“Acqua calda in cella? Follia… i detenuti non hanno diritti” di Salvatore Curreri L’Unità, 13 novembre 2024 Le condizioni di vita dei detenuti non stanno nell’agenda della politica: né in quella del Governo, né in quella del “campo largo”. Nel gennaio di quest’anno, la Consulta ha chiarito che i prigionieri possono avere incontri intimi con i partner, ma per alcuni giudici di sorveglianza è un optional, come la doccia. Devo ringraziare pubblicamente il giudice di sorveglianza di Torino per aver offerto ai miei studenti un ottimo esempio di cosa sia un diritto fondamentale; di come esso si differenzi da una mera aspettativa; infine di quale sia - meglio: dovrebbe essere - il ruolo di garanzia della nostra Corte costituzionale. La questione riguarda la condizione dei detenuti. Com’è arcinoto, oggi le nostre carceri, anche a causa del loro strutturale sovraffollamento, sono fatiscenti, insalubri e insufficienti. Per questo sono quasi sempre luoghi di sofferenza, alienazione e tempo perso; tutto il contrario rispetto a quella finalità rieducativa cui secondo l’art. 27.3 della Costituzione il trattamento penitenziario deve tendere. È come se il detenuto scontasse una “doppia pena”: l’una per la condanna inflitta, l’altra per le modalità con cui viene eseguita. In direzione ostinata e contraria rispetto a chi, anche al governo, considera il carcere una “discarica sociale”, un “cimitero dei vivi” popolato da soggetti per i quali si deve “buttare la chiave” perché devono “marcire sino all’ultimo giorno in galera”, la nostra Corte costituzionale rammenta sempre che in carcere entra la persona, non il reato. Per questo la detenzione costituisce certo una grave limitazione della libertà della persona ma non la sua soppressione, specie per quel residuo di libertà che rimane al detenuto, “tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale” (Corte costituzionale, 349/1993, 4.2). In questo contesto, nel gennaio di quest’anno la Corte costituzionale, rompendo ogni indugio, ha stabilito che il detenuto, come già accade altrove (Francia, Spagna, Germania), può essere ammesso ad avere colloqui affettivi intimi, anche di natura sessuale, con il proprio partner, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del suo comportamento, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina o ragioni giudiziarie. La stessa Corte, consapevole delle difficoltà pratiche nel dare esecuzione alla propria sentenza, aveva sollecitato l’amministrazione della giustizia, inclusi i diritti degli istituti penitenziari, a creare al loro interno gli spazi necessari, tenendo conto delle condizioni materiali della singola struttura e con la gradualità eventualmente necessaria. E così concludeva: “In questa prospettiva, l’azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze, potrà accompagnare una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena”. Ebbene sembra proprio che, secondo quanto riportato da Luigi Ferrarella sul Corriere della sera, la giudice di sorveglianza di Torino non solo si sia sottratta a tale compito ma abbia finito financo per giustificare, anziché criticare, l’inottemperanza sul punto dell’amministrazione penitenziaria, nonostante sia trascorso un anno da quella sentenza. Sulla base della visione ottocentesca per cui i diritti fondamentali sono tali soltanto se graziosamente concessi dallo Stato, per la giudice quello all’affettività del detenuto non è un diritto soggettivo fondamentale ma soltanto una mera “aspettativa legittima” che “può trovare concreta realizzazione solo all’esito dell’avverarsi di più condizioni”. E siccome, nel caso specifico, il carcere di Asti “allo stato ha riferito la mancanza di idonei locali”, per la giudice ciò “determina il mancato avveramento di una delle condizioni e non consente all’aspettativa di trasformarsi in vero e proprio diritto”. Senza neppure la benché minima critica o sollecito all’amministrazione penitenziaria affinché invece si attivi per garantire il diritto sancito dalla Corte costituzionale. Evidentemente, per la giudice torinese, sono i diritti fondamentali del detenuto che si devono adeguare alle condizioni carcerarie ed essere esercitati compatibilmente con esse, e non viceversa, essere queste ultime invece che devono corrispondere ai diritti incomprimibili della persona. Se a ciò aggiungiamo che pochi mesi fa il giudice di sorveglianza di Firenze, con un’ordinanza per fortuna poi rivista in appello, aveva stabilito che avere l’acqua calda in cella “non è un diritto essenziale garantito al detenuto, ma una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere”, mi pare evidente come alcuni giudici manchino di cultura costituzionale. Finora a fare orecchie da mercante alle sentenze e ai moniti della Corte costituzionale era la classe politica. Non vorremmo che questa insana abitudine si estendesse ora ai giudici. Ma se così fosse, stiano pure tranquilli: certamente almeno per questo non saranno criticati dal governo. Carceri, i percorsi di lavoro riducono a meno del 10% il rischio di recidiva di Rosaria Amato La Repubblica, 13 novembre 2024 Le esperienze di Confcooperative Federsolidarietà in un convegno al Cnel. A breve via libera a un nuovo protocollo d’intesa tra l’organizzazione imprenditoriale e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Sessantuno mila detenuti, un tasso di sovraffollamento del 119%, una percentuale di recidiva intorno al 60%. I dati sulle carceri italiane sono sconfortanti, ma i percorsi di studio e di lavoro possono contribuire non solo a migliorare le condizioni di vita dei detenuti, anche ad aprire opportunità importanti per il futuro, abbattendo in modo consistente le possibilità di tornare a delinquere. “Su 100 detenuti che seguono percorsi di formazione e di inserimento lavorativo in carcere nelle cooperative sociali torna a delinquere meno del 10%, - spiega Stefano Granata, presidente di Confcooperative Federsolidarietà, nel corso del convegno “Cooperazione sociale e giustizia: un ponte tra carcere e società. Esperienze di innovazione ed impatto sociale”, che si tiene stamane al Cnel - un abbattimento della recidiva importante rispetto a chi è sottoposto a trattamenti standard. E di margine per far crescere l’impegno della cooperazione sociale in quest’ambito, ce n’è”. “Il tasso di recidiva è troppo alto perché nessuno investe in formazione, scuola, lavoro che sono la rottura del circuito perverso che prevede solo che sconti la pena in modo afflittiva. - afferma il presidente del Cnel Renato Brunetta - Economicamente è un non senso perché lo stato spende 4 miliardi per gestire le carceri, ma senza speranza, senza visioni sul futuro, sono un costo e non un investimento. Diventa una trappola economica e sociale”. Infatti Confcooperative Federsolidarietà siglerà a brevissima un Protocollo d’Intesa con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con “l’obiettivo di creare nuove prospettive per lo sviluppo di opportunità lavorative e sociali a favore della popolazione detenuta nelle carceri italiane”. L’intesa punta a promuovere programmi di intervento a favore dei detenuti, avviando nuovi progetti imprenditoriali. Secondo una recente indagine di The European House - Ambrosetti (svolta sempre in collaborazione con il Cnel) l’86% degli istituti penitenziari italiani hanno avviato percorsi di studio e di inserimento lavorativo. Il problema è che però molti di questi percorsi lavorativi cominciano e finiscono in carcere: l’85% dei detenuti inseriti lavora infatti alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria (talvolta solo per poche ore al giorno o al mese). Fra i detenuti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, l’82,5% svolge servizi d’istituto. Attività che poi non si proiettano in opportunità, una volta usciti dal carcere. In Italia il 33% dei detenuti risulta coinvolto in attività lavorative (19.153 impiegati nel 2023), ma solamente l’1% di essi è impiegato presso imprese private e il 4% presso cooperative sociali. Un percorso importante perché, spiega Stefano Granata, “sono 3.000 gli ex detenuti che, intrapreso il percorso di lavoro in una cooperativa sociale, vi restano anche al termine della pena”. Le retribuzioni corrisposte sono naturalmente quelle previste dai contratti collettivi di lavoro delle cooperative. Mentre la mancata offerta di opportunità lavorative per i detenuti priva lo Stato di un ritorno sul Pil fino a 480 milioni di euro, calcola lo studio di Ambrosetti. Nel corso dei lavori al Cnel stamane parlano delle loro esperienze alcune delle cooperative impegnate nell’inserimento lavorativo dei detenuti: si va da L’Arcolaio (di Siracusa), specializzata nella produzione di prodotti dolci e salati spediti in tutta Europa con il marchio “Dolci Evasioni” (per la raccolta delle materie prime vengono coinvolti anche molti lavoratori immigrati) al caffé artigianale di Lazzarelle, prodotto dalle detenute del carcere di Pozzuoli, al pastificio di Gusto Libero (Roma), nato da un’idea del cappellano del carcere minorile di Casal del Marmo. Importanti anche i percorsi di studio: secondo l’indagine di Teha nell’anno scolastico 2022-2023 il 34% dei detenuti ha frequentato corsi di istruzione all’interno delle carceri, anche se i promossi sono stati meno della metà, il 45% degli iscritti totali. Nel 2023, la formazione professionale all’interno delle carceri italiane ha coinvolto circa il 6% dei detenuti. Nel corso dell’anno accademico 2023/2024, infine, il numero complessivo dei detenuti iscritti all’università è stato pari a 1.707, meno del 3%. Il carcere? Per i minorenni non funziona di Ilaria Dioguardi vita.it, 13 novembre 2024 “Il carcere e tutte le misure che sono solo contenitive non funzionano, men che meno con i ragazzi”, dice Franco Taverna, responsabile area adolescenza della Fondazione Exodus di don Mazzi. “Per evitare che i ragazzi compiano nuovamente reati sono inefficaci tanto le punizioni quanto i premi, serve un solido approccio educativo che possa far sperimentare un’altra strada, un’altra vita”. Si è concluso il Convegno “Tessere trame complesse” organizzato dalla Fondazione Exodus di don Mazzi che è coinciso con fine della prima edizione del Progetto “Pronti Via!” selezionato dall’Impresa Sociale Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Un intervento quadriennale per dare una risposta psico-socio-educativa ai minorenni sottoposti a misure restrittive da parte della Autorità giudiziaria, attraverso il modello “Carovana”, una intensa esperienza educativa itinerante che fa parte