Emergenza affollamento, in Italia e in Europa di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2024 Nelle carceri italiane è, di nuovo, emergenza. Perché cresce il numero dei detenuti e di coloro che decidono di togliersi la via dietro le sbarre. I dati aggiornati al 30 settembre, parlano di 61,862 mila detenuti presenti nelle carceri con circa 4 mila persone in più rispetto a un anno fa. A delineare questo scenario è Antigone, l’associazione che dal 1991 si occupa del sistema Penitenziario e penale italiano e realizza lo studio sullo stato delle carceri in Italia. Nell’ultimo rapporto, sino al 31 agosto, si ribadisce che “il tasso di affollamento è del 130,4% (al netto dei posti conteggiati dal Ministero della Giustizia ma non realmente disponibili)”. “In 56 istituti penitenziari, oltre un quarto di quelli presenti in Italia - sottolinea il rapporto -, il tasso di affollamento è superiore al 150% con punte di oltre il 200% negli istituti di Milano San Vittore maschile e Brescia “Canton Mombello”. Il rapporto spiega: “Questo significa che ci sono 200 persone detenute laddove ce ne dovrebbero essere 100 - sottolineano i rappresentanti dell’associazione -. Per capire la gravità della situazione si pensi ad una scuola o un ospedale dove ci siano il doppio degli studenti o dei pazienti che le strutture sono in grado di seguire”. L’ascesa dei suicidi in carcere - Un altro elemento di criticità è rappresentato dai suicidi. Le persone che si sono tolte la vita all’interno di un istituto penitenziario sono state (al 30 agosto) 58, di cui 10 solo a luglio e 12 giugno. Per i rappresentanti di Antigone “di questo passo sarà superato il primato negativo registrato nel 2022, quando a fine anno le persone che si suicidarono in carcere furono 85”. Una situazione che ha spinto le associazioni di volontariato a sollecitare interventi per invertire questa rotta. Anche perché, come sottolineato da Patrizio Gonnella, presidente di Antigone “un carcere sovraffollato è un luogo dove anche gli operatori fanno più fatica a lavorare, dove l’attenzione per le fragilità di molte persone detenute non riescono ad essere intercettate o seguite come meriterebbero”. “Dove esistono situazioni di grave sovraffollamento - aggiunge - il detenuto è sempre più anonimo, sempre più un numero anziché una persona”. A tracciare una mappa di quanto avviene nel panorama europeo ci sono i dati elaborati da World Prison Brief data. Nella scheda dell’Italia si scopre che la popolazione detenuta è di 61,758 mila detenuti, circa 10 mila in più rispetto alla capacità ufficiale del sistema penitenziario. Una tendenza simile a quella dell’Italia, seppure con numeri più bassi, si registra in Ungheria si registra in Ungheria, con un affollamento del 101,5% (al 31 dicembre 2023) e quindi 18.270 detenuti su una capacità ufficiale di 17.998 detenuti. IN Spagna, invece, su una capacità di poco più di 73 mila posti sono presenti quasi 57 mila detenuti con un livello di occupazione delle carceri del 74,1%. In Lituania su una capacità di 6655 posti ci sono 4551 presenze con una percentuale del 68,4%. Sale la percentuale nella repubblica Ceca dove su 20391 posti si registra un livello di occupazione del 96,4% con poco più di 19,600 detenuti. In Polonia, su una capacità di 83,096 mila posti, al 31 agosto, c’erano 70,927 detenuti e un livello di occupazione dell’85,3%. Per i volontari italiani, una delle misure da adottare per affrontare l’emergenza “occorrono provvedimenti urgenti portino a ridurre notevolmente il sovraffollamento e a migliorare la qualità della vita nelle carceri”. Inoltre “l’aumento di giorni della liberazione anticipata speciale; la depenalizzazione di alcuni reati; la liberalizzazione delle telefonate; l’assunzione di personale sia di polizia, che civile: educatori, psicologi, psichiatri, assistenti, sociali, mediatori culturali”. Il caso della Spagna - La crisi non è “solo” italiana. Gli ultimi dati pubblicati sulla distribuzione della popolazione carceraria in Spagna corrispondono al dicembre 2023 e appartengono alla Segreteria Generale degli Istituti Penitenziari del Ministero dell’Interno. Il totale nazionale è di 56.698 detenuti. Già nel 2023, il Consiglio d’Europa identificava la Spagna come uno dei 48 Paesi appartenenti a questa organizzazione con la maggiore popolazione carceraria, quando si trovava al sesto posto con un totale di 55.095 all’inizio del 2022. Tuttavia, per quanto riguarda il sovraffollamento e l’occupazione delle carceri, nel 2022 lo studio di Space 21 sulla realtà in questo settore nei Paesi del Consiglio d’Europa ha rivelato che la Spagna ha un tasso di occupazione di 73,4 detenuti per 100 posti, che la colloca 9,1 punti al di sotto della media europea, pari a 82,5. Lituania in controtendenza - Nel perimetro Ue ci sono, anche, esempi in direzione opposta. Il numero di persone detenute in Lituania è diminuito costantemente negli ultimi 5 anni: il 1° gennaio 2019, il numero di persone detenute era di 6485; il 1° gennaio 2020, di 6138; il 1° gennaio 2021, di 5.320; il 1° gennaio 2022, di 5.086; il 1° gennaio 2023, di 4.973; il 1° gennaio 2024, di 4.551; e il 1° gennaio 2024-10, di 4.501. Cinque anni fa, la Lituania era il “leader” dell’UE per numero di detenuti, con 220 detenuti ogni 100.000 abitanti. Con un calo significativo del numero di detenuti, la Lituania ha ora 155 detenuti per 100.000 abitanti, al sesto posto nell’UE. Il calo della popolazione carceraria è dovuto principalmente ai cambiamenti della società lituana. Questi cambiamenti includono un’economia in crescita, nuove opportunità nel mercato del lavoro e cambiamenti culturali. Questi fattori, insieme al successo della lotta contro la criminalità organizzata, stanno contribuendo al calo generale della criminalità in Lituania (ad esempio, secondo i dati del Dipartimento di Informatica e Comunicazione del Ministero dell’Interno della Repubblica di Lituania, nel 2019 sono stati registrati 51494 potenziali reati penali negli istituti di indagine preliminare e 45256 nel 2023). Vale la pena ricordare che anche la struttura (composizione) della criminalità sta cambiando, con una diminuzione del numero di omicidi e di altri gravi crimini violenti. I colleghi del Dipartimento di Polizia potrebbero fornire una risposta più precisa sulla quantità di tali crimini commessi. Allo stesso tempo, il contesto giuridico lituano e i cambiamenti nelle politiche penali (sanzioni alternative) e penali (rafforzamento del processo di socializzazione) stanno cambiando. Negli ultimi anni, la politica penale in Lituania è stata modellata secondo criteri di proporzionalità, con studiosi ed esperti che hanno continuamente sottolineato come l’ampia applicazione della responsabilità penale o le lunghe pene detentive per reati non pericolosi siano inefficaci e non appropriate. Solo un decennio fa, le alternative alla detenzione, come le multe, i servizi sociali, la restrizione della libertà o la libertà vigilata, erano applicate a circa il 65% dei condannati. Oggi, circa l’80% dei condannati è soggetto a tali misure. Grazie all’ottimizzazione del processo di risocializzazione nei luoghi di privazione della libertà, il numero di detenuti rilasciati in libertà vigilata è aumentato di 2 volte. Questo cambiamento è stato possibile grazie al rafforzamento della rete di case di riabilitazione, all’introduzione di metodi di valutazione e gestione del rischio di comportamento criminale dei detenuti, al collegamento del meccanismo di liberazione condizionale dal carcere ai risultati ottenuti dai detenuti nel processo di risocializzazione e allo sviluppo di altre misure di risocializzazione. Attualmente, circa il 53% di tutte le persone rilasciate dal carcere sono rilasciate con la condizionale, rispetto al 21% di 5 anni fa. Sistema penitenziario al punto di rottura: repressioni o riforme? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 novembre 2024 Il sistema carcerario italiano sta implodendo. L’ultimo episodio, una drammatica protesta nel carcere di Cuneo lunedì scorso, è solo la punta dell’iceberg di una situazione esplosiva che il governo sembra voler affrontare con il pugno di ferro anziché con riforme strutturali. Alcuni detenuti sono riusciti a raggiungere il tetto della Casa circondariale di Cuneo, mentre all’esterno si schieravano le forze dell’ordine in assetto antisommossa. Un episodio che, pur non degenerando in violenze o feriti, ha causato ingenti danni alla struttura e messo in luce, ancora una volta, la fragilità di un sistema al collasso. “Quanto accaduto a Cuneo mette a nudo l’emergenza in atto”, denuncia Gennarino De Fazio, segretario generale della UilPa Polizia Penitenziaria. I numeri sono impietosi: oltre 15.000 detenuti in eccesso rispetto ai posti disponibili, 18.000 agenti di polizia penitenziaria mancanti all’appello. Un sistema che opera quotidianamente nell’illegalità. Il paradosso della repressione - La risposta del governo? Un nuovo “reato di rivolta” inserito nel ddl sicurezza, che prevede fino a 8 anni di reclusione ed esclusione dai benefici penitenziari. Una misura che, secondo gli esperti, rischia di trasformarsi in un boomerang. “Nell’attuale illegalità diffusa delle carceri, persino l’introducendo reato di “rivolta” rischia di tradursi in un “reato impossibile”, laddove non ci sia di fatto un “ordine” contro cui perpetrarlo”, sottolinea De Fazio. L’associazione Antigone dipinge un quadro ancora più fosco: a ottobre la popolazione carceraria ha superato le 62.000 presenze, a fronte di soli 47.000 posti effettivamente disponibili. Ma non è solo questione di spazio vitale. I dati emersi rivelano una realtà drammatica: educatori costretti a seguire fino a 200 detenuti ciascuno, con inevitabili ritardi nelle pratiche per i trasferimenti e l’accesso alle misure alternative. Tempi che si dilatano, significano famiglie più lontane, tensioni che crescono, vite sospese in un limbo di sofferenza. La carenza di personale si ripercuote anche sull’assistenza sanitaria: visite mediche rimandate per mancanza di agenti che possano scortare i detenuti, patologie che si aggravano nell’attesa. Un circolo vizioso che alimenta la disperazione. “Sul carcere, sulle persone detenute e sugli operatori, è scaricato tutto il peso di politiche penali sempre più di stampo populista”, denuncia Antigone, “di chi pensa si possano affrontare le problematiche economiche e sociali scaricandone le conseguenze sul sistema penitenziario” . Disagi, ma c’è una via d’uscita - Gli esperti sono unanimi: serve un cambio di rotta immediato. Il ritiro del ddl sicurezza sarebbe solo il primo passo. Occorrono politiche concrete per ridurre la popolazione carceraria e, soprattutto, interventi preventivi sul territorio per evitare che il carcere rimanga l’unica risposta dello Stato al disagio sociale. Dal report del Garante Nazionale delle persone private della libertà emerge una situazione allarmante riguardo al sovraffollamento delle carceri con un indice medio nazionale di affollamento del 133,26% aggiornato all’ 11 novembre 2024. In particolare, 154 strutture (pari all’ 81% degli istituti) operano oltre la capacità regolamentare, e ben 57 istituti superano il 150% della loro capienza ottimale. Tra i casi più critici, il carcere di San Vittore a Milano registra un indice di sovraffollamento del 223,83%, seguito da strutture come Canton Monbello a Brescia (209,34%) e il carcere di Foggia (207,25%). Anche Regina Coeli a Roma, teatro delle recenti proteste, presenta un indice estremamente alto, pari al 197,53%, riflettendo le tensioni e il disagio diffuso tra la popolazione detenuta. Questo scenario di sovraffollamento incide pesantemente sulla qualità della vita dei detenuti, i quali si trovano spesso a vivere in spazi insufficienti, che non rispettano gli standard minimi raccomandati dalle normative europee. Infatti, come evidenziato dalla Cedu e dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, una cella singola dovrebbe garantire almeno 3 mq per detenuto. Non solo. Da ricordare che le vie di compensazione indicate dalla sentenza Torreggiani riguardano le attività trattamentali e lo stare il più fuori possibile dalle celle. Tutto questo è difficilmente garantito. Resta il fatto che mentre il governo brandisce la clava della repressione, nelle celle italiane cresce la disperazione. E con essa, il rischio che la prossima protesta non si concluda in modo pacifico come quella di Cuneo. Da ricordare che è rimasta nel cassetto la proposta di legge Giachetti di Italia Viva / Bernardini di Nessuno Tocchi Caino sulla liberazione anticipata speciale. Ma è stata affossata sia dalla maggioranza che dal Movimento 5stelle. Il tempo delle riforme e interventi urgenti è ora: domani potrebbe essere troppo tardi. La Chiesa chiede una svolta sulle carceri: “Basta con la sicurezza degli sceriffi” di Paolo Lambruschi Avvenire, 14 novembre 2024 Cambiare la cultura sul carcere e agevolare i percorsi di uscita e reinserimento dei detenuti per arrivare all’obiettivo del tasso di recidiva zero. Soprattutto con l’impegno di tutti perché occorrono investimenti. Ma prima di tutto bisogna cambiare la narrazione distorta di questo tempo. “Perché non possiamo regalare il tema della sicurezza agli sceriffi di turno. Non possiamo accettare l’ignoranza rispetto alla cultura giuridica italiana - ha aggiunto Zuppi - ad esempio quando si dice di chi commette reati: che marcisca in carcere”. Parole che il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ha rivolto anzitutto a cappellani e volontari che hanno partecipato ieri a Roma al convegno “Giustizia e speranza: la comunità cristiana tra carcere e territorio” organizzato da Caritas italiana alla vigilia del Giubileo. “Così andiamo indietro di secoli. Oggi dobbiamo fare esattamente il contrario ossia generare cultura e capacità di lettura e comprensione dei fenomeni”. Anche perché inseguendo la pancia si creano situazioni paradossali. “Il giustizialismo è la cosa più offensiva e pericolosa per la giustizia e il cattivismo rende ignoranti e inconsapevoli e non assicura la sicurezza nei territori”. Secondo il presidente della Cei, inoltre, sono le misure alternative a garantire la vera sicurezza. “Ma dobbiamo spiegarlo meglio, devono essere pene alternative nel senso vero del termine, ossia tendere alla rieducazione. Ma per questo c’è bisogno di strumenti e finanziamenti”. La giustizia riparativa, invece, restituisce dignità alle vittime e agli autori dei reati. “Dobbiamo però lavorare ancora molto per garantire condizioni dignitose nelle carceri per raggiungere l’obiettivo “recidiva zero” bisogna dare lavoro e non elemosine”. Il cardinale Zuppi ha concluso invitando a dare attenzione anche alla polizia penitenziaria. Anche per monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia e presidente di Caritas italiana, la via è obbligata. “Fuori dal carcere, il prima possibile e accompagnati: è ciò che l’esperienza di molte Caritas e di molte altre realtà di volontariato indica come via doverosa per affrontare il problema della pena e del reinserimento”. Per l’arcivescovo, “scontare una pena fuori dal carcere, ove possibile, è prima di tutto conveniente per la comunità: la recidiva diminuisce, i costi diminuiscono, le persone possono riprendere il corso di una vita regolare e diventano cittadini attivi. Uscire dal carcere il prima possibile significa limitare gli effetti negativi della detenzione e delle condizioni dei luoghi di reclusione sulle persone, sulle relazioni affettive”. Nel percorso di reinserimento, ha sottolineato, “il punto di forza e l’opportunità stanno nella comunità, che può restituire alle persone condannate la vera necessità di un impegno evidente per ricostruire legami e fiducia dopo il reato e può farsi prossima e accogliente in vari modi durante il percorso giudiziario. La comunità è chiamata a vivere una conversione, per passare dalla paura e dal sospetto all’attenzione e all’accompagnamento”. Il presidente della Caritas ha concluso ricordando che il Papa durante il Giubileo aprirà una Porta santa in un carcere, “un gesto simbolico per guardare all’avvenire con speranza”. Convitati di pietra il problema del sovraffollamento e la giustizia riparativa. Attualmente, le carceri italiane ospitano 61.862 persone recluse con un sovraffollamento significativo che incide sulle condizioni detentive. Tra queste, 45.404 persone stanno effettivamente scontando una condanna, ed un terzo ha una pena inferiore ai due anni. Ma pochi sanno che in Italia 2 persone su 3 stanno seguendo un percorso giuridico fuori dal carcere, con 140.718 persone in carico agli Uffici di esecuzione penale esterna, di cui 91.369 che sta eseguendo un percorso giuridico fuori dal carcere. Per l’ex Garante dei diritti dei detenuti Mauro Palma, oggi presidente del centro di ricerche European Penological center “teniamo in carcere 1.311 persone con condanna definitiva inferiore a un anno. Oggi prevale la semplificazione della complessità, si cerca di offrire una impressione di sicurezza accentuando le pene. I detenuti erano 55.835 nel settembre 2022, al momento dell’insediamento di questo governo. Oggi sono 61.862 mentre i posti in carcere regolari aumentati sono 226. Due velocità non comparabili”. Significative le testimonianze e il confronto tra volontari, operatori e cappellani. Don Rosario Petrone cappellano del carcere di Salerno da 16 anni ha chiesto aiuto alla sua parrocchia per creare volontari e associazione. “Più volte ho pensato di dimettermi, mi ha fatto cambiare idea un detenuto straniero a fine pena. Non voglio tornare in mano a chi mi ha rovinato. Come puoi aiutarmi?, mi ha detto. Ed è nato così dai fondi della Caritas un progetto per misure alternative