La nuova frontiera del carcere: la novità del “negoziatore” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 novembre 2024 In un momento storico in cui il sistema penitenziario italiano sembra orientarsi sempre più verso un approccio panpenalista nella gestione delle criticità carcerarie, emerge almeno un segnale in controtendenza. Il Ministero della Giustizia ha infatti presentato una bozza di decreto ministeriale che introduce, per la prima volta nella storia della Polizia Penitenziaria, la figura del “negoziatore”. Una novità che, se non risolve i problemi strutturali del sistema, almeno introduce uno strumento di mediazione finora mancante nel nostro ordinamento penitenziario. Il documento, attualmente in fase di consultazione con le organizzazioni sindacali, delinea un ruolo cruciale destinato a trasformare l’approccio alla gestione degli eventi critici nelle carceri italiane. La proposta nasce da un’esigenza concreta e sempre più pressante: la necessità di gestire in modo efficace e non conflittuale quelle situazioni particolarmente complesse che possono turbare gravemente l’ordine e la sicurezza degli istituti penitenziari. Il decreto, attualmente in fase di consultazione con le organizzazioni sindacali, delinea un quadro normativo dettagliato per questa nuova specializzazione, definendone compiti, requisiti e percorsi formativi. Ma chi è e cosa fa esattamente un negoziatore penitenziario? Il decreto lo descrive come una figura altamente specializzata, il cui compito principale è quello di intervenire nelle situazioni più delicate che possono verificarsi all’interno delle carceri. Il suo ruolo non si limita alla mera gestione della crisi, ma si estende a un approccio più ampio e sofisticato: deve saper favorire la de- escalation emotiva dei soggetti coinvolti, contenere le minacce, guadagnare tempo prezioso e, soprattutto, creare le condizioni per una risoluzione pacifica delle situazioni più critiche. L’aspetto più innovativo del decreto è la creazione di due livelli di specializzazione. Il negoziatore di primo livello è l’operatore sul campo, colui che interviene direttamente nelle situazioni di crisi. Ma c’è anche un negoziatore di secondo livello, una figura più esperta e qualificata che non solo fornisce supporto costante ai colleghi di primo livello, ma assume anche il ruolo di istruttore e formatore. Questo secondo livello rappresenta il vertice della specializzazione, interviene personalmente solo nei casi di eccezionale gravità e contribuisce attivamente al miglioramento continuo delle procedure operative. La struttura organizzativa prevista dal decreto è altrettanto accurata. I negoziatori saranno incardinati in tre strutture principali del Corpo: il Gruppo Operativo Mobile, il Nucleo Investigativo Centrale e il Gruppo di Intervento Operativo. Questa scelta non è casuale, ma risponde all’esigenza di integrare la nuova figura all’interno delle unità già esistenti e più preparate alla gestione delle situazioni critiche. Il percorso da fare Il decreto stabilisce requisiti rigorosi: potranno accedere solo gli appartenenti ai ruoli degli ispettori e dei sovrintendenti con almeno cinque anni di servizio alle spalle e un curriculum impeccabile. Non basterà l’anzianità: serviranno valutazioni di “ottimo” negli ultimi tre anni e l’assenza di procedimenti penali o disciplinari. Ma è sulla formazione che il decreto pone particolare enfasi: tre settimane di corso specialistico, esame finale e un anno di prova. Chi supera questo percorso dovrà poi impegnarsi a rimanere nel ruolo per almeno quattro anni, garantendo così continuità e stabilità al servizio. Ancora più selettivo il percorso per diventare negoziatore di secondo livello: serviranno almeno due anni di esperienza come negoziatore di primo livello e il superamento di ulteriori prove selettive, seguito da un corso specifico di una settimana. Un percorso di eccellenza per formare figure di alto profilo professionale. “Concettualmente non è un’idea sbagliata”, commenta Gennarino De Fazio, segretario della UIL Polizia Penitenziaria, interpellato sulla novità. “Il negoziatore è una figura già presente nelle altre forze di polizia, fondamentale per stemperare situazioni di tensione. È uno strumento utile che permette di gestire le crisi senza dover ricorrere a modalità repressive”. Le parole di De Fazio sottolineano come questa innovazione possa rappresentare un importante passo avanti nella modernizzazione del sistema penitenziario italiano. Il decreto non si limita a introdurre i negoziatori specializzati, ma prevede anche la formazione di “operatori di supporto alla negoziazione” nei reparti territoriali. Questi agenti, pur mantenendo le loro normali funzioni, saranno addestrati per gestire eventi critici di minore entità e fornire supporto immediato ai negoziatori specializzati quando necessario. Una rete capillare di professionalità che potrà fare la differenza nella gestione quotidiana delle criticità. Un aspetto fondamentale del decreto riguarda la distinzione tra l’attività di negoziazione e la responsabilità decisionale. Il negoziatore, pur avendo un ruolo cruciale nella gestione della crisi, non ha il potere di prendere decisioni strategiche che vadano oltre la mera operatività tecnica. Queste restano di competenza dell’autorità responsabile, creando così un sistema di checks and balances che garantisce un processo decisionale ponderato e responsabile. Il decreto prevede anche l’elaborazione di specifici protocolli operativi che definiranno nel dettaglio le procedure di intervento e l’organizzazione delle strutture di negoziazione. Un aspetto questo non secondario, che permetterà di standardizzare le procedure e garantire un’uniformità di intervento su tutto il territorio nazionale. Le organizzazioni sindacali hanno avuto tempo fino a ieri per presentare le loro osservazioni sulla bozza. Solo dopo questa fase di consultazione, e dopo aver recepito eventuali suggerimenti e modifiche, il decreto potrà entrare in vigore. Rimane il paradosso del reato di rivolta - L’introduzione del negoziatore nelle carceri, pur non risolvendo i problemi strutturali del sistema penitenziario italiano, segna un cambio di approccio verso il dialogo piuttosto che la repressione. Questa novità si scontra però con l’introduzione del reato di rivolta, anche “passiva”, nel decreto sicurezza. Ed è interessante riprendere l’analisi Gennarino De Fazio, segretario della UIL Polizia Penitenziaria, dove solleva un’obiezione tanto sottile quanto dirompente sul nuovo reato di rivolta carceraria introdotto dal decreto sicurezza. La sua analisi, nata su invito delle camere penali, parte da un problema apparentemente tecnico per giungere a una conclusione che mette in discussione l’intero sistema penitenziario italiano. Il decreto non definisce cosa costituisca una “rivolta”, un termine assente nel nostro ordinamento penale. Consultando i dizionari, emerge che la rivolta è una “ribellione collettiva contro l’ordine costituito”. Ma qui sta il paradosso: come si può violare un ordine che, di fatto, non esiste? Le carceri italiane, infatti, operano spesso nell’illegalità, violando diritti fondamentali e non assolvendo alla funzione rieducativa prevista dalla Costituzione. In questo contesto, sostiene De Fazio, il reato di rivolta diventa tecnicamente “impossibile”: non ci si può ribellare contro regole che per prime non vengono rispettate da chi dovrebbe garantirle. De Fazio si spinge quindi fino a mettere in dubbio la legittimità stessa del sistema carcerario attuale, suggerendo che in queste condizioni potrebbe persino essere discutibile la base giuridica che ne giustifica l’esistenza. È un’analisi che va ben oltre la critica tecnica a una singola norma. Mette in luce una contraddizione sistemica: come può lo Stato punire la violazione dell’ordine in strutture dove è lo Stato stesso a non rispettare l’ordine che dovrebbe garantire? È una domanda che interroga non solo i giuristi, ma l’intera società civile sul senso e sulla legittimità del nostro sistema penitenziario. Controllo e trattamento insieme. La svolta che serve agli Istituti penali minorili di Girolamo Monaco* Avvenire, 15 novembre 2024 Ma che cosa è che non funziona oggi negli Istituti penali minorili italiani? In questi mesi ci siamo concentrati sulle cause esterne: la delinquenza minorile, le baby gang, i minori stranieri non accompagnati, i giovani adulti, i soggetti psichiatrici, i tossicodipendenti, e, in ultimo, il cosiddetto decreto Caivano. Abbiamo, cioè, individuato fuori di noi i motivi dei nostri mali. Oggi ritengo necessario uno sforzo introspettivo. Voglio partire dalla mia esperienza: ho sempre posto la massima attenzione al benessere del personale in servizio, nella convinzione che proprio il benessere è funzione direttamente proporzionale al pieno assolvimento del mandato istituzionale della struttura rieducativa. La rieducazione è infatti il prodotto professionale di operatori impegnati, coordinati, motivati, mai disinteressati, isolati, demotivati; Operatori che colgono il senso del loro agire, il vincolo del dovere e la presenza di un orientamento. L’Istituto penale per i minorenni è un sistema sinergico. Qui si gioca la sua efficacia. Qui è, a mio parere, la causa del suo odierno malessere. Il carcere minorile non ha parti separate, l’una posta di fronte all’altra come ad avere compiti e obiettivi diversi, il carcere è una struttura che ha una sola finalità (che è la rieducazione e il reinserimento sociale del reo) al servizio della società, per il bene comune. Qualcosa ha minato l’unità di questa struttura, come se un collasso interno avesse separato ordine e sicurezza, trattamento e reinserimento sociale, tempo della pena e tempo della progettualità. Il personale che lavora dentro gli istituti penali è in sofferenza e disorientato, e non è solo una questione di carenza di organico, non è solo una questione relativa alla qualità umana dei singoli operatori, non è assolutamente un fatto di demotivazione. Le parti della struttura si sono irrigidite, non armonizzate; e tutto questo non per cattiva volontà delle persone, ma per un disturbo interno alle cose che invecchiano e si irrigidiscono, perdono flessibilità e capacità di adattamento. Quello che una volta parlava ora non parla più, quello che una volta si univa ora si separa. Si è persa, come dire, la ratio del sistema, il motivo unificante, l’orientamento e la focalizzazione, la coerenza interna che non è solo un prodotto di linee guida e circolari esplicative, ma cultura, condivisione di saperi e valori, l’idea del gruppo di lavoro e la condivisione delle prassi. È diventata dominante dentro i nostri Ipm una cultura (che non è cultura di valori, ma prassi burocratica) della separazione dei ruoli e dei compiti, un sistema dualistico che non ha chiarito, ma irrigidito, non ha resto funzionale, ma irrazionale e contraddittorio. La diversificazione dei compiti degli operatori ha purtroppo alimentato la separazione delle azioni del sistema. Il nostro servizio ha finalità rieducative ed è centrato sugli utenti; non può quindi avere struttura dicotomica al suo interno, così come un corpo non può avere due anime, ma un solo timone ed una sola mappa per la guida. Gli addetti ai lavori sicuramente intendono di cosa parlo. Sicurezza e trattamento non sono due cose diverse, ma complementari, così complementari che si unificano. Si unificano e si identificano. Questa è la mia convinta opinione. L’aver accentuato le specificità dei ruoli non ha messo le basi per un progetto di Istituto coerente e unitario, ma ha generato commistioni e confusione. La logica delle due componenti (una addetta alla sicurezza, l’altra addetta al trattamento) in una struttura così necessitante di coerenza ed unità di intenti si è rivelata inefficace. Aver mutuato modelli di strutture complesse e rigide ha compromesso la nostra specificità rieducativa. Allora il lavoro è tutto interno alle nostre strutture, riunificando, dentro il fare professionale di operatori diversi ma sinergici, i valori e le azioni, il concetto della sicurezza, il significato della pena, offrendo, una buona volta e per il futuro, risposta a questa domanda: a che serve il carcere minorile? Cosa riprendere per superare questa crisi? Il dialogo dentro la struttura, a partire dalla dimensione fisica: ufficio del direttore e ufficio del comandante vicini. Proprio uno accanto l’altro, in continuo dialogo. Ufficio degli educatori dentro la sezione, accanto all’ufficio del sanitario, vicino alla scuola. Bisogna ritornare all’idea che l’unità (e quindi l’efficacia di un servizio) è innanzitutto un fatto fisico, proprio così: un fatto fisico sul quale le persone devono lavorare molto, perché ogni efficacia, ogni unità, ogni successo lavorativo passa attraverso la buona volontà delle persone che devono investire energie ed intelligenze per mettersi in gioco non solo come individui, ma soprattutto come membri di un unico gruppo di lavoro, di un unico Servizio. Per fare gruppo bisogna stare insieme, e attraverso lo stare insieme capire che Operatori di Polizia e Operatori Sociali fanno lo stesso mestiere, con la stessa utenza e con gli stessi obiettivi. Il carcere minorile è un servizio sociale, posto al servizio della società. Bisogna quindi partire dal lavorare sulla fisicità della presenza e dello stare l’uno accanto all’altro, iniziare dal condividere gli spazi, proprio gli spazi fisici: uffici, cortile, aule, sezione. La vicinanza favorirà l’affiatamento degli operatori e questo determinerà la focalizzazione sull’utenza, sui bisogni da questa portati e quindi l’individuazione di strumenti per rispondere e superare i disagi. Perché ogni disagio nasce da un bisogno che non ha avuto risposta. Il disagio è proprio la manifestazione perversa di un bisogno legittimo. Operatori fisicamente vicini capiranno che Sicurezza e Trattamento sono termini anch’essi vicini, complementari, molte volte sinonimi. Sicurezza e Trattamento si identificano. Gli addetti ai lavori capiranno benissimo quello che intendo dire. Non credo che questa chiave di lettura sia così semplicistica da mancare di fondamento reale. *Direttore Istituto Penale Minorile di Treviso Perché loro e non io? A Roma il convegno “Giustizia e speranza” della Caritas Italiana L’Osservatore Romano, 15 novembre 2024 “Fuori dal carcere, il prima possibile e accompagnati” è la via doverosa per affrontare il problema della pena e del reinserimento. È l’assunto della Caritas Italiana, che ha organizzato il convegno Giustizia e speranza: la comunità cristiana tra carcere e territorio, svoltosi il 13 novembre a Roma, presso l’Auditorium della Chiesa di Santa Maria degli Angeli. “Un incontro per riflettere sulle condizioni di vita all’interno delle strutture detentive e sul ruolo che la comunità cristiana può e deve avere nella costruzione di percorsi di riscatto e integrazione”, ha spiegato monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia e presidente di Caritas Italiana, che ha aperto l’incontro, moderato da Daniela De Robert, giornalista, della Direzione Rai per la Sostenibilità. Monsignor Redaelli ha citato Papa Francesco che, nella Bolla di indizione del prossimo Giubileo dedicato al tema della speranza, Spes non confundit, invita a essere “segni tangibili di speranza” anche per i detenuti, promuovendo, tra le altre cose, forme di amnistia o di condono e percorsi di reinserimento nella società. Secondo l’esperienza di molte Caritas e di tante altre realtà di volontariato, uscire il prima possibile dal carcere significa limitare gli effetti negativi della detenzione, che hanno ripercussioni sfavorevoli anche sui familiari, in particolare sui figli minorenni. Partiamo dai dati: attualmente, i 189 istituti penitenziari italiani ospitano 61.862 persone su una capienza di 51.196 posti; tra queste, 45.404 stanno scontando una condanna definitiva (le altre sono in attesa di giudizio). Per completare il quadro vanno aggiunte le 140.718 persone in carico agli Uffici di esecuzione penale esterna, di cui 91.369 stanno scontando una pena fuori dal carcere, il doppio di quelle recluse condannate. Ciò significa che su un detenuto che è in carcere, due sono fuori. “Questo non deve assolutamente allarmare”, ha asserito monsignor Redaelli, “perché gli studi sulla recidiva, ossia il numero di persone che, dopo cinque anni dal fine pena, commettono un nuovo reato, è nettamente più basso per coloro che hanno scontato tutta o in parte la loro pena fuori dall’istituto penitenziario, e anche i costi sono nettamente inferiori rispetto alla detenzione in cella”. Un vantaggio sotto tutti i punti di vista, dunque. Senza contare gli effetti drammatici delle condizioni carcerarie in termini di suicidi, la cui incidenza è dodici volte superiore alla media della popolazione (80 al 6 novembre 2024). “Lo strumento penale dovrebbe intervenire solo per quelle situazioni ove non sia possibile agire altrimenti e, invece, si espande a dismisura, e nella sua versione più dura, inflessibile, che non consente ritorni”, ha affermato Mauro Palma, presidente del Centro di ricerca European Penological Center dell’Università Roma Tre. “L’affidamento al penale è il risultato di un doppio fallimento: il fallimento delle regolazioni sociali intermedie, di spazi di comunicazione sociale, e il fallimento delle risposte, seccamente ristrette alla mera detenzione. Le attuali condizioni detentive sono sintetizzabili in quattro parole: affollamento, chiusura, tensione, fragilità, conseguenti e concatenate”. Nell’incontro si è parlato del ruolo della comunità nelle strutture di reclusione, del servizio sul territorio a sostegno delle persone in misure alternative alla detenzione e dell’impegno per costruire un modo differente di fare giustizia. La Chiesa italiana, in particolare attraverso le Caritas, è attiva in molte iniziative, sia dentro che fuori dal carcere. In concreto, per quanto riguarda l’interno, come hanno illustrato Rosa D’Arca del Vic (Volontari in carcere) e don Rosario Petrone, cappellano del carcere di Salerno, viene offerto ascolto individuale, sostegno psicologico, supporto spirituale, distribuzione di beni di prima necessità, percorsi educativi, attività di gruppo, formazione professionalizzante, laboratori occupazionali e ricreativi. Per quanto riguarda l’esterno, operatori e volontari offrono accoglienze residenziali per chi non ha una casa, percorsi di inserimento lavorativo, accompagnamento educativo, sostegno alle famiglie, supporto ai figli dei detenuti. Della comunità che lavora sul territorio hanno parlato Lucia Castellano, provveditrice dell’Amministrazione penitenziaria della Campania, per la quale è necessario un rapporto continuo di condivisione fra tutti gli attori coinvolti, e Alessandro Ongaro, della Caritas diocesana di Verona, che ha approfondito il tema della giustizia riparativa, un approccio che mostra come nell’incontro fra l’autore dell’offesa e la vittima possa avvenire quel riconoscimento reciproco di bisogni e sentimenti che è alla base della costruzione di legami solidi anche dopo eventi gravi. I lavori della mattinata si sono conclusi con l’intervento del cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana. Zuppi ha introdotto temi quali quello della cultura, necessaria perché permette di analizzare in modo corretto i fenomeni e di evitare un linguaggio inappropriato, con espressioni come “speriamo che marcisca in carcere”, frutto di ignoranza; della sicurezza, “che non si può regalare agli sceriffi di turno”; delle pene alternative, che “sono importanti ma devono avere le coperture necessarie in termini economici, di spazi e di strumenti”; di lavoro, “uno vero, che sia in grado di garantire condizioni dignitose”; di spiritualità, “una dimensione che bisogna sviluppare, uno dei più grandi aiuti che possiamo dare a chi è in carcere”; di attenzione, necessaria anche per le vittime. E ha concluso invitando i partecipanti, come fa Papa Francesco ogni volta che entra in carcere, a porsi la domanda: “Perché loro e non io?”