del Dna di Exodus e che mira a diventare proposta strutturata integrata dei servizi giustizia minori. “Superiamo la logica del carcere, cioè l’idea di carcere in quanto struttura repressiva”. Tuona don Antonio Mazzi, presidente di Fondazione Exodus, all’avvio dei lavori del convegno. “È con progetti educativi forti come questo che i ragazzi ritrovano se stessi. E agli educatori che li accompagnano dico sempre di usare la parola e di guardare negli occhi questi ragazzi, perché solo così è possibile scoprire la parola “vera”. Giustizia ed Educazione, è un binomio possibile? E ancora Come si organizza la giustizia minorile in Italia? Quali sono le proposte di esecuzione penale alternativa al carcere per gli adolescenti? Quale quella di Exodus? Quali sono i soggetti che possono intervenire e in che modo?” È a queste domande che l’incontro ha provato a rispondere. “In questi 4 anni di strada abbiamo appreso molto”, afferma Franco Taverna, Coordinatore Nazionale Progetto Pronti,Via! di Exodus. “Abbiamo cominciato a mettere a fuoco i nodi critici dei percorsi di maturazione dei ragazzi che hanno commesso reati e vorremmo confrontarci con chi vive accanto a loro, familiari e professionisti, cercando di capire quali elementi compongono il sistema nel quale operano e quali trasformazioni sono possibili e auspicabili”. Due le ipotesi da cui ripartire: “Il carcere e tutte le misure che sono solo contenitive non funzionano, men che meno con i ragazzi”, ha dichiarato Taverna. “Il reato, che agli occhi della pubblica opinione imbevuta di paura, appare come l’unico bersaglio da cancellare a tutela del “dio” sicurezza, per la vita dei ragazzi che lo commettono è in genere un incidente di percorso, sotto al quale ci sono ben altri più importanti problemi e complicazioni nella loro vita. Per evitare che i ragazzi compiano nuovamente reati sono inefficaci tanto le punizioni quanto i premi, serve un solido approccio educativo che possa far sperimentare un’altra strada, un’altra vita. E la seconda, che il nostro metodo delle carovane poteva invece funzionare con gli adolescenti che sbagliano così come funziona da anni con le persone tossicodipendenti. Offrire ai ragazzi delle proposte di avventure positive all’interno di un contesto di gruppo insieme a educatori, camminando, facendo sport e musica, sperimentando la bellezza della natura, del fuoco la sera ma anche della fatica, ecco, la seconda convinzione era ed è che le nostre carovane, anche per i ragazzi che hanno commesso reati, fossero più efficaci del carcere o dei programmi territoriali. O almeno potessero costituire una valida alternativa”. Ad oggi la Fondazione ha promosso 9 carovane con minorenni, coinvolgendo oltre 100 ragazzi in 4 anni di Progetto. Durante il convegno è stata lanciata anche la proposta di un nuovo progetto che mette sempre al centro la carovana come strumento e modello educativo che può essere utilizzato anche per i neomaggiorenni detenuti, con l’auspicio che possa diventare una stabile opportunità di riscatto per giovani finiti nel circuito penale. Cettina Bellia, che da funzionaria è diventata direttrice Usmm di Caltanissetta, ha portato la sua esperienza diretta: “Nel mio percorso professionale ho capito che con questi ragazzi il colloquio non bastava, ma bisognava spostarsi dalla scrivania e andargli incontro. Così, quando mi sono imbattuta in questa proposta, in questa avventura, mi sono convinta subito che il progetto, il cammino, la carovana potesse essere la strada giusta. Ed è stato fondamentale anche il lavoro fatto con l’equipe di educatori, perché la carovana ha messo insieme l’avventura e la relazione autentica, perché dietro l’avventura c’è stata la capacità degli operatori di trasmettere valori e trasmettere senso di appartenenza ad un gruppo, che per loro vale tanto”. Alessandro Martina racconta il progetto dalla parte di chi legge, seleziona e scommette su queste proposte: “Come Impresa sociale “Con i Bambini” abbiamo sempre attenzionato il mondo dei ragazzi e della devianza giovanile e abbiamo cercato di finanziare progetti innovativi che cercano di dare risposte inedite, rischiose e sperimentali, come questo”. Al Convegno ha partecipato anche Silvio Premoli, Garante per l’infanzia e l’adolescenza Città di Milano. “Il tema dei diritti è la vera chiave di lettura. Quando osservo le cose con la lente dei diritti cambia tutto. Continuiamo a fare fatica a considerare il punto di vista dei ragazzi e delle ragazze, dei bambini e delle bambine. Ma loro funzionano come noi: si interrogano sulle cose della vita, cercano risposte, vogliono essere riconosciuti”. Roberta Cossia è magistrata di Sorveglianza presso il Tribunale di Milano, e ha ammesso: “L’investimento sul carcere e sul recupero è basso ed è appannaggio del Terzo settore e del volontariato. Nelle carceri in Italia abbiamo troppi ragazzi, malati psichiatrici e tossicodipendenti ignorati dal sistema. Io sono personalmente e assolutamente contraria al carcere minorile”. Perché il modello del carcere minorile non funziona lo spiega anche Angelo Aparo - psicoterapeuta fondatore del “Gruppo della Trasgressione”: “Il principale diritto di cui il carcere ti priva è quello della responsabilità. Ed è solo l’esercizio della responsabilità che ci rende cittadini e adulti. Gli adolescenti si trovano davanti ad un mondo senza autorità credibili, e se queste mancano allora il mondo - ai loro occhi - non merita di essere rispettata. Abbiamo bisogno di autorità credibili”. È più che mai necessario tracciare percorsi possibili. Luciano Eusebi - Professore Ordinario di diritto penale Università Cattolica: “La pena non può essere un corrispettivo. Se il rapporto con l’altro è fondato solo sul “giudizio” positivo o negativo quando rappresenti un problema per per i miei interessi allora ciò che è negativo lo devo espellere. In pratica applichiamo al reato la stessa logica che si applica alla guerra. Ma questa logica rischia di portare l’umanità alla distruzione totale”. Santo Rullo - psichiatra, comunità terapeutica “La Casa”: “Continuare a cercare la diagnosi come soluzione al problema significa escludere il percorso educativo. Basta parlare di strutture residenziali e centri diurni, gli strumenti ci sono e sono culturali”. Cira Stefanelli - direzione Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Roma: “Continuano a mettere su cancelli, più sicurezza - nelle comunità e nelle scuole. Releghiamo i giovani nelle strutture. La carovana invece è un contesto pensato ad hoc che favorisce gli apprendimenti. Credo abbia avuto una sorta di magia, ha favorito la capacità di entrare in relazione tra un gruppo di pari e il mondo degli adulti”. I giudici non sono monadi: dialoghino in nome delle diverse competenze di Adriano Sofri Il Foglio, 13 novembre 2024 Nel cuore dell’altra notte tenevo accesa come sempre Radio Radicale, che mi conciliasse il sonno o mi compensasse dell’insonnia, e la mia attenzione è stata eccitata dalla voce anticamente amica di Paolo Liguori. Interpellava con una smagliante disinvoltura, una dietro l’altra, le più alte cariche della magistratura italiana, nell’ambito di una manifestazione annuale intitolata, come ho appreso, “Salone della giustizia”. Profano come sono, se non come paziente, ero mosso solo da una curiosità umana, per così dire. Strada facendo sono stato colpito da un tema che prendeva un peso centrale nei dialoghi e, benché dichiarasse di svolgersi nell’astrattezza del concetto giuridico, implicava evidentemente la questione sanguinante della deportazione in Albania di migranti colpevoli di migrare, combinazione fantastica di insensatezza e di cattiveria. Dunque la relazione fra diritto europeo e nazionale. A colpirmi era la constatazione che tutti gli interlocutori, il vicepresidente della Corte costituzionale, Giulio Prosperetti, il presidente aggiunto della Corte dei conti, Tommaso Miele, e la presidente della Corte di cassazione, Margherita Cassano, sostenevano la possibilità e anzi l’opportunità, nei casi di incertezza dell’interpretazione della legge da parte delle corti di grado inferiore - cioè, penso, precedenti - di ricorrere alle superiori, e supreme, preventivamente. Procedura che si chiama “rinvio pregiudiziale”, e che lunedì è stata adottata dai giudici romani rinviando alla Corte di Giustizia dell’unione europea. Ho ascoltato affascinato le rispettive argomentazioni, e specialmente quelle della presidente Cassano, che sembravano fatte per uno scolaro tardivo e indurito come me. Cassano ha spiegato come l’interpretazione e l’applicazione della legge da parte del giudice italiano si confronti oggi con i princìpi stabiliti da convenzioni e corti sovranazionali: il giudice nazionale è anche un giudice europeo. Ed è sollecitato ad adeguare tempestivamente l’ordinamento ai princìpi cogenti che vengono dall’Europa. Parla di una osmosi tra le corti, e di un dialogo continuo fra giudici di primo e secondo grado e giudici di Cassazione. Dal 2022 è consentito al giudice civile di primo grado di affrontare una questione inedita rivolgendosi preventivamente alla Cassazione. Oggi al giudice si richiede di non essere più una monade, in nome del decisivo rispetto per i diritti delle persone. In generale, le spiegazioni degli alti magistrati avevano un’aria di accogliente cordialità. Sottolineando come non esista una differenza di valore ma una differenza di competenze e funzioni fra un grado e l’altro di giudizio, si mostravano tutti pronti alla consultazione preventiva, un modo di assicurare, e magari coprire le spalle, a giudici incerti. In effetti, come ho visto poi, la sessione si intitolava: “Europa: dialogo tra le corti di giustizia”. Dichiarando che le varie corti non sono “monadi”, sembrava suggerire una fluidità reciproca fra i vari gradi. Ero sul punto di rallegrarmene, quando mi è venuto un dubbio. Forse era un maligno ricordo di scuola, quando una vertenza insorta in classe si trasferiva minacciosamente dal vicepreside. Il dubbio riguarda l’abitudine a pensare che l’ordine giudiziario intervenga per definizione a giudicare e sanzionare il fatto compiuto, e non a prevenirlo, e che la consultazione preventiva sia a suo modo una riduzione di autonomia del giudizio “inferiore”. Immagino una moltiplicazione di “rinvii pregiudiziali” (che già, mi sembra di aver capito, sono frequenti) che si trasformino in altrettanti giudizi preliminari precedenti il giudizio di primo grado. Non so se preferire questo paesaggio malleabile a quello delle monadi - la camera chiusa impenetrabile e