in cui l’80% degli ospiti ha recuperato vita lavorativa e relazione con le famiglie. Siamo contenti della giustizia riparativa, è il Vangelo. Ma serve formazione e aiuto della Caritas per avviare la relazione tra reo e vittima”. Diverse Caritas diocesane stanno collaborando con gli istituti di pena per attuare i percorsi nuovi previsti dalla legge del 2022. “Come Verona - spiega Alessandro Ongaro - dove abbiamo capito l’importanza di sentire accanto a quella del reo la voce di vittime, famiglie e comunità. Non è solo funzionale alla responsabilizzazione degli autori di reato ma a riconoscere la dignità di vittime e famiglie. La comunità ha bisogno di sicurezza dopo aver subito la lacerazione del reato, vuole sapere se la persona è diventata responsabile.” Per Lucia Castellano, ex direttrice del carcere di Bollate e oggi provveditore in Campania “occorre avviare ovunque relazione forti con centri sportivi, scuole e biblioteche e associazioni. Alle Caritas dico di pretendere incontri mensili con le direzioni per avere relazioni e regole”. In conclusione Caritas italiana ha presentato un documento in cui ricorda le difficoltà per usufruire dei percorsi alternativi e del lavoro. E per accrescerli lancia un doppio appello il direttore di Caritas italiana don Marco Pagniello: “Per avviare questi processi che prevedono vicinanza ai detenuti e alle loro famiglie e l’accoglienza anche notturna servono progetti, finanziamenti e investimenti, serve che ciascuno faccia la propria parte, dalle istituzioni pubbliche alle imprese. Noi ci stiamo, ma chiedo un supplemento di impegno a chi lavora in carcere perché è tempo di preoccuparci di cambiare la narrazione con la nostra testimonianza”. La Costituzione tradita ogni giorno di Fabrizio Lucidi Il Giorno, 14 novembre 2024 La necessità di investimenti e rieducazione per garantire un futuro ai detenuti e la sicurezza della società. “Sbattetelo in carcere e buttate via la chiave”. Quante volte avete sentito questa frase al bar o - peggio - in tv pronunciata dal politico di turno con sguardo torvo e tono imperioso? Tante. Ma con i facili slogan non si risolvono i problemi. Né ci si rende conto dell’emergenza carceri se almeno una volta non si è toccata con mano la sincera sofferenza di centinaia di persone che stanno pagando per i propri errori. E cercano di uscire dal tunnel di droga e alcol, se possibile senza tornare a delinquere. Facile a dirsi. Ma lo Stato italiano ha scavato ormai un abisso tra la carta della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) e la dura realtà di celle dove stanno in tre nello spazio di 5 risicati metri quadrati. “Grazie di essere venuti qui, tra gli scarti della società che nessuno vuole”, mi ha detto un ragazzo, la mano sul cuore e un triste sorriso stampato sul volto segnato dal passato difficile. Su quel campo dentro San Vittore, tra muri scrostati e sbarre dalle quali penzolano vestiti bagnati, difficile dargli torto. Perché lì dentro il degrado è un pugno che ti colpisce dritto allo stomaco. Degrado invece di attività sportive, laboratori di artigianato, maestri capaci di insegnare lavori che magari nessuno più vuol fare, docenti capaci di far innamorare i detenuti di un futuro possibile. Ce ne sono, di persone di buona volontà che tentano di salvare il salvabile. Educatori, agenti di polizia penitenziaria, medici, volontari. Eroi - sì, questa parola abusata stavolta si può usare - lasciati soli, che ogni giorno nel silenzio e con stipendi ridicoli, fanno il loro dovere. Ma non è abbastanza, se dietro di loro non c’è lo Stato, ma politici in cerca di facile consenso. Zero investimenti sulle carceri, nessuna idea di come reinserire nella società gli ex detenuti. Le scelte serie spesso non portano consensi immediati. Ma quanto sarebbe più sicura (e quanto risparmierebbe) la nostra società se chi finisce in carcere, una volta uscito, invece di trovarsi di fronte nulla più che un solido muro di pregiudizi potesse trovare un lavoro, grazie alle competenze apprese dietro le sbarre. Pagare le tasse, sostenere la famiglia. Se, usciti, questi uomini fossero persone migliori, non abbrutite dalla detenzione, con alternative di vita reali rispetto all’ennesimo furto, rapina o scippo. Così davvero si potrebbe gettar via la chiave. Perché si offrirebbe una seconda opportunità a chi dimostra di meritarsela. “Le carceri non fanno notizia perché la società non vuole farsene carico” di Enzo Gabrieli paroladivita.org, 14 novembre 2024 “Mi pare di poter dire che la situazione oggi nelle carceri in Italia sia giunta al totale collasso per una serie di fattori e di conseguenze a dati che non sono più tollerabili: si parla di sopraffollamento, ma questo è solo uno dei fattori”. È duro il commento di sr. Nicoletta Vessoni, operatrice da 11 anni in carcere a Catanzaro e responsabile nazionale delle religiose che lavorano nei penitenziari in Italia che ha portato la sua testimonianza la settimana scorsa al Consiglio Nazionale della Fisc mentre nelle settimane scorse aveva promosso un convegno sulla giustizia riparativa a Catanzaro e Lamezia. “Non parliamo poi - spiega la religiosa delle Suore delle Poverelle di Bergamo - della situazione sanitaria che è gravemente al collasso. La mancanza di opportunità lavorativa all’interno degli istituti mette tutti in grande affanno. Il rallentamento dell’applicazione di misure alternative ingolfa e mette in grosse difficoltà la vita all’interno degli istituti”. E in Calabria dove lei svolge il suo servizio qual è la situazione? “Credo di poter dire le medesime cose, anche se la direzione si mobilita parecchio per trovare soluzioni e opportunità di superare i vari ostacoli. La funzione del carcere, oltre ad essere un monito al rispetto delle leggi per il potenziale criminale, è quella di reinserire il detenuto”. Nell’odierna realtà è possibile? Quali le lacune? “Le lacune credo siano quelle della carenza di risposte e risorse che permettano il reinserimento del detenuto. Il privato sociale, la Chiesa credo dovrebbe essere molto attenta e attiva in questa direzione, come è sempre avvenuto nella storia. Prima che lo Stato crei le risposte la dimensione profetica della Chiesa dovrebbe venire in aiuto e in supporto a carenze di strutture e opportunità”. Quale il ruolo oggi della Chiesa negli Istituti penitenziari? “Il ruolo della Chiesa all’interno dei penitenziari credo sia molto importante e grande. Il carcere è un luogo di solitudine di sofferenza di fatica esistenziale e quale luogo più idoneo perché la Chiesa ci sia? E ci sia con una presenza significativa, dove portare l’annuncio di Speranza e di misericordia. Il Papa parla delle periferie, del cercare i poveri. In carcere non c’è bisogno di cercarli: sono flotte che ti vengono incontro e che ti interpellano. Credo che la Chiesa dovrebbe sempre più esserci in una forma concreta e incisiva”. Cosa dovrebbero fare i cappellani e quale il ruolo del volontariato? “I cappellani dovrebbero essere sempre di più dei ministri dispensatori di misericordia, dei buon samaritani che raccattano e sostengono le fatiche umane dei detenuti e molto spesso delle famiglie dei detenuti. Il cappellano credo che debba fare sempre più la differenza nell’essere presente in questo luogo. Il ruolo del volontario è molto importante e fa da supporto a quello che l’istituzione non può fare ma permette di animare sostenere spazi di accompagnamento, sostegno morale, opportunità di occupazione del tempo in modo significativo e costruttivo”. La situazione carceraria non fa più notizia nonostante i suicidi, il sovraffollamento, etc.: è un “territorio” sconosciuto o se ne vuole stare lontano? “Credo si preferisca non parlarne o almeno non parlarne in modo significativo e reale, un po’ come si fa con tutte le dimensioni che la società non vuole farsene carico. Credo sia molto importante, e credo che sia compito anche della Chiesa e del mondo del volontariato parlarne, dare voce a chi non ha voce, diventare grilli parlanti di una parte di umanità che vive in grande affanno fino a giungere a comportamenti estremi”. Lei ultimamente si è fatta promotrice di alcuni incontri sulla giustizia riparativa: è possibile? A che punto siamo? E in Calabria? “Poco mi sono inoltrata in questo tema che mi fa un po’ riflettere e mi spiego: la giustizia riparativa come io l’ho avvicinata, tramite Agnese Moro e i suoi collaboratori ha un certo spessore che credo diventi una svolta nella vita degli uni e degli altri. Il rischio è che la giustizia riparativa diventi si un tentativo ma molto limitato e forse semplicemente utilizzato. Parliamo di una presa di consapevolezza della propria responsabilità di gesti che hanno leso la vita di persone o comunque atti che hanno inciso negativamente nella vita della società. Credo che non possa essere un percorso di sei sette incontri molto spesso svolti e vissuti nel desiderio che quel percorso incida sulla riduzione di pena. Credo che la giustizia riparativa sia una grande bella opportunità ma vissuta nella grande serietà e in un percorso molto significativo per poter incidere realmente nella coscienza di chi si appresta a vivere un cambiamento di vita”. Con il lavoro in carcere l’obiettivo è recidiva zero di Ilaria Dioguardi vita.it, 14 novembre 2024 Un incontro al Cnel, organizzato da Confcooperative Federsolidarietà, è stato l’occasione per fare il punto su cooperazione sociale e giustizia. Siglato un protocollo d’intesa tra l’organizzazione e il Dap. Maurizio Gardini, presidente Confcooperative: “Accogliamo la sfida recidiva zero. Abbiamo bisogno di un grande lavoro di sussidiarietà. Occorrono investimenti sulle infrastrutture”. Su 100 detenuti che seguono percorsi di formazione e di inserimento lavorativo in carcere nelle cooperative sociali “torna a delinquere meno del 10%, un abbattimento della recidiva importante rispetto a chi è sottoposto a trattamenti standard. E di margine per far crescere l’impegno della cooperazione sociale in quest’ambito ce n’è”. Lo ha detto Stefano Granata, presidente di Confcooperative Federsolidarietà intervenendo a “Cooperazione sociale e giustizia: un ponte tra carcere e società. Esperienze di innovazione ed impatto sociale” convegno organizzato a Roma, nella sede del Cnel, Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, da Confcooperative Federsolidarietà. Un Protocollo d’intesa per opportunità lavorative - Durante l’incontro è stato siglato il Protocollo d’intesa tra Dap, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e Confcooperative Federsolidarietà che ha l’obiettivo di creare nuove prospettive per lo sviluppo di opportunità lavorative e sociali a favore della popolazione detenuta nelle carceri italiane. L’intesa vede l’apertura di un tavolo tecnico e mira a promuovere programmi di intervento a favore dei detenuti, con l’avvio di progetti imprenditoriali finalizzati all’inserimento lavorativo intra ed extra-murario e al recupero sociale degli stessi. I progetti saranno individuati e promossi da Federsolidarietà. I “pontieri” tra carcere e società - “Il carcere è un luogo chiuso e separato. Noi vogliamo costruire i ponti tra il carcere e fuori. La cosa più semplice per costruirli è il lavoro”, ha detto Renato Brunetta, presidente Cnel. “Il nostro obiettivo è recidiva zero. O la recidiva più bassa possibile. Ora è troppo alta perché nessuno investe in formazione, scuola, lavoro che sono la rottura del circuito perverso che prevede solo che sconti la pena in modo afflittivo. Ciò economicamente è un non senso perché lo Stato spende quattro miliardi l’anno per gestire le carceri, ma senza speranza, senza visioni sul futuro sono un costo e non un investimento. Diventa una trappola economica e sociale”. Sono circa 61mila, attualmente, i detenuti, con un sovraffollamento medio del 119% e una recidiva che si aggira intorno al 68%. “Dopo il disegno di legge approvato lo scorso maggio, sull’inclusione socio-lavorativa e l’abbattimento della recidiva, abbiamo in mente altri decreti legge: il prossimo riguarderà una proposta per far lavorare i detenuti ai call center”. Riguardo alle cooperative che operano nelle carceri “ci sono delle casistiche straordinarie. C’è un solo problema: sono casi. Se noi moltiplichiamo tutte le singole iniziative a frutto del sistema e le mettiamo insieme sono sicuro che la recidiva precipita. Voi siete i pontieri per vincere questa sfida, per fare da ponte tra carcere e società”, ha detto Brunetta riferendosi alle cooperative. Lavoro di sussidiarietà e investimenti - In risposta, il presidente Confcooperative Maurizio Gardini ha affermato: “Ci sentiamo di accogliere la sfida recidiva zero. Abbiamo bisogno di un grande lavoro di sussidiarietà che tenga insieme Stato e corpi intermedi, per motivi di carattere etico, sociale, economico. Occorre investire di più sulle infrastrutture sociali ed economiche, materiali e immateriali. E bisogna costruire reti anche con il mondo privato”. “Non è questo il lavoro che vogliamo” - “Abbiamo circa 18mila detenuti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, per un totale di 13 milioni di ore l’anno lavorate, una-due ore al giorno pro capite. Non è questo il lavoro che vogliamo”, ha affermato Giovanni Russo, capo del Dap. “Al lavoro svolto dai detenuti deve corrispondere una remunerazione idonea. Offrire due ore di lavoro al giorno significa tenere bassa una tensione intramuraria, dare una risposta burocratica. Ma bisogna dare alle persone in carcere un contratto di lavoro vero”. Obiettivo: far diventare la Pa un committente stabile - “Un detenuto su tre, tra quelli occupati nel privato, è assunto da una cooperativa sociale associata a Confcooperative Federsolidarietà. E sono oltre 1.500 i detenuti ed ex detenuti impegnati in percorsi di formazione, tirocini e borse lavoro. Mentre sono 3mila gli ex detenuti che, intrapreso il percorso di lavoro in una cooperativa sociale, vi restano anche al termine della pena”, ha affermato Stefano Granata. “È importante far diventare la Pubblica amministrazione un committente stabile delle prestazioni erogate attraverso un piano di acquisti sociali della Pa così da rendere più efficaci i servizi e la connessione con il territorio”, ha continuato. “Abbiamo costruito tanti piccoli ponti tra carcere e lavoro, ma le persone che ci passano sono poche rispetto alla domanda. Il nostro grande lavoro ora è di chiamare a raccolta tutte le cooperative di inclusione lavorativa che stanno crescendo a doppia cifra. La firma del Protocollo d’intesa tra Dap e Confcooperative Federsolidarietà - Sono circa 110 le cooperative sociali aderenti a Confcooperative che, ad oggi, assumono regolarmente (con retribuzioni previste dal Ccnl delle cooperative sociali siglato con Cgil, Cisl e Uil) persone svantaggiate nell’ambito della giustizia, sia in lavorazioni intramurarie che all’esterno delle carceri, per un totale di circa 1.107 persone tra detenuti, ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro esterno. Oltre 4 mila persone usufruiscono dei servizi residenziali per detenuti ed ex-detenuti, in particolare con problemi psichiatrici e di dipendenze, e di altri servizi di reinserimento socio lavorativo una volta finita la detenzione. La cooperazione sociale rappresenta un importante fattore di congiunzione tra il carcere ed il mondo esterno. L’emergenza delle carceri minorili - A mio avviso”, ha proseguito Granata, “il dato più allarmante di questi ultimi mesi è la crescita esponenziale delle persone nelle carceri minorili. È necessario creare delle strutture, diverse dagli istituti minorili, per questi ragazzi in modo che possano essere cittadini veri e non “scarti” della società già a 16 anni”. C’è da fare un lavoro di capacity building - “Scalare un progetto imprenditoriale è una sfida verso le organizzazioni, le imprese, le cooperative sociali. Moltiplicare ogni progetto per le 190 carceri italiane significa che in ogni istituto ci deve essere la stessa cultura, valori condivisi, la stessa sensibilità: c’è un grande lavoro di capacity building da fare”, ha detto Filippo Giordano, docente di Management all’Università Lumsa e componente Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale Cnel. “Oggi dobbiamo interrogarci su quanta voglia abbiamo di creare sostenibilità, generare impatto, rischiare”. Chi fa percorsi di formazione ha meno rischi di recidiva di Giorgio Pogliotti Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2024 I percorsi formativi e il lavoro come antidoto al rischio di recidiva. Su 100 detenuti che seguono percorsi di formazione e di inserimento lavorativo in carcere nelle cooperative sociali torna a delinquere meno del 10%: è “un abbattimento della recidiva importante rispetto a chi è sottoposto a trattamenti standard” e “di margine per far crescere l’impegno della cooperazione sociale in quest’ambito, ce n’è”. È il quadro fornito ieri dal presidente di Confcooperative Federsolidarietà Stefano Granata, intervenendo al convegno su “Cooperazione sociale e giustizia: un ponte tra carcere e società. Esperienze di innovazione ed impatto sociale” organizzato al Cnel da Confcooperative Federsolidarietà. Granata ha ricordato che un detenuto su 3, tra quelli occupati nel privato, è assunto da una cooperativa sociale associata a Confcooperative Federsolidarietà. E sono oltre 1.500 i detenuti ed ex detenuti impegnati in percorsi di formazione, tirocini e borse lavoro. Mentre sono 3mila gli ex detenuti che, intrapreso il percorso di lavoro in una cooperativa sociale, vi restano anche al termine della pena. Il luogo scelto per l’evento non è casuale, perché proprio il Cnel ha avviato il progetto “Recidiva zero” e a metà aprile, ha elaborato un pacchetto di proposte normative al temine di una giornata