questure. Succede che persone che si trovano sul territorio italiano da anni vengano convocate in questura per informazioni relative al rinnovo del permesso di soggiorno e si ritrovino invece sbattuti in una cella e poi, nel peggiore dei casi, imbarcati su un volo verso il loro paese di origine. Hassan è arrivato in Italia da ormai oltre dieci anni. Ha ottenuto un permesso di soggiorno per protezione speciale, in patria subiva discriminazioni per una malattia da cui è affetto. In Italia si è costruito una vita e ha lavorato con contratti regolari. Il governo Meloni nel 2023 ha cancellato la tipologia del suo permesso di soggiorno, che intanto gli è pure scaduto. Qualche tempo fa la questura di Milano gli ha detto di presentarsi negli uffici con il passaporto, senza dargli ulteriori dettagli. “Mi hanno fatto aspettare in sala d’attesa, poi sono arrivati gli agenti che mi hanno sequestrato il permesso scaduto, la mia carta d’identità italiana e il mio passaporto e mi hanno messo in una cella dicendo che entro poche ore mi avrebbero rimpatriato”, racconta. “Non avrei mai pensato di poter ricevere un trattamento simile, dopo aver vissuto e lavorato per anni in Italia”. La prassi prevede che le persone straniere trattenute nei locali della questura possano rimanerci per un massimo di 96 ore, durante le quali deve avvenire la convalida del rimpatrio del Giudice di pace. Il problema è che non esiste una legge a disciplinare questa restrizione della libertà personale. Che dunque si trasforma in una forma di detenzione grigia e arbitraria, fuori da ogni forma di controllo e in violazione di quelli che, normalmente, sarebbero i diritti dei detenuti. Hassan è stato diverse ore nella cella della questura. “Mi hanno sequestrato il cellulare, mi hanno dato un pantalone sporchissimo e usato da altre persone, io non avevo niente con me perché ero andato in questura pensando di restarci pochi minuti”, racconta. “C’era un materassino molto sottile su cui dormire, mentre per andare in bagno dovevi chiedere il permesso agli agenti che ti accompagnavano. Lì dovevi stare con la porta aperta, sotto sorveglianza. La mia privacy è stata violate”. Alla fine il Giudice di pace non ha convalidato l’espulsione e Hassan è uscito dalla questura da uomo libero. Anche Adem, 31 anni, ha passato qualcosa di simile. Arrivato in Italia da bambino, dopo un lungo periodo di regolarità non ha più ricevuto risposta per il rinnovo del permesso di soggiorno, che intanto è scaduto. Lo scorso luglio lo hanno fermato per un controllo in strada ed è stato portato in questura. “Avevano già il biglietto pronto per mandarmi in Marocco, era mezzogiorno e l’aereo partiva alle 18”, spiega. “Mi hanno lasciato per sette ore in una cella, mi hanno tolto tutto lasciandomi in mutande senza neanche una coperta e ritirandomi il cellulare”. L’ambiente era una sorta di discarica: “Era sporchissimo, i muri cadevano in terra, il bagno era tutto nero. Mi hanno dato da mangiare del riso ma dentro c’erano le larve. Chissà da quanti giorni era lì”. Adem è affetto da una malattia cardiaca, ha provato a spiegarlo agli agenti e a un certo punto ha finto un malore. Quando è stato portato in ospedale gli esami hanno confermato la sua sindrome e una volta in questura è stato liberato per le sue condizioni di salute. “Ho messo in scena un malore perché era l’unico modo per andare in ospedale e dimostrare che sono un soggetto fragile”, spiega. Come sottolinea in un report l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), “nessun protocollo è in essere con il servizio sanitario nazionale e i trattenuti non vengono sottoposti ad alcuna visita di idoneità prima di accedere alla struttura; questo perché, sostiene la questura, non vi è alcuna prescrizione di legge in tal senso”. Ma non è l’unica mancanza. Sempre l’Asgi denuncia che durante la detenzione “il diritto di presentare reclami al Garante, il diritto di corrispondenza con l’esterno e perfino il diritto a un pasto caldo sono di fatto condizionati alla disponibilità dell’operatore di turno”. Raccontare i luoghi idonei presso le questure non è facile, perché il loro monitoraggio è di fatto precluso. Abbiamo fatto richiesta alla prefettura di Milano per potervi fare visita, ma non abbiamo ricevuto risposta. Anche l’Asgi aveva ricevuto il rigetto al sopralluogo dalla questura di Milano, che poi è stato effettuato nel 2022 grazie al ricorso al Tar. Le richieste di un elenco dei luoghi idonei presso le questure italiane non ha mai avuto seguito e oggi non si sa quante siano e dove siano, né quante persone ci siano passate. Incrociando le varie testimonianze, solo a Milano le presenze sarebbero decine ogni mese. In una serie di visite effettuate tra il 2020 e il 2021 ai luoghi idonei di Bologna, Parma e Trieste, il Garante dei diritti dei detenuti ha evidenziato numerose criticità sia dal punto di vista strutturale, chiedendo interventi di adeguamento e ristrutturazione, sia riguardo i diritti di base delle persone straniere recluse, come la comunicazione con familiari e avvocati e l’accesso alle informazioni sul loro status. L’Onu ha lamentato un’assenza di tracciabilità dei luoghi idonei e condizioni detentive che rischiano di tramutarsi in una violazione dell’articolo 17 della Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalle sparizioni forzate, che vieta la detenzione segreta. I luoghi idonei presso le questure sono zone grigie di detenzione, di cui si sa molto poco. “Negli ultimi tempi è incrementata la loro funzione. Con il nostro sportello stiamo entrando in contatto con sempre più persone coinvolte”, denuncia Cesare Mariani, volontario dello sportello legale Naga. “Molti dei rimpatri ci risultano poco legittimati. Persone che avrebbero diritto a rimanere in Italia o perlomeno a ricorrere contro il provvedimento di espulsione rimanendo sul territorio, da un momento all’altro vengono invece rispedite nel loro paese di origine”. Quello che non funziona nei locali idonei è soprattutto l’isolamento totale, che rende molto difficile riuscire a dimostrare il proprio diritto a restare. E si crea anche un cortocircuito istituzionale. “I provvedimenti nel caso di domanda di protezione internazionale arrivano su parere della commissione territoriale e su esecuzione della questura, che sono a loro volta organi soggetti al ministero dell’Interno”, sottolinea Mariani, che chiosa: “Questi attori agiscono su chiare indicazioni politiche, non c’è volontà di tutela”. L’equilibrio tra i poteri. Chi scrive le norme in Italia? di Sabino Cassese Il Foglio, 17 novembre 2024 Si assottigliano i confini tra legislativo ed esecutivo: oggi il governo sopravanza di molto il Parlamento nell’iniziativa e nell’approvazione delle leggi. Garanzie e correttivi possibili. Un’indagine partendo dai dati. Un importante cambiamento è in corso nel sistema politico-costituzionale. Il potere legislativo si è in larga misura spostato dal Parlamento al governo, che ha assunto un ruolo fondamentale sia nell’iniziativa delle leggi, sia con l’emanazione di un grande numero di decreti leggi e di decreti legislativi. Le cifre della legislatura in corso - Ormai il governo sopravanza di gran lunga il Parlamento nell’iniziativa e nella approvazione delle leggi. La dimostrazione è contenuta nel documento della Camera dei deputati intitolato “La produzione normativa: cifre e caratteristiche”, del 13 settembre 24. Nei due anni del governo Meloni, sono state approvate 144 leggi (di queste una costituzionale), di cui 62 leggi di conversione di decreti legge. I decreti legge sono stati 70 e i decreti legislativi 73. Quindi, il governo è stato l’iniziatore di ben 143 norme primarie (decreti legge e decreti legislativi) e il Parlamento di 82 (144 meno 62). Questo vuol dire che circa due terzi dell’attività normativa primaria è il frutto dell’azione governativa. A questo va aggiunto che 46 delle 82 leggi approvate erano, a loro volta, di iniziativa governativa. Che, per l’approvazione delle 143 leggi ordinarie, il governo ha fatto ricorso in almeno un ramo del Parlamento alla posizione della questione di fiducia. Che, se non si valutano gli atti normativi ma le parole, sommando il numero di parole delle leggi di conversione dei decreti legge e delle leggi di iniziativa governativa si giunge a quasi il 96 per cento della legislazione di provenienza governativa. Il ruolo del diritto europeo - Questo quadro, che induce a molto pessimismo sulla permanenza della separazione dei poteri, va attenuato se si considera che più della metà dei decreti legislativi è di approvazione di norme di diritto europeo. Quindi, il governo apre la porta di ingresso per la penetrazione del diritto europeo in quello nazionale e agisce come intermediario dell’Unione, provvedendo ad assicurare l’esecuzione di decisioni prese a Bruxelles. Il peso dei decreti legge - Un secondo aspetto che attenua la diagnosi pessimistica sullo spostamento del potere legislativo sul governo è il seguente: se è vero che i decreti legge contano sempre di più, bisogna però anche considerare quanto essi pesano e in quale misura il loro peso deriva dall’intervento del Parlamento. Infatti, le dimensioni dei decreti legge sono quasi sempre raddoppiate nel passaggio parlamentare e a questo raddoppio contribuiscono anche le opposizioni, considerato che il 15 per cento degli emendamenti deriva da proposte dell’opposizione. Quindi, non solo i decreti legge raddoppiano le dimensioni durante il passaggio parlamentare, ma nel corso di tale passaggio si arricchiscono anche di norme che provengono non dalla maggioranza parlamentare, né dal governo, ma dalle opposizioni. Questo vuol dire che anche nell’iter privilegiato del decreto legge - privilegiato perché entra immediatamente in vigore e perché la conversione deve avvenire in due mesi - anche in questo iter privilegiato per il governo, c’è uno spazio per l’opposizione, e viene quindi salvaguardata la funzione fondamentale del Parlamento, come luogo di incontro, conflitto, composizione maggioranza-opposizione. Il Parlamento non è uscito di scena - Non c’è dubbio che in larga misura il Parlamento sia esso stesso la causa di questo spostamento della funzione legislativa sul governo. Si consideri che il tempo medio per l’esame di norme di iniziativa parlamentare è di 228 giorni, mentre il tempo medio di esame delle proposte di iniziativa governativa è di 150 giorni. In secondo luogo, anche le procedure che iniziano con una norma adottata dal governo, come i decreti legge, o con una delega conferita al governo dal Parlamento, passano attraverso il Parlamento, che deve convertire i decreti legge (e lo fa arricchendoli di nuove norme, tanto da raddoppiarne le dimensioni, come appena osservato) o deve dare una delega al governo per l’attuazione dei princìpi e criteri direttivi determinati nella delega stessa. Si comprende quindi che i parlamentari approfittino del “treno veloce” del decreto legge, appesantendolo. In terzo luogo, va considerato che il governo opera pur sempre come comitato direttivo della maggioranza parlamentare, secondo la formula del costituzionalismo francese, ripresa in Italia da Leopoldo Elia. I Parlamenti legislatori - Nonostante che alle assemblee elettive sia riservata, anche se non in via esclusiva, la funzione legislativa, i parlamenti non sono stati mai grandi legislatori. Una dimostrazione, per gli anni recenti, di questa conclusione si trova nel volume prodotto dall’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei deputati, intitolato “La legislazione tra Stato, regioni e Unione europea. Rapporto 2022-2023”, nel quale sono stati raccolti i dati sulla legislazione parlamentare di paesi come la Germania, la Spagna, la Francia e il Regno Unito. Da questo rapporto risulta che nel 2022 la Germania ha approvato 107 leggi, la Spagna 74, la Francia 62 e il Regno Unito 48 e che circa due terzi delle leggi di questi Paesi è stata di iniziativa governativa e circa un terzo di iniziativa parlamentare. Dunque, in Italia si produce un numero di leggi per anno tra un terzo e due terzi superiore a quello di altri paesi europei. Dobbiamo preoccuparci? - Numerosi osservatori hanno notato che questa trasformazione del sistema politico costituzionale, per cui il governo diventa legislatore, non ha attirato sufficienti critiche, mentre si fa tanto chiasso sul premierato. Quest’ultimo è un fatto ancora eventuale e futuro, mentre lo svuotamento legislativo del Parlamento è una condizione già di fatto realizzata. Più che preoccuparci di uno spostamento dei poteri dal legislativo al governo, che da quanto finora osservato risulta ridimensionato, bisognerebbe preoccuparsi di altri aspetti. Il primo riguarda i regolamenti parlamentari: se la procedura che passa attraverso il Parlamento è una remora perché troppo lenta, ci sarebbe da chiedersi perché non vengano modificati i regolamenti parlamentari per rendere più solleciti esame e approvazione delle leggi. In altre