indifferente al mondo intero - fiat iustitia et pereat mundus, sia fatta giustizia, e vada a farsi fottere il mondo. Per esempio, il rinvio pregiudiziale del tribunale romano alla Corte Ue è una dimostrazione di buona volontà e di apertura alla comprensione fra magistratura e, non “la politica”, ma l’esecutivo di destra. Ma è anche una rinuncia alla certezza della propria buona ragione nell’interpretazione della legge (sulla quale già fra poco si sarebbe pronunciata la Cassazione). Poi mi sono detto che il mio dubbio è semplicemente infondato e malinteso, e che è un sintomo ennesimo di ignoranza, diffidenza e pessimismo. Non me le toglie nessuno. Carriere separate, scontro sui tempi: oggi si decide sull’approdo in Aula di Valentina Stella Il Dubbio, 13 novembre 2024 Opposizione contraria alle “tappe forzate” sul divorzio tra giudici e pm previste dalla maggioranza, che vuole sedute notturne e “overtime” fino a tutto il weekend. Sarà la conferenza dei capigruppo, convocata per stamattina alle 8.30 dal presidente della Camera Lorenzo Fontana, a decidere se la riforma costituzionale su separazione delle carriere, doppio Csm e Alta Corte disciplinare approderà effettivamente nell’aula di Montecitorio il 26 novembre, dov’è attesa per la prima lettura. Fino a ieri mattina la data era certa, ma poi durante l’ufficio di presidenza della commissione Affari costituzionali tutto è stato rimesso in gioco. Non è stato trovato alcun accordo tra i partiti sul calendario della settimana. E così per adesso restano convocate le sedute notturne e quelle in tutto il week end per l’esame dei provvedimenti all’ordine del giorno: separazione delle carriere, appunto, e decreto flussi, quello in cui, tra l’altro, sono confluite le norme inizialmente emanate dal governo con il decreto Paesi sicuri, norme ora al centro del “conflitto” fra Esecutivo e magistratura. I tempi, e l’urgenza, su entrambi i provvedimenti, sono stringenti, considerato l’incombere della sessione di Bilancio e la volontà di non far slittare “in coda” le questioni sospese. Ma non è escluso che qualcosa, nel calendario su “carriere” e migranti, venga modificato, nella capigruppo e nell’ufficio di presidenza della Prima commissione previsti per oggi. Ecco cosa è successo, nel dettaglio: per evitare sedute nel weekend delle elezioni regionali in Umbria ed Emilia- Romagna, il presidente della commissione Affari costituzionali Nazario Pagano (FI) ha proposto ieri, durante l’ufficio di presidenza, di dedicare questa settimana solo al decreto flussi, approvandolo in due giorni, di far slittare di tre giorni - dal 26 al 29 novembre l’approdo in Aula della separazione delle carriere e di un mese la proposta di Tommaso Foti (capogruppo FdI a Montecitorio) sulla Corte dei Conti. “Non è stata accettata la mia proposta che accoglieva gran parte delle richieste delle opposizioni”, ha però dovuto constatare Pagano, “a questo punto deciderà la capigruppo della Camera, perché c’è un intasamento di provvedimenti”. Diverso, ovviamente, il punto di vista della deputata Simona Bonafè, capogruppo del Partito democratico in commissione: “Chiedono accelerazioni sul decreto flussi quando ancora non sono stati forniti i pareri del governo. Inoltre nel decreto flussi è stato inserito anche il decreto Albania, che sta sollevando non pochi problemi interpretativi. E la decisione del governo di costituirsi ieri davanti alla Corte di Giustizia Ue conferma la necessità di un esame approfondito della questione. Sia la conferenza dei capigruppo, perciò, a pronunciarsi sull’affastellamento di provvedimenti nel calendario della Camera”. Insomma, i dem contestano la compressione del dibattito sul Dl Flussi, che va convertito in legge entro l’11 dicembre e deve passare anche al Senato. Molto probabilmente verrà posta la fiducia. E così, seppur di qualche giorno, resta in bilico la data dell’approdo in Aula della riforma della giustizia. Uscito ieri mattina dalla commissione, il viceministro Francesco Paolo Sisto, che sta seguendo il dossier per il governo, aveva detto: “È giusto che le opposizioni facciano il loro mestiere, ogni emendamento vede interventi giustificatamente approfonditi e quindi il tempo per chiudere il provvedimento si allunga”, tuttavia “il 26 il provvedimento deve essere in Aula”. La maggioranza dunque, a parte questo piccolo intoppo temporale, conferma l’accelerazione sulla separazione delle carriere. E questa accelerazione suona come una risposta della politica alle recenti decisioni dei giudici che di fatto hanno bocciato con diverse pronunce sia il modello Albania, elaborato dalla premier Giorgia Meloni e dal primo ministro albanese Edi Rama, sia il Dl Paesi sicuri. Se è vero che uno sveltimento della pratica vi era stato a ridosso delle ultime elezioni europee per dar forza alla campagna di Forza Italia e premiarla anche per il risultato ottenuto, adesso maggioranza e governo premono ancor di più sull’acceleratore. Accantonata per ora la riforma del premierato, Meloni e gli alleati hanno necessità di mostrarsi all’opinione pubblica più forti su un tema che in teoria dovrebbe suscitare ampi consensi. Comunque la commissione Affari costituzionali, come già avvenuto per l’articolo 1 la scorsa settimana, ieri ha bocciato tutti gli emendamenti soppressivi presentati dalle opposizioni e relativi all’articolo 2, che intende modificare l’articolo 102 della Costituzione: al termine del primo comma - “La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario” - andrebbe aggiunta la frase “le quali disciplinano altresì le distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti”. Sul tavolo rimangono ancora oltre 200 proposte di modifica da esaminare, tutte a firma delle opposizioni. “Con l’introduzione della espressa previsione di due carriere distinte, si pone fine a una controversa commistione che ha originato le storture del sistema giudiziario. Noi vogliamo riformare la giustizia, dando risalto e dignità alle sentenze e non alle indagini: oggi purtroppo avviene esattamente il contrario”, ha detto il deputato Francesco Michelotti (FdI), uno dei tre relatori del ddl costituzionale. Mentre per il capogruppo del M5S Alfonso Colucci, “il vero intento del governo Meloni e dei partiti del centrodestra è allontanare i pubblici ministeri dalla cultura della giurisdizione, che oggi è una assoluta garanzia per il diritto del cittadino di agire in giudizio e per il rispetto dell’articolo 3 della Costituzione sul principio di uguaglianza”. Licia, che meritava la verità su suo marito e su quella notte (fredda) in Questura di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 13 novembre 2024 Non ha mai preteso di rendersi simpatica, la Licia che ci ha lasciato dopo una lunga vita, ma non ha mai ceduto di un millimetro sulla dignità e sull’orgoglio, non solo perché era la vedova di Pino Pinelli, anarchico e staffetta partigiana, ma perché cercava una verità dei fatti che per almeno cinquant’anni non ha avuto. Non è affatto vero che quella sera a Milano era caldo, ma è vero che c’era un bel nebbione di quelli che poi non abbiamo visto più. Eravamo a metà dicembre, era il 15 per la precisione, e Pinelli insieme a un’ottantina di anarchici era prigioniero della questura di via Fatebenefratelli, trattenuto e interrogato al terzo giorno senza alcuna autorizzazione di magistrato, allora usava così, c’erano state leggi di polizia che lo consentivano. Poi, il fatto che il Pino fosse morto, la Licia, con le sue due bambine di otto e nove anni, non lo ha saputo dal commissario Luigi Calabresi, nel cui ufficio veniva condotto l’interrogatorio, ma dai giornalisti. È rimasta lì dritta, con la sua dignità e il suo orgoglio, mentre Claudia con l’acume della sua ingenuità di bambina chiedeva chi fosse stato, a portarle via il suo papà. E mentre noi riempivamo le piazze gridando che la strage era “di Stato” e che Pinelli era stato assassinato, avevamo nelle orecchie quella ballata, diffusa su un 45 giri, “parole e musiche del proletariato”, che aveva due versioni. Quella ufficiale, “e a un tratto Pinelli cascò”, e l’altra, la nostra, “una spinta e Pinelli cascò”. Suicida secondo il questore, che in una conferenza stampa buttò il suo veleno sulla storia di un uomo probo che credeva nell’anarchia “che non vuol dire bombe, ma giustizia nella libertà”, accusando: “il suo alibi era caduto”. L’alibi sulle ore in cui in piazza Fontana, alla banca dell’agricoltura, qualcuno aveva messo la bomba e provocato 17 morti. Se Pinelli sarà da considerare la diciottesima vittima, come sarà detto solo cinquant’anni dopo, la responsabilità non è solo di chi era presente in quella stanza con la finestra aperta, perché “c’era caldo” in una serata gelida come solo l’inverno milanese sa essere, ma di un’intera catena di vertice istituzionale che ha mentito sapendo di mentire. Ha qualche importanza il fatto che nel dicembre del 2020 il novantenne (morirà un anno dopo) generale Gian Adelio Maletti, che era stato al vertice del Sid, servizi segreti, dirà che il suicidio di Pinelli era “una bufala”? Ne ha poca, perché ormai i processi sono stati terminati e archiviati. E toccherà a un angosciato giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio, che era ancora “zio Gerry”, vent’anni prima di subire la trasformazione genetica di Mani Pulite, emettere quella sentenza di “malore attivo” che crea disagio prima ancora che scandalo. Un concetto che non vuol dire niente. Quel che è sicuro è che in quella notte gelida e nebbiosa in cui una finestra aperta non aveva senso, un corpo è caduto giù. E il questore disse, quando solo le sue parole dovevano avere valore: “Improvvisamente il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto”. E sui giornali si raccontava che il ferroviere anarchico del Ponte della Ghisolfa sarebbe crollato alla notizia, ovviamente falsa, che “il tuo amico Valpreda ha parlato”, gridando “è la fine dell’anarchia”. Se la pagina della tragedia e della narrazione è rimasta aperta per così tanti anni, è per il grande merito di queste tre donne, la Licia con le sue figlie Claudia e Silvia, e di un gruppo di giornalisti i quali, al contrario dei finti cronisti d’inchiesta dei nostri giorni, non ricevevano veline, ma svolgevano un vero lavoro di controinformazione rispetto alle versioni ufficiali dei vertici istituzionali. Nomi famosi, come quello di Camilla Cederna, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, Corrado Stajano, e insieme tanti giovani cronisti, soprattutto negli anni seguenti, quando nacquero Il Manifesto e Lotta