promossa insieme al ministero della Giustizia, a coronamento del percorso avviato a giugno 2023 con il protocollo d’intesa siglato tra il presidente Renato Brunetta e il Guardasigilli Carlo Nordio (si veda IlSole24Ore del 17 aprile). “Il nostro obiettivo è recidiva zero - ha confermato ieri Brunetta -, o la recidiva più bassa possibile. La recidiva è troppo alta perché nessuno investe in formazione, scuola, lavoro che sono la rottura del circuito perverso che prevede solo che si sconti la pena in modo afflittivo. Economicamente è un non senso perché lo stato spende 4 miliardi per gestire le carceri, ma senza speranza, senza visioni sul futuro; sono un costo e non un investimento, il carcere diventa una trappola economica e sociale”. Si è rivolto a Brunetta, il presidente di Confcooperative Maurizio Gardini: “Ci sentiamo di accogliere la sfida recidiva zero - ha detto -. Abbiamo bisogno di un grande lavoro di sussidiarietà che tenga insieme stato e corpi intermedi. Per motivi di carattere etico, sociale, economico. Bisogna investire di più sulle infrastrutture sociali ed economiche, materiali e immateriali”. Tornando all’intervento di Granata, quest’ultimo ha sottolineato che “come è emerso anche dalla proposta del Cnel è importante far diventare la pubblica amministrazione un committente stabile delle prestazioni erogate, attraverso un piano di acquisti sociali della Pa, così da rendere più efficaci i servizi e la connessione con il territorio”. Considerando che un detenuto costa oltre 150 euro al giorno al nostro Paese, investire in questi strumenti per il reinserimento socio lavorativo, è conveniente anche dal punto di vista economico. Ragazzi dentro. Il caso dei 18-24enni trasferiti nelle carceri degli adulti di Alberto Gaino volerelaluna.it, 14 novembre 2024 L’ultimo rapporto di Antigone è univoco: “In 22 mesi di Governo di destra i minori in carcere sono aumentati del 48%. Eppure non c’è un allarme sociale rispetto alla devianza giovanile: nel 2023 i ragazzi denunciati e/o arrestati sono stati persino di meno (4,15%) rispetto all’anno precedente. La metà dei reati a carico di minorenni in istituti penali minorili (IPM) è contro il patrimonio. Però, nel frattempo, è entrato in vigore il decreto Caivano e i numeri di ragazzi in detenzione cautelare è esploso: sono il 67,7% per cento del totale dei detenuti minorenni”. La stessa incompatibilità dei giovani con il carcere degli adulti - sancita per legge nel 1988 - che consente ai minori diventati maggiorenni di restare in un IPM sino al compimento dei 25 anni, è stata negata, grazie al “decreto Caivano”, dal Ministero della Giustizia: nel 2023 ha disposto il trasferimento in carceri per adulti di 59 ragazzi fra i 18 e i 24 anni. Nel corso del 2024 l’ha rifatto: sono 123 gli ex minori trasferiti in mezzo agli adulti. L’ha rifatto specialmente dopo le rivolte a Casal di Marmo di Roma, al Beccaria di Milano e soprattutto al Ferrante Aporti di Torino. La motivazione poteva essere il sovraffollamento. Ma non è stato per questo. Dopo la contestazione nell’IPM torinese l’Osapp, sindacato di destra della polizia penitenziaria, ha indicato la “pericolosità” dei giovani adulti nel carcere minorile. Il ministero è andato nella stessa direzione, ma fornendo una ricostruzione tortuosa dei motivi della rivolta, dalla trama persino gialla. Il guardasigilli Nordio intende procedere in spregio del processo minorile, il cui codice è stato approvato nel 1988 e che ha stabilito, appunto, l’incompatibilità dei giovani adulti detenuti con il carcere tout court. Vi ha provveduto con la solita legislazione di emergenza. Con il cosiddetto “decreto Caivano”, diventato legge il 15 settembre di un anno fa, aveva provocato, nel solo periodo settembre/ottobre 2023, + 123 arresti di minorenni, che continuano a salire. A metà settembre scorso erano 569 i giovanissimi in carcere, per due terzi in regime di custodia cautelare. Da questa contabilità mancano gli arresti dei giovani fra i 18-24 anni, da sempre inviati direttamente nelle carceri ordinarie. Per comprendere l’impatto del “decreto Caivano”, a fine 2022 erano 352 i ragazzi detenuti negli istituti di pena minorili, saliti a 30 di più nove mesi dopo e prima del “raid” del governo che ha criminalizzato anche i quattordicenni e le loro famiglie con un provvedimento intestato al disagio giovanile. Nello stesso stile del “decreto Cutro”, dedicato a una tragedia del mare e ai mancati soccorsi, ma che in realtà ha azzerato la protezione umanitaria. Il “decreto Caivano” ha previsto il “daspo urbano”, la cui inadempienza comporta un reato punibile sino a tre anni di carcere, anche per i quattordicenni che devono allontanarsi da dove vivono e dalle zone che frequentano, inclusi locali pubblici. Inasprisce le pene per il piccolo spaccio e anche per il possesso di armi “improprie”, soprattutto prevede la custodia cautelare in carcere per previsioni di condanne al massimo di sei anni, mentre prima la soglia era di nove anni. Quatto quatto, il Guardasigilli del governo di destra sta ribaltando una legge di civiltà. Dice Perla Allegri, ricercatrice universitaria e attivista di Antigone: “Dei 569 detenuti a settembre scorso 262 erano gli stranieri, tanti gli adolescenti soli. Come Antigone abbiamo avuto colloqui in carcere con alcuni di loro e appreso che avevano attraversato a piedi per mesi e mesi i monti della rotta balcanica. In Italia sono nuovamente finiti in strada e arrestati per piccoli reati, adesso sono trattati come pacchi spediti negli istituti minorili del Sud meno affollati, con la giustificazione che al Nord non hanno nessuno”. Esemplare la situazione torinese, evidenziata dall’inchiesta della clinica legale universitaria, commissionata dal garante delle persone private della libertà, Monica Gallo, relativa ai detenuti nati fra il 1997 e il 2004, in regime di custodia cautelare nella casa circondariale per adulti “Lorusso e Cutugno” fra gennaio e aprile 2022. La fascia d’età 18-24 anni sul totale della popolazione carceraria, in Italia del 5,8%, in Piemonte era del 6,55% e a Torino del 10% (135 su 1372 detenuti). Da 149 interviste è emersa una radiografia significativa: il 74,50% dei detenuti era di origine straniera, per lo più provenienti da Marocco, Tunisia, Senegal e Nigeria. Non aveva permesso di soggiorno l’88,30%. Ancora: il 30,20% viveva in famiglia prima dell’arresto, il 20,81% in un’abitazione privata (evidentemente condivisa con altri), mentre i migranti ex minorenni giunti soli in Italia erano più della metà: il 54,05%. Il 51,68% era in possesso di licenza media o di un titolo di studio analogo conseguito nei paesi di origine, il 14,44% si era diplomato al termine di corsi triennali. Il 34,09% era stato preso in carico dai servizi sociali torinesi. Quasi la metà, il 47,73%, era seguito prima dell’arresto dai SerD (i servizi contro le dipendenze) e il 6,82% dai centri di salute mentale. Per tanti ragazzi l’accesso ai servizi sanitari è stato reso possibile con l’ingresso in carcere. Ma l’abbandono e l’isolamento è proseguito dietro le sbarre: il 53,69% non ha avuto un solo colloquio in carcere con persone esterne, familiari e no. E il 44,97% non ha incontrato nemmeno “figure di supporto” (nel carcere torinese vi è 1 educatore per 110 detenuti). I compagni di cella erano, nel 42,24% dei casi, di nazionalità diversa e, nel 40% di età fra i 30 e i 50 anni. Perla Allegri fa notare che, rispetto al 2022, con l’aumento del sovraffollamento in carcere, l’attenzione delle direzioni delle carceri a tenere separati il più possibile i giovani adulti dai più vecchi (quelli che “comandano” nei bracci) è venuta meno e la promiscuità dei detenuti è decisamente salita. Con la conseguenza, tra l’altro, dell’aumento delle violenze sessuali, come in ogni altra istituzione totale. I Tso in carcere si aggirano sui 200 l’anno e - come ha rivelato Monica Gallo in un recente incontro sull’incompatibilità dei giovani con il carcere degli adulti - il 30% è ormai effettuato su minori. Con un aumento esponenziale del 1425% negli ultimi anni. Nel medesimo incontro Sergio Durando, referente della Pastorale migranti dell’Arcidiocesi torinese, ha tratteggiato il cerchio chiuso che identifica la vita di tanti adolescenti stranieri non accompagnati (MSNA): “Abbiamo esteso il nostro ufficio alle strade. Incontriamo, incontro quotidianamente ragazzi senza documenti e accoglienza, che hanno nella strada l’unica risorsa. Dormono anche in strada. E assumono farmaci antiepilettici, come Rivotril e Lyrica, ci bevono su alcolici, si sballano per contrastare il malessere, quando non entrano nel giro della droga come spacciatori e spesso ne diventano essi stessi dipendenti. Senza risorse per una accoglienza dignitosa dei minori soli e più fragili, l’approdo al carcere di tanti sembra inevitabile, ed è gravissimo. Costa pure molto di più alla collettività”. Gli ha fatto da contraltare Franco Prina, professore universitario e fra gli esperti sul tema più stimati: “Questi ragazzi arrivano da noi pieni di rabbia. Perché in tutto il percorso migratorio, durato anche anni e anni, hanno incontrato solo rappresentanti di istituzioni che li hanno massacrati. Non c’è più fiducia da parte loro, non c’è nemmeno comunicazione. Un primo obiettivo, dentro il carcere, è di riservare un trattamento diverso ai giovani adulti fra i 18 e i 24 anni dedicando loro una struttura detentiva che li separi pure dai minori ma soprattutto dagli over 25”. Prina ha citato l’ex sindaco torinese Diego Novelli al tempo dell’avvio del progetto pilota del Ferrante Aporti: “Se il carcere minorile è chiuso dentro la città, dovremo portare la città dentro il carcere”. Ciò, oggi, vale anche per i giovani adulti detenuti. Perché non coinvolgerli, per il tempo minimo, per tanti, di una detenzione residuale in un progetto di “casa circondariale a sicurezza attenuata”? Il 17enne che ha ucciso Santo Romano era da poco uscito da un “carcere modello” di Don Antonio Mazzi Oggi, 14 novembre 2024 Ciò obbliga a riflettere, ma senza perdere la certezza che in ognuno esistono radici positive. Tra i vari commenti ai fatti accaduti in questo periodo, soprattutto tra i giovani e giovanissimi, c’è stata una frase micidiale che mi ha particolarmente colpito. Non ricordo più dove io l’abbia letta e chi l’abbia scritta, ma è stata così potente da farmi dimenticare tutto. Eccola: “Forse i nostri ragazzi sono orfani di genitori vivi”. Qualcuno la penserà troppo forte e pesante, ma per caso proprio in questi giorni, i ragazzi de “La Mammoletta”, la comunità Exodus che si trova all’Isola d’Elba, hanno fatto come ogni anno una esperienza educativa in barca a vela, sul Bamboo. Tra le varie tappe di questa avventura in mare, anche quella nel carcere minorile di Nisida; ne sono tornati entusiasti dell’accoglienza e dell’atmosfera che hanno respirato, dello scambio di testimonianze che hanno portato e condiviso. Purtroppo, quando ho letto che il diciassettenne che a Napoli ha ucciso con un colpo di pistola il 19enne Santo Romano, era appena uscito da quel carcere, mi sono detto che forse non è neppure più sufficiente cambiare l’aria e i metodi che stanno dentro i migliori carceri. Questo ragazzo viaggiava con la pistola in tasca! Dove e come l’avesse acquistata non mi interessa. Però credo che dobbiamo fare una riflessione in più riguardo alle famiglie. Se i nuovi adolescenti sconvolgono noi educatori, non possiamo pensare che non sconvolgano anche i genitori. Abbiamo parlato, in questi giorni, di scuola e famiglia. Perché non parliamo anche di carcere e famiglia? Noi, che fin dal primo giorno offriamo servizio con il nostro centro d’ascolto, ci facciamo sempre delle domande, e quando accadono fatti come questi, ci interroghiamo ancora di più. Non dobbiamo assolutamente fare di Napoli zona perduta. Certamente fatti così non saranno gli ultimi, ma sentire dei genitori che chiedono perdono per quel che è successo, ci dà coraggio e speranza. Lasciamo agli avvocati trovare risposte più o meno vaghe. Per uno che ha ucciso ce n’è stato un altro che ha dimostrato amicizia, equilibrio, coraggio e ha dato la vita. Noi queste storie le conosciamo bene, ne conosciamo il diritto e il rovescio. Ma, diversamente da altri, non abbiamo mai mollato, anche se la domanda perché questo ragazzo appena uscito da una struttura rieducativa molto positiva avesse già la pistola in tasca, apre molte perplessità e ci obbliga a riflessioni sempre più difficili da interpretare con la sicurezza, però, che la vita porta dentro di sé radici positive, forse nascoste, ma sempre pronte a scaturire in modo sia logico che illogico; perché la vita è regalo. Crescono le pene alternative, solo il 32% proviene dal carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 novembre 2024 Il sistema dell’esecuzione penale esterna registra un boom di numeri, ma paradossalmente non riesce a decongestionare le carceri. È quanto emerge dall’analisi del Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, che fotografa una situazione complessa e per certi versi contraddittoria. I dati più recenti, aggiornati al 31 ottobre 2024, mostrano un incremento significativo delle persone in carico agli uffici dell’esecuzione penale esterna (Uepe), raggiungendo quota 140.744, di cui 93.028 sottoposte a misure alternative alla detenzione. Un aumento vertiginoso rispetto al dicembre 2019, quando i numeri si attestavano rispettivamente a 102.119 e 60.360, segnando così una crescita del 38% per il totale delle prese in carico e del 54% per le misure alternative. L’analisi rivela che la maggior parte delle misure alternative (68%) coinvolge persone provenienti dalla libertà o dagli arresti domiciliari, mentre solo il 32% proviene dagli istituti penitenziari. Un dato che rimane sostanzialmente stabile nel tempo e che evidenzia come il sistema dell’esecuzione penale esterna intercetti principalmente soggetti esterni al circuito carcerario. Tra le misure più utilizzate, la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova ai servizi sociali rappresentano il 49% del totale, seguite dalle misure e sanzioni di comunità al 41%. È interessante notare la crescita delle sanzioni e pene sostitutive, passate dallo 0,6% del 2019 all’attuale 5%. Tuttavia, questo consistente ampliamento del sistema di esecuzione penale esterna non ha prodotto gli effetti sperati sul fronte carcerario. Al contrario, la popolazione detenuta è aumentata del 2% rispetto al periodo pre- pandemia e del 15% rispetto alla fine dell’emergenza Covid nel dicembre 2021. I dati mostrano chiaramente che l’esecuzione penale esterna coinvolge principalmente persone al di fuori del circuito carcerario, con un impatto marginale sul sovraffollamento cronico delle carceri italiane. Questa tendenza è ancora più evidente considerando i numerosi detenuti in attesa di giudizio o con pene residue inferiori a tre anni, che potrebbero beneficiare di misure alternative. Tuttavia, nonostante l’aumento delle esecuzioni penali esterne, la popolazione carceraria continua a crescere significativamente, soprattutto negli ultimi due anni. Ddl Sicurezza, l’allarme di Giuristi Democratici: “Deriva autoritaria” di Michele Gambirasi Il Manifesto, 14 novembre 2024 Il comunicato di Giuristi Democratici verso l’assemblea nazionale contro il ddl sicurezza del 16 novembre a Roma. Intanto il governo accelera alla Camera sulla separazione delle carriere per i magistrati: entro fine novembre in aula. “Assistiamo in questa congiuntura politica allo smantellamento della democrazia così come l’abbiamo conosciuta sino ad oggi, a partire dalla messa in discussione delle sue radici antifasciste”. Così Giuristi Democratici, nel documento conclusivo della propria assemblea generale tenutasi a Torino il 9 e il 10 novembre, lancia l’appello a una mobilitazione generale contro le politiche repressive del governo. E si prepara all’assemblea nazionale contro il decreto sicurezza prevista per sabato 16 novembre alla Sapienza, ore 10 aula magna della facoltà di Lettere. Nel comunicato i giuristi evidenziano come il quadro globale, all’indomani della rielezione di Trump, veda superate le distinzioni tra “democrazie liberali e illiberali”, mentre gli spazi di agibilità del conflitto sociale sono “sempre più assottigliati”. Un quadro in cui l’Italia gioca il ruolo di “laboratorio di nuove pratiche giuridiche e politiche a-democratiche, tese apertamente all’esautoramento delle istituzioni di garanzia e dei principi che reggono il nostro sistema di democrazia costituzionale” si legge nel comunicato. Intanto il Governo prosegue il proprio sprint, proprio su decreto sicurezza e separazione delle carriere, i due principali provvedimenti verso cui puntano il dito i giuristi. Il secondo in particolare, in esame alle commissioni affari costituzionali e giustizia alla Camera, corre veloce e si prepara ad arrivare in aula per la prima volta entro fine novembre. Ieri è stata posticipata la discussione dal 26 al 29 del mese, ma più per organizzazione del calendario che per una sentita necessità di dibattere più a lungo il testo. Le commissioni hanno bocciato ieri tutti gli emendamenti proposti dalle opposizioni all’articolo 2, quello che più specificatamente introduce la separazione delle carriere per i magistrati. Ora sono in esame gli emendamenti all’articolo 3, che sdoppia il Csm in giudicante e requirente e introduce il sorteggio per l’elezione di un terzo dei componenti. Entro fine mese il testo arriverà in aula per un primo voto, ma la strada per il ddl Nordio è ancora lunga e in salita. Trattandosi di una riforma costituzionale sono previsti due voti per ciascuna aula, il secondo dei quali a maggioranza dei due terzi, per essere approvato. Motivo per cui