. I lavori sono proseguiti nel pomeriggio con sessioni tematiche di approfondimento. Nelle carceri italiane una cella su dieci è inagibile di Riccardo Saporiti wired.it, 15 novembre 2024 Wired ha estratto i dati del ministero della Giustizia: sono più di 2.800 le celle definite “non disponibili”. Circa il doppio di quelle che lo stesso dicastero considera “fisiologiche”. Anche al netto delle 29 celle del carcere femminile di Pozzuoli, rimaste vuote dacché la struttura è stata chiusa a fine maggio a causa dei danni provocati dallo sciame sismico dei Campi Flegrei, nelle carceri italiane ci sono 2.837 stanze di detenzione non disponibili. Esatto, celle vuote in un sistema che soffre per il sovraffollamento, causa di suicidi e atti di autolesionismo da parte dei detenuti. Le celle non disponibili - È lo stesso ministero della Giustizia a pubblicare sul proprio sito i dati relativi alle celle non disponibili. Non si tratta di opendata: Wired li ha ottenuti grazie all’impegno dell’associazione onData nell’ambito dell’iniziativa Liberiamoli tutti, una campagna di apertura dei dati della pubblica amministrazione italiana. In totale, alla data del 12 ottobre scorso, sono 120 su 189 i penitenziari italiani (sempre esclusa Pozzuoli) in cui almeno una stanza di detenzione non è disponibile, come mostra la mappa sottostante. Le situazioni più gravi si registrano ad Alba, in provincia di Cuneo, dove il 76,8% delle celle non sono agibili. Seguono Fossombrone (Pesaro e Urbino) con il 65,9%, Arezzo con il 64,9%, Sciacca (Agrigento) con il 64% e Livorno con il 60,5%. Anche se forse quella maggiormente problematica riguarda San Vittore a Milano: qui al 12 ottobre c’erano 197 stanze non disponibili su un totale di 492, circostanza che riduceva la capienza da 700 detenuti a 447. Quelli effettivamente presenti erano però 1.022, ovvero il 228,6% rispetto alla capienza effettiva. Sì, più del doppio. Gli interventi di manutenzione - Ma perché tutte queste celle non sono agibili? Esiste un piano di manutenzioni che ne preveda il ripristino? Ci sono degli stanziamenti? Tutte domande che Wired ha girato al ministero della Giustizia, che però non ha mai risposto. “In realtà il fenomeno non è tanto patologico”, spiega invece Alessio Scandurra, coordinatore nazionale dell’Osservatorio Antigone sulle condizioni di detenzione. “Quando si ha uno stock di 190 istituti penitenziari e migliaia di celle [31.927 per l’esattezza, ndr] è abbastanza normale”, prosegue, “può succedere che in una si rompa il termosifone o che in una sezione si guasti l’impianto idrico. Quindi, periodicamente, devi chiudere e ristrutturare”. Certo, ci sono anche casi in cui si può parlare di fenomeno patologico: “penso per esempio al carcere di Sollicciano a Firenze o a quello di Arezzo, buona parte del quale è chiuso da 15 anni per ristrutturazione”. Ora, chi deve occuparsi delle manutenzioni? “Ogni singolo istituto ha un budget ordinario con cui paga dei detenuti che lavorano e manutengono il fabbricato. Ma questo consente di imbiancare o svolgere piccoli interventi elettrici o idraulici”, spiega sempre Scandurra, “quando invece servono interventi più costosi e significativi, la direzione deve chiedere fondi ad hoc e il permesso di intervenire”. Il tema è capire dove spostare i detenuti che occupano le celle oggetto di intervento, tenendo conto del fatto che “le persone hanno il diritto di scontare la pena non lontano da dove vivono i famigliari”. Nella relazione presentata lo scorso 24 gennaio in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il ministero afferma di aver stanziato dei fondi, pur non quantificandoli, per le manutenzioni. Risorse messe a disposizione con l’obiettivo di “tendere al raggiungimento della soglia fisiologica del 5% di posti indisponibili, quota percentuale legata all’espletamento dei normali cicli di manutenzione ordinaria dei fabbricati (cadenza ventennale)”. Il 5% di celle indisponibili significherebbe 1.596, mentre al 12 ottobre erano 2.837. Il 5% di posti indisponibili vorrebbe dire 2.560, mentre al 12 ottobre erano 4.437. L’obiettivo, insomma, è ancora lontano. Soprattutto se si tiene conto che mentre il sistema penitenziario italiano è pensato per accogliere poco più di 51mila persone, oggi i detenuti italiani sono quasi 62mila. Le soluzioni possibili - Sempre nella relazione presentata in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il ministero citava una serie di interventi di ampliamento in corso in diversi istituti penitenziari. In particolare si tratta due nuovi padiglioni da 400 posti, uno al carcere milanese di Opera, l’altro nel nuovo complesso di Rebibbia a Roma, con quest’ultimo che dovrebbe essere completato entro il 2024. Ci sono poi tre padiglioni da 200 posti in costruzione rispettivamente a Bollate, nel milanese, a Bologna, dove l’apertura è prevista per il 2025, e a Sulmona (L’Aquila). A Forlì entro il 2025 sarà completato un nuovo istituto da 250 posti, è in corso un ampliamento da 220 posti a Brescia Verziano ed entro cinque anni sarà pronto un nuovo istituto a San Vito al Tagliamento (Pordenone) capace di accogliere 300 persone. Sono poi in costruzione un padiglione da 92 posti per detenuti al 41-bis nella casa circondariale di Cagliari e 30 per una sezione a custodia attenuata nel carcere minorile di Lecce Monteroni. Si tratta, in totale, di 2.292 nuovi posti. Non sufficienti a risolvere il problema del sovraffollamento, ma capaci di assorbire una quota significativa di quei detenuti oggi stretti in celle non adatte ad ospitarli tutti. A questi si uniscono otto interventi per complessivi 84 milioni di euro in istituti già esistenti, finanziati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che però la relazione non specifica se aumenteranno la capienza delle carceri. Per completare questi cantieri, però, ci vogliono anni. E l’emergenza sovraffollamento è invece un tema attuale: ci sono soluzioni più veloci? Detto che la maggioranza attuale è contraria ad un provvedimento di indulto, “occorre agire per abbassare il tasso di recidiva”, afferma Scandurra. Secondo dati del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, raccolti e distribuiti dalla stessa Antigone, nel 2021 il 62% delle persone detenute erano già state in carcere. “Siamo immersi in un circolo più che vizioso: il sovraffollamento è causato da un alto numero di persone che tornano in carcere per l’ennesima volta, così che l’inefficacia del sistema a garantire il loro reinserimento diventa il motivo per cui ci sono più detenuti che spazi disponibili nelle celle”. Si tratterebbe insomma di investire per rendere effettiva la previsione dell’articolo 27 della Costituzione, in cui si dice che le pene detentive “devono tendere alla rieducazione del condannato”. La rabbia contro i magistrati di Paolo Luca* Corriere dell’Alto Adige, 15 novembre 2024 Continuano gli attacchi rabbiosi del fronte governativo contro la magistratura per le decisioni sgradite in materia di immigrazione. La colpa, sostiene tra gli altri il ministro e vice presidente del consiglio Salvini, è dei giudici comunisti, che fanno politica senza averne titolo, in quanto non legittimati dal voto popolare. Gli fa eco addirittura Elon Musk, affermando che “questi giudici se ne devono andare”. Nella visione di chi attualmente guida il Paese, e non solo, la magistratura dovrebbe assecondare l’azione di governo, allineandosi al potere esecutivo in posizione collaterale e servente, divenendone, si potrebbe dire, il cane da guardia. Silvia Albano, una dei giudici nel mirino, è stata costretta a sottolineare che “In tasca non abbiamo il libretto di Mao né il Capitale di Marx, ma la Costituzione”. Una precisazione necessaria, rivolta soprattutto all’opinione pubblica, disorientata dal crescente clima conflittuale e indotta alla sfiducia verso chi esercita il potere giudiziario. Il ruolo della magistratura, la posizione del singolo magistrato, sono da almeno due secoli, in ogni società sviluppata, un momento di sofferenza istituzionale. Non che gli altri istituti godano al contrario di buona salute. Parlamenti inconcludenti e litigiosi, governi incapaci di dirigere, pubblica amministrazione indolente ed irresponsabile sono i rilievi mossi in ogni tempo e in ogni dove a questo o quel potere, a questo o a quell’organismo. Ma queste sono patologie del sistema, rispetto alle quali sono prospettabili, e talvolta realizzate, soluzioni positive. Quello della funzione giudiziaria è, invece, un malessere fisiologico, che stenta a trovare rimedi soddisfacenti nei meccanismi istituzionali. Ciò dipende dal carattere proprio dello ius dicere, che non può agire in base al principio cardine di ogni democrazia, quello di maggioranza. Al volere della maggioranza spetta stabilire che non si deve rubare, non accertare se in una particolare situazione Tizio abbia o meno rubato. Proprio perché la legittimità del giudizio risiede nelle garanzie dell’imparziale accertamento dei fatti, essa non può dipendere dal consenso della maggioranza che certamente non rende vero ciò che è falso né falso ciò che è vero. Si può, si deve giudicare in nome del popolo, ma il popolo non può giudicare. A maggioranza non si stabilisce la ragione o il torto. Lasciando il compito ad un organo imparziale si difende il popolo eterno, quello che trova la sua identità nei principi della Costituzione, dal popolo attuale delle maggioranze occasionali e volubili. Necessità di un organo terzo non espressione della maggioranza ed esigenza, propria di ogni democrazia, che l’operato di ogni potere sia in qualche modo controllato, che ogni potere sia responsabile, su questa tensione si fonda la sofferenza istituzionale che investe l’operato della magistratura circa la sua legittimazione a svolgere il compito affidatole. Nella nostra Costituzione i principi fondanti la legittimazione della magistratura sono la soggezione soltanto alla legge (art. 101) e la nomina per concorso (art. 106). Costituiscono principi serventi l’autonomia e l’indipendenza da ogni altro potere garantiti dal Consiglio Superiore della Magistratura (art. 104) e la garanzia di inamovibilità (art. 107). In genere si pone a fondamento legittimante l’esercizio della giurisdizione la professionalità: è il sapere di diritto che rende democraticamente accettabili le decisioni dei magistrati. Tuttavia le attuali durissime critiche della maggioranza di governo non attengono alla mancanza di professionalità, quanto al fatto che essa sarebbe usata in modo distorto non per finalità di giustizia, bensì di lotta politica. Diventa quindi centrale la precisa definizione del principio di soggezione alla legge. Il proprium del giudice si appunta nella sua posizione di terzietà, nel risolvere casi particolari e nell’essere la sua azione rivolta al passato. Tutto ciò lo differenzia dal politico, che è di parte, portatore cioè di determinati interessi e la cui azione, di norma ha carattere generale ed è rivolta al futuro. Il giudice è sovente costretto a confrontarsi con problemi del tutto nuovi ed è guidato nelle sue responsabilità decisionali da norme programmatiche, spesso di livello comunitario, che si intersecano con le leggi nazionali. Le norme esistono e hanno una loro efficacia solo con l’applicazione concreta, dal momento che nessuna norma esiste ed opera indipendentemente dalla sua interpretazione ed applicazione. Quando si affrontano temi delicati e valori confliggenti, come in materia di immigrazione, è inevitabile che le decisioni giudiziarie, soprattutto in una società pluralista e caratterizzata da un politeismo di valori, debbano tenere in massima considerazione la tutela dei diritti fondamentali della persona. Non bisogna mai dimenticare che la decisione giudiziaria è un fatto solitario. Il magistrato, nell’agire e nel decidere, non deve muoversi in base ad un input di una più o meno qualificata opinione pubblica, non deve chiedere assensi. Se opera seguendo il faro della Costituzione, è solo ma non isolato, perché vive in consonanza di fondo con le altre istituzioni e con i cittadini. *Ex Procuratore capo del Tribunale di Belluno Può slittare a gennaio il primo sì sulla separazione delle carriere di Valentina Stella Il Dubbio, 15 novembre 2024 Il viceministro Sisto ribadisce: “L’ultima parola ai cittadini col referendum”. Avs propone le quote di genere nei due futuri Csm, la maggioranza ci pensa. Probabilmente slitterà a gennaio il primo sì alla riforma costituzionale relativa alla separazione delle carriere, al doppio Csm e all’Alta Corte disciplinare. Lo ha preannunciato il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto nel congedarsi ieri dalla commissione Affari costituzionali della Camera, dov’è proseguito il voto sugli emendamenti. “Saremo in aula il 29 novembre”, ha detto il numero due di via Arenula, che segue il dossier per conto dell’Esecutivo. Poi ci sarà un’altra seduta “a dicembre, probabilmente”, ha aggiunto, “non so se riusciremo a chiuderlo a dicembre, se no si chiuderà a gennaio, il primo passaggio. Dopo i quattro passaggi”, ha rassicurato, “tutti tranquilli perché c’è il referendum. È una scelta che spetta non solo al Parlamento ma soprattutto al popolo: se le norme saranno degne di entrare in Costituzione lo deciderà la gente”. La prossima settimana, in particolare lunedì alle 12, la commissione si dedicherà invece al decreto Flussi, nel quale confluiranno anche le norme del decreto Paesi sicuri, per poi tornare a lavorare, mercoledì 27 novembre, sul ddl costituzionale di Nordio. Si rinvia invece sulla riforma della Corte dei Conti, che ha come primo firmatario il capogruppo di FdI alla Camera Tommaso Foti. Comunque la prima Commissione di Montecitorio ieri mattina ha sospeso l’esame del ddl sulla separazione delle carriere: una scelta compiuta in modo da consentire ai deputati di recarsi in Emilia Romagna e Umbria per la campagna elettorale delle Regionali. È stata dunque annullata la riunione pomeridiana inizialmente prevista a partire dalle 14. Intanto, come avvenuto per i primi due, sono stati votati e respinti gli emendamenti soppressivi, tutti delle opposizioni, dell’articolo 3 del testo di Nordio. Si tratta del passaggio con il quale si intende sostituire integralmente l’articolo 104 della Costituzione, introducendo due distinti Consigli superiori della magistratura - uno per i giudicanti e l’altro per i requirenti - e il sorteggio per i membri degli organi di governo autonomo delle toghe. Accantonato invece “per un approfondimento” l’emendamento presentato da Alleanza Verdi e Sinistra, sottoscritto anche da Federico Fornaro del Partito democratico e Maria Elena Boschi di Italia Viva, allo stesso articolo, che puntava a prevedere il rispetto della parità di genere nella composizione dei due Csm. “Il suo accantonamento è un fatto politico importante: una parte maggioritaria della magistratura è composta da giudici di sesso femminile e non si comprende perché gli organismi dirigenti non debbano prendere atto di questo dato di realtà” ha dichiarato Filiberto Zaratti, capogruppo di Avs nella commissione. “Sono stati accantonati tre emendamenti sulla questione della parità di genere, benché io e gli altri relatori, in accordo con il governo, avessimo dato un parere contrario ritenendo che la questione di genere debba essere affrontata da una legge di riforma e non inserita in Costituzione”, ha spiegato invece il presidente della commissione, Nazario Pagano (Forza Italia), co- relatore del provvedimento. “Molto probabilmente si farà un ordine del giorno o qualcosa del genere, perché inserire questa cosa in Costituzione, oltre che complicata, è inappropriata”, ha concluso l’azzurro. “Il meccanismo del sorteggio integrale per la composizione del Csm finirà per individuare, almeno in alcuni casi, magistrati privi delle conoscenze necessarie a svolgere con professionalità, preparazione e autorevolezza il ruolo fondamentale assegnato”, ha invece stigmatizzato il deputato del Movimento 5 Stelle Federico Cafiero de Raho. A lui si è unito nella critica il capogruppo del Pd in commissione Giustizia Federico Gianassi: “La destra procede con strappi ideologici, come per gli interventi sulla Corte di Conti o in materia di separazione delle carriere o come ha fatto con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio”. A difendere il ddl costituzionale ci ha pensato ancora una volta il vicepremier, e leader di FI, Antonio Tajani: “Nella riforma sulla separazione delle carriere e nella riforma generale sulla giustizia non abbiamo mai pensato, per esempio, di avere magistrati di nomina governativa. Questo è quel che regola il rapporto tra i diversi poteri dello Stato, il cui equilibrio è fondamentale per la democrazia del nostro Paese”. Del tema ne discuterà il Comitato direttivo centrale dell’Anm, che si riunirà domani e domenica in Cassazione: il terzo punto all’ordine del giorno del “parlamentino” è proprio “Riforme costituzionali dell’assetto della Magistratura: valutazioni ed eventuali iniziative”. Non si escludono mobilitazioni contro il ddl Nordio: si comincerà probabilmente con un’assemblea straordinaria dei magistrati da convocare per metà dicembre. I pericoli del Terzo Stato di Luciano Violante Corriere della Sera, 15 novembre 2024 Il caso dei dossieraggi. La corruzione non fa rumore; la reazione dei cittadini è perciò più difficile. Anche questa difficoltà rende il Terzo Stato un pericolo grave per la nostra democrazia. Più del 63% degli italiani ritiene, secondo una indagine di Alessandra Ghisleri, che il dossieraggio