Continua, sono stati a lungo al fianco di quella famiglia e di quella ricerca di verità. Insieme alla canzone “La ballata del Pinelli”, cantata in ogni manifestazione, nacquero spettacoli come quello di Dario Fo, “Morte accidentale di un anarchico”, visto e rivisto da migliaia di persone all’interno di un triste capannone, e poi la grande tela del pittore Enrico Baj, “I funerali dell’anarchico Pinelli”, e poi i tanti libri e servizi giornalistici di coloro che non si sono mai arresi. E in seguito un’altra notte, anche quella fredda, con il buio squarciato dalle luci di grandi fari, eravamo tutti lì, noi che ancora speravamo di trovare una verità che fosse anche giusta, in quello stesso cortile, ad assistere alla prova del manichino, buttato e poi caduto, e poi ancora buttato e ancora caduto. Il cuore stretto, magistrati, poliziotti, giornalisti. Una cosa fu certa, Pino Pinelli non poteva essersi suicidato, la caduta verticale lo escludeva, il corpo che era precipitato nel cortile era un corpo abbandonato, passivo, se pur non morto in senso tecnico. Ma non si poté neppure dimostrare che qualcuno lo avesse afferrato e poi buttato nel cortile. Così si arrivò al “malore attivo”. E a poco servirà sapere, ma sempre a cinquant’anni di distanza, dalla testimonianza di uno che in quella stanza c’era, il brigadiere Panessa, che “quella sera Pinelli se l’è cercata”. Perché è chiaro che nell’ufficio del commissario Calabresi, che in quel momento era uscito nel corridoio, ma in cui stranamente era presente, insieme ai poliziotti, anche un ufficiale dei carabinieri, qualcosa è successo. Qualcosa di molto grave. Cui seguirà, tre anni dopo, l’assassinio del commissario Calabresi. Un atto che uno come Pinelli non avrebbe mai voluto, a vendetta della sua morte. Come dimostrato nel 2009 con l’incontro, promosso dal Presidente Giorgio Napolitano, tra due donne che avevano ugualmente sofferto, Licia Rognini Pinellli e Gemma Capra Calabresi. Vedove di due mariti assassinati. Da chi, come e perché lo potrà dire la storia, prima ancora che le sentenze. Perché non possiamo essere sicuri, in un caso e nell’altro, che siano proprio state decisioni giuste. E possiamo essere certi che, sia pur senza chiedere vendetta, la Licia scomparsa ora dopo una lunga vita, avrebbe voluto un po’ più di giustizia per sé, per Claudia e Silvia, per Pino, e anche per Calabresi. Ma bisognerebbe che la giustizia non fosse affidata ai magistrati, per poterci credere. Piemonte. “Possibili altre rivolte nelle carceri”: l’allarme del provveditore del Dap di Giulia Ricci La Stampa, 13 novembre 2024 “Non è escluso ci siano altre rivolte in futuro, è una situazione che non si risolve con la bacchetta. A Cuneo l’abbiamo affrontata perché siamo riusciti a far arrivare personale da altri istituti. Ma lì dentro ci sono persone che non hanno ancora accettato il motivo per cui si trovano lì, che non legittimano lo Stato”. Così Mario Antonio Galati, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, commenta quanto successo lunedì pomeriggio nel carcere di via Roncata. L’occasione è il Consiglio aperto a Palazzo Lascaris dedicato alle condizioni di lavoro della polizia penitenziaria, dove sono intervenuti sindacati e politica. Incontro che, puramente per caso, si svolge proprio nei giorni successivi al deposito delle motivazioni del Tribunale del Riesame di Torino, che ha confermato la sussistenza del reato di tortura nei riguardi di 33 agenti indagati dal procuratore cuneese Onelio Dodero. L’inchiesta è ancora in corso. Due dei trentatré agenti sono stati colpiti dalla misura dell’interdizione temporanea dal servizio per la presunta “gravità delle condotte”. Galati ha messo un punto sul metodo che dovrebbe essere seguito nelle prossime procedure di assunzione in carcere: “Non è solo quanti mancano, ma che tipo di figure. Ecco perché ci aspettiamo incrementi sui ruoli intermedi. Certo il Piemonte non è tra i distretti più attrezzati e all’avanguardia”. Di mancanza di “figure intermedie” parla anche Sara Comoglio (Cgil-Fp), riferendosi al carcere del capoluogo di provincia dove si sono svolte le ultime rivolte: “Ad oggi a Cuneo queste figure mancano completamente e la comandante è costretta ad occuparsi dell’ordinaria amministrazione”. Sono 4.365 i detenuti dei 13 istituti della nostra regione, contro i 2.943 posti per legge: il sovraffollamento è del 148,32%. Gli agenti sono invece 2.900: ne mancano circa 500. A Torino, a fronte di 400 persone in più carcerate, servirebbero circa altri cento poliziotti. Ma per la vicepresidente regionale Elena Chiorino il sovraffollamento “non si combatte svuotando ciclicamente istituti destinati a riempirsi nuovamente. Oggi, grazie ai 7.000 nuovi posti già finanziati dal governo, si sta finalmente recuperando il gap strutturale in maniera concreta. A differenza di quanto fatto in passato”. Secondo l’assessora in quota FdI vanno protetti in tutti i modi “gli agenti che garantiscono la sicurezza, con supporto psicologico, formazione, protocolli e incremento del personale”. Anche Luciano Giglio e Guido Pregnolato dell’Uspp regionale sottolineano “le aggressioni fisiche e verbali, lo stress e i traumi psicologici, i turni di lavoro massacranti” dei poliziotti, ma portano alla luce anche il tema dei detenuti con problemi psichiatrici: “Sono malati e vanno trattati come tali in strutture con personale sanitario”. Su questo Lina Di Domenico, vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha spiegato che è stato firmato un protocollo per la prevenzione della salute dei detenuti e per dotare di personale medico le carceri. Un problema condiviso dall’Osapp, che ha dato i numeri delle aggressioni degli ultimi mesi: “Undici a giugno, a luglio 17, altrettante ad agosto, mentre a settembre sono state 29. Attendiamo i dati di ottobre ma siamo sicuri non siano diminuite”. E attacca la Regione: “Come mai non vi siete costituiti parte civile per gli innumerevoli assalti agli agenti? La politica intervenga”. Vincente Santilli del Sappe, invece, ha proposto di “schermare le carceri: gira molta droga e i telefonini vengono recapitati con i droni”. Nel dibattito politico, Sarah Disabato (M5S) ha sottolineato “assenze importanti, come quella del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, piemontese”, Gianna Pentenero (Pd) ha parlato della necessità di “un piano sanitario”, Alice Ravinale (Avs) denunciato l’abuso “di psicofarmaci nelle carceri, spesso le rivolte avvengono per questo. Le risposte della giunta sono state insufficienti”, mentre Vittoria Nallo (Sue) “la contraddizione tra l’introduzione di nuovi reati e la pressione sulla popolazione carceraria”. Alessandria. È gravemente malato, ma per il giudice dovrà scontare l’ultimo mese di detenzione in carcere di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 13 novembre 2024 L’avvocato Bolloli: “Il mio assistito si trova ora in ospedale in quanto la sua situazione sanitaria è quanto mai compromessa. Sarebbe opportuno che egli scontasse la parte di pena residua presso una idonea struttura terapeutica”. Sono destinate a spalancarsi le porte del carcere, anche se manca poco più di mese al “fine pena”, per il detenuto agli arresti domiciliari che non “collabora” con le Forze dell’ordine e con i giudici. E a nulla valgono le sue precarie condizioni di salute, come l’essere portatore di aritmia, colpito in passato da diverse embolie polmonari, con problemi circolatori e di ipertensione e, peraltro, con un intervento chirurgico già fissato a breve. Lo scrive il magistrato di sorveglianza di Alessandria Angelo Rosano in un provvedimento con cui la scorsa settimana ha disposto la sospensione della detenzione domiciliare per un 48enne di Valenza. L’uomo stava scontando presso la propria abitazione nell’alessandrino un cumulo di pene per reati vari, con scadenza il prossimo 23 dicembre. Nell’ultimo anno egli aveva però ricevuto tre diffide dal magistrato di sorveglianza. Una, in particolare, per essersi assentato dal domicilio senza avvertire le Forze dell’ordine, e un’altra per aver minacciato ed offeso attraverso i social un suo parente con il quale aveva evidentemente delle ruggini pregresse. Ad aggravare la situazione, poi, anche l’aver risposto in una occasione in modo polemico alle Forze dell’ordine che erano andate a casa per il previsto controllo. Nel provvedimento con cui è stata disposta la sospensione degli arresti domiciliari ed il suo accompagnamento in carcere, il magistrato aveva anche stigmatizzato il fatto che il soggetto più volte si era attivato per presentare delle istanze finalizzate ad una modifica delle prescrizioni, senza specificare quali fossero i motivi di “famiglia”, “salute”, “lavoro”. Inoltre, aggiungeva il magistrato, il soggetto aveva anche reiterato istanze già proposte e rigettate, non rispettando le previste procedure, come quella di inoltrarle alle Forze dell’ordine e non invece direttamente al giudice. In conclusione, essendo l’uomo “incapace di assoggettarsi alle regole e alle prescrizioni”, oltre a manifestare insofferenza, è dunque inevitabile la sospensione del beneficio degli arresti domiciliari. Anche se, come detto, mancava poco più di un mese al fine pena e le sue condizioni di salute non sono delle migliori. “Il mio assistito si trova ora in ospedale in quanto la sua situazione sanitaria è quanto mai compromessa. Ho allora presentato una istanza per rivalutare il provvedimento di sospensione degli arresti domiciliari che è arrivato ad un mese dal fine pena. Considerato il suo stato di salute, sarebbe opportuno che egli scontasse la parte di pena residua presso una idonea struttura terapeutica o anche presso il proprio domicilio senza alcun permesso d’uscita”, ha dichiarato l’avvocato Silvio Bolloli. Va ricordato che la Cassazione, con la sentenza numero 8630 depositata lo scorso 27 febbraio, ha stabilito in tema di misure cautelari personali che la trasgressione alle prescrizioni concernenti il divieto di allontanarsi dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari, ove non ritenute di lieve entità, determina la revoca obbligatoria di tale misura, seguita dal ripristino della custodia in carcere. Sul punto, prosegue la Cassazione, il giudice non deve previamente neppure valutare l’idoneità degli arresti domiciliari con modalità elettroniche di controllo. La giurisprudenza in tema di misure cautelari personali non lascia molti spazi. Già nel 2019, sempre la Cassazione aveva infatti affermato che la trasgressione delle prescrizioni imposte con gli arresti