Il senso di Delmastro per la giustizia di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 16 novembre 2024 Che idea della giustizia ha il sottosegretario Andrea Delmastro? Dove ha imparato quel che sa delle responsabilità di un funzionario pubblico? In una sezione del Fronte della gioventù, a un concerto nazirock o a una festa di CasaPound? O forse alle cene di Capodanno in cui qualcuno spara per caso, come nella vicenda che ha coinvolto il deputato Emanuele Pozzolo a inizio anno a Rosazza, in provincia di Biella? A giudicare dall’ultimo video che lo immortala mentre celebra la nuova automobile blindata fornita in dotazione alla Polizia penitenziaria, il concetto di Stato del sottosegretario sembra piuttosto derivare dai film americani dove il “poliziotto cattivo” si occupa del “delinquente” appena arrestato con metodi tutt’altro che ortodossi. Delmastro è felice di “far sapere ai cittadini come noi sappiamo trattare chi sta dietro quel vetro oscurato, come incalziamo chi sta dietro quel vetro oscurato”. La voce si alza, si fa rabbiosa: “Come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato”. Questo trattamento, sostiene, “è un’intima gioia per il sottoscritto”. Passano poche ore, l’opposizione protesta, Delmastro aggiusta il tiro: “Ci mancherebbe altro che diamo respiro alla mafia e alla criminalità organizzata”. E quindi certo, non si riferiva ad alcun tipo di tortura fisica, cosa mai andiamo a pensare. Basta però riguardare quel video, per avere pochi dubbi su cosa intendesse davvero: nel mondo di Delmastro ci sono i buoni e i cattivi come nei film western (con qualche sfumatura in meno). Ci sono i rappresentanti delle forze dell’ordine che tutto possono e gli arrestati che sono tutti - senza distinzione, senza processi, senza dubbi - meritevoli di trattamenti coercitivi e degradanti. Potremmo - con un po’ di immaginazione - credere nelle metafore e nella buona fede. Potremmo dimenticare che Delmastro è rinviato a giudizio a Roma per aver trasmesso informazioni riservate del ministero della Giustizia per farle usare in aula contro gli avversari politici. Potremmo credere in un suo più alto senso delle istituzioni e sorvolare anche sul fatto che sia andato a Taranto in un carcere che dovrebbe ospitare al massimo 500 persone, mentre ce n’erano 960, a parlare con la polizia penitenziaria vantandosi di non aver rivolto la parola a nessun altro. Di “non essersi inginocchiato alla Mecca dei detenuti”, parole sue riportate da chi c’era e da numerosi organi di informazione. Potremmo pensare che si tratti di piccole leggerezze, di innocenti parole fuori posto, se in questo Paese Taranto fosse un’eccezione e le carceri posti civili in cui non avvengono pestaggi e torture. Solo che, purtroppo, non è così. A partire dall’inizio dell’anno si sono suicidate in carcere in Italia 80 persone. Alcune di loro avevano pene brevi da scontare, brevi ma nonostante questo insopportabili. Alcuni erano giovanissimi, poco più che maggiorenni, e non ce l’hanno fatta. Nel frattempo, sono solo gli ultimi casi, a Cuneo ci sono agenti carcerari indagati per tortura. Le intercettazioni che Delmastro non usa in Parlamento riportano le loro frasi: “Ti giuro che stasera faccio un guaio, vado giù e lo scasso”. Ci sono le immagini dei pestaggi nel carcere minorile Beccaria di Milano. Quelle del 2020 a Santa Maria Capua Vetere. Ci sono stati Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, ragazzi torturati e uccisi senza colpe (anche ne avessero avute, il giudizio su quegli omicidi non potrebbe cambiare). C’è stata la scuola Diaz, c’è stata la caserma Bolzaneto. Ci sono prigioni che sono l’inferno sulla terra e nessuno, nel governo, ha fatto nulla per migliorare la situazione (neanche per quelle guardie carcerarie dalla cui parte Delmastro dice di stare). Ci sono più reati e pene più lunghe, anche per i minori, a meno che non si tratti di abuso d’ufficio (lì ci ha pensato la politica). C’è la vecchia e mai superata proposta di Fratelli d’Italia di cancellare il reato di tortura. Per tutte queste ragioni, e per quel video, quella voce, quel tono, si stenta a credere alla metafora. È un modo di pensare, un modo di fare politica. La fine del diritto, nel Paese di Cesare Beccaria. Carceri, la disobbedienza di chi non respira più di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 16 novembre 2024 “Far sapere ai cittadini chi sta dietro questo vetro oscurato, come noi non lasciamo respirare chi sta dietro questo vetro oscurato”. La presentazione di una nuova macchina blindata per trasportare detenuti sottoposti al 41-bis o all’alta sicurezza è diventata una parata. Con armi pesanti e espressioni enfatiche del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Frasi non proprio riguardose di quei principi inderogabili sul trattamento delle persone detenute che dovrebbero governare ogni paese autenticamente democratico. Sono certo che al Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ci siano le intelligenze sociali e professionali per far respirare i detenuti e assicurare loro un trasporto sicuro e non lesivo della loro integrità psico-fisica. E ci siano le intelligenze per investire non nell’uso di mitra, fucili o taser (come vorrebbe il ministro Salvini) bensì nel dialogo, nell’ascolto, nel proporre una pena conforme ai principi costituzionali. Quel Dap rispetto al quale il sottosegretario, in altro passaggio criptico, ha evocato non meglio chiarite ombre del passato. E al Dap spetta oggi gestire una situazione drammatica nelle carceri italiane con 62 mila detenuti, 15 mila persone in più rispetto alla capienza regolamentare, 80 suicidi dall’inizio dell’anno di cui l’ultimo ieri nel carcere Marassi di Genova, condizioni di vita interne molto pesanti determinate anche da una ingiustificata chiusura del sistema. Il modello premio-punizione, tipicamente correzionalista, non funziona più. I detenuti stanno così male che non sono più convincibili sulla base della promessa di qualche settimana di pena in meno grazie alla liberazione anticipata. E la situazione esploderà se e quando sarà approvato il nuovo disegno di legge sulla sicurezza che seppellirà i detenuti che protestano, finanche pacificamente, sotto una montagna di anni di galera. Dove sono i garantisti? Dove sono i liberali? Dove sono gli opinionisti della élite benpensante? Battano il colpo per rinviare al mittente quelle norme illiberali che proibiscono e puniscono le manifestazioni non-violente del dissenso. Nel governo fino ad oggi non c’è stato nessuno, ma proprio nessuno, tra quelli che si definiscono garantisti e liberali, che hanno manifestato indignazione contro una norma che punisce fino ad otto anni di galera tutti quei detenuti che resistono passivamente a un ordine che nel testo legislativo non si è neanche avuto il pudore di qualificare come legittimo. Ministro Nordio, ma lei è d’accordo? Vice-ministro Sisto, lei ritiene sia giusto punire la resistenza passiva? Se fosse stato in vita Pannella forse avrebbe iniziato uno sciopero della fame. Quello sciopero della fame contro la disumanità e le leggi ingiuste evocato da don Luigi Ciotti nei giorni scorsi. Nel disegno di legge sulla sicurezza si attaccano frontalmente la disobbedienza e i disobbedienti, ridotti a criminali comuni. Quella disobbedienza sulla quale si fonda la nostra Costituzione. Se non ci fosse qualcuno che disobbedisce alla legge non ci sarebbe quasi modo per la Corte di cancellare le leggi ingiuste. Dunque, prendiamo sul serio don Luigi Ciotti e la sua proposta di mostrare alla società italiana il volto della disumanità. Non si può restare in silenzio. Chiediamo per questo alla nuova Autorità garante delle persone private della libertà di esprimersi con forza contro chi non vuole far respirare i detenuti e contro chi li vuole seppellire, senza colpe, in galera se solo si permettono di disobbedire. Chiediamo alle organizzazioni sindacali di polizia di non assecondare politiche che trasformeranno il carcere in luoghi di battaglia rendendo durissima la vita agli agenti. E chiediamo a chi lavora al Dap, ai direttori, ai funzionari e agli agenti, come molti di loro già garantiscono quotidianamente, di continuare a far respirare i detenuti, in tutti i sensi. Del Mastro e “l’intima gioia” per la sofferenza altrui di Maurizio Crippa Il Foglio, 16 novembre 2024 In occasione della presentazione della nuova autovettura blindata per il trasporto dei detenuti in regime di 41-bis, il sottosegretario alla Giustizia si è lasciato andare a commenti poco gradevoli. Dopo aver assistito alla presentazione della SsangYong Rexton Dream e-XDi220 (e il sovranismo?), la “nuova autovettura blindata con cellula detentiva, unica nel suo genere” che il Dap ha fatto costruire per il trasporto di detenuti in regime di 41-bis (miriadi?), con dotazioni tipo: “tre telecamere nell’abitacolo, chiusura della cellula detentiva automatizzata e temporizzata, blocca manette, blocca porte e blocca arma gestibili da consolle” (bazooka niente?) il sottosegretario alle galere Delmastro Delle Vedove ha confessato: “Sarò forse anche infantile, un po’ fanciullesco, ma l’idea di vedere sfilare questo potente mezzo, l’idea di far sapere ai cittadini chi sta dietro a quel vetro oscurato, come noi incalziamo chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è sicuramente per il sottoscritto un’intima gioia, e credo che in una visione molto semplificata dell’esistenza sia una gioia per tutti i ragazzi che si affacciano alla vita e vogliono scegliere di servire lo Stato nella Polizia Penitenziaria come prima scelta”. Io, in una visione molto semplificata, confesso che mi manca un commento di Ruotolo su X. Delmastro, nuovo caso per la frase choc sui detenuti: “Sui nostri mezzi non li facciamo respirare” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 16 novembre 2024 “Sarò forse anche infantile, un po’ fanciullesco”, a suo modo il dubbio lo sfiora. Poi però il sottosegretario alla Giustizia con delega al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Andrea Delmastro Delle Vedove, mercoledì alla pomposa cerimonia di consegna di una specie di auto robocop per il trasporto dei detenuti in regime di 41-bis e di Alta sicurezza, la “SsangYong Rexton Dream e-XDi220, nuova autovettura blindata con cellula detentiva, unica nel suo genere”, supera la remora e si lancia di fronte al picchetto d’onore degli agenti del Gruppo operativo mobile armati di mitra: “L’idea di vedere sfilare questo potente mezzo che dà prestigio, con il Gruppo operativo mobile sopra, l’idea di far sapere ai cittadini chi (scandisce, ndr) sta dietro a quel vetro oscurato, come noi incalziamo (scandisce, ndr) chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi non lasciamo respirare (scandisce, ndr) chi sta dietro quel vetro oscurato, è sicuramente per il sottoscritto una intima gioia. E credo che in una visione molto semplificata dell’esistenza sia una gioia per tutti i ragazzi che si affacciano alla vita e vogliono scegliere di servire lo Stato nella Polizia penitenziaria come prima scelta”. Frasi, toni e ambientazione che, quando ieri mattina Corriere.it pubblica la notizia e il video, spingono le opposizioni a chiedere le dimissioni del sottosegretario Delmastro: “Il giorno in cui si vergognerà - lo attacca il leader di Italia viva, Matteo Renzi - sarà comunque troppo tardi. Ma intanto si dimetta. Subito. Sono parole vergognose, orribili, indegne di un uomo che dovrebbe rispettare la Costituzione e lo Stato di diritto”. “Ora Meloni ci dica se Delmastro è compatibile con il suo governo”, rincara la deputata del Pd Michela Di Biase, mentre il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Angelo Bonelli, censura “frasi raccapriccianti cosi prive di umanità”, e il segretario di +Europa, Riccardo Magi, addita “tutta l’inadeguatezza di Delmastro” in un universo carcerario che vede 62.862 detenuti in 51.181 posti teorici (circa 48.000 davvero disponibili) e già 80 suicidi. Ma Delmastro è difeso dal responsabile organizzazione di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, per il quale “la sinistra solleva polemiche surreali per indebolire la difesa del 41-bis da parte del governo Meloni: siamo orgogliosi di non aver lasciato fiato ai mafiosi”. Entusiasmato dall’ascoltare una dirigente declinare le virtù tecnologiche del primo di 36 nuovi veicoli (“tre telecamere in abitacolo, chiusura cellula detentiva automatizzata e temporizzata, blocca manette, blocca porte e blocca arma gestibili da consolle, geolocalizzazione, videoregistrazione, allarme perimetrale”), Delmastro nella cerimonia si era detto “orgoglioso di vedere sfilare mezzi che fanno acquisire il prestigio dovuto alla Polizia penitenziaria. Non abbiamo nulla da invidiare alle altre forze di polizia: il procuratore Nicola Gratteri, che è l’alfa e l’omega della mia visione della politica criminale in Italia, molto spesso mi ha detto che per il tramite della Polizia penitenziaria anticipa le mosse della criminalità organizzata di settimane, se non di mesi, per la straordinaria capacità di decriptare il linguaggio del detenuto (…) e di alimentare, nella catena interna al Gom e al Nic, o a volte alle Procure distrettuali, elementi essenziali per il contrasto alla criminalità organizzata”. Il 14 agosto Delmastro nelle carceri di Brindisi e Taranto incontrò solo gli agenti - “Non mi inchino alla Mecca dei detenuti” - respingendo poi le polemiche con l’argomento che “nella mia delega non c’è il detenuto, ma la Polizia penitenziaria”. Io, carcerato, vi dico: non si cambia se non ci si libera dalla violenza di Cesare Battisti L’Unità, 16 novembre 2024 Dopo una serie di incontri con Mauro Cavicchioli, responsabile delle Cec (Comunità educanti con i carcerati) in seno all’Associazione Giovanni XXIII, voglio manifestare la mia intenzione di rendermi utile e con questa Associazione avviare un percorso di collaborazione e reinserimento di ex reclusi affidati alla sua Casa famiglia. Mauro mi ha indotto a rivedere alcuni miei punti di vista riduttivi sul carcere. Mi riferisco, un esempio, alla tendenza a ricercare per ogni dissesto, anche personale, responsabilità distanti, cause universali, ripieghi che finiscono quasi sempre per servire l’immobilismo. Questo approccio mi faceva sentire impotente di fronte all’attualità del dramma in cui versa la popolazione detenuta. Certe mie opinioni obsolete, atteggiamenti discutibili sono decaduti di fronte al convincimento che sia non solo possibile ma anche necessario riconoscere ora che “Soccorrere chi ha sbagliato è liberante per tanti ed è la via per costruire una società alternativa, nuova, giusta”. Verrebbe da chiedersi: perché io? Quale contributo potrebbe dare un condannato all’ergastolo come me per il conforto di tante persone sofferenti? Quale il mio ruolo insieme a coloro che si impegnano ogni giorno a rimettere sulla giusta via tanti fuorviati? Ai naturali benefici che potrei trarne, incluso il mio reinserimento nella società, si affianca un vissuto fatto sì di errori ma anche di successive correzioni che mi ha consentito di mettere insieme un bagaglio di esperienze che adesso, se potessi, vorrei mettere a disposizione di altre persone che stanno vivendo le mie stesse difficoltà. Parlando non a caso di esperienze personali e delle successive correzioni di rotta, non posso evitare di ricordare a coloro che mi stanno leggendo che il mio trascorso impegno politico, purtroppo anche criminale, è sempre stato centrato sulla questione carceraria, con particolare interesse all’alternativa al carcere, a un diverso recupero dei devianti spesso provenienti dalle fasce sociali le meno garantite. Ho detto anche “criminale” e con questo sto parlando di me stesso, poiché criminali erano i mezzi impiegati all’epoca e perciò anche le persone che li usavano, nell’insensata illusione di poter attingere quello che poteva essere un nobile obiettivo attraverso l’uso della violenza. Inutile tornare sulle circostanze per cui mi sottrassi all’epoca alla giustizia italiana, ciò che qui importa è che, nel limite delle mie possibilità, durante tutto questo tempo, mi sono impegnato in opere di volontariato e quando possibile nel contesto carcerario e nella sua estensione sul territorio. Ogni volta che me ne è stata data la possibilità, ho collaborato con associazioni civili o religiose impegnate in questo senso. Se mi permetto di ricordarlo, è solo per ribadire la mia attenzione al dramma delle persone private della libertà e per la difesa e lo sviluppo di un’educazione adeguata e alla portata di tutti. Socrate era convinto che se l’essere umano conoscesse sé stesso, saprebbe distinguere tra giusto e ingiusto. Pensava alla conoscenza di sé come conoscenza del mondo e viceversa. È l’ignoranza che ci allontana dalla giustizia e ci fa diventare violenti. Ben oltre un passato da attivista, la mia sensibilità nei confronti della popolazione detenuta, e di quella probabilmente soggetta a divenirlo, è data innanzitutto dalla mia esperienza di detenuto. In carcere, solo standoci giorni, notti, mesi e anni, si può capire fino in fondo la forza interiore ma anche la disperazione, il bisogno immane dei detenuti di una semplice parola di conforto, di una mano che si tenda a guidarci verso la speranza. Nessuno si salva da solo. Dal Colle una lezione di diritto costituzionale di Marcello Sorgi La Stampa, 16 novembre 2024 Che Paese siamo, in che Paese viviamo, se perfino il Presidente della Repubblica ammette pubblicamente di aver promulgato leggi che non gli piacevano? E perché non le ha elencate, queste leggi, anche se le prime tre, le prime cinque, di una lista destinata ad allungarsi, è piuttosto facile indovinarle? A qualcuno dei ragazzi che ascoltavano Mattarella, ieri, magari saranno passate per la testa domande come queste. Avranno pensato che quello del Capo dello Stato era uno sfogo, una confessione, voce dal sen fuggita. E invece no: si è trattato di una rara e autorevolissima, per il pulpito da cui proveniva, lezione di diritto costituzionale vivente, tenuta non solo da un professore della materia, ma da un uomo a cui è toccato in sorte applicare la Costituzione nel momento in cui tutti i poteri dello Stato, che dovrebbero cercare di cooperare, sono in lotta tra loro. E cosa potrebbe accadere se anche il Presidente della Repubblica, la più alta carica del sistema istituzionale, decidesse di fare di testa sua, rifiutandosi di firmare norme approvate dal Parlamento che non gli piacciono? Mattarella pensa che non debba accadere, ed è per questo che ha rivelato di aver promulgato leggi che non condivideva. Era un suo dovere, al quale non ha voluto sottrarsi. E poi c’è sempre la speranza che possa servire da esempio. Ma l’accenno alla coesione - che non c’è - e alla confusione che si ricava da questa sorta di guerra di tutti contro tutti (Mattarella non ha usato queste parole, ma il senso non cambia) non è stato posto a caso nell’intervento del Presidente. Niente è a caso nelle uscite pubbliche del Capo dello Stato, tal che rivedendole, riascoltandole, si può individuare il filo di un ragionamento che non cambia. Se le istituzioni collaborano, anche la qualità del discorso pubblico migliora. Vale in generale, e vale nel particolare di queste ultime settimane. Giorni in cui, dopo un periodo di gelo evidente, il Quirinale e Palazzo Chigi si sono trovati a condividere la ricerca di una soluzione per almeno due importanti problemi. Primo, lo scontro sul destino dei migranti trasferiti in Albania, nei nuovi centri di permanenza voluti dal governo, e poi subito fatti rientrare su ordine di magistrati del Tribunale di Roma. Un braccio di ferro tra esecutivo e toghe, con il vicepremier Salvini che ha soffiato sul fuoco e la premier rimasta, al contrario, quasi in silenzio. E secondo, il difficile passaggio del ministro Fitto, attraverso la procedura europea che richiede la fiducia dell’Europarlamento per validare la sua nomina a vicepresidente della Commissione e a commissario per l’attuazione del Pnrr e per la Coesione. In entrambi i casi - più silenziosamente nel primo, più esplicitamente nel secondo - Mattarella s’è mosso, con la cautela che gli è congeniale, ma anche con la fermezza del