mette a rischio la nostra democrazia. La stessa valutazione hanno esposto i magistrati che si occupano dei casi di Roma e di Milano. ?Come si è configurato questo rischio per la democrazia? A Roma un ufficiale di polizia giudiziaria, Pasquale Striano, tutt’ora a piede libero, ha raccolto illegalmente 224 mila atti. Non risultano fini di lucro; per quali interessi Striano ha raccolto e consegnato quegli oltre 200 mila atti? È difficile che li abbia richiesti una sola persona: evidentemente pervenivano a Striano richieste da parti diverse. Se si rivolgevano tutte alla stessa persona non erano parti indipendenti l’una dall’altra; erano integrate in qualche circuito di potere che li acquisiva per condizionare decisioni relative alla vita del Paese. ? A Milano Equalizer ha raccolto circa 800 mila atti. La società, dotata di attrezzature altamente sofisticate, operava, sempre illegalmente, a volte di propria iniziativa, a vote su richiesta di clienti. Agiva per lucro e per acquisire relazioni di potere; riusciva ad accedere alle principali banche dati del Paese usando chiavi d’accesso difficilmente reperibili. Gli operatori con maggiori responsabilità, appartenenti o ex appartenenti alle forze dell’ordine, come a Roma lo è Striano; questa appartenenza li ha avvantaggiati nell’attività di infiltrazione. Effettuavano ricatti, ricostruivano, con alcune sapienti menzogne, la vita di personalità delle quali intendevano abbattere la reputazione, pubblicizzavano informazioni riservate relative a personalità pubbliche, tutto all’interno di una rete di scambi e di minacce. A Milano tecnologicamente sofisticate; a Roma facilitate dal ruolo che rivestiva Striano negli uffici giudiziari e di polizia. I responsabili, per le professionalità e le relazioni acquisite nell’esercizio delle loro funzioni pubbliche, hanno costituito con le loro relazioni, tanto a Milano quanto a Roma, corpi chiusi che hanno preso la forma di una sorta di Terzo Stato, fuori dei confini della Repubblica. Hanno condizionato la vita della democrazia acquisendo e diffondendo informazioni segrete e mantenendo relazioni con fasce sociali e istituzionali insospettabili, che di quei crimini si sono giovate. All’interno della Repubblica, il Primo Stato è quello della politica: partiti, Parlamento, Governo, Regioni, Comuni. Il Secondo Stato è quello della giurisdizione e dell’amministrazione. Il primo e il secondo Stato, nelle moderne democrazie, hanno il compito di dare ordine alla comunità nazionale per far prevalere l’interesse generale sugli interessi particolari. Non sempre lo scopo è raggiunto, spesso per un indebolimento del senso della Cosa Pubblica, che dovrebbe frenare i corporativismi politici e istituzionali. Ma anche quando lo scopo sembra lontano, l’impegno quotidiano di milioni di persone nelle fabbriche, nelle scuole, nelle istituzioni in tutti i posti di lavoro, conferma l’interesse dei cittadini alla costruzione di un ordine civile, per il benessere generale del Paese. Contro quest’ordine civile si è mosso il Terzo Stato, operando fuori dei confini della Repubblica per privilegiare nell’economia, nella politica, nella società, interessi particolari, spesso patentemente criminali. ???C’è una differenza tra queste vicende e quelle terroristiche e mafiose che abbiamo vissuto nel passato. Allora la tragicità degli eventi sollecitava una reazione dei cittadini e delle istituzioni. Nei casi odierni non c’è nulla di visibilmente tragico; il condizionamento e il ricatto avvengono con tecnologie tanto invasive, quanto silenziose, come silenziose sono le connessioni interne, le relazioni esterne, le protezioni e la capacità di corrompere. La corruzione non fa rumore; la reazione dei cittadini è perciò più difficile. Anche questa difficoltà rende il Terzo Stato un pericolo grave per la nostra democrazia. “Servono regole flessibili contro l’opacità dell’Intelligenza artificiale” di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2024 Al Venice Justice Group G7 di Roma: cogliere le opportunità della tecnologia ma solo ai giudici le decisioni. E se si arrivasse al punto che la giustizia degli algoritmi fosse più richiesta di quella umana? E se si facesse in modo che le sentenze seriali diventassero per alcuni preferibili a quelle nate dall’interpretazione dei giudici? Provocazioni e interrogativi che possono apparire da letteratura distopica, ma siamo in un mondo nuovissimo - volendo parafrasare il libro di Aldous Huxley - e occorre prendere le misure. Con una regolamentazione flessibile, in continuo aggiornamento e sviluppata sull’esperienza. Soprattutto se si deve trovare un equilibrio tra opportunità e rischi dell’Intelligenza artificiale. Soprattutto quando l’uomo più ricco al mondo, proprietario di piattaforme social, principale finanziatore del futuro presidente Usa e vicino anche alla premier, si scaglia contro i giudici autori di pronunce non gradite. Scenari sullo sfondo della prima riunione ieri alla Farnesina del Venice Justice Group, nato durante il G7 giustizia con l’obiettivo di un confronto tecnico tra le principali potenze su un tema cruciale come l’Ia. E le parole più ricorrenti sono opacità e controlli. Accompagnare la giustizia, non sostituirla - La linea del governo, espressa nel disegno di legge ora in Parlamento, è che “l’intelligenza artificiale potrà accompagnare l’amministrazione della giustizia ma non sostituirla”, sintetizza il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Una funzione servente, non di decisione. Nonostante “anche il giudice subisca ahimé l’influenza dei propri convincimenti”, chiosa. Pur partendo dalla premessa che “come ricordava il giudice Rosario Livatino il compito del magistrato non deve essere solo rendere concreto il comando della legge ma darvi un’anima”. Qui, per dirla con il filosofo Pascal evocato dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio, sta la distinzione tra l’esprit de géométrie, che può essere attribuito all’algoritmo, e l’esprit de finesse, fatto di “conoscenza dell’animo umano e della capacità di calare la legge nei casi specifici”, propria della mente umana. E se questo è un punto di partenza condiviso - come la necessità di cogliere le opportunità della tecnologia - la questione diventa come maneggiare l’Intelligenza artificiale nella consapevolezza che anche “attori non benevoli - ricorda Riccardo Guariglia, segretario generale Maeci - entrano nelle dinamiche geopolitiche con campagne di disinformazione”. Quanti rischi siamo pronti a correre, si chiede Mariarosaria Taddeo, docente all’Università di Oxford, considerando che la tecnologia “può imparare anche ciò che non si vuole” e che comunque all’origine della catena ci sono le multinazionali? Il tema diventa anche “comprendere la traiettoria in tema di governance”. Scarsa affidabilità e potenzialità discriminatoria - Alcuni dei pericoli li mette in fila Paola Severino, presidente della Scuola nazionale dell’amministrazione: “Scarsa affidabilità, potenzialità discriminatoria e rischio di influenza sull’imparzialità del giudice”. Quanto l’Intelligenza artificiale può ad esempio accrescere i pregiudizi sulla recidiva, tema oggetto di sperimentazioni negli Usa? E un giudice robot come si sarebbe comportato nel bilanciamento di aggravanti e attenuanti in un caso complesso, arrivato fino alla Corte costituzionale, come quello di Alex Pompa, il ragazzo che ha ucciso il padre dopo anni di violenze, nel tentativo di difendere la madre? La vicenda è citata dalla Presidente emerita della Consulta, Marta Cartabia, che parla della necessità di una “responsive regulation orientata a valori costituzionali” e non solo al mercato, che scaturisca dall’esperienza, sia flessibile, sovranazionale e “accompagnata da formazione continua”. Come continui sono gli aggiornamenti tecnologici. Spunti che chiamano in causa tutti gli attori della giustizia. E se nell’era del digitale il codice diventa il cyberspazio, per dirla con l’epistemologo Jean Lassègue, e il neurochirurgo Giulio Maira si concentra sul “progetto culturale che sfrutti le risorse dell’Ia”, il teologo padre Paolo Benanti avverte: “l’esperienza tra macchina e utente va messa in sicurezza tra due guardrail”. “Non possiamo lasciare compromettere la qualità della giustizia”, il monito del capo dell’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, Antonio Mura. Da qui ripartono oggi le delegazioni. I 60 anni di Magistratura democratica di Elisabetta Cesqui* questionegiustizia.it, 15 novembre 2024 Sono stata in magistratura per 43 anni, in Md anche di più. Conoscevo Md dall’università e incontravo i magistrati che ne facevano parte. Così inconsapevolmente sono incappata da subito nella la straordinaria specificità di Md che è quella dell’apertura all’esterno. Il segno distintivo ed il fascino di Md mi sembrava stesse nell’impegno di quei magistrati per passare dai diritti scritti sulla carta, per quanto una carta preziosa come quella fondamentale della Repubblica, alla realizzazione in concreto della promessa in essa contenuta, quello che per Lelio Basso era l’affermazione dei diritti non solo in favore dei soggetti più deboli ma attraverso la spinta che questi imprimevano alla società. Per questo il tema dell’interpretazione della legge, cioè della sua applicazione al caso concreto, è stato sempre centrale dell’elaborazione culturale di Md ma anche, per la stessa ragione, al centro degli attacchi che nel tempo, con varia e diversa intensità, le sono stati rivolti. Da lì nasceva l’attitudine ad una interpretazione costituzionalmente orientata (si parlava allora di giurisprudenza alternativa) come dal principio di soggezione solo alla legge nasceva l’impegno per la tutela della indipendenza dei magistrati, sia verso l’esterno, nei confronti degli altri poteri, che verso l’interno, e con esso lo sforzo per un diverso assetto degli uffici il cambiamento delle leggi di ordinamento giudiziario. Prospero nella tempesta dice “siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni”; Md è fatta della stessa materia di cui è fatta la costituzione. Se questo è il suo connotato distintivo è anche il suo destino, al quale non può sottrarsi, la sua dolce condanna. E siccome è una festa oggi parliamo solo del lato positivo del karma di Md, per parlare dei limiti ci saranno altre occasioni. Per me i primi anni furono d straordinario coinvolgimento, effervescenti e tragici al tempo stesso. Poi via via l’effervescenza è sfumata. Capitava di tutto. Ti poteva capitare di partecipare (in nome della sezione romana) ad un incontro alla Camera dei Deputati (era la prima volta che ci mettevo piede) con gli antimilitaristi e gli obbiettori di coscienza e trovare nell’austera stanza di riunione molti dei partecipanti che facevano discorsi serissimi con uno scolapasta in testa. Così come ti capitava di vivere anche le riunioni tese e a volte laceranti della sezione romana. La sezione romana era la più radicale e indisciplinata d’Italia. Basterà qui evocare, per la sua componente “di sinistra”, proprio quella più radicale e indisciplinata, i nomi di Gabriele Cerminara, Franco Marrone, Francesco Misiani, Luigi Saraceni, per farsi un’idea di quanto impegnative potessero essere quelle riunioni. Questo per di più avveniva nella sede giudiziaria più contigua e sensibile alle pressioni del potere politico, che era percepibile e incombente nella vita quotidiana degli uffici. Ricordo interminabili riunioni, in stanze piene di fumo, in cui, riflettendo un contrasto diffuso nel paese, si contrapponevano le istanze espresse in maniera più forte dai soggetti istituzionali della sinistra, i sindacati, il partito: “il soggetto storico della trasformazione” e le posizioni più estreme del movimentismo e dell’antagonismo per le quali qualcuno parlava di “libero dispiegarsi delle dinamiche sociali” e che ponevano il problema della risposta non solo politica, ma anche giudiziaria (erano peraltro i temi attorno ai quali si era fiorata la scissione al congresso di Rimini del ‘77). C’era in quelle riunioni un grande dispiegarsi di intelligenza e passione perché, al di là di contrapposizioni che oggi sembrano assai datate anche nel linguaggio con cui si esprimevano, e che per questo ho voluto ellitticamente richiamare, vertevano attorno al tema centrale di come dovesse declinarsi, a fronte della legislazione penale speciale, il garantismo penale (nel 1978 c’era stato il referendum sulla legge Reale che aveva visto posizioni molto differenziate all’interno della stessa sinistra) sia perché tutti gli altri attorno ai quali si discuteva erano centrali nel rapporto tra la giurisdizione e la società ed erano quelli del lavoro, del diritto alla casa, della speculazione edilizia, dell’inquinamento, che nell’attività della sezione lavoro (Marco Pivetti ne è stato uno dei protagonisti) e della V e IX sezione della Pretura si confrontavano con la loro concreta tutela e la loro quotidiana violazione. Non fu risparmiato niente: procedimenti penali (solo per fare un esempio gran parte della sezione romana finì sotto processo all’Aquila per diffamazione per un volantino di critica ai capi degli uffici per la gestione di un processo) interrogazioni parlamentari (penso a quella dell’on. Claudio Vitalone, ex magistrato dello stesso ufficio, per sapere quale accertamenti fossero stati fatti sui collegamenti tra alcuni magistrati romani -i soliti radicali indisciplinati della sinistra della sezione romana - e le formazioni terroristiche) schedatura dei servizi, procedimenti disciplinari a più non posso e violentissime polemiche pubbliche . Ma se ci ripenso oggi la cosa più preziosa di quei primi anni è stato l’incontro con magistrati capaci di un esercizio “alto” della giurisdizione. L’esercizio “alto” della giurisdizione richiede una grande competenza tecnica, ma anche una relazione piena con la realtà sociale (come diceva Marco Ramat il contrario del “magistrato di clausura” che come le suore vive chiuso nel chiostro e protetto da ogni contaminazione, senza che questo però possa lasciare dubbi su quale sarà la sua scelta al momento del voto). D’altra parte Pietro Ingrao, che definì al congresso di Giovinazzo dell’81 MD “uno strano animale” era colpito ed incuriosito proprio dalla particolare declinazione con la quale, dentro Md, si incontrassero competenza professionale e sensibilità politica (il rapporto, come ebbe a dire “tra politicità generale e competenze”). Per questo tipo di magistrato, di animo colto, l’applicazione del diritto al caso concreto nella “direzione” del progetto costituzionale viene da sola e restituisce provvedimenti chiari qualunque sia la materia trattata. Le domande di fondo sono sempre le stesse: chi ha veramente subito il torto? Chi ha necessità della tutela? Cosa ti dice di fare la legge interpretata secondo i principi costituzionali? sono state rispettate le regole del processo e queste che strada tracciano per arrivare alla decisione? Alla fine sembra quasi facile e quando non si può andare oltre ci si ferma, o si va alla Corte costituzionale, o alla Corte di giustizia dell’Unione Europea. Se leggiamo una sentenza di Renato Rordorf è facile capire cosa voglio dire, così come era facile capire quale fosse la via maestra se ti capitava di fare l’uditore con Gianfranco Viglietta. MD non ha né il monopolio né il copyright di questo modello di magistrato, ma io l’ho conosciuto lì, poi ne ho incontrati tantissimi altri di tutti gli orientamenti, ma i miei Lorenz li ho trovati tra quelli di MD. In questa giornata non possiamo non pensare a Renato Greco, che solo due giorni fa ci ha lasciato. Se ripenso a quegli anni non ricollego la mia personale esperienza alla dimensione di genere, pur avendo preso parte ai grandi cortei femministi degli anni settanta. Questo nasceva dalla illusione di non averne bisogno. Una volta che l’anonimato del concorso mi aveva permesso, senza pagare prezzi particolari per il fatto di essere donna, non di sfondare il soffitto di cristallo, ma di saltare la staccionata ed entrare nel recinto, mi sembrava che quella necessità, che tutte hanno messo in luce, di fare tutto meglio degli altri e di fare sempre tutto senza tirarsi indietro attenesse più a profili di insicurezza personale che ad una questione nella sostanza di straordinaria portata sociale e politica. Allo stesso modo pensavo che l’aneddotica maschilista che costella la storia professionale di ciascuna di noi servisse solo per sorriderci sopra. Il raggiungimento della parità comporta un processo lento e difficile, come difficile stata la sua semplice affermazione formale. Giustamente Gabriella Luccioli, in occasione del 60° anno dell’ingresso delle donne in magistratura, ricorda come fosse diffusa e radicata la resistenza di molti degli stessi padri costituenti all’accesso delle donne a tutte le funzioni pubbliche e quale panorama “desolante” di pregiudizi e di arroganza trasparisse dalle discussioni che portarono poi all’approvazione faticosissima del primo comma dell’art. 51 (poi integrato nella parte finale nel 2003), dietro al cui tenore testuale - per quella chiusa del primo comma “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” - si sono arroccati gli oppositori dell’ingresso delle donne, che si sono dovuti arrendere solo dopo la sentenza del 1960 della Corte costituzionale che dichiarò l’illegittimità dell’art. 7 della l. 1176 del 1919. Alcune posizioni paradossali di allora (la inattingibilità della “rarefazione del tecnicismo” propria delle giurisdizioni superiori di cui parla l’on. Fanfani, o l’on. Molè che richiama le teorie di Charcot sulla incompatibilità anatomo-fisiologica della donna all’equilibrio della decisione nei giorni del ciclo) non meritano neanche più di essere ricordate, ma lo stesso legislatore costituente, che era volato altissimo nella formulazione dell’art. 3, fatica di più quando poi il principio di uguaglianza uomo-donna si specifica nell’accesso agli uffici pubblici e nella parità salariale (art 37 prima parte). Maria Federici, che tenne fermo il punto quando si trattò di evitare che subordinate di qualunque tipo fossero introdotte nella stesura dell’art. 106 (accesso in magistratura), nella seduta del 10 maggio del ‘47, quando si trattava della parità salariale (quello che poi sarà il primo comma dell’art. 37) dice: “questo articolo è il riflesso vivo delle gravi ingiustizie che ancora si registrano nella vita italiana. Di qui a pochi anni noi dovremo addirittura meravigliarci di aver dovuto sancire nella carta costituzionale che a due lavoratori di diverso sesso, ma che compiono lo stesso lavoro, spetti la stessa retribuzione”. Noi oggi con amarezza dobbiamo constatare che quel principio sebbene sia stato introdotto in costituzione, non riesca ancora a trovare attuazione. Quando ho cominciato a riflettere sul