quasi certamente sarà necessario un referendum confermativo, auspicato peraltro dallo stesso ministro Nordio. Referendum senza quorum, dall’esito non scontato. In Senato invece è iniziato l’esame in commissione giustizia del ddl sicurezza. Il 7 novembre è scaduto il termine per la presentazione degli emendamenti, che sono oltre 1500. Il voto in aula non è stato ancora calendarizzato ma potrebbe arrivare prima di Natale. Mentre lo scontro tra governo e magistratura si consuma sul terreno albanese, i lavori parlamentari accelerano nel giro di vite repressivo. Sì del Csm alle nuove “pagelle” per le toghe. “Si poteva far meglio” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 14 novembre 2024 “La magistratura dimostra, a mio avviso, di avere in se stessa la forza per adeguarsi alle richieste che provengono dalla società, per autoriformarsi, e per introdurre nuove norme al fine di garantire più trasparenza e maggiore credibilità al proprio lavoro”, ha dichiarato ieri Isabella Bertolini, laica Csm eletta su indicazione di FdI e presidente della commissione di Palazzo Bachelet per le Valutazioni di professionalità, illustrando in plenum la circolare relativa appunto alle “pagelle”. Le nuove norme, approvate ieri con la sola astensione del laico Ernesto Carbone (Iv), arrivano al termine di un lungo e complesso lavoro di studio e di approfondimento avviato quando la commissione era presieduta dalla togata Bernadette Nicotra. La riforma Cartabia, fra i vari temi, aveva modificato anche quello riguardante la valutazione di professionalità dei magistrati, ispirandosi a una serie di principi volti a garantire una maggiore trasparenza, efficienza e qualità nel sistema giudiziario. Diverse le innovazioni previste. Innanzitutto, la riforma mira a incentivare il merito tra i magistrati, stabilendo criteri di valutazione più rigorosi e oggettivi per il riconoscimento della professionalità, alcuni di nuova introduzione e altri già operativi nella precedente normativa. Tra le novità più rilevanti c’è sicuramente l’introduzione della “pagella” sulle capacità di organizzare il proprio lavoro. La previsione, va detto, sarà però pienamente operativa quando gli applicativi informatici ministeriali saranno implementati con funzioni che consentiranno sia l’estrazione dei prospetti statistici, sia la campionatura dei provvedimenti. Viene previsto poi un sistema di valutazione più trasparente e accessibile, introducendo criteri ben definiti anche attraverso un maggiore coinvolgimento della componente laica con il “diritto di tribuna”, e il diritto di voto della sola componente forense, presso i Consigli giudiziari e il Consiglio direttivo della Corte di cassazione. La riforma introduce inoltre meccanismi che riducono al minimo le valutazioni soggettive, promuovendo un approccio più imparziale. I magistrati dovrebbero in futuro essere valutati sulla base di parametri oggettivi come la qualità del lavoro svolto, l’efficienza nelle decisioni e la tempestività nelle procedure. Il sistema di valutazione è stato anche pensato per prevedere un monitoraggio continuo del lavoro dei magistrati, con verifiche periodiche che mirano a garantire che la professionalità si mantenga costante nel tempo. In tale direzione va la completa digitalizzazione del fascicolo personale del magistrato e del nuovo fascicolo della valutazione del magistrato. Un altro principio ispiratore, sebbene già applicato in passato, è la promozione della formazione e dell’aggiornamento continuo per i magistrati. Si incoraggia così la partecipazione a corsi di perfezionamento e aggiornamento professionale per mantenere alta la qualità delle decisioni giudiziarie. Infine, la riforma mira a migliorare l’efficienza complessiva del sistema giudiziario, incentivando i magistrati a prendere decisioni più rapide e coerenti, riducendo i tempi dei processi e migliorando l’accesso alla giustizia per i cittadini attraverso l’effettiva applicazione degli standard medi di rendimento, attualmente applicati in via sperimentale e che opereranno a tutto campo solo dopo la definizione della fase sperimentale. “Certamente potevamo essere più coraggiosi, ma garantisco che già questo risultato non è stato facile da raggiungere, perché ha incontrato diverse opposizioni. I grandi cambiamenti, comunque, si fanno a piccoli passi, superando le legittime resistenze, e nella magistratura di resistenze ce ne sono molte, che si incontrano”, ha proseguito Bertolini. La legge, va sottolineato, prevede che la valutazione di professionalità “non può riguardare l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove”. “Premesso che la riforma Cartabia mortifica l’ordine giudiziario, sottoponendolo a un produttivismo irrazionale, resta il buco nero delle pagella del magistrato, che rischia di essere in balia di capi e capetti delle correnti sparpagliati nel sistema di autogoverno”, ha commentato il togato indipendente Andrea Mirenda. I tanti casi Striano, non raccontati, sparsi per il paese degli spioni di Ermes Antonucci Il Foglio, 14 novembre 2024 Da Genova a Cosenza, da Padova a Brindisi: negli ultimi mesi in giro per l’Italia è emerso un numero impressionante di accessi abusivi alle banche dati riservate da parte delle forze dell’ordine. Un quadro inquietante fatto di agenti infedeli, banche dati colabrodo e controlli inesistenti. Da Genova a Cosenza, da Padova a Brindisi, da Prato a Marsala. Lontano dai riflettori, puntati sui casi Striano e della società Equalize, negli ultimi mesi in giro per l’Italia è emerso un numero impressionante di accessi abusivi alle banche dati riservate da parte di agenti delle forze dell’ordine. Poliziotti, Carabinieri e agenti della Guardia di Finanza infedeli, spesso in cambio di denaro, altre volte per mere ragioni personali, ad esempio per spiare famigliari e amici. Queste vicende non sono arrivate all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale ma, messe insieme, consegnano l’immagine inquietante di una parte di paese appassionata allo spionaggio, grazie a infrastrutture informatiche ridotte a un colabrodo e assenza di controlli all’interno delle forze dell’ordine. Il caso più eclatante è quello di Prato, dove lo scorso 30 maggio il comandante dei Carabinieri, Sergio Turini, è stato arrestato con l’accusa di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio e accesso abusivo al sistema informatico. Secondo l’accusa, Turini si sarebbe messo a disposizione di imprenditori amici, italiani e cinesi, accedendo abusivamente al sistema banca dati Sdi delle forze dell’ordine per fornire informazioni in cambio di utilità (sono almeno 99 gli accessi individuati). Ora Turini ha chiesto di patteggiare, con il consenso della procura. Anche Davide Oddicini, comandante dei Carabinieri della stazione di Cornigliano (Genova), è stato arrestato lo scorso 27 settembre con l’accusa di aver effettuato accessi non legati a ragioni di servizio alle banche dati della Polizia e dell’Aci, per poi fornire le informazioni ad amici e conoscenti. A fine ottobre, a Cosenza, sono invece stati condannati in primo grado a pene molto pesanti (da cinque a sei anni) un avvocato e due finanzieri accusati di accesso abusivo ai sistemi informatici e corruzione. Gli agenti della GdF avrebbero estratto abusivamente i dati di 160 mila persone in tutta Italia sulla banca dati dell’Inps, cedendoli poi - in cambio di denaro - a una società informatica che li avrebbe commercializzati. Sempre a fine ottobre, a Marsala, un sovrintendente dei Carabinieri in servizio alla procura è stato posto sotto indagine con l’accusa di aver agito da spia interna, cercando sulla banca dati dell’Arma notizie su indagini in corso per conto di un amico imprenditore. E ancora: agli inizi di ottobre a Lamezia Terme (Catanzaro) è stata aperta un’inchiesta che vede tra gli indagati anche un maresciallo della Guardia di Finanza, accusato di essersi introdotto in modo abusivo nel sistema informatico giudiziario per avere informazioni su dei procedimenti penali, per poi passarle alle persone coinvolte. Lo scorso giugno, a Brindisi, un poliziotto è finito ai domiciliari per accesso abusivo alla banca dati Sdi nell’ambito di un’inchiesta su una tentata estorsione ai danni di alcuni imprenditori. A marzo, a Roma, un maresciallo dei Carabinieri in servizio nella caserma della compagnia Cassia è stato sorpreso dai superiori ad accedere abusivamente alla banca dati Sdi per spiare moglie, cognata e suoceri. Tutto ciò è avvenuto solo negli ultimi otto mesi. Oltre Striano c’è di più. Nel sistema giudiziario manca la giusta cura per le vittime di reato di Stefano Guarnieri* Corriere Fiorentino, 14 novembre 2024 Il caso accaduto recentemente ad un’udienza di un processo per stupro dove l’avvocata difensore dell’imputato è stata insultata veementemente da amici della vittima presenti, ha posto giustamente all’attenzione la questione su come far sì che questo non accada più. Vorrei provare in questo contesto a dare un piccolo contributo indicando una possibile spiegazione del perché questo accade, dato che attraverso le possibili cause, si possano identificare delle possibili soluzioni. A causa della mia passata esperienza personale di vittima di reato, dei tanti racconti di vittime di reati stradali che ho ascoltato, dello studio e della scrittura sul tema della vittimologia, sono facilmente portato a pensare con i piedi nelle scarpe della vittima provando ad immaginare come si senta lei all’interno del processo. La legislazione europea ha da tempo ormai normato i diritti minimi delle vittime di reato e la nostra legislazione li ha in parte recepiti. Ribadendo che quello che è accaduto nei confronti dell’avvocata è profondamente sbagliato, siamo certi che la vittima di reato e i suoi familiari (a loro volte vittime) siano stati correttamente gestiti dal sistema giustizia? La vittima si è sentita protetta, informata, ascoltata come prevedono i suoi diritti? È stato evitato che nel percorso per arrivare in aula incontrasse l’imputato? Le è stato fornito un percorso di sostegno e assistenza psicologica? Se la vittima non era nelle condizioni economiche per a avere un avvocato qualcuno le ha offerto un gratuito patrocinio? Il sostituto procuratore nel caso specifico si è informato entro tre giorni dalla denuncia? Lo ha fatto direttamente ascoltandola o ha delegato l’autorità di polizia giudiziaria? Gli avvocati, i giudici i pubblici ministeri hanno mai avuto una formazione adeguata sul trattamento delle vittime? Il sistema giustizia (pubblico ministero, autorità di PG, avvocati, giudici) hanno posto la giusta attenzione nell’avere “cura della vittima” al fine di evitare fenomeni di vittimizzazione secondaria? Potrebbero essere tante altre le domande. Probabilmente la vittima e i suoi familiari sono stati gestiti correttamente e questo non ha evitato gli ingiustificabili insulti. Quello che so per esperienza di tanti racconti che ancora nel nostro sistema giustizia manca in generale una cultura vittimologica. La vittimologia, vista come settore della criminologia atto a studiare l’effetto del crimine e del sistema giustizia sulla vittima al fine di evitare fenomeni di vittimizzazione secondaria e di facilitarne il reinserimento nella vita sociale, non appartiene quasi mai al bagaglio di conoscenze degli operatori della giustizia nel nostro Paese. Non si tratta di togliere niente all’imputato, che giustamente ha i suoi diritti, ma aggiungerli nel piatto della bilancia della vittima. Sarebbe bello poterne parlarne con le camere penali, i giudici e i pubblici ministeri con serenità e voglia di una giustizia che riesca a dare anche la giusta attenzione e cura alla vittima di reato. Come il buon medico è quello che cura il malato e non la malattia, credo che il buon operatore di giustizia - e sicuramente ce ne sono già molti - sia quello che ha la giusta “cura” dell’imputato e della vittima e non solo delle carte del fascicolo processuale. *Fondatore Associazione Lorenzo Guarnieri Onlus È legge il Dl contro le aggressioni ai sanitari e il danneggiamento dei beni di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2024 Via libera alla conversione, con modificazioni, del decreto 1° ottobre 2024, n. 137. Si prevede l’arresto obbligatorio in flagranza e, a determinate condizioni, l’arresto in flagranza differita. Via libera definitivo della Camera, con 144 voti a favore e 92 astenuti, dopo l’approvazione da parte del Senato, al Ddl di conversione, con modificazioni, del decreto 1° ottobre 2024, n. 137, che contiene misure urgenti per contrastare i fenomeni di violenza nei confronti dei professionisti sanitari, socio-sanitari, ausiliari e di assistenza e cura nell’esercizio delle loro funzioni nonché di danneggiamento dei beni destinati all’assistenza sanitaria. La norma, che si compone di quattro articoli, nasce per porre un argine ai gravi episodi di violenza e prevede l’arresto obbligatorio in flagranza e, a determinate condizioni, l’arresto in flagranza differita per i delitti di lesioni personali commessi nei confronti di professionisti sanitari, sociosanitari e dei loro ausiliari, nonché per il reato di danneggiamento dei beni destinati all’assistenza sanitaria. L’articolo 1, modificato nel corso dell’esame al Senato, estende l’ambito di applicazione delle sanzioni previste per le lesioni procurate agli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni (articolo 583-quater, secondo comma, C.p.), al personale che svolge servizi di sicurezza complementari. La norma, aggiungendo un ulteriore comma all’articolo 635 c.p., introduce la fattispecie, punita con la reclusione da uno a cinque anni e la multa di 10.000 euro, di danneggiamento di cose destinate al servizio sanitario o socio-sanitario commesso all’interno o nelle pertinenze di strutture sanitarie o socio-sanitarie residenziali o semiresidenziali, pubbliche o private, con violenza alla persona o con minaccia ovvero nell’atto del compimento del reato di lesioni personali a personale esercente una professione sanitaria o socio sanitaria e a chiunque svolga attività ausiliarie ad essa funzionali, nonché al personale che svolge servizi di sicurezza complementari. La disposizione prevede anche una aggravante speciale ad effetto comune (la pena è aumentata fino ad un terzo) che ricorre quando il fatto è commesso da più persone riunite. L’articolo 2, modificando gli articoli 380 e 382-bis del Cpp, prevede l’arresto obbligatorio in flagranza e, a determinate condizioni, l’arresto in flagranza differita per i delitti di lesioni personali commessi nei confronti di professionisti sanitari, sociosanitari e dei loro ausiliari, nonché per il reato di danneggiamento dei beni destinati all’assistenza sanitaria. In particolare, viene considerato, comunque, in stato di flagranza chi, sulla base di documentazione videofotografica o di altra documentazione legittimamente ottenuta da dispositivi di comunicazione informatica o telematica, dalla quale emerga inequivocabilmente il fatto, risulti autore dei suddetti delitti, sempre che l’arresto sia compiuto non oltre il tempo necessario alla sua identificazione e, comunque, entro le quarantotto ore dal fatto. Si prevede, inoltre, l’applicazione del procedimento con citazione diretta a giudizio per il reato di danneggiamento (articolo 635, quarto comma, c.p., come introdotto dall’art. 1 del decreto in esame). L’articolo 3 reca la clausola d’invarianza finanziaria che ha destato le critiche delle opposizioni (che si sono astenute) da Azione al M5s fino al Pd. “Vi accanite sul codice penale e rispondete solo mediaticamente all’escalation di aggressioni: pene più aspre e zero euro. Da domani non cambierà nulla”, ha detto il dem Marco La Carra. Mentre l’articolo 4 dispone che il decreto-legge in esame entri in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ovverosia il 2 ottobre 2024. Per il Ministro della Salute, Orazio Schillaci: “È una buona notizia, il provvedimento dà risposte concrete e maggiori tutele al personale sanitario e che ha già iniziato a dare risultati come l’arresto in flagranza differita, ieri” a Lamezia Terme, “di un uomo che aveva barbaramente aggredito un medico mentre prestava servizio”. “Le aggressioni - afferma - non devono restare impunite”. “Ma sappiamo bene che è necessario continuare a lavorare per portare avanti un cambiamento culturale e recuperare il senso dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente”, aggiunge il ministro, ringraziando il Parlamento “per la sensibilità e l’attenzione dimostrata verso un fenomeno che non possiamo più accettare”. Suicidio in carcere, risarcimento per l’ingresso senza psicologo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2024 Il giovane era stato messo in cella da solo e non aveva trovato all’arrivo nè lo psicologo nè l’educatore per valutare la sua capacità di affrontare la detenzione. Il ministero della Giustizia deve risarcire la famiglia del detenuto che si suicida la mattina dopo il suo ingresso in carcere, avvenuto senza incontrare lo psicologo o l’educatore. In più il ragazzo, sottoposto alla custodia cautelare, era stato messo in una cella da solo, benché sorvegliato, e non, come ordinato dal Pm, con altri detenuti. Omissioni che, secondo i giudici, hanno il valore di “nesso causale” con la tragica fine dell’indagato. La Corte di cassazione, con la sentenza 29319, respinge il ricorso di via Arenula, contro la decisione della Corte d’Appello di riconoscere, dopo un procedimento durato 15 anni, un risarcimento alla madre e ai fratelli dell’uomo. Inutile la richiesta del ministero di dare un peso alle testimonianze del personale del carcere. La Suprema corte ricorda, infatti, che “non può attribuirsi valore probatorio, in controversia