carattere. Il monito che ha rivolto all’Europa in difesa di Fitto come rappresentante dell’Italia, era chiaramente mirato anche all’opposizione, e in particolare al Pd, che con le sue resistenze rischia di far saltare l’intera Commissione. E il silenzio osservato sul duro confronto tra esecutivo e magistrati era un chiaro richiamo al governo, dopo l’incidente della visita a Palazzo Chigi. del vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli. In entrambi i casi Meloni ha lasciato trapelare attenzione e rispetto verso il Quirinale. E con queste premesse, forse, si può capire meglio il senso dell’intervento del Presidente sui doveri del Capo dello Stato, e non solo, anche su quelli del premier e dei vertici della magistratura. Forse è ancora presto per dire che Mattarella e Meloni stanno passando dal gelo all’idillio. Ma qualcosa è accaduto, e sarà bene tenerne conto. Ma nessuno ricorda (neanche l’Anm) l’assalto alle toghe quando osarono “scarcerare” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 novembre 2024 Non è la prima volta che un Governo critica talune decisioni dei giudici, né la prima volta che risponde con nuovi decreti per tentare di arginare i contrasti giurisprudenziali e vanificare le ordinanze. Non si tratta quindi di un unicum, ma di una costante, che si manifesta quasi sempre quando sono in gioco i diritti fondamentali. Parlare di assalto della destra alla magistratura, o addirittura di trama eversiva, rischia di essere meramente strumentale e di non considerare che nel passato è successo di peggio, come nel caso delle cosiddette “scarcerazioni” ai tempi dell’emergenza Covid e della decisione della Consulta sull’illegittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo. In quei casi, non solo intervenne l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede con decreti che fecero rientrare quasi tutti i detenuti (vanificando così le ordinanze dei magistrati di sorveglianza), ma addirittura - nel caso della Consulta - si evocò la “trattativa Stato-Mafia”. Accuse gravi e infamanti. Contrasti del genere sono sempre di natura squisitamente politica. Anche le decisioni dei magistrati, in fondo, riflettono spesso sensibilità politiche diverse: c’è chi ha una visione giuridica più liberale (quella che rispecchia la linea editoriale di questo giornale) e chi è più conservatore. Basti pensare alla visione del carcere: ci sono giudici che hanno una visione retributiva, e altri orientati verso quella rieducativa. Gli avvocati lo sanno bene, quando si scontrano con decisioni di magistrati di sorveglianza che non tengono conto degli orientamenti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In passato, solo poche flebili voci si scandalizzarono quando un intero governo aveva fatto “fuoco e fiamme” contro la Corte Costituzionale sulla sacrosanta decisione dell’abolizione dell’ergastolo ostativo. Alcuni magistrati e la commissione antimafia guidata da Nicola Morra, quando ci furono le “scarcerazioni” (in realtà, trasferimenti in detenzione domiciliare) per rischio Covid a causa della salute precaria dei detenuti, arrivarono persino a paventare la “trattativa Stato-Mafia”. Di fronte a queste gravissime insinuazioni, l’Associazione nazionale dei magistrati non intervenne e il Csm rimase muto. Nessuna indignazione si levò, né a destra né a sinistra, nonostante fosse stato messo in atto un gravissimo attacco, politico e mediatico, nei confronti dei magistrati di sorveglianza. Vale la pena ricordare che nel 2019 la Consulta, grazie al ricorso dei magistrati di sorveglianza, ha sancito l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. Una decisione storica che ha riaffermato lo Stato di Diritto. Non solo fu impropriamente tirato in ballo Giovanni Falcone, che mai aveva teorizzato la preclusione assoluta dei benefici, ma l’allora ministro della Giustizia Bonafede, esponente del Movimento 5 Stelle, si disse indignato e chiese a tutta la politica di far fronte comune contro quella decisione. Come non ricordare quando, nel 2021, in commissione giustizia, l’allora procuratore Roberto Scarpinato (oggi senatore M5S), oltre a riferire di un presunto summit - Il Dubbio verificò che ciò non accadde e quindi il magistrato probabilmente fece confusione - in cui Bernardo Provenzano avrebbe rassicurato tutti sulla pazienza necessaria in attesa dello smantellamento della normativa sull’ergastolo ostativo, affermò - come riportò Luciano Capone de Il Foglio - che le decisioni della Corte Europea e della Corte costituzionale non erano “culturalmente ed eticamente condivisibili”. Scarpinato le definì un caso di “decisionismo politico” frutto di una “omologazione al pensiero unico neoliberista oggi dominante”. A volte l’assalto alla magistratura non avviene solo dalla politica, ma anche dall’interno. Peccato che anche in quell’occasione il Csm non sia intervenuto per tutelare i giudici. Nel 2020 è accaduto dell’altro ancora. A seguito dell’indignazione, mediaticamente amplificata, per la presunta “scarcerazione di boss mafiosi” (che in realtà boss non erano: su 700 casi, solo due), il ministro Bonafede si affrettò a varare un decreto che prevedeva - tra le altre cose - un meccanismo automatico di rivalutazione del beneficio penitenziario concesso per soggetti condannati per alcuni gravi reati. Un provvedimento che, di fatto, violava il principio della separazione dei poteri, nella misura in cui l’intervento legislativo costituiva un’illegittima invasione delle prerogative di apprezzamento in concreto del caso sottoposto al vaglio giurisdizionale, istituzionalmente riservate al potere giudiziario. Eppure nessuno gridò all’eversione o all’assalto della Costituzione. Il decreto vanificò diverse ordinanze, costringendo diversi detenuti a rientrare in carcere. Alcuni di loro morirono, ma questo sembrò importare poco. Carriere separate, la “formula” di Nordio per vincere il referendum di Errico Novi Il Dubbio, 16 novembre 2024 Dopo la batosta sull’autonomia e la frenata sul premierato, il ddl sui magistrati resta l’unica riforma costituzionale alla portata del centrodestra. E il guardasigilli è convinto che per far passare il quesito confermativo, basterà chiedere ai cittadini: “Siete contenti di com’è oggi la magistratura?”. C’è un aspetto sul quale si rischia di non riflettere con sufficiente attenzione, nella frenesia del day after, cioè a poche ore dalla sentenza costituzionale sull’autonomia: la separazione delle carriere resta la sola vera grande riforma alla portata del centrodestra. La legge Calderoli è stata in gran parte smontata, checché ne dica il diretto interessato. Il premierato è ormai un obiettivo che va in dissolvenza: non si capisce se e quando il governo e il Parlamento ritroveranno davvero convinzione su quel dossier. Restano le carriere. Le carriere dei magistrati. Il ddl costituzionale di Nordio è l’unica “bandiera” che non sembra compromessa da bocciature o pregiudizi di qualche tipo. E che non a caso, da alcuni mesi a questa parte, almeno dall’estate scorsa, è indicata come la priorità non solo da Forza Italia ma anche da FdI e Lega. Ed è anche in virtù dello scenario generale - stravolto soprattutto dalla pronuncia della Consulta sull’autonomia differenziata, pronuncia di cui forse la maggioranza fatica a comprendere la reale portata - che il ministro della Giustizia Carlo Nordio, autore della riforma costituzionale sulle “carriere”, alza sempre più l’asticella della sfida. Nel senso che accorcia continuamente la tabella di marcia verso l’approvazione definitiva. Adesso, per il guardasigilli e, quindi, per la premier Giorgia Meloni, il traguardo è addirittura settembre, al massimo ottobre 2025. Anzi: la conclusione della doppia navetta fra Camera e Senato del ddl costituzionale di Nordio dovrà chiudersi ancora prima: a luglio del prossimo anno. Il titolare di via Arenula aveva fatto capire di puntare su un timing serratissimo già nel doppio vertice con lo stato maggiore del centrodestra sulla giustizia convocato lo scorso 29 ottobre: aveva chiesto di rinunciare agli emendamenti di partito. E così è stato: la Lega ha messo da parte la modifica con cui pretendeva di revocare il vincolo, per l’Italia, al rispetto dei trattati internazionali, in modo che non prevalessero più sulla legislazione interna. Un’idea con cui Matteo Salvini, e il suo capogruppo in commissione Affari costituzionali Igor Iezzi, confidavano di potersi sbarazzare delle pronunce giudiziarie sfavorevoli sui migranti. Nulla di fatto: la proposta è stata derubricata da emendamento a proposta di istituire, al Senato, una mini-indagine conoscitiva. Analoga rinuncia ha compiuto Forza Italia: addio modifica dell’articolo 3 del ddl Nordio nella parte in cui anche la nomina dei consiglieri superiori laici deve avvenire mediante sorteggio. Certo, l’obiezione “filosofica” alla base della proposta azzurra aveva una sua solidità: è complicato immaginare che i vicepresidenti dei due futuri Csm (uno per i giudici l’altro per i pm) debbano essere estratti a sorte, seppur da una platea di avvocati e accademici preliminarmente eletta. Ed è vero, come aveva rammentato il capogruppo di FI in Prima commissione alla Camera Paolo Emilio Russo, che i due vertici dei futuri Consigli superiori saranno pur sempre, come già oggi, i vice del Capo dello Stato, che resterà presidente di entrambi gli organi. Tutto vero. Ma Nordio, il 29 ottobre, è stato chiaro: “Evitiamo modifiche che possano rallentare il percorso”. Anche perché, di rallentamenti, com’era prevedibile, già ce ne sono, in questa prima lettura, per via dell’incrocio con la sessione di Bilancio. Tanto è vero che la riforma andrà sì in discussione generale il 29 novembre, ma poi rischia di essere approvata dall’Aula solo ai primi di gennaio. Ciononostante, nelle ultime ore, il guardasigilli è stato chiarissimo, con chi ha avuto modo di parlargli in forma riservata: l’attesa prolungata per l’ok a Montecitorio non cambia la tabella di marcia. Il primo sì sulla riforma in Senato resta programmato per marzo. Poi bisognerà attendere i tre mesi previsti dall’articolo 138 della Costituzione. E già a giugno ecco che la separazione delle carriere riapparirà alla Camera per il primo giro della seconda navetta. Poche settimane e ripasserà a Palazzo Madama. Entro fine luglio, o comunque prima della pausa estiva, la modifica costituzionale avrà compiuto il suo percorso parlamentare. Non è finita qui. Perché negli scambi intercorsi in queste ore nel governo e nella maggioranza, Nordio ha rassicurato anche sulla tenuta dell’altro pilastro: il referendum confermativo. “Non dobbiamo temerlo, anzi. Diciamola tutta: dopo trent’anni di conflitto fra politica e magistratura, solo se ci sarà il sigillo del voto popolare si potrà dire di aver ripristinato, con la riforma, il corretto equilibrio tra i poteri”. Un ragionamento coraggioso, condivisibile, ma che comporta dei rischi: è un “all in”. Inevitabile, d’altra parte. Il referendum non può essere aggirato: raggiungere la maggioranza dei due terzi nella seconda votazione è pressoché utopistico. Ed è chiaro che chi si oppone alla separazione delle carriere, la magistratura innanzitutto, solleciterà i soggetti titolati, a cominciare dai parlamentari d’opposizione, affinché chiedano il referendum. Anche qui Nordio ipotizza tempi brevissimi: poche settimane dopo il voto finale in Senato (e non certo dopo i tre mesi previsti dalla Carta come tempo massimo) si andrà alla consultazione popolare. Dovranno correre tutti, evidentemente: anche gli avversari del “divorzio” fra giudici e pm. Ma per il guardasigilli non bisogna preoccuparsi. Perché, è l’altro, l’ultimo segmento della riflessione che Nordio ha condiviso all’interno dell’Esecutivo, “la vittoria al referendum sulle carriere dei magistrati sarà a portata di mano se solo la comunicazione politica verrà affidata a una semplice domanda: siete contenti, cari cittadini, di com’è oggi la magistratura? Se non lo siete, votate sì al referendum confermativo”. Semplice, è vero. E piuttosto efficace, in effetti. Ma una cosa è certa: è davvero un “all in”. Perché dopo la batosta sull’autonomia e la disillusione sul premierato, il centrodestra delle grandi riforme, sul ddl Nordio, si gioca davvero tutto. No, un albanese arrestato con 11 chili di cocaina non è stato scarcerato perché non sa l’italiano di Carlo Canepa pagellapolitica.it, 16 novembre 2024 Lo ripete Matteo Salvini, ma le cose non stanno proprio così. Il 15 novembre, ospite di Agorà su Rai3, il leader della Lega Matteo Salvini ha detto (min. 9:07) che “alcuni giudici in Italia fanno politica”. A sostegno della sua dichiarazione, il vicepresidente del Consiglio ha portato un esempio concreto: “Un giudice questa settimana non è stato in grado di tenere in carcere un cittadino straniero trovato con 11 chili di cocaina in macchina, a Brescia, per un errore formale di traduzione. Questo tizio è fuori [dal carcere, ndr]”. Il leader della Lega aveva già fatto lo stesso esempio due giorni prima, ospite a Otto e mezzo su La7, leggendo il titolo di un articolo pubblicato su Il Giornale: “Brescia: “Non capisce l’italiano”. E il giudice di Brescia libera il pusher albanese trovato con 11 chili di cocaina in macchina”. “Se un giudice non riesce a tenere in carcere un tizio con 11 chili di cocaina in macchina, è colpa di Salvini o di quel giudice che non riesce a fare il suo mestiere?”, ha aggiunto il leader della Lega. Se si legge l’articolo pubblicato su Il Giornale, citato da Salvini, si scopre che le cose sono andate un po’ diversamente rispetto a quanto dichiarato dal vicepresidente del Consiglio, e che l’arrestato in questione non è stato scarcerato. Ma procediamo con ordine. A fine ottobre un cittadino albanese è stato fermato dalla Guardia di Finanza a Torbole Casaglia, comune della provincia di Brescia in cui è residente, mentre a bordo della sua auto trasportava oltre 11 chilogrammi di cocaina. Il cittadino è stato poi portato nel carcere di Brescia. Come ha spiegato il quotidiano Libero, con un’ordinanza di custodia cautelare il giudice per le indagini preliminari (Gip) ha disposto che il cittadino rimanesse in carcere perché c’era il rischio di reiterazione del reato. Il “quantitativo di droga trovato”, secondo il Gip, era “indicativo di profondi rapporti con alte sfere del narcotraffico”. Per questo motivo il cittadino arrestato doveva rimanere in prigione. Curiosità: nel 2022 la Lega di Salvini ha promosso un referendum che chiedeva di togliere proprio la reiterazione del reato dalle motivazioni per cui si può disporre la custodia cautelare. L’avvocato del cittadino arrestato ha però fatto ricorso al Tribunale del riesame, l’organismo che può convalidare o annullare l’ordinanza di custodia cautelare disposta dal Gip. L’avvocato ha chiesto che il suo assistito fosse liberato facendo leva su due motivi: da un lato, nell’interrogatorio di garanzia (quello in cui l’arrestato espone le sue ragioni) era stato usato “come interprete un altro detenuto albanese anziché un professionista”; dall’altro lato, l’ordinanza di custodia cautelare non era stata tradotta in albanese. Il Tribunale del riesame ha accettato il ricorso dell’avvocato, ma come vedremo tra poco questo non significa che l’arrestato sia stato scarcerato. Secondo il Tribunale del riesame, infatti, “il Gip, al momento dell’udienza di convalida era a conoscenza che l’indagato non conosceva la lingua italiana e, a comprova di ciò, celebrava udienza di convalida avvalendosi di un interprete rintracciato, stante la tempistica ristretta imposta dalla necessità di provvedere alla convalida dell’arresto, fra i detenuti della casa circondariale di Brescia, previamente verificando la mancanza di ragioni di incompatibilità”. “L’ordinanza restrittiva, emessa successivamente all’udienza di convalida, non veniva tradotta in lingua albanese, di talché consegue la nullità della stessa”, ha aggiunto il Tribunale del riesame. Nel 2023 la Corte di Cassazione ha stabilito che l’ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti di un imputato straniero, “ove sia già emerso che questi non conosca la lingua italiana, è affetta, in caso di mancata traduzione, da nullità”. A differenza di quanto dichiarato in tv da Salvini, però, il cittadino albanese non è stato scarcerato, come hanno chiarito nei loro articoli sia Il Giornale sia Libero. La scarcerazione, infatti, è stata evitata perché è stata predisposta una nuova ordinanza, con la traduzione in albanese, e così il cittadino albanese è rimasto in carcere. Il suo avvocato ha comunque annunciato un nuovo ricorso, per contestare la mancanza della flagranza di reato. Rapina, per ridurre la pena non pesa il valore del bene di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2024 Sezioni unite. Determinanti le lesioni o le minacce inflitte alla vittima del reato. Nessuna attenuante per la sottrazione di una catenina d’argento. Per il riconoscimento, nel contesto della rapina, dell’attenuante del danno di particolare tenuità, non è sufficiente che il bene sottratto sia di modesto valore economico. A pesare possono essere anche le conseguenze dannose legate a lesioni alla persona o la minaccia a danno non solo del patrimonio, ma anche dell’integrità fisica e morale della parte offesa. Quanto poi al momento da prendere in considerazione per la valutazione dell’entità del danno è quello della consumazione del reato, la speciale tenuità non può essere invece conseguenza di eventi successivi. Questi i principi di diritto enunciati dalle Sezioni unite penali della Cassazione nella sentenza 42124 depositata ieri. La pronuncia è intervenuta sul caso di una rapina di modestissimo valore, a essere sottratta era stata infatti una catenina d’argento, oltre a un telefono cellulare poi restituito. La Corte d’appello aveva confermato la condanna soffermandosi comunque sul valore dei beni che avrebbe impedito il riconoscimento dell’attenuante. Le Sezioni Unite vanno oltre e allargano la riflessione, ricordando che il valore del bene oggetto del reato è solo uno degli elementi che il giudice è chiamato a valutare. Sotto la lente finiscono infatti anche “gli effetti dannosi connessi alla lesione della persona contro la quale è stata esercitata la violenza o la minaccia”. Il delitto di rapina, sottolineano le Sezioni unite, anche se inserito dal Codice penale tra quelli contro il patrimonio ha di solito una “natura plurioffensiva”, visto che il danno che ne deriva non incide soltanto sulla sfera patrimoniale, ma comprende anche gli aspetti che compromettono la libertà psichica on fisica della persona offesa aggredita per la realizzazione del profitto. La conclusione della tenuità del fatto deve essere allora l’esito di un complessivo giudizio, comprensivo anche delle modalità dell’aggressione nella sfera della vittima del reato, e solo se questo insieme di elementi è stato adeguatamente tenuto in considerazione allora può scattare l’attenuante. Quanto poi alla restituzione del cellulare, le Sezioni Unite ne chiariscono l’irrilevanza. Il momento in cui pesare l’entità del danno, infatti, cristallizzato al momento della commissione del reato. Deve essere escluso che una lesione possa diventare di speciale tenuità sulla base di eventi successivi, a mano che non sia il legislatore stesso a prevederlo, passaggio che accade per altri istituti. Era stato peraltro lo stesso Tribunale a mettere nero su bianco che le lesioni provocate alla vittima in occasione della rapina erano pluriaggravate, rendendo così di fatto impossibile procedere al riconoscimento dell’attenuante anche se il bene sottratto era di scarso valore. La sentenza delle Sezioni interviene anche sul piano processuale per declinare le motivazioni di quanto anticipato settimane fa con informazione provvisoria. In merito ai nuovi termini di 40 giorni fissati dalla riforma Cartabia per la comparizione in appello, la data cui fare riferimento per iniziare ad applicare la disposizione, in precedenza rinviata più volte, è il 1° luglio scorso. Il giudice dell’udienza predibattimentale non può celebrare il giudizio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2024 La Consulta, sentenza n. 179 depositata oggi, ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 34, co. 2, del Cpp, laddove non prevede che è incompatibile a celebrare il giudizio dibattimentale di primo grado il giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale. La Corte costituzionale (sentenza n. 179) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che è incompatibile a celebrare il giudizio dibattimentale di primo grado il giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale, introdotta recentemente nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica dall’articolo 32 del Dlgs n. 150 del 2022, sul modello dell’udienza preliminare. Il Tribunale di Siena ha sollevato la questione di costituzionalità nell’ambito di un procedimento penale nel quale lo stesso giudice, che aveva tenuto l’udienza di comparizione predibattimentale, si trovava ad essere anche investito del giudizio dibattimentale. Il predetto Tribunale ha rilevato che la censurata norma processuale (articolo 554-ter, comma 3, cod. proc. pen.) si limitava a porre la regola secondo cui il giudice del dibattimento sarebbe dovuto essere “diverso” rispetto al giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale; ma non prevedeva l’incompatibilità di cui all’articolo 34 cod. proc. pen. La Corte costituzionale ha ritenuto fondata la censura sotto il profilo della dedotta violazione degli articoli 24, secondo comma, e 111, secondo comma Cost., affermando che la mancata previsione, in tal caso, di una vera e propria incompatibilità viola i principi costituzionali di terzietà e imparzialità del giudice, quali presupposti dell’effettività della tutela giurisdizionale. La Corte ha, infatti, sottolineato che nelle ipotesi di incompatibilità previste dall’articolo 34 cod. proc. pen., l’imparzialità del giudice è compromessa ex sé, in generale e in astratto, diversamente da quanto si verifica nei casi di possibile astensione del giudice per gravi ragioni di convenienza, di cui all’articolo 36 cod. proc. pen.; disposizione questa che, invece, si riferisce a situazioni, in cui la terzietà e l’imparzialità del giudice risultano compromesse in concreto, caso per caso. La sola prescrizione della diversità del giudice del dibattimento rispetto a quello predibattimentale non è sufficiente ad assicurare la piena garanzia del giusto processo, trattandosi in una fattispecie in cui il pregiudizio all’imparzialità e terzietà del giudice del dibattimento è di gravità tale da dover essere necessariamente prevista in via generale e predeterminata come ipotesi di incompatibilità. La Corte ha, poi, ritenuto violato anche l’articolo 3 Cost., rilevando che il giudice dell’udienza preliminare e il giudice dell’udienza predibattimentale sono soggetti alla medesima regola di giudizio compendiata nel canone secondo cui “il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere” quando “gli elementi acquisiti non consentono” di formulare “una ragionevole previsione di condanna”. Invece l’articolo 34, comma 2, cod. proc. pen. detta una disciplina ingiustificatamente differenziata nella misura in cui prevede l’incompatibilità a partecipare al giudizio soltanto per “il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare” e non anche per il giudice dell’udienza predibattimentale. Dall’ampliamento dei casi di incompatibilità per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale è conseguita la necessità di assicurare il principio del giusto processo anche con riferimento al giudizio di impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, sicché la Corte, in via consequenziale, ha altresì esteso la dichiarazione di illegittimità costituzionale anche a questa ulteriore ipotesi. Genova. A Marassi l’80esimo detenuto suicida in Italia del 2024 Il Secolo XIX, 16 novembre 2024 Moussa Ben Mahmoud, 28 anni da poco compiuti, tunisino, aveva tentato l’impiccamento, ma sarebbe il caso di dire impiccagione, nel pomeriggio di martedì scorso nella sua cella della casa circondariale di Genova Marassi. Subito soccorso, era stato condotto all’ospedale San Martino in condizioni disperate. Ricoverato in rianimazione, è spirato stasera. Sale così a 80 la tragica conta dei morti di carcere e per carcere dall’inizio dell’anno, cui bisogna aggiungere i 7 appartenenti alla Polizia penitenziaria che, altresì, si sono tolti la vita in quella che è una spirale spaventosa, arrivata a livelli mai visti in precedenza. Lo dichiara Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria. “Nella stessa giornata di martedì, peraltro, un altro ristretto ha tentato il suicidio sempre in Liguria, presso il carcere della Spezia, e anche in quel caso è stato condotto in ospedale, dov’è ancora ricoverato; un episodio che fino a stasera poteva dirsi fotocopia, ma che auspichiamo possa avere un epilogo diverso”, aggiunge il segretario della Uilpa Pp. “Quanto sta accadendo nelle carceri è drammatico, sia per i detenuti sia per gli operatori, in primis quelli del Corpo di polizia penitenziaria, sottoposti a carichi di lavoro e turnazioni massacranti, privati di elementari diritti, anche di rango costituzionale, stremati nel fisico e mortificati nel morale e nell’orgoglio - continua - Queste morti, infatti, vanificano anche il loro diuturno sacrificio quale ultimo baluardo di civiltà in prigioni diffusamente fuori legge”. “Sono oltre 15mila i ristretti oltre i posti disponibili e più di 18mila le unità mancanti alla Polizia penitenziaria. Qualsiasi azienda o organizzazione complessa sarebbe già fallita da tempo. Ma è chiaro, almeno a noi, che di questo passo anche il sistema penitenziario sprofonderà sempre più. Servono misure immediate per deflazionare la densità detentiva, adeguare concretamente gli organici della Polizia penitenziaria e riorganizzare, riformandolo, l’intero apparato”, conclude De Fazio. Vibo Valentia. Detenuto suicida, rigettato il ricorso del Ministero: la famiglia sarà risarcita Corriere della Calabria, 16 novembre 2024 La vicenda risale al 27 giugno del 2008 quando Salvatore Giofrè si era tolto la vita mentre era ristretto nel carcere di Vibo Valentia. La famiglia ha citato in giudizio il Ministero della Giustizia, ottenendo un risarcimento in primo grado poco più di cinque anni dopo. Tre anni più tardi, invece, la Corte d’Appello aveva riformato la sentenza ritenendo “insussistente la responsabilità dell’Amministrazione ed affermando, al contrario, che l’evento era stato determinato unicamente dalla ferma e risoluta volontà del detenuto”. Secondo i giudici, inoltre, l’evento non era “né prevedibile né prevenibile”. E con la sentenza pubblicata il 5 agosto 2021, ha accolto la domanda risarcitoria, liquidata in favore di ciascuno degli appellati, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale per la perdita del rapporto parentale. Secondo la Cassazione - in sintesi - non può dubitarsi che, nel caso di specie, i vincoli del “giudizio chiuso” devoluto al giudice del rinvio, quali chiaramente derivanti dalle testé riassunte motivazioni della pronuncia cassatoria, siano stati correttamente interpretati e rispettati dalla Corte d’appello la quale - muovendosi necessariamente in tale ristretto ambito valutativo - ha concluso data pubblicazione 13/11/2024 quindi per la sussistenza della responsabilità del Ministero sostanzialmente ritenendo che non emergessero dal materiale istruttorio acquisito elementi, diversi da quelli già valutati con efficacia vincolante nell’ordinanza cassatoria. In buona sostanza, per la III Sezione Civile della Suprema Corte, la “Corte d’Appello investita del riesame di una questione a seguito di ordinanza o sentenza di rinvio della Cassazione, non potrà che attenersi ai principi espressi da quest’ultima e necessariamente ai relativi limiti”. Il ricorso deve essere pertanto rigettato, con la conseguente condanna dell’amministrazione ricorrente alla rifusione, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio liquidate come da dispositivo e da distrarsi in favore dei loro difensori che ne hanno fatto richiesta in memoria. Trento. Violenza fra detenuti e psicofarmaci, il dramma in carcere di Giuseppe Fin Il Dolomiti, 16 novembre 2024 Nella struttura di Spini di Gardolo, secondo quanto riportato dall’ultimo rapporto dell’Osservatorio Antigone, si utilizzano elevate quantità di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi. Nei giorni scorsi i consiglieri provinciali Paola Demagri, Andrea De Bertolini, Francesco Valduga e Paolo Zanella hanno deciso di visitare l’area sanitaria del carcere dove l’azienda sanitaria è costretta ad utilizzare i gettonisti a causa della mancanza di personale. “Così non possiamo andare avanti. Abbiamo una famiglia e alla sera vogliamo poter tornare a casa da loro. La situazione è drammatica”. Le parole sono quelle che arrivano da un poliziotto che lavora all’interno della casa circondariale di Trento a Spini di Gardolo. Ha chiesto di rimanere anonimo e le parole rilasciate a il Dolomiti arrivano dopo l’ennesima aggressione avvenuta il 4 novembre scorso quando una poliziotta è stata minacciata e aggredita fisicamente da un detenuto tanto da essere poi accompagnata in infermeria. “Qui - spiega il poliziotto a il Dolomiti - ci sono pochi agenti e spesso ci troviamo da soli a controllare varie zone. Le situazioni critiche non mancano di certo e non ci sentiamo sicuri”. L’allarme della situazione che si sta vivendo nel carcere di Trento è stata lanciato nei mesi scorsi anche da Andrea Mazzarese, segretario regionale Sinappe, che più volte ha sottolineato la carenza di personale e le difficoltà nella gestione di situazioni delicate come possono essere i detenuti psichiatrici. Come già sottolineato dalla garante dei detenuti, la professoressa Antonio Menghini, nella sua ultima relazione, a preoccupare il trend in aumento delle presenze in carcere, sia a livello nazionale che a livello locale, cui si aggiunge la riforma della media sicurezza che è ormai entrata a regime ovunque. Al 30 settembre 2024 in Italia erano 61.862 i detenuti presenti nelle nostre carceri a fronte di 51.196 posti formalmente disponibili. Nel 2024, nella casa circondariale di Spini, si sono toccate più volte punte di 380 persone presenti, con una crescita significativa in particolare delle donne presenti che sono arrivate anche a raggiungere recentemente la cifra record di 53. “Ci sono stati gravi episodi di violenza anche nelle ultime settimane fra detenuti - racconta l’agente di polizia penitenziaria - e alcuni sono difficili da gestire. Manca personale ma molti di noi chiedono anche il trasferimento perché non ce la fanno più”. C’è la terribile piaga del disagio psichico in carcere e, più nello specifico, la difficile situazione delle persone affette da grave infermità psichica sopravvenuta che si trovano tuttora a scontare la propria pena per lo più all’interno delle nostre carceri, cui fa da contraltare, in non pochi casi, la situazione di chi si trova ad attendere in carcere, detenuto sine titulo, o a piede libero, l’ingresso in Rems a causa del fenomeno delle cosiddette liste d’attesa. I detenuti alla casa circondariale di Spini, sempre secondo l’ultimo rapporto del Garante dei Detenuti, con diagnosi psichiatriche maggiori (spettro psicosi, spettro disturbi depressivi, gravi disturbi spettro ansioso e ossessivo, gravi disturbi di personalità, gravi disturbi del controllo degli impulsi e doppia diagnosi), nel primo semestre 2024, erano 83 (il 22% rispetto al numero complessivo di presenti) di cui 21 in doppia diagnosi (in condivisione con il SerD), 65 uomini e 18 donne (60% rispetto al numero di donne presenti). “A fronte del grave quadro tracciato, non sembra - ha spiegato nelle scorse settimane la Garante - che i provvedimenti normativi finora adottati siano stati in grado di incidere né sui numeri delle presenze in carcere né, più in generale, sulle condizioni di vita all’interno delle carceri”. Nonostante le domande poste all’azienda sanitaria sulla situazione psichiatrica all’interno del carcere di Trento, non sono arrivate risposte. I numeri sono impressionati. “Il principale strumento di governo della salute mentale - è stato spiegato nell’ultimo rapporto di Antigone ‘Nodo alla gola’ - diventa il ricorso massiccio agli psicofarmaci, utilizzate con finalità non solo terapeutiche-sanitarie, ma di ‘sedazione collettiva’ e ‘pacificazione’ delle sezioni”. Il 20% persone detenute in Italia (oltre 15 mila) fanno regolarmente uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi, cioè di quella tipologia di psicofarmaci che possono avere importanti effetti collaterali con picchi del 70% a Trento e del 44% a Modena. “Occorre intervenire al più presto per garantire condizioni di vita dignitose per i detenuti” a dirlo sono consiglieri provinciali Paola Demagri, Andrea De Bertolini, Francesco Valduga e Paolo Zanella in visita all’area sanitaria del carcere di Spini di Gardolo. I consiglieri, hanno parlato di “una realtà complessa, che richiede interventi urgenti”. Nell’area sanitaria, la gestione è affidata a un’unica dirigente dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari (APSS), coadiuvata da 8 medici a gettone. “Il bando per avere a disposizione medici a tempo pieno va deserto e così l’Azienda è costretta a ricorrere a gettonisti” spiegano i Consiglieri. “Attualmente manca una figura cruciale, quella del medico tossicologo, dimessosi recentemente per motivi personali. Questo vuoto è stato solo parzialmente colmato dal SerD, ma la situazione rimane critica”. Sul tema dotazione organico medico ma soprattutto metodo di reclutamento ad intervenire è stato il consigliere provinciale Francesco Valduga. “Comprendiamo le difficoltà del reperire personale medico - spiega - ma preoccupa questo basarsi sempre sui gettonisti. Se non si stabilizza una equipe e una capacità di lavoro in gruppo e se non si riesce avere una continuità di rapporto con le persone diventa difficile la cura. Sarebbe più giusto riuscire ad incardinare il carcere all’interno del disegno organizzativo complessivo dell’azienda sanitaria con una propria struttura affinché possa avere un proprio responsabile e una determinata squadra medica”. Anche il personale infermieristico si trova in difficoltà: su una dotazione prevista di 12 infermieri, 6 hanno chiesto di essere trasferiti. Le ragioni di questo malessere sono molteplici: un’organizzazione percepita come distante e poco attenta al benessere del personale, contratti poco incentivanti e l’ambiente lavorativo particolarmente impegnativo. A questo si aggiungono le difficoltà specifiche del contesto carcerario, dove il personale sanitario è spesso esposto a episodi di aggressione verbale e sessista (la maggior parte delle infermiere sono donne) che aumentano lo stress lavorativo. Il personale sanitario ha avanzato richieste chiare: maggiori attenzioni al benessere lavorativo, indennità adeguate alla complessità del contesto e più giornate di riposo per affrontare lo stress. “Anche l’ambiente carcerario - ha spiegato la consigliera Paola Demagri - esprime il disagio e l’incapacità di una Apss che nemmeno nei contesti più complessi sa trovare soluzioni che migliorino il comfort delle persone che vi lavorano. 4 infermieri nel 2024 sono andati via e solo 2 sono stati sostituiti. Ad oggi nessuna autocandidatura, altri due infermieri che intendono volgere lo sguardo al di fuori dell’Azienda. Una triste storia che racconta una narrazione di molti contesti lavorativi soprattutto quelli più stressanti”. Tuttavia, il problema non si limita alle condizioni lavorative: il fabbisogno del personale viene calcolato su parametri ormai superati. Il carcere ospita oggi 100 detenuti in più rispetto alla capienza prevista, ma l’organico non è stato adeguato a questa crescita. “Inoltre - hanno spiegato in consiglieri - la tipologia dei detenuti è sempre più complessa, con detenuti ricollocati anche dal Friuli e dal Veneto, spesso con problematica sanitarie e difficoltà gestionali”. Un aspetto positivo riguarda l’area educativa, dove la situazione sembra essere migliorata. Attualmente l’organico degli educatori è quasi al completo, con 7 professionisti su 8 previsti. “Si auspica che con più funzionari giuridici pedagogici si possa anche facilitare il percorso verso le misure alternative che sono fondamentali” ha spiegato il consigliere Paolo Zanella. Bolzano. Cpr criticato, Rabini: “È inutile”. Centrodestra favorevole di Francesco Mariucci Corriere dell’Alto Adige, 16 novembre 2024 Si scalda il dibattito sul Cpr a Bolzano, dopo che il ministro Piantedosi ha annunciato il via ai lavori nel 2025. Per l’assessora Rabini (Verdi) è “inutile”. Spinge la Lega. La visita del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, con annessa conferma della volontà di realizzare un Cpr a Bolzano con il via ai lavori previsto nel 2025, lascia strascichi pesanti nella politica locale. Ad aprire le danze, poche ore dopo la partenza di Piantedosi, è l’assessora comunale Chiara Rabini (Verdi): “Bolzano non ha bisogno di un costoso e inefficace Cpr come annunciato oggi (giovedì) dal ministro Piantedosi. La nostra città ha bisogno urgente di un nuovo carcere e, per maggiore sicurezza per tutti, di un sistema provinciale e statale funzionante che gestisca i richiedenti protezione internazionale e senzatetto insieme alla città”. L’affondo di Rabini contro i Cpr è netto: “Questi centri rappresentano a tutti i livelli il fallimento delle politiche di gestione dei flussi migratori. I Cpr sono costantemente documentati per le gravi e disumane condizioni di vita delle persone rinchiuse, i loro elevati costi, la loro inutilità. Solo il 10% viene rimpatriato, le altre persone rilasciate”. Nell’attesa di capire gli sviluppi della vicenda, l’assessora fa capire che la giunta comunale di cui fa parte potrebbe prendere ufficialmente posizione in merito. A fare da contraltare a Rabini arriva la Lega: “Accogliamo con grande favore l’annuncio dell’inizio lavori per il Cpr nel 2025. Da tempo siamo favorevoli a questo centro. Finalmente avremo una soluzione per le persone che continuamente creano problemi alla collettività e che hanno un decreto di espulsione a loro carico” è il parere del segretario provinciale Paolo Zenorini. A lui fa eco il capogruppo bolzanino Roberto Selle: “Siamo contenti di questa decisione, in modo che le forze dell’ordine possano avere dove portare i soggetti problematici che affliggono la città di Bolzano da troppo tempo”. A dare man forte a questa linea è l’assessore provinciale Christian Bianchi: “Sono soddisfatto, questa è la strada giusta. Era un impegno che sostenevamo già durante la campagna elettorale. Come ha ricordato il ministro Piantedosi, ci sono persone che vanno tolte da in mezzo alla strada. Tutti si lamentano della sicurezza della città, ma poi quando si decide di fare fatti concreti partono le levate di scudi. È un ragionamento non più accettabile”. Nel frattempo, l’associazione Bozen solidale annuncia un presidio di protesta: “Continuiamo a ribadire un no chiaro e forte alla costruzione di un Cpr a Bolzano, a Trento o altrove”. La manifestazione è in programma mercoledì 20 novembre alle 17:30 a Trento sotto la sede del Comune in via Belenzani. Napoli. Carcere di Poggioreale: la mamma di Giogiò, Daniela Di Maggio, parlerà ai detenuti di Francesco Gravetti Il Mattino, 16 novembre 2024 Genitori che perdono figli per mano di giovani criminali. Figli che arrivano a delinquere, perché pagano le colpe di padri camorristi. Due facce della stessa medaglia che gettano luce su un fenomeno sempre più in aumento, quello della violenza giovanile che continua a mietere vittime. È il caso di Francesco Pio Maimone, Giovanbattista Cutolo, Emanuele Tufano e, ultimo in ordine di tempo, Santo Romano. Giovani, anzi giovanissimi, le cui vite sono state spezzate dalla cieca violenza di loro coetanei o, peggio, di minorenni che hanno seguito esempi sbagliati. Di questo si parlerà nel corso della proiezione del film “Nati pre-giudicati” di Stefano Cerbone lunedì 18 novembre - alle ore 11 - presso la casa circondariale “Giuseppe Salvia” di Poggioreale. Interverranno i deputati Gaetano Amato (che è anche nel cast) e Francesco Emilio Borrelli e Daniela Di Maggio, madre di Giovanbattista Cutolo, il musicista