progressivo aumento della presenza delle donne avevo una preoccupazione indotta dal fatto che nell’esperienza storica il lavoro femminile si è sempre esteso per capillarità negli spazi che gli uomini lasciavano liberi privilegiando altri terreni. Il timore era che man mano che le donne prendevano piede la funzione giurisdizionale ne risultasse in qualche modo marginalizzata. Era una preoccupazione sbagliata non perché siano mancati tentativi di delegittimazione e marginalizzazione della giurisdizione, anzi, ma perché le donne possono rivendicare orgogliosamente di aver interpretato “con disciplina ed onore” la loro funzione, senza subalternità e senza nessuna diminuzione dei contenuti tecnico giuridici delle decisioni. Se posso spiegarmi con un esempio, sfido chiunque a sostenere il contrario dopo aver letto una sentenza di Stefania Di Tomassi. Secondo me le donne (per quanto sia arbitrario generalizzare e ogni generalizzazione si esponga al ridicolo della smentita puntuale) hanno con le regole un approccio più pragmatico e meno conflittuale; hanno più l’attitudine, che sollecitava Lorenza Carlassare, di domandarsi sempre: ma dove sta scritto? perché avete fatto sempre in questo modo? (lei si riferiva al diritto di voto delle donne prima della seconda guerra mondiale e alla famosa sentenza di Mortara); nelle organizzazioni complesse sono più collaborative; hanno col potere - e l’esercizio di un potere è coessenziale alla giurisdizione - un rapporto di minore identificazione e personalizzazione e soprattutto un approccio non proprietario come quello degli uomini. Le donne infine sanno, e lo hanno insegnato anche agli uomini, essere persone a tutto tondo e non bassorilievi che negano quelle dimensioni di sé che temono passano essere colte come un segno di debolezza. È stato soprattutto il pensiero delle donne che ha fatto capire come l’uguaglianza non sta nel negare le differenze, ma nel riconoscerle, tenendo conto, come ci ha insegnato Luigi Ferrajoli, che il contrario dell’uguaglianza non è la differenza, ma la discriminazione. Allora la domanda vera è non è quanto sia numerosa la presenza delle donne (oggi il 57%, 5070 a fronte di 3841), ma cosa abbia significato nella sostanza, e penso, per quello che ho detto, che le donne abbiano fatto “bene” alla magistratura. Le conquiste delle donne possono essere lente, ma credo che siano inesorabili perché si tratta di un cambiamento non solo politico, sociale, normativo ed economico, ma di un cambiamento antropologico, che ha inciso sul il modo di essere, la natura non solo delle donne ma anche degli uomini. E’ vero che questo vale soprattutto il mondo occidentale (la lotta delle donne iraniane del movimento “Donna vita e libertà” ci rimanda ad una realtà ben diversa, come ci ricorda da ultimo l’appello di Medel di qualche giorno fa) e che, nel nostro mondo, la messa in discussione del diritto all’aborto, aggredisce alla radice il principio di autodeterminazione, ma tutto questo non smentisce la natura del cambiamento, ci avverte solo della necessità di un impegno costante per realizzarlo compiutamente e per vigilare sui tentativi di arretramento. Stiamo purtroppo vendendo come nel mondo né la democrazia né soprattutto la pace siano irreversibili, ma sulla questione di genere non vedo la prospettiva di una definitiva inversione di marcia. Da questo e dalla sua storia io penso che Md, in un quadro generale per tanti versi cupo, possa trarre qualche ragione di ottimismo e sono sicura che continuerà nel suo impegno con quella “instancabile ragionevolezza” alla quale ci ha richiamato di recente Nello Rossi. *Già magistrata Torino. Nessun pestaggio al Lorusso e Cutugno: tutti assolti. “Anni di accuse ingiuste” di Ludovica Lopetti La Stampa, 15 novembre 2024 Plauso di Salvini: “Ora il taser nelle carceri”. “Il fatto non sussiste”. Con questa formula la Corte d’Appello di Torino ha fatto calare il sipario sul filone con rito abbreviato del processo sui pestaggi nel carcere di Torino. Sono stati assolti l’ex direttore dell’istituto Domenico Minervini, l’ex comandante di reparto di Polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza e l’agente Alessandro Apostolico: il primo doveva rispondere di omessa denuncia e favoreggiamento, l’ex capo delle divise del solo favoreggiamento, mentre il giovane agente era accusato di tortura per aver usato “crudeltà” verso un detenuto e avergli inflitto “violenze gravi” che produssero “acute sofferenze fisiche”. Salvini: “Ora taser nelle carceri” - “Grande soddisfazione” da parte del vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini perché i tre imputati per presunte torture nel carcere di Torino sono stati assolti. “Colgo l’occasione per ribadire solidarietà e stima a donne e uomini in divisa che proteggono gli italiani e lavorano con straordinaria professionalità anche nelle carceri - aggiunge il ministro delle Infrastrutture -. Il nostro impegno è quello di dotarli del Taser, perché sono troppi gli agenti aggrediti da detenuti violenti, spesso stranieri” Accuse ridimensionate - Il Gup a settembre 2023 aveva già ridimensionato notevolmente gli addebiti e inflitto pene soft a due dei tre imputati: 300 euro di multa all’ex direttore per aver tardato a denunciare gli episodi che gli erano stati segnalati e 9 mesi più 300 euro di multa per abuso di autorità all’agente. Era andato assolto invece l’ex comandante Alberotanza, “perché il fatto non costituisce reato”. Quest’ultimo in particolare era accusato di aver aiutato i sottoposti a insabbiare il caso grazie a un’istruttoria interna che di fatto scagionò il personale penitenziario dalle accuse di pestaggi e violenze. Oggi gli addebiti sono caduti per tutti e tre. Gli imputati sono assistiti dai legali Alberto Pantosti Bruni, Michela Malerba, Antonio Genovese. “Anni di accuse ingiuste” - “È stato detto che non ho avuto coraggio. Ed è stato ripetuto come un mantra, per anni, che le mie mancate denunce avevano impedito alla macchina giudiziaria di attivarsi e di funzionare: questa era la cosa che mi feriva di più, perché non era vero. Ora la mia onestà è stata acclarata”, ha dichiarato Minervini appena dopo la lettura del dispositivo. “Il mio assistito è stato assolto perché il fatto non sussiste - ha dichiarato l’avvocato Alberto Pantosti Bruni, difensore di Apostolico - una sentenza che restituisce dignità all’ispettore che ha dedicato tutta la sua vita a un interesse sensibile come quello della tutela dei detenuti e che ha dimostrato di avere svolto il suo delicatissimo ruolo con assoluta correttezza”. L’esultanza dei legali - “Ci abbiamo messo tanto tempo ma alla fine i fatti sono stati accertati”. Lo ha dichiarato l’avvocata Michela Malerba, difensore dell’ex comandante del carcere torinese Domenico Minervini, commentando la sentenza di assoluzione pronunciata oggi dalla Corte di appello al termine del processo per presunte torture sui detenuti. “Eravamo convinti che i giudici non avrebbero potuto decidere diversamente” ha detto l’avvocato Antonio Genovese, legale dell’ex comandante della polizia penitenziaria Giovanni Alberotanza. Per il suo assistito la Corte ha confermato l’assoluzione modificando però la formula da “il fatto non costituisce reato” a “il fatto non sussiste”. Genovese sottolinea che il processo ha avuto profonde ripercussioni sulla progressione di carriera di Alberotanza. “Siamo soddisfatti: ci abbiamo creduto fin dall’inizio”. È quanto afferma l’avvocato Alberto Pantosti Bruni. Sulla pronuncia dei giudici interviene anche Antonio Mencobello, uno degli avvocati dei ventidue agenti polizia penitenziaria processati in queste settimane dal tribunale di Torino con il rito ordinario. “Se la sentenza di oggi diventerà irrevocabile - osserva - sarà decisiva anche per le sorti del nostro procedimento. Nel ricorso in appello la procura aveva chiesto che venisse riconosciuto il reato di tortura: la Corte non ha soltanto confermato che al massimo si tratta di una ipotesi, meno grave, di abuso di autorità, ma è andata oltre, assolvendo l’ispettore Apostolico”. Viterbo. Morte di Hassan Sharaf, al via il processo a medico e agente di Valeria Terranova Corriere di Viterbo, 15 novembre 2024 Al via ieri al cospetto del giudice Daniela Rispoli il processo al medico del reparto di medicina protetta di Belcolle e all’assistente capo coordinatore della Polizia penitenziaria del carcere di Mammagialla, rinviati a giudizio a marzo scorso dal gup Savina Poli con l’accusa di omicidio colposo per la morte del detenuto egiziano Hassan Sharaf, su istanza del procuratore generale Tonino Di Bona. Gli imputati, difesi dagli avvocati Giuliano Migliorati e Fausto Barili, in prima battuta, nella fase di udienza preliminare, scelsero di procedere con rito ordinario. Il dibattimento a loro carico si è aperto con la seduta dedicata all’ammissione delle prove. Anche in questo procedimento faranno parte in qualità di responsabili civili il ministero dell’Interno e l’Asl. Parti civili con gli avvocati Giacomo Barelli e Michele Andreano i familiari del detenuto egiziano di 21 anni, il quale morì nel nosocomio del capoluogo il 30 luglio 2018, una settimana dopo aver tentato il suicidio, il 23 luglio, mentre era rinchiuso nella cella di isolamento della casa circondariale sulla Teverina. A loro si aggiunge l’associazione Antigone, assistita dall’avvocato Simona Filippi. In apertura, il procuratore Di Bona ha chiesto e ottenuto l’acquisizione della documentazione relativa alla relazione disciplinare redatta nei riguardi del 21enne, conseguente al ritrovamento di farmaci proibiti che portò l’autorità preposta a disporne l’isolamento. Inoltre, gli atti riguardanti il suicidio, il verbale del sopralluogo eseguito subito dopo, il fascicolo che racchiude gli accertamenti sulla salma e i supporti informatici con le immagini delle telecamere di video sorveglianza dell’istituto di pena viterbese. Si tornerà in aula tra una settimana per la calendarizzazione delle prossime udienze che si svolgeranno a ritmo serrato presumibilmente a partire dai primi mesi del 2025. Firenze. A causa di corto circuito detenuti e personale penitenziario non possono chiamare di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 15 novembre 2024 Da circa una settimana sono fuori uso i telefoni del carcere di Sollicciano. Un corto circuito che ancora non è stato possibile risolvere e che sta mettendo a dura prova non soltanto i detenuti, che hanno grandi difficoltà a telefonare ai propri familiari, ma anche il personale interno del penitenziario, che non può chiamare all’esterno (né ricevere telefonate). E non è nemmeno possibile far dialogare internamente le varie sezioni della struttura. Certo, in casi estremi, si possono utilizzare i telefoni cellulari dei vari operatori, ma resta comunque un disagio non da poco. Detto questo, non sempre i cellulari possono essere utilizzati, perché teoricamente si tratta di dispositivi che dovrebbero essere lasciati negli armadietti di sicurezza posti subito all’ingresso dell’istituto penitenziario, per evitare proprio che qualche detenuto possa utilizzarlo. Un problema che dovrebbe comunque essere in via di risoluzione, date le situazioni critiche, ormai risapute, in cui versa il penitenziario fiorentino. A peggiorare la situazione di Sollicciano, proprio negli ultimi giorni, è arrivata la notizia dell’assenza della direttrice Antonella Tuoni, che pochi giorni fa ha annunciato che mancherà dall’ufficio per qualche tempo per motivi di salute. Un’assenza che arriva tra l’altro a pochi giorni dalla conferma del provvedimento disciplinare nei suoi confronti da parte del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che ha di fatto incolpato la direttrice delle condizioni di degrado in cui versa l’istituto penitenziario e che ha portato alla decurtazione del suo stipendio per alcuni mesi. Alla direttrice - che nei giorni scorsi ha incassato anche la solidarietà delle istituzioni locali - era stato imposto anche di sanare le inosservanze alle norme relative all’igiene e alla sicurezza sul lavoro entro 90 giorni. Non ultimi, ci sono gli atavici problemi che affliggono il carcere fiorentino. Tra questi l’umidità, il freddo durante i mesi invernali e il caldo torrido durante i mesi estivi. Per non parlare delle condizioni igienico sanitarie, con molti detenuti che lamentano la presenza di cimici sulle pareti e nei materassi, con tanto di morsi sul corpo. Proprio nei mesi scorsi sono stati accolti alcuni ricorsi da parte di detenuti che, viste le difficili condizioni all’interno del penitenziario, si sono visti riconoscere anche sconti di pena. Monza. Il riscatto sfornando panini, il McDonald’s scommette sui detenuti di Diana Cariani primamonza.it, 15 novembre 2024 Il ristorante guidato da Antonio Scanferlato ha aderito a “Seconda chance”. Quattro ragazzi giovani, tre nordafricani dai 25 ai 35 anni e uno italiano di appena 22, che hanno avuto guai con la giustizia e stanno finendo di scontare la loro pena al carcere monzese ora potranno iniziare un percorso di riscatto preparando panini. Un’opportunità che non era scontato che qualcuno gli offrisse e che invece l’imprenditore monzese Antonio Scanferlato ha voluto dare loro, aderendo al progetto dell’associazione Seconda Chance per offrire opportunità di lavoro ai detenuti a fine pena. Oggi Scanferlato, con l’acquisizione del punto vendita di Vimercate Torri Bianche, gestisce cinque McDonald’s in Brianza: i due di Monza, quello di Concorezzo e quello di Biassono. E proprio a Vimercate oggi, martedì, entreranno in servizio i primi due detenuti a fine pena, mentre un altro percorso analogo sarà avviato anche nel locale di viale Lombardia di Monza e a Concorezzo tra circa un mese o due. “Questo è il tempo che occorre per l’iter autorizzativo - spiega l’imprenditore monzese - La pratica va al magistrato che deve dare il via libera all’uscita dal carcere Sanquirico di questi ragazzi dopo che noi abbiamo avuto un colloquio con loro e abbiamo deciso se erano idonei per l’inserimento in azienda”. Il McDonald’s scommette sui detenuti - Una scelta non facile e con un carico emotivo da sostenere non scontato. “Hai davanti questo ragazzo che ti racconta la sua vita e che ha tutta l’aspettativa del mondo perché sa che se tu lo scegli lui può uscire dal carcere, per noi non è semplice. Mia moglie che gestiva con me le selezioni, ad esempio, si è commossa”, spiega. In questo percorso fondamentale è stato il ruolo delle educatrici, di Flavia Filippi, la giornalista che ha creato il progetto e presiede l’associazione “Seconda Chance”, e Gloria Faraci, che la rappresenta in Lombardia. “Ci hanno seguito in questa nuova avventura: non conosciamo le storie dei ragazzi e nemmeno i reati che hanno commesso se non il fatto che si tratta di reati minori, ma l’idea di poter aiutare delle persone che un giorno usciranno dal carcere a un futuro inserimento lavorativo ci riempie di orgoglio”. Opportunità anche ai rifugiati - Se questa è la prima esperienza con detenuti a fine pena, McDonald’s a Monza è noto per lo slancio nel dare opportunità a chi di solito ne ha meno nel mondo del lavoro, ad iniziare dai richiedenti asilo e dai portatori di handicap, come avevamo già raccontato sulle pagine del Giornale di Monza quando Scanferlato fu premiato dall’Unhcr come “Azienda Onu per i rifugiati” proprio per l’impegno in tal senso. “Fin da subito abbiamo scelto di concentrare le risorse sostenendo progetti che mettono al centro la persona e l’inclusione; dal 2016 contiamo: 85 inserimenti lavorativi per richiedenti asilo, 16 dei quali sono tutt’ora in forza; 62 progetti di tirocinio in accoglienza che hanno coinvolto 50 persone fragili, e hanno portato ad un livello di assunzione delle categorie protette quasi doppio rispetto la norma di legge. Da anni partecipiamo al Progetto Tikitaka, collaborando con il tavolo “il lavoro abilita l’uomo” per aiutare a creare strumenti che favoriscano l’inserimento lavorativo in aziende per le persone fragili”, aggiunge Scanferlato. Il percorso formativo - L’azienda non beneficerà in questo caso di nessun contributo statale, mentre i detenuti avranno un compenso da tirocinio, ossia 700 euro al mese per un part-time da 30 ore settimanali, solo che non vedranno il denaro fino a quando non usciranno dal carcere. “Tutto finisce in un fondo per una questione di sicurezza a cui i ragazzi avranno accesso solo quando finiranno di scontare la loro pena e che potrà essere importante per ricominciare una volta fuori dal Sanquirico - ha spiegato - Per avere il contributo avrei dovuto dare al detenuto solo 20 giorni di prova, con tutti i rischi. L’idea invece è attuare un percorso formativo graduale: prima un tirocinio di sei mesi, con un altro periodo e alla fine l’assunzione in apprendistato o a tempo determinato o indeterminato, in base alle casistiche”. Insomma, l’opportunità è offerta, ma è ovvio che poi uno deve anche farla fruttare perché non c’è posto per chi non ha voglia di lavorare o comportarsi bene, questo Scanferlato lo mette in chiaro con tutti e da anni. “Che gioia vedere che superano le fragilità” - E a chi gli chiede perché lo faccia se non è per un contributo economico, l’imprenditore monzese non ha dubbi a rispondere: “Sono tutte persone che hanno diritto ad avere una possibilità di crescita, ai miei colleghi imprenditori posso dire che l’inserimento in azienda di queste ragazze e ragazzi è un investimento che ha solo ricadute positive. Credo sia importante avere squadre che sappiano essere gruppo nel vero senso della parola, integrarsi e aiutarsi l’un l’altro, da noi sta funzionando - ha chiosato - Poi ci sono le soddisfazioni e la gioia personale di vedere i nostri crew che ieri, in paesi lontani hanno vissuto esperienze durissime ed oggi sono formatori per le new entry, o vedere chi ha superato le proprie fragilità diventando protagonista del suo lavoro”. E non è un caso che uno dei ragazzi che sarà inserito sia il fratello di una dipendente di McDonald’s. “Siamo ormai una grande famiglia con 290 dipendenti, di cui il 52% donne, di età media di 25 anni (30 per i manager e direttori), il 35% stranieri di 34 diverse nazionalità provenienti dai 5 continenti”. Catania. Una “Seconda chance” è possibile di Gualtiero Parisi La Sicilia, 15 novembre 2024 L’associazione del Terzo settore “sponda” del progetto finanziato dall’Università di Catania. Un progetto innovativo, che intende costruire un ponte fra il mondo carcerario e quello del lavoro, attraverso un percorso che coinvolgerà le forze produttive e gli stessi detenuti. Lo ha finanziato l’Università di Catania, attraverso un bando del PNRR, e lo porterà avanti l’associazione del terzo settore, Seconda Chance fondata nel 2022 con grande passione dalla giornalista di La7, Flavia Filippi, e che in questi anni è