parole, la sorte della scelta sta nelle mani dello stesso Parlamento, che potrebbe intervenire non, come oggi, in seconda battuta, cioè dopo che il governo ha approvato un decreto legge, ma in prima battuta, passando attraverso la procedura normale di approvazione delle leggi. Il secondo aspetto importante è quello che riguarda la scrittura delle leggi. Considerato che il 96 per cento delle parole degli atti normativi proviene da Palazzo Chigi, perché non vengono lì radunate dieci persone, di cui almeno tre accademici della Crusca, che traducano in buon italiano i testi incomprensibili che provengono dalla penna della politica? Non sarebbe questo un beneficio per gli stessi governanti, oltre che un enorme beneficio per il paese, che così apprezzerebbe molto di più i propri reggitori? I magistrati al Governo: “Le competenze sui migranti non vanno stravolte” di Igor Traboni Avvenire, 17 novembre 2024 Il presidente Anm Santalucia, contro il tentativo di spostare alla Corte d’Appello la convalida dei trattamenti. Tensione sulle parole del segretario di Magistratura Democratica a un evento “No-ponte”. Non accenna a scendere di tono la polemica governo-magistrati sul decreto flussi, con una nuova polemica dopo l’emendamento in base al quale la competenza a decidere sulla convalida dei trattenimenti dovrebbe essere “spostata” alla Corte d’Appello. Per il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, il tutto vorrebbe dire “stravolgere l’ordinario assetto delle competenze. La Corte d’Appello - già gravata da importanti carichi di lavoro che ci hanno fatto dubitare della possibilità di centrare gli ambiziosi obiettivi del Pnrr - dovrebbe occuparsi delle procedure di convalida, se non ho letto male addirittura con le sue sezioni penali. È assai difficile rinvenire un principio di razionalità in questo stravolgimento dell’ordine delle competenze”. Per Santalucia, che ne ha parlato nella sua relazione nel Comitato direttivo centrale dell’Anm in corso a Roma, questo emendamento è “diretto a spogliare le sezioni specializzate “immigrazione” dei Tribunali della competenza sulla convalida dei trattenimenti, con sorprendente indifferenza per le ragioni dell’organizzazione giudiziaria. Si percepisce la voglia di rappresentare nel modo più plateale, con la sottrazione di competenza, la sfiducia nella giurisdizione, movendo dalla fantasiosa convinzione che i magistrati comunisti si siano collocati proditoriamente nelle sezioni specializzate “immigrazione” dei Tribunali per attuare il sabotaggio delle politiche governative”. Ma intanto monta un’altra polemica: dopo la partecipazione di Stefano Musolino, segretario di Magistratura Democratica, ad un evento dell’associazione “No Ponte”, le consigliere laiche del Csm, Isabella Bertolini della Lega e Claudia Eccher di FdI, hanno chiesto l’apertura di una pratica alla prima Commissione e alla Procura generale della Cassazione affinché siano valutati eventuali profili disciplinari a carico di Musolino. Bertolini ed Eccher lamentano in particolare che l’evento cui ha partecipato il segretario di Magistratura Democratica aveva “una spiccata connotazione anti governativa, riguardante - tra gli altri argomenti - il ddl sicurezza” e che questi avrebbe rilasciato “affermazioni di tipo politico” che “rappresentano una violazione dei principi costituzionali di imparzialità e di indipendenza che secondo la Costituzione tutti i magistrati devono osservare”. Anche in questo caso è arrivata la replica di Santalucia: per il presidente dell’Anm “questa non è più una pretesa di imparzialità, ma una richiesta di silenzio e non è accettabile. Un magistrato sui temi della giustizia può intervenire argomentando e spiegando perché è il nostro specifico campo professionale, non si può chiedere il silenzio in nome dell’imparzialità”. A Santalucia ha replicato Maurizio Gasparri, presidente dei senatori di Forza Italia, parlando di “argomentazioni risibili” e aggiungendo che “bene hanno fatto nel Csm alcuni consiglieri a chiedere l’apertura di una pratica su un magistrato iperpoliticizzato, ma credo che si possano aprire molte pratiche su tanti magistrati che con comizi ed esternazioni dimostrano la mancanza di indipendenza di troppi settori politicizzati della magistratura”. “L’aria è pesante”, l’affondo dei magistrati riuniti per la prima volta dal caso Albania di Valentina Stella Il Dubbio, 17 novembre 2024 Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia chiede di “abbassare la temperatura” ma sottolinea che “non spetta alle toghe” farlo, buttando la palla nel campo della politica. “L’aria, nelle due settimane e poco più da quel documento, è divenuta ancora più pesante”, ha esordito Santalucia. E proprio per questa ragione il Comitato direttivo centrale “dovrà in risposta impegnarsi affinché l’aria si faccia più respirabile, leggera, perché si allenti la morsa polemica e il clima delle relazioni istituzionali torni al sereno”. Dunque una richiesta di abbassare la temperatura, forse più alta di quando al Governo c’era Silvio Berlusconi. Ma non spetta alle toghe farlo, secondo il leader delle toghe: “non sono nella nostra disponibilità gli strumenti per sedare un conflitto a cui non abbiamo dato causa”. Santalucia è poi passato ad elencare le cose da fare: “abbiamo il dovere di non arrenderci alla fatica di spiegare quali sono i termini della questione dei trattenimenti dei richiedenti asilo, anche quando i nostri interlocutori del momento sviliscono con ostentato fastidio le ragioni del diritto a pretesti da azzeccagarbugli, mostrando di non voler ascoltare, arroccati sulla formula propagandistica della magistratura politicizzata”. Ha poi risposto a chi accusa la magistratura di essere politicizzata, accusa nata soprattutto dopo la pubblicazione sul Tempo di una email del magistrato Marco Patarnello: “Abbiamo il dovere di ribadire - ha detto Santalucia - che la magistratura italiana non è in nessuna sua parte attraversata da faziosità politica e non avversa i programmi di chi oggi è maggioranza politica di governo”. Per Santalucia la magistratura ha “il dovere di riaffermare che la soggezione è alla legge e non al legislatore del momento, che la legge vive all’interno di un reticolo sistematico che vede un concorso di fonti al cui interno la relazione gerarchica non è la sola direttrice ordinante e che, in ogni caso, in quella relazione il vertice è assegnato alla Costituzione e, in alcune materie, alla normativa eurounitaria”. Poi un passaggio sulla pubblicazione sempre sul Tempo dello screenshot di due anni fa di un aggiornamento di WhatsApp di Antonella Marrone, giudice della sezione immigrazione del Tribunale civile di Roma, che criticava la Meloni: “abbiamo il dovere di evitare che la paura, il timore di essere osservati, in qualche modo sorvegliati, si insinuino e si conquistino uno spazio tra noi, quando assistiamo a fatti inquietanti, al venir fuori, dopo esser stato evidentemente conservato per anni alla bisogna, lo screenshot di qualche nostro stato whatsapp, reso noto al tempo soltanto ai nostri pochi contatti telefonici (mi riferisco ai recenti articoli di stampa che hanno riguardato la collega Antonella Marrone)”. Sull’emendamento della deputata Kelany di Fratelli d’Italia al dl Flussi, che demanda alle Corti di Appello la competenza sui ricorsi contro i trattenimenti dei migranti decisi dal Questore, Santalucia ha detto: “È assai difficile rinvenire un principio di razionalità in questo stravolgimento dell’ordine delle competenze; si percepisce piuttosto la voglia di rappresentare nel modo più plateale, appunto: con la sottrazione di competenza, la sfiducia nella giurisdizione, movendo dalla fantasiosa convinzione che i magistrati comunisti si siano collocati proditoriamente nelle sezioni specializzate “immigrazione” dei Tribunali per attuare il sabotaggio delle politiche governative”. Ovviamente non poteva mancare un passaggio sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere: “A mio giudizio si scorge, senza particolare difficoltà, la coerenza tra quel che accade oggi in materia di diritto di asilo e quel che matura in Parlamento sulla riforma costituzionale. È un’idea di giurisdizione diversa da quella che ci ha guidato per molti e molti anni, che abbiamo per tutto questo tempo condiviso con l’avvocatura”. E da qui Santalucia si rivolge prevalentemente all’Unione Camere Penali: “La giurisdizione è un bene comune e sono convinto in maniera radicata che gli avvocati italiani non possono che dissentire da un progetto volto al ridimensionamento del giudiziario, che non potrebbe che restringere i loro spazi di azione come promotori della difesa dei dirittiPer questa ragione faccio fatica a comprendere la posizione di una parte dell’avvocatura, mi riferisco all’Unione delle camere penali che, da un lato, non lesina parole di sferzante critica alle politiche governative in materia penale e penitenziaria e avverte il bisogno di affermare, in uno per il vero con altre autorevoli voci (v., ad esempio, l’Associazione degli studiosi di diritto dell’Unione europea), che le recenti decisioni giudiziarie in tema di convalida di trattenimenti sono tutt’altro che abnormi; e dall’altro, è riluttante a considerare la riforma costituzionale per quel che è e non per quello che vorrebbe che fosse”. E su questo conclude con un appello all’associazione politica degli avvocati, guidati da Francesco Petrelli: “Siccome non ho alcun intento polemico e non ho alcuna voglia di ribattere con la stizza che pure si dovrebbe ad un recente deliberato dell’Unione, in cui si legge, stanco refrain, di politicizzazione della magistratura, di violazione del principio della separazione dei poteri (dall’Unione vista come conseguenza dell’espansione indebita del potere giudiziario), rivolgo alle camere penali l’invito sincero a rinnovare la loro riflessione critica sul disegno di legge sulla separazione della magistratura, ad osservare quel che accade e ad essere conseguenti alle premesse di quel liberalismo penale di cui si fanno in molte occasioni interpreti”. Il presidente Anm ha poi concluso il suo intervento con un “auspicio”: “Sarebbe bene, penso, che quanti partecipano al dibattito pubblico, doverosamente allargato, sulla riforma costituzionale, si astengano, una volta che scoprono di essere privi di buoni argomenti per sostenerla, dal discutibile espediente di usare il nome e la figura di Giovanni Falcone per elevare tono, qualità e contenuti della riforma. La memoria di un eroe, di un martire della Repubblica, va onorata astenendosi dall’usare il suo nome nel confronto, a volte anche acceso, su una riforma che matura a oltre trent’anni dal suo estremo sacrificio. Questa riforma, se e quando sarà varata, non potrà portare il nome di Giovanni Falcone; non gli appartiene, non potrebbe appartenergli, appartiene ad altri. Almeno questo sia concesso alla verità dei fatti e sia sottratto alla mistificante opera della propaganda”. Mentre è in corso il Cdc, arriva la notizia di una richiesta di pratica contro il Segretario di Magistratura Democratica, Stefano Musolino, per alcune sue dichiarazioni sul ponte di Messina e a Piazza Pulita, da parte delle consigliere laiche del Csm Bertolini e Eccher. Santalucia nel punto stampa ha replicato: “Questa non è più pretesa di imparzialità, è richiesta di silenzio e questo non è accettabile. Il magistrato può, sui temi di giustizia, intervenire argomentando, perché è il nostro specifico campo professionale. Non si può chiedere, in nome dell’imparzialità, il silenzio. L’imparzialità è una prerogativa a difesa dei cittadini -aggiunge il presidente - ma chiediamo che sia possibile esercitare i nostri diritti fondamentali di cittadini. Si sta oltrepassando il confine del possibile: una cosa è l’imparzialità, una cosa è la soggezione silenziosa al governo. Non è nella cifra della nostra fisionomia costituzionale democratica”. Su questo è intervenuto anche Rocco Maruotti, esponente di AreaDg: “non ricordo iniziative così gravi fatte in precedenza. Comunque non metterà paura al collega Musolino le cui dichiarazioni sono di un equilibrio invidiabile. Il 28 novembre parteciperò ad un evento sulla separazione delle carriere a cui interverrà anche la consigliera laica del Csm Eccher (una delle due firmatarie della pratica contro Musolino, ndr) ma già anticipo non rivedrò minimamente il mio discorso perché noi non dobbiamo lasciarci intimidire, non ci piegheranno”. Di “stravagante iniziativa” ha parlato Stefano Celli, membro di Md che ha aggiunto: “non comprendo la richiesta di incompatibilità, cosa vuol dire, che se Musolino avesse detto quelle cose lavorando a Milano sarebbero andate bene?”