relativa al contestato adempimento degli obblighi gravanti sull’amministrazione penitenziaria, alle dichiarazioni rese dal personale della struttura penitenziaria che aveva tutto l’interesse ad escludere ogni addebito di responsabilità per quanto avvenuto”. Né passa la giustificazione dell’ora di ingresso nella struttura, le 21 e 30, per l’assenza dello psicologo e dell’educatore. Il ministero nega le responsabilità dell’amministrazione penitenziaria, al pari di quanto aveva fatto il Tribunale di primo grado, considerando il suicidio un “fattore eccezionale ed imprevedibile tenendo conto delle peculiarità del caso concreto”. Il ragazzo all’arrivo era stato, infatti, visitato dal medico di guardia, e considerato un soggetto con rischio suicidio basso. Durante la notte l’agente di turno era passato più volte davanti alla cella e lo aveva sempre visto tranquillo. Controlli costanti e ripetuti, dovuti al regime di “grande sorveglianza”, che erano proseguiti fino alle 6,50 del mattino. Verso le 7 era stato trovato il suo cadavere. Lo stesso Pm aveva poi considerato non particolarmente significativo il generico proposito suicida manifestato, solo in quell’occasione, vista anche la precedente esperienza del carcere dove l’uomo aveva trascorso in passato 5 anni. Il colloquio all’ingresso - Per la Cassazione non sono argomenti convincenti. La Suprema corte, già in sede di rinvio alla Corte d’Appello - che aveva in prima battuta escluso le inadempienze dell’amministrazione per poi affermarle - aveva considerato “incontestabile, sul piano causale, che, ove il (....) fosse stato sottoposto a regime di detenzione comune, come peraltro espressamente richiesto dal pubblico ministero, i suoi intenti suicidari sarebbero stati impediti o comunque resi di assai più ardua realizzazione dalla presenza di altri detenuti”. Né l’ora tarda poteva essere una giustificazione per togliere rilievo ad una circostanza decisiva: l’assenza all’arrivo dello psicologo e dell’educatore per sottoporre la persona in custodia cautelare ad una “osservazione funzionale a verificarne la capacità di affrontare adeguatamente lo stato di restrizione”. Per la Cassazione il mancato adempimento violava l’articolo 23 dell’Ordinamento penitenziario (Dpr 230/2000), secondo il quale “un esperto dell’osservazione e trattamento effettua un colloquio con il detenuto o internato all’atto del suo ingresso in istituto per verificare se, ed eventualmente con quali cautele, possa affrontare adeguatamente lo stato di detenzione”. Di parere diverso il ministero che riteneva di aveva a disposizione 24 ore per osservare un obbligo, inesigibile vista l’ora di arrivo nella sezione “nuovi giunti”. Napoli. Ha lasciato Poggioreale a 92 anni. Era il detenuto più vecchio d’Italia di Roberto Russo Corriere del Mezzogiorno, 14 novembre 2024 Risarcito per sovraffollamento. Il garante Ciambriello: la giustizia non deve essere tortura. È stato scarcerato un detenuto di 92 anni dal carcere di Poggioreale, quasi certamente si trattava del recluso più vecchio d’Italia. Il Corriere del Mezzogiorno denunciò la vicenda della sua permanenza in cella, nonostante l’età avanzata, il 10 dicembre 2023. Di recente l’anziano aveva potuto lasciare la cella per andare a scontare la pena alternativa in detenzione speciale nella comunità. Alla fine di ottobre, ha ricevuto dall’Ufficio di sorveglianza di Napoli il riconoscimento di 193 giorni di liberazione anticipata concessa a titolo di risarcimento del danno, (come previsto dall’articolo 35 ter dell’Ordinamento Penitenziario - che riconosce l’abbuono di un giorno di pena per ogni dieci giorni di detenzione se vissuta in condizioni disumane - in riferimento al periodo valutato dal 18 settembre 2018 al 10 ottobre 2024, trascorso nel carcere di Poggioreale). La notizia della scarcerazione è stata diffusa dal garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello: “Il detenuto più vecchio d’Italia è finalmente libero - spiega -. Com’è noto, questa norma è stata introdotta nel nostro sistema penitenziario a seguito della sentenza dell’8 gennaio 2013 (Sentenza Torreggiani) emessa dalla Corte di Strasburgo contro l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo la quale stabilisce che nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti”, spiega Ciambriello, secondo cui è “giusto e doveroso il provvedimento di scarcerazione del magistrato di sorveglianza, ma la vicenda ripropone il tema del sovraffollamento e, più in generale, delle condizioni inumane in cui versa la popolazione carceraria; più grave ancora se proviamo ad immaginare un ultranovantenne ristretto in condizioni inumane nel carcere di Poggioreale in celle da 8 e 10 persone in spazi angusti. Non ci può essere certezza della pena senza rispettare la dignità umana”, ribadisce Ciambriello. Il detenuto molto anziano scarcerato non è un assassino e nemmeno un mafioso, si tratta di un “sex offender”, era stato condannato a sette anni e imprigionato quando di anni ne aveva già 87 per un reato di natura sessuale. Nel suo caso non era stato possibile attivare misure alternative alla detenzione, come prevede la legge per le persone che abbiano superato i 70 anni di età. “Questo perché - spiega Ciambriello - i reati di natura sessuale sono ostativi. Ma la verità è che ogni storia è diversa da un’altra e la vicenda giudiziaria dell’anziano detenuto è completamente differente da quella di un vero e proprio stupratore. Si tratta di un reato che l’ha condotto in cella quando aveva 87 anni e per questo la carcerazione appariva insensata, sia per l’età avanzata, sia perché è davvero complesso ipotizzare che egli costituisse un pericolo per la società”. Il novantaduenne ha vissuto per anni in una cella insieme ad altri reclusi, in condizioni ritenute disumane dal 18 settembre 2018 al 10 ottobre scorso, come ha riconosciuto con un’ordinanza il giudice di sorveglianza di Napoli. Di fatto si tratta dell’ennesima condanna per il penitenziario napoletano dopo quella della Corte di Giustizia europea che nel 2013 condannò l’Italia proprio per le condizioni di vita disumane dei detenuti di alcuni carceri tra i quali Poggioreale. “Sempre a Poggioreale abbiamo un altro detenuto di 72 anni affetto da sclerosi multipla, almeno una trentina di persone affette da disturbi mentali -aggiunge il garante -, insomma una umanità dimenticata che meriterebbe sorte diversa dal restare rinchiusa in carcere”. Celle sovraffollate e poche ore d’aria Secondo gli ultimi dati su 7.327 detenuti nelle carceri campane, 757 devono scontare pene da un mese a tre anni. “Si tratta quasi sempre di reati bagatellari” conclude il garante. Intanto, sulle condizioni dei reclusi a Poggioreale preoccupano i risultati del rapporto dell’associazione Antigone: “Napoli Poggioreale è l’istituto più grande del paese per capienza e numero di persone ristrette. Al momento della visita, a fronte dei 1.571 posti regolamentari, risultavano recluse 2.126 persone, con un esubero di oltre 500 unità”. Il sovraffollamento è tale che in alcune celle i detenuti dispongono di meno di 3 metri quadrati di spazio a persona. I detenuti possono uscire dalle celle solo 2 ore al mattino e 2 al pomeriggio. Fossano (Cn). “Il reinserimento dei detenuti per dare una seconda chance” ideawebtv.it, 14 novembre 2024 Alessandro Romano, amministratore delegato di Euro1 ha presentato a Fossano il progetto solidale di McDonald’s: “Anche per fare del bene ci vuole coraggio, superando i pregiudizi”. “È stata una serata ricca di pathos ma anche molto costruttiva. Sono certo che da questa esperienza nasceranno altre iniziative positive e solidali”. Con queste parole Alessandro Romano, amministratore delegato di Euro1, la società licenziataria dei ristoranti McDonald’s in provincia di Cuneo ha commentato la serata organizzata a Fossano, dal significativo titolo: “Lavoro: genesi di un riscatto”. Nel corso di questo incontro, spiega ancora Romano, “ab­biamo voluto raccontare un’iniziativa messa in campo presso il locale McDonald’s di Fossano, dove dal mese di luglio sono state inserite nell’organico collaboratori, in particolare due persone che stanno scontando una pena nella Casa circondariale di Fossano. Un’esperienza davvero molto positiva ed arricchente per tutti: per noi come società, per i 35 addetti che lavorano nel locale e per i nuovi collaboratori, che si sono perfettamente integrati nella squadra di lavoro. Non era così scontato che il team si integrasse, che ogni cosa funzionasse al meglio, ed invece al di là di ogni pregiudizio, sotto il segno dell’inclusione, il reinserimento di due detenuti nel mondo del lavoro è stato un successo. Tanto da consigliare la stessa esperienza di Euro1 ad altri imprenditori, ad altre realtà economiche della Granda”. E se l’obiettivo era quello di far conoscere il progetto - che ha basi ben strutturate nella legge dello Stato denominata Smuraglia ed è sostenuto anche da un’apposita norma della Regione Piemonte -, la sfida è stata vinta, come spiega anche il direttore generale della provincia di Cuneo di Confesercenti Nadia dal Bono: “Molti dei nostri associati si sono già rivolti al nostro ufficio per avere ulteriori informazioni. Come associazione di categoria abbiamo sostenuto il progetto fin da subito, convinti che si possano far incontrare due realtà distanti tra di loro ma che, attraverso la solidarietà e la voglia di mettersi in gioco, possono collaborare, ottenendo ottimi risultati, come nel caso di Euro1”. Il reinserimento lavorativo nel locale McDonald’s di Fossano, è stato realizzato grazie all’indispensabile supporto della Casa Circon­dariale - rappresentata durante la presentazione dal funzionario giuridico pedagogico Antonella Aragno - e l’associazione “No profit” che fa parte del Terzo Settore Seconda Chance, fondata dalla giornalista di La 7 Flavia Filippi, che ha in Piemonte la sua referente in Claudia Polidoro. Se­conda Chance promuove a livello nazionale il progetto che mette in contatto aziende e istituti di pena. “Il percorso per individuare i soggetti idonei per un’occupazione esterna è lungo e meticoloso”, precisa Anto­nella Aragno, “e parte dalla formazione lavorativa dello stesso detenuto, che magari ha seguito dei corsi formativi in carcere”. “La pena va assolutamente scontata”, ribadisce Claudia Polidoro, “ma può diventare una grande opportunità per rimettersi in gioco ed avere una seconda opportunità, anche per affrontare nel modo giusto il percorso di vita una volta finito di scontare la pena. Esistono purtroppo molti preconcetti, ma io invito gli imprenditori della Granda ad informarsi, senza impegno, sulle procedure e sulle possibilità offerte. Il timore che il detenuto possa creare difficoltà all’interno dell’azienda è un pregiudizio che deve essere sfatato. Certo può accadere ma è molto raro. Dare una possibilità a chi ha sbagliato vuol dire, spesso, salvare una vita. Inoltre la stessa azienda ha un ritorno di immagine molto positivo per questa azione di solidarietà verso il prossimo. Per questo ringrazio e mi complimento con Euro1 ed il suo amministratore delegato Romano, per aver avuto il coraggio di lanciare il cuore oltre l’ostacolo”. “La percentuale dei detenuti che ricadono nel giro dell’illegalità dopo aver appreso un lavoro da svolgere anche una volta terminata la propria pena detentiva è davvero molto bassa”, ha ricordato Bruno Mellano, Garante regionale dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. All’incontro erano presenti molti avvocati, imprenditori e rappresentanti di cooperative sociali. Hanno portato il loro saluto Franco Graglia, vicepresidente del Consiglio Re­gionale della Regione Pie­monte e Luca Robaldo, presidente della Provincia di Cuneo. Nella seconda parte della serata, Alessandro Romano ha dialogato con Michele Padovano, dirigente sportivo ed ex calciatore, che ha giocato in diverse squadre di serie A ed ha vinto la Champions League con la Juventus. Padovano ha ripercorso la drammatica esperienza che lo ha visto protagonista di un clamoroso caso di malagiustizia, conclusosi dopo 17 anni con una assoluzione in formula piena. La sua esperienza e ciò che ne è derivato nel bene e nel male, l’ex calciatore lo ha voluto raccontare nel libro “Tra la Champions e la Libertà. La partita in difesa di un attaccante per difendere la vita”. Rovigo. Carcere minorile, i detenuti arriveranno l’aprile prossimo Corriere del Veneto, 14 novembre 2024 Il direttore dell’attuale istituto penitenziario per il Triveneto con sede a Treviso: “La ristrutturazione pronta a fine anno”. Manca solo il decreto attuativo del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ma è tutto pronto per l’entrata in funzione, a primavera, del carcere minorile nell’ex Casa circondariale in via Verdi, aperta nel 1933 e dismessa nel 2016. Lo spiega il direttore del carcere minorile di Treviso, Girolamo Monaco, che segue da vicino l’evoluzione del trasferimento graduale della sede. “I principali lavori di riqualificazione dell’ex Casa circondariale di Rovigo - spiega Monaco - saranno terminati e consegnati al ministero della Giustizia l’1 gennaio 2025. L’entrata in funzione della struttura è attesa per aprile del prossimo anno. Trenta i detenuti minorenni ospitati a Rovigo, con circa 40 agenti penitenziari”. Riguarda l’istituto penitenziario minorile di Treviso, che ora ospita 20 detenuti, la “road map” prevede un progressivo svuotamento che dovrebbe terminare nel 2026. A fine 2020 il ministero per le Infrastrutture, con decreto, ha aggiudicato l’appalto per la realizzazione del carcere minorile per il Triveneto con sede in via Verdi a Rovigo all’associazione temporanea d’imprese (Ati) “Nidaco costruzioni Srl-ici impresa costruzioni industriali Spa”. L’ati, con sede a Venafro (Isernia), si è aggiudicata l’appalto offrendo un ribasso del 21,050%, importo finale di 8 milioni e 615.276 euro. Il bando di gara per trasformare in istituto penale per minori i circa due ettari dell’ex carcere per adulti era da 11,2 milioni di euro. I lavori iniziati a gennaio 2022. Dell’imminente arrivo del carcere minorile in città se ne parla stasera a Rovigo su iniziativa del gruppo “Cultura e spiritualità”. L’incontro alle 21 in sala della Gran Guardia in piazza Vittorio Emanuele II. Protagonisti don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile “Beccaria” di Milano, Manuela Fasolato, procuratore della Repubblica a Rovigo, Lorenzo Miazzi, presidente di Corte d’appello a Venezia e Giovanni Maria Pavarin, già presidente del Tribunale minorile di Trieste. Cosenza. “I luoghi dell’anima”, il concorso di scrittura di LiberaMente che dà voce ai detenuti corrieredellacalabria.it, 14 novembre 2024 Il laboratorio ha coinvolto dieci persone. Nei prossimi giorni gli incontri con gli autori Assunta Morrone, Attilio Sabato e Francesco Veltri. È giunto alla sua seconda edizione il concorso “I luoghi dell’anima”, un’iniziativa promossa dall’associazione LiberaMente, che si rivolge ai detenuti della casa circondariale di Cosenza. Questo progetto, che unisce cultura e rieducazione, ha trovato nel laboratorio di scrittura creativa e autobiografica un’opportunità unica per i partecipanti di esplorare il proprio mondo interiore, attraverso le parole. I laboratori, che fanno parte dell’iniziativa più ampia “Libri che camminano”, sono stati realizzati grazie alla collaborazione tra il Comune di Cosenza e il Centro per il Libro e la Lettura del Ministero della Cultura, nell’ambito del riconoscimento della città come “Città che legge 2022”. L’obiettivo del progetto è di offrire ai detenuti l’opportunità di avvicinarsi alla lettura e alla scrittura. Il laboratorio di scrittura creativa, che si è concluso la scorsa settimana, ha coinvolto dieci detenuti di media sicurezza ed è stato condotto dalla giornalista e scrittrice Rosalba Baldino. “È stato un laboratorio con molta partecipazione e per me un’esperienza umana fortissima”, ha dichiarato Baldino. “I partecipanti hanno mostrato grande umiltà nell’imparare e interesse per il lavoro svolto insieme che ha rappresentato, per loro, anche uno stimolo alla lettura”. Oltre ai laboratori di scrittura creativa, altri importanti appuntamenti sono previsti per i prossimi mesi. Attualmente, è in fase di conclusione un altro laboratorio condotto dalla scrittrice Elena Giorgiana Mirabelli, mentre nel mese di dicembre inizierà il laboratorio di scrittura autobiografica, curato dalla giornalista Carla Chiappini. Durante questo percorso, i detenuti potranno esplorare non solo la loro creatività, ma anche le esperienze personali più intime, attraverso la scrittura. Parallelamente alle attività di scrittura, l’istituto penitenziario ospiterà anche tre incontri con autori. Gli scrittori Assunta Morrone, Francesco Veltri (giornalista del Corriere della Calabria) e Attilio Sabato presenteranno i loro libri: “Le montagne che camminano”, “Il mediano di Mauthausen” e “L’ultimo Re”, offrendo ai detenuti un’occasione di confronto diretto con la letteratura. Molti dei partecipanti al laboratorio sono detenuti stranieri, e proprio attraverso la scrittura e la lettura riescono a compiere un vero e proprio viaggio dentro se stessi, affidando alle parole le proprie emozioni e riflessioni. Le opere prodotte - poesie e racconti - saranno sottoposte al concorso “I luoghi dell’anima” e verranno raccolte nel terzo volume della serie “Controluce, racconti dal carcere”. I lavori dei detenuti saranno esaminati da una giuria composta da figure di spicco del panorama culturale e sociale. A presiedere la commissione sarà Mario Bozzo, già alla guida della Fondazione Carical, affiancato dalla dirigente scolastica Rosita Paradiso, dalla dirigente dell’Ambito territoriale di Cosenza dell’Ufficio scolastico regionale, Loredana Giannicola, e da don Enzo Gabrieli, sacerdote e direttore del settimanale Parola di Vita . Francesco Cosentini, presidente dell’associazione LiberaMente, ha sottolineato l’importanza di iniziativa come quella in corso, che confermano il ruolo educativo e rieducativo del carcere. “Siamo sempre più convinti che il carcere debba avere una funzione rieducativa”, ha dichiarato Cosentini, ringraziando tutti coloro che hanno reso possibile il progetto, a partire dalla direttrice della casa circondariale Maria Luisa Mendicino e dal comandante della polizia penitenziaria Agostino Sistino, fino all’area educativa, che ha sostenuto l’iniziativa nonostante le difficoltà logistiche. Cosentini ha espresso anche soddisfazione per la continuità del progetto, finanziato in parte dalla Fondazione “Con il Sud” e dal Movimento Lavoratori Azione Cattolica, ma anche per il fatto che il Comune di Cosenza abbia deciso di includere la casa circondariale tra i luoghi di lettura, “offrendo così un’importante opportunità di crescita culturale ai detenuti”. Un progetto che, attraverso la lettura e la scrittura, regala a chi vive dietro le sbarre una possibilità di riscatto, ma anche un’occasione per scoprire, o riscoprire, il valore delle parole come strumento di libertà. Salerno. Genitori e figli nelle carceri, il progetto Gazzetta di Salerno, 14 novembre 2024 Tutelare i diritti ed i legami affetti dei minori con genitori detenuti. È questo il primo punto nell’agenda delle priorità che il progetto “S.Av.E.L.ove CuriAmo la relazione” della Fondazione Comunità Salerno, selezionato dall’Impresa Sociale Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, ha redatto con l’Arcidiocesi di Salerno Campagna Acerno, e una rete di altri 19 partner, per intervenire in quello spazio di doppia privazione definito “genitorialità in pausa”. Da questa osservazione è sorta la necessità di un partenariato caratterizzato da una forte esperienza in ambito sociale, educativo e detentivo, in sinergia con gli istituti penitenziari di Salerno (Casa Circondariale “A. Caputo” di Fuorni), Avellino (Casa Circondariale “A. Graziano” di Bellizzi), Eboli (Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento delle Tossicodipendenze e/o Alcol dipendenze) e Lauro (Istituto a Custodia Attenuata per detenute Madri). Sono circa 500 i minori presi in carico attraverso il personale dell’area educativa interna e grazie ai partner presenti nei territori delle due province coinvolte. Si interverrà per contrastare la dispersione e l’abbandono scolastico; per sviluppare le competenze di base e le competenze non cognitive dei minori; per l’orientamento scolastico e formativo; per la presa in carico dei figli di detenuti; nel rafforzamento delle competenze genitoriali e nell’attivazione di nuovi spazi per minori o di luoghi educativi. Il progetto proporrà azioni innovative a tutela del diritto all’affettività della diade genitore-figlio. Si punterà a costruire una comunità educante in grado di generare effetti positivi sul minore, sul suo sviluppo cognitivo, sulla salute, sugli equilibri emotivi e relazionali, sul conseguimento di obiettivi e traguardi nelle diverse dimensioni di vita: ambito scolastico, tempo libero, cultura, sport. Centrale sarà la loro presa in carico, personalizzata, con la promozione di processi di crescita e di integrazione sociale, garantendo la continuità o la ripresa del legame affettivo con il genitore che vive la condizione detentiva. Innovativo sarà il cambio di prospettiva nell’accoglienza in carcere pensata affinché sia a misura di bambino, stemperi la durezza dell’attesa e della perquisizione e agisca sulla distanza affettiva nel colloquio. Si è già al lavoro per trasformare le aule colloquio delle carceri in aule di arte dedicate a genitori detenuti e figli. La voce del genitore continuerà a nutrire tale relazione attraverso la registrazione di fiabe, che il figlio potrà ascoltare in sua assenza al fine di mantenere vivo il rapporto, e la creazione di un albo illustrato che di queste storie ne racconterà l’essenza lasciando al segno grafico il compito di parlare a grandi e piccini. La Casa Circondariale “A. Caputo” di Fuorni a Salerno, conta 493 detenuti (capienza regolamentare N. 390 unità) di cui 450 uomini e 43 donne; il 10% sono stranieri. L’83% della popolazione carceraria ha tra i 20 e i 55 anni; il livello di scolarizzazione è medio basso; più del 50% sono genitori con figli minori. Gli agenti di polizia penitenziaria sono 226 in pianta organica ma solo 170 presenti. La Casa Circondariale “A. Graziano” di Bellizzi - Avellino, ha in custodia 515 detenuti, di cui 496 uomini, 19 donne, 48 stranieri; con un’età compresa tra 30 e 60 anni. L’80% ha figli minori; il livello di scolarizzazione è medio-basso. Gli agenti penitenziari presenti sono 264 (in pianta organica 297). L’ICATT di Eboli (SA) Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento delle Tossicodipendenze e/o Alcol dipendenze, accoglie 48 detenuti uomini di età compresa tra i 19 e 45 anni, di cui 4 stranieri. Gli agenti penitenziari sono 22 (in pianta organica 27). All’ICAM di Lauro (AV) Istituto a Custodia Attenuata per detenute Madri, sono presenti 11 donne con 14 bambini, di cui 8 straniere. Gli agenti penitenziari presenti sono 35 (in pianta organica 32). I destinatari diretti del progetto sono i minori (età 0-17) figli di detenuti, nello specifico: i minori che accedono all’Istituto penitenziario per visitare il genitore; i minori che vivono con la madre all’interno dell’ICAM; i minori figli di detenuti e le loro famiglie nel proprio contesto di vita. Sono da considerarsi destinatari diretti del progetto anche gli operatori, con un particolare focus sugli agenti di Polizia Penitenziaria, impegnati quotidianamente ad accogliere i minori che accedono agli Istituti. I beneficiari saranno individuati dalla Direzione. Mentre i destinatari indiretti sono da ritrovarsi nei contesti di vita (scuola, quartieri, ecc.) e nelle Comunità civili. Il partenariato - Faro, “E Si Prese Cura Di Lui” - Società Cooperativa Sociale, Aragorn Iniziative srl, Arcidiocesi di Salerno-Campagna-Acerno, Associazione “La Tenda Centro di Solidarietà ONLUS”, Associazione Comunità Emmanuel ONLUS, Associazione di Volontariato “La Casa sulla Roccia - Centro di Solidarietà”, Associazione PAIDEIA Onlus, Azienda Speciale Consortile A04, Azienda Speciale Sele Inclusione A.S.S.I. - Azienda Territoriale per i servizi alla persona, Caritas Diocesi di Avellino, Casa Circondariale “A. Caputo” Salerno, Casa Circondariale “Antimo Graziano” Avellino, Casa Circondariale Lauro, Casa Reclusione ICATT Eboli, Comune di Salerno, Demetra Società Cooperativa sociale, Fondazione Caritas Salerno, L’approdo Service Società Cooperativa Sociale, Migranti Senza Frontiere, Ufficio distrettuale di Esecuzione Penale Esterna - Salerno, Ufficio Locale Esecuzione Penale Esterna - Avellino. L’Italia dei pochi bambini sempre più poveri. I rincari anche sulle pappe di Luca Liverani Avvenire, 14 novembre 2024 Un Paese fragile, con profonde disuguaglianze sociali e territoriali. In cui i nuovi nati sono sempre meno e le opportunità, fin dai primi mille giorni di vita, non sono uguali per tutti. Dalla salute all’ambiente, ai servizi educativi. Lo dicono i numeri. Nel 2023 in 340 comuni italiani non è nato nemmeno un bambino. Il 13,4% delle bambine e dei bambini tra 0 e 3 anni è in povertà assoluta. La povertà nella fascia tra 0 e 5 anni è passata in due anni dal 7,7% del 2021 all’8,5%. L’8,5% tra 0 e 5 anni (200 mila bimbi) non ha almeno un pasto proteico ogni due giorni. Uno su 10 (il 9,7%) vive in case non sufficientemente riscaldate. E le spese per latte e pappe in 4 anni è aumentata quasi del 20%. È una fotografia preoccupante quella scattata da Save the Children “Un due tre…stella. I primi anni di vita” che oggi pubblica la XV edizione dell’Atlante dell’infanzia a rischio in Italia. L’unico dato positivo è quello sugli asili nido. Ma con alcune eccezioni nel Meridione. “Troppi genitori oggi in Italia affrontano la nascita di un bambino in solitudine - sostiene Claudio Tesauro, Presidente di Save the Children - senza cioè poter contare su adeguate reti di sostegno. Il supporto alla prima infanzia è un obiettivo da mettere al centro di tutte le scelte della politica: nel campo della salute come in quello dei servizi educativi; nel contrasto alla povertà così come nella tutela dell’ambiente”. Nuovo record negativo di denatalità. Nel 2023 l’Italia ha toccato un nuovo record di denatalità, con solo 379.890 nuovi nati. Le bambine e i bambini tra 0 e 2 anni rappresentano attualmente appena il 2% della popolazione nazionale, ma lo squilibrio tra generazioni è destinato ad ampliarsi progressivamente in futuro. Se oggi i minorenni sono il 15,3% della popolazione, nel 2050 saranno il 13,5%. Al contrario, la generazione sopra i 65 anni passerà dall’attuale 24% al 34,5% nel 2050. Nel 2002-2003 in Italia erano presenti poco meno di 2 milioni di famiglie con almeno un bambino sotto i 3 anni (1 milione 920mila), l’8,7% del totale dei nuclei con o senza figli. A soli dieci anni di distanza, si sono ridotte a meno di 1 milione e mezzo (1 milione 450mila), ossia il 5,7%. Infine nel 2023 in 340 Comuni italiani (tutti con meno di 5mila abitanti) non è nato nessun bambino e in 72 Comuni non ce ne sono sotto i 3 anni . Il Piemonte la regione con il maggior numero di Comuni senza bimbi sotto i 3 anni (34), poi Lombardia (10 comuni) e Abruzzo (8). La Sardegna la regione con meno bambini da 0 a 2 anni rispetto alla popolazione, l’1,49%, nella Provincia di Bolzano il tasso più alto (2,76%). In crescita i bambini piccoli poveri. Sono 1 milione 295mila i minori in povertà assoluta in Italia, il 13,8% del totale, e sono loro i più poveri tra le generazioni. Poveri tra gli anziani sono il 6,2% degli over 65, il 9,4% dei 35-64enni, l’11,8% dei 18-34enni. Nel 2023, circa 200mila bambine e bambini tra 0 e 5 anni (8,5% del totale) vivevano in povertà alimentare, cioè in famiglie che non riescono a garantire almeno un pasto proteico ogni due giorni. Erano il 7,7% solo nel 2021. Oltre la metà al Sud e nelle isole, dove la percentuale sale al 12,9%, contro il 6,7% del Centro e il 6,1% del Nord. Quasi un bambino su dieci (9,7%) della stessa fascia d’età ha sperimentato la povertà energetica, cioè vive in una casa non adeguatamente riscaldata (16,6% al Sud e nelle isole, 7,3% al Centro e 5,7% al Nord). Anche qui l’incidenza è cresciuta rispetto al 2021, era all’8,6%. Le deprivazioni nei primi anni vita sono nocive alla salute per le fasi successive della vita e diventano fattori di trasmissione della povertà alle generazioni successive. Crescono le spese per le famiglie con bambini. Da un’analisi realizzata col Centro Studi di Confindustria, emerge che in 4 anni, dal 2019 al 2023, la spesa indispensabile per “latte e pappe” ha subìto un aumento del 19,1%, più del forte aumento dell’indice generale dei prezzi (16,2%). Rincari anche per i costi dei nidi, 11,3%. Inoltre tra il 2014 e il 2024 i costi pre-nascita (come visite mediche, ecografie, abbigliamento premaman) sono cresciuti del 37%, passando dai circa 2.000 euro complessivi del 2014 a oltre 2.740 nel 2024. Le spese per i pannolini dal 2021 al 2024 sono cresciute dell’11% (552 euro annui) e quelle per le creme del 14% (50,4 euro annui). Positiva (ma insufficiente al Meridione) la spesa per gli asili nido. Oggi soltanto il 30% delle bambine e dei bambini tra 0 e 2 anni trova posto all’asilo nido, con profondi divari territoriali. E variazioni tra regioni che arrivano a superare i 30 punti percentuali: si va infatti dal 46,5% dell’Umbria, regione con la copertura più alta, al 13,2% della Campania e al 13,9% della Sicilia. Quale sarà l’impatto degli investimenti complessivi del Pnrr e del nuovo Piano nidi promosso ad aprile dal Ministero dell’Istruzione e del Merito? L’investimento consentirà effettivamente di accrescere la copertura nazionale di oltre 10 punti percentuali, raggiungendo il 41,3%, ma i gap territoriali rimarranno piuttosto ampi. Undici regioni riusciranno a superare il target del 45%: Molise, Umbria, Abruzz, Emilia-Romagna, Valle d’Aosta, Marche, Sardegna, Toscana, Lazio, Liguria e Friuli-Venezia Giulia. Sette regioni raggiungeranno livelli compresi tra il 38% e il 45% di copertura: Trentino-Alto Adige, Basilicata, Lombardia, Veneto, Piemonte, Calabria e Puglia. Le due regioni fanalino di coda, Campania e Sicilia, nonostante l’investimento non riusciranno a raggiungere neanche la copertura del 33%. La Campania è previsto si attesti al 29,6%, la Sicilia al 25,6%. Da tenere presente poi i costi di gestione degli asili nido che cresceranno notevolmente con l’aumento delle strutture. Previsto uno stanziamento ad hoc nel Fondo di solidarietà comunale (Fsc) poi confluito nel Fondo speciale equità livello dei servizi. Su 7.904 comuni ne sono stati finanziati 5.150, ma di questi ben 1.945 non hanno attivato alcun progetto Pnrr per l’attivazione di nuovi posti. Italia divisa anche per la salute dei bambini. Nonostante la sanità neonatale italiana sia un’eccellenza, registra ampie disuguaglianze territoriali. Ad esempio per la disponibilità di posti in terapia intensiva pediatrica. In Italia erano solo 273 nel 2023 , con una carenza del 44,4% rispetto agli standard europei e una distribuzione disuguale sul territorio: 128 al Nord (a fronte di un fabbisogno di 222), 55 del Sud e isole (ne servirebbero 168), 90 del Centro (sotto solo di 2 posti). In Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Umbria, Molise, Basilicata e Sardegna non esistono posti letto di terapia intensiva pediatrica. Un altro esempio? I pediatri, un punto di riferimento indispensabile per i bambini e le famiglie, sono troppo pochi. Nel 2022, ultimo anno per il quale il Ministero della Salute fornisce un dato ufficiale, il carico medio potenziale per pediatra (cioè il numero di bambini residenti nell’area in cui opera un medico pediatra) è a livello nazionale di 993 bambini - con un’ampia variabilità territoriale (da 863 bambini per pediatra in Toscana a 1.281 in Piemonte). I pediatri con più di 800 assistiti (il numero massimo secondo l’Accordo Collettivo Nazionale di allora), erano il 72,8%, con punte di 86,9% in Veneto, 86,3% in Piemonte, 86,7% nelle Marche. Miglioramenti infine sono da registrare alla voce tagli cesarei, in calo del 36% rispetto al 2012. Resta però alta la propensione nelle case di cura private accreditate, col cesareo usato nel 44,5% dei parti a fronte del 29,3% degli ospedali pubblici. Varia il dato da regione a regione: dal 18,3% della Tpscana al 48,6 della Campania e al 36,5% del Lazio Migranti in Albania, il Governo rallenta dopo il no dei giudici di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 14 novembre 2024 L’idea di attendere il pronunciamento della Corte Ue per evitare danni erariali. Egiziani e bengalesi, al centro delle bocciature dei giudici romani dei trattenimenti nelle strutture d’accoglienza, sono in cima alle classifiche dei migranti approdati in Italia. Prima sedici, poi otto. E adesso c’è il rischio che nell’immediato futuro nessun altro migrante venga accompagnato nei centri d’accoglienza italiani in Albania, in attesa della pronuncia della Corte di giustizia europea sulla designazione di “paese di origine sicura”, come richiesto nei giorni scorsi dai giudici di Bologna e Firenze. A circa un mese dall’inizio dell’operazione legata al protocollo Roma-Tirana, con il salvataggio in mare e il trasferimento a Shengjin e Gjader di profughi maschi, maggiorenni e soli - l’unica categoria che può essere trasferita secondo l’accordo siglato dai due governi - i numeri sono ancora bassi. Le riunioni tecniche a Palazzo Chigi e al Viminale - È stato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi a ribadire di non aver alcuna intenzione di fermare gli accompagnamenti in Albania, linea condivisa con la presidente del consiglio Giorgia Meloni. Ma le ultime sentenze della sezione Immigrazione del Tribunale civile di Roma - prima con la mancata convalida dei trattenimenti dei migranti e poi con la sospensiva del provvedimento senza il parere dei magistrati europei che si sono tradotti in un ordine di riportarli in Italia da persone libere - hanno imposto una riflessione tanto che ieri sia al Viminale, sia a palazzo Chigi ci sono state riunioni tecniche per analizzare le eventuali conseguenze. E alla fine si è convenuto sulla necessità di rallentare, anche per non rischiare la contestazione di danno erariale. Gli esposti dell’opposizione - Già dopo il primo viaggio i deputati di Avs e M5S avevano presentato un esposto chiedendo alla Corte dei Conti di analizzare i costi dell’operazione. I documenti ufficiali parlano di 134 milioni all’anno per il mantenimento delle strutture che arriva dunque a 670 milioni in cinque anni. Costi che, questa la linea del Viminale, sono nettamente inferiori “a un miliardo e 700 milioni di euro l’anno spesi per la prima accoglienza straordinaria”. Denaro di cui i giudici contabili potrebbero chiedere giustificazione, anche tenendo conto dell’impiego di circa 300 uomini delle forze dell’ordine italiane che sono impiegati nelle strutture in Albania, oltre ai costi per il mantenimento e la logistica delle strutture, che a tutt’oggi sono pienamente operative anche se senza migranti da accogliere e gestire, ma soprattutto quelli dei viaggi via mare da organizzare in poche ore per riportare i migranti in Italia visto che ormai la linea dei decreti è stata tracciata. Sbarchi in calo con l’arrivo delle basse temperature - Finora i magistrati hanno bocciato i trasferimenti di migranti bengalesi ed egiziani, che per l’Italia arrivano