riuscita a portare oltre trecento proposte di lavoro concrete ad altrettante persone che hanno potuto reinserirsi nella nostra società. Il Progetto “PriTJP - Prison training for job placement” sarà presentato il prossimo 22 novembre presso l’aula magna del Palazzo delle Scienze, in Corso Italia, alle 10.30, nell’ambito di un convegno sul tema: “Oltre le sbarre: metamorfosi e inclusione. Lavoro, rinascita e dignità nelle carceri”. A fare gli onori di casa ci sarà il professor Marco Romano, Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese, insieme al collega Roberto Cellini, Direttore del Dipartimento di Economia e Impresa, entrambi responsabili del piano “Growing Resilient, INclusive and Sustainable” - GRINS, finanziato dalla Comunità Europea. Al convegno parteciperà anche il direttore Antonello Piraneo de “La Sicilia”, sempre attenta a queste problematiche. Del progetto di Seconda Chance parlerà Maurizio Nicita, responsabile regionale dell’associazione del terzo settore, nonché coordinatore di PriTJP. Approfondiranno le tematiche: la dottoressa Giuseppina Maria Irrera, Direttore Ufficio Detenuti e Trattamento Provveditorato Sicilia; il professor Bruno Antonio Pansera, Associato di Metodi Matematici dell’Economia e delle Scienze Attuariali e Finanziarie dell’Università di Reggio Calabria, nonché responsabile Scientifico del progetto “PriTJP”; e la dottoressa Gabriella Stramaccioni, del Segretariato Cnel per l’Inclusione delle Persone Private della Libertà. Entrando nello specifico il progetto si propone di indagare la realtà del contesto carcerario meridionale, e nello specifico delle regioni Sicilia, Calabria e Campania e raccogliere le buone pratiche promosse in questi anni in ambito carcerario a favore dei giovani detenuti, per progettare iniziative di formazione che possano sostenerli nel percorso di fuoriuscita e reinserimento sociale, attraverso proposte formative all’interno e all’esterno delle mura carcerarie, e anche con offerte di lavoro all’esterno. Saranno raccolti dati statistici sulla popolazione carceraria idonea, buone pratiche di formazione realizzate nelle istituzioni carcerarie e linee guida per proporre una migliore attività formativa. Si partirà dunque dalla acquisizione di dati statistici per fotografare la situazione in essere nelle carceri, per poi incontrare anche le imprese e conoscere le loro reali necessità in termini di figure lavorative e possibilità di creazione di microimprese. In questo modo la formazione diventerà efficace e finalizzata perché orientata verso un obiettivo chiaro: l’assunzione o la creazione di impresa. Spiega Marco Romano, promotore e curatore del progetto Grins: “E’ importante porre l’attenzione su GRINS, che significa crescita in un ambiente resiliente, inclusivo e sostenibile. Accendere le luci sui soggetti svantaggiati, in questo caso i carcerati, nella consapevolezza che l’inclusione sociale si costruisce se si acquisisce una conoscenza del fenomeno e si adottano modi di interventi specifici. In particolare, in termini di educazione all’imprenditorialità e valorizzazione delle competenze già esistenti”. Il responsabile scientifico del progetto, professor Bruno Antonio Pansera, ci tiene a sottolineare: “Ho aderito subito con entusiasmo alla proposta di Seconda Chance perché è innovativa e consentirà di costruire un progetto pilota utile per l’Università di Catania, che patrocina, ma per tutti coloro che potranno così vedere in una luce nuova la realtà carceraria, come una risorsa”. Il professore si avvarrà della collaborazione di pedagogisti, psicologi, sociologi e altri esperti nel settore. L’altra novità ce la racconta il coordinatore di Seconda Chance Sicilia, Maurizio Nicita: “Coerenti con la missione della nostra associazione, per la realizzazione del progetto saranno assunti, con regolari contratti, anche due detenuti che così in qualche modo “accelereranno” il loro reinserimento sociale. Sarà una sorpresa per molti ascoltare le loro voci “da dentro” e rendersi conto di una realtà dietro le sbarre che merita rispetto e soprattutto dignità, proprio quella che dà il lavoro. Inoltre, al convegno saranno presenti rappresentanti delle forze imprenditoriali e dell’associazionismo. Perché solo se si fa rete si riescono ad affrontare efficacemente certe problematiche sociali. Serve dare speranza a chi vuol rialzare la testa. E una società civile si misura anche dalla capacità di reinserimento di chi ha sbagliato. Lo dimostra un recente studio del Cnel: nelle carceri dove si riesce a creare professionalità e opportunità di lavoro, la recidiva sui reati viene drasticamente abbattuta”. Perugia. “Ri-costruire il futuro”, progetto per il reinserimento lavorativo dei detenuti cesf.pg.it, 15 novembre 2024 Cinque quelli che hanno cominciato a lavorare stabilmente nelle aziende edili del territorio. Sono stati illustrati nella sede del Cesf-Centro edile per la sicurezza e la formazione di Perugia i risultati del progetto “Ri-costruire il futuro - per l’integrazione socio-lavorativa dei carcerati” che, partito nel mese di febbraio, aveva come obiettivo la formazione professionalizzante dei carcerati e il successivo inserimento lavorativo nelle imprese del territorio. Il progetto è stato realizzato dal Cesf con il sostegno di Fondazione Perugia e si è concluso nelle settimane scorse portando all’inserimento nelle aziende locali di nove detenuti che beneficiano delle misure diurne alternative alla detenzione. Nella prima fase del progetto, i funzionari dell’istituto penitenziario hanno selezionato 25 detenuti tra quelli in possesso dei requisiti per accedere ai benefici dell’articolo 21 (e dunque che possono essere autorizzati ad uscire dal carcere durante il giorno per recarsi al lavoro). Tra questi, i delegati del Cesf hanno individuato 15 allievi interessati a lavorare nel settore delle costruzioni sia durante il periodo di semi-libertà che a fine pena. Dal 15 maggio questi allievi hanno iniziato a frequentare le lezioni dapprima nel laboratorio attrezzato all’interno del complesso penitenziario e, successivamente, nel cantiere-scuola appositamente creato all’interno del perimetro carcerario. Nel corso dei mesi, alcuni partecipanti si sono ritirati per ragioni diverse, mentre quelli che hanno portato a compimento il percorso sono stati nove. Nel mese di settembre sono stati avviati i colloqui tra le associazioni datoriali del settore e le imprese edili del territorio per individuare quelle disponibili ad inserire nel proprio organico gli allievi potenziali beneficiari delle misure alternative alla detenzione e, successivamente, si sono svolti i colloqui individuali tra i rappresentanti delle imprese e i partecipanti al corso. Il corso si è concluso il 23 ottobre con la consegna degli attestati ai partecipanti. “Per la realizzazione del percorso formativo - ha sottolineato Salvatore Bartolucci, imprenditore e coordinatore del corso - è stato fondamentale il contributo delle aziende fornitrici che, vista la finalità sociale dell’iniziativa, hanno voluto partecipare mettendo a disposizione con sconti importanti, o addirittura gratuitamente, alcuni materiali e attrezzature indispensabili per la realizzazione delle attività. In particolare, un sentito ringraziamento va alle aziende Mac srl, Kimia spa e Sir Safety System spa. A presentare i risultati del progetto sono stati Antonella Grella, Direttrice del Nuovo Complesso Penitenziario Perugia “Capanne” e Salvatore Bartolucci, coordinatore del corso. Erano inoltre presenti (da inserire solo chi interverrà): Agostino Giovannini, Presidente Cesf, Giuliano Bicchieraro, Vicepresidente Cesf e Segretario Filca-Cisl Umbria, Albano Morelli Presidente Ance Umbria, Elisabetta Masciarri, Segretario Fillea-Cgil Umbria, Alessio Panfili, Segretario Feneal-Uil Umbria, Pasquale Trottolini, Direttore Cna Costruzioni Umbria e Augusto Tomassini, Presidente di Anaepa Confartigianato Edilizia Perugia. Nel ringraziare Fondazione Perugia per l’importante sostegno dato al progetto la Direttrice del Nuovo Complesso Penitenziario Perugia “Capanne” Antonella Grella ha sottolineato come “Il percorso sia stato molto importante perché ha potuto offrire ai detenuti una formazione specifica nel settore edile. Se il carcere, infatti, ha come mandato quello di promuovere percorsi di reinserimento lavorativo è prima di tutto importante fornire delle competenze specifiche che trovino un riscontro positivo nel mondo del lavoro. Grazie a questo progetto abbiamo potuto creare una connessione tra l’ambito lavorativo e il contesto carcerario, ne siamo molto contenti e confidiamo di poter ripetere questa esperienza anche in futuro”. Il Presidente di Ance Umbria Albano Morelli, oltre a ringraziare tutti coloro che si sono prodigati per la riuscita del progetto, ha espresso la sua profonda soddisfazione per quella che a suo avviso è: “la dimostrazione concreta di come il settore edile sia strettamente connesso con la società civile, non solo nel suo ruolo più evidente di costruzione e manutenzione di edifici e infrastrutture, bensì anche in quello di fucina di opportunità o -come dimostra questo percorso - di seconde opportunità. Da sempre crediamo nel lavoro e nella sua dignità come elemento di crescita umana, prima ancora che professionale, per questo non potevamo esimerci dal mettere con entusiasmo le nostre energie e le nostre imprese a disposizione della rieducazione e del reinserimento di queste persone”. Anche per il Presidente di CNA Costruzioni Umbria, Emanuele Bertini: “il Progetto rappresenta un importante momento di condivisione e di coinvolgimento delle fasce più fragili della società, con l’intento di dare piena realizzazione agli obiettivi di reinserimento e riabilitazione previsti dal nostro ordinamento e dalla Costituzione stessa. Per questo ne riconosciamo il grande valore sociale e morale”. Pierangelo Lanini, Presidente Regionale Anaepa Confartigianato Edilizia Umbria: “Siamo felici ed orgogliosi di essere stati insieme ad Ance e Cna e le parti sociali tutte, parte in causa nel sostenere questo progetto perché dare una seconda possibilità a chi esce da un percorso di vita è fondamentale per la propria dignità e permette di realizzarsi come persona. Ricreare una passione ed un amore per il lavoro è proprio di ogni essere umano e tipico dello spirito Artigiano che noi rappresentiamo”. Bolzano. Torna la colletta alimentare, partecipano anche i detenuti di Silvia M. C. Senette Corriere dell’Alto Adige, 15 novembre 2024 Domani si rinnova l’appuntamento con la Giornata nazionale della colletta alimentare, che anche in Alto Adige e in Trentino porta nei supermercati centinaia di volontari per raccogliere generi alimentari a lunga conservazione destinati alle persone in stato di bisogno. In provincia di Bolzano l’edizione coinvolge 140 supermercati e oltre 800 volontari, tra cui per la prima volta i detenuti della casa circondariale di via Dante, protagonisti di un gesto di solidarietà che rappresenta anche un’opportunità di riscatto sociale. L’iniziativa si inserisce in un quadro di necessità crescente. In Trentino Alto Adige oltre 19.000 persone ricevono regolarmente aiuti alimentari, il 30% in più rispetto a dieci anni fa. Secondo i dati forniti dal Banco Alimentare regionale, il numero di persone assistite si aggira intorno alle 20.000, con leggera prevalenza nella provincia di Bolzano. La raccolta annuale raggiunge in media le 2.000 tonnellate di cibo, di cui la metà proviene da eccedenze recuperate evitando sprechi. “Quest’anno abbiamo sofferto - ammette Giovanni Vultaggio, direttore del Banco Alimentare regionale -. Già a giugno le scorte erano terminate”. La domanda è infatti in costante aumento, aggravata dall’inflazione e dalla difficoltà delle famiglie nel fronteggiare l’aumento dei prezzi di beni primari. Luca Merlino, vicepresidente dell’associazione, racconta che “gli alimenti vengono consegnati a domicilio perché c’è vergogna a ritirare i pacchi. Tanti sono cittadini non europei, ma molti anche i locali: padri separati e anziani, i più difficili da raggiungere”. Quest’anno l’iniziativa si spingerà fino a San Candido e coinvolgerà anche aziende e scuole come il Liceo Galilei e l’Istituto Walther di Bolzano, oltre ai 140 punti vendita aderenti. Ma l’impegno del Banco Alimentare e dei suoi volontari non si esaurisce domani: progetti come “Siticibo” o “Cacciatori di Briciole” permettono il recupero quotidiano di alimenti freschi dalla ristorazione collettiva che vengono distribuiti ai privati e a strutture di assistenza. In regione 50 volontari si occupano della consegna a enti quali Croce Rossa, Caritas e Trentino Solidale: 100 le realtà benefiche coinvolte. La giornata di domani è un segno tangibile di speranza a cui ciascuno, recandosi al supermercato, può contribuire. Bolzano. Piantedosi: Cpr, nel 2025 si parte di Francesco Mariucci Corriere dell’Alto Adige, 15 novembre 2024 Il ministro dell’Interno in visita a Bolzano. Kompatscher: valutiamo un blocco unico col carcere. Il Centro di permanenza per i rimpatri si farà, parola del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. La realizzazione di un Cpr, più volte auspicata dalla giunta provinciale, è stata rilanciata ieri in occasione della visita di Piantedosi a Bolzano. Il ministro ha prima partecipato al Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico, in mattinata al commissariato del governo, e poi alla prima conferenza provinciale sulla sicurezza, nel pomeriggio al Noi Techpark. Occasione per sottoscrivere un accordo quadro tra il ministero e la Provincia, dalla certezza di nuovi agenti fino agli aiuti per gli alloggi delle forze dell’ordine, ma soprattutto rilanciare alcuni buoni propositi in materia di sicurezza. Nello specifico, appunto, la realizzazione di due Cpr distinti, e di dimensioni contenute, per le due province di Bolzano e Trento: “È un progetto rispetto al quale abbiamo rinnovato la condivisione” esordisce Piantedosi poco dopo la firma del protocollo fianco a fianco col governatore Arno Kompatscher. E spunta anche una possibile data: “Stiamo completando le verifiche a livello nazionale, ma vogliamo procedere al più presto possibile. Credo che l’anno prossimo potrebbe essere sicuramente un obiettivo. In ogni caso evidenzia -, il sì non è già in discussione”. Servirà, cioè, capire se la localizzazione sarà effettivamente quella che si pensa, nella zona dell’aeroporto a Bolzano sud. Ma almeno sul via ai lavori nel 2025, anche Kompatscher si mostra fiducioso. Sull’utilità di una struttura simile anche se a capienza ridotta (non più di 20-25 posti), Piantedosi non ha dubbi. Cita i dati riportati nella riunione del Comitato: “In Alto Adige il 10% della popolazione è composta da stranieri regolari, il 16% nel capoluogo, ma il numero di reati commessi da cittadini stranieri supera il 50%. Lungi dal pensare che ci sia una vocazione particolare degli stranieri a delinquere, ma è il segno del fatto che se non perseguiamo sempre di più percorsi di regolarizzazione delle presenze, e parallelamente di rimpatri ed espulsioni di chi invece è irregolare, avremo sempre l’alimentazione di sacche di emarginazione sociale. Fattori che poi generano reati e di conseguenza insicurezza nelle persone”. Secondo Piantedosi quindi, si tratta di una struttura che “deve essere a disposizione delle istituzioni locali”. La novità, casomai, è rappresentata dal fatto che insieme al Cpr potrebbe, ovviamente con tempistiche diverse, arrivare nello stesso luogo anche il nuovo carcere (che però è competenza del ministro della Giustizia Carlo Nordio). L’ipotesi è confermata dal presidente Kompatscher: “I due ministri sono in stretta collaborazione sull’idea di trovare delle sinergie su Cpr e carcere. Sembra che ora la soluzione sia quella di trovare una dislocazione unica e un sistema che possa soddisfare entrambe le esigenze”. Materia in più sul tavolo di Marco Doglio, il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria che il governo ha nominato lo scorso settembre e che Kompatscher ha già incontrato proprio su indicazione del guardasigilli. Proprio la presenza di un commissario straordinario, stando a quanto prospettato dal governo a Kompatscher, sarebbe garanzia di tempi non biblici. Oristano. In carcere lo spettacolo dedicato a Gramsci: attori protagonisti i detenuti di Alessia Orbana L’Unione Sarda, 15 novembre 2024 Il lavoro è l’esito finale di un laboratorio teatrale, diretto da Paolo Floris. Protagonisti speciali nello spettacolo “Gramsci spiegato a mia figlia” portato in scena venerdì 15 novembre alle 10 nel teatro della casa di reclusione “Salvatore Soro” di Oristano. Insieme al regista e attore Paolo Floris sul palco saliranno infatti 15 detenuti del circuito dell’alta sicurezza, accompagnati dai musicisti Luca Cadeddu Palmas e Pierpaolo Vacca. Il lavoro è l’esito finale del laboratorio teatrale, diretto da Paolo Floris, “#gramscispiegatoamiafiglialab” svoltosi nel corso del 2024 all’interno del complesso carcerario e che ha visto coinvolti 15 ospiti della struttura frequentanti le classi degli istituti di formazione superiore che operano all’interno: l’istituto tecnico “Lorenzo Mossa” e il liceo artistico “Carlo Contini”. Il progetto è stato finanziato interamente dall’Associazione “Per Antonio Gramsci” di Ghilarza e dall’Associazione Culturale “Pane e Cioccolata” in collaborazione con i due istituti scolastici e il personale dell’area educativa della struttura. “Nel corso dell’attività i ragazzi detenuti hanno avuto modo di conoscere la figura e l’opera di Antonio Gramsci, scoprendone i temi più significativi: l’importanza dello studio e della cultura, la partecipazione attiva alla vita collettiva, i rapporti fra le classi sociali, l’impegno individuale davanti alle ingiustizie, con una conseguente ricaduta positiva in termini di arricchimento e di allargamento degli orizzonti esistenziali e culturali che hanno indotto una riflessione sul loro vissuto e una presa di coscienza e di crescita personale dal punto di vista intellettuale ed etico”, sottolinea Paolo Floris. Il tema del carcere come “comunità educante” e del reinserimento sociale dei detenuti è l’obiettivo principale del progetto “Cosa resta di un uomo” che l’Associazione “Per Antonio Gramsci” e l’Associazione Culturale “Pane e Cioccolata” portano avanti dal 2023 all’interno della casa di reclusione di Oristano e che, in accordo con la struttura, proseguirà nel 2025. Parma. Da lunedì a giovedì il convegno “Liberarsi dalla necessità del carcere” unipr.it, 15 novembre 2024 La sede centrale dell’Università di Parma ospiterà dal 18 al 21 novembre il convegno Liberarsi dalla necessità del carcere (1984-2024). L’attualità del pensiero di Mario Tommasini, organizzato dai docenti e dalle docenti dell’Ateneo Fabio Cassibba, Antonio