di 24 anni ucciso da un 17enne il 3 agosto 2023 in piazza Municipio. Per la prima volta la Di Maggio incontrerà i detenuti per discutere con loro della violenza giovanile, degli strumenti preventivi da adottare e della legislazione in materia. “Quando Stefano mi ha invitato, all’inizio ero tubante perché il carcere è un luogo di dolore e probabilmente proprio lì non solo andrà il killer di mio figlio quando avrà compiuto 21 anni, ma potrebbero esserci anche i due maggiorenni che hanno contribuito a far morire Giogiò. Poi mi sono chiesta: Giogiò che avrebbe fatto al posto mio? Lui avrebbe parlato al cuore di queste persone facendo capire loro che la società ha perso un ragazzo come lui, medaglia d’oro al valor civile, perché uno come loro, che vive dietro le sbarre, ha deciso di ucciderlo. Vorrei trasmettere il messaggio che - quando si uccide una persona del genere - si è uccisa un’intera società. Se parlerò al loro cuore e ne avrò salvati anche solo tre o quattro, forse avrò vinto”. “Il nostro obiettivo è sensibilizzare la società civile e le istituzioni, affinché si possa prevenire il malessere che veicola questi ragazzi verso il primo reato - spiega il regista Cerbone - attraverso il messaggio del film vogliamo far comprendere la sofferenza e il disagio di cui soffrono tanti giovani di Napoli - dal centro alle periferie - che, senza rendersene conto, distruggono le loro vite e quelle dei loro coetanei”. Lungo questa scia Cerbone ha in cantiere un nuovo progetto: ““Le origini del male”, che vedrà impegnati i giovani detenuti che - con l’ausilio di psicologi, criminologi, docenti, scrittori e magistrati - proveranno a dare risposte ai tanti problemi dell’età adolescenziale che li spingono nel baratro”. Padova. Mediazione culturale in carcere? Si fa con la lettura di Rossana Certini vita.it, 16 novembre 2024 Sono cinquanta i libri, in lingua araba, donati dall’associazione “Un ponte per” alla Casa circondariale patavina per avviare un progetto culturale che attraverso la lettura punta all’inclusione e allo scambio culturale tra i detenuti. La convinzione è che una riflessione condivisa sui principali temi del nostro tempo può aiutare ogni individuo a scegliere di cambiare il corso della propria vita. Superare il concetto di inclusione per giungere a quello di dialogo tra culture. Passare, dunque, dall’appartenenza a una cultura al confronto che arricchisce. Questa l’idea alla base del progetto: “Kutub Hurra/Un ponte per” avviato a novembre nella Casa circondariale di Padova grazie alla collaborazione tra le cooperative AltraCittà e Orizzonti, l’associazione Granello di senape, l’area educativa della Casa circondariale e il Garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà del comune di Padova. “Un ponte per è un progetto rivolto ai detenuti arabofoni che ogni quindici giorni, con l’aiuto di mediatori e mediatrici linguistico-culturali della cooperativa Orizzonti, leggeranno libri scritti in arabo e in italiano per poi avere un momento di riflessione comune”. Spiega Sandro Botticelli della cooperativa AltraCittà che da molti anni si occupa delle biblioteche e dei gruppi di lettura nell’istituto penitenziario di Padova. Il nome del progetto è mutuato da quello dell’associazione Un ponte per che si occupa di solidarietà internazionale. L’organizzazione non governativa è nata nel 1991, subito dopo la fine dei bombardamenti sull’Iraq con lo scopo di promuovere iniziative di solidarietà per la popolazione irachena colpita dalla guerra. Successivamente l’impegno dell’associazione si è rivolto, anche, ad altri paesi del Medio Oriente e dell’area mediterranea, come Serbia e Kosovo, con l’obiettivo di prevenire i conflitti armati e violenti attraverso campagne di informazione, scambi culturali, progetti di cooperazione, programmi di peacebuilding e costruzione di reti per la giustizia sociale. “I cinquanta libri che abbiamo donato alla Casa circondariale di Padova”, spiega Bianca Farsetti dell’associazione Un ponte per, “sono stati selezionati e donati dall’associazione tunisina Lina Ben Mhenni intitolata alla celebre blogger, attivista per i diritti umani e professoressa universitaria, morta a soli 36 anni a causa di una malattia cronica. Lina è un simbolo della rivoluzione del 2011. Lei partiva sola con una telecamera e pubblicava sui social i primi video delle manifestazioni che hanno portato alla caduta dell’ex presidente tunisino. Si è occupata, anche, di diffondere la cultura nelle carceri tunisine. Per questo l’associazione che porta il suo nome procura libri in lingua araba che sono già arrivati negli istituti penitenziari di Firenze, Livorno, Pisa, Roma, Sollicciano e nel carcere minorile di Casal del Marmo”. Leggere insieme per riflettere sui temi della vita - Prima di arrivare nella Casa circondariale il progetto Un ponte per, nel marzo del 2023, era stato avviato nella sezione penale di Padova dove, come spiega Botticelli: “la scorsa estate sono cominciati gli incontri di lettura, ogni due settimane. Abbiamo letto un libro sia in arabo sia in italiano: poche pagine alla volta. Seguiva poi un dibattito. Dopo sedici incontri abbiamo terminato la lettura del libro e abbiamo visto tutti insieme il film in lingua originale araba che dal libro è stato tratto. Adesso proseguiremo con altre letture”. Testi e poesie non religiose che raccontano i sentimenti delle donne, storie di uomini che si sono ribellati ai soprusi, di madri e di figli. “È stato interessante e anche costruttivo partecipare agli incontri”, conclude Chokri, uno dei ragazzi che ha partecipato agli incontri della scorsa estate, “abbiamo letto il libro di un autore che non tutti conoscono: “Uomini sotto il sole” di Ghassan Kanafani. Il libro parla di avvenimenti di mezzo secolo fa che sono ancora attuali: di territori occupati e delle loro genti, le loro sofferenze e i loro desideri. È stato molto interessante anche per chi non è di madre lingua araba”. Torino. Riscattarsi dalla prigione: la storia di Sandro e il suo viaggio verso la libertà di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 16 novembre 2024 Daccapo: un laboratorio di speranza e rinascita per i detenuti di Torino. Sandro, 61 anni, è un uomo che ha visto la vita da una prospettiva difficile. Cresciuto per strada e poi rinchiuso per oltre 35 anni tra le mura dei penitenziari italiani, oggi si trova al Lorusso e Cutugno di Torino. “Il carcere deve essere rieducativo, altrimenti non serve a nulla”, dice con fermezza, mentre intaglia il legno, trasformandolo in un volto di Gesù Cristo che sarà donato all’arcivescovo di Torino, Roberto Repole. Un gesto simbolico, un atto di restituzione che, per lui, è anche una forma di riscatto. Sandro sta vivendo un’esperienza di reintegrazione nella società e lo sta fave di all’interno del laboratorio Daccapo di Casa Porta di Speranza, un progetto che offre ai detenuti in regime di semi-libertà l’opportunità di apprendere un mestiere e, soprattutto, di recuperare la propria dignità. Un’opportunità che lui non dà per scontata. “Qui non è solo lavoro, è anche un percorso di accompagnamento. Siamo seguiti da persone che ci credono, che ci danno un’occasione di ricominciare”, racconta, con un mix di gratitudine e determinazione. Sandro sa cosa farà quando uscirà: “Lavorerò nel sociale. Voglio dare qualcosa indietro, restituire alla società ciò che mi ha dato. Lavorare in posti come questo significa riacquistare dignità”. Il suo desiderio di riscatto non si ferma alla libertà fisica, ma si estende alla possibilità di fare del bene, di contribuire al miglioramento della comunità. Daccapo accoglie una ventina di detenuti l’anno. Le loro creazioni vengono vendute per finanziare il progetto stesso o utilizzate per fini come realizzare i tavoli per il Banco Alimentare. E lui da Daccapo sta proprio bene, ha trovato uno stimolo per le sue giornate. Roma. A Rebibbia gli studenti detenuti incontrano il cinema mediterraneo di Giovanni Iacomini* Il Fatto Quotidiano, 16 novembre 2024 Si è svolto nella sala teatro della Terza Casa Circondariale di Rebibbia l’incontro finale dei detenuti che hanno partecipato al “MedFilm - festival del cinema mediterraneo” di Roma. Da oltre un mese si sono costituiti gruppi di studenti “ristretti” nei diversi settori del complesso penitenziario (sono ben quattro le distinte Direzioni, ognuna con una propria struttura amministrativa). Sotto la responsabilità di docenti dell’Istituto scolastico “J. von Neumann” di San Basilio, problematica periferia romana, e delle Aree educative e trattamentali carcerarie, in una serie di incontri sono stati visionati i 19 cortometraggi provenienti da diversi paesi che si affacciano sul Mediterraneo e anche oltre. Nel corso delle riunioni, proiezione dopo proiezione, si è potuto assistere al crescendo di interesse dimostrato dai detenuti inizialmente piuttosto diffidenti verso un tipo di proposta così lontana dal proprio vissuto e diversa rispetto a ciò che viene solitamente proposto dalla maggior parte dei media mainstream. Infine, nella riunione plenaria della giuria, i gruppi carcerari equivalenti (non ha partecipato la Casa di Reclusione mentre il settore femminile ha inviato una rappresentanza di quattro detenute) hanno avuto l’opportunità di confrontarsi con le scuole di cinema dei vari Paesi dell’area che circonda il Mediterraneo: una ventina di studentesse e studenti provenienti da Francia, Spagna, Libano, Grecia, l’intera fascia del Maghreb, l’area balcanica ma anche Iran, Russia e Georgia e fin giù in Etiopia e persino un ragazzo che dal lontano Nepal si è trasferito per studiare nel Qatar. Come già era successo negli anni precedenti, per i nostri studenti detenuti ma anche per noi operatori si è trattato di un’ottima occasione per vivere un’esperienza di confronto e avvicinamento alle tematiche più innovative del cinema, quindi dei temi da esso toccati, con un contatto privilegiato con una rappresentanza così variegata e vivace della società esterna. Un tema ricorrente in molti dei cortometraggi è quello dei problemi che nascono con gli spostamenti nelle zone di confine: in perfetta aderenza con i fatti di più stringente attualità abbiamo visto quello tra Siria e Turchia, tra Libano e Israele per le popolazioni palestinesi. Ebbene, in giornate come questa molte barriere vengono abbattute o almeno incrinate dal punto di vista culturale, mentale, psicologico ma anche fisico visto che, grazie alla disponibilità di Direzione e Comando di Polizia penitenziaria che hanno fornito le necessarie autorizzazioni, per un giorno gli esterni hanno l’occasione di entrare in contatto diretto con la realtà del tutto particolare del carcere. Il dibattito tra le varie componenti è stato quanto mai interessante ed è proseguito ben oltre i tempi previsti. Sempre con encomiabile rispetto e correttezza si sono espressi pareri e punti di vista differenti, si sono confrontati tra loro con argomentazioni molto stimolanti e alla fine, dopo varie votazioni, hanno trovato un accordo per l’assegnazione dei premi Methexis (miglior film) e Cervantes (creatività e originalità) e alcune menzioni particolari. Al di là del risultato, come si suol dire, il viaggio è più importante della meta e in questa occasione si è trattato di un percorso veramente straordinario che lascia ai detenuti partecipanti un’opportunità per acquisire strumenti critici alternativi con i quali relazionarsi alla realtà circostante. In perfetta linea con il dettato costituzionale secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione e reinserimento dei condannati. *Professore di Diritto ed Economia nel carcere di Rebibbia Firenze. Carcere, la prigione vista dalle famiglie dei detenuti: la racconta il film “Limbo” gonews.it, 16 novembre 2024 La proiezione domani al Teatro La Fiaba. È l’evento conclusivo della Settimana della Legalità promossa da Caritas Firenze con il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Firenze, Fondazione Solidarietà Caritas, Libera Toscana e Associazione Seconda Chance Renato, un bambino di 8 anni, vive il difficile rapporto dell’assenza del padre, detenuto in carcere. Tra scuola e vita familiare cerca di capire il mondo di regole che sembra ingiusto mentre la madre affronta il peso emotivo della situazione. “Limbo” è il cortometraggio di Alexandros Lomis prodotto da Keep Digging Production da un’idea di Ubaldo Giusti e Samuele Zangara, che sarà presentato domani sabato 16 novembre alle 18 al Teatro La Fiaba (parrocchia Isolotto). E’ l’iniziativa conclusiva della Settimana della Legalità, ciclo di eventi sui temi del carcere, della giustizia e dell’uguaglianza sociale promosso da Caritas Firenze in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Firenze e con la partecipazione di Fondazione Solidarietà Caritas, Libera Toscana e Associazione Seconda Chance. “Limbo” esplora le conseguenze della detenzione non solo sui detenuti, ma anche sulle loro famiglie mostrando il percorso tra isolamento e speranza di riconnessione. Dopo la visione del film seguirà un confronto con il pubblico sul tema carcere, lasciando spazio a domande, curiosità, riflessioni. “Il cortometraggio racconta la storia di una famiglia il cui padre è in carcere in un’altra città e ciò crea sofferenza data la distanza e la poca possibilità di fare colloqui in un ambiente ostile e non accogliente soprattutto per i bambini. Il padre spera di avere la possibilità di usufruire di un’accoglienza in misura alternativa alla detenzione ma questa non gli viene concessa per alcune questioni burocratiche e ciò aumenta il distacco, si perde la speranza e crea angoscia” racconta Alina Tamas, responsabile Area Giustizia e Carcere Fondazione Solidarietà Caritas Ets. La Fondazione Solidarietà Caritas offre due strutture per l’accoglienza residenziali per adulti beneficiari delle misure alternative alla detenzione, il centro Il Samaritano, una casa per l’accoglienza delle persone a fine pena, Casa Mimosa, e gli sportelli che gestiscono i servizi per la gestione dei Lavori di Pubblica Utilità (LPU), Attività di Volontariato per persone in esecuzione penale e Messa alla Prova (MAP) per adulti. L’Aquila. Premio Bonanni, l’ospite Grunbein parla ai detenuti di Michela Santoro laquilablog.it, 16 novembre 2024 Stamani la cerimonia conclusiva del Premio, al Ridotto del Teatro comunale.”Essere qui oggi è per me un’esperienza profondamente toccante. La poesia - ha dichiarato, da dentro il Carcere, il poeta e saggista, Durs Grunbein, ospite d’onore del XXIII Premio Letterario Internazionale ‘L’Aquila BPER Banca, intitolato a Laudomia Bonanni’ - è un linguaggio di libertà, una via per esplorare il mondo interiore e per comunicare emozioni e pensieri che spesso restano nascosti. Incontrare i detenuti e ascoltare le loro domande, mi ha ricordato quanto sia potente la parola, soprattutto in un luogo come questo, per riaffermare la propria umanità e trovare nuovi strumenti per affrontare la vita, una volta fuori da queste mura. È stato un onore, per me, entrare dentro il Carcere e condividere, con detenuti e studenti, questa passione per le parole e per le storie che portano con sé”. È stata un momento molto toccante, la cerimonia di premiazione della sezione del Premio dedicata ai detenuti. Entrare in un carcere, anche se solo per una manciata di ore, non lascia indenni. Le parole lette dai detenuti, le loro domande, la profondità delle loro emozioni e del loro pensiero, sono andate dritte al petto dei presenti. Difronte a tanta profondità, l’uomo è capace di spogliarsi del pregiudizio e lasciare spazio alla sola trasparenza dell’anima, alla fiammella che brilla nel buio della coscienza. È vero, non è per caso che i detenuti sono rinchiusi in un carcere, così come non lo è, il fatto che la loro umanità voglia uscire fuori, a riscatto dell’errore. “Il passato lo puoi dimenticare ma non lo puoi cancellare”, ha detto uno di loro. Il passato lo puoi dimenticare ma non lo puoi cancellare, sei marchiato a vita, vittima dell’onta cui il tuo stesso gesto ti ha condannato. E trovi ogni mezzo per venirne fuori. La poesia, ad esempio. Struggente e umana, cruda e di tutti, foriera di un messaggio universale che è quello dell’essere umano. Portatrice sana di parole che appartengono a tutti, che possono fare bene o fare male, ma che, sicuramente, ci accomunano, livellandoci. Non c’è nulla di più democratico di una poesia. E il fatto di poterla esprimere in un carcere, ne è la riprova. Seduti uno a fianco a l’altro, in platea, mischiati al pubblico, i detenuti hanno respirato una goccia di normalità ricordando a tutti che senza l’essere umano, l’errore non avrebbe modo di esistere. E intanto, stamani, il Premio volge al termine con la cerimonia di premiazione dei vincitori delle Sezioni A - Poesia edita e Sezione B - Poesia degli studenti, alla presenza dell’Ospite d’onore. I commenti - “Tornare all’interno del carcere - ha dichiarato la Presidente del Premio, on. Stefania Pezzopane - ha un significato profondo: questo concorso, unico in Italia e patrocinato dal Ministero della Giustizia, porta il potere espressivo della poesia oltre le sbarre. Per i detenuti che partecipano, la poesia rappresenta un mezzo di riflessione e riscatto, un canale per esplorare e comunicare sentimenti profondi che spesso non trovano altra via d’uscita. Ogni anno, i loro componimenti ci lasciano senza fiato, rivelando una profondità e una sapienza poetica che commuovono profondamente. Non conosciamo i loro nomi, né’ i reati per i quali stanno scontando la pena. I loro componimenti arrivano con dei numeri in codice. Il nostro giudizio è scevro da condizionamenti di sorta. Ed è impossibile trattenere l’emozione di fronte alla forza delle parole che leggiamo.” “Siamo profondamente lieti di ospitare, per il tredicesimo anno consecutivo, questo prestigioso premio all’interno della nostra Casa Circondariale. Per i detenuti, questa iniziativa rappresenta molto più di una semplice competizione letteraria: è un’opportunità di esprimere se stessi, di dare voce alle proprie emozioni e riflessioni, e di aprire una finestra sul mondo esterno attraverso il linguaggio potente e universale della poesia. La scrittura diventa così un mezzo di riscatto, di introspezione e di riconnessione con l’umanità, elementi fondamentali per un percorso di crescita e di cambiamento. Siamo grati alla BPER e a tutti coloro che rendono possibile questa esperienza, che arricchisce profondamente la vita all’interno del nostro Istituto.” Così, Barbara Lenzini, Direttrice della Casa Circondariale L’Aquila. “Portare la poesia tra i detenuti, attraverso il Premio BPER Banca intitolato a Laudomia Bonanni, aiuta a comprendere questa realtà, il mondo che circonda i detenuti e la loro particolare sensibilità che deriva anche dalla riflessione su quanto un ‘errore’, come evidenziato anche nei loro comportamenti, possa essere d’insegnamento per fare esperienza, migliorare e reinserirsi, a pieno titolo, nella società. La nostra Banca è fiera e orgogliosa di sostenere un momento culturale di così alto livello che supera gli steccati canonici per arrivare anche alle fasce più deboli della società”, il commento del responsabile della Direzione regionale Centro est di BPER, Giuseppe Marco Litta Firenze. Ripensare le carceri a partire da Montelupo: cosa ci insegna il lascito di Alberta Bigagli di Michele Brancale La Nazione, 16 novembre 2024 La psicopedagogista nata a Sesto Fiorentino era solita visitare i detenuti dell’ospedale psichiatrico di Montelupo, trascrivendone le storie che essi le raccontavano, raccogliendole in dei volumi: oggi c’è un trust che ne cura la pubblicazione. Il recente decreto carceri ha suscitato da agosto molte polemiche. La sensazione è che tanti nodi siano rimasti irrisolti, pur con alcune indicazioni positive, come quelle relative alla riabilitazione dei detenuti tossicodipendenti. Il punto è proprio rendersi conto di cosa sono le carceri oggi, in cui la popolazione è spesso caratterizzata da problemi psichici, tossicodipendenza e indisponibilità di casa quando si esce. L’ospedale psichiatrico di Montelupo può per certi versi fare da scuola a tutte le carceri italiane, dove la popolazione “psichica” è molto diffusa, anche