da “Paesi sicuri” e sono quindi destinati (ma non è comunque previsto l’obbligo) all’Albania se in possesso dei requisiti personali richiesti. Si tratta proprio delle due nazionalità ai primi posti della classifica di persone sbarcate nel nostro Paese nel 2024: a ieri i bengalesi sono stati 11.713, i più numerosi, mentre gli egiziani sono al quarto posto con 3.790 arrivi su un totale di 58.769. Fra gli altri nuovi Paesi sicuri (Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia e Sri Lanka) ci sono anche Tunisia (7.542 arrivi) e Gambia (1.416), in uno scenario in cui il 2024 è comunque un anno con numeri di persone approdate sulle coste italiane di molto inferiori rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (147.238) e del 2022 (91.220). I rischi per il Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo del 2026 - La stagione invernale, con burrasche e temperature rigide, potrebbe portare adesso a un ulteriore calo di partenze e traversate del Mediterraneo. Rimane il problema legato ai tempi, ma non solo. La decisione dei giudici europei, prevista entro gennaio 2025, potrebbe avere ripercussioni anche su una delle basi del Patto sull’Immigrazione e l’Asilo siglato nel maggio scorso che prevede - a partire dal 2026 - procedure di frontiera accelerate senza soffermarsi sul luogo in cui devono essere eseguite basandosi sull’autodeterminazione dei singoli Stati per la definizione di “Paese sicuro” rispetto alla provenienza dei migranti. Quanto basta per comprendere come lo scontro tra politica e giudici possa addirittura salire di livello. Migranti. Ecco l’emendamento che “esautora” i Tribunali civili di Valentina Stella Il Dubbio, 14 novembre 2024 Fratelli d’Italia presenta modifiche al decreto Flussi per sottrarre la competenza ai giudici che hanno bocciato le norme del governo e assegnarla alle Corti d’appello. “Per i procedimenti aventi ad oggetto la convalida del provvedimento con il quale il questore dispone il trattenimento o la proroga del trattenimento del richiedente protezione internazionale” è “competente la Corte d’appello” nel cui “distretto ha sede il questore che ha adottato il provvedimento oggetto di convalida”. La Corte d’appello civile “giudica in composizione monocratica”. È quanto si legge in un emendamento al decreto Flussi presentato dalla relatrice Sara Kelany, deputata di FdI, in commissione Affari costituzionali alla Camera. Il voto sull’emendamento è previsto nei prossimi giorni, e il risultato a favore dell’approvazione sembra scontato. La conversione del decreto dovrebbe passare, nell’aula di Montecitorio, il 25 novembre, ed è probabile che il governo ponga la fiducia. L’obiettivo della modifica presentata da FdI è sottrarre la competenza sulle decisioni relative ai migranti, incluse quelle sui trattenimenti in Albania, ai giudici civili delle sezioni Immigrazione dei Tribunali. Dopo che le toghe avevano disapplicato il Dl Cutro, si era pensato di assegnare le competenze ai Tar. Adesso si vira sul giudice civile di secondo grado. “È semplicemente assurdo demandare per un compito simile la Corte d’appello, nel nostro ordinamento non esiste una prima istanza o una convalida assegnata a un giudice di appello”, ci dice l’avvocata, esperta in ricorsi dei migranti, Rosa Emanuela Lo Faro. Sembra si tratti insomma di una “contromisura” alle ultime decisioni dei Tribunali, tutti specializzati nella materia dell’immigrazione, su “modello Albania” e decreto Paesi sicuri. Demandare la materia alle Corti d’appello civili, secondo le toghe, vuol dire assegnare i procedimenti a persone meno preparate sul tema, già ingolfate di lavoro e impegnate a raggiungere gli obiettivi del Pnrr. Come raccontato, ci sono stati in queste settimane diversi provvedimenti - Roma, Bologna, Catania - che hanno sostanzialmente smontato il modello Albania della premier Giorgia Meloni e del premier albanese Edi Rama e hanno rinviato poi in alcuni casi il Dl Paesi sicuri alla Corte di Giustizia Ue, per dirimere il contrasto fra legislazione nazionale e norma sovranazionale. Ci dice Stefano Musolino, segretario di Magistratura democratica: “Temo che il governo sia a caccia del giudice accondiscendente che non c’è, nella illusione che il problema sia appunto il giudice anziché i rapporti tra norma nazionale e norma europea. Vi è stato un grande investimento organizzativo, di risorse umane, di affinamento di competenze nella creazione, in tutti i Tribunali italiani, delle sezioni specializzate in materia di protezione internazionale. In Corte d’appello non ci sono quelle competenze, sebbene si potranno formare con il tempo, ma soprattutto non c’è un numero sufficiente di magistrati per fornire un servizio efficiente”. Sulla stessa linea Giovanni Zaccaro, segretario di AreaDg, l’altra corrente progressista dei magistrati: “Non riesco a comprendere il motivo della modifica normativa: si sottrae la competenza ai giudici specializzati nella materia e la si sposta alle Corti d’appello, già schiacciate da enormi carichi di lavoro e in affanno nel raggiungere gli obiettivi di smaltimento dell’arretrato concordati dal governo con l’Ue”. Inevitabili anche le reazioni politiche: “Musk chiede e Fdi esegue”, è stato il secco il commento all’emendamento della capogruppo dem alla Camera, Chiara Braga. Che ha proseguito: “La relatrice del provvedimento, guarda caso del partito della presidente del Consiglio, ha depositato un pacchetto di emendamenti che rappresentano una vera e propria follia giuridica, un vero e proprio abuso del potere legislativo”. Il deputato di +Europa Riccardo Magi ha commentato: “Non potendo fare l’emendamento Musk per cacciare i giudici che non obbediscono, per mascherare il fallimento dell’esperimento albanese, governo e maggioranza continuano a intervenire compulsivamente e in modo isterico sulla normativa che disciplina il trattenimento delle persone richiedenti asilo. La scelta, dettata unicamente dal tentativo isterico di cambiare giudici sui provvedimenti relativi alla detenzione in Albania, avrà anche pesanti ricadute sull’organizzazione del lavoro delle Corti d’appello”. Dalla sinistra “solo affermazioni destituite di fondamento”, ha replicato Kelany. Intanto il 4 dicembre prossimo la prima sezione civile della Cassazione tratterà il ricorso del ministero dell’Interno contro la mancata convalida del trattenimento dei primi 12 migranti portati in Albania a metà ottobre, sui cui si è pronunciato il Tribunale di Roma dopo la sentenza del 4 ottobre della Corte di Giustizia Ue. La stessa Corte di Lussemburgo sarà chiamata, probabilmente l’estate prossima, a dirimere i quattro quesiti sollevati sempre dal Tribunale civile di Roma, sezione Immigrazione, qualche giorno fa sulla stessa questione. Il governo è comunque intenzionato a non fermare il progetto Albania e quindi, nonostante i rigetti dei magistrati e la sospensione del Dl Paesi sicuri, i viaggi della nave Libra non si fermeranno, prefigurando un infinito ping pong tra governo e magistrati. In mezzo, i migranti. Migranti. Per uscire dal pasticcio albanese ora la destra vuole cambiare i giudici di Mario Di Vito Il Manifesto, 14 novembre 2024 Alla Camera Il blitz in un emendamento al decreto flussi. Gli appalti per i controlli saranno secretati. Mannaia sui tempi per fare ricorso. È nella batteria di emendamenti al decreto flussi presentati in commissione affari costituzionali a Montecitorio che si nasconde l’ultimo assalto della destra alla magistratura. L’idea, in verità già ventilata nelle settimane passate, è di sottrarre alle sezioni specializzate in immigrazione dei tribunali civili le convalide dei trattenimenti dei richiedenti asilo decisi dalle questure, sia per i centri di Gjader, Porto Empedocle o Modica, sia per i Cpr (dove però sugli “irregolari” restano competenti i giudici di pace). Si andrà direttamente in Corte d’appello, con possibilità di impugnare poi in Cassazione (con mannaia sulle tempistiche: 5 giorni, senza sospensione del provvedimento). Il blitz lo ha portato avanti nella serata di lunedì la deputata di FdI Sara Kelany, in un pacchetto di dieci emendamenti che, tra le altre cose, contiene anche la secretazione degli appalti di forniture e servizi per mezzi e materiali ceduti a paesi terzi per il controllo dei flussi. Vuol dire, tanto per fare un esempio, che non sapremo più niente delle famigerate motovedette della guardia di finanza cedute a Libia o Tunisia. Il punto che più duole, comunque, resta quello dell’esautorazione delle sezioni immigrazione. È la versione meloniana del Comitato centrale di Brecht che non vuole cambiare linea e si propone invece di cambiare il popolo: le leggi non vanno bene? Cambiamo i tribunali. Ma il dubbio che, come tutte le altre, persino questa mossa possa non funzionare è concreto. “Non riesco a comprenderne il motivo - riflette il segretario di Area democratica per la giustizia Giovanni Zaccaro -. Così si sottrae la competenza ai giudici specializzati nella materia e la si sposta alle Corti di appello, già schiacciate da enormi carichi di lavoro e in affanno nel raggiungere gli obiettivi di smaltimento dell’arretrato concordati dal governo con l’Europa”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Stefano Musolino, segretario di Magistratura democratica: “Temo che il governo sia a caccia del giudice accondiscendente che non c’è, nell’illusione che il problema sia questo e non già i rapporti tra norma nazionale e norma europea”. Peraltro, ricorda Musolino, “c’è stato un grande investimento organizzativo, di risorse umane, di affinamento di competenze nella creazione, in tutti i tribunali italiani delle sezioni specializzate. In Corte d’appello non ci sono quelle competenze, al momento, ma sopratutto non c’è un numero sufficiente di magistrati per fornire un servizio efficiente”. Il problema esiste da tempo, in effetti: le Corti d’appello sono le grandi malate della giustizia italiana, sempre oberate di lavoro e in conclamata difficoltà nel riuscire a raggiungere gli obiettivi fissati dal Pnrr. Aggravarle di un ulteriore peso, di certo, non migliorerà la situazione. Anzi, finirà con il rallentare anche le varie procedure relative ai migranti. Lo spiega il segretario dell’Anm Salvatore Casciaro: “Queste modifiche renderanno plausibilmente meno celere la definizione dello status dei richiedenti asilo, col rischio di allungare anche i tempi di permanenza di coloro che non hanno titolo per restare in Italia”. A sorpresa, ma solo fino a un certo punto, dalle parti di Forza Italia il senatore Pierantonio Zanettin sembra consapevole che la questione potrebbe essere un pasticcio e già annuncia la sua intenzione di parlarne con il ministro Nordio. “La proposta potrebbe avere in effetti una sua astratta plausibilità per risolvere i contrasti giurisprudenziali emersi nei giorni scorsi - dice Zanettin -, però credo che necessiti ancora di un approfondimento di natura tecnica”. Ma se il versante procedurale non produce significative manifestazioni di senso giuridico, la partita ha di sicuro un valore dal punto di vista politico. “La scelta del governo è dettata unicamente dal tentativo isterico di cambiare giudici”, sostiene Riccardo Magi di + Europa, che per primo si è accorto dell’offensiva di Kelany in commissione. “Non potendo fare l’emendamento Musk per cacciare i magistrati che non obbediscono - prosegue Magi -, per mascherare il fallimento dell’esperimento albanese governo e maggioranza continuano a intervenire compulsivamente sulla normativa che disciplina il trattenimento delle persone che fanno richiesta di asilo”. Il tempo, intanto, scorre veloce: i gruppi avranno tempo fio a oggi pomeriggio per presentare i loro emendamenti al decreto flussi. In totale ne saranno segnalati 250 per le opposizioni e 50 per la maggioranza. Ma quelli che contano, e sui quali il governo è già d’accordo, sono solo quelli di Kelany. Immigrazione, perché il Governo odia le sezioni specializzate di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 novembre 2024 Come nascono e come funzionano. E perché escluderle dalle convalide dei trattenimenti dei richiedenti asilo non ha alcuna razionalità giuridica. Le sezioni specializzate in immigrazione, diventate improvvisamente il primo nemico del governo Meloni, nascono nel 2017 dal decreto Minniti-Orlando. Una norma che non aveva certo l’obiettivo di aumentare le tutele dei cittadini stranieri: al contrario si proponeva di estendere la rete dei centri di detenzione amministrativa, aumentare le espulsioni e accelerare i tempi delle procedure d’asilo. L’impennata di sbarchi nei due anni precedenti aveva intasato i tribunali con le domande di protezione internazionale. Per questo la legge ha cancellato le impugnazioni davanti alle Corti d’appello e istituito i giudici specializzati, idonei a garantire maggiore celerità nelle decisioni. Le sezioni sono presenti in tutti i tribunali in cui ha sede l’organo giudiziario di secondo grado. La loro caratteristica principale, però, non è la velocità ma la specializzazione. La materia - come quelle relative a impresa, lavoro, diritti della persona e altre - è particolarmente complessa e coinvolge questioni trasversali a diverse fonti del diritto. Prevede un confronto multilivello tra convenzioni internazionali, norme europee, Costituzione e leggi italiane (che sul tema cambiano costantemente). Anche la giurisprudenza, sia sovranazionale che interna, è molto fitta. Infatti i giudici, selezionati in via preferenziale per la precedente esperienza nel campo, sono vincolati a una formazione continua, svolta sia a livello Ue che insieme all’Agenzia europea per l’asilo e all’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati. Gli esperti concordano su una valutazione positiva delle sezioni specializzate sul piano delle tempistiche e della qualità della risposta giudiziaria. La stessa Cassazione ha assegnato a un’unica sezione, la prima, la materia dell’immigrazione. “L’emendamento del governo per sottrarre ai giudici specializzati le convalide sui trattenimenti dei richiedenti asilo è una violazione pazzesca dei principi di sistematicità e organicità del sistema giustizia”, afferma Nazzarena Zorzella, avvocata di Asgi. La proposta normativa non ha alcuna razionalità dal punto di vista del funzionamento della macchina giudiziaria, né da quello della necessaria tutela dei diritti fondamentali. Limitare il secondo aspetto è evidentemente ciò che interessa al governo, sarà interessante vedere se almeno sul primo il Quirinale avrà qualcosa da dire. Canapa, in bilico 30 mila posti: perché è a rischio un prodotto italiano di tradizione millenaria di Massimiliano Jattoni Dall’Asén Corriere della Sera, 14 novembre 2024 A Roma, Coldiretti e Filiera Italia espongono i prodotti a rischio di scomparire con il Ddl sicurezza. Il pregiudizio su questa pianta, iniziato negli Usa degli anni Trenta, ha cancellato una tradizione agricola in cui l’Italia primeggiava. I produttori italiani di canapa non si arrendono. Schiacciati da pregiudizi e da una politica a loro ideologicamente ostile, si sono dati appuntamento a Roma questa mattina, 14 novembre, per fare sfilare i prodotti “made in Italy” a rischio scomparsa a causa di alcune norme contenute nel Ddl sicurezza, norme che di fatto azzereranno completamente una filiera con le sue ricadute economiche ed occupazionali (30 mila posti di lavoro tra stabili e stagionali). L’iniziativa è di Coldiretti e Filiera Italia e l’esposizione si tiene a Palazzo Rospigliosi: l’obiettivo è ottenere un confronto urgente con le istituzioni, prima che per i canapicoltori sia troppo tardi e si dia il colpo di grazia a un settore che ha anche benefici ambientali come pochi altri. Dalla bioedilizia alla cosmetica, dall’alimentare alle energie rinnovabili, la coltivazione di canapa fa davvero bene all’ambiente e in molti modi. Prima di tutto, la canapa, a differenza del cotone o del lino, è una pianta che resiste naturalmente ai parassiti senza necessitare di pesticidi che, come sappiamo, penetrando nel terreno possono inquinare anche le falde acquifere. Ma la canapa fa bene anche al contrario, ovvero grazie alla fitodepurazione riesce ad assorbire dal terreno i metalli tossici, depurando di fatto il sottosuolo ed è una delle poche piante in grado di ridurre le emissioni di carbonio, assorbendolo dalla stessa anidride carbonica presente nell’aria. Se introdotta in ambienti anche molto inquinati, contribuisce a risanarli. Così come è utile per compattare con le sue radici profonde il terreno, prevenendone l’erosione. Inoltre, le foglie e i fusti sono ricchi di nutrienti che, se restituiti al suolo, contribuiscono a renderlo più fertile. Ma non è finita qui. Per coltivarla, servono bassi quantitativi di acqua, molto più vantaggiosa dunque del lino. Inoltre, se trasformata, la canapa diviene un biocarburante naturale che brucia a temperature più basse rispetto agli altri biocarburanti e completamente rinnovabile. Sempre lavorandola, poi, si ottiene una cellulosa compostabile e atossica che potrebbe sostituire le tonnellate di plastica che a ritmo continuo finiscono nelle discariche e, peggio ancora, nei nostri mari. Nonostante tutti questi benefici contenuti in una sola pianta, sulla canapa pesa il pregiudizio. E sappiamo tutti quale. La canapa è una pianta della famiglia Cannabaceae, il suo nome scientifico è cannabis sativa. Da cui, il termine comune “cannabis” o quello più gergale “canna” per indicarne l’uso ricreativo come sostanza stupefacente. Eppure, la canapa per millenni ha fatto parte della nostra tradizione: ha vestito, scaldato e nutrito. Anzi, per quanto riguarda l’Italia, fino a un secolo fa noi eravamo il principale produttore mondiale di fibra di canapa, subito dopo la Russia (nel 1900 producevamo più di 100 mila tonnellate). Basterebbe, se fosse possibile, interrogare un bisnonno o un trisnonno per scoprire che ogni famiglia italiana che possedeva del terreno, anche solo un piccolo appezzamento, dedicava una parte di esso alla coltivazione della canapa, indispensabile nell’economia familiare. Poi, qualcosa è cambiato. Tutto è cominciato negli anni Trenta del secolo scorso, per colpa degli Stati Uniti, quando la cannabis e i suoi derivati finirono vittime di uno stigma sociale, dilagato irrazionalmente in tutto il mondo. Quando la Convenzione unica sugli stupefacenti nel 1961, ratificata da oltre 180 Paesi, tra cui l’Italia, limitò la produzione e il commercio delle sostanze psicotrope, sulle coltivazioni di canapa calò il sipario e, di fatto, si concluse una lunghissima tradizione agricola italiana. Solo verso la metà degli anni Novanta, l’interesse verso questa coltura si è riacceso, a partire proprio dagli Stati Uniti, seguiti poi da Europa e Cina. Nuove coltivazioni hanno iniziato a fiorire grazie a imprese agricole, enti di ricerca e istituzioni. Ma in Italia il destino della coltivazione della canapa negli ultimi decenni sembra quello di progredire con molta fatica e poi di colpo perdere quel poco che aveva conquistato. A fine luglio scorso, infatti, a fronte dell’emendamento approvato nelle commissioni Affari costituzionali e giustizia della Camera, nell’ambito del Ddl sicurezza, l’art. 13 bis introduce il divieto di importazione, cessione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione e consegna delle infiorescenze della canapa e dei suoi derivati, proprio la parte della pianta di maggiore valore industriale e di maggiore interesse per i produttori. Il Tar del Lazio, l’11 settembre scorso, ha però stabilito che non possono essere considerati droga i prodotti a base di cannabidiolo. Il provvedimento ha prodotto automaticamente la sospensione, per il momento, del decreto e i produttori hanno tirato un sospiro di sollievo. Ma per quanto? Se il governo Meloni dovesse procedere lungo la strada intrapresa con l’emendamento al Ddl sicurezza, sarebbe la fine, spiega Coldiretti, per circa 3 mila imprese coltivatrici e aziende trasformatrici, operanti nei più disparati settori (alimentare, edilizia, cosmetica, tessile), per un fatturato complessivo dell’intera filiera di 500 milioni di euro l’anno. Di cui 150 rigirate allo Stato sotto forma di tasse. Medio Oriente. Donne per la pace: israeliane e palestinesi unite per fermare la guerra di Sara Del Dot Il Domani, 14 novembre 2024 Women Wage Peace, fondata in Israele nel 2014, e di Women of The Sun, nata nel 2021 in Palestina, sono due realtà che lavorano insieme per non cedere all’odio. E per aprire alle donne una strada nell’arena politica e nei negoziati. Nel frastuono assordante della guerra si muove il fruscio di chi lavora per la pace. Un processo attivo da tempo, nell’ultimo anno molto più intenso e complicato, di cui le donne si fanno portatrici affrontandone tutte le complicate sfaccettature. Sono le donne di Women Wage Peace, fondata in Israele nel 2014, e di Women of The Sun, nata nel 2021 in Palestina. Due realtà che lavorano insieme per non cedere all’odio e creare consapevolezza, cercando di aprire alle donne una strada nell’arena politica e nei negoziati. Donne che raccolgono i pezzi di ciò che rimane dalla distruzione che travolge ogni cosa attorno a loro. Creano legami, dentro e fuori dalle loro comunità, cercano di ricomporre, ricucire, ricostruire. Una guerra decisa da uomini - “Women of the Sun è nata da un’esigenza delle donne palestinesi di avere uno spazio dove esprimere un potenziale politico, sociale ed economico”, racconta la fondatrice e direttrice Reem Hajajreh. È madre di due bambini e vive nel campo profughi di Dheishesh, a sud di Betlemme. Qui, in meno di mezzo km quadrato, abitano circa 16mila persone palestinesi. “È come una prigione e già qui dentro la gente affronta sfide sociali quotidiane. Per questo lavoriamo su due aspetti: quello economico, aiutando le donne a essere finanziariamente indipendenti e quello politico, per dare loro spazio e implementare la Risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che impone il rispetto dei diritti delle donne e il loro coinvolgimento nella risoluzione dei conflitti, rendendole parte dell’arena politica, dei negoziati e dei processi di pace. Ad oggi contiamo circa 3mila sostenitori in West Bank, Gaza e Gerusalemme est. Siamo donne comuni, non affiliate ad alcun partito, ma vorremmo essere parte della politica per portare la nostra voce”. Rita Brudnik-Erlich, collaboratrice dei progetti di Women Wage Peace, ha vissuto in Unione sovietica fino all’età di 9 anni, per poi tornare in Israele e proseguire la sua vita a Ramla, in un contesto multiculturale che le è rimasto dentro come il più grande dei valori. “Il gruppo è nato dal basso durante l’ennesima operazione militare. Alcune donne si sono piazzate davanti al Parlamento chiedendo di tornare a sedersi ai tavoli dei negoziati, e questa è rimasta la nostra richiesta da quel giorno”. Oggi Women Wage Peace conta circa 50mila sostenitori. “Vogliamo essere parte attiva nei processi di pace in un conflitto in cui le decisioni vengono prese per la maggior parte soltanto da uomini. Nessuno parla del ruolo cruciale delle donne in questi contesti e non siamo mai abbastanza rappresentate”. Le due organizzazioni si sono riunite per spezzare il ciclo di violenza che ha risucchiato tutto attorno a loro. Anche perché, sottolinea Hajajreh, a pagare il prezzo più alto delle guerre sono proprio loro: anziani, bambini, donne. “Siamo più della metà della società eppure ci escludono da qualunque ambito politico. Nessuno ci ascolta, nessuno chiede la nostra opinione”. Nel 2022 hanno lanciato la “Mothers Call”, l’appello delle madri, ufficializzando la loro collaborazione, ma da tempo lavoravano insieme, non senza difficoltà. Già trovare un luogo in cui potersi incontrare, donne israeliane e palestinesi, era complicato. “Lavoriamo su due fronti di pace: quello all’interno della nostra comunità e poi quello nella collaborazione con l’altra parte”, continua Hajajreh. “Abbiamo bisogno di creare influenze positive nelle nostre rispettive aree e poi lavorare insieme per unirci”, prosegue Brudnik-Erlich. Costruttrici di pace - L’ultima volta in cui hanno partecipato insieme a una marcia per la pace è stato il 4 ottobre 2023, quando in migliaia hanno camminato fino al Mar Morto. Appena tre giorni dopo c’è stato l’attacco del 7 ottobre in cui sono state uccise tre donne di Women Wage Peace, tra cui anche la co-fondatrice Vivian Silver. Da allora tutto è crollato, non hanno più potuto incontrarsi di persona, ma il loro legame è divenuto più profondo, alimentato dalla preoccupazione e dalla consapevolezza sempre maggiore di una pace necessaria. Nel corso dei bombardamenti su Gaza, 30 donne di Women of the Sun sono state uccise. “Delle altre non sappiamo molto, perché continuano a essere evacuate da un posto all’altro. Noi proseguiamo con attività anche nelle aree di evacuazione e nei campi profughi per parlare, attivarsi anche in modo creativo, curare i traumi, permettere di esprimersi”. Nell’incontro “Donne costruttrici di Pace in Medio Oriente” all’Università Bicocca di Milano, Hajajreh e Brudnik-Erlich hanno condiviso le loro testimonianze, intrecciando le diverse esperienze e riflessioni su una pace che oggi sembra irraggiungibile ma che dentro di sé coltivano come un fiore delicato. Le due organizzazioni infatti hanno già ricevuto diversi riconoscimenti, come la candidatura al Premio Sacharov 2024 e al Premio Nobel per la Pace. Inoltre Reem Hajajreh e Yael Admi, co-fondatrice di Women Wage Peace, sono state inserite tra le Donne dell’anno 2024 dal Time. “Non c’è bisogno di parteggiare da una parte o dall’altra, bisogna essere pro-pace, è qui che bisogna investire”, dice Hajajreh. “Noi non vogliamo sentirci ripetere la condizione in cui ci troviamo, quella la conosciamo già, abbiamo bisogno di soluzioni. E quando ci sono le donne, significa che ci sono persone che si prendono cura delle loro comunità, delle famiglie, dei bambini. E questo è il motivo per cui desideriamo donne influenti che cerchino strade non violente per lavorare sui percorsi di pace, influenzando il potere per andare in questa direzione, per non ripetere mai più ciò che è accaduto l’anno scorso. Siamo esauste di perdere i nostri cari. Siamo persone che non hanno nulla per difendersi, per essere resilienti. Noi donne, poi, abbiamo solo il nostro cuore e le nostre mani. Vogliamo solo essere salvi e vivere le nostre vite”. “Stiamo reclamando il nostro futuro e quello dei nostri figli”, continua Rita. “Perché questo non è il futuro che vogliamo. Proveremo a influenzare tutti i decision makers che possiamo, non importa di che parte siano, per portare stabilità nella regione. Io ho due bambini, il più grande ha 13 anni e il più piccolo 11. Il mio sogno per loro è che non debbano più fare il servizio militare ma magari un servizio civile in cui scegliere come essere utili alla comunità. Vorrei che i giovani israeliani e palestinesi si incontrassero davvero, perché se non ti conosci di persona l’altro ti sembrerà sempre il male”. Iran. Il dissidente Sanjari si toglie la vita per protesta dopo l’annuncio su X di Greta Privitera Corriere della Sera, 14 novembre 2024 “Liberate i prigionieri politici o mi suicido”. Il gesto estremo del giornalista 42enne, dubbi sulla sua morte: “Aveva appena acquistato un biglietto per gli Usa. Potrebbe essere una messinscena del regime”. Wikipedia è appena stato aggiornato. Kianush Sanjari 11 settembre 1982 - 13 November 2024. Il giornalista dissidente lo aveva scritto, promesso, su X: “Se Fateme Sepehari, Nasreen Shakrami, Tomaj Salehi e Arsham Rezaei non verranno rilasciati dal carcere entro le 19:00 di mercoledì 13 novembre, e la notizia del loro rilascio non sarà pubblicata sul sito della magistratura, metterò fine alla mia vita in segno di protesta contro la dittatura di Khamenei e dei suoi soci”. Ventitré ore dopo, l’ultimo post: “Rispetto la parola. Nessuno dovrebbe essere incarcerato per aver espresso le proprie opinioni. La protesta è un diritto di ogni cittadino iraniano. La mia vita finirà dopo questo tweet ma non dimentichiamo che moriamo e moriamo per amore della vita, non della morte. Mi auguro che un giorno gli iraniani si sveglino e superino la schiavitù”. Poi una foto dall’alto, di quello che sarebbe stato il suo ultimo salto nel vuoto: “7 p.m., ponte di Hafez, Chaharso”. Sanjari si è suicidato. Rimangano i video di un corpo riverso a terra e un tentativo vano di rianimarlo. Il giornalista ha chiesto, ha pregato via social che gli attivisti Sepehari e Rezaei, la madre della giovane Nika Shakarami uccisa dalle guardie degli ayatollah nel 2022, e il rapper Salehi - tutti prigionieri politici, tutti incarcerati senza processo - venissero rilasciati, solo così non avrebbe compiuto l’estremo gesto di togliersela vita. Una richiesta dall’esito scontato. Il regime non ascolta nessuno, figuriamoci un giornalista, un dissidente con la passione per la libertà. Un quarantaduenne che da quando ha 17 anni ha praticato la dissidenza pacifica, facendo fuori e dentro dal carcere di Evin, a Teheran. Sanjari conosceva nel dettaglio la tortura fisica e psicologica perpetrata dal regime, ma, raccontano gli amici, non ha mai smesso di credere che un giorno avrebbe vissuto in un Iran libero e democratico. Durante gli arresti, è stato in isolamento, è stato anche rinchiuso in una clinica psichiatrica. Ha raccontato: “Di notte un’infermiera mi ha iniettato qualcosa che mi ha bloccato la mascella. Quando mi sono svegliato, avevo mani e piedi incatenati al letto”. Migliaia le condivisioni del suo ultimo messaggio. “Guardate la disperazione degli iraniani, saremo sempre con te”, scrivono sui social. E ancora: “La vita mi deve una patria dove posso pensare solo a vivere, non alla patria”. Ma, sempre tra i suoi conoscenti, c’è chi solleva qualche dubbio: e se Sanjari non si fosse tolto la vita ma fosse tutta una messinscena del regime che voleva ucciderlo? Non sarebbe la prima volta che le guardie degli ayatollah fingono un suicido per fare fuori i dissidenti. Chi conosce Sanjari racconta che aveva appena acquistato un biglietto per gli Stati Uniti e che non aveva mai parlato di gesti di questo tipo. In passato, grazie all’aiuto di Amnesty International, Sanjari ha vissuto in Norvegia e poi è riuscito a trasferirsi negli Usa dove ha lavorato per il canale dell’opposizione Voice of America e per altre organizzazioni dei diritti umani. Nel 2016 era tornato in Iran per stare vicino alla madre malata, senza mai abbandonare la lotta pacifica contro la dittatura, I suoi ultimi post finiscono tutti allo stesso modo: “Lunga vita all’Iran”. Haiti. Attacco all’ambulanza di Medici senza frontiere, la polizia uccide due pazienti di Luca Geronico Avvenire, 14 novembre 2024 Gli operatori sanitari costretti a scendere. Quindi la brutale esecuzione. L’organizzazione umanitaria: “Violenza scioccante”. Assalto all’ambulanza di Medici senza frontiere, ed esecuzione a sangue freddo di due pazienti da parte della polizia. Un nuovo salto in là nell’orrore ad Haiti, in quello che è l’ultimo atto della guerra per bande in corso da mesi ad Haiti con la polizia al soldo dei signori della guerra. Un conflitto endemico, ma inaspritosi dopo la nomina del nuovo primo ministro Alix Didier Fils-Aimè. Lunedì scorso - riferisce l’organizzazione umanitaria - un’ambulanza di Msf che trasportava tre giovani con ferite da arma da fuoco è stata fermata dalla polizia haitiana a un centinaio di metri dall’ospedale di Msf nella zona di Drouillard, nella capitale a Port-au-Prince. Il veicolo è stata costretto a dirigersi verso l’Hôpital La Paix dove le forze dell’ordine e uomini armati hanno circondato l’ambulanza, tagliato le ruote. Subito dopo, riferisce l’organizzazione umanitaria, “hanno lanciato lacrimogeni contro il personale di Msf nel veicolo per costringerlo a uscire. Hanno poi portato i pazienti feriti poco lontano, fuori dall’ospedale, dove almeno due di loro sono stati vittime di un’esecuzione”. Non è la prima volta che un episodio del genere si verifica ad Haiti: lo scorso settembre, un’altra ambulanza di Msf era stata fermata per più di un’ora mentre trasportava un paziente in condizioni critiche: il paziente a bordo è morto per mancanza di cure. “Questa volta il nostro personale è stato anche aggredito, insultato, colpito con gas lacrimogeni, minacciato di morte, trattenuto per più di quattro ore e i pazienti prelevati dall’ambulanza e uccisi” ha raccontato il capo missione Christophe Garnier. “Questi fatti mettono seriamente in discussione la possibilità di continuare a fornire cure essenziali alla popolazione che ne ha estremo bisogno. I civili sono ogni giorno vittime di tremende crudeltà di cui i nostri team sanitari sono testimoni, tra stupri, torture e tentativi di omicidio”, ha concluso Garnier. L’attacco all’ambulanza si inserisce nell’ondata di disordini scatenatesi sull’isola caraibica dopo la destituzione di Garry Conille. Martedì gli scontri tra bande armate hanno coinvolto l’aeroporto internazionale Toussaint Louverture nella capitale, creando caos nei cieli di Port-au-Prince. Alcune compagnie aeree hanno deciso di bloccare i voli per Haiti, dopo che delle bande armate hanno aperto il fuoco su un volo commerciale della Spirit Airlines in atterraggio a Port-au-Prince, in provenienza dalla Florida, che è stato poi dirottato sulla Repubblica Dominicana. Un assistente di volo è stato lievemente ferito di striscio da un proiettile. La sparatoria avveniva mentre il Consiglio presidenziale di transizione di Haiti nominava l’imprenditore ed ex candidato al senato, Alix Didier Fils-Aimè, come nuovo primo ministro. L’ex premier Conille ha ricevuto la notizia del licenziamento mentre era in missione all’estero - in Kenya ed Emirati arabi Uniti - per sollecitare aiuti internazionali che tardano ad arrivare a causa della crescente instabilità politica. Conille ha denunciato come illegale la mossa del Consiglio, affermando che solo il Parlamento ha il potere per sollevare un primo ministro dall’incarico. Didier Fils-Aimè ha sostituito Garry Conille, entrato in carica come premier, impegnandosi durante la cerimonia di giuramento a “ristabilire pace e sicurezza”, definite come la “priorità” per Haiti. “Ho un pensiero speciale per tutte le vittime degli atti criminali dei banditi che continuano a seminare tristezza e lutto tra la popolazione - ha aggiunto Fils-Aimè -. Non possiamo chiudere gli occhi davanti alle madri e ai bambini che fuggono, lasciando tutto ciò che hanno costruito e senza nemmeno poter mandare i loro figli a scuola”. Dopo che i media hanno confermato l’ufficialità della fine del mandato Conille colpi d’arma da fuoco sono risuonati nei quartieri della capitale caduti sotto il controllo delle bande, mentre il leader della coalizione armata “Viv Ansanm” (Vivere insieme), Jimmy Chérizier, noto con il soprannome di “Barbecue”, ha avvertito: “La battaglia ricomincerà” e ha lanciato un appello agli haitiani: “Come siete abituati a fare, è ora di prendere nelle vostre mani il destino di questo Paese”. Chérizier sostiene che le autorità non sono state in grado né di garantire gli interessi dei cittadini né di ristabilire l’ordine nel Paese. Per questo “Barbecue” ha chiesto alla popolazione di limitare le uscite fuori di casa allo strettamente necessario. All’appello si è subito unito il leader di un altra gang, Jeff Gwo Lwa, attivo nell’area nord della capitale Port-au-Prince annunciando nuovi combattimenti.