D’Aloia, Maria Inglese, Vincenza Pellegrino, Chiara Scivoletto, Veronica Valenti. L’iniziativa vuole innanzitutto ricordare il convegno che, proprio quarant’anni fa, Mario Tommasini organizzò all’Università e che a livello nazionale rimane tutt’oggi una testimonianza indelebile della forza del suo pensiero: del suo impegno sociale e culturale a tutela dei diritti delle persone più fragili ed emarginate della società, del suo agire per arrivare a un cambiamento culturale e giuridico rispetto alle dimensioni delle cosiddette “Istituzioni totali”, anche attraverso un modello di azione politica e sociale in grado di superare la distanza tra Istituzioni e cittadinanza e di costruire un ponte permanente tra “il dentro” e “il fuori” del carcere. Si legge negli atti di quel convegno: “Il lungo cammino per liberarsi dalla necessità del carcere potrà percorrersi se due voci, quella degli internati e quella dei cittadini liberi, si incontreranno, se si privilegerà l’emancipazione al posto della punizione, l’accettazione delle ragioni del conflitto al posto della vittoria del più forte, le ragioni dei bisogni al posto di quelle della conservazione, la trasformazione sociale di aree del paese invece della pura criminalizzazione dei quartieri e delle periferie”. Ciò con l’intento anche di “decostruire” i tanti pregiudizi sociali sulla condizione delle persone ristrette, che ne rendono a volte molto difficile il rinserimento sociale, e sperimentare percorsi innovativi che consentano di attuare il modello costituzionale di esecuzione della pena (scritto all’articolo 27 della Costituzione) e colmare lo iato tra quel modello costituzionale e la realtà delle carceri italiane. Il convegno si aprirà lunedì 18 novembre alle 9 in Aula Magna con i saluti istituzionali e con la proiezione del docufilm di Fabio Cavalli Viaggio in Italia: la corte costituzionale nelle carceri, in cui sono raccolti i dialoghi tra i giudici della Corte costituzionale e le persone ristrette e che rappresenta, anche da un punto di vista giuridico, un vero e proprio spartiacque. A seguire sono previsti gli interventi di Mauro Palma, già Presidente del Collegio del Garante nazionale dei diritti delle Persone private della libertà personale e Samuele Ciambriello, Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali. La sessione sarà moderata dai docenti dell’Università di Parma Antonio D’Aloia, Fabio Cassibba e Veronica Valenti. Nel pomeriggio, nella sessione In ricordo di Mario Tommasini, dopo i saluti istituzionali la giornalista Carla Chiappini dialogherà con Luigi Pagano, già Vice capo vicario del DAP, direttore di numerosi Istituti di pena, Provveditore alle carceri di Piemonte e Lombardia, che condurrà un’analisi sulle stagioni della politica penitenziaria esplorandone le zone di luce e di ombra. Seguirà una tavola rotonda in cui docenti, garanti, volontari e volontarie, psichiatre e psichiatri, operatori e operatrici sociali e del Terzo settore che hanno condiviso lo spirito e le battaglie di Mario Tommasini si confronteranno sull’attualità del suo pensiero a quarant’anni di distanza da quando fu fondato il movimento “Liberarsi dalla necessità del carcere”. Martedì 19 novembre la mattinata sarà dedicata a una riflessione interdisciplinare, con studiose ed esperte della materia, sulla giustizia riparativa, sullo stato dell’arte della “Riforma Cartabia” e sulla necessità di superare la visione carcero-centrica che caratterizza il sistema di esecuzione penale. Il pomeriggio sarà invece dedicato all’importanza della cura dell’affettività in carcere, partendo da una riflessione a più voci sui contenuti e sulle conseguenze della sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2024 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione che non consente lo svolgimento in carcere di incontri intimi e riservati) e su alcuni contenuti del “Ddl sicurezza” in grado di incidere sullo status delle madri-detenute e delle loro bambine e bambini. Mercoledì 20 novembre il tema della mattina saranno il disagio psichico in carcere e le problematiche legate all’organizzazione delle REMS (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Sono previste anche la lettura di alcuni scritti di detenuti, studenti del Polo Universitario Penitenziario di Parma, raccolti dalla redazione della Rivista “Cerchioscritti” e la proiezione di alcuni video realizzati da Liberi dentro Eduradio &TV. Nel pomeriggio focus sul contributo che le neuroscienze, l’IA e l’etnopsichiatria possono dare per migliorare la condizione detentiva e sull’importanza di creare ponti fra la città e il carcere. Il convegno si chiuderà nella mattinata di giovedì 21 novembre con una riflessione sull’importanza della cura del tempo in carcere (e fuori dal carcere) e delle attività lavorative, di studio, culturali, teatrali per il reinserimento sociale, e con un ulteriore approfondimento sul teatro in carcere. L’iniziativa è patrocinata dalla Fondazione Mario Tommasini, dalla Conferenza dei Garanti territoriali, dal CIRS, dall’Osservatorio Permanente Legalità dell’Università di Parma e dal Circolo culturale Il Borgo, ed è realizzata con il sostegno della Fondazione Cariparma. Firenze. Al Murate Art District si apre “Carcere in città” di Andrea Mascellani La Nazione, 15 novembre 2024 Tre giorni di dialoghi, mostre e performance per ripensare il ruolo del carcere nella società urbana. Da questa mattina e fino a domenica 17 novembre, il Murate Art District di Firenze ospita “Carcere in città”, un evento di tre giorni dedicato al carcere come spazio non solo di pena, ma di potenziale reinserimento sociale. L’iniziativa vuole aprire un dialogo costruttivo tra la città e il sistema penitenziario, evidenziando il ruolo di quest’ultimo come attore attivo nella comunità. Promosso dalle associazioni di avvocati Associazione Insieme e Adgi (sezione di Firenze), con la collaborazione dell’Ordine degli Architetti di Firenze, la Fondazione Architetti Firenze e il patrocinio della Fondazione Michelucci, l’evento raccoglie numerose realtà cittadine impegnate nella riflessione sul tema, come il Centro Fiorentino Studi Giuridici e la compagnia teatrale Attori & Convenuti. La conferenza inaugurale è stata suddivisa in due sessioni, affrontando le tematiche di “Carcere e città” in mattinata e “Affettività e carcere” nel pomeriggio. Gli interventi di alcuni architetti specialisti del settore hanno messo in luce come ci sia ancora molto che si possa fare per rendere l’attuale sistema carcerario un posto più “vivibile”, rispetto a quello che tristemente sta diventando noto non solo come un luogo di penitenza ma anche di sofferenza. Nella prima mattinata è stato portato ad esempio il Giardino degli incontri, opera realizzata all’interno del carcere di Sollicciano nel 2007 e ideato da Giovanni Michelucci. Una struttura pensata per i momenti di incontro dei detenuti con le loro famiglie ed in particolare i bambini. Alle ore 11.20, era previsto, infatti, un focus sulla casa circondariale di Sollicciano, con l’intervento della direttrice Antonella Tuoni, che tuttavia non ha potuto partecipare a causa della mancata autorizzazione da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Parallelamente alla conferenza, è stata inaugurata la mostra fotografica Momenti dall’interno di Chiara Benelli, che offre uno sguardo intimo sulla vita quotidiana all’interno delle mura carcerarie. A seguire, performance e momenti di riflessione hanno arricchito la giornata: alle 12, Marco Sorbara ha condiviso la sua esperienza come carcerato in isolamento; alle 15 si è tenuto un reading poetico dei collettivi presenti, mentre alle 18.30 la compagnia Attori & Convenuti ha messo in scena uno spettacolo teatrale sul tema dei suicidi in carcere, esplorando uno degli aspetti più tragici e spesso taciuti del sistema penitenziario. Il programma delle prossime giornate - L’evento prosegue venerdì 15 novembre con tour tematici del complesso delle Murate, durante i quali sarà possibile visitare anche un’ala del carcere duro. Le visite, con posti limitati, sono organizzate alle ore 10 e alle ore 11, e si concentrano sul recupero architettonico degli spazi ex-carcerari e sulla loro storia. La chiusura dell’evento è prevista per domenica 17 novembre, con un focus sulla salute mentale in carcere presso la sala incontri del Caffè letterario delle Murate, in collaborazione con l’associazione Brigata Basaglia. A seguire, una slam poetry si concentrerà sulle patologie psichiche più diffuse tra i detenuti, gettando luce su una questione spesso trascurata ma fondamentale per il reinserimento sociale dei carcerati. L’evento “Carcere in città” si propone come un’importante occasione di riflessione collettiva, invitando i cittadini a guardare al carcere non solo come luogo di pena, ma come parte integrante della vita urbana e sociale, con l’ambizione di promuovere il cambiamento attraverso il dialogo e la consapevolezza. Ivrea (To). Genitorialità dietro le sbarre, si riscopre il valore dell’affettività in carcere di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 15 novembre 2024 Un incontro nella Sala Dorata del Comune di Ivrea esplora il diritto dei detenuti a essere padri e uomini, con iniziative culturali che aprono nuovi orizzonti di reinserimento. Martedì scorso, nella Sala Dorata del Palazzo Comunale di Ivrea, è stato sollevato il velo su un tema tanto essenziale quanto poco considerato: la genitorialità dietro le sbarre e il diritto dei detenuti a mantenere legami affettivi con i propri figli e familiari. Organizzato dall’associazione La Traccia APS in collaborazione con il Teatro A Canone, Comme d’Habitude, CPIA 4, il Comune di Ivrea e la Casa Circondariale di Ivrea, l’evento ha riunito istituzioni e associazioni impegnate per sensibilizzare la comunità sull’importanza di mantenere una connessione umana anche dietro le sbarre. L’incontro, dal titolo “Teatro e Affettività: il diritto di essere uomo e padre”, è iniziato con un forte appello istituzionale. Gabriella Colosso, Assessora alle Pari Opportunità, Alessia Aguglia, Direttrice della Casa Circondariale di Ivrea, Bruno Mellano, Garante delle Persone private della libertà del Piemonte, e Raffaele Orso Giacone, Garante presso la Casa Circondariale di Ivrea, hanno portato testimonianze e riflessioni sulla complessità di mantenere vivi i legami affettivi per chi è rinchiuso in un penitenziario. “Dignità e persona coincidono: eliminare o comprimere la dignità di un soggetto significa togliere o attenuare la sua qualità di persona,” ha ricordato Colosso citando l’ex presidente della Corte Costituzionale Gaetano Silvestri. Parole che sembrano un grido per ricordare che il carcere non dovrebbe schiacciare il detenuto, ma aiutarlo a restare connesso ai propri affetti, mantenendo una dimensione umana che è base del reinserimento futuro. Irene Saporito, referente del progetto per La Traccia APS, ha poi descritto le attività che, attraverso il teatro, mirano a ristabilire quella “identità affettiva” dei detenuti, spesso frammentata dalla reclusione. Il teatro, ha spiegato, non è solo un passatempo: è una palestra emotiva che permette di riconnettersi con se stessi e con il ruolo di padre. Anna Fantozzi del Teatro a Canone e Marco Mucaria di Voci Erranti Onlus hanno raccontato come il teatro in carcere possa rappresentare uno spazio in cui i detenuti si confrontano con i propri sentimenti, trovando un’ancora affettiva e un percorso di riscatto. Nel corso dell’incontro, Gabriella Colosso ha ricordato il valore della Carta dei figli dei genitori detenuti, un protocollo firmato nel 2014 dal Ministero della Giustizia insieme a organizzazioni come Bambinisenzasbarre, che tutela i diritti dei bambini ad avere un rapporto con i propri genitori anche in contesti difficili come il carcere. Ivrea ha sposato questa missione sociale, organizzando negli ultimi anni momenti di incontro per i detenuti e i loro figli: dalla “partita di pallone tra bambini e padri” nel 2023 a una giornata di attività con pony nel 2024. Il messaggio è chiaro: il carcere non può limitarsi a essere un luogo di contenimento. Per tanti detenuti, riconnettersi con la propria identità familiare e sociale è fondamentale. Queste iniziative dimostrano che il carcere di Ivrea non è solo una struttura di reclusione, ma può diventare un luogo di rieducazione autentica, dove il recupero delle relazioni e dei legami affettivi permette ai detenuti di mantenere vivi i valori che li definiranno una volta tornati in libertà. Siena. Band di detenuti e agenti. I “Cella musica” cercano fondi per il primo disco di Laura Valdesi La Nazione, 15 novembre 2024 Lanciata la campagna di crowdfunding che terminerà il 24 dicembre. Un progetto di rinascita che è stato appoggiato dalla Fondazione Mps. La musica può essere una via di fuga. Quando la vita scorre dietro le sbarre di una cella. Un modo per continuare a sognare e a vivere. Per guardare oltre l’orizzonte delle mura di un carcere. Ma può anche trasformarsi in un progetto di inclusione ed umanità. Una nota alla volta, in attesa della libertà. Così il gruppo “Cella Musica” della casa circondariale di Siena prova a gettare il cuore oltre l’ostacolo. E lancia una campagna di raccolta fondi dal titolo evocativo, ‘InnocentEvasioni’, per realizzare un disco inedito della singolare band del carcere. Composto da brani originali e da cover, interamente suonato e cantato dai ‘Cella Musica’. Un’idea nata dall’impegno di LaLut-Centro di ricerca e produzione teatrale, che ha ricevuto il sostegno della Fondazione Mps attraverso l’avviso ‘Let’s Digital!’ che offre nuove opportunità di crescita delle competenze digitali per le realtà del terzo settore senesi attraverso il supporto e la consulenza degli esperti di ‘Feel Crowd’. Non è dunque solo un disco ma un progetto di rinascita da sostenere. “Tutti possono farlo contribuendo con una donazione. C’è tempo fino al 24 dicembre. Insieme facciamo volare la musica oltre le mura del carcere”, l’invito dei promotori. Che raccontano la genesi del sogno. “L’iniziativa ambiziosa nasce dall’impegno dei detenuti e dello staff del carcere, uniti dalla passione per la musica e dal desiderio di riscatto attraverso l’arte”, chiariscono. Del resto ‘Santo Spirito’ è da tempo una realtà complessa dove la riabilitazione passa anche attraverso la cultura. Negli ultimi anni ‘LaLut’ ha offerto laboratori permanenti, creando un gruppo musicale eterogeneo, composto da detenuti, polizia penitenziaria, operatori e musicisti professionisti. In questo contesto ha preso forma l’idea di incidere un disco. Simbolo tangibile di riscatto facendo uscire il loro lavoro dalle mura della casa circondariale. Potere della musica. Il disco raccoglierà canzoni dove risuonano messaggi di riscatto e di libertà, rivolgendosi a un pubblico che apprezzerà anche il senso profondo del progetto, opportunità per chi, spesso dimenticato, desidera esprimere il proprio talento e ricominciare. Così con il supporto di musicisti senesi e registrazioni nel teatro del carcere più il Gorilla Punch Studio di Damiano Magliozzi, il disco sarà prodotto ad un livello tecnico elevato. L’obiettivo? La raccolta fondi serve per coprire le spese di registrazione e promozione. Il ricavato è indispensabile per la sala di incisione e per gli specialisti, per fare in modo che l’iniziativa voli fuori da Santo Spirito. “Ogni contributo, anche il più piccolo, avrà un grande valore che sarà rafforzato dal contributo della Fondazione Mps che ha promesso di sostenere il progetto con una donazione di 1000 euro al raggiungimento della soglia di 3mila. E chi aderirà alla campagna di crowdfunding avrà il disco in anteprima, anche in versione digitale, gadgets e altri ringraziamenti. Siamo vicini a Natale, questo sarebbe davvero un bel regalo per il gruppo dei “Cella musica”. Un bel gesto per chi crede che si può ripartire anche dopo aver sbagliato. Il ruolo del teatro sociale oggi. Donatella Massimilla: “Alda Merini, il rossetto e i giovani” di Filippo Rubulotta mitomorrow.it, 15 novembre 2024 La direttrice di CETEC e del Festival A casa di Alda Merini racconta il loro lavoro e la figura della poetessa. Donatella Massimilla è nota per il suo impegno nel teatro sociale e nell’uso di questa forma d’arte come strumento di inclusione sociale e riabilitazione, in particolare nelle carceri. È la fondatrice e direttrice artistica del CETEC (Centro Europeo Teatro e Carcere), che si rivolge a persone con storie difficili come detenute, migranti e donne vittime di violenza. La regista è anche direttrice artistica del Festival A casa di Alda Merini, che prosegue fino al 25 presso lo Spazio Alda Merini, in via Magolfa 30. Dove nasce l’idea del Festival? “Il Festival si propone di celebrare la poetessa in maniera multidisciplinare, facendo sentire a casa artisti di età diverse che possono usare più linguaggi”. Cosa caratterizza il CETEC? “Il CETEC è sempre stato attento a una ricerca artistica che non esclude nessuno. Per questo il 25 novembre regaleremo a tutte le donne maltrattate del territorio un rossetto che porterà la scritta “Non sono una donna addomesticabile”. Alda Merini metteva il rossetto non solo sulle labbra, ma anche sulle guance dei suoi amici”. Quanto può essere importante il sostegno delle istituzioni? “Per la realizzazione del Festival è molto importante il sostegno del Comune di Milano e di Regione Lombardia. E a livello nazionale? “Lo scorso anno abbiamo avuto il riconoscimento dal Ministero dei Beni Culturali come piccolo museo, sotto la nostra conduzione da circa due anni e mezzo”. Alda Merini sulla scia degli haiku giapponesi: un successo a livello internazionale? “Ci vuole tempo per essere riconosciuti e le poesie di Alda Merini stanno riscontrando successo internazionale soltanto adesso. La profondità dei suoi versi la rendono un punto di riferimento per chi cerca verità e intensità nell’arte e nella poesia. Anche gli aforismi scoperti dai giovani sulla rete sono degli haiku giapponesi di fortissima comunicazione”. Lo spettacolo dedicato a Franco Basaglia e ad Alda Merini in programma domenica - “La follia è una strada stretta, ci passano solo in pochi”, una delle tante frasi scritte dalla Merini sulla propria vita ispira lo spettacolo Auguro a tutti un briciolo di follia del 17 novembre, alle 20.30 allo Spazio Alda Merini (evento gratuito fino a esaurimento posti). Con queste parole la follia viene paragonata a un sentiero limitato, difficile da percorrere e accessibile soltanto a pochi. Questo sentiero è stretto perché richiede una sensibilità profonda e una visione del mondo che non tutti possiedono. Solo pochi, secondo la poetessa, hanno il coraggio o la capacità di passare attraverso di esso, accedendo così a una dimensione di esperienza umana e interiore che resta preclusa alla maggioranza. Cosa significa oggi educare bambini e adolescenti ai diritti umani: quali pratiche, quali strumenti? Il Domani, 15 novembre 2024 Educare ai diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, per dare vita a un grande cambiamento culturale dalle aule scolastiche al mondo. Anche grazie a un libro in progress, ricco di attività a tema, implementabili dal corpo docente e da operatrici e operatori del settore. Un vero e proprio manuale per la cultura dei diritti umani, violati quotidianamente in Italia e in molte altre aree del mondo. “Accendiamo i diritti” curato da Guido Antonelli Costaggini e Alessia Maso, Edizioni La Meridiana, libro disponibile da novembre 2024 nelle principali librerie italiane, concretizza questa filosofia in interventi pratici nel campo educativo e della formazione. Gli autori propongono nelle prime pagine una concisa e puntuale esposizione teorica a supporto del metodo suggerito. Poi ventidue schede propongono altrettanti esercizi pratici basati sull’Approccio ai Diritti. Attraverso l’utilizzo di penne, fogli di carta, testi di canzoni e poesie si scopre così che è possibile creare percorsi di gioco “attraverso”, “per” e “sul” Diritto alla Non Discriminazione, sancito dall’Art. 2 della Convenzione. Così come, nel rispetto dello stesso comma della norma internazionale, con matite, cartelloni colorati e un semplice collegamento a internet, si può proporre un corretto approccio alla comunicazione digitale. Mediante pochi oggetti di cancelleria è facile poi “allenare” il Diritto alla Partecipazione (Art. 12), mentre con una cartina geografica e qualche foglio è verosimile creare un gioco da tavolo a tema Diritto all’Identità, (Art. 8), e all’Istruzione (Art. 28). Procurandosi del terriccio, un po’ di argilla e qualche seme di pianta si possono invece smuovere coscienze sul rispetto per l’ambiente (Art. 29), con una divertente attività ispirata ad azioni di guerrilla gardening. Gli interventi operativi proposti nel libro insomma sono di ispirazione per la creazione di nuove pratiche, che potranno essere condivise e inserite nella parte “in progress” della pubblicazione, accessibile attraverso Qr Code, ampliando le possibili soluzioni sul campo. Le attività e il metodo di Edi Onlus - L’Approccio ai diritti è il fulcro dell’azione della cooperativa sociale Edi Onlus che dal 2012 realizza interventi educativi e formativi in tutta Italia, mettendo al centro i Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza così come sanciti dalla convenzione Onu del 1989. Formare “sui diritti”, “attraverso i diritti” e “per i diritti” significa proteggere le persone vulnerabili ma anche renderle partecipi e consapevoli di quelli di cui sono titolari in quanto minorenni. Dando centralità alle persone e alla co-costruzione dei saperi, assegnando valore al linguaggio e alla delicatezza come modalità relazionale che traduce in sostanza la gentilezza. Un metodo che impone di affrontare proficuamente il dilemma tra partecipazione e protezione: esercitare i diritti, conoscerli ma anche praticarli proteggendo attivamente quelli di tutto il gruppo che partecipa. EDI Onlus porta da più di dieci anni nelle scuole, nelle aziende e nelle comunità di tutta Italia progetti che danno risposte convincenti alle domande più sfidanti poste dalla modernità. Il libro sarà presentato martedì 19 novembre 2024 alle ore 15, alla vigilia della Giornata Mondiale dei diritti dell’infanzia, alla Città dell’Altra Economia a Roma. L’evento vedrà intervenire Claudia Pratelli: Assessora alla Scuola, Formazione e Lavoro - Roma Capitale; Francesca Bilotta: Head of Education and Child Poverty - National EU Programmes & Advocacy - Save the Children Italia; Simone Digennaro: Professore Associato presso Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale; Giovanni Scotto: Professore associato di Teorie del conflitto e della mediazione, Università di Firenze; Guido Antonelli Costaggini: Direttore Edi Onlus, Alessia Maso: vicepresidente Edi Onlus “Si tira dritto”. Migranti, la linea Meloni-Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 15 novembre 2024 Nessuna rinuncia al “modello Albania”, il guardasigilli rassicura la premier sulla tesi che il governo sosterrà davanti alla Corte Ue: solo i Servizi segreti possono verificare la sicurezza dei Paesi. A uno sguardo superficiale, si direbbe che siamo agli atti di autolesionismo. O meglio, al pallone calciato in corner alla disperata, sotto l’assedio della squadra avversaria. L’emendamento al decreto Flussi che trasferisce alle Corti d’appello la competenza sui ricorsi dei migranti sembrerebbe un rimedio poco strategico, a voler usare un eufemismo. Intanto potrebbe allontanare i target di efficienza concordati, nell’ambito del Pnrr, per i giudizi di secondo grado, e in ogni caso rischia di rinviare solo di poco il minuto del “gol” avversario. La modifica proposta dalla relatrice Sara Kelany, di FdI, nella commissione Affari costituzionali di Montecitorio di per sé sarebbe insufficiente a spezzare la sequenza di batoste inflitte, sui migranti e sul modello Albania, dalle toghe al centrodestra. Se i consiglieri di Corte d’appello sono un po’ meno esperti, meno specializzati in materia di protezione internazionale, rispetto ai colleghi delle sezioni “dedicate” istituite in primo grado, è pur vero che si tratta di magistrati con maggiore esperienza, obbligati dal loro stesso ruolo a un’ancora più meditata e cauta ponderazione. E dunque a una ancora più elevata attenzione per i diritti sanciti, dalla Costituzione italiana, nella prima, intangibile serie di articoli. Ma è invece proprio in vista di una valutazione più complessiva che l’Esecutivo ha deciso di modificare, intanto, la “destinazione di arrivo” dei ricorsi presentati dai richiedenti asilo, incluso chi verrà, anche in futuro, “trattenuto” nel centro albanese di Gjader. Al momento sembra improbabile che l’orientamento della magistratura possa cambiare, che si tratti di giudici assegnati alle sezioni Immigrazione dei Tribunali o, appunto, delle Corti d’appello. Eppure ci sono aspetti sui quali il governo è convinto di poter puntare con successo. Tanto da far escludere una ritirata, una resa sul “modello Albania”. E anzi, fonti governative riferiscono l’esatto contrario: si andrà avanti. “Se sull’immigrazione un governo sceglie una strada, non possono certo essere le valutazioni della magistratura a spingerlo in una direzione diversa”, è la sintesi del discorso. Certo, una figura non certo marginale in Fratelli d’Italia come Ignazio La Russa - nel giorno in cui Elon Musk ha partorito il suo “se ne devono andare”, rivolto ai giudici italiani - aveva sommessamente detto che bisognerà attendere la pronuncia della Corte di Giustizia Ue. I giudici di Lussemburgo sono stati interpellati da più di un Tribunale italiano: da ultimo, è stata la sezione Immigrazione del Tribunale di Roma a rimettere alla giurisdizione europea la norma oggetto del contrasto fra governo e toghe, contenuta nel decreto Paesi sicuri e destinata a essere convertita in legge come emendamento al decreto Flussi. Con quel provvedimento, Paesi come Egitto e Bangladesh vengono definiti, appunto, in grado di garantire la tutela dei diritti umani. I magistrati italiani che hanno rinviato la questione alla Corte di Lussemburgo chiedono di valutare se la classificazione stabilita dall’Esecutivo di un Paese membro dell’Ue, qual è l’Italia, possa superare la valutazione del singolo giudice sul singolo caso, e se dunque quel certo giudice non sia piuttosto legittimato a disapplicare il decreto Paesi sicuri. Ma è proprio qui il punto: davvero un Tribunale, una sezione della magistratura civile, ha informazioni più complete e attendibili di un intero apparato statale? Intanto, Giorgia Meloni, di rinunciare al “modello Albania”, non vuol sentir parlare. Il trattenimento a Gjader è uno spauracchio che dovrebbe dissuadere non solo chi si mette in viaggio, in mare, verso l’Italia, ma anche scoraggiare gli stessi “trafficanti di esseri umani”. L’idea della “deterrenza” piace a diverse cancellerie dell’Ue. E la premier è a maggior ragione determinata ad andare avanti. Sa, certo, che il quadro non può ridursi alla brutale semplificazione di Elon Musk. Il quale suggerisce di licenziare i giudici. Manco fossero dei precari cococo. E allora? E allora la chiave è nelle mani di Carlo Nordio. Il guardasigilli. È lui la risorsa. La figura da cui ora l’intero Esecutivo aspetta la soluzione. Fino a poche settimane fa i provvedimenti e l’intera strategia sui migranti sono passati per il Viminale, piuttosto che per via Arenula. Ma nel momento in cui il conflitto giurisdizionale supera, per urgenza, il profilo della sicurezza, della difesa dei confini, a presidiare la prima linea è il ministro della Giustizia. E il punto di vista di Nordio, che certamente contribuisce a rassicurare Meloni, è molto semplice: davanti a un giudice terzo - che forse sarà solo la Corte di Giustizia, ma che potrebbe rivelarsi anche nelle Corti d’appello o nella Cassazione - le decisioni dei Tribunali non potranno che apparire prive di una competenza decisiva propria solo di uno Stato inteso in tutte le sue articolazioni. Solo lo Stato, è la difesa con cui il governo si appresta a battersi sia a Piazza Cavour che, quando sarà possibile, a Lussemburgo, può “condurre istruttorie”, anche attraverso i “servizi segreti”, per verificare la sicurezza di un certo Paese straniero e, dunque, l’assenza dell’obbligo di assicurare rifugio politico al migrante che provenga da quel particolare Stato. È qui, esattamente nel limite quasi ontologico di un organo giurisdizionale, lo snodo preciso sul quale il governo è convinto di poter prevalere sul Tribunale di Roma e sulle altre sezioni Immigrazione. E la “vittoria” potrebbe essere decretata, è l’auspicio riferito da fonti dell’Esecutivo, prima della sfida alla Corte di Giustizia Ue, che rischia di doversi disputare non prima di un anno. Di certo, molto presto i provvedimenti di mancata convalida del trattenimento in Albania, impugnati dall’Avvocatura dello Stato, saranno valutati dalla Suprema corte. E tra gli elementi che l’Esecutivo proverà a far valere in Cassazione c’è anche il progressivo “arricchirsi” delle motivazioni che, dopo la prima decisione assunta dai giudici della Capitale, è affiorato nei decreti di altri Tribunali, evidentemente consapevoli di dover rafforzare le basi delle loro decisioni. Ma certo, la Suprema Corte di Cassazione potrebbe ritenere di non potersi spingere fino a valutare simili aspetti, inclusa la carenza di riscontri che l’Avvocatura dello Stato pure contesta ai richiedenti asilo autori dei ricorsi. E allora: il match decisivo si giocherà alla CgUe, acronimo un po’ sdrucciolevole che indica i giudici europei di stanza a Lussemburgo. A meno che il trasferimento della competenza alle Corti d’appello non favorisca una valutazione sugli aspetti che l’Esecutivo, e il ministro Nordio innanzitutto, ritengono decisivi, a cominciare dalla complessità delle istruttorie che, sulla “sicurezza” di un Paese straniero, solo uno Stato, e i suoi Servizi segreti, possono condurre. In astratto, non si può escludere nemmeno che l’Italia riesca a concordare, con i partner eurounitari, una clamorosa accelerazione sul “Patto per l’immigrazione e l’asilo”, che dovrebbe essere adottato a luglio 2026. Difficile riuscirci. E perciò la linea del governo è orientata ad andare avanti in ogni caso col modello Albania. Nella convinzione che la tenacia sarà premiata, prima o poi, da un giudice, italiano o europeo. Migranti. “Il governo è a caccia del giudice che gli dia ragione”, parla Stefano Musolino (Md) di Angela Stella L’Unità, 15 novembre 2024 Le toghe contro il blitz per esautorare le sezioni immigrazione dei tribunali: “Il problema non sono i giudici ma le norme. In Corte di Appello non ci sono le competenze”. E c’è chi dice: “Forse l’ignoranza garantisce di più l’esecutivo”. “Temo che il Governo sia a caccia del giudice accondiscendente che non c’è, nella illusione che il problema sia il Giudice e non già i rapporti tra norma nazionale e norma europea”. Così commenta il Segretario di Magistratura Democratica, Stefano Musolino, l’iniziativa della deputata di Fratelli d’Italia, Sara Kelany, che ha presentato un emendamento al dl Flussi, in discussione nella Commissione Affari Costituzionali della Camera, che priva le sezioni immigrazione dei Tribunali civili della facoltà di decidere sui trattamenti dei migranti da parte del Questore, demandando tutto invece alle Corti di Appello civili. Si legge infatti nell’emendamento: “Per i procedimenti aventi ad oggetto la convalida del provvedimento con il quale il questore dispone il trattenimento o la proroga del trattenimento del richiedente protezione internazionale” è “competente la Corte d’appello” nel cui “distretto ha sede il questore che ha adottato il provvedimento oggetto di convalida”. La Corte d’appello “giudica in composizione monocratica”. Musolino, leader della corrente dell’Anm maggiormente presa di mira in queste ultime settimane dalla stampa di destra e dalla maggioranza, ha proseguito: “Vi è stato un grande investimento organizzativo, di risorse umane, di affinamento di competenze nella creazione, in tutti i Tribunali italiani delle Sezioni specializzate in materia di protezione internazionale. In Corte di Appello non ci sono quelle competenze, sebbene si potranno formare con il tempo, ma soprattutto non c’è un numero sufficiente di magistrati per fornire un servizio efficiente. Il Governo sembra ignorare che già oggi le Corti di Appello sono in grave sofferenza nella gestione dei carichi di lavoro, incrementarli ulteriormente li renderebbe ingestibili, impedendo il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr. È come una tela di Penelope: si sono organizzati i Tribunali, creando sezioni specializzate per fronteggiare i maggiori numeri derivanti dai flussi migratori ed ora si disfa tutto e si trasferisce quel carico alle Corti di Appello che sono già di loro in crisi, inibendo il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr, con la conseguenza di perdere rilevanti risorse finanziarie. Un caos organizzativo e gestionale, alla ricerca di un giudice cedevole rispetto ai principi di autonomia e indipendenza. Temo che sia una ricerca inutile, perché quel Giudice, per fortuna dei cittadini italiani, non c’è, non è previsto dalla nostra carta costituzionale”, ha concluso Musolino. Ha aggiunto Giovanni Zaccaro, Segretario della corrente progressista dell’Associazione nazionale magistrati, AreaDg: “Non riesco a comprenderne il motivo. Così si sottrae la competenza ai giudici specializzati nella materia e la si sposta alle Corti di appello, già schiacciate da enormi carichi di lavoro ed in affanno nel raggiungere gli obiettivi di smaltimento dell’arretrato, concordati dal governo con l’Europa”. Ha commentato l’emendamento Kelany anche il Segretario dell’Anm, Salvatore Casciaro: “L’impugnazione in Corte d’appello contro i provvedimenti in materia di protezione internazionale e l’attribuzione alla stessa corte della competenza sulle convalide dei trattenimenti renderà plausibilmente meno celere la definizione dello status dei richiedenti asilo, col rischio di allungare anche i tempi di permanenza di coloro che non hanno titolo per restare in Italia. Si tratta di modifiche in grado di ingolfare gli ingranaggi della macchina della giustizia alimentando, in tempi di Pnrr, nuovo rilevante contenzioso per le Corti d’appello, già - come noto - oltremodo oberate”. Un altro magistrato ci dice: “I giudici fanno provvedimenti sgraditi e gli si toglie la competenza, assegnandola a giudici che verosimilmente non hanno mai fatto la materia. Forse l’ignoranza garantisce di più il governo”. “Non si erano mai raggiunte delle simili vette. Incredibile davvero”. “Siamo alla massima compressione del diritto di difesa e del diritto a un ricorso effettivo” commenta ancora un magistrato. Il voto sull’emendamento è previsto nei prossimi giorni e il risultato a favore dell’approvazione sembra scontato. Sul dl Flussi è previsto il voto di fiducia il 25 novembre a Montecitorio. Un tentativo di sottrarre le competenze ai giudici del tribunale civile ed assegnarle invece in quel caso al Tar era stato pensato dopo che le toghe avevano disapplicato il dl Cutro. Ora, con questo che è stato definito un blitz dell’ultima ora da parte della maggioranza, sembra che il risultato venga raggiunto. A rendere noto l’emendamento è stato per primo il deputato di +Europa Riccardo Magi che così ha commentato: “Non potendo fare l’emendamento Musk per cacciare i giudici che non obbediscono, per mascherare il fallimento dell’esperimento albanese governo e maggioranza continuano a intervenire compulsivamente e in modo isterico sulla normativa che disciplina il trattenimento delle persone che fanno richiesta di asilo. La scelta del governo quindi è dettata unicamente dal tentativo isterico di cambiare giudici sui provvedimenti relativi alla detenzione in Albania avrà anche pesanti ricadute sull’organizzazione del lavoro delle Corti d’appello”. Intanto il 4 dicembre prossimo la prima sezione civile della Cassazione tratterà il ricorso del Ministero degli Interni contro la mancata convalida del trattenimento dei primi dodici migranti portati in Albania a metà ottobre, sui cui si è pronunciato il Tribunale di Roma dopo la sentenza del 4 ottobre della Corte di Giustizia europea. Piazza Cavour si pronuncerà altresì sul rinvio pregiudiziale presentato a giugno, in cui gli stessi giudici chiedevano di chiarire l’interpretazione della valenza della lista dei Paesi sicuri contenuta nel decreto del Ministero degli Esteri. La presidente Margherita Cassano, decidendo di accorpare le due questioni (sollevate prima dell’emanazione del “dl Paesi sicuri”), probabilmente ipotizza che la decisione sia uguale per entrambe. Mentre sempre la Cgue sarà chiamata, probabilmente l’estate prossima, a dirimere i quattro quesiti sollevati sempre dal Tribunale civile di Roma, sezione immigrazione, qualche giorno sempre sulla stessa questione. Il Governo è comunque intenzionato a non fermare il progetto Albania e quindi, nonostante i rigetti dei magistrati e la sospensione del dl Paesi sicuri, i viaggi della nave Libra non si fermeranno, delineando un continuo ping pong tra Governo e magistratura. In mezzo i migranti. Migranti. La prima Commissione del Csm vota a tutela dei giudici di Bologna di Simona Musco Il Dubbio, 15 novembre 2024 Preoccupazioni sulle ingerenze politiche e mediatiche nei confronti dei giudici insultati per aver rinviato alla Corte di Giustizia Europea il decreto “Paesi Sicuri”. La proposta di delibera, che difende l’autonomia della magistratura, apre però un nuovo scontro tra le diverse fazioni del Consiglio. “Sono stati travalicati i limiti di cronaca e di critica dei provvedimenti giudiziari, così determinando un possibile indebito condizionamento dell’esercizio della funzione giudiziaria oltre che dei singoli magistrati, in violazione delle imprescindibili condizioni di autonomia, indipendenza ed imparzialità. L’auspicio è quello di un dialogo sereno tra le Istituzioni, nel rispetto della reciproca autonomia”. A scriverlo è la prima Commissione del Csm, nella proposta di delibera a tutela dei giudici di Bologna finiti nel mirino del governo e della stampa di destra per aver rinviato alla Corte di Giustizia europea il decreto Paesi Sicuri. La delibera - approvata con cinque voti contro uno - verrà portata al plenum “a tutela dell’indipendenza e del prestigio dei magistrati e della funzione giudiziaria”, date le feroci critiche nate da una scelta legittima e prevista dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, ovvero il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. La Commissione ha formalizzato l’acquisizione della rassegna stampa - contenente articoli che attaccavano il giudice Marco Gattuso non per le sue scelte giudiziarie, ma rimestando nella sua vita privata - e del provvedimento del Tribunale di Bologna. A dire sì alla risoluzione i togati Marco Bisogni, Edoardo Cilenti, Andrea Mirenda e il laico in quota 5Stelle Michele Papa, oltre al presidente togato Tullio Morello, che hanno auspicato “un dialogo sereno e rispettoso tra istituzioni”. Contrario il laico di centrodestra Enrico Aimi, secondo cui non sarebbero “sussistenti i presupposti previsti per l’intervento a tutela e manifestando la preoccupazione per il possibile acuirsi delle tensioni in atto”. Secondo l’ex senatore forzista, “pur riconoscendo che vi sono state, come era naturale che fosse, reazioni dal mondo della politica, che si è sentita ostacolata nelle sue prerogative, tali dichiarazioni pur connotate da toni aspri, non hanno tuttavia concretamente prodotto un reale turbamento tale da incidere sull’indipendente esercizio della funzione giurisdizionale”. Portare la questione in plenum, dunque, rischierebbe di causare, a suo dire, “un’ulteriore escalation delle tensioni tra politica e magistratura di cui l’Italia non ha in questo momento alcuna necessità”. Il che lascia intendere che la polemica politica verrà riproposta proprio a Palazzo Bachelet, a conferma del clima ormai rovente tra politica e magistratura. L’apertura della pratica era stata richiesta da 23 consiglieri, ovvero tutti i togati e i laici Ernesto Carbone (Italia Viva), Roberto Romboli (Pd) e Papa. In questo contesto, però, si era registrata una spaccatura dei consiglieri di Magistratura indipendente, che con tre componenti (Maria Vittoria Marchianò, Maria Luisa Mazzola e Bernadette Nicotra) avevano presentato un testo leggermente diverso da quello depositato dalla maggioranza del Consiglio. Da tempo, si legge nella proposta di delibera, il tema dell’immigrazione è diventato centrale nel dibattito pubblico del Paese, “dando luogo ad un acceso dibattito” e polemiche, “anche con specifico riferimento alle soluzioni giuridiche adottate”, polemiche “non sempre contrassegnate dalla continenza propria della dialettica tra le Istituzioni”. L’ordinanza dei giudici di Bologna, si legge nel documento che verrà sottoposto al plenum, è stata oggetto “di dure dichiarazioni da parte di titolari di alte cariche istituzionali, non correlate al merito delle argomentazioni giuridiche sviluppate nell’ordinanza. Dette dichiarazioni, inoltre, sono state accompagnate dall’esposizione mediatica, da parte di alcune testate giornalistiche nazionali, di fatti e atti della sfera intima e della vita privata e familiare del presidente del Collegio giudicante, non limitati ai suoi interventi pubblici e non attinenti alla questione sottesa all’ordinanza”. Critiche che non hanno riguardato, dunque, i profili tecnici del provvedimento, ma hanno adombrato “un’assenza di imparzialità dell’organo giudicante priva di riscontri obiettivi e fondata su elementi personali alieni al contesto del giudizio”. Proprio per tale motivo “appaiono lesive del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione e tali da turbare il regolare svolgimento e la credibilità della funzione giudiziaria nel suo complesso”. Un tribunale femminista per i diritti delle donne migranti di Federica Pennelli Il Domani, 15 novembre 2024 Nato sul modello di quello delle donne di Sarajevo, è dedicato alle migranti qui in attesa di ottenere lo status di rifugiate. Il progetto serve anche a creare un archivio con le loro storie. Un tribunale femminista che sappia davvero accogliere le istanze delle donne in migrazione senza stigmi e giudizi: questo è il Tribunale delle donne, che promuove il diritto alla protezione internazionale ed a nuove forme di riparazione sociale e politica per le donne migranti, richiedenti asilo e rifugiate. Un progetto che si propone di raccogliere le testimonianze delle donne al di fuori delle procedure regolate dalla legge, costruendo un archivio della memoria a partire dalle loro esperienze, senza giuria né sentenze. La genesi del progetto - laria Boiano, avvocata e attivista femminista, membro dell’ufficio legale dell’associazione Differenza donna, racconta a Domani la genesi del progetto, nato dal confronto “che abbiamo avuto, nel 2022, sui tribunali delle donne come strumenti che le donne hanno utilizzato in varie parti del mondo, denunciando specifiche violazioni dei diritti delle donne nei propri paesi d’origine. Nel corso del tribunale internazionale femminista del 1976 parteciparono anche le donne italiane denunciando tutto ciò che riguardava la criminalizzazione dell’aborto”. Le responsabili del progetto, Ilaria Boiano e Isabella Peretti, hanno coordinato il lavoro proposto dalla Casa internazionale delle donne con Differenza Donna e Le Sconfinate, con l’adesione di Fondazione Basso, Donne di Benin City, Cooperativa EVA, Trama di terre, Cisda, Binario 15, Nove onlus, Nodi, Donne brasiliane in Italia, Bosnia nel cuore e Kalma; con l’obiettivo di spostare il discorso pubblico da quello meramente giudiziario e delle procedure amministrative a quello politico, per sollevare i nodi problematici dell’attuale sistema di regolazione delle frontiere. Isabella Peretti, curatrice della collana “Sessismo e razzismo” per Futura editrice e presidente dell’associazione “Le sconfinate”, racconta a Domani come la progettualità si rifaccia a quella dei tribunali delle donne nel mondo: “Ce ne sono stati una quarantina, in vari continenti. In particolare ci siamo rifatte all’esperienze del Tribunale delle donne di Sarajevo, costituito dalle donne in nero di Belgrado “ un tribunale anomalo, non istituzionale, fatto da donne per le donne “in cui le donne che avevano subito la guerra, spesso con stupri e violenze, nei tribunali ordinari davano testimonianza alle udienze, nei tribunali delle donne invece riuscivano ad esprimersi, a raccontarsi e sono riuscite a mettere insieme donne di tutte le nazionalità: croate, serbe, kosovare, bosniache”. M. è chirurga, docente universitaria e attivista femminista. A Kabul si occupava di violenza domestica contro donne accusate di aver leso l’onore della famiglia e della società e afferma: “Non voglio buttar via tutti i miei obiettivi, ma qui non riconoscono le mie competenze, eppure l’Italia ha bisogno di medici ma non sfruttano le nostre professionalità. Abbiamo lasciato il nostro paese perché non ci permettevano di studiare e lavorare e paradossalmente ci troviamo nella stessa situazione anche qui in Italia. Non riconoscere la mia laurea e la mia esperienza significa non riconoscere la mia dignità. Qui ci permettono solo di fare le badanti o al massimo le mediatrici culturali”. S.H. racconta di essere stata nella lista delle donne da uccidere. È scappata per raggiungere l’Italia e afferma: “Ci dicono di dimenticare le nostre lauree, i nostri ruoli, il nostro passato, di ricominciare a studiare dalla terza media. Le donne in Afghanistan muoiono per loro lotte, qui in Italia moriremo lentamente”. I problemi sono anche legati alla tratta a fini di sfruttamento sessuale, come racconta T. “il motivo che mi ha fatto allontanare da casa è che, con la mia famiglia, avevamo problemi economici”, dopo varie peripezie ha trovato “una donna che mi ha accompagnata in Francia dicendomi che avrei potuto trovare lavoro, ma in realtà mi ha messo in strada a fare la prostituta per restituirle i soldi del viaggio, poi sono scappata ma ero rimasta incinta. Sono arrivata in Italia e per fortuna, nonostante non avessi agganci e documenti, una cooperativa mi ha ospitata”. N.A. viene dall’Afghanistan e racconta cosa voglia dire scappare attraversando i confini: “Sono partita a metà del 2018 e ho impiegato cinque anni ad arrivare in Germania. Le sfide sono state tantissime, soprattutto quelle legate all’attraversamento dei confini. Nessuno si preoccupa di quello che hai vissuto nel tuo percorso di fuga, l’unica cosa che interessa è dove ti abbiano preso le impronte digitali”. Il senso comune di tutte “è la paura. Paura di essere rimandate indietro e di non sapere cosa accadrà alla tua vita. Ho un bisogno profondo di condividere la mia storia”. Tra i tanti ostacoli che le donne migranti devono superare, inoltre, ci sono le Commissioni per l’asilo che pretendono di conoscere i dettagli dei viaggi. Nelle commissioni c’è la richiesta di doversi dimostrare credibili, con la propria storia e il proprio vissuto, ma “molte ragazze provano vergogna a dover raccontare ciò che a loro è accaduto”. L’importanza del racconto - Dalle testimonianze delle donne migranti si evince un diniego ai diritti fondamentali: non riescono a chiedere ed ottenere una casa e l’iscrizione anagrafica cui sono legate tutte le prestazioni sociali, ovvero quegli strumenti che dovrebbero rimuovere gli ostacoli per l’uguaglianza sostanziale. Si determina una situazione di vita precaria e un circolo vizioso all’interno del quale le donne, che sono rese fragili dalle pratiche amministrative inadeguate, rischiano di vedersi limitare la responsabilità genitoriale; in alcuni casi vedendosi portar via i figli. La narrazione delle donne rimane fondamentale per attraversare le diverse procedure, “ma in realtà quanto del loro vissuto, delle esperienze che hanno affrontato, viene davvero ascoltato, tenendo conto della denuncia che portano all’intero sistema?”, afferma Boiano. Allo stesso tempo c’è l’esperienza delle donne che lavorano nei centri antiviolenza e nelle case rifugio che “ascoltano, accolgono e devo elaborare il narrato delle donne per supportare i loro percorsi”, e conclude: “Non ci interessava indagare le specifiche forme di violenza patite, piuttosto ragionare sulle ulteriori forme di oppressione che derivano dalla regolazione dei confini”. Quest’anno si sono dedicate a raccogliere, in un volume scritto, “la prospettiva del tribunale delle donne e le testimonianze delle donne che hanno partecipato. Stiamo preparando un incontro di follow-up con delle donne per cercare di capire che tipo di intervento si possa mettere in campo per facilitare il percorso di riconoscimento dei loro titoli di studio, che sarà proposto in autunno anche a donne della politica, per portare avanti questa iniziativa”. Schengen cade e i muri si alzano. Sui migranti a prevalere è il percepito di Antonio Picasso Il Riformista, 15 novembre 2024 “Olanda e Norvegia seguono quanto già fatto da Germania e Francia”, ricorda Marco Lombardi, sociologo della Cattolica. “La libertà di movimento è essere europei. Chiudere le frontiere significa chiudere l’Europa”. In neanche una settimana, il governo norvegese prima e quello olandese poi hanno sospeso il trattato di Schengen. Se dicessimo che le due mosse sono una fuga in avanti con l’obiettivo di allinearsi alla futura Amministrazione Trump, non avremmo altro da scrivere. L’Europa starebbe già iniziando ad adeguarsi a un nuovo corso politico, fatto di atteggiamenti muscolari e barriere. Tuttavia, ci azzeccheremmo solo in parte. Questo rischioso ritorno al passato non si limita a essere frutto di suggestioni odierne. Il governo Støre a Oslo e quello presieduto da Dick Schoof ad Amsterdam - di cui l’ultra euroscettico Geert Wilders fa da eminenza grigia - hanno soltanto dato un’accelerata a un problema che comunque si presenterà alla prossima Commissione Ue. Un mese e mezzo fa, quindi in tempi non sospetti rispetto al voto in America, quattordici governi Ue, insieme a Norvegia, Svizzera e Liechtenstein, avevano inviato un appello a Bruxelles chiedendo nuove regole per rendere più rigorose le operazioni di rimpatrio dei cittadini non europei. Nelle stesse settimane, sono iniziati gli spostamenti di stranieri in Albania dal territorio italiano. Con il corollario di polemiche e frizioni che sappiamo. Magnus Brunner, infine, candidato austriaco per la Commissione entrante, con portafoglio sulla migrazione, ha espresso in audizione il desiderio di una maggiore collaborazione tra l’Ue e i Paesi di origine per ridurre i flussi alla fonte. Inoltre, ha dichiarato che intende supportare il rafforzamento delle frontiere esterne europee, per migliorare la sicurezza interna e rispondere alle crescenti preoccupazioni pubbliche su immigrazione e sicurezza. Di fronte a tutto questo, il blocco norvegese e olandese di Schengen appare come inevitabile. Prima o poi qualcuno l’avrebbe fatto. È un gesto grave, però, che nasce da un contesto demografico non così drammatico come la politica pretende di far credere. L’idea che l’Europa sia vittima di una pressione migratoria, che mette in discussione le risorse pubbliche, sottrae lavoro e soprattutto compromette la sicurezza non corrisponde alla realtà. Stando al monitoraggio di Frontex, per quanto riguarda i flussi via mare e via terra, si avrebbe una diminuzione complessiva del 34% nei passaggi irregolari rispetto al 2023. Nel 2022, ultimo rilevamento disponibile, la Commissione Ue ha contato 4,3 milioni di immigrati in Ue, di cui solo una piccola quota è giunta irregolarmente sul nostro territorio. Si tratta soprattutto di persone che provengono da Africa, Medio Oriente e Ucraina. ovvero da conflitti e crisi umanitarie in corso. Alla guerra russo-ucraina si affiancano le crisi dimenticate di Siria, Somalia e Afghanistan. Solo per fare alcuni esempi. Tuttavia, come si diceva, è il percepito a prevalere. Ancora a maggio scorso, quindi in prossimità delle elezioni europee, El Pais pubblicava un sondaggio da cui emergeva che il 70% degli intervistati - spagnoli, ma non solo - riteneva che il proprio Paese avesse esagerato nell’accoglienza. La politica che da decenni alimenta un messaggio di anti-immigrazione non ha fatto altro che soffiare su questo sentiment per trasformarlo in un fuoco che sarà difficile da domare. Il messaggio di ottimismo di Angela Merkel, “Wir schaffen das!” (Possiamo farcela!), lanciato durante la crisi migratoria del 2015, ha fatto spazio alla minaccia di Viktor Orbán di dare ai richiedenti asilo un biglietto di sola andata per Bruxelles come protesta contro le multe Ue inflitte all’Ungheria per le sue violazioni delle norme sull’asilo. Violazioni che hanno trovato concretezza nella costruzione di muri e reticolati di sicurezza lungo la frontiera magiara. “Olanda e Norvegia seguono quanto già fatto in passato da Germania e Francia”, ricorda Marco Lombardi, sociologo dell’Università Cattolica. “La libertà di movimento senza controlli è sempre stata percepita come la vera conseguenza di essere europei. Chiudere le frontiere significa chiudere l’Europa, una risposta che è in parte politica e in parte securitaria perché ha effetti su entrambe le dimensioni. La conseguenza maggiore è sul futuro dell’Unione. Che “Non è più il mio Paese”, come diceva un vecchio slogan. E così si evidenzia tutta l’ambiguità dei singoli governi, che, invece di collaborare per difendere una frontiera che dovrebbe essere comune, abbandonano quella prospettiva per ripiegare sulle frontiere interne. Testimoniando così l’obsolescenza del progetto unitario del continente”. Venezuela. Detenuto politico morto in cella per mancanza di cure di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 15 novembre 2024 Uno dei circa 2.000 prigionieri politici attualmente detenuti in Venezuela, Jesus Manuel Mart¡nez Medina, è morto oggi a 36 anni a causa della negligenza medica delle autorità di Caracas. Lo denunciano familiari e attivisti per i diritti umani affermando che il giovane non avrebbe avuto accesso alle adeguate cure per il diabete e i problemi cardiaci di cui era affetto. Secondo i suoi parenti, i suoi disturbi fisici erano aggravati dalle condizioni disumane subite nel carcere era detenuto. Da tempo soffriva di ascessi cutanei che si erano infettati e “non ha ricevuto assistenza medica fino a che l’infezione non si è estesa a tutta la gamba - ha detto l’avvocato Zair Mundaray - Doveva essere sottoposto a un esame per valutare l’eventuale amputazione della gamba, ma non era stato autorizzato perché il giudice non aveva firmato l’autorizzazione”. “Lo hanno ucciso lentamente. Questo evento doloroso riflette il brutale terrorismo di stato in Venezuela, dove la dittatura perseguita e punisce la verità con l’obiettivo di mettere a tacere ogni speranza di cambiamento”, ha gridato Elisa Trotta, difensore dei diritti umani. Martinez è deceduto all’ospedale di Barcellona, nello stato di Anzoátegui, dopo un tardivo trasferimento dal carcere di Lecher¡a. Il 36enne - riferisce El Pitazo - era stato arrestato la notte del 29 luglio, appena 24 ore dopo aver terminato il suo lavoro di rappresentante di lista alle elezioni presidenziali. La coalizione di opposizione Piattaforma unitaria democratica (Pud) ha affermato che questi casi “rendono tragicamente visibili le conseguenze delle mancate cure mediche dietro le sbarre”. “Negare cure mediche tempestive è una chiara violazione dei diritti umani e comporta la responsabilità individuale di chi deve fornirle”, denuncia la Pud. Il Forum Penale registra oggi 1.963 prigionieri politici in Venezuela, la stragrande maggioranza detenuta dopo la mega frode elettorale portata avanti da Nicolás Maduro e dal suo governo. Tra questi spicca la presenza di 69 minori e 243 donne. Molti sono accusati di terrorismo semplicemente per aver fatto parte dell’esercito di cittadini che durante lo storico 28 giugno è riuscito a proteggere i voti affinché venissero poi conteggiati. La schiacciante vittoria dell’avversario Edmundo González Urrutia, con più di quattro milioni di voti davanti a Maduro, ha provocato la feroce repressione del chavismo. Almeno 25 persone, la maggior parte giovani, sono state uccise dalle guardie nazionali, dalla polizia e dai paramilitari.