. Anche Andrea Reale, esponente dei 101, ha espresso “solidarietà” a Musolino sostenendo che l’iniziativa delle due consigliere del Csm rappresenta una “pratica abnorme”. Abbiamo chiesto poi a Santalucia come commenta quanto raccontato oggi sul nostro giornale ossia che per il Ministro Nordio il referendum sulla separazione delle carriere rappresenterà un referendum sul gradimento dei magistrati: “È una domanda che chiama un referendum non sulla separazione delle carriere - ci ha risposto Santalucia - ma sul gradimento della magistratura e quindi del servizio giustizia. La risposta non riguarderebbe solo la magistratura, ma anche il ministro della Giustizia. Se così fosse i cittadini risponderebbero, ciascuno, pensando ai ritardi, alle attese che hanno dovuto patire per avere giustizia”, ha aggiunto. “Quello fa parte di una macchina complessa, i cui servizi sono nella disponibilità del ministro - ha aggiunto - non riusciamo sempre a essere all’altezza delle attese dei cittadini non è sempre e solo colpa nostra, perché il sistema è complesso e c’è una grande responsabilità nella gestione delle risorse del ministero. Sul terreno dei servizi e delle risorse lo stiamo calzando molto perché siamo assai in ritardo”. Nel pomeriggio è intervenuta anche Silvia Albano, presidente di Md: “per esserci uno scontro bisogna essere in due, ma io non mi sento parte dello scontro. Noi giudici abbiamo applicato solo la legge e cercato di garantire la legalità. Noi siamo anche giudici dell’Unione europea: con i nostri provvedimenti non abbiamo fatto opposizione politica, abbiamo fatto il nostro lavoro”. Ha aggiunto: “Quelli che più dicono che i giudici non devono parlare nei dibattiti, sono quelli che più vogliono un giudice accondiscendente col Governo. Ma se i magistrati collaborassero col governo non sarebbero più imparziali e indipendenti. Io e Marco Gattuso (giudice di Bologna, ndr) siamo magistrati da molti anni: non è in discussione l’imparzialità e l’indipendenza dei singoli giudici, ma la fisionomia della futura magistratura”. Il Cdc ha deliberato una assemblea straordinaria per il 12 gennaio. Inizialmente era prevista per metà dicembre ma poi Mi e Unicost hanno proposto di posticipare per dare la possibilità di far partecipare quanti più magistrati possibili. Secondo qualcuno farla a dicembre avrebbe scoraggiato la presenza per l’alto costo dei biglietti e degli hotel. Inoltre l’associazionismo viene percepito come qualcosa di più gravoso rispetto all’esercizio delle funzioni e prima di Natale qualcuno preferirebbe restare con le famiglie. AreaDg, Md e 101 hanno votato invece per dicembre: meglio arrivare prima di un possibile voto a favore della separazione delle carriere alla Camera. Non è mancata la reazione del senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri: “Dacci oggi il nostro comizio quotidiano di Santalucia. Che oggi, in una giornata di silenzio teorico elettorale, fa la staffetta con i suoi amici della sinistra e continua a dire una serie di cose false e non fondate contro la separazione delle carriere e negando l’evidente faziosità di molti magistrati, che fanno politica e fanno un uso politico della giustizia sono risibili. Bene hanno fatto nel Csm alcuni consiglieri a chiedere l’apertura di una pratica su un magistrato iperpoliticizzato, ma credo che si possano aprire molte pratiche su tanti magistrati che con comizi ed esternazioni dimostrano la mancanza di indipendenza di troppi settori politicizzati della magistratura. Santalucia fa il portavoce di tutto ciò e sostenendo causa perse”. La caccia alla toga rossa arriva al Csm: Lega e FdI vogliono punire Musolino di Mario Di Vito Il Manifesto, 17 novembre 2024 Una pratica contro il segretario di Md. Nel mirino un intervento sul ddl sicurezza. L’Anm: “Cercano di zittirci”. Fratelli d’Italia e la Lega alzano il livello dello scontro tra il governo e la magistratura: le consigliere laiche Isabella Bertolini e Claudia Eccher hanno infatti richiesto alla prima commissione del Csm di aprire una pratica per incompatibilità ambientale contro il segretario di Magistratura democratica Stefano Musolino. Il motivo, come da allegato al documento inviato al comitato di presidenza lo scorso 28 ottobre, è da ricercare in un articolo di Libero che dà conto della partecipazione di Musolino a un incontro andato in scena al centro sociale Nuvola Rossa di Villa San Giovanni, in Calabria, in cui si è parlato tra le altre cose anche del ddl sicurezza. “Siamo molto preoccupati, esiste un problema di gestione del dissenso che non può essere affrontato attraverso strumenti penali - queste le parole del magistrato, procuratore aggiunto alla dda di Reggio Calabria -. I conflitti possono essere deleteri se non si basano sul rispetto reciproco delle posizioni e possono essere invece molto fruttuosi se vengono gestiti e governati. Ma per farlo non si può ricorrere allo strumento penale”. L’ennesima scena di un copione consolidato: si prende la frase di un magistrato, la si decontestualizza e infine ci si costruisce sopra una polemica. È capitato diverse volte negli ultimi tempi, andando anche a ripescare antichi post sui social o addirittura messaggi di Whatsapp, tanto che comincia ad essere legittimo l’interrogativo sull’eventuale esistenza di archivi dedicati e compilatori di dossier. La notizia sull’attacco al segretario di Md, comunque, è arrivata nella mattinata di ieri mentre, al sesto piano del palazzo che ospita la Cassazione, si teneva il comitato direttivo centrale dell’Anm. “Musolino mi sembra abbia dimostrato anche in quella sede un equilibrio invidiabile - ha detto nel suo intervento Rocco Maruotti, esponente di Area democratica per la giustizia -. A fine mese dovrò partecipare a un incontro con Eccher sulla separazione delle carriere e, nonostante tutto, posso assicurare che non avrò problemi a esprimere le mie critiche tecniche alla riforma”. Il tema della libertà di parola è stato anche uno dei punti affrontati dal presidente Giuseppe Santalucia nel suo intervento di apertura. “Questa non è più pretesa di imparzialità, è richiesta di silenzio e non è accettabile”, ha aggiunto poi ai cronisti. Anche gli altri interventi che si sono susseguiti per tutta la giornata di ieri la solidarietà verso Musolino è stata totale e comune a tutte le correnti, tra chi ha evocato situazioni da Ddr e chi ha letto la mossa di Eccher e Bertolini in maniera più politica, e cioè come un tentativo di dividere l’Anm in buoni e cattivi, agitando lo spettro in toga rossa che si aggira per i tribunali. “Io credo che attraverso quello che sta succedendo si cerchi di mandare un messaggio a tutta la magistratura e principalmente a quelli che entrano oggi in magistratura - ha detto alla platea del comitato centrale la presidente di Md Silvia Albano, pure lei presa di mira dai media della destra. Quelli che più dicono che i giudici non devono parlare nei dibattiti, sono quelli che più vogliono un giudice accondiscendente col governo”. E se Eccher e Bertolini si difendono dicendo che “non c’è alcuna voglia di bavaglio” e che i magistrati devono comportarsi “con disciplina”, il dettaglio da sottolineare è che il laico di Forza Italia Enrico Aimi non ha sottoscritto la loro richiesta. In compenso però, due giorni fa, si era dissociato dalla pratica a tutela del giudice bolognese Marco Gattuso, messo alla berlina per la sua vita privata. La situazione all’interno del Csm resta dunque dubbia e ambivalente: se difficilmente l’atto contro Musolino farà molta strada, quello che ancora manca all’appello è un provvedimento in difesa dei giudici di Roma, tra i quali spicca Albano. Il tappo, in questa circostanza, è rappresentato dai consiglieri conservatori di Magistratura indipendente, che continuano a tenere i piedi in tante - troppe - scarpe diverse. Guerra governo - toghe, le laiche di centrodestra mettono il segretario di Md nel mirino di Simona Musco Il Dubbio, 17 novembre 2024 Bertolini ed Eccher propongono una pratica contro Stefano Musolino, colpevole di alcuni dichiarazioni a loro dire anti governative. E chiedono di valutare i profili disciplinari. Che la guerra tra governo e toghe non fosse affatto chiusa era chiaro da un pezzo. Ma ora a confermarlo è anche una richiesta di pratica contro il segretario di Magistratura democratica, Stefano Musolino, la corrente finita nel mirino del governo dopo il primo stop al protocollo con l’Albania inflitto, tra gli altri, dalla presidente di Md, Silvia Albano. La pratica è stata posta all’ordine del giorno della commissione I, competente per i trasferimenti dei magistrati per incompatibilità ambientale, e porta la firma delle consigliere laiche Isabella Bertolini (FdI) e Claudia Eccher (Lega), sulla scorta di un articolo di Libero che inseriva Musolino nella lista dei “cattivi”. La richiesta delle due consigliere parte dalle dichiarazioni di Musolino nell’ambito di una manifestazione pubblica contro il ponte sullo Stretto, tenutasi ad ottobre a Villa San Giovanni. Un evento, sottolineano le due laiche, “avente una spiccata connotazione antigovernativa riguardante, tra gli altri argomenti, il ddl di iniziativa governativa “sicurezza” (AC 1660) recentemente approvato dalla Camera dei Deputati”. La colpa di Musolino? Aver affermato che “siamo molto preoccupati”; “esiste un problema di gestione del dissenso che non può essere affrontato attraverso strumenti penali”; “stiamo vivendo un momento in cui si presentano davanti a noi scelte molto importanti. I conflitti possono essere deleteri se non si basano sul rispetto reciproco delle posizioni e possono essere invece molto fruttuosi se vengono gestiti e governati. Ma per farlo, non si può ricorrere allo strumento penale. Non si possono inventare nuove norme per radicalizzare il dissenso e, addirittura, criminalizzarlo”. Dichiarazioni per nulla offensive o finalizzate allo scontro con la politica, ma anzi aperte al confronto con un governo, in linea di principio, garantista. Per le due laiche di centrodestra, però, “tali affermazioni, di contenuto politico”, rappresenterebbero “una violazione dei principi costituzionali di imparzialità e indipendenza che secondo la Costituzione tutti i magistrati debbono osservare, avendo i costituenti previsto una magistratura apolitica e professionale. Tale ultimo aspetto - sottolineano -, peraltro, trova espresso riconoscimento nell’articolo 98 della Costituzione, nella parte in cui prevede “Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti, diplomatici e consolari all’estero”. Tali affermazioni hanno avuto un risvolto mediatico notevole nei principali notiziari e quotidiani nazionali”. Le correnti, però, non ricadono in tali categorie, tanto da essere legali e autorizzate, pure se molte volte poco apprezzabili nei loro giochi di potere. Ma il nocciolo della questione non sembra essere quello. E infatti Bertolini ed Eccher rilanciano con ulteriori elementi, tirando in ballo l’intervento di Musolino a “Piazza Pulita” il 24 ottobre scorso. In quell’occasione, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria ha affermato che “non esiste un’imparzialità come condizione pre-data, come stato del magistrato, l’imparzialità è qualcosa verso cui si tende”. E le consigliere estrapolano anche un’altra frase da incriminare: “Perché invece quelli (i magistrati) che sono un po’ più dissenzienti verso le politiche del governo rischiano di non esserlo più (imparziali)”. Parole che hanno allarmato Bertolini ed Eccher, che chiedono dunque “l’apertura di una pratica in prima commissione, nonché presso le altre articolazioni consiliari competenti individuate da codesto Comitato di Presidenza anche al fine di eventuali profili disciplinari”. La richiesta, dunque, è di valutare se punire o meno Musolino per le sue affermazioni, censurando la sua libertà di espressione, anche quella garantita dalla Costituzione. In un contesto in cui Md è il nemico pubblico numero uno soprattutto di ministri come Matteo Salvini, che nei giorni scorsi ha prodotto molteplici tweet per attaccare la corrente di sinistra alimentando un clima di aperto scontro tra governo e magistratura sul tema dell’immigrazione. E a confermare la volontà dei laici di centrodestra di stare dalla parte del governo in questo gioco delle parti anche la scelta, da parte del laico di Forza Italia Enrico Aimi, di non votare la pratica a tutela del giudice Marco Gattuso, “colpevole” di far parte del collegio che ha inviato il decreto Paesi Sicuri alla Corte di Giustizia europea e attaccato sui giornali di destra non per il merito della sua decisione, ma per la sua vita privata. A suo dire, infatti, non sarebbero “sussistenti i presupposti previsti per l’intervento a tutela”, manifestando “la preoccupazione per il possibile acuirsi delle tensioni in atto”. Secondo l’ex senatore forzista, “pur riconoscendo che vi sono state, come era naturale che fosse, reazioni dal mondo della politica, che si è sentita ostacolata nelle sue prerogative, tali dichiarazioni pur connotate da toni aspri, non hanno tuttavia concretamente prodotto un reale turbamento tale da incidere sull’indipendente esercizio della funzione giurisdizionale”. Portare la questione in plenum, dunque, rischierebbe di causare, a suo