domiciliari legittima la sostituzione della misura con quella della custodia cautelare in carcere anche nei confronti dei soggetti di cui all’articolo 275, comma 4, del codice di procedura penale (quando imputato sia donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, o quando imputato sia persona che ha superato l’età di settanta anni), senza necessità di verifica della sussistenza delle ragioni di cautela di eccezionale rilevanza, salvo che vi sia la prova della lieve entità del fatto. Como. Detenuto di 19 anni con ustioni gravi sul corpo dopo il rogo in cella di Paola Cioppi Il Giorno, 13 novembre 2024 Due reclusi hanno dato fuoco a lenzuola e giornali. Una lite ha rischiato di finire in tragedia: evacuata l’intera sezione. Una reazione di ripicca per un problema banale, che ha spinto due giovani detenuti del Bassone, a dare fuoco ad alcuni oggetti in cella, lenzuola e giornali. L’incendio scoppiato lunedì sera si è concluso con un giovane detenuto ricoverato con gravissime ustioni, altri due feriti, l’evacuazione dell’intera sezione con 65 persone trasferite temporaneamente nel cortile, e danni da quantificare. In ospedale, in attesa di essere trasferito al Centro Grandi Ustionati di Niguarda, è finito un ragazzo marocchino di 19 anni, forse uno dei due autori dell’incendio, che è stato il più esposto alle fiamme. Quando i soccorritori del 118 lo hanno preso in carico, aveva lesioni gravi in tutto il corpo, tali da valutare il suo ricovero a Milano o Torino. Al momento è stato stabilizzato e viene mantenuto in osservazione al Sant’Anna, in Rianimazione, con una prognosi ancora riservata, in attesa di poterlo trasferire in un reparto specializzato. Feriti altri due detenuti, un tunisino di 18 anni e un marocchino di 24 anni, anche loro trasportati al pronto soccorso dell’ospedale di San Fermo, ma le loro condizioni non sono risultate preoccupanti e sono stati subito dimessi, facendo rientro in carcere verso mezzanotte. I primi a intervenire sono stati gli agenti di polizia penitenziaria, che hanno soccorso i feriti ed evacuato gli detenuti per impedire che rimanessero intossicati: “Solo la professionalità del personale in servizio e il personale richiamato ha evitato il peggio”, commenta Davide Brienza, vice segretario regionale del sindacato Uspp. Chi materialmente abbia appiccato il rogo, non è ancora chiaro, certamente i due ragazzi marocchini, che sono stati raggiunti dalle fiamme prima che venissero aperte le celle, ma secondo quanto ricostruito dalla polizia penitenziaria, il motivo della protesta sarebbe da ricondurre a una mancata consegna di sigarette. Sul posto, sono intervenuti anche carabinieri e polizia, anche per garantire il presidio di sicurezza attorno all’istituto penitenziario, quando avvengono fatti critici che coinvolgono numerosi detenuti. Episodi di questo genere si sono ripetuti periodicamente: a fine settembre una densa colonna di fumo si era alzata dal carcere, fuoriuscita dalle finestre di una cella in cui era stato incendiato un materasso. A inizio dicembre dello scorso anno, un altro principio di incendio era stato utilizzato per innescare una scia di danneggiamenti nella sezione nuovi giunti, dove era anche stata fatta saltare la corrente elettrica. Cuneo. Dall’inchiesta sul carcere emerge una realtà infernale: “Picchiare i detenuti era la prassi” di Elisa Sola La Stampa, 13 novembre 2024 Per i giudici del tribunale del Riesame non ci sono dubbi delle violenze sistematiche della Polizia penitenziaria. Condotte “crudeli, brutali e degradanti per le vittime”. E, soprattutto, “frutto non già di una situazione eccezionale ed episodica, ma conseguenza di una prassi fuorviante improntata alla violenza”. Non esistono dubbi, secondo i giudici del tribunale del Riesame di Torino. Nel carcere di Cuneo picchiare i detenuti, perlomeno in un determinato periodo, sarebbe stata un’abitudine per alcuni agenti della penitenziaria. Accogliendo la tesi della procura - guidata da Onelio Dodero - e respingendo i ricorsi delle difese, i giudici del Tribunale della libertà (presidente Cristiano Trevisan) hanno confermato la misura dell’interdizione dal servizio, per 10 e 12 mesi, nei confronti di due poliziotti. Rappresentati dagli avvocati Antonio Mencobello e Leonardo Roberi, l’ispettore Giovanni Viviani e l’assistente capo Rosario Rossi, si erano difesi anche sostenendo che non vi fosse pericolo di reiterazione del reato. Per i giudici non è così. L’indagine sui pestaggi subiti da un gruppo di detenuti, di cui molti pakistani, in particolar modo durante la notte tra il 20 e il 21 giugno 2023, avrebbe fatto emergere violenze dettate dalla volontà di “impartire ai detenuti una lezione su come ci si doveva comportare nel carcere di Cuneo”. Violenze che potrebbero essere replicate. Quella notte le vittime furono almeno cinque. Picchiate nude, scalze, trascinate dalla cella all’infermeria. E da qui, dopo la prima parte del pestaggio, fino alle stanze destinate all’isolamento. Dove, secondo l’accusa, sarebbero rimaste fino al giorno dopo “senza cibo né acqua, senza vestiti né coperte”. Ma, al di là di quella notte, l’inchiesta svolta dal Nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria, avrebbe fatto emergere, un quadro più preoccupante. Sarebbe stata “una prassi” picchiare i detenuti. Ecco perché il reato contestato dalla procura, la tortura, secondo il Riesame sarebbe sussistente, oltre alle lesioni. “Gravi indizi di colpevolezza” peserebbero “nei confronti degli indagati”. Indizi confermati non solo dalle testimonianze, ma anche dalle consulenze medico legali, dai filmati delle telecamere e dalle intercettazioni. In totale gli indagati sono 33. Le vittime di quella notte di giugno, schernite anche per la loro origine - “pakistani di merda” - sono quasi tutte incensurate. La notte della “mattanza” era iniziata con una perquisizione non autorizzata nella cella 417. Fra i presunti picchiatori, anche agenti liberi dal servizio con i guanti neri. Per il Riesame i fatti denotano una “estrema gravità delle condotte, tenute in spregio ai principi costituzionali e che devono informare l’operato degli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, funzione altamente delicata, in cui le funzioni di custodia devono accompagnarsi a doti di umanità e rispetto per chi è privato della libertà personale”. Nei confronti dei poliziotti per i quali la procura aveva chiesto e ottenuto dal gip la misura della sospensione dal servizio, per i giudici “sussiste un concreto e attuale pericolo di reiterazione, trattandosi di soggetti attualmente in servizio presso lo stesso carcere e stabilmente a contatto con i detenuti”. “Non consta, peraltro, che gli stessi siano stati sospesi disciplinarmente dal servizio - concludono - né che siano incorsi in altre sanzioni disciplinari per i fatti per cui si procede. Anzi, per quanto emerso in udienza, rispetto all’allegazione del pm non smentita dall’indagato presente né dalla sua difesa, parrebbe che Viviani sia stato addirittura promosso, dopo i fatti, al grado di vice comandante della polizia penitenziaria”. Reggio Emilia. Detenuto incappucciato e pestato: il viceispettore davanti al Gup chiede scusa di Adriano Arati Corriere di Bologna, 13 novembre 2024 L’aggressione, avvenuta il 3 aprile 2023 nel carcere di Reggio Emilia, vede coinvolti 10 agenti, accusati a vario titolo di lesioni, tortura e falso nelle relazioni di servizio. Si scusa col detenuto colpito al volto e con l’amministrazione penitenziaria, il viceispettore della Polizia penitenziaria di Reggio Emilia a processo assieme a altri nove colleghi per l’aggressione ai danni di un detenuto, un 44enne tunisino, durante il trasferimento in isolamento. Il fatto, avvenuto il 3 aprile 2023 alla Pulce, il carcere reggiano, vede coinvolti dieci agenti, accusati a vario titolo di lesioni, tortura e falso nelle relazioni di servizio. Un video girato con il cellulare, che riprende l’accaduto, ha permesso di fornire molti dettagli. La testimonianza davanti al gup - Tutti gli imputati hanno chiesto scusa al carcerato, ora costituito come parte civile, e otto di lroo hanno versato 1.000 euro ciascuno come gesto riparatorio. Hanno tutti chiesto il rito abbreviato e il processo è iniziato nei giorni scorsi con le udienze davanti al gup Silvia Guareschi. Lunedì 11 novembre è stato chiamato a testimoniare il 46enne viceispettore ripreso nel filmato mentre colpisce con uno schiaffo il tunisino, steso al suolo e coperto dal cappuccio. Ha dato chiarimenti solo a quanto chiesto dal gup, scegliendo invece di non rispondere alle domande delle parti, nemmeno quelle del suo difensore Federico De Belvis. Ha parlato a lungo, oltre un’ora, rimandando alla relazione da lui scritta il 3 aprile 2023. Il pm Rita Pantani ha ricordato al viceispettore di aver sostenuto che il detenuto avesse sputato, fosse armato con una lametta da barba e che altre lamette fossero state trovate in tasca. Tutti fatti ritenuti falsi dalle successive ricostruzioni investigative. Il detenuto denudato e portato in isolamento - Per l’accusa, il detenuto è stato incappucciato, fatto cadere a terra, colpito diverse volte, poi denudato e portato in isolamento. Il viceispettore avrebbe incitato alcuni colleghi a salire sul corpo del 44enne, pestandogli le caviglie. Nella sua deposizione, il funzionario della polizia penitenziaria ha ribadito di aver visto uno sputo e ricordato di non essere stato al comando, ma di essere intervenuto in un secondo momento per aiutare i colleghi. Il detenuto, a suo dire, era molto nervoso perché destinato all’isolamento e avrebbe iniziato a minacciare. Solo per quello, per tenerlo immobile, sarebbe stato fatto sdraiare, in attesa che la cella fosse pronta. E lo schiaffo ripreso dal video? Il viceispettore si è scusato per il colpo, sferrato dall’alto verso il basso, sostenendo di aver messo la mano vicino al capo dell’uomo solo per verificare che respirasse. Dopo alcune minacce, lo avrebbe schiaffeggiato. Per quanto riguarda le false dichiarazioni, ha affermato invece di aver fatto fede a quanto riferito da altri agenti. Bologna. “Carcere illegale e inadeguato”, esposto per il sindaco di Federica Nannetti Corriere di Bologna, 13 novembre 2024 “Una situazione di evidente illegalità” che, oltre a essere legata a un “significativo sovraffollamento”, è dovuta, tra le varie cose, a una “allarmante inadeguatezza strutturale”, all’impossibilità “di isolamento in caso di malattia infettiva” e, ancora, a uno “stato di scadente pulizia e di evidente degrado”, con “muffe e scarafaggi”. È a partire da tale constatazione che il Partito Radicale ha presentato un esposto contro il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, chiedendo alla Procura di “disporre indagini” e, di conseguenza, di “accertare” le eventuali “responsabilità penali” rispetto alle condizioni del carcere di Bologna. Come hanno segnalato i firmatari, i problemi sarebbero noti. Secondo i firmatari si tratta di “inerzia dell’autorità amministrativa”. Sulle condizioni delle carceri, “il governo ha responsabilità”, hanno ammesso, ma intanto “è il sindaco a poter intervenire”. Terni. No al frigorifero nella sezione di Alta Sicurezza: “I detenuti usino le borse termiche” di Umberto Maiorca ternitoday.it, 13 novembre 2024 Accolto il ricorso del Dap contro la decisione del Magistrato di Sorveglianza sulle modalità di conservazione dei cibi freschi di proprietà dei detenuti. La Corte di cassazione ha accolto il ricorso del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria contro la decisione del Magistrato di sorveglianza di Spoleto con la quale era stato “imposto all’istituto penitenziario di dotare la sezione di un frigorifero per la conservazione dei cibi freschi, limitando l’uso delle borse termiche solo per i cibi che il detenuto deteneva nella cella” del carcere di Terni. Secondo i giudici di Cassazione, “i detenuti sottoposti al regime penitenziario differenziato hanno diritto alla corretta conservazione dei cibi freschi, attenendo ciò al diritto soggettivo alla salute e a una sana alimentazione, ma che le modalità con cui tale diritto viene esercitato costituiscono esercizio della discrezionalità amministrativa e non ledono alcun diritto soggettivo”. Per i giudici romani sono state ritenute “idonee e rispettose del diritto alla salute le modalità di conservazione dei cibi freschi e surgelati riferite dall’istituto penitenziario, e non imponibile, perciò, un onere di predisporre modalità diverse”. Modalità che per i giudici “non violano il diritto soggettivo alla salute dei detenuti, ma costituiscono solo delle modalità organizzative non incidenti su tale diritto, modalità che l’amministrazione penitenziaria stabilisce in modo discrezionale”. La questione riguardava “non la conservazione di tali cibi in appositi frigoriferi o congelatori, ma se simili apparecchi debbano essere installati nella sezione che ospita i detenuti o se sia sufficiente l’utilizzo di quelli presenti nelle cucine del carcere”. I detenuti sottoposti al regime penitenziario differenziato “hanno a disposizione una borsa termica nella propria cella, dotata di mattonelle refrigeranti che vengono consegnate ogni mattina” ma “i cibi surgelati vengono consegnati nell’immediatezza, per essere consumati in giornata o nel giorno successivo e i gelati vengono conservati nel congelatore della cucina e consegnati a richiesta, per il consumo immediato. Tali modalità sono state valutate idonee per assicurare una buona conservazione di cibi che, peraltro, vengono consumati dal detenuto nell’immediatezza della loro distribuzione”. Il detenuto che aveva presentato l’istanza, invece, sosteneva che questa fosse una “violazione del diritto soggettivo alla salute conseguente alla decisione dell’istituto penitenziario di non installare un frigorifero nella sezione” e che tale violazione fosse “evidente, venendo messo in pericolo o gravemente leso il diritto del detenuto di mangiare cibi freschi e sani, assicurando in modo corretto il mantenimento della catena del freddo”. Alessandria. Burdese condanna il carcere Don Soria: “Irrecuperabile, facciamone un museo” di Adelia Pantano La Stampa, 13 novembre 2024 L’architetto torinese in occasione del convegno per i 185 della struttura carceraria di Alessandria ne propone la dismissione e la riconversione in spazi museali, di cultura e sociali. La struttura che ospita il carcere Don Soria, realizzata 185 anni fa, non ha le caratteristiche essenziali per soddisfare i bisogni primari dei detenuti. A dirlo è l’architetto torinese ed esperto di edilizia penitenziaria Cesare Burdese, che al convegno per celebrare il compleanno dell’edificio e tracciare le linee di rinascita per il futuro, ha affrontato la questione dell’istituto penitenziario nel centro di Alessandria mettendo al centro la possibile svolta innovativa della struttura. Burdese parte dal binomio essenziale dignità e risocializzazione, alla luce del quale il tema architettonico diventa strategico. “Non può esistere dignità all’interno di un carcere senza che si rispettino le condizioni minime di vivibilità, così come non ci può essere possibilità di risocializzazione in una struttura detentiva concepita esclusivamente per neutralizzare e isolare” spiega. Tradotto: a livello strutturale e architettonico è necessario avere un edificio che soddisfi i bisogni fisiologici, psicologici e relazionali dell’individuo e che disponga di adeguati spazi per le attività “trattamentali”, finalizzate al recupero sociale della persona che deve scontare la pena, così come previsto e dalla Costituzione. Burdese è tranchant nel sottolineare come il Don Soria, costruito nel 1839, non risponda a queste caratteristiche. “Il carcere non ha questi requisiti - spiega -. Anche gli adeguamenti strutturali che sono stati fatti nel corso della sua lunga esistenza non ne hanno cambiato la natura: un penitenziario ottocentesco rimane un luogo disumano che impedisce di fare ogni possibilità esperienza”. Le condizioni di degrado del carcere - prima casa di reclusione e, dopo la costruzione del San Michele, casa circondariale - sono state da sempre evidenziate sia dalla Garante dei detenuti del Comune, Alice Bonivardo, che dal Garante regionale Bruno Mellano. Più volte, nei loro dossier, i due professionisti hanno evidenziato le criticità strutturali del Don Soria con intere aree inutilizzabili, la necessità di interventi di ripristino (spesso anche difficili da attuare), il degrado degli impianti, la scarsa manutenzione e la carenza di spazi per le attività trattamentali, sia all’interno e sia all’esterno. “È una situazione simile a tante altre carceri italiane a cui spesso si aggiunge anche il problema del sovraffollamento, che rende difficile il rispetto dei diritti dei detenuti” prosegue l’architetto Burdese. La proposta di dismissione - È stato proprio il garante Mellano, nel corso del convegno, a lanciare il dibattito sulla possibilità di vedere questa struttura come una futura sede di innovazione nell’esecuzione penale. Su questo fronte, Burdese si inserisce e non usa mezzi termini. “Sarebbe meglio voltare pagina con il Don Soria, dismettendo la sua funzione di carcere e pensando a un recupero edilizio che si inserisca nel contesto cittadino - sottolinea -. Un esempio è il complesso monumentale delle Murate a Firenze: sarebbe necessario ricavare anche qui degli spazi per i percorsi di reinserimento sociale, ma anche aree culturali e museali per la conservazione della memoria carceraria”. Lecce. Allarme scabbia nel carcere, nove detenuti in isolamento preventivo di Francesco Oliva La Repubblica, 13 novembre 2024 Allarme scabbia all’interno del carcere di Lecce: nove detenuti, reclusi nel reparto dei “precauzionali”, sono rimasti in isolamento preventivo per 24 ore, nel weekend scorso. Un’allerta scattata dopo che i reclusi hanno accusato sintomi e fastidi tipici della malattia: sfoghi e infiammazioni sulla pelle. Da qui la cautela adottata dalla direzione del carcere di trasferire i detenuti in isolamento ed evitare così che la possibile infezione potesse diffondersi nel resto della popolazione carceraria. D’altronde, la scabbia è un disturbo contagioso che può diffondersi in modo molto rapido causato da un piccolo parassita, un acaro che provoca un intenso prurito. E in un ambiente di grande affollamento come un carcere, il parassita può passare con maggior facilità da una persona all’altra in caso di contatti fisici ravvicinati e di biancheria non perfettamente igienizzata. Per il momento, però, l’allarme scabbia è “un’ipotesi su cui sono state avviate verifiche che sono in corso” precisa la direttrice del carcere, Maria Teresa Susca. “Stiamo precedendo con delle visite sui detenuti ed è stata avviata la somministrazione di una terapia preventiva” precisa. Sono state avviate tutte le procedure che si seguono in simili situazioni. I detenuti sono in cura con delle pomate prescritte dalla dermatologa. Ed è stata allertata anche l’Asl che ha disposto una serie di accertamenti e di esami sui reclusi interessati dal potenziale contagio. L’allarme scabbia rappresenta la punta di un iceberg rappresentato da problematiche e disagi continui. “Parlare di scabbia in una struttura detentiva ci riporta indietro di trent’anni - spiega l’avvocata Maria Pia Scarciglia, Presidente di Antigone Puglia - potremmo parlare tranquillamente della tempesta perfetta alimentata dalla scarsa attenzione dell’Asl che non effettua i dovuti controlli”. Il carcere di Lecce, poi, ha un problema endemico che si trascina da anni, relativo ad un sovraffollamento. “Il numero dei detenuti - commenta l’avvocata - ha raggiunto le 1200 unità e scoppia anche il reparto femminile. I detenuti sono costretti a vivere i 4 in spazi del tutto inadeguati e in condizioni igienico-sanitarie sempre più precarie. Ci risulta persino che molti reclusi abbiano difficoltà ad acquistare la candeggina per disinfettare le celle e in ambienti scarsamente igienizzati è poi molto facile che infezioni dermatologiche e malattie veneree possano proliferare rapidamente”. Verona. Il pianto del fratello, la rabbia della comunità maliana. “Chiarite cosa è successo” di Angiola Petronio Corriere di Verona, 13 novembre 2024 “Moussa non era un violento, chi ha visto ora deve parlare”. Ieri Djemagan piangeva. “Piange sempre, quando viene qui”, spiegava un suo amico. Djemagan è il fratello maggiore di Moussa Diarra. Dal 20 ottobre, quando Moussa è stato ucciso, ha lasciato la sua casa e il suo lavoro a Torino. I suoi giorni e le sue notti le passa a Verona, chiedendo giustizia per quel fratello che dal Mali era fuggito dieci anni fa. Aveva 16 anni, Moussa. Per lui e un altro fratello c’è stato il deserto algerino, le torture e la detenzione in Libia - dove l’altro fratello è morto e i cui segni Moussa portava sul corpo - Lampedusa, il Cas di Costagrande, i contratti da lavoratore agricolo. E quel male di vivere che gli si era insediato dentro e che era sfociato quando aveva saputo che avrebbe perso quel rifugio che per lui era la casa occupata del Ghibellin