per effetto delle tossicodipendenze, e vi sono centri clinici per i detenuti che presentano particolari patologie. Tutta la storia maturata tra le mura dell’ex ospedale può essere di grande utilità per affrontare non pochi aspetti dell’emergenza carceri, ma per farlo bisogna ascoltare e ascoltare tanto. A tal proposito, il lavoro di Alberta Bigagli (1928-2017), psicologa e poetessa, nell’ambito delle carceri, ha contribuito a suo tempo a gettare consapevolezza su un tema estremamente complicato. La Bigagli infatti conduceva laboratori di scrittura con gli ospiti, ed ha lasciato un’ampia documentazione su cui sarebbe utile ritornare. I giovedì mattina la psicologa era solita visitare i detenuti dell’ospedale psichatrico di Montelupo, coi quali organizzava novanta incontri in un anno, durante i quali ascoltava e dava voce ai suoi amici, trascrivendone le parole nei suoi “Incontri con l’Alberta”. Il racconto di Olindo del Fuoco, intitolato così dal nome del detenuto che lo ha confidato alla Bigagli, recita così: “Una volta ero in collina con gli amici // Avevo circa dodici anni. // Non so perché // loro mi hanno dato fuoco // e lanciato in aria. // Mi ritrovai lontano lontano. // Il fuoco si era spento // e i vestiti li avevo addosso // ma non avevo più capelli. // Passava una cinquecento e mi hanno detto // “vieni con noi”. // Mi portarono in un paese // che non conoscevo // ma che mi piacque molto. // Non ricordo come si chiamava”. Proprio questo racconto dà il titolo a un volume di circa 200 pagine, pubblicato da Giubbe Rosse, che rende conto del metodo “tu parli, io scrivo” attuato dalla Bigagli dal 1999 al 2001. La raccolta completa è custodita nell’Archivio diaristico nazionale e consta di 398 pagine: oggi il suo enorme lascito poetico-letterario è affidato a un trust di amiche che hanno curato l’edizione, e talvolta la riedizione, dei suoi scritti. C’è un aspetto da considerare e che fa da premessa alla scrittura: Bigagli è stata innanzitutto un’appassionata educatrice tra carcerati e malati psichici, come una vocazione nata da quel “terremoto cristico” all’origine dei suoi percorsi umani prima e letterari poi: questo dà ancora più forza alla sua opera poetica e aiuta a cogliere lo spessore di una psicopedagogista con il culto della parola, del valore che essa ha come semina e come ponte per entrare in relazione con gli altri. L’abilità di Bigagli si rivela nel ricostruire, in versi, quei dialoghi avuti con gli altri che si fanno storia, espressione possibile dell’essere insieme vincendo con la parola l’isolamento: “Ci appartengono gli altri / sono il sole che avvolge”. Le sue opere sono edite da Passigli, Polistampa, Valigie Rosse, Balda e Polistampa. Milano. “In prigione con le detenute parliamo di amore, amicizia, uomini, figli. E libertà” di Valeria Balocco marieclaire.it, 16 novembre 2024 Gli incontri del giovedì: nel carcere di San Vittore a Milano un progetto con le carcerate ideato da Federica Berlucchi. Prima ci sono i cancelli automatici e poi un portone di ferro. Lì lasci la tua borsa e il cellulare, ti spogli di tutti gli strumenti che ti permettono di avere un rapporto col mondo fuori. Dopo c’è il rumore stridente delle chiavi che girano nella toppa dell’entrata di ferro del braccio femminile - che si richiude dietro di te appena dentro - cui non riesco proprio ad abituarmi. Ho imparato a gestire l’aria ferma, il sole che passa dalle finestre e disegna sul pavimento quadrati e rettangoli, i cieli uggiosi che rendono necessaria la luce accesa durante gli incontri anche se si svolgono nelle prime ore del pomeriggio. Riesco pure a non abbassare più lo sguardo davanti ai loro visi che mi fissano da dentro le celle con le mani attaccate alle sbarre che fanno intravedere tendine e panni stesi. Ho costruito un bel rapporto anche con gli agenti che fanno un gran lavoro. Ho imparato persino a gestire quel senso di fortunata opportunità che ho avuto nella mia vita rispetto alle loro e che là dentro percepisco forte. Eppure, quel cigolìo meccanico delle chiavi di ferro in quella porta d’entrata continua a farmi uno strano effetto, mi rimbalza nello stomaco sempre, potente e unico. Poi, per fortuna, una volta all’interno tutto assume un’aria familiare. E potrà sembrare assurdo ma quell’appuntamento nel carcere di San Vittore a Milano tutti i giovedì è ormai parte della mia vita. E mi fa un gran bene. Ho iniziato quasi per caso. Un po’ come sono cominciate, spesso per me, le cose importanti. Volevo fare volontariato. Le amiche mi suggerivano l’ospedale, ma io sono ipocondriaca. Poi, mio zio mi parlò della sua esperienza come insegnante di inglese nel penitenziario di Brescia. Così, quando un’amica mi ha presentato Manuela Federico, Comandante della Polizia penitenziaria, (ha lavorato lì per 12 anni, ora è Comandante presso l’Ufficio esecuzione penale esterna di Milano, ndr) le ho parlato della mia idea. E, una volta ottenuta l’autorizzazione dal ministero della Giustizia, ho iniziato a fare piccole commissioni per gli uomini. È stata lei - oramai eravamo diventate amiche - che, dopo alcuni mesi, mi ha suggerito il braccio femminile. Così sono nati gli Incontri del giovedì, tra me e una ventina di carcerate scelte da Francesca, l’educatrice del carcere, tra quelle che lei valuta più strutturate e adatte a parlare, ad aprirsi, a condividere. All’inizio, però, venivano in poche, erano dubbiose, malfidenti. Chi ero, del resto, io per loro? Poi, un po’ per un’alchimia imprevedibile, un po’ perché in carcere le ore senza fare quasi nulla sono dure a passare, il gruppo è cresciuto. Oggi, a distanza di oltre sei anni, so che ci vengono volentieri e che le richieste di partecipazioni sono molte di più di quelle che possiamo gestire. Ci riuniamo una volta la settimana - il giovedì pomeriggio, da qui il nome - in una stanza al primo piano, in cerchio. E pur in una condizione di forzata socialità - io non le ho scelte e neanche loro, neppure una con l’altra -, chiacchieriamo come un gruppo di amiche, di tutto. E ci divertiamo pure. Prediligono il rapporto personale, ma qui il gioco è il gruppo, la capacità di condividere con le altre opinioni, idee, emozioni. Non sono amiche, in carcere - questo me lo hanno detto tante volte loro - è rara l’amicizia, poca è anche la solidarietà che si riduce al massimo in un aiuto a farsi la tinta ai capelli. Ma lì c’è uno spazio libero di parola e loro lo cercano. Non sono sempre le stesse, San Vittore è carcere circondariale dove le detenute sono in attesa di giudizio e quasi sempre, una volta arrivata la sentenza, vengono spostate in un altro penitenziario. Questo rende più difficili gli incontri: spesso si riparte da zero, ma non con tutte. Ho percepito che il male esiste, eccome. Loro sono lì perché hanno commesso un reato, anche se molte si dichiarano innocenti, ma in quelle tre ore settimanali colpe, muri e celle sembrano quasi annullarsi e scomparire. E io, che le prime volte uscivo commossa e turbata e piangevo, ho imparato e non giudicare. A sedermi in mezzo a loro con un sorriso empatico e ad ascoltare: “Come va? Come hai trascorso la settimana? Cosa è successo?”. I primi anni ci andavo da sola, poi ho compreso che gli incontri si sarebbero arricchiti molto con la presenza di altre persone. Ho iniziato con un astrologo, Stefano Vighi. Lui con un’affabilità naturale è riuscito a portarle “Altrove”, nel futuro, raccontando, con leggerezza e senza falsi buonismi, il loro quadro astrale. Un cielo oltre le sbarre, oltre l’attesa per gli incontri con gli avvocati o coi parenti (se ne hanno), i processi e le sentenze. Certo è solo un attimo di distrazione e svago, ma riesce a rompere il senso claustrofobico della prigione. Poi è stata la volta di Markus Krienke, un filosofo. E con lui le riflessioni sono andate su amore, figli, amicizia, legami, uomini. E libertà. Discussioni semplici, ma che aprono orizzonti di vita. La maggior parte delle detenute - tantissime extracomunitarie e giovani - sono dentro per reati di droga, truffa, prostituzione, vicende legate a uomini che le hanno usate e quando escono ci ricascano. Se non hai mezzi, cultura, famiglia, strutture cui appoggiarti, se sei nel vuoto è facile cadere preda di uomini che ti sfruttano. Ma in quei momenti ci credono al Bene, e vedono spiragli di un orizzonte positivo aprirsi davanti a loro. Quell’umanità così elementare mi si appiccica addosso. È successo anche in occasione della Festa della Donna quando avevo organizzato (in collaborazione con il Centro Europeo Teatro e Carcere e la Fondazione Fo Rame) un evento di poesia nel giardino di San Vittore e una detenuta ha letto dei versi di Alda Merini: “Mi sento come una farfalla cui vengono tarpate le ali, come un uccello chiuso in gabbia. La libertà è la cosa più preziosa. Nessuno potrà mai ridartela ma la potrai riconquistare”. È banale dirlo, ma in questi incontri mi sembra quasi più di ricevere che di dare. Elegante e ben truccata. Arrivo con un look mai lasciato al caso. Non per tracciare una linea di demarcazione tra me e loro, che si presentano quasi tutte con ciabatte e tute scolorite. Anzi. Lo faccio perché so che a loro piace. Sono rimaste entusiaste quando ho organizzato l’incontro con il make-up artist Fatjon Kacorri. Avevo portato dentro (con l’autorizzazione del carcere, ndr) smalti, rossetti, ombretti, mascara, fondotinta regalati da riviste di moda e loro, che non hanno neppure uno specchio (per ovvi motivi di sicurezza) hanno cominciato a truccarsi a coppie e sono diventate l’una lo specchio dell’altra. Si sono sentite belle, e lo erano. Là dentro si lasciano andare, come se la cura per sé stesse fosse solo legata al fatto che qualcuno ti guardi, spesso un uomo. È stato bello ricevere la lettera di una detenuta che mi ha scritto: “In quel tempo con te e Fatjon ci siamo dimenticate di essere rinchiuse e ci hai fatto sentire donne anche in questo ambiente. E con i regali ricevuti potremo farci belle tutti i giorni”. Alla fine, escono alla spicciolata. Così come quando entrano. Qualcuna è chiamata dalle agenti perché è di servizio alla distribuzione dei pasti, qualcuna perché ha il turno della doccia. Altre rimangono perché vorrebbero continuare a parlare da sole con me. Io le chiamo le “mie” ragazze. Ricordo una prostituta che mi raccontava della poca tenerezza ricevuta dagli uomini, di una simpatica zingara che mi chiedeva consigli su come insegnare alla figlia a non rubare e la storia di una giovane che aveva dato in adozione la sua bimba. Ricordo visi e sorrisi di donne che non ho mai più rivisto. Qualcuna, però, quando esce mi chiama: cerca aiuto, fuori è molto difficile trovare lavoro e non ritornare a delinquere. Sono così vulnerabili... In quei momenti ho quasi la certezza che quegli incontri abbiano lasciato un segno. E comunque a distanza di sei anni dietro quelle sbarre, il mio cuore si è nutrito e mi si è allargato il mondo”. La protagonista di questa storia è Federica Berlucchi, membro del consiglio di amministrazione dell’azienda agricola Fratelli Berlucchi - Freccia Nera. Dal 2017 lavora come volontaria nel carcere di San Vittore di Milano dove ha ideato e dirige gli Incontri del giovedì, riunioni settimanali con le detenute. Sogna di realizzare, sempre nel braccio femminile, un progetto di sartoria. Ravenna. “Vivere senza la chiave”, incontro con frate Ignazio De Francesco ravennawebtv.it, 16 novembre 2024 “Vivere senza la chiave. Dialoghi tra carcere e città” è l’appuntamento in programma sabato 16 novembre al Teatro Capuccini, via Canal Grande 55, a Faenza. A partire dalle 18.30 si terrà un incontro con frate Ignazio De Francesco. Dopo l’incontro, alle 20.45, è in programma uno spettacolo teatrale tratto dal libro dello stesso De Francesco “Vivere senza la chiave”. In scena Joseph & Bros. “Una rappresentazione molto intensa che ha visto la sua ‘prima’ nel carcere della Dozza, per volontà dell’autore del testo da cui è stato tratto lo spettacolo teatrale. Si tratta di Joseph & Bros, con la regia di Alessandro Berti, attore regista e drammaturgo, in scena con Francesco Mariuccia e Savì Manna. Il testo lo ha scritto Ignazio De Francesco, monaco dossettiano, islamologo, co-fondatore di Eduradio. Si chiama Giuseppe e i suoi fratelli, dal suo libro ‘Vivere senza la chiave’, Zikkaron Edizioni, una piccola casa editrice che pubblica testi preziosi”. La storia racconta di tre persone, Gadi, Salvo e Ahmad, che si sono trovati, non certo per scelta, nella stessa camera di pernottamento (così si chiamano le celle oggi) e subito si differenziano per cultura, lingua, credo, provenienza e anche reato. Costretti e ristretti in nove metri quadrati, tra l’attaccamento alle proprie tradizioni, famiglie, storie personali e la consapevolezza che cresce battuta dopo battuta che lì dentro, giocoforza, respirano la stessa aria, subiscono gli stessi odori, percorrono gli stessi piccoli spazi, condividono le stesse sofferenze facendosi coraggio l’uno con l’altro. Uomini con identità diverse alle quali si attaccano con la forza della disperazione, ma Gadi insinua il dubbio proprio sull’idea di identità. Quel lemma che definisce, restringe, limita, isola ma allo stesso modo rassicura, unisce i consanguinei, i ‘fratelli’, magari contro chi non è della stessa famiglia, etnia, cultura. De Francesco, nel dialogo con il pubblico, parla della necessità di una Costituzione della Terra, una nuova legge superiore a quella attuale che, nel nostro mondo che cambia velocemente, è ormai datata e infatti spezzetta, parcellizza, inquina e, soprattutto, non promuove la Pace. Ad un certo punto Gavi dice: “… Ma una cosa ci accomuna: la chiave. Non abbiamo la chiave, la chiave è in mano ad altri. Il carcere alla fine è solo questo. Si tratta di imparare a vivere senza la chiave”. “Ma vivere senza la chiave non è solo una condizione di chi vive in restrizione dietro le sbarre, è anche quella di chi non può lasciare il proprio paese, di chi vive nei campi profughi, nei CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) o di chi vive recintato nella propria terra. L’autore ci ha raccontato di come si sia sentito ristretto ad Ain Arik, il villaggio in cui c’è una sede della Piccola Famiglia dell’Annunziata, situato a circa 6 kma nord-ovest di Ramallah con 1800 abitanti dei quali meno di un terzo sono cristiani e due terzi musulmani, mentre sulla sua testa passavano le bombe. È lì che è nato questo racconto, in quel ‘carcere’ da cui nessuno poteva uscire e dove, anzi, tante persone cercavano rifugio. La similitudine è presto fatta, le sbarre immateriali ci sono, la convivenza pacifica si può imparare - sull’esempio di Gadi, Salvo e Ahmad - la Costituzione della Terra è quanto mai necessaria, è ora di mettersi tutti insieme al lavoro e di ripensare a come vogliamo vivere e in che mondo”. Quelle “Voci dal carcere” sono visioni sulla reclusione e la dignità dei detenuti di Gianluca Iovine Il Dubbio, 16 novembre 2024 Nel suo trentennale, il Med Film Festival è ormai un ponte stabile tra le culture dei Paesi del Mediterraneo e oltre. La kermesse vanta importanti partners istituzionali e privati quali MiBac, Ministero degli Esteri, DAP del Ministero della Giustizia, Regione Lazio, Comune di Roma, Commissione Europea, Fondo Asilo Migrazione e Integrazione, IOM UN Migration, Cinecittà, Amnesty International e WWF; oltre ad ambasciate di Francia, Spagna, Marocco, e media come Avvenire, Ansa, RAI Movie, per citarne alcuni; cosa che permette di superare la semplice rassegna, creando occasioni di finanziamento offrendo masterclass originali; mostrando progetti audiovisivi e sociali, scoprendo nuove tendenze artistiche della contemporaneità, ben oltre i confini del Mare Nostrum. E il pubblico apprezza, avvicinandosi a sogni e sofferenze di popoli distanti, narrati con delicatezza e sapienza espressiva. Il 2024 segna anche la decima edizione di Voci dal Carcere, oggi sezione interna al MFF articolata in due giornate, presenti quanti hanno ideato, diretto, interpretato i progetti alla base dei cortometraggi, sperimentando tecniche nuove e l’ambizione di un reale recupero di recluse e reclusi, pur tra burocrazie e difficoltà di lavorazione. Pensiamo a Le notti di Cabiria, Detenuto in attesa di giudizio, Fuga da Alcatraz, Papillon, Fuga di mezzanotte, Il bacio della donna ragno, Il miglio verde, Le ali della libertà, Come il vento: da sempre il cinema ha ritratto la detenzione. Tra i tanti titoli legati al carcere ci sono film importantissimi in bilico tra sensazionalismo, dramma e luogo comune, al punto da rischiare il manierismo. Negli ultimi anni film come Aria ferma e Grazie ragazzi hanno raccolto la sfida di saper narrare l’anomala normalità del carcere. E in questo la scelta del cinema verità come anche del falso documentario può essere d’aiuto. In questo senso il lungometraggio Qui è altrove di Gianfranco Pannone sulla straordinaria esperienza del teatro carcere di Armando Punzo a Volterra, è chiusura ideale di Voci dal carcere ed anche inizio di una nuova relazione tra interno ed esterno. E di più nitide visioni sulla reclusione, che esplorassero ogni possibile dinamica c’era bisogno, per creare lo scandalo di un carcere che possa salvare la dignità della persona con studio, lavoro, arti, riuscendo a recuperare, ricucendo le ferite sociali. Peso specifico e ricchezza umana delle storie, viste al cinema Moderno, pur con qualche imperfezione, restituiscono un ritratto di profonda verità, che accoglie il sogno. Le immagini dei corti, dopo brevi note in presenza degli autori, si susseguono come in un unico grande affresco, dove anche i gesti trovano senso. Dopo l’indagine in canzone di Gaber, la politica si è appropriata della parola libertà svilendone il più segreto significato. E invece anche negli istituti di pena più moderni, dove teatro cinema e letteratura provano a recuperare l’umanità sommersa, la libertà rinasce, come anelito ad emanciparsi, anche dal proprio io sconfitto, segnando menti e coscienze in molti luoghi d’Italia. Restano avvinti ai ferri del pregiudizio reclusi, operatori di polizia, personale di supporto. A rischio di bruciare l’identità dell’individuo. La vera pena, continua, dolorosa, è nella consapevolezza che la libertà, inafferrabile e assente, riemerge sempre più divorante: nella creazione di una barca di legno a Palermo, nelle tavole animate di Napoli, nei vapori delle cucine di Velletri. Impalpabile e tossica come fumo, essa si accompagna ad errori fatti e urgenza di mostrarsi radicalmente cambiati. Impossibile avvenga, senza che la società se ne carichi il peso, gettando ponti. E per cambiare, ai reclusi come ai cosiddetti liberi, serve un tuffo, da incoscienti, come quello che sui totem digitali fuori sala disegna la locandina dinamica del Festival: lasciando il grande 30 che avvolge la parte in luce del Pianeta, tuffandosi, donne e uomini, tra mare e nuvole. Per una volta ogni persona e appartenenza, viste dalla giusta distanza, sono un’umanità sola. E che il cinema possa parlare alle coscienze in chiave di una possibile riforma della detenzione, si comprende dalla riunione di giuria di Corti in carcere a Rebibbia, come racconta, la curatrice Veronica Flora. Prima che le luci anneghino nello stesso scomodo buio attori e spettatori, c’è spazio per brevi racconti degli autori. Simone Spampinato gira Il giardino delle delizie a Velletri, virando vero il talent di cucina. Nei canoni televisivi l’inizio è costante pressione e giudizio. Poi, attraverso profumi che sembra davvero di percepire, pentole e coltelli si fanno macchina del tempo, in un paesaggio che lega memoria, immaginazione e ritrovata dignità nelle figure di chi quelle ricette familiari ha tramandato. Sperimentale nell’uso della cianotipia è Cara JDL di Lucia Magnifico, dove la celebre street artist diviene albero dei desideri delle recluse di Bologna. Chiedi di me all’acqua di Massimo Montaldi porta a Rieti un laboratorio di scrittura usando “il pensiero magico… per evadere”, nel quale la violenza contro le donne approda a chi la conosce per averla vista, o forse commessa, per essere vissuta e vinta per una terapia di recupero sociale e relazionale. La memoria è ovunque. In Ricordanze di Salvo Presti ed Emanuele Torre, e in Entrare fuori uscire dentro di Enzo Aronica, dove il Liceo Neumann di San Basilio e i detenuti di Rebibbia dialogano per un anno. Colpisce Ofarja, esperimento sul tema del faro come riferimento, lavoro scritto disegnato e animato dai reclusi di Napoli che per il regista Ahmed Ben Nessib “Non sono degli smarriti, ma Secondigliano potrebbe smarrirli”. Vie di fuga di Michela Carobelli, con macchina da presa a spalla, impegna in scrittura e recitazione i detenuti in massima sicurezza a Terni, abbattendo ogni diffidenza, dove il laboratorio è mediazione di conflitto. Siamo a’mmare di Alessio Genovese è un dramma della quotidianità - destinato a diventare un intensissimo film- che esplora il tema del carcere come eredità familiare, nato dal workshop con Daniele Saputo e trenta reclusi all’Ucciardone, nel segno di talenti purissimi come quello del recluso Maurizio Polizzotto. Giulio Maroncelli, affida a Sogni il compito di “portare un frammento di quello che succede e a cui non abbiamo accesso”. Near light di Niccolò Salvato e Kairos di Francesco Lovino chiudono con toni poetici e introspettivi l’indagine a passo breve. Infine il lungometraggio di Pannone che, ne siamo certi, colpirà il pubblico delle sale. Lasciando guardare all’umanità oltre le sbarre, occhi negli occhi. Amen per i boss di Gery Palazzotto Il Foglio, 16 novembre 2024 Da don Cozzi che raccoglie le memorie di Brusca a Mario Frittitta. Dal gesuita Pintacuda a padre Sorge. Il difficile dialogo con l’oscurità. Marcello Cozzi si presenta come prete, lucano, impegnato da decenni sul versante del disagio sociale, nell’educazione alla legalità e alla giustizia, nel contrasto alle mafie e nell’accompagnamento ai pentiti di mafia e ai testimoni di giustizia. Racconta che dal 2004 è stato contattato da più di cento mafiosi e che con almeno cinquanta di loro continua a sentirsi, scriversi e vedersi. Talvolta l’accompagnamento sfocia in un libro. L’ultimo raccoglie le memorie di Giovanni Brusca che con malcelata modestia afferma: “Sono stato ritualmente affiliato all’età di 19 anni, credo di essere stato uno dei più giovani nella storia di Cosa nostra…”. L’ex enfant prodige che è maturato straziando corpi di giudici e poliziotti, strangolando bambini, sciogliendo i nemici nell’acido, oggi è un tranquillo pensionato del crimine. Si è definito lui stesso “un animale” e ha lasciato il carcere in virtù degli sconti di pena per i collaboratori di giustizia. “Un animale” in libertà. E’ uno che a verbale, quando gli chiedevano quanti omicidi aveva commesso, rispondeva: “Molti più di cento, sicuro meno di duecento”. Adesso il suo biografo don Cozzi ha inanellato nel volume “Uno così”, 192 pagine in brossura, la storia di un uomo che ha condotto un’esistenza “nella violenza come sistema di potere”: il libro è delle Edizioni San Paolo, e il pensiero corre all’immagine di quel santo spesso rappresentato con in mano la “spada a due tagli” che consente all’uomo di distinguere il bene e il male. Teniamola a mente quest’immagine. La spada, il bene, il male. Si narra che la rubrica del telefonino di don Marcello Cozzi sia piena di nomi in codice, sigle, nickname: tutti collaboratori di giustizia che vedono in lui un’occasione di liberazione, dell’anima o di suoi surrogati più terreni. Don Cozzi è un prete coraggioso, dà attenzione a tutti, parenti delle vittime, testimoni di crimini gravi, ma soprattutto carnefici. “Quanto più ascolto il tormento di Caino, tanto più posso capire quanto sia lancinante il dolore di Abele”, ha scritto. E’ così che i tormenti dei killer, i loro dilemmi esistenziali (sparare o non sparare?), la loro vulnerabilità carceraria hanno cominciato ad affollare l’agenda di don Cozzi: stragisti, mafiosi siciliani, carnefici casalesi, assassini di preti, di magistrati, di ragazzini. Tutti in cerca di un altissimo dialogo, nel nome del padre, del figlio e di uno spirito perduto. Sullo sfondo una umanissima voglia di riconciliazione. In filigrana il grande e mai risolto equivoco della ricerca di una (falsa) universalità che in qualche modo rischia di mettere aggressori e vittime sullo stesso piano. Ci sono vari modi di ascoltare un mafioso. Con tutta una serie quasi infinita di varianti: se è latitante, se è pentito, se è credente (al netto delle bibbie sui comodini e sui segni della croce prima di premere il grilletto), se è ignorante, se ritiene il suo dio accessibile tramite un rito, se ha problemi di contante, eccetera. Un esperto in tal senso era il carmelitano Mario Frittitta, morto a 83 anni lo scorso anno, parroco della chiesa di Santa Teresa nel quartiere Kalsa di Palermo. Negli anni 90 celebrava messa nel rifugio segretissimo di un latitante ai tempi leggendario, Pietro Aglieri, mafioso e pluriomicida cresciuto in seminario, appassionato di filosofia e pallottole. Fu seguendo il prete che gli uomini della Squadra mobile riuscirono a prendere Aglieri. Frittitta venne arrestato e con molta poliziesca perfidia fatto sfilare davanti ai fotografi con le manette ai polsi e l’ordinanza di custodia cautelare in mano. Si fece solo quattro giorni di carcere. Fu condannato in primo grado per favoreggiamento nonostante lui si fosse giustificato adducendo il tentativo di convertire il boss a domicilio. Alla fine la Cassazione gli credette, ribadendo che un sacerdote non è obbligato a informare le forze dell’ordine degli eventuali reati dei quali viene a conoscenza confessando i criminali. Frittitta rientrò da eroe nella sua parrocchia alla Kalsa, tra gli applausi dei fedeli e gli sguardi prudentemente distratti delle alte sfere ecclesiastiche. Che però dovettero tornare a occuparsi di lui quando, nonostante il divieto del questore, celebrò una sorta di funerale prêt-à-porter per il boss Masino Spadaro che della Kalsa era signore e padrone. E non contento, minacciò il cronista di Repubblica Salvo Palazzolo che gli chiedeva ragione di quell’elogio della “pecorella smarrita” con parole non proprio tratte dai Salmi: “Stia attento a come parla, perché altrimenti lei la paga. Perché il Signore fa pagare queste cose”, sibilò al giornalista. L’arcivescovo di Palermo, Carmelo Lorefice, nel sottolineare “l’inconciliabilità dell’appartenenza alle organizzazioni mafiose con l’annuncio del Vangelo” fece quello che fanno tutti quelli che hanno un problema che non sanno come risolvere: stigmatizzò. Chi si mostrò molto comprensivo con don Mario Frittitta ai tempi del caso Aglieri fu un altro prete, Vincenzo Noto, giornalista a tutto campo: redattore al Giornale di Sicilia, direttore del settimanale cattolico Novica e dell’agenzia Mondo cattolico di Sicilia. Noto scrisse un libro interamente dedicato al parroco della Kalsa, intitolato “Da sacerdote tra i mafiosi” nel quale riassunse: “Mario ha vissuto in maniera drammatica, ‘disprezzato’, a suo giudizio, dalle forze dell’ordine e dai magistrati, ‘infangato’ dai cronisti di giudiziaria, ma sempre ‘difeso’ dalla sua gente che lo conosceva abbastanza bene”. E lasciò intendere che se mai di colpe si fosse potuto parlare, Frittitta non poteva essere il solo: “Sarebbe particolarmente interessante occuparsi del cammino spirituale che Aglieri ha affermato di avere iniziato in una lettera a don Lillo Tubolino, parroco della parrocchia della Sacra Famiglia, a pochi metri dalla stazione Centrale di Palermo, nel periodo della latitanza, come anche di tutta l’assistenza spirituale che ha avuto e non soltanto da parte di padre Mario Frittitta”. Insomma se è guerra, è guerra per tutti. Lo sapeva bene Ennio Pintacuda, gesuita e movimentista, sociologo e guerriero votato al cambio di fronte. Francesco Cossiga, da presidente della Repubblica, lo dipinse come “prete fanatico” che avrebbe esiliato volentieri in Paraguay. Bettino Craxi lo chiamava “Padre Barracuda”. Il suo slogan contro la mafia (e contro tutti quelli che non essendo con lui diventavano di default contro di lui) divenne la bandiera di un movimento di grande impatto civile e politico nella Palermo dei primi degli anni 90, la “Rete” di Leoluca Orlando: “Il sospetto è l’anticamera della verità”. Ma erano parole vaganti come i proiettili che in quegli anni attraversavano le contrade siciliane, parole che allarmarono lo stesso Giovanni Falcone: “Il sospetto non è l’anticamera della verità, ma l’anticamera del khomeinismo”. Il bene e il male. Nel suo sciabolare tra le stanze dei bottoni, Pintacuda (nome di battaglia tra i suoi, “padre Ennio”) ha spesso sovvertito l’ordine dei nemici politici, affilando la sua spada su mole molto diverse a seconda delle carni da incidere. Dalla Dc degli inizi alla santa alleanza col ribelle dello scudocrociato Leoluca Orlando, dall’udr di Cossiga alla maledizione di Cossiga stesso, dalla fondazione della Libera università della politica con stage a Filaga (pellegrinaggio d’ordinanza per i giovani movimentisti cattolici) alla nascita di un partito autonomista quasi secessionista, “Noi siciliani”, dall’avvicinamento al Pds all’allontanamento dal Pds stesso per un furibonda polemica sui mandanti occulti dell’omicidio del segretario regionale del Partito comunista Pio La Torre (che secondo Pintacuda erano nascosti nel suo stesso partito). E, gran finale, il Polo, l’ultima stanza da esplorare e dalla quale uscire con un paio di nomine al di sopra di ogni sospetto e lontane da ogni scomoda anticamera: responsabile del Laboratorio antiusura della Provincia di Palermo a guida Forza Italia, e presidente del Cerisdi, Centro ricerche e studi direzionali, la Master School della regione governata dal Polo di centrodestra. Il nome e la storia di Ennio Pintacuda si incrociano con quelli di un altro gesuita di audace fioretto anti-cosche, Bartolomeo Sorge. Entrambi politologi di razza, ma con chiavi ermeneutiche diverse si trovano a intessere la strategia politica, da veri spin doctor, di un importante movimento politico e sociale, la Primavera di Palermo, una stagione di complicato riscatto civile in una città che sfida il tritolo di Cosa nostra coi lenzuoli bianchi e le catene umane. Tra i due tutto fila liscio sino a quando Orlando rompe definitivamente con la Dc. Pintacuda lo segue, mentre Sorge si tira indietro. In più, Sorge capo della scuola superiore di politica dei gesuiti di Palermo, l’istituto Pedro Arrupe, caccia Pintacuda che gli ha dichiarato guerra con volantinaggi, sottoscrizioni e campagne di stampa. Ma padre Ennio non è uno che si lascia intimidire e nel suo incontenibile furore politico che tutto consuma e nulla mantiene, trova occasione di rompere anche con Orlando per motivi che mai furono ben chiariti (la tesi più accreditata si rifà a un presunto diniego da parte dell’ex sindaco a concedergli un ruolo nella macchina comunale). E’ così che Pintacuda consuma la sua vendetta nei confronti di Sorge e di Orlando facendosi mettere a capo dal centrodestra di una Master School, il Cerisdi, concorrente rispetto al centro Arrupe e di discreta vocazione anti-orlandiana. La ricerca di un dialogo senza fraintendimenti con la metà oscura, il coraggio di andare a fondo nelle cose più complesse anche mettendo a rischio la propria vita, ha comportato la perdita di molte vite. Nella terra in cui, storicamente, il mafioso è quella persona che dice di non esistere a persone che dicono di non conoscerlo, svettano figure che armate solo della propria fede hanno usato la parola per strappare consensi alla mafia, ma senza scriverci un libro, senza indugiare nella pubblicistica. Uno dei più feroci killer di mafia, Salvatore Grigoli, oggi collaboratore di giustizia, ha raccontato che il suo esordio come assassino è stato l’uccisione di don Pino Puglisi, parroco del quartiere Brancaccio di Palermo, ammazzato il 15 settembre 1993 nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno. “La Chiesa che conoscevamo è stata con noi sempre disponibile - ha detto Grigoli - Intendiamoci, non perché era collusa (…) magari perché noi offrivamo piccoli favori. Voglio svelare un piccolo aneddoto: nel raggio di appena due chilometri dalla chiesa di don Pino, c’era un’altra parrocchia e un altro prete. Nei momenti di bisogno veniva sempre da noi. Come quella volta che era stato fatto un furto in chiesa. Gli abbiamo detto: ‘Padre, ora vediamo’. E poi gli abbiamo ricomprato tutto”. Puglisi era di un’altra pasta. “Don Pino - racconta Grigoli - continuava a fare delle prediche, delle messe contro la mafia forse perché si rendeva conto di quanto la gente sentisse il fascino di Cosa nostra. E allora cercava di allertare innanzitutto i giovani”. Nessun proclama, niente propaganda. Don Pino parlava ai ragazzini cercando di fargli capire che l’onore lo si ottiene stando alla larga dai criminali. L’antimafia sottotraccia, niente militanza chiodata, niente effetti speciali, niente slogan, solo sostanza. L’unico insegnamento che galleggia nelle acque paludose della retorica tardiva, quella per la quale solo il morto insegna a piangere, è che servono molti preti come don Pino, però vivi. Uno che resiste, dalle retrovie del quartiere Albergheria, è Cosimo Scordato, teologo ed ex rettore della chiesa di San Saverio che sotto la sua guida è stata laboratorio di un esperimento quasi scientifico coi fedeli, qualunque fosse la loro fedina penale. Scordato negli anni ha ospitato Franco Scaldati e il suo teatro, ha narrato la grandezza dello scultore Giacomo Serpotta di cui è il massimo esperto, ha portato all’università ragazzi che prima non arrivavano manco alle elementari, ha aperto la sua chiesa alle assemblee cittadine, ha usato l’accoglienza come arma contro la discriminazione. Dall’albergheria al Congo alla Tanzania, la tela intessuta da Cosimo Scordato è stata fitta e senza strappi: una scuola qui, un pozzo lì, un pronto soccorso da un’altra parte. Sempre in movimento. I soldi non ci sono ma si trovano, perché la fiducia è una forma di fede (in Dio, negli altri, in se stessi). Ed è contagiosa. Questo energico ultrasettantenne è la dimostrazione semplicissima di una cosa complicata: un saggio può essere furbo, difficile il contrario. La saggezza di don Scordato è un incrocio di cultura e passione. La grande preparazione teologica e la curiosità verso l’arte in tutte le forme hanno dato corpo alla sua voce anche in momenti complicati, lo hanno aiutato a navigare controcorrente nei canali impetuosi di una città arcipelago dove le mille isole delle diversità difficilmente vedono un traghetto. La sua furbizia è invece il mezzo col quale ha saputo mettersi al riparo dal fuoco di fila che gli si è scatenato contro ogni volta che ha deciso di affrontare una situazione difficile. Quando, ad esempio, invitò la sua comunità a pregare per una coppia di lesbiche che di lì a poco si sarebbero unite civilmente, si mosse con grande abilità in un campo minato. Fece esattamente quello che voleva, sollevò un problema senza mai pizzicare una dottrina che conosce assai meglio dei suoi detrattori. Non serve la spada quando hai le idee chiare. Colletta alimentare. Anche il presidente Mattarella ha fatto la spesa per i poveri di Giorgio Paolucci Avvenire, 16 novembre 2024 È la prima volta che un capo dello Stato partecipa all’iniziativa donando un pacco al Banco, esattamente come ogni anno fanno altre 5 milioni di persone. Le ragioni di una straordinaria provocazione. È la prima spesa solidale di un capo dello Stato. Ed è anche la prima ad essere stata consegnata al Banco Alimentare in questa Giornata nazionale della Colletta alimentare 2024. Anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha espresso il suo sostegno all’iniziativa, concedendo l’Alto Patronato accompagnato da un pacco grigio, impreziosito dal tricolore. Un gesto significativo di vicinanza e solidarietà. Fino al 30 novembre sarà possibile donare la spesa anche online su alcune piattaforme dedicate: per conoscere le varie modalità di acquisto dei prodotti e i punti vendita aderenti all’iniziativa è possibile consultare il sito colletta.bancoalimentare.it. La Giornata nazionale della Colletta alimentare, che si celebra oggi, la conoscono tutti, non c’è più neppure bisogno di spiegare come funziona. E ormai ha fatto scuola: non si contano le iniziative analoghe promosse in questi anni nei territori da benemerite associazioni, i “tentativi di imitazione”, per dirla con la Settimana enigmistica, la rivista regina dei cruciverba. Eppure quella promossa dal Banco Alimentare mantiene un fascino particolare, la gente l’avverte come qualcosa che è entrato nel cuore degli italiani. I numeri sono eloquenti: 155.000 volontari, 12.000 supermercati coinvolti, 7.600 organizzazioni partner che distribuiscono il cibo donato: mense per i poveri, centri di ascolto, comunità per minori, famiglie... I rapporti di Istat e Caritas sono la documentazione che continua a crescere l’Italia che non ce la fa: 5 milioni 700mila poveri “assoluti”, il 9,7 per cento della popolazione. L’anno scorso hanno partecipato alla Colletta quasi 5 milioni di persone. È un gesto semplice, che travalica le appartenenze, coinvolge italiani e stranieri, gente di ogni età e condizione sociale. Donare carne in scatola, tonno, olio, prodotti per l’infanzia è alla portata di (quasi) tutti, chi scrive può testimoniare di avere incontrato negli anni molte persone sociologicamente definibili come “non abbienti” che in quel giorno si trasformano in piccoli donatori “perché c’è chi sta peggio di me”, “perché io so cosa vuol dire la fatica ad arrivare a fine mese”, perché “vale la pena fare un piccolo sacrificio per gli altri”. È un gesto che nella sua semplicità racconta il desiderio di bene presente nel cuore di ognuno di noi. Ma la Colletta è anche una provocazione. Ci invita ad andare alla radice del significato dei gesti che compiamo magari solo per (buona) abitudine. Nel messaggio per la Giornata mondiale dei poveri (23 novembre) Papa Francesco scrive parole che il Banco Alimentare ha fatto sue riproponendole nel volantino che lancia la Colletta: “I poveri hanno ancora molto da insegnare, perché in una cultura che ha messo al primo posto la ricchezza e spesso sacrifica la dignità delle persone sull’altare dei beni materiali, loro remano contro corrente evidenziando che l’essenziale per la vita è ben altro. [...] [Occorre] un cuore umile, che abbia il coraggio di diventare mendicante. Un cuore pronto a riconoscersi povero e bisognoso. Se la preghiera non si traduce in agire concreto è vana; infatti “la fede senza le opere è morta”. Tuttavia, la carità senza preghiera rischia di diventare filantropia che presto si esaurisce”. Parole che raccontano il senso di un gesto come la Colletta che porta con sé un valore ben più alto delle sue dimensioni economiche. E ci ricordano che la dimensione orizzontale e la dimensione verticale delle nostre esistenze e dei gesti che compiamo devono andare insieme, l’una ha bisogno dell’altra. Il cristianesimo insegna a guardare il prossimo come parte di noi, facendo memoria di Chi ha offerto la sua esistenza per tutti. Gesù ha testimoniato che la condivisione autentica abbraccia tutte le dimensioni dell’umano e porta con sé la cifra che le dà significato. Lo esprime efficacemente lo slogan che accompagna l’attività del Banco Alimentare: “Condividere i bisogni per condividere il senso della vita”. Per questo il gesto semplice della Colletta può diventare una piccola grande scuola di vita. I confini del dissenso di Luigi La Spina La Stampa, 16 novembre 2024 Protestare è legittimo, ma così non si aumentano certamente i consensi per i motivi della protesta e per chi protesta. Il corteo di studenti era partito a Torino con alcune motivazioni sulla riforma Valditara per la scuola e sulle nuove regole dell’Università anche condivisibili, ma, purtroppo è degenerato con forme di violenza inaccettabili. Alla manifestazione si sono aggiunte subito le solite accuse contro Israele e la guerra in Palestina. Anche in questo caso, comprensibili le proteste per come il governo di Netanyahu si sta comportando, ma il modo con il quale lo si è fatto, con alcuni episodi di violenza ingiustificabili, è inammissibile. Non si capisce davvero perché i manifestanti abbiano fatto irruzione al Museo del cinema, alla Mole Antonelliana, simbolo di Torino e di tutti i torinesi, senza distinzioni di parte. Né imbrattare i principali monumenti del centro cittadino ha alcuna motivazione. Senza senso è stato anche l’ingresso violento in alcune sedi private e sono soprattutto gravi alcuni richiami al periodo più oscuro degli anni 70 del secolo scorso, come le tre dita per simboleggiare la pistola P38, un ricordo di quegli spezzoni di Autonomia operaia protagonisti di tanti episodi criminali. Proprio l’esperienza di quegli anni dovrebbe costituire un profondo motivo di riflessione per questi manifestanti d’oggi. Anche allora la protesta, partita dalle università, aveva motivazioni comprensibili, ma col tempo fu egemonizzata da gruppi estremisti che condussero una lotta disperata, sfociata poi in attentati e terribili omicidi. Per fortuna, ora il clima, seppure di tensione, non è certamente paragonabile a quello di quegli anni, ma le ragioni, magari condivisibili dei manifestanti, finiscono vittime di una protesta le cui forme isolano i protagonisti dalla grande maggioranza dell’opinione pubblica. Coloro a cui davvero sta a cuore la sorte dei palestinesi dovrebbero essere i primi a rifiutare che la loro difesa sia strumentalizzata da una protesta che, nelle forme in cui avviene, finisce per comprometterla. Ecco perché è davvero un peccato che il diritto di manifestare, tutelato dalla nostra Costituzione, venga leso da comportamenti che ne intaccano la legittimità. Ddl Sicurezza, la destra strumentalizza i cortei di Daniele Nalbone Il Manifesto, 16 novembre 2024 Le reazioni “Inaccettabili scene di violenza e caos a opera dei soliti facinorosi”, dice Palazzo Chigi. Schlein: “Speculazioni”. “È stato celebrato il No Meloni day all’insegna dell’aggressione alle forze dell’ordine, quando approveremo definitivamente il Ddl sicurezza festeggeremo il Meloni day”. La dichiarazione del sottosegretario alla giustizia Delmastro, in mezzo alle tante degli esponenti di destra, è esemplare per la sua chiarezza. Come si è visto sabato scorso a Bologna, quando dalle ricostruzioni ufficiali è scomparsa la provocazione di Casapound, governo e maggioranza hanno deciso di calvalcare ogni protesta giovanile in funzione dell’approvazione del Ddl sicurezza. E il copione è stato declinato allo stesso modo anche per lo sciopero degli studenti di ieri. Il via libera lo ha dato Meloni che sui social ha parlato di “inaccettabili scene di violenza e caos a opera dei soliti facinorosi”. “Spero che certa politica smetta di proteggere queste violenze e si unisca, senza ambiguità, nella condanna di episodi così gravi e indegni”, ha detto la premier, concetto poi ripreso dal resto degli esponenti della destra di governo, come il ministro dell’Interno Piantedosi, ma con diverse declinazioni: c’è chi accusa il centrosinistra di complicità con “i violenti”, chi Landini per le sue parole sulla rivolta sociale di qualche giorno fa. E poi i soliti epiteti riservati a chi dissente: “frange estremiste”, “criminali stupidi”, “violenza comunista”, “replicanti degli estremisti degli anni 70”, e le ricostruzioni fantasiose. Come quella del senatore di FdI, Speranzon che descrive la “furia cieca di orde di vigliacchi con il passamontagna” mentre il presidente del Senato, La Russa ha visto, oltre all’episodio di Torino, anche “atti intimidatori a Roma, Bologna e Milano”. Anche Edmondo Cirielli, della direzione nazionale Fd’I, descrive una “guerriglia urbana delinquenziale contro il governo Meloni da parte di sedicenti studenti che hanno fatto cose ignobili come assaltare negozi, urlare slogan che vergognosamente richiamavano quelli delle Brigate Rosse, bruciare fantocci”. Il ministro per i rapporti con il Parlamento, Ciriani, sostiene di aver visto “ragazzi fare il segno della P38” e dunque, conclude, è “evidente che i pericoli per la tenuta democratica vengono dall’estremismo di sinistra”. Salvini si affretta a rivendicare l’espressione usata per Bologna: “ecco perché definisco i facinorosi comunisti zecche rosse”. Quanto a Valditara e Bernini, oggetto degli slogan degli studenti, si limitano a richiedere e incassare la solidarietà. Per la ministra dell’Università quanto avvenuto ieri costituisce “l’apice di un clima di odio che andava stroncato subito”. Il ministro all’Istruzione (e merito), invece, prima che ricevesse la notizia degli incidenti a Torino, aveva insolitamente dimostrato di aver capito i motivi della protesta: “qualcuno insanguina le immagini mie con una vernice rossa perché noi saremmo i sostenitori dell’alternanza scuola-lavoro, dello sfruttamento e della dipendenza dalla scuola dall’impresa”. In serata è arrivata la replica indiretta della segretaria del Pd a Meloni: “La violenza è intollerabile, così come la strumentalizzazione politica della violenza”. Lessico da anni 70 e gesto della P38. Ma la politica non è scontro continuo di Danilo Paolini Avvenire, 16 novembre 2024 Troppo giovani per ricordare quegli anni terribili, non abbastanza giovani per essere giustificati. Tra i tanti gesti brutti e da condannare compiuti nei cortei di ieri per il cosiddetto “No Meloni day”, in particolare in quello di Torino, si è rivisto “quel” gesto: l’indice e il medio della mano uniti, il pollice aperto a simboleggiare una pistola, la Walther P38 appunto, arma prediletta dall’estremismo rosso negli anni 70 del secolo scorso. Anni che ogni italiano di buon senso - quali che siano le sue idee politiche - sperava definitivamente archiviati. E invece riecco quel gesto, fatto da studenti che, ripetiamo, sono troppo giovani per ricordare e troppo cresciuti per essere giustificati. Tanto più se spalleggiati da attivisti che a quel passato in qualche modo si rifanno. Siamo dunque stati facili profeti, qualche giorno fa, a sostenere che certe espressioni risuonate di recente nel dibattito politico “ci riportano al lessico del ‘77, alle chiavi inglesi e alle P38”. Nessun merito, ma soltanto la consapevolezza che le atmosfere avvelenate conducono inevitabilmente ad affermazioni sempre più estreme e a manifestazioni sempre più estremiste. Un estremismo che, lo ripetiamo, andrebbe circoscritto a frange ridotte che una democrazia liberale salda nei suoi equilibri istituzionali (anche nella sana dialettica tra maggioranza e opposizione) deve sapere isolare. E deve saper prevenire il possibile contagio in quelli che sono pensati come spazi di libertà e di crescita nel dialogo: le scuole e le università. Il campionario di violenza e prepotenza osservato venerdì 15 novembre, francamente, non rassicura. In primo luogo la deliberata aggressione alle forze dell’ordine a Torino con un petardo urticante che ha mandato in ospedale una ventina di agenti. Bene hanno fatto la segretaria del Pd Elly Schlein e altri esponenti dell’opposizione, come Matteo Renzi e Carlo Calenda, a esprimere subito solidarietà e vicinanza ai poliziotti feriti. Bene ha fatto la premier Giorgia Meloni ad auspicare che tutti condannino la violenza, pur non resistendo alla tentazione di accusare “certa politica” di “proteggere o giustificare queste violenze”. Solo qualche ora prima, tra l’altro, il “suo” sottosegretario alla Giustizia ed esponente di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro affermava di provare “una gioia intima” nel sapere che “non lasciamo respirare chi sta dietro il vetro oscurato” di un nuovo blindato in dotazione alla Polizia penitenziaria. Sembrano questioni distanti tra loro, invece no. Perché lo Stato di diritto deve valere per tutti, altrimenti non è tale. Deve valere per le manifestazioni di piazza, per gli arrestati, per i detenuti, per i cittadini a piede libero, per le forze di polizia. Tutti hanno diritto di respirare, di esistere, di professare le proprie idee. Bisognerebbe spiegare a quei ragazzi che hanno replicato il gesto della P38 (ma evidentemente anche a certi politici) che la politica non è uno scontro continuo, che la sua declinazione secondo le categorie “amico-nemico” è un concetto elaborato tra gli anni 20 e 30 del 1900 dal giurista tedesco Carl Schmitt, il quale non solo aderì al nazismo ma sosteneva che “sovrano è chi governa lo stato di eccezione”. Ecco, per la nostra Costituzione “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti” della Costituzione stessa. Democrazia e Stato di diritto. Dove ci sono avversari e non nemici. Dove bruciare la sagoma di un ministro e dipingere di rosso sangue le foto della presidente del Consiglio sono azioni da condannare unanimemente. Negli anni 70 molte mani esibite nel gesto della P38 finirono per impugnare pistole vere. E spararono. E uccisero. Sul versante opposto, l’idealizzazione distorta di una terribile dittatura tramandata da padri e da nonni si trasformò in altre pistole. E bombe. Che esplosero. E uccisero. Tutti, con le azioni e con le parole, abbiamo il dovere di far sì che quel passato non torni mai più. La narrazione politica della violenza maschile contro le donne è fatta di disinteresse e retorica di Marika Ikonomu Il Domani, 16 novembre 2024 Dai nuovi dati pubblicati da Action Aid e Osservatorio di Pavia emerge una scarsa comunicazione da parte della politica, e più nello specifico del governo, sul fenomeno. E spesso i contenuti sono fuorvianti. Mentre il 98 per cento delle donne e il 95 degli uomini considera rilevante la violenza. L’attenzione sul tema della violenza maschile sulle donne da parte della politica italiana è intermittente e i picchi si registrano in occasione di giornate simboliche o durante momenti chiave dei processi legislativi. È ciò che emerge dai nuovi dati pubblicati da ActionAid con l’Osservatorio di Pavia, su come e quanto comunicano sul tema governo, parlamento ed enti locali. La politica italiana comunica poco sui social in materia di violenza di genere, si legge nel rapporto: solo l’1,2 per cento di 169.572 post pubblicati su Facebook e l’1,5 per cento di 117.487 pubblicati su Instagram in 12 mesi. “Questa scarsità di comunicazione”, scrivono le esperte, “sembra riflettere la mancata priorità assegnata alla violenza maschile contro le donne nell’agenda politica”. Emerge poi un ampio divario di genere nella comunicazione politica sui social. Due post su tre infatti sono pubblicati da donne e, nella maggior parte dei casi, sono del Partito democratico (il 23 per cento su Facebook e il 24 per cento su Instagram), di Fratelli d’Italia (il 23 per cento su entrambe le piattaforme), del Movimento cinque stelle (17 e 14 per cento, rispettivamente su Facebook e Instagram) e della Lega (il 12 per cento su entrambi i social). Ma sono le deputate a pubblicare maggiormente, mentre “la comunicazione politica via social del governo sul tema” risulta “particolarmente scarsa”. “Ancora una volta la violenza è “un affare di donne” anche all’interno delle istituzioni”, ha dichiarato Katia Scannavini, vicesegretaria generale ActionAid Italia. Ma, sottolinea, “la violenza maschile contro le donne è una conseguenza delle disuguaglianze di genere e il suo contrasto deve toccare tutti gli ambiti della politica nazionale. Così non è mai stato”. Contenuti fuorvianti - La presenza di una comunicazione però non significa necessariamente che l’informazione porti a un cambiamento in positivo. “Il livello di approfondimento è nella maggior parte dei casi nullo o scarso, con post che presentano anche contenuti fuorvianti”, si legge nel rapporto. Ad esempio, si fa notare che c’è confusione sul concetto di prevenzione, spesso associato a quello di protezione o che le fonti utilizzate non sono quelle ufficiali. O ancora “ci sono post contenenti dati e definizioni sulla violenza maschile contro le donne che non utilizzano fonti ufficiali”, che contribuiscono “ad alimentare una comunicazione errata sulla dimensione del fenomeno e sulla sua concettualizzazione”. La violenza di genere viene, per esempio, ricondotta a un problema di sicurezza pubblica, per le strade o nei luoghi di lavoro. Alcuni post, invece, contengono “elementi di sessismo benevolo, che interpretano interpretano la relazione tra donne e uomini come una forma di protezione maschile nei confronti delle donne, contribuendo così a rafforzare la cultura patriarcale alla base della violenza in questione”, si evidenzia nel rapporto, che riporta un post di Giovanni Toti, in cui si legge: “Mogli, madri, sorelle, figlie uccise spesso da chi avrebbe dovuto proteggerle, tra le mura di casa”. Questa lettura - sottolineano le associazioni - è frutto della cultura patriarcale, la stessa “in cui affonda le radici la violenza contro le donne”. Formare la classe politica - “Per adottare norme realmente trasformative”, evidenzia Scannavini, “la classe politica deve diventare competente, indipendentemente dal genere o dal ruolo ricoperto. È quindi necessario formare correttamente coloro che legiferano e governano. Ma non solo, la politica passi dalle parole ai fatti, superando le differenze ideologiche e raggiunga una convergenza per approvare una legge che introduca l’educazione sessuale, affettiva e di genere nelle scuole, in linea con le direttive internazionali”. Ciò che accade però è molto diverso: “La violenza contro le donne viene raramente inserita in una cornice di senso più ampia, come - ad esempio - quella dei diritti delle donne o delle politiche per le pari opportunità”, scrivono Action Aid e Osservatorio di Pavia. La ricerca ha anche individuato quali figure politiche sono più attive sui social nella discussione sulla violenza di genere. Prima tra tutte Stefania Ascari, deputata del Movimento cinque stelle e prima firmataria della riforma del Codice rosso del 2019 (legge n. 69/2019), e seconda Martina Semenzato, deputata di Noi Moderati e presidente dell’attuale Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere. Seguono su Instagram Valeria Valente, del Partito democratico ed ex presidente della Commissione sui femminicidi della scorsa legislatura istituita in Senato, e Valentina Ghio (Pd). L’opinione pubblica - Il 92 per cento degli italiani e delle italiane, secondo i dati del rapporto, pensa di essere molto o abbastanza informato sul fenomeno. È ancora più alta la percentuale, il 98 per cento, delle donne a considerare rilevante la violenza, mentre lo è per il 95 per cento degli uomini. La violenza, per il 74 per cento delle persone sentite, è aumentata e per l’80 per cento le misure della politica e le leggi attuali non sono sufficienti a prevenire e contrastare la violenza di genere. Le donne italiane che dichiarato di aver subito violenza verbale, emotiva o fisica da parte di un uomo sono il 36 per cento, in maggioranza ragazze con meno di 25 anni. Ma sono moltissime (84 per cento) le donne che dichiarano di non aver ricevuto o non aver cercato aiuto e sostegno. Perché? “Vergogna, mancanza di informazioni su chi contattare, timore di non ottenere il supporto necessario o paura di ritorsioni da parte dell’autore della violenza”, riporta lo studio. “Tra gli uomini”, invece, “una schiacciante maggioranza allontana da sé il problema: l’84% dice di non aver mai manifestato comportamenti violenti, né fisici né verbali, nei confronti di una donna”. C’è una cosa su cui converge l’attenzione di uomini e donne: si chiede, in egual misura, educazione e sensibilizzazione delle persone, a partire dall’età scolare. “Oltre le parole” - Disinteresse e retorica della narrazione politica. È questo che denunciano le organizzazioni, considerando che la stessa premier, Giorgia Meloni, in un anno ha parlato di violenza sui suoi canali social solo quattro volte. Non basta, concludono, serve che il governo e le istituzioni incidano sulla cultura responsabile del reiterarsi della violenza maschile contro le donne in Italia con interventi strutturali, adeguatamente finanziati e gestiti da personale qualificato, l’introduzione dell’educazione sessuale affettiva nelle scuole. Il problema non sono i migranti. Il problema è lo Stato di Piero Tony* Il Foglio, 16 novembre 2024 Un incontro casuale e un lungo ragionamento, un po’ indignato, un po’ semplicemente razionale, un po’ da uomini di legge un po’ delusi dalla loro professione e molto delusi dalla politica. Napoli villa comunale, fontana dei paperi, sole cocente di un mezzogiorno rovente nonostante sia novembre, qualche giorno fa, per puro caso - viviamo in paesi diversi e siamo a Napoli per un convegno - ho incontrato il mio vecchio amico e collega Sabatino detto Peppiniello, procuratore della Repubblica in pensione. “Hai già letto i giornali di oggi? Hai sentito l’ultima?” mi fa, la stretta di mano è agitata, “siamo alla frutta, sono tutti pazzi”. “Peppiniello mio, le cose da pazzi sono tante, a quale ti riferisci?”. “Ma come a cosa? Alla manfrina del diritto d’asilo, procedure accelerate con rimpatrio immediato se quei poveretti provengono da paese definito sicuro! La sentenza della Corte di Giustizia dell’unione europea del 4 ottobre ultimo scorso, che come tutte le disposizioni indicative dà coordinate flessibili ma precise, dice una cosa ovvia, che un paese è sicuro se tutte le sue parti sono sicure. Il nostro governo nel frattempo si organizza esternalizzando il trattenimento in Albania. Il successivo 18 ottobre il tribunale di Roma, ritenendo insussistenti i presupposti di sicurezza indicati dalla Corte il 4 ottobre, non convalida i decreti di trattenimento in Albania di 12 migranti provenienti chi dal Bangladesh chi dall’Egitto e soccorsi in acque italiane. Allora dimmi tu, cosa poteva ancora succedere?”. “Non ricordo, dillo tu”. “Il 21 successivo viene subito emesso un decreto legge che, in estrema sintesi, fa l’elenco dei paesi sicuri dopo aver premesso che la loro individuazione non è cosa da giudici ma deve essere ritenuta con legge . Non sia mai, il tribunale di Bologna con ordinanza 25 ottobre rivolge un quesito specifico alla stessa Corte di Giustizia per una interpretazione autentica, lunedì 4 novembre anche il tribunale di Catania ritiene di non convalidare il trattenimento di un migrante dall’Egitto per difetto degli estremi indicata dalla Corte e nel contempo rileva l’insignificanza di codesto decreto legge in relazione alla superiore normativa europea. Lo stesso fa il tribunale di Palermo. Ti sembra esagerato definire manfrina un balletto del genere, forse preferisci tarantella o gran casino?”. “Caro Peppiniello, mi pare tutto chiaro, vorrebbero che i giudici fossero obbedienti mezzemaniche e si limitassero a mettere un timbro, un timbro di conformità a quello che decidono loro. Insomma non vogliono che continuino a decidere liberamente sui diritti della gente, caso per caso, secondo le informazioni acquisite; il motivo è il solito, che la giurisdizione ingombra. Meglio per i politici un decreto legge, sicuro si, sicuro no, con ciò possono pontificare imperturbabilmente, e ti sottolineo imperturbabilmente, sulla vita di quei poveretti perché - non l’hanno detto ma è implicito - esisterebbero delicate ragioni di stato di loro esclusiva comprensione e competenza. Ai miei tempi si diceva una parolaccia per indicare qualcosa di inopportunamente in mano ai guaglioni”. “Hai sicuramente ragione. Non è concludente, caro amico mio, che lascino famiglia e paese per luoghi ignoti, che affrontino su una barca scalcagnata il mare che forse non hanno mai visto, che rischino la vita perfino dei loro figli? È pensabile che simulino e che in realtà stiano tornando da una vacanza alle Maldive? Non si deve mai generalizzare, ma non posso non chiedertelo, è pensabile che affrontino tutti codesti rischi per lasciare un paese sicuro, confortevole e di diritto? E poi perché Albania e non Cilento o Salento o Maremma eccetera, più vicini e più a portata di mano e più economici e meno cervellotici quanto a ghirigori di giurisdizione esportata? E poi - fai attenzione - sicuramente non hanno riflettuto a sufficienza, anche perché è sfuggito loro che con una esternalizzazione in altro paese, come non bastasse oltremare, rischiano di fare brutta figura; absit iniuria verbis, per fortuna i tempi sono cambiati, ma un altro paese oltremare sa di deportazione ed evoca subito programmi ghettizzanti tipo Giudecca, Africa Orientale, Madagascar per gli ebrei, Gujana francese per Papillon e Dreyfus, Goli otok per gli avversari politici. Perché tanto impegno? Da che mondo è mondo la migrazione, non solo per il semìno portato dal vento o il pesciolino esotico che ritrovi in costiera, fa parte degli eventi naturali ed è stata da sempre un regolatore naturale delle condizioni tragiche, una naturale valvola di salvezza dalle emergenze di invivibilità, un momento importante del cammino evolutivo. Evento naturale, a differenza di quegli artifìci tipo filo spinato e muri sempre più alti che sono i confini, disegnati più o meno bene a tavolino dal più forte del momento. I confini separano nonostante che il pianeta sia di tutti. Vogliamo ricordare l’origine di americani e australiani eccetera? Oppure che anche noi emergiamo da una lunga storia di migrazioni?”. “Eureka, caro Peppiniello, mi hai dato la chiave di lettura giusta: i ‘respingitori’ sono così incazzati ed impietosi perché i tuoi amici politici hanno paura di fare la fine dei nativi, intendo degli aborigeni”, gli urlo addosso sghignazzando, è fuori dal mio costume e difatti perplesso mi fissa severamente. “Sai” continuo, sperando di distrarlo, “il decreto Paesi sicuri….sicuro si sicuro no... mi ricorda la vicenda del bisnonno di un mio compagno di liceo che voleva fare il corazziere ma era alto solo 182 centimetri e dunque gli mancavano esattamente 10 centimetri di altezza per poter accedere a quel reggimento. Tanto fece e tanto ruppe i cosiddetti agli altolocatissimi di allora - capisci a me - che con regio decreto, in pergamena infiocchettata, venne disposto “...a far tempo dal giorno…. l’aspirante... è alto centimetri 192”. E dunque divenne corazziere. Forma e realtà”. “È proprio così, o almeno c’è il rischio che lo sia. Ma le notizie di oggi mi hanno rovinato la giornata anche per altro; ti ricordi la foto di quel bimbuccio annegato, il corpicino sulla battigia, la solita imbarcazione carica di migranti affondata nella notte? Si commosse giustamente tutto il mondo per quelle foto, per quella tragedia quasi tutti ulularono alla luna strappandosi i capelli. Oggi i giornali parlano della barca affondata qualche giorno fa e quasi tutti si compiacciono perché, per fortuna, su 272 migranti, sono annegati solo 18 bambini e 6 adulti! Capisci? Per fortuna solo 18 bambini! Mondo maledetto! A proposito, ero un giovane ed ardente giudice minorile quando i servizi sociali mi chiesero di allontanare 4 fratellini rom dai genitori, in quanto arrivavano a scuola con vestiti tanto inappropriati e maleodoranti - mi precisarono - da aver suscitato le rimostranze delle altre madri; allorché tomi tomi mi risposero che, pur avendo da anni fatto domanda per un alloggio popolare, abitavano in una baracca senza luce ed acqua nella pineta sull’Aurelia. Urlai più volte, prima e ultima volta nella vita te lo giuro, la parola ragionevolezza, come un ossesso”. “Caro Sabatino detto Peppiniello, ormai il meccanismo è sempre questo, adattamento e rimozione veloci! A dir il vero resi necessari dal fatto che la curiosità pubblica è morbosa, i massmedia si adeguano per ragioni di mercato, il cervello si difende dal cortocircuito; avrai notato che la notizia del femminicidio più efferato al terzo giorno scivola in quarta pagina e al quarto ...scordiamoci il passato; ti sarai accorto che, addirittura, il naufragio di migranti con poche perdite sta diventando una non notizia, come quella del cane di J. B. Bogart che morde l’uomo. E poi perfino io, lo ammetto, qualche volta sono proprio stufo dei migranti. Perché vorrei continuare a vivere tranquillamente al mio paese dove sono nato, nella casa che era di mia madre, con l’orto dove ancora vive la tartaruga che avevano regalato a mio nonno per la promozione in seconda elementare, sotto il campanile che i miei antenati contribuirono a costruire. E invece sono arrivati loro e ho perso la pace, tanto che non mi azzardo più a fare le mie passeggiate serali con la famiglia…”. “Scusa se ti interrompo ma fai di tutta l’erba un fascio, imbecillità e violenza sono ormai diffuse anche tra i nostri giovani ma purtroppo i migranti risaltano di più”. “Sarà, ma la settimana scorsa, in pieno giorno, hanno buttato a terra uno più vecchio di noi con un pugno alla nuca, gli hanno sottratto il portafoglio e perfino il cagnolino chihuahua al guinzaglio, poverino, che mia moglie , da casa, ha sentito guaire disperatamente e a lungo mentre , urlando parole straniere, lo trascinavano chissà dove. Pressappoco la stessa cosa è accaduta tempo fa a un compagno di classe di un mio nipote, una gragnuola di schiaffi da parte di un giovane di colore per prendergli un cellulare appena ricevuto in regalo. Dammi atto che le galere sono strapiene per colpa o merito loro, secondo i punti di vista. Dammi anche atto che sono chiassosi, che parlano urlando, scatarrano per terra perché così fanno al loro paese, camminano per le strade come se fossero i padroni, per un nonnulla esplodono in acting out di prepotenza ed arroganza, spesso sono violenti. Insomma, continuano a sbarcare clandestinamente, manca la sicurezza, non sono il solo a sentirmi quasi spodestato dalla mia città. Mi capisci? Mi dibatto tra due amori, quello verso quelle povere famiglie in barca e l’altro verso il mio sereno campanile”. “Con la tua domanda hai già fornito la risposta, è il cielo che ci ha fatto incontrare stamani. Ora ordiniamo un bel caffè con sfogliatella e poi ti rispondo”. Così è stato, il sole sta già puntando l’Epomeo con chiare intenzioni. “Il problema, tuo e di tanti altri, è legato non ai migranti ma alla sicurezza del campanile ed ai fantasmi, tu senza accorgertene hai parlato di fantasmi e non di migranti, è questo il busillis”, dice Peppiniello mentre appoggia la tazzina sul tavolino. “Per fantasmi intendo clandestini ossia persone senza documenti, identità, domicilio, casa, patria perché, per via di una vecchia e micragnosa legge che consentì qualche ingresso penalizzando tutto il resto, per anni sono arrivati da noi di nascosto attraverso mille peripezie ed imbrogli; persone che, non avendo diritti, almeno ufficialmente possono solo subire; persone senza risorse che non siano quelle microcriminali, persone verso le quali l’approccio può essere solo contenitivo, manette e carcere. Ricordi i clandestini di quella città toscana che, evidentemente sempre più rassegnati, per anni vennero rapinati di quel poco che avevano in tasca senza che qualcuno di loro trovasse il coraggio di denunciare? Il clamoroso processo nacque solo per via di un controllo casuale, emerse che le rapine pomeridiane ai clandestini erano divenute da anni lo sport preferito di una banda di malintenzionati. Fantasmi in balìa del mondo e di se stessi, senza alcun diritto e con un solo interesse prevalente, quello di sopravvivere nascosti e restare sconosciuti; nessun diritto di rivolgersi all’autorità tant’è che confidano nel coltello in tasca, nemmeno il diritto di non essere sfruttati, via Domiziana e Pummarola Valley bastano e avanzano. E a te, amico mio, siccome tiri fuori paroloni tipo ‘acting out di prepotenza ed arroganza?, faccio una domanda! Causa o effetto?”. Lo guardo senza rispondere, mi ha indispettito la domanda e l’aria un po’ da saputello. “Il fatto che siano prepotenti arroganti brutti sporchi e cattivi è causa o effetto dei maltrattamenti che la vita ha loro riservato?” riprende con aria che chissà perché mi pare trionfante, “te lo dico io: è l’effetto, quasi tutti i maltrattati alla lunga diventano brutti e cattivi. È per tutto questo che io mi domando quanto durerà ancora la tragedia dei migranti decimati, l’incomodo dei fantasmi e la sceneggiata dei respingimenti guerreschi e dei rimpatri farlocchi. Quanto durerà ancora, anche tenuto conto che la forbice economica continua a divaricarsi e il cambiamento climatico sta allagando da una parte e desertificando dall’altra? Ipotesi di terzo tipo e toccata di ferro, come reagiremmo se il deserto raggiungesse alcuni paesi che, con l’ultimo filo d’erba, dovessero scegliere tra soccombere o attraversare il mare? Ci rintaneremmo nei rifugi atomici? Ci muniremmo di bombe al neutrone? Non sarebbe più logico già oggi cercare un’altra strada? Non è atto dovuto? “. “Te ne faccio un’altra”, azzardo, ma subito mi pento per l’evidente inconcludenza, “l’Italia è piccola e il mondo è grande, cosa si farà quando non c’entreranno più?”. Peppiniello mi guarda in silenzio mi pare severamente, il sole sta sprofondando dietro l’Epomeo con un ultimo riverbero su Capo Miseno. Per fortuna proprio mentre sorseggiavamo un altro caffè, l’ultimo, senza sfogliatella questa volta, ci siamo trovati d’accordo. Ci siamo trovati d’accordo anche per assoluta mancanza di alternative, in quanto la strada è una sola, ampia e, particolare essenziale, non dissestata da arzigogoli ideologici ma orientata secondo l’articolo 3 della Costituzione ossia secondo ragionevolezza. Perché è davvero bizzarra una guerra ai poveri affinché non entrino nel paese, con migliaia di vittime, quando le imprese a gran voce chiedono maestranze per molti settori. Perché è paradossale che continui a vigere quella micragnosa legge dalle porte ridicolmente strette e nel contempo, per altre vie, si vada ad elemosinare personale sanitario all’estero per inzeppare gli organici, sempre carenti, di ospedali e residenze assistite. Perché insomma è urgente rendere ufficiale e chiaro ciò che è ufficioso e nebuloso, ossia far sparire i fantasmi regolarizzando quelli di loro che non hanno precedenti di polizia e non hanno perso la iniziale motivazione. Perché il passo fatto recentemente dal governo, con i 452mila ingressi previsti dal decreto flussi, pare un apripista molto importante e fa intravedere nuovi orizzonti, anche o soprattutto con corsi professionalizzanti, visto anche che Confindustria ha già richiesto altri 170mila ingressi in più. Perché il mio amico Sabatino detto Peppiniello ha ragione da vendere, i problemi nascono, o possono nascere, non dai migranti ma dal funzionamento dello Stato. La serenità del campanile e la sicurezza delle strade dipendono soprattutto dalla grande accoppiata. Occorre cioè che siano efficienti sia sistema di sicurezza pubblica sia sistema di giustizia, uno solo non basta, devono essere presenti e validi entrambi, come un tempo si diceva dei carabinieri. Dell’efficienza del primo pilastro non si può dubitare perché quasi tutto è sotto controllo continuo. Sono ormai anni che il mondo globalizzato, soprattutto dopo gli attentati terroristici degli ultimi decenni, ha sacrificato la privacy di tutti proprio a tutela della sicurezza. Basti pensare ai miliardi di videocamere interconnesse ed utilizzanti algoritmi AI per il riconoscimento facciale; ai controlli satellitari, anche termici ed anch’essi troppo spesso esternalizzati, sempre più sofisticati e fitti; alle miriadi di banche dati , tutte interconnesse e protette da apparati complessi di cybersecurity; alle intercettazioni preventive o dirette, autorizzate o non autorizzate, ambientali e remote, con microfoni direzionali, microfoni spia, microfoni parabolici etc. etc.; ai sempre più perfezionati motori di ricerca su un mare pressoché infinito di informazioni. Basti pensare, per il nostro paese, ai 350mila appartenenti alle forze dell’ordine, in via di essere integrati. Può pertanto ritenersi che il primo pilastro a tutela di serenità e sicurezza sia presente. Quanto al secondo pilastro, quello del sistema giustizia, la situazione è differente ed impone una urgente riforma radicale, che soprattutto dia la scossa ad un potere giudiziario tanto inguaribilmente lento da evocare, secondo buona letteratura, un sonnacchioso pachiderma o perfino - lo spunto un rinvio di tre anni a udienza fissa con attore ottantaquattrenne - un bradipo depresso. Perché è inutile che la polizia funzioni, se poi l’autore del danneggiamento vandalico per economia processuale non viene incriminato con la formula dell’irrilevanza del fatto; o se il piccolo rapinatore, prontamente arrestato, viene subito rimesso in libertà e dopo 10 anni prosciolto per prescrizione. Tutto ciò rischia di generare un senso di impunità che non può non aggiungersi pericolosamente a quel delirio di onnipotenza, dell’imbecille o del paranoide o dell’immaturo, che tra chi delinque è quasi sempre di casa nelle aule giudiziarie. Riforma urgente del secondo pilastro perché la risposta delle istituzioni, a chi commettendo reati vìola le regole di convivenza, deve essere rapida; “rieduca più una nerbata subito che una severa reclusione tra venti anni” ha scherzato Peppiniello mentre se ne parlava; “meglio di una denuncia una schicchera sull’orecchio o un nocchino sulla capoccia, purché immediati” dicevano nelle campagne marchigiane. Per carità... nerbate schicchere e nocchini sono puniti dal codice... ma una risposta rapida si impone per chi auspica, come noi, che l’ufficioso diventi ufficiale, i fantasmi spariscano e le porte di ingresso si amplino. Per dare una scossa significativa alla giustizia penale - per il settore civile la situazione è già stata migliorata, abbastanza, dall’ultima riforma - non si può prescindere, secondo noi, da interventi stutturali: separazione delle carriere; incremento delle misure interdittive e prescrittive; nei procedimenti con detenuti , non tutti ma solo quelli arrestati in flagranza o confessi, una possibile clausola di provvisoria esecuzione della sentenza di condanna di primo grado - salvi ovviamente i diritti di impugnazione e di risarcimento in caso di assoluzione oltre che i termini di durata massima della custodia cautelare previsti dall’articolo 303 cpp - con norma di raccordo che assicuri continuità a precautelare e cautelare e pena detentiva; una pena detentiva che così, non piombando più dal cielo a bocce ferme, oltre che contenitiva possa tentare di essere davvero rieducativa; abolizione del divieto di reformatio in peius e dell’obbligatorietà dell’azione penale e dell’inappellabilità delle sentenze assolutorie da parte del PM. La razionalizzazione delle possibilità rieducative previste dall’articolo 27 della Costituzione e l’uso, necessariamente pronto ed agile, delle misure interdittive e prescrittive per i reati bagattellari, in forza di codesto alleggerimento di procedure e competenze potranno consentire di affrontare, non più con la tradizionale lentezza ma con efficacia e tempestività, i procedimenti più complessi ed anche le nuove incombenze migratorie a tutela di strade, campanili, passeggiate e tartarughe del nonno. Chi sbaglia paga e subito, chi sbaglia molto paga molto e subito, chi ha grande capacità a delinquere ai sensi e per gli effetti dell’articolo 133 c.2 cp, tanto da risultare di fatto socialmente pericoloso paga ancora di più. Potrebbe essere il primo passo verso l’integrazione e, magari, verso una società in cui il confine di rispetto attorno ad ogni persona prevalga su ogni cosa, compresi i confini amministrativi. *Ex magistrato Ricorsi dei migranti alle Corti d’appello: le perplessità di Forza Italia di Valentina Stella Il Dubbio, 16 novembre 2024 Azzurri scettici sull’emendamento, voluto da Viminale e FdI per “fermare” i Tribunali. Ma il sì al Dl è scontato. Lunedì alle 12 la commissione Affari costituzionali della Camera riprenderà la discussione sul decreto Flussi, nel quale confluiranno anche le norme del decreto Paesi sicuri. La legge di conversione dovrebbe passare in Aula, con la fiducia, il 25 novembre, e passare al Senato. Ma in Forza Italia rimangono ancora forti perplessità sull’emendamento presentato martedì dalla relatrice Sara Kelany, responsabile Immigrazione di Fratelli d’Italia. Come già ampiamente raccontato, la proposta emendativa sottrae alle sezioni Immigrazione dei Tribunali civili la facoltà di decidere sui tratte-nimenti dei migranti da parte del Questore, demandando tutto alle Corti d’appello civili. Da quanto appreso, la modifica, arrivata martedì sera in quello che le opposizioni hanno definito un vero e proprio blitz, sarebbe stata scritta al Viminale e piombata all’ultimo istante sul vertice di maggioranza. L’iniziativa ha raccolto ovviamente la forte opposizione non solo dell’Anm ma anche, com’è ovvio, di Pd, Movimento 5 Stelle e + Europa. Ai quali, appunto, si devono aggiungere un po’ di malumori tra gli esponenti di FI. Il primo a esprimersi, quando la polemica era nel pieno, era stato, mercoledì, Pierantonio Zanettin, capogruppo Giustizia degli azzurri al Senato, che aveva dichiarato: “Questa proposta potrebbe avere una sua astratta plausibilità per risolvere i contrasti giurisprudenziali emersi nei giorni scorsi, ma credo necessiti ancora di un approfondimento di natura tecnica. Ci confronteremo con il ministro Nordio e sicuramente individueremo la soluzione più idonea”. L’incontro col numero uno di via Arenula al momento però non sembra ci sarà, anche perché sia il guardasigilli che la premier Giorgia Meloni non hanno alcuna voglia di arretrare sulla questione, nonostante le disapplicazioni continue e i rinvii alla Cgue da parte della magistratura. Tuttavia il gruppo di Forza Italia alla Camera continua a non essere pienamente in sintonia con l’iniziativa della meloniana Kelany. Innanzitutto la proposta emendativa della relatrice non era stata concordata con gli alleati. E poi, essendo arrivata all’ultimo momento, ha provocato complicazioni rispetto all’iter già di per sé impegnativo del Dl Flussi: ha imposto, fra l’altro, di fissare un termine per la presentazione dei subemendamenti. Terzo punto: gli esponenti del partito guidato da Antonio Tajani sono sicuramente d’accordo sulla necessità di una mossa per dare una risposta alle recenti decisioni dei giudici che non hanno convalidato i trattenimenti in Albania, anche solo per mostrare all’opinione pubblica un riscatto rispetto alle difficoltà del progetto di Meloni e del premier albanese Edi Rama. Ma i forzisti sono ben consapevoli anche del fatto che nelle Corti d’appello si verrà a creare un ingorgo, e per questo avrebbero voluto che il ricorso contro i trattenimenti predisposti dal Questore fosse affidato alle competenze del Tar. La proposta era già emersa dopo che più toghe avevano disapplicato il Dl Cutro, ma poi era stata accantonata. Ricordiamo che, prima ancora dell’emendamento Kelany, nel decreto Flussi è stato ripristinato il reclamo in Corte d’appello, abolito nel 2017, contro i provvedimenti dei Tribunali distrettuali in materia di protezione internazionale dei migranti. Quando la norma era passata in Consiglio dei ministri lo scorso 2 ottobre, immediata era stata la reazione dei 26 presidenti delle Corti di Appello che, in una lettera alla premier, a Nordio, al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e al Csm, avevano lanciato l’allarme: la previsione “renderebbe assolutamente ingestibili i settori civili di tutte le Corti d’appello, impegnate, con ridotti organici di magistrati e di personale amministrativo, nello sforzo di raggiungere gli obiettivi del Pnrr per la Giustizia, in particolare quello della riduzione dei tempi processuali”. Tempi che “con la introduzione della nuova fase processuale d’appello, si allungherebbero a dismisura proprio per le cause civili oggetto degli impegni verso l’Unione europea”, avevano concluso le toghe. Appello rimasto inascoltato, sebbene non fosse passato inosservato a Forza Italia, che avrebbe voluto cancellare quella modifica. Adesso il compito delle Corti d’appello civili sarà maggiormente gravato da quanto previsto, appunto, dall’emendamento Kelany, che verrà certamente approvato dall’intera maggioranza, ma con un po’ di mal di pancia dentro FI. Critiche al “trasferimento” dalle sezioni Immigrazioni di primo grado ai giudici d’appello sono arrivate anche dall’Unione Camere penali, che definiscono la scelta “irrazionale e pericolosa”. Scrivono gli avvocati guidati da Francesco Petrelli: l’emendamento si basa “sul persistente convincimento delle forze politiche di maggioranza che le decisioni assunte dai giudici su questo argomento siano dettate da ragioni politiche e rappresentino una violazione del principio di separazione dei poteri dello Stato. Lo scopo appare essere quello di cercare un giudice “non politicizzato” per superare il problema. Come già chiarito in una precedente nota dell’Ucpi, i giudici si sono limitati ad applicare il diritto eurounitario”.