dire, “un’ulteriore escalation delle tensioni tra politica e magistratura di cui l’Italia non ha in questo momento alcuna necessità”. Ora l’iniziativa di Bertolini ed Eccher. A conferma che la guerra tra governo e toghe è tutt’altro che chiusa e anzi si espanderà anche nelle stanze di Palazzo Bachelet. In carcere da innocenti, ma il tribunale nega il risarcimento a una coppia: “Fu colpa loro” La Repubblica, 17 novembre 2024 La sentenza della Corte d’Appello di Bari sul caso di una coppia di Torino, lui 42enne e lei 35enne, accusati di una rapina a Cerignola. Lui scontò 120 giorni di carcere, la donna fu messa ai domiciliari perché aveva partorito da poco: erano stati identificati dalle commesse ma in realtà quel giorno erano in Piemonte (lui al lavoro e lei dal pediatra) e lo dimostrarono con alcuni testimoni fino a essere scagionati grazie a una perizia antropometrica. Furono arrestati e poi completamente scagionati dall’accusa di avere rapinato una gioielleria a Cerignola (Foggia), ma non hanno diritto a un risarcimento per l’ingiusta detenzione perché hanno “colpevolmente omesso di rappresentare elementi a sostegno” della loro estraneità ai fatti. Così la Corte di appello di Bari ha respinto la richiesta presentata da Luciano Di Marco e della moglie Anna Bonanno, torinesi di 42 e 35 anni. Secondo i giudici nel corso delle indagini i due, pur sostenendo la loro innocenza, si resero autori di “inesattezze e imprecisioni macroscopiche” al punto da convincere gli inquirenti che i loro alibi fossero falsi. La rapina fu commessa l’8 marzo 2019. Il 5 giugno successivo scattò l’arresto per Di Marco, che rimase in carcere per 120 giorni, mentre la moglie venne messa ai domiciliari perché aveva partorito da poco. A carico dei coniugi (e di un terzo personaggio, anche lui risultato estraneo alla vicenda) vi erano i riconoscimenti delle commesse del negozio. Marito e moglie affermarono che quel giorno si trovavano a Torino - lui era al lavoro come operatore del soccorso stradale, lei era andata dal pediatra - ma, sebbene avessero presentato dei testimoni, non riuscirono a far cambiare idea agli investigatori. Fu una perizia antropometrica a stabilire la loro incompatibilità con i veri autori del colpo. La coppia è assistita dagli avvocati Domenico Peila, torinese, e Giacomo Lattanzio, del Foro di Foggia, che intendono presentare un ricorso in Cassazione. “Siamo al paradosso. Si imputa ai miei assistiti un fatto di cui sono loro stessi le vittime, in prima persona”. È il commento dell’avvocato Peila, che non esclude un ricorso in Cassazione. Genova. La tragica fine di Moussa, pizzaiolo malato di schizofrenia di Danilo D’Anna Il Secolo XIX, 17 novembre 2024 Tunisino, aveva un lavoro ed era in cura. Si è impiccato in cella a Marassi ed è morto in ospedale. Arrestato in stato confusionale, all’udienza richiesta una perizia psichiatrica mai eseguita. Gli amici non sapevano neppure che Moussa Ben Mahmoud, il tunisino di 28 anni morto venerdì nel reparto di rianimazione dell’ospedale San Martino, dove era stato portato dopo essersi impiccato alle sbarre della finestra della sua cella, si trovasse in carcere a Marassi. E non erano neppure a conoscenza dei problemi di salute che lo tormentavano: schizofrenia. Aveva le allucinazioni quando non prendeva le medicine, diceva che volevano ucciderlo. Una patologia che lo aveva fatto finire in tribunale altre volte, difeso sempre dall’avvocato Piero Casciaro, e che gli era stata diagnosticata da uno specialista. “Quando assumeva i farmaci che gli avevano prescritto però era l’uomo più buono del mondo”, continua il legale. E difatti lavorava in una pizzeria di via Cairoli, a tempo indeterminato, ben voluto da titolari e colleghi. Ma sono diversi i locali genovesi che lo hanno visto alle loro dipendenze, e tutti hanno sempre fornito ottime referenze. In carcere Ben Mahmoud è finito il 28 ottobre scorso, in seguito a un arresto scattato due giorni prima con l’accusa di rapina aggravata. La polizia lo aveva pure denunciato per lesioni personali, minacce e danneggiamento. Quella sera aveva cercato di entrare in un locale di via Sampierdarena e, quando gli era stato impedito, se l’era presa con i passanti e con la titolare, minacciandola di morte. Un connazionale si era avvicinato per calmarlo e lui, lo aveva accoltellato a una mano e alla gamba. Fuggito, invece di tornare a casa, si era presentato alla porta di un circolo, all’ennesimo accesso negato, aveva messo il piede di traverso bloccando la porta e aveva estratto di nuovo il coltello a serramanico, puntandolo all’addome del gestore e rapinandolo di una banconota da 5 euro. Era scappato ancora, ma le volanti lo avevano trovato e portato in camera di sicurezza. Era fuori controllo. Il suo stato confusionale si è manifestato anche davanti al giudice e al momento di scegliere l’avvocato. A difenderlo nell’udienza di convalida c’è un legale d’ufficio, che non conosce i suoi problemi. Perché Moussa non si ricorda di nominare Casciaro, legale di fiducia. Durante l’udienza poi proferisce una minaccia: “Appena esco uccido quel tizio (il gestore del circolo che aveva accoltellato)”. Il giudice non può che mandarlo in carcere, nonostante abbia una regolare residenza e un lavoro fìsso. Il magistrato chiede, però, una perizia psichiatrica, che non gli verrà fatta. Solo la normale visita medica, che tocca a tutti. Il ventottenne, nato a Monastir, nella Casa circondariale di Marassi divide una cella con altri cinque compagni. Dà in escandescenza un paio di volte, rompendo oggetti. Sta male. Tanto che il fratello maggiore Youssef, anche lui recluso a Marassi ma in un’altra sezione, chiede di metterlo insieme a lui. Non si può. Martedì scorso alle 15, quando gli altri erano usciti per l’ora d’aria, ha annodato due lenzuola e le ha attaccate alle sbarre della finestra. Poi ha fatto una sorta di cappio e se lo è avvolto attorno al collo, lasciandosi cadere. Sarebbe morto se non si fosse accorto di lui un agente. Lo ha liberato dalla stretta. Era cianotico, ma l’intervento del dottore ha fatto ripartire il cuore. Credevano che ormai fosse salvo, invece il decesso è stato dichiarato 74 ore più tardi al policlinico. Alle 17 di venerdì. Il sogno di andare in Francia insieme a Youssef e all’adorato nipotino svanisce, ma anche il piano B va in frantumi: Moussa sarebbe tornato anche a Monastir, dove era nato e dove aveva completato gli studi al Lycée Said Boubaker. Prima della schizofrenia e prima di quel lenzuolo annodato che gli ha strozzato il respiro. L’appello: “Servono rapidi e urgenti provvedimenti” - “Questo ulteriore suicidio avvenuto nel carcere di Marassi, a Genova, deve far riflettere sulla condizione in cui vivono i detenuti e su quella in cui è costretto a operare il personale di polizia Penitenziaria”: lo dice Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, commentando il recente suicidio di un detenuto nella struttura di piazzale Marassi. “Spesso, questi eventi, oltre a costituire una sconfitta per lo Stato, segnano profondamente i nostri agenti che devono intervenire - prosegue Capece - Si tratta spesso di agenti giovani, lasciati da soli nelle sezioni detentive, per la mancanza di personale. Servirebbero anche più psicologi e psichiatri, vista l’alta presenza di malati con disagio psichiatrico. Spesso, anche i detenuti, nel corso della detenzione, ricevono notizie che riguardano situazioni personali che possono indurli a gesti estremi. Siamo costernati ed affranti: un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta per lo Stato e per tutti noi che lavoriamo in prima linea. Ma nessuno può sentirsi indifferente a queste morti. Il personale di Polizia Penitenziaria è sempre meno, anche a seguito di questi eventi oramai all’ordine del giorno. Stiamo vivendo un’estate di fuoco nelle carceri e servono immediatamente provvedimenti concreti e risolutivi: espulsioni detenuti stranieri, invio tossicodipendenti in Comunità di recupero e psichiatrici nelle Rems o strutture analoghe. Il personale di Polizia Penitenziaria è allo stremo e, pur lavorando più di 10/12 ore al giorno, non riesce più a garantire i livelli minimi di sicurezza. Fino a quando potrà reggere questa situazione?”. Per questo, Capece ribadisce che si rendono sempre più necessari gli invocati interventi urgenti suggeriti dal Sappe per fronteggiare la costante situazione di tensione che si vive nelle carceri italiane: “Non è più rinviabile una riforma strutturale del sistema, anche ipotizzando eventualmente di ridurre il numero di reati per cui sia previsto il carcere e, conseguentemente, implementare delle pene alternative alla detenzione ed avviare una efficace struttura che consenta la loro gestione sul territorio. Il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria non si fa prendere per il naso da chi oggi pensa di avere scoperto l’acqua calda e i problemi carcerari sollecitando improbabili indulti e leggi svuota carceri, mentre per mesi ed anni non hanno detto una parola sui provvedimenti delle varie maggioranze politiche di ogni colore al governo che, nel tempo, hanno destabilizzato il sistema e destrutturato la sicurezza nelle carceri”. Catanzaro. Morto per “arresto cardiaco”, ma per la madre è stato vittima di un pestaggio di Alessandra Serio tempostretto.it, 17 novembre 2024 Ci sono troppe ombre sulla morte del 29enne messinese Ivan Domenico Lauria, avvenuta nel carcere di Catanzaro nella tarda serata di ieri. I certificati medici parlano di arresto cardiaco ma secondo la mamma è stato picchiato, lo dimostrerebbero alcune foto. Ma soprattutto secondo il suo avvocato non avrebbe mai dovuto restare in carcere. Perché il ragazzo, detenuto per droga, una lunga fedina penale, era tossicodipendente, aveva problemi psichiatrici e più volte il legale ha provato ad avvicinarlo alla famiglia e assicurargli le cure, ma senza riuscirci. “Chiediamo che sia fatta chiarezza sia sulla sua morte - spiega l’avvocato Pietro Ruggeri - sia sul perché questa tragedia non è stata evitata. Sono rimaste inascoltate le nostre istanze e anziché essere curato il ragazzo è stato trasferito di carcere in carcere, la sua situazione è andata peggiorando fino al tragico epilogo”. L’emergenza carceri - Il caso del 29enne messinese del quartiere Giostra scoppia nel giorno in cui monta la polemica sulle dichiarazioni del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro che, alla presentazione a Roma di una nuova auto per il trasporto dei detenuti al carcere duro avrebbe detto: “Non lasciamo respirare chi è dietro quel vetro”. Ed è tragicamente esemplificativo di quelle che sono le emergenze del carcere oggi, in primis appunto il problema della droga dietro le sbarre e della detenzione di coloro i quali invece in carcere non dovrebbero starci. Una vita da tossico dietro le sbarre - Questo sarebbe, secondo la famiglia, quel è accaduto al 29enne messinese. Diversi precedenti per droga, una vita consumata dietro le sbarre più che a piede libero, il ragazzo era tossicodipendente ed aveva problemi psichiatrici. Per questo a più riprese l’avvocato Ruggeri ha presentato istanze per ottenere i domiciliari, o quanto meno l’avvicinamento alla madre a Messina, e la possibilità di ottenere cure psichiatriche. Tutte respinte dai diversi giudici che si sono occupati di lui. Perché in questi anni il 29enne è stato anche trasferito di penitenziario in penitenziario: da Trapani a Palermo, da Palermo a Rossano, da Rossano a Catanzaro. “Avrebbe dovuto scontare in tutto diverse pene per un totale di 11 anni, 2 mesi e 21 giorni”. Quelle 60 foto che gettano dubbi sulla morte - È qui che ieri sera il legale è stato avvisato che il giovane era morto. Arresto cardiaco o abuso di sostanze stupefacenti, dicono i certificati medici redatti. Ma la scena che la madre si è trovata davanti, andando stamane a recuperare il corpo, dipingerebbe un quadro ben diverso. L’uomo è letteralmente ricoperto di ecchimosi, lividi e ferite, dal capo agli arti inferiori, passando per il busto. La donna ha scattato quasi 60 fotografie, che l’avvocato Ruggeri allega alla denuncia: “Chiediamo che sia fatta luce su quello che è accaduto ieri in carcere - spiega - ma anche sulla trafila giudiziaria di questi ultimi anni e le cure negate. È possibile morire di overdose in carcere?”. L’ultima istanza del legale è stata respinta a dicembre 2023, dopo essere rimasta sul tavolo del giudice, tra tempi decisori ed errori di notifica, diversi mesi. Bologna. Al Pratello, emergenza continua: “I ragazzi oggi girano col coltello. Va fatto il possibile per educare” di Chiara Carvelli Il Resto del Carlino, 17 novembre 2024 Il direttore dell’Ipm Alfonso Paggiarino fotografa la situazione della struttura “Tantissimi stranieri non accompagnati: comunità sature, non c’è alternativa al carcere”. Trentanove detenuti totali, di cui 26 custodie cautelari e 13 definitivi. Sono questi i numeri dell’Istituto penale minorile del Pratello che da dodici anni è diretto da Alfonso Paggiarino, al suo ultimo anno di attività prima di lasciare Bologna e andare in pensione. Dottor Paggiarino, qual è la situazione all’Ipm del Pratello? “In questo momento la situazione è tranquilla, anche se le difficoltà non mancano come testimoniano le aggressioni al comandante della polizia penitenziaria e a un altro agente di quest’estate. Il lato positivo è che con l’inizio dell’anno scolastico abbiamo ripreso le attività, di recente ho preso anche contatti con altre associazioni che vogliono collaborare con noi”. Tra maggio e settembre due minorenni sono stati fermati con l’accusa di omicidio. C’è un aumento preoccupante della violenza tra i giovanissimi... “È un problema a livello nazionale. Noi siamo molto preoccupati perché è cambiata proprio l’utenza. Facciamo fatica a capire questi ragazzi, in 41 anni di servizio non mi sono mai trovato così in difficoltà e come me anche gli educatori e gli agenti della penitenziaria. Poi c’è il problema dei minori stranieri non accompagnati, le comunità che li dovrebbero accogliere sono sature. Dall’anno scorso è raddoppiato il numero degli accessi nei Cpa. Chi compie un reato può rientrare in famiglia o può essere affidato a una di queste strutture. Non avendo una famiglia di supporto, ricollocarli all’interno di una comunità è spesso l’unica alternativa al carcere. Se non si integrano, tornano a delinquere e così finiscono per entrare e uscire dal carcere in continuazione”. In questi dodici anni ha notato un cambiamento nel tipo di reati commessi? “Senza dubbio, ora tantissimi giovani girano con un coltello in tasca. Fino a qualche anno fa finivano in carcere soprattutto per spaccio, ora invece sono molto frequenti le risse con armi bianche, le rapine aggravate, ma non mancano violenze sessuali. Poi ci sono anche tutti quei reati meno gravi per i quali prima non si finiva in carcere. Questo è un problema soprattutto legato ai decreti dei governi, in ultimo il ‘decreto Caivano’”. Pensa che il sistema carcerario minorile, per come è oggi concepito, svolga la sua funziona rieducativa? Se no, che cosa andrebbe cambiato? “No, penso che il carcere per come oggi è concepito sia superato. Servirebbero interventi che puntino a modificare e migliorare gli istituti, anche a livello strutturale. Poi c’è la questione del personale, abbiamo bisogno di più educatori, risorse per dare vita a nuovi laboratori e non solo. Un altro elemento fondamentale sono i mediatori culturali, visto che la maggior parte dei ragazzi non sono italiani. Il sistema carcerario oggi non è più funzionale. Anche dal punto di vista della sicurezza, avremmo bisogno di più agenti”. Che cosa si può e si deve fare per questi ragazzi? E il carcere che ruolo ha? “Quando sono arrivato a Bologna ho visto il carcere e ho pensato ‘questo istituto è nel cuore della città e tutta la città se ne dovrà far carico’. Nel 2017 abbiamo aperto anche l’osteria ‘Brigata del Pratello’, dove sei ragazzi dell’Ipm fanno i cuochi o i camerieri affiancandosi a professionisti. Volevo dare loro un’opportunità di inserirsi nel mondo del lavoro e molti di questi giovani, una volta usciti, sono riusciti a trovare un impiego. Dobbiamo fare tutto il possibile affinché questi ragazzi abbiano un’alternativa alla criminalità. Nell’Ipm è presente anche un laboratorio di teatro. Non solo, i detenuti hanno la possibilità di sostenere gli esami all’Alma Mater, uno di loro è entrato in carcere che aveva la terza media e ora si sta per laureare in Scienze della formazione”. Venezia. Il nuovo cappellano del carcere: realtà dura, servono più misure alternative di Serena Spinazzi Lucchesi Gente Veneta, 17 novembre 2024 L’impatto è stato duro. Anche se la realtà del carcere già la conosceva. Don Massimo Cadamuro alla fine di luglio è stato designato dal Patriarca Francesco come cappellano del carcere maschile di Venezia. “Quando è mancato don Antonio Biancotto mi è stato chiesto di assumere l’incarico a Santa Maria Maggiore. Una realtà che mi era già capitato di incontrare, assistendo spiritualmente alcuni parrocchiani che erano stati ospiti. Ma l’impatto è stato caldo, violento. Il periodo estivo è stato difficilissimo. Ci sono stati dei gesti estremi, purtroppo”, ricorda il sacerdote. In questo triste computo, sono purtroppo tre i suicidi che si sono verificati negli ultimi mesi a Santa Maria Maggiore, di cui uno proprio a luglio, mentre l’ultimo è di appena una settimana fa. I problemi sono molteplici e il cappellano, che è parroco a Campalto, li analizza uno per uno: “Vi sono problematiche logistiche e strutturali, legate al sovraffollamento: i detenuti sono 270 a fronte di una capienza di 159 posti, è un numero spropositato. E a questo si somma l’altra questione numerica, quella degli agenti che sono sottodimensionati (147, ma ne servirebbero oltre 200, ndr). Per non parlare degli educatori che sono appena 4 e poco riescono a fare”. E poi vi sono le problematiche riguardo alle provenienze: “Il 70% dei detenuti è costituito da extracomunitari e questo vuol dire lingue, culture, religioni, atteggiamenti, comportamenti tutti diversi. E’ un mix complicato”. E non è finita: “Abbiamo altri due fattori. Il primo è che vi sono circa 30 detenuti con problemi psichiatrici. Non dovrebbero trovarsi in questa struttura, ma è così. E poi una quarantina sono tossicodipendenti. Tutto questo, messo insieme, crea grossissimi problemi”. Il cappellano riflette poi su cosa è e cosa dovrebbe essere il carcere: “C’è un problema di tipo culturale. Consideriamo il carcere come un luogo dove scontare la pena, mentre dovrebbe essere un luogo di rieducazione. Abbiamo in testa il concetto di giustizia vendicativa, cioè che “chi sbaglia paga”. Ma dovremmo, soprattutto noi cristiani, tendere al concetto di giustizia riparativa”. La strada della riparazione passa per le opportunità lavorative dei detenuti, la formazione, la possibilità di scontare la pena al di fuori del carcere mediante le forme alternative. Strumenti già previsti dalla legge e che, anche a Venezia, si stanno mettendo in pratica da tempo. Anche se con numeri purtroppo bassi, rispetto alla totalità della popolazione carceraria. “Il direttore Enrico Farina, giunto a Venezia circa un anno fa, si sta adoperando moltissimo in questa direzione, con corsi di formazione, percorsi di messa alla prova ecc. Ma servirebbe più personale”. In questo solco si inseriscono le azioni della Caritas veneziana, volte proprio a sostenere il percorso dei detenuti verso la rieducazione e l’inclusione sociale, mediante posti letto e mini-alloggi. “In questo ambito c’è poi il coinvolgimento di alcune parrocchie, per l’inserimento lavorativo di alcuni detenuti. Il primo ostacolo rimane comunque l’alloggio perché chi non ha un posto all’esterno non può accedere ai percorsi alternativi. E questo rappresenta un ulteriore motivo di disperazione, per quei detenuti che avrebbero i requisiti per uscire ma non possono. Per loro l’attesa è ancora più difficile. Anche perché qui dentro è un inferno e la realtà spesso ti fa incattivire: pensiamo a una cella con 8 persone, il caldo, le diverse culture, magari un caso psichiatrico che non fa dormire la notte. Questa è la condizione che si trovano a vivere i detenuti”. Una situazione che induce alla recidività, quando invece i percorsi alternativi all’esterno si traducono quasi sempre in un pieno reinserimento dell’ex detenuto nella società, allontanandolo così dalle possibilità di reiterare il reato. “Io dico sempre - riflette il cappellano - che meno carcere significa più sicurezza”. In questo contesto la presenza della cappellanìa è un piccolo segno, ma è anche un aiuto concreto: “Siamo in dieci persone, con religiosi e religiose, è davvero una bella realtà della nostra Chiesa. Se da una parte l’impatto con il carcere per me è stato duro, devo però dire che è stato al tempo stesso dolce, consolante, l’incontro con le persone. La realtà della cappellanìa del carcere è molto bella”, sottolinea don Cadamuro. L’aiuto concreto è rappresentato da uno sportello dove si distribuisce ai detenuti vestiario o qualche soldo per le piccole spese necessarie. Ci sono persone che non hanno nessuno all’esterno, specie gli stranieri, e gli serve tutto. “E poi c’è l’annuncio, con l’Adorazione eucaristica la preghiera, il gruppo biblico, le prove di canto e la Messa. Stiamo rilanciando l’opportunità per i gruppi parrocchiali di venire ad animare l’Eucaristia: è bello poi fermarsi a dialogare con i detenuti, perché si scopre il vero volto delle persone che incontriamo. Per me loro non sono dei colpevoli, sono dei condannati. Stanno scontando una pena, ma spesso sono anche loro vittime di ciò che hanno fatto. Non li giustifico, ma le storie che sento, ciò che hanno patito nella loro vita, mi porta a considerarli delle vittime”. E poi c’è il ricordo di don Antonio, che si è tramutato mercoledì pomeriggio in un gesto concreto. “L’idea della targa in sua memoria è nata dall’interno del carcere, per ringraziarlo di tutto il bene che ha fatto qui dentro in 25 anni di servizio. Tutti coloro che lo hanno incontrato, i detenuti e gli agenti, hanno di lui una memoria grata. Ha lasciato un bel segno, gli sono tutti riconoscenti”. Treviso. Nuova biblioteca al carcere minorile: “Leggere è il primo passo verso una nuova vita” di Eleonora Pavan Il Gazzettino, 17 novembre 2024 La libreria Giunti e alcuni privati cittadini hanno consegnato circa 40 libri. Importanti anche gli incontri con gli atleti della nazionale olimpica: hanno condiviso con i ragazzi storie di riscatto. Da una parte c’è stata la conclusione dell’attività fatta in collaborazione con l’Associazione nazionale atleti olimpici e Azzurri d’Italia di Treviso, che una volta alla settimana per tutto l’anno hanno condotto degli incontri per trasmettere i valori dello sport ai ragazzi e farli fare attività pratica. Dall’altra, c’è l’inaugurazione di una nuova biblioteca all’interno della struttura, con una quarantina di libri messi a disposizione dalla libreria Giunti e donati da privati per incentivare i ragazzi alla lettura. Il valore della lettura - È di queste due iniziative che si è fatto il punto ieri mattina al carcere minorile di Santa Bona durante l’inaugurazione della nuova biblioteca e videoteca. “In carcere si legge tanto - ha sottolineato il direttore Girolamo Monaco - e si scrive. Parte dei libri che ci sono stati donati la distribuiremo ai ragazzi, così che li possano leggere individualmente e collettivamente. Poi li discuteremo assieme. È una gioia sentire un ragazzo che ti dice che per la prima volta in vita sua ha finito di leggere un libro. Portiamo avanti anche percorsi di alfabetizzazione per coloro che praticamente non conoscono l’italiano”. “Abbiamo selezionato i testi in base al tema, quindi sopratutto sport, ma anche narrativa e manga, per fare in modo che possano interessare i ragazzi, e anche in base all’età - ha spiegato Sara Bottari della Giunti - Sono anni che portiamo avanti questa iniziativa - “Aiutaci a crescere, regalaci un libro” - con gli ospedali. Questa è la prima volta che la portiamo in carcere”. L’esempio dello sport - Per quanto riguarda, invece, l’attività con gli atleti azzurri: “Hanno insegnato ai ragazzi non solo i valori dello sport, ma anche come lo sport abbia cambiato loro la vita. Hanno mostrato tanti esempi di riscatto sociale e di superamento delle difficoltà. Hanno fatto capire ai ragazzi come sia possibile rialzarsi dopo una caduta”. “Pensavamo di venire qui ad aiutare, ma siamo stati noi ad essere stati aiutati da loro - ha commentato il presidente dell’associazione, Bruno Cipolla - I social non ci raccontano del disagio che questi ragazzi sopportano e hanno sopportato. Noi, come generazione di genitori, non li abbiamo saputi educare: oggi siamo qui a riparare. Spero che a tutti voi ragazzi lo sport possa aprire la porta giusta”. Presenti all’inaugurazione anche gli avvocati Barbara Vidotto e Matteo Moretto, che hanno parlato della funzione rieducativa della pena e, in rappresentanza del Comune, l’assessore alle Politiche giovanili Gloria Sernagiotto e il consigliere Luigi Caldato, che ha ribadito: “Voi sarete il fulcro della nostra società. Abbiamo bisogno di voi, perciò dovete trovare la forza di lottare e di reintegrarvi fuori da qui”. I ragazzi dell’istituto stanno partecipando anche ad altre iniziative come costruire cartoni per panettoni per una ong che opera in Bolivia o concorrere (e vincere) a concorsi di scrittura. Brescia. Mediatrici culturali d’eccezione per l’artista dissidente sudanese di Federica Pacella Il Giorno, 17 novembre 2024 Al Museo di Santa Giulia di Brescia, detenute di Verziano guidano i visitatori nella mostra di Khalid Albaih, promuovendo dialogo e comprensione. Progetto educativo e di riabilitazione in collaborazione con enti locali. Ask me, ovvero l’arte raccontata dai detenuti. A partire da questo week-end, al Museo di Santa Giulia prende vita il progetto voluto da Comune di Brescia, Fondazione Brescia Musei e Casa di Reclusione di Verziano, ideato e progettato in collaborazione con Act Associazione Carcere e Territorio O.d.V. - E.T.S., grazie all’impegno di Carlo Alberto Romano, in occasione della mostra dell’artista dissidente sudanese “Khalid Albaih. La stagione della migrazione a Nord”. A disposizione dei visitatori oggi dalle 14 alle 18, ci sono due detenute di Verziano, formate dai Servizi educativi di Brescia Musei, in qualità di mediatrici culturali per aiutare il pubblico a comprendere meglio i contenuti e le ragioni della mostra. Le guide così formate sono un prezioso supporto alla visita, facilitando il processo di comprensione del visitatore, invitandolo, in un dialogo sempre suggerito e mai imposto, a considerare i nuovi punti di vista messi in luce dall’esposizione. Proprio i contenuti e i temi dell’esposizione hanno offerto lo spunto per l’elaborazione e sviluppo del progetto disegnato con la Casa di reclusione di Verziano. Un’occasione di riflessione e azione per far emergere la propria personale visione del rapporto tra società ed individuo contribuendo al percorso di riabilitazione delle detenute, forti dei risultati che alcune esperienze pregresse hanno dimostrato in merito all’alto valore educativo delle attività culturali. Il progetto durerà per tutti i fine settimana fino al 23 febbraio. Napoli. “La camorra spiegata agli Scugnizzi”, libro di Esposito La Rossa di Ugo Cundari Il Mattino, 17 novembre 2024 Prova a narrare il Sistema “da dentro”, partendo dalla “Tempesta” di Shakespeare e di Eduardo. Nell’istituto penitenziario minorile di Nisida prende servizio un attore toscano. Il suo compito è convincere i ragazzi detenuti a mettere in scena “La tempesta” di Shakespeare, con il napoletano utilizzato da Eduardo De Filippo nel 1984, ma con testi che fanno riferimento alle tempeste che ogni detenuto ha attraversato nella sua vita. È la storia immaginata in “La camorra spiegata agli Scugnizzi” (Marotta & Cafiero, pagine 176, euro 16) da Rosario Esposito La Rossa, che nella premessa sottolinea di non essere uno storico né di avere nulla da insegnare se non quello che ha imparato in oltre venti anni di lavoro sul campo con gli scugnizzi di Scampia. L’autore, responsabile delle edizioni Marotta & Cafiero, aperta a Melito, e della Scugnizzeria, libreria dove si organizzano attività per i ragazzi della zona, vent’anni fa ha perso un cugino, Antonio Landieri, vittima innocente dalla camorra durante la faida di Scampia. Torniamo alla storia, strutturata come un copione teatrale. Quando l’attore comunica alla sua classe il progetto, quasi tutti i ragazzi se ne tornano in cortile o nelle loro celle. Di quelli che rimangono, uno, Papele, condannato per omicidio, si rivolge così all’attore: “Ve la posso dire una cosa? Siete proprio una lota”, e poi va via. A spiegare all’attore che significa quell’insulto è il travestito Mary, “zizze finte, reggiseni riempiti di cartacce. Una minigonna troppo corta. Calze a rete e rossetto rosso, troppo rosso”. Si sente parte di due mondi come una sirena, e gli dice: “La lota è la terra mescolata con l’acqua. La melma, il fango, la sporcizia. Insomma, tu”. È Mary a insegnare qualcosa all’attore, ossia a come deve comportarsi quando ha a che fare con loro. Non si deve atteggiare, non si deve sentire un salvatore, deve prima fare amicizia e poi iniziare a parlare del suo progetto, altrimenti sembra che stia lì solo per dovere, solo per soldi. I giorni seguenti l’appassionato shakespeariano ci riprova, legge brani dell’opera, esalta la bellezza delle commedie del bardo. E ancora, i ragazzi gli spiegano che per coinvolgerli deve cercare un rapporto vero e così un giorno lui si confida, racconta tutta la sofferenza della sua esistenza, il dolore di essere figlio di uno stupro, le umiliazioni subite da bambino a causa dei bulli, i problemi di balbuzie, la morte per overdose della sua prima fidanzatina. I ragazzi iniziano a fidarsi, a confidarsi a loro volta. Chi ha fatto rapine per vendicare le umiliazioni della madre, collaboratrice domestica al Vomero, chi spiega perché ha deciso di entrare in un clan e cosa è la camorra: “Tante teste che hanno fatto capemmuro e s’organizzano, se mettono insieme e vogliono, vonno, vonno vonno. A qualsiasi costo”. I ragazzi si lasciano coinvolgere nel progetto teatrale. Ognuno si prenderà la briga di raccontare la propria personale tempesta, il proprio naufragio, il proprio esilio impersonando i vari Prospero, Calibano, Miranda, Ariel. La rappresentazione si terrà al San Ferdinando, ma la sera del debutto sarà macchiata da una tragedia e il finale a sorpresa, sarà, più che la celebrazione del teatro come salvezza, un atto d’accusa nei confronti di chi dimentica le vittime innocenti della camorra. Viaggio a Brancaccio, alle radici del male. Il romanzo di Francesco Faraci di Lucio Luca La Repubblica, 17 novembre 2024 S. è un mafioso palermitano che vive nel quartiere di don Pino Puglisi e vuole redimersi. Il romanzo per immagini di un reporter. “A Brancaccio non c’è niente. Niente, tranne la noia. Quella che, con il suo manto scuro, abbraccia ogni cosa”. Brancaccio è il quartiere più a sud di Palermo. Chi lascia la città - o chi ci arriva venendo dall’altra parte - si imbatte per forza in questa terra di nessuno, “un avamposto di frontiera. Una lingua di strada di un chilometro e mezzo che racchiude tutto il male e il bene di questa incomprensibile città”. È brutta Brancaccio, quasi come se fosse stata costruita da una mente diabolica che ha deciso di concentrare da queste parti un piccolo popolo di “sfigati” per trasformarli in pericolosi criminali. Perché in un posto del genere diventare cattivi è facile, quasi obbligatorio: qui vince la legge del più forte, qui se non ti adegui alle regole rischi di fare una brutta fine. E pure se ti adegui, visto che fin da bambini a Brancaccio il sangue e la violenza sono il pane quotidiano. Lo sa bene S., protagonista di “Brancaccio. Le viscere di Palermo”, il romanzo-verità scritto da Francesco Faraci per Zolfo Editore (pagg.184, euro 18), un pugno nello stomaco per chi non conosce questa realtà, l’amara constatazione che nulla è cambiato per chi, invece, Palermo e le sue periferie le ha vissute sulla propria pelle. S. ha 45 anni, di cui almeno venticinque passati a entrare e uscire dalle carceri di mezza Italia. Il suo fascicolo, tutti i processi nei quali è implicato, somma qualcosa come 2.700 pagine. Da ragazzino S. era amico di Salvatore Grigoli, il killer di padre Pino Puglisi. Già, perché Brancaccio è anche questo: quartiere di mafia e di redenzione, con boss del calibro dei fratelli Graviano, “malacarne” pronti a tutto pur di scalare le classifiche della criminalità e preti- coraggio che si giocano la vita pur di restituire un raggio di luce a questo agglomerato di cemento senza senso. Faraci, che oltre a scrivere è un bravissimo fotografo - alla fine del libro sono pubblicati scatti di incredibile bellezza ed efficacia - ha trascorso mesi, anni ascoltando i racconti di S. e li ha poi trasformati in un romanzo che “nobilita il mestiere di cronista - scrive Nello Trocchia nella prefazione - Un mestiere che non vuole sedie e comfort ma strada e ascolto”. “Tutto qui è apparenza, ma grattando appena la superficie delle cose si rischia di scivolare in un abisso da cui è facile essere ingoiati, che entra negli occhi, nelle vene, che stringe la gola e avvelena e storpia” racconta Faraci. L’abisso del protagonista, “battezzato” a soli dieci anni alla legge della strada. La legge di un mondo che da Brancaccio sembra lontano, quasi irraggiungibile. Don Pino, che qui c’era anche nato, diventò parroco del rione dopo che sette altri sacerdoti rifiutarono quella destinazione. Quasi che la missione di fede, da queste parti, fosse un’inutile perdita di tempo. Da “picciotto” di strada cominciò a portare i bambini all’oratorio, ne strappò diversi ai tentacoli della piovra, convinse anche qualche coraggioso maestro a parlare di mafia nelle scuole. Troppo. La forza di quel sorriso stava diventando pericolosa per Cosa nostra e il 15 settembre del 1993 i sicari dei Graviano entrarono in azione. La ferocia di Cosa nostra e la grazia del martirio. Anche questo è Brancaccio, un luogo di frontiera nel quale gli abitanti sono costretti a crescere prima del resto del mondo, a indurirsi di fronte alla vita. Faraci scrive dunque una storia d’amore e di violenza. Di buio e di luce. Di sogni infranti, cadute, rovinose a volte come quelle di S. ma anche di insperata voglia di riscatto. Perché solo dopo aver toccato il fondo, S. trova la forza per iniziare un doloroso ma necessario percorso di recupero e di ritorno alla vita. Francesco Faraci ha da sempre dedicato la sua vita a raccontare, con la forza delle immagini, le vite dimenticate delle periferie siciliane. Con la stessa passione in questo libro trasmette l’umanità nascosta nelle pieghe più oscure della città. Come già in Malacarne (2016) e Atlante Umano Siciliano (2020) Faraci, che ha lavorato come fotoreporter per grandi testate internazionali come Repubblica, New York Times e Guardian, non si accontenta della cronaca ma vuole lanciare un messaggio mai del tutto recepito da chi regge i fili di una città martoriata come Palermo: e cioè che anche dietro alla violenza e al degrado si può nascondere un grande bisogno di amore e di riscatto. Pure qui a Brancaccio, nelle viscere di una terra che fa fatica a imparare dai propri errori. Luca Casarini, una vita da antagonista: “I miei genitori erano sordi, io sono diventato un predicatore” di Roberta Polese Corriere della Sera, 17 novembre 2024 “Vivo in Sicilia con 1400 euro al mese e una vecchia Volvo”. L’ex portavoce dei centri sociali del Nordest guida l’Ong Mediterrarea. Nel suo nuovo libro c’è uno scritto di Francesco: “Amico del Papa... Mia madre ha gridato al miracolo”. La fede, il Veneto lasciato 15 anni fa, i figli, i migranti e la politica: “La sinistra? Smetta di parlare di poveri e inizi a stare con loro”. Il collegamento video con Luca Casarini dalla sua casa di Palermo inizia con una lieve inflessione siciliana e finisce un’ora e mezza dopo in dialetto veneto. Si parte dal libro “La Cospirazione del bene”, scritto con Gianfranco Bettin, edito da Feltrinelli. Dentro c’è uno scritto di Papa Francesco, oggi, domenica 17 novembre, ci sarà l’anteprima alla Fondazione Feltrinelli di Milano insieme al cantante Ghali. Presentazioni: Casarini è l’ex capo dei disobbedienti, portavoce dei centri sociali del Nordest, oggi guida la ong Mediterranea che salva migranti nel mare. Per non aver rispettato le leggi ora è indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Mestrino, 57 anni, ha avuto la sua massima esposizione tra il 1990 e il 2010, anni ruggenti del Nordest, succedeva di tutto: da un lato le grandi infrastrutture (Passante, Mose), dall’altro le lotte per la casa, contro la guerra, contro la globalizzazione selvaggia. Negli stessi anni nelle stanze segrete del Veneto i banchieri delle popolari organizzavano la rovina della classe media, gli imprenditori pagavano tangenti ai politici, le multinazionali provocavano un inquinamento senza pari. Avremmo scoperto tutto, dopo. Casarini, chi cospira contro chi? “Il bene cospira contro il male: oggi Mediterranea è un’organizzazione fatta di molte persone, ma all’inizio eravamo in pochi (tra loro anche l’ex consigliere comunale Beppe Caccia e l’ex assessore regionale in Friuli Venezia Giulia Alessandro Metz ndr) tra il giugno e l’ottobre del 2018, quando c’era ancora tutto da preparare, ci siamo dovuti muovere di nascosto: c’era il governo Conte-Salvini, se si fosse saputo cosa stavamo facendo ci avrebbero fermato. Io poi dovevo muovermi il meno possibile, con tutti i precedenti che ho è come se avessi un evidenziatore sulla testa, ci sono stati momenti che a raccontarli ora sono comici ma all’epoca avevamo paura di tutto”. Ci faccia un esempio... “Un giorno dovevo andare da un negoziante che gestiva una ferramenta a comprare delle cose per la nave, era necessario che ci andassi io perché mi facesse credito, lui ha cominciato a fare molte domande, io gli ho detto che ci stavamo organizzando con un regista per fare un film sull’inquinamento degli oceani. Quando sono tornato al cantiere ho detto “ragazzi dobbiamo muoverci, ci hanno sgamati”. Nel libro raccontiamo questi aneddoti, tutti gli incassi andranno a Mediterranea”. Ma nessuno si è accorto di nulla. “Funzionari della Presidenza del Consiglio ci avevano cercato a Trieste, noi eravamo ad Augusta”. Nel libro c’è uno scritto di Papa Francesco, gliel’avessero detto 10 anni fa che sarebbe diventato amico del Papa non ci avrebbe mai creduto… “Incredibile ma non avrei mai creduto neanche che il Mediterraneo diventasse un enorme cimitero”. Lei crede in Dio? “Sì”. E da piccolo andava in chiesa? “Di più: ho fatto il chierichetto, ero nella parrocchia di don Aldo Cristinelli in via Stuparich a Mestre, devo trovare il certificato perché quando l’ho detto a papa Francesco ha detto che vorrebbe firmarmelo”. Poi però con la Chiesa ha chiuso. “Dopo che andò via quel parroco mi allontanai. Ma ricordo bene Papa Giovanni XXIII, quando pubblicò la sua enciclica “Pacem in terris” il Corriere della sera titolò una vignetta “falcem in terris”, è sempre così: quando un prete è controcorrente allora è comunista. La stessa cosa è accaduta con Papa Francesco, con lui ho ritrovato una Chiesa pronta ad accogliere perfino me”. La sua famiglia cosa pensa di questa sua svolta? “Mia madre ha gridato al miracolo: quando ha visto la mia foto con il Papa pensava a un fotomontaggio, mio padre purtroppo non c’è più dal 2004”. Per i suoi non deve essere facile avere un figlio come lei. “Erano operai, mia madre lavorava alla Manifattura Tabacchi, mio padre alle Officine Galileo a Battaglia Terme, subii la prima perquisizione in casa a 17 anni, cercavano le armi, per i miei fu uno choc: mia madre e mia nonna cercavano di offrire un caffè ai carabinieri che ci stavano mettendo a soqquadro la casa, mio padre prese in mano la Bibbia mostrandola alla polizia e disse: “Vedete Luca legge la Bibbia, era sopra il suo comodino”, parole premonitrici”. Condividevano le sue battaglie? “Facevo parte degli Autonomi, avevo rotto con le due grandi tradizioni famigliari: non ero comunista e non ero cattolico. Non condividevano il metodo, che talvolta sfiorava il fanatismo, ma vedevano che non facevo nulla per il mio tornaconto personale. Quando mio padre finì in cassa integrazione marciammo insieme, finimmo dai carabinieri tutti e due. Fu un’esperienza eccezionale per me. Per quella generazione perdere il lavoro era perdere il futuro e il futuro eravamo noi figli. Poi io sono diventato un “predicatore”, oggi parlo fino a diventare logorroico: i miei genitori erano entrambi sordi, sono cresciuto nel silenzio per questo ho sempre subìto il fascino della parola”. Anche i suoi due figli sanno tutto delle sue battaglie? “Per forza: l’esperienza delle perquisizioni l’hanno vissuta tutte le generazioni della mia famiglia. Uno ha 13 anni l’altro è quasi maggiorenne, ho vissuto agli arresti domiciliari con loro, il grande è molto gentile con la polizia, il piccolo non vuole parlare con quelli che hanno arrestato papà. Di Mediterranea sanno tutto, hanno frequentato la scuola valdese che è diventata sostenitrice della ong, abbiamo organizzato molti eventi con loro anche con lo Zecchino d’oro, e qui devo darle un altro scoop”. Dopo il chierichetto? Non so se reggo. “Da piccolissimo ho cantato allo Zecchino d’Oro la canzone che si chiamava “Minicoda”, la storia di un “taglialegna matto che ha tagliato la coda al gatto”. Per i miei genitori era come se fossi andato a X Factor”. Ha rivendicato questa sua dote nel curriculum per cantare le canzoni dello Zecchino d’oro a Palermo? “Ho trovato una vecchia canzone che si chiama Mediterraneamente, di molti anni fa, parla di bambini nel mare come dei pesciolini, ho trovato l’autore su Facebook e lui entusiasta ce l’ha regalata: il bambino che la cantava è venuto nella scuola dei mei figli per un concerto, c’era un sacco di gente è stata un’esperienza meravigliosa”. Lei è andato via dal Veneto quindici anni fa, pensa che nella sua terra avrebbe potuto organizzare cose simili? “Sono certo di sì, io sono venuto a Palermo per seguire la madre dei miei figli che è siciliana, qui il Mediterraneo si sente, c’è una forte impronta meticcia. Sono andato via dal Veneto all’alba della crisi, stavano crollando le certezze, c’era molta paura, in Sicilia sono abituati alla precarietà. Il Veneto con la Serenissima è una terra di dominatori, la Sicilia di dominati”. Cosa fa lei oggi? “Studio Teologia alla facoltà teologia siciliana, collaboro con la Rete teologica mediterranea”. Vorrebbe insegnare religione? “No”. Molti si chiedono di cosa viva Casarini. “A mio nome all’Inps hanno una sfilza di codici Ateco, da giovane ho lavorato anche come programmista regista in Rai, appena arrivato a Palermo facevo il cuoco in un co-working: preparavo fegato alla veneziana, sarde in saor, risi e bisi, cose che cucino anche quando sono in nave, oggi sono ispettore di bordo: prendo 1.400 euro al mese, vivo in affitto, ho una vecchia Volvo, non ho bisogno di soldi e tutto quello che prendo va per i miei figli”. Ora è arrivato Trump. La sinistra non solo perde, ma perde sempre più miseramente, perché? “La sinistra deve smettere di parlare dei poveri, e iniziare a starci, con i poveri: organizzarsi con loro, cospirare insieme a loro”. Una giornata di blocco contro il ddl Sicurezza di Luciana Cimino Il Manifesto, 17 novembre 2024 L’assemblea “A Pieno regime” si allarga, manifestazione nazionale il 14 dicembre. Ferrajoli: “Contro la svolta autoritaria globale unire la protesta italiana a quella del resto del mondo”. “Se la sala fosse stata vuota, cari compagni e compagne, saremmo qua di nuovo nel regno della sfiga invece siamo qua nel regno della possibilità”. Quando interviene Rolando, dei centri sociali del nord est, a circa mezz’ora dall’inizio dell’assemblea nazionale contro il ddl Sicurezza, il colpo d’occhio è notevole. Almeno 500 persone tra l’aula magna della facoltà di Lettere della Sapienza e l’atrio. La scommessa che si è data la rete A pieno regime, del resto, è poderosa: portare a Roma il 14 dicembre almeno 100mila persone per la manifestazione nazionale contro i provvedimenti del governo Meloni che “criminalizzano la marginalità sociale”, inclusa la manovra che taglia sanità e istruzione. “A Padova qualche giorno fa c’erano 5mila persone in corteo - ragiona Rolando - credo che sia alla nostra portata”. Anche perché prima ci sono altre manifestazioni in cui confluire. Ieri, con l’assemblea della Sapienza e il Climate Pride, si è aperto un mese intenso di cortei e la premier ha dimostrato, proprio in questi giorni, di non gradirne nessuno. Non è causale infatti che in apertura la rete A pieno regime porti la solidarietà agli studenti per “il vergognoso linciaggio mediatico a cui sono stati sottoposti dai partiti di governo”. Oggi a Firenze è la giornata degli operai dell’ex Gkn, il 23 novembre si terranno le manifestazioni transfemministe, il 29 ci sarà lo sciopero generale dei sindacati, il 30 un corteo contro il genocidio palestinese. “È necessario per costruire una mobilitazione larga, plurale, con la partecipazione non solo delle reti militanti ma anche di quella parte della società civile che non ha intenzione di accettare la deriva autoritaria e liberticida messa in atto dalla destra”, spiegano dall’assemblea. L’ambizione è quella di un “blocco reale nel giorno della votazione, altrimenti sembra che ci stiamo trovando per costruire la solita manifestazione nazionale”. Sulla data del 14 dicembre c’è ampia convergenza ma, avvisano, il corteo sarà anticipato nel caso di un’accelerazione al Senato. “Come opposizione abbiamo presentato 1.400 emendamenti per farla lunga, al netto di tagliole - spiega il senatore Avs Peppe De Cristofaro - alcune cose devono modificarle, come la norma che rende illegale la canapa industriale che non regge”. Difatti nell’aula magna sono presenti anche l’Associazione della canapa sativa e la Federazione dei lavoratori dell’agroindustria (Flai). E poi, tra realtà locali come il Laboratorio Insurgenzia di Napoli e i Municipi solidali di Bologna, ci sono anche Arci, Anpi, Amnesty, Fiom, Flc Cgil, Cobas, Antigone, associazioni per il diritto all’abitare e quelle ambientaliste come Ultima Generazione, reti per i migranti come Mediterranea, i Giuristi Democratici. “Se uno si va a spulciare il pacchetto Sicurezza penso che trova un reato costruito proprio su ciascuna delle persone che stanno qua dentro” commenta Michele Rech (Zerocalcare). “Questo ddl ha il chiaro fine di criminalizzare ogni forma di disobbedienza civile ovunque venga praticata, il governo Meloni è insofferente a ogni tipo di dissenso - nota anche l’avvocata e attivista Federica Borlotti -. Dietro la maschera della sicurezza si cela un progetto di repressione per colpire le fasce più deboli, emblematico è ciò che avverrà sul terreno della casa”. Partono i collegamenti video con Ilaria Salis, la vicesindaca di Bologna Emily Clancy, Fabio Anselmo e Ilaria Cucchi, in sala c’è anche Nicola Fratoianni. “Dobbiamo stringere alleanze, allargare la partecipazione, superare gli steccati identitari e i particolarismi”, dice un attivista ed è il messaggio su cui insistono tutti gli interventi. Per Luigi Manconi la “torsione autoritaria” della destra di governo è “più grave e più lesiva dei diritti fondamentali della persona persino rispetto alle leggi che furono varate in piena emergenza terrorismo”. Lo chiama “il decreto paura” Michele de Palma, segretario nazionale Fiom, “perché è costruito per far paura a chi pensa diversamente dalla maggioranza”, mentre il giurista Luigi Ferrajoli, professore emerito di Filosofia del diritto, consiglia di “collegare il movimento di protesta italiano a quelli del resto del mondo perché ormai la svolta autoritaria è globale ed è a livello globale che si decide il futuro della democrazia”. L’arrivo delle pistole fu la fine del ‘68. Non sviliamo la protesta con quei simboli di Giovanni De Luna La Stampa, 17 novembre 2024 Il gesto della P38 alla manifestazione è un brutto segnale di resa, più che di speranza. La voce dei nostri ragazzi è importante, non lasciamola inaridire nella frustrazione. Quelle tre dita a simboleggiare una pistola sono un brutto segnale. Di resa, più che di speranza. C’è da augurarsi che i ragazzi che hanno riproposto quel tragico gesto ne ignorino la storia e le implicazioni politiche. Quando nei cortei degli operai e degli studenti, nella seconda metà degli anni 70, apparvero le pistole vere, evocate da quel gesto e alla fine arrivate, per il “lungo ‘68” fu la fine. Un movimento che aveva scosso in profondità l’Italia conformista e democristiana finì così, agito da una violenza che apparve come una risorsa e fu invece una condanna. Qualcuno di noi se ne accorse già allora e denunciò l’uso delle armi da parte del movimento come una sorta di avvelenamento dei pozzi, una catastrofe che arriva a minare dall’interno una comunità rurale, privandola dei luoghi in cui ci si incontra, si costruisce lo spirito comunitario, si alimentano rapporti, si intrecciano relazioni. Quando apparvero le pistole subentrò la logica del sospetto, la soffocante cappa della clandestinità, forme di organizzazione modellate su antichi movimenti cospirativi. All’apertura si sostituì la chiusura, alla libertà le dure regole di un mondo autoriferito e angusto. E l’Italia ci voltò le spalle. Il vento che aveva soffiato alle nostre spalle, gonfiando le nostre file e dando alle nostre rivendicazioni il senso giusto della storia, cambiò direzione e prese a soffiarci contro. E da allora in poi non ha mai smesso. Il 16 marzo 1978, Aldo Moro, leader riconosciuto della DC, allora il partito di maggioranza, fu rapito dalle Brigate Rosse, per poi essere ucciso il 9 maggio. I cinquantacinque giorni del suo rapimento costituiscono ancora oggi un evento cruciale per la nostra storia. Fu l’apice dell’offensiva terroristica ma anche l’inizio di un suo irreversibile declino. Ai brigatisti che volevano muoversi nella società italiana come pesci nell’acqua, cominciò a mancare proprio l’acqua in cui nuotare. E gli italiani li lasciarono affogare, disprezzandone i progetti rivoluzionari e inseguendo priorità di tutt’altro segno. Proprio nei giorni del sequestro uscì nelle nostre sale cinematografiche, interpretato da John Travolta, La febbre del sabato sera, un film che aveva già scatenato la mania del ballo negli Stati Uniti e che si apprestava a farlo anche in Europa. L’anno dopo, nel 1979, la Siae (Società italiana Autori ed Editori) registrava nel nostro paese 5 mila “locali da ballo” e, sulla base del numero delle sale aperte e dei biglietti venduti nel corso di dodici mesi, certificava un aumento del 50% di questi locali rispetto all’anno precedente. Anche in Italia, quindi, il film scatenò la passione per il ballo. Migliaia di giovani e giovanissimi presero a ritrovarsi nelle discoteche, vissute quali nuovi luoghi di aggregazione, ascoltando una musica facile e disimpegnata e abbracciando un atteggiamento evasivo ed individualistico. In seguito, alle discoteche si aggiunsero le curve degli stadi calcistici. Era del 1979 un libro- inchiesta di Daniele Segre che si occupava dei “ragazzi di stadio”, un fenomeno nuovo che seppelliva per sempre gli spunti ideologici che avevano sorretto i luoghi della ribellione delle generazioni precedenti. Quello che voglio dire è che è vero, gli adulti fecero di tutto per stroncare i fermenti giovanili che in Italia avevano alimentato “il lungo ‘68”. Ricorsero alle stragi, alla violenza impunita degli squadristi e degli apparati segreti dello Stato, con i partiti politici che si chiusero nel “palazzo” inseguendo sciagurati compromessi. Ma anche noi, i giovani di allora, ci mettemmo del nostro. Proprio a cominciare dall’uso della violenza. Quando dai bastoni e dalle aste delle bandiere si passò alle pistole, fu la fine. Lo racconta bene un altro film, di Guido Chiesa, Lavorare con lentezza, del 2004. È la storia di Radio Alice, della repressione poliziesca per spegnere quella voce di gioia e di libertà, ma è anche, soprattutto, la narrazione di come si arrivò alle pistole e con esse allo spegnersi di tutte le istanze del movimento, quello del ‘77 in questo caso. Perciò quei gesti vanno condannati e perciò è necessario storicizzarli. La protesta dei nostri ragazzi è troppo importante per svilirla con quei simboli. Se c’è una speranza che il vento cambi direzione, questa nasce solo da essi e dai loro cortei: si tratta di non lasciarla inaridire nell’impotenza e nella frustrazione. Marco Revelli: “Burocrazia ottusa e ribelli visionari. Qui la rivolta è sotto pelle da sempre” di Irene Famà La Stampa, 17 novembre 2024 Lo storico: “I cortei esprimono l’intollerabilità di un momento, seppur in forme discutibili. Il pericolo terrorismo? È una retorica che serve a giustificare interventi repressivi”. Torino laboratorio di lotta. Da sempre. E il sociologo e storico Marco Revelli la spiega così: “La rivolta circola periodicamente sotto pelle, come la corrente elettrica, e ogni tanto emerge”. Come mai a Torino più che altrove? “È la struttura della città, contraddistinta da un dualismo tra burocrazia ottusa e ribelli visionari. Senza questo, Torino non sarebbe la stessa”. Le lotte operaie, la Valle di Susa, la galassia anarchica. La storia di Torino è una storia di battaglia... “Che inizia ben prima”. Quando? “Nel 1874, a Moncalieri, dove il parlamento subalpino si riunì per decidere lo stato d’assedio per la rivolta che dilagava in città contro il trasferimento della capitale a Firenze. L’ultima d’Italia non era ancora completata e già Torino esprimeva queste forme. È una città che spesso anticipa i processi nazionali”. Anche con i cortei Pro Pal di questi giorni? “Seppur con forme discutibili, questi cortei esprimono l’intollerabilità di una situazione”. Quale? “Ormai da mesi, quotidianamente, in Palestina assistiamo a pratiche di una disumanità radicale. Seppur in risposta a un atto atroce come quello del 7 ottobre. Io mi vergogno della mia mancanza di rivolta. Poi discutiamo le forme. E solidarizziamo con le vittime”. Liliana Segre è stata attaccata dai manifestanti, è stata definita “complice del genocidio”... “Chi l’ha fatto è un irresponsabile. Non sa di cosa parla, non conosce la storia della senatrice”. Alcuni ragazzi hanno fatto il gesto delle tre dita a simboleggiare la P38, come avveniva negli Anni 70... “Un atto completamente fuori luogo, fuori tempo e fuori di testa”. Tutto questo, insieme agli attacchi alle forze dell’ordine, non crede sia controproducente? “Sicuramente. Non so se chi compie questi gesti è consapevole del danno che fa alla propria causa. Dall’altra parte, poi, si esaltano questi dettagli per oscurare le ragioni profonde delle piazze”. Il ministro Nordio ha parlato di “pericolo terrorismo”. Come commenta? “È una gigantesca sciocchezza. Io ho visto com’è nato e come si è espresso il terrorismo e non c’è alcun rapporto con quello che avviene oggi. Se non una retorica che serve solo a giustificare interventi repressivi”. Andiamo con ordine. La rivolta dei Subjet a fine 800, quella nel 1917 contro la Guerra. Poi? “Nel 1920, l’occupazione delle fabbriche. Nel 1961, i disordini dopo la firma del contratto separato dei metalmeccanici. Il 3 luglio 1969, con la rivolta operaia di corso Traiano, anticipazione dell’autunno caldo”. Cos’ha rappresentato la Torino dell’epoca? “Un grande processo di liberazione di massa. La fabbrica Fordista era, per sua natura, un luogo di compressione delle persone all’interno degli apparati metallici della produzione. Di colpo quell’umanità si è liberata da quel gioco”. Torino è stata anche laboratorio per la lotta armata... “Un fenomeno perverso. Trovo che sia stato un avvelenamento dei pozzi, ha prosciugato tutti i canali di fiducia tra le persone”. Poi si è arrivati alla Valle di Susa, alla lotta contro la Tav... “In quel caso non è stata colta la vera natura”. Perché? “La lotta contro la Tav è stata una gigantesca rivolta del territorio, che ha coinvolto un’intera comunità. Ma se lo si riduce a un problema di ordine pubblico, com’è stato fatto, si intraprende una strada sbagliata”. Nelle ultime manifestazioni c’era l’ala più violenta, di quel movimento di territorio nemmeno l’ombra. Come mai secondo lei? “Sono passati trent’anni da quando è iniziata la battaglia. E si è assistito a una perenne sordità nei confronti di quelle voci dalla politica e dalla magistratura torinese”. Battaglia persa per sfinimento? “Non so se è stata persa. Quando si faranno i conti e si vedranno la quantità di fondi pubblici sprecati, chi si è opposto apparirà come quegli eroi del 1874”. Ora il movimento Pro Pal unisce anime differenti: studenti, antagonisti, anarchici e così via. Analogie e differenze con il passato? “Sono tutti segnali di vita di questa città. Certo, rispetto al passato abbiamo episodi di una portata differente. Adesso vengono un po’ enfatizzati”. Il centro sociale Askatasuna, una volta casa dell’Autonomia Operaia, in piazza è sempre in prima fila. Regia degli scontri? “Alle regie io non credo”. Gpa, il “reato universale” arriva sulla Gazzetta ufficiale di Marco Pasi Il Manifesto, 17 novembre 2024 Gestazione per altri. Arrivata la firma di Mattarella che da lunedì renderà effettivo il ddl Varchi. La Gpa però è regolamentata in 66 Paesi e il “reato universale” potrebbe rivelarsi inapplicabile, oltre che incostituzionale. Da domani sarà presente in Gazzetta ufficiale il disegno di legge che renderà la Gpa (gestazione per altri) reato universale. Approvato in via definitiva il 16 ottobre in Senato, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dovrebbe aver firmato il ddl lo scorso 4 novembre, tre giorni prima della partenza per il suo lungo viaggio in Cina. E chissà se anche la promulgazione del cosiddetto “ddl Varchi”, che rende perseguibile penalmente anche chi fa ricorso alla Gpa all’estero, è una di quelle leggi di cui parlava quando venerdì diceva: “Mi è capitato più volte di promulgare leggi che non condividevo affatto”. Se nella sua personale lista di ordinamenti “non condivisi” sia presente anche l’ultimo in questione di certo non possiamo saperlo, ma quando ha parlato del suo ruolo come quello di un “arbitro” e di come “il presidente non promulga solo leggi di evidente incostituzionalità, non basta un dubbio altrimenti usurperei i compiti della Corte costituzionale”, viene facile associare queste parole ai tanti dubbi emersi negli ultimi mesi in termini di legittimità nei confronti del ddl Varchi, e della concezione di applicabilità di reato universale in questo caso specifico. Dubbi espressi ieri anche dal Segretario di +Europa Riccardo Magi, che giudica la legge “un obbrobrio giuridico palesemente incostituzionale”. La norma, dice, “si scontra con l’articolo 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. L’ennesima legge varata da questo governo che sarà abbattuta dai tribunali perché il nostro esecutivo è incapace, oltre che ideologico e miseramente crudele”. La Gpa è regolarizzata in 66 Paesi (tra cui Gran Bretagna e in molti Stati degli Usa, per citarne solo due, ma anche in tanti Paesi dell’Ue), d’ora in avanti però i genitori italiani che vi ricorreranno potrebbero rischiare da 3 mesi a 2 anni di carcere. Non sufficienti, in teoria, da prevedere la perseguibilità anche se commessi all’estero. Infatti per rientrare tra quei reati il minimo di pena dovrebbe essere 3 anni, per derogare a questo principio il ddl Varchi funge addirittura da legge speciale. Bisognerà ora capire quanto applicabile. “Da lunedì saremo l’unico paese al mondo che definisce reato universale una pratica che è legale in molti altri paesi”, conclude Magi rivolgendosi al governo: “Peccato che a fare le spese della loro sadica approssimazione saranno le famiglie e i loro bambini”. Maternità surrogata, l’Associazione Luca Coscioni: “pronti a difendere chi inizierà il percorso” Ristretti Orizzonti, 17 novembre 2024 “Siamo già in contatto con oltre 50 coppie preoccupate per gli effetti della legge”. “La firma di Mattarella sulla legge Varchi è un atto dovuto, che non sorprende, vista la linea del Presidente di firmare anche atti in palese contrasto con la normativa europea, come nel caso della legge sulla carne coltivata poi annullata dall’UE”, hanno dichiarato Marco Cappato e l’avvocata Filomena Gallo, rispettivamente Tesoriere e segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, “Siamo pronti a difendere tutte le coppie danneggiate da questa legge ingiusta e irragionevole. Porteremo la nostra e la loro battaglia nei tribunali e in ogni sede adeguata, con l’obiettivo di ristabilire un’opportunità offerta dalla scienza, che una normativa cieca e brutale pretende di condannare come reato universale. Sono già oltre 50 le coppie che, da tutta Italia, si sono rivolte al team legale dell’Associazione Luca Coscioni preoccupate per le conseguenze che questa legge potrà avere sul loro progetto di famiglia. Coppie che hanno appena intrapreso il percorso, che hanno solo firmato il consenso in un centro estero o che hanno già fatto il prelievo di gameti. Coppie che stanno attendendo il parto. Oppure che stanno per iniziare il percorso dopo aver scelto il paese con leggi più chiare. Sono per lo più ragazzi e ragazze giovani, coppie eterosessuali, con donne affette da gravi patologie che rendono impossibile portare avanti una gravidanza. Oppure coppie dello stesso sesso che che vogliono fare famiglia con dei figli. Precisiamo che se la procedura di gravidanza per altri all’estero prende il via dopo l’entrata in vigore della legge, la coppia o la persona coinvolta sarebbe perseguibile penalmente, ma sarà necessario capire come lo Stato intenderà agire. Se la procedura, invece, fosse già stata avviata, la legge non sarebbe applicabile, in base al principio di irretroattività del diritto penale. Sarà comunque importante analizzare ogni caso specifico. C’è da chiedersi come faranno ad individuare le coppie. Faranno delle indagini? Chiederanno un certificato di parto? In ben 66 paesi la Gpa è regolamentata e questo renderà difficile l’applicazione in particolare nella fase di cooperazione di polizia per l’acquisizione di fonti di prova. Subito dopo l’entrata in vigore, potrebbe esserci già il primo caso da portare in Tribunale”. La schedatura “per le parole” scuote Londra di Luigi Ippolito Corriere della Sera, 17 novembre 2024 Sono gli “incidenti d’odio non criminali”, casi in cui, pur senza che si configuri un reato, si finisce schedati dalla polizia per aver detto o scritto cose ritenute offensive. In un anno sono stati registrati in Gran Bretagna 13.200 casi. Una vicenda dal sapore kafkiano ha scoperchiato in Gran Bretagna la questione degli “incidenti d’odio non criminali”, casi in cui, pur senza che si configuri un reato, si finisce schedati dalla polizia per aver detto o scritto cose ritenute offensive. Domenica scorsa, di prima mattina, una nota commentatrice del Telegraph, Allison Pearson, si è vista comunicare a casa dalla polizia di essere indagata per un tweet dell’anno scorso: ma, un po’ come per Joseph K. nel “Processo” di Kafka, non le è stato detto di quale tweet si trattasse né chi avesse sporto denuncia. La giornalista non ha mai fatto mistero delle sue vedute di destra dura, dall’immigrazione al gender, ma grande è stato il suo choc quando si è ritrovata nel mirino delle forze dell’ordine. Come era prevedibile, il caso ha scatenato feroci polemiche, con i conservatori, da Boris Johnson alla nuova leader Kemi Badenoch, che gridano indignati alla “psicopolizia” di stampo orwelliano e all’attentato alla libertà di espressione. Fatto sta che in un anno sono stati registrati in Gran Bretagna ben 13.200 di questi “incidenti d’odio non criminali”, che hanno visto anche la schedatura di una bambina di 9 anni che ha dato della “ritardata” a una compagna di scuola o di un sacerdote che ha detto che l’omosessualità è un peccato, per non parlare del tizio che ha dato dello “scopatore di pecore” a un gallese. Possono sembrare cose surreali, ma queste segnalazioni restano sulla fedina penale e rischiano di pregiudicare in futuro una assunzione o una assegnazione di casa. Il governo laburista è in imbarazzo e la Cancelliera dello Scacchiere, Rachel Reeves, ha dovuto ammettere che non è il modo migliore per impiegare le risorse dalla polizia (nel momento in cui taccheggi e furti restano per lo più impuniti). Ma è soprattutto la libertà di parola che è in gioco, quando l’unico suo limite dovrebbe essere la chiara violazione del codice penale.