Fuggiasco, fino a dilagare quella domenica mattina tra via Palladio e la stazione. Djemagan che sente sua madre al telefono e ogni volta lei - che ha seppellito già un figlio e tre mesi fa anche il marito “chiede di vedere il corpo di Moussa. Che sia riportato in Mali. E che sulla sua morte sia fatta chiarezza”. Erano tutti attorno all’altare laico dedicato a Moussa, ieri. “Non ha mai fatto male a nessuno. E io, a differenza di chi ne parla adesso, lo conoscevo bene. Quel poliziotto ha sparato due colpi ad altezza d’uomo e uno ha ucciso Moussa. E il mio dubbio è che lo abbia ucciso perché Moussa era nero. Nè lui nè il poliziotto hanno ferite, quindi non c’è stata aggressione o colluttazione”. Chiede, Djemagan che chi quella domenica mattina era in stazione, si faccia avanti a testimoniare. C’è una mail, per farlo: permoussadiarra@gmail. un numero di telefono - 351/0921865. Chiede anche, Djemagan, di vedere i video dell’uccisione di Moussa. “Se fosse stato il contrario, se fosse stato Moussa ad uccidere un agente quei filmati avrebbero già fatto il giro del mondo”. Vuole anche sapere dove sono i coltelli che Moussa avrebbe avuto. “Neanche quelli li hanno fatti vedere”. C’era la comunità maliana e il console Gianfranco Rondello, Mahamoud Idrissa Bouné presidente dell’Alto Consiglio dei Maliani in Italia, ieri fuori dalla stazione. “Il governo del Mali è molto attento a questa vicenda e prossimamente verrà un ministro per seguire il caso da vicino”, ha annunciato il console. Sono state le parole del presidente Bounè a echeggiare come sferzate. “Mi vergogno di essere qui ancora una volta a chiedere giustizia per Moussa, a quasi un mese dalla sua morte. Anche se l’arma più potente e letale in questo caso sono state le parole di un ministro sotto processo (il riferimento è a Matteo Salvini che commentò la morte di Diarra con un “non ci mancherà”, ndr). Quel poliziotto aveva un unico dovere: arrestare Moussa, non ucciderlo”. “Nei tribunali italiani c’è la scritta “la legge è uguale per tutti” - ha detto Bounè - Non ci si deve dimenticare che prima di tutto Moussa era ed è un essere umano. Noi non siamo contro la polizia. Siamo contro l’ingiustizia e il razzismo. E combatteremo fino a quando la verità su Moussa non verrà a galla”. Moussa il cui viso era in una foto. “Rest in power”, la scritta. Quella che si usa per commemorare chi ha sofferto e lottato contro il razzismo. Taranto. I detenuti a lezione dai concorrenti-chef di Bake Off imparano a fare i panettoni di Cesare Bechis Corriere del Mezzogiorno, 13 novembre 2024 “È un’opportunità di riscatto”. I concorrenti dell’undicesima edizione del talent trasmesso su Real Time sono stati maestri per un giorno per i detenuti del carcere, che ogni giorno lavorano nel laboratorio di pasticceria dell’istituto di pena ionico. L’obiettivo commerciale è di vendere almeno tremila panettoni. Ma lo scopo ultimo è il recupero sul piano sociale dei detenuti i quali, dopo aver appreso un mestiere nel periodo di detenzione, possono spendere questa capacità all’esterno dopo aver finito di scontare la pena. Il laboratorio di pasticceria del carcere di Taranto fornisce questa possibilità con il progetto “Lievito”. Dall’11 ottobre ha messo in vendita i panettoni prodotti nell’istituto penitenziario che ieri ha vissuto una giornata particolare: ospiti, e maestri per un giorno, sono stati i concorrenti Eleonora Occhinegro, Davide Cavasin, Maurizio Santanniello, Roberta Caruso dell’undicesima edizione di “Bake Off Italia - Dolci in forno”, il talent trasmesso su Real Time. Hanno tenuto una masterclass con i detenuti impiegati ora nel laboratorio di pasticceria gestito dalla cooperativa sociale “Noi e Voi”. “Nella pasticceria si lavora tutte le mattine, tranne nel giorno di colloquio con le famiglie. Per tutta l’estate - dice Antonio Erbante, presidente della cooperativa - abbiamo sfornato prodotti per la prima colazione, dolci di pasta di mandorla e poi focaccia barese, friselle e friselline, vendendoli prima all’interno e poi pian piano anche all’esterno del carcere. L’obiettivo di quest’anno è vendere almeno 3000 panettoni, l’anno scorso, era la prima volta, siamo arrivati a 1000. L’acquisto ha una doppia valenza sociale, perché se da una parte sostiene le attività di volontariato dell’associazione ‘Noi&Voi’ e della cooperativa ‘Kairos’, dall’altra vuole offrire sostegno anche ad altre realtà associative del territorio. Quest’anno abbiamo scelto l’Abfo (associazione benefica Fulvio Occhinegro) e il progetto ‘Lievito’ pensato da Eleonora Occhinegro e dai pasticcieri di “Bake Off- Dolci in forno” ma contiamo, con colombe pasquali e panettoni, ogni anno di sposare anche ulteriori iniziative benefiche di altre realtà associative di Taranto e provincia”. Per l’istituto di pena, ha detto il direttore Luciano Mellone, “è fondamentale fare sì che nel recupero delle persone detenute ci sia una possibilità lavorativa da poter spendere nel momento in cui terminano di scontare la pena”. “Fine pena: ora”. Ricostruire vite dove il reato le ha spezzate di Serena Valietti* L’Eco di Bergamo, 13 novembre 2024 La persona è più del gesto che compie ed è dalla sua umanità che bisogna ripartire per riabilitarla, oltre a ricostruire la società dove il trauma o la violenza del reato l’ha spezzata. Parte da questa idea, dal riconoscere che l’umano c’è anche in un criminale, l’esperienza dell’ex giudice Elvio Fassone, che in un libro ripercorre 26 anni di corrispondenza tra lui e il detenuto che ha condannato all’ergastolo. Una relazione che va in scena a Torre de’ Roveri sabato 16 novembre nell’ambito del festival “Prossimi futuri” di Aeper. Una vita fuori, che non manca l’appuntamento con una vita dentro da 26 anni. Una corrispondenza lunga circa un terzo di una vita racchiusa in una serie di buste giallognole che viaggiano dal carcere, scritte a mano da Salvatore M., uno dei capi della mafia catanese processato a 27 anni e da Elvio Fassone il magistrato che l’ha condannato all’ergastolo, ma che poi è diventato il riferimento del detenuto nei suoi anni in carcere e che in lui ha visto non solo il reato, ma anche la persona e il suo diritto all’umanità. Un’umanità che attraversa le pagine di “Fine pena: ora”, una raccolta di lettere tra i due, che il regista Simone Schinocca, fondatore e direttore artistico di Tedacà, ha portato in scena nei teatri italiani. Lo spettacolo fa tappa anche in provincia con appuntamento al teatro parrocchiale di Torre de’ Roveri sabato 16 novembre alle 20.45 nell’ambito del festival diffuso di Aeper “Prossimi futuri”. Un racconto che nasce da un’urgenza, quella di far conoscere la storia di Salvatore quando il giudice riceve la lettera in cui gli scrive di aver tentato il suicidio: dopo anni di detenzione, tra laboratori, studio e lavoro, il detenuto viene trasferito in un nuovo penitenziario e l’annullamento di tutto il suo percorso di riabilitazione lo getta nello sconforto. Un operatore penitenziario però riesce a salvarlo. Il carcere che punisce anche le parti innocenti di noi - Anni prima, durante l’ultimo colloquio prima della detenzione, alla fine di un processo durato due anni, Salvatore aveva detto al giudice: “Se suo figlio nasceva dove sono nato io forse a quest’ora era lui nella gabbia e se io nascevo dove è nato suo figlio forse adesso io facevo l’avvocato ed ero pure bravo”. Non c’è solo il criminale, ma anche la persona. Non c’è solo la persona, ma anche il suo ambiente. Questo è quello che riconosce Fassone in Salvatore. E da quel momento comincerà a scrivergli per parlare con quella parte innocente del condannato che ha visto. “Il carcere è per castigare certi gesti, ma poi punisce anche parti che la persona forse non sapeva di avere, parti innocenti, che magari si scoprono solo quando vengono ammutolite a forza, e recise - si legge nel libro - perché il carcere è pena per gesti che non andavano compiuti, ma la persona non è mai tutta in un gesto che compie, buono o cattivo che sia”. “Diversamente dal libro, che si ferma al tentato suicidio, lo spettacolo va oltre, andando a recuperare molti altri passaggi della vita di Salvatore, che comincia a raccontare della sua infanzia nelle lettere al giudice - spiega il regista Simone Schinocca - Fassone realizza che queste lettere sono ciò a cui il detenuto si aggrappa per rimanere in vita, il suo legame con il fuori e con l’umanità. Un’umanità che per il giudice va di pari passo con il diritto. Lui crede nella legge, non ha rinnegato l’ergastolo: davanti a reati efferati la società ha bisogno di segnali come quello, ma il sistema detentivo non deve negare mai la speranza”. Questo spettacolo secondo il regista interroga sull’oggi, sulle nostre vite e “ha la possibilità di aprire domande dove normalmente saremmo tutti trincerati dietro porte blindate. Il teatro ha la possibilità di essere una chiave per aprire queste porte, creando spiragli oltre le nostre difese”. La persona oltre il reato, tra riserve di umanità e desiderio di futuro - Tra le pagine del libro emerge chiaro come il giudice Fassone riesca a vedere in Salvatore anche un uomo, non solo un mostro. Uno sguardo che è quello da cui parte la giustizia riparativa, che è il passo successivo rispetto a dove si ferma il libro. Questo modello rappresenta una modalità di risoluzione del conflitto causato dal reato in cui persona offesa e colpevole si incontrano davanti a un mediatore neutrale per momenti di ascolto e dialogo, con l’obiettivo di ricucire la frattura generata dal reato sia per le parti, sia all’interno della società. Nonostante questo approccio complementare alla giustizia tradizionale sia stato inserito formalmente nel sistema giudiziario italiano con la Riforma Cartabia del 2022, ad oggi non è ancora molto diffuso. “Il nostro modello di giustizia fatica a considerarlo, si muove ancora in modo retributivo, al male si risponde con il male. Così diventa molto più difficile che la persona riesca a smarcarsi da ciò che ha commesso, non risulta possibile che esista altro di sé, anche se c’è - spiega Anna Cattaneo educatrice di Aeper e presidente del Centro Incontra, che si occupa di giustizia riparativa - L’idea alla base è che la persona che ha commesso un reato abbia la possibilità di riappropriarsi di sé, ritrovando le aree di innocenza del suo essere e partendo da quelle per ricostruirsi e lavorare sul male fatto. La giustizia riparativa guarda al futuro, non inchioda nel passato, per questo cammina al fianco dei diversi interventi educativi, dallo studio, al lavoro, a permessi premio, a corsi di teatro e laboratori”. “Non dimenticarti di Abele” si legge in chiusura del libro. Abele è la persona offesa, che nelle pagine di “Fine pena: ora” non c’è, ma che di fatto è parte di ciò che propone la giustizia riparativa, ossia l’incontro tra la persona offesa o la sua famiglia e chi l’ha ferita. “La possibilità dell’incontro con il volto di colei o colui a cui ho fatto del male mi consente di assumere la consapevolezza delle mie azioni e trovare riparazione nell’incontro e nel dialogo - spiega Anna Cattaneo - La storia non parla di questo, ma ne pone le basi: ognuno di noi è luce e ombra e nessuno può essere ridotto solamente al gesto che ha fatto. La scommessa della giustizia riparativa sta poi nella possibilità che l’offeso veda che l’altro si è ravveduto riguardo a ciò che ha commesso e che prometta di non farlo mai più”. L’approccio riparativo inoltre non “ripara” solo la realtà del colpevole, ma si occupa anche di chi ha subito il reato o della sua famiglia. “In questo incontro la vittima ha la possibilità di portare le sue domande di verità e giustizia proprio a chi ha sferrato il colpo. Diventa protagonista, insieme all’altro difficile, della risoluzione e riparazione degli effetti causati dal reato stesso - aggiunge Cattaneo - Vedere l’umanità dell’altro consente di renderlo meno pericoloso e accelera il processo di guarigione per aprire e pulire il futuro. Questi percorsi sono sempre volontari e liberi e possono coinvolgere vittime dirette e indirette, perché come sappiamo ogni reato miete più vittime, il male trova le sue vie per dilagare. Nessuno può essere obbligato a fare un incontro di questo tipo se non lo desidera. La giustizia riparativa è una giustizia mite, che prova a rispondere al male non con la violenza della pena, ma con la responsabilità della riparazione”. “Inoltre, a livello culturale è importante che la comunità possa desiderare che queste persone tornino indietro, per non perdere nessuno - conclude l’educatrice di Aeper - Ciò non significa riavvolgere il nastro, perché il male fatto rimane come qualcosa di tangibile non solo nelle anime, ma anche nei corpi. Sporca le relazioni e il vivere sociale, ma noi non vogliamo che queste persone rimangano dannate in eterno, al contrario desideriamo che ciascuno sia messo nella condizione di ritrovare la propria umanità così da riscattarsi e dimostrare che può dare qualcosa a questo mondo”. *Giornalista freelance, da sempre scrive di cultura, sociale e ambiente “I volti della povertà in carcere”. Un libro fotografico di Matteo Pernaselci i-libri.com, 13 novembre 2024 Il tema del reinserimento dei detenuti e dell’accettazione del loro valore umano da parte della società è al centro di un nuovo e toccante volume fotografico, I volti della povertà in carcere, che sarà disponibile in libreria a partire dal 25 novembre, edito da EDB. Scritto da Rossana Ruggiero, con fotografie in bianco e nero di Matteo Pernaselci, il libro raccoglie le storie di uomini e donne detenuti nel carcere di San Vittore, ed evidenzia la cruda realtà e le sfide quotidiane di chi vive in uno dei più celebri istituti di pena italiani. L’opera rappresenta una denuncia sociale che vuole sollecitare una riflessione collettiva sul sistema carcerario italiano, sulle storie spesso dimenticate dei reclusi e sul ruolo che la società deve svolgere per abbattere le barriere della stigmatizzazione. Il volume, infatti, intende sensibilizzare l’opinione pubblica, aprendo uno spiraglio di speranza per coloro che cercano di riscattarsi e riacquistare dignità. La povertà dentro le mura del carcere - Il libro porta i lettori “dietro le sbarre” e offre un intimo sguardo sulla povertà umana e sociale di chi vive in carcere. Rossana Ruggiero, autrice dei testi, descrive con empatia e delicatezza la condizione di prigionieri come Berrich e Roberto. Berrich è un’infermiera tunisina giunta in Italia per sfuggire a un matrimonio infelice, ma si trova ora in carcere a causa di minacce rivolte all’ex compagno dopo aver scoperto il suo tradimento. Roberto, invece, è un ragazzo di 23 anni che ha già trascorso quattro anni in carcere a causa di reati commessi sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. La sua passione per la musica rappresenta per lui un possibile sentiero di riscatto. Attraverso questi racconti, l’opera riflette sulla povertà non solo economica, ma anche relazionale e morale. L’esperienza carceraria viene presentata come un microcosmo in cui emergono profondi conflitti sociali, privazioni e, spesso, indifferenza. Le fotografie di Pernaselci, che ritraggono oggetti quotidiani e ambienti spogli, sono un potente accompagnamento visivo che aggiunge ulteriore spessore al racconto scritto, mostrando dettagli che vanno oltre le parole. La prefazione del cardinale zuppi: il carcere come purgatorio - A dare ulteriore significato al volume è la prefazione di Matteo Maria Zuppi, il cardinale noto per le sue posizioni umanitarie. Zuppi sottolinea come il carcere non debba essere concepito come un inferno sulla Terra, ma piuttosto come un purgatorio, un luogo in cui i detenuti possano avere la possibilità di riflettere sui propri errori e cercare un riscatto. “La condanna peggiore è il non senso,” scrive il cardinale, evidenziando la necessità di dare significato alla pena e di costruire una strada verso la redenzione. Per Zuppi, considerare il carcere solo come un sistema punitivo significa ignorare la dignità e il valore umano dei detenuti. Il cardinale descrive il carcere come un luogo che non dovrebbe essere visto come una semplice discarica della società per la “parte cattiva”, ma piuttosto come uno spazio di speranza e rinascita. Secondo Zuppi, il reinserimento sociale dei detenuti rappresenta una responsabilità collettiva, che richiede uno sforzo da parte di tutti per accettare chi ha sbagliato e per contribuire alla sua riabilitazione. Le parole di Zuppi ricordano che il vero opposto dell’inferno è un luogo in cui vi sia ancora spazio per l’attesa, per il cambiamento e per una vita nuova. La rivoluzione della tenerezza e il dramma dei suicidi in carcere - Nella sua introduzione, Andrea Monda, direttore de L’Osservatore Romano, richiama l’attenzione su quello che definisce il “movimento rivoluzionario della tenerezza” promosso da Papa Francesco. Monda sottolinea come la società, anestetizzata e distratta, sembri aver perso ogni sensibilità verso le sofferenze altrui, specialmente verso quelle vissute in carcere. Egli denuncia la situazione del sistema carcerario italiano, che solo nell’agosto del 2024 ha visto il tragico bilancio di 64 suicidi tra i detenuti. Secondo Monda, il carcere non dovrebbe mai essere vissuto come una “pena di morte” differita, ma come uno spazio dove poter trovare sostegno e una nuova direzione nella vita. La riflessione di Monda si collega all’appello di Papa Francesco per un approccio umano e compassionevole verso i detenuti. Il “movimento della tenerezza” di cui parla il Pontefice rappresenta un invito a guardare con empatia e comprensione coloro che si trovano ai margini della società. È un richiamo a riconoscere il valore umano anche nelle persone che hanno commesso errori, ricordando che ogni individuo ha il diritto di essere trattato con rispetto e dignità. Gli autori: Rossana Ruggiero e Matteo Pernaselci - I volti della povertà in carcere è il frutto del lavoro congiunto di due autori che, sebbene provengano da ambiti professionali diversi, condividono una sensibilità particolare verso le tematiche sociali. Rossana Ruggiero, giurista e bioeticista, è un volto noto nel mondo delle pubblicazioni vaticane. Autrice del libro Il Bambino Gesù un Unicum nel panorama della sanità, Ruggiero è impegnata da anni nel volontariato con la Società San Vincenzo de Paoli e collabora con varie riviste vaticane. La sua esperienza come giurista le ha permesso di avvicinarsi con empatia e profonda comprensione al mondo del carcere, dando voce a storie spesso inascoltate. Matteo Pernaselci, nato nel 2001, ha intrapreso la strada della fotografia con una particolare attenzione per le storie delle persone più vulnerabili. Dedicandosi alla street photography, ha documentato la vita di strada e la povertà nelle città italiane, diventando un testimone visivo delle storie di marginalità. I suoi scatti sono stati pubblicati su testate come L’Osservatore Romano, Vatican News, Avvenire, e altre riviste italiane. La sua capacità di catturare dettagli e volti in modo autentico ha conferito al libro una dimensione visiva di grande impatto, che completa e rafforza i racconti di Ruggiero. Un’opera di denuncia e di speranza - I volti della povertà in carcere si inserisce in un contesto di crescente attenzione verso i diritti e la dignità dei detenuti. In un’epoca in cui il carcere è ancora visto da molti come una realtà separata dal resto della società, questo libro rappresenta un invito a guardare oltre le sbarre e a riflettere sulle condizioni di vita dei reclusi. Le storie raccolte e le immagini offrono un quadro completo della realtà carceraria, mostrando che la povertà in carcere non è solo materiale, ma anche emotiva, relazionale e spirituale. Cyberbullismo, la madre di Andrea dai “pantaloni rosa”: “Il film aiuterà altri” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 13 novembre 2024 “È ispirato al libro che ho scritto sulla mia tragedia e che porto nelle scuole. Sento il bisogno di sostenere i più fragili e studio all’università per farlo al meglio”. I magistrati archiviarono il caso ma fu Teresa Manes a scoprire che il figlio, impiccatosi a 15 anni, veniva deriso su Facebook. Immagino che non abbia scordato nemmeno un istante di quei minuti drammatici... “Nemmeno uno”. Come andò? “Io ero da due giorni a casa dei miei genitori, in Calabria. Ero scesa da Roma per un colloquio di lavoro perché stavo pensando di tornare a vivere lì. I ragazzi erano a casa con Tiziano, il mio ex marito. Di solito li chiamavo di sera ma quel giorno anticipai la chiamata perché avevo fatto una visita medica e Tiziano voleva sapere com’era andata. Così lo chiamai. Era andato a riprendere a scuola Daniele, che era in quinta elementare. Stava entrando in casa, quando rispose “Pronto” nel momento esatto in cui mise la chiave nella toppa. Aprì la porta e cominciò a urlare: “Aiuto, aiutatemi, aiuto”. L’ho sentito che diceva a Daniele “Corri a chiamare aiuto”… Continuavo a chiedere: che succede? Pronto, che sta succedendo? Ho dato il telefonino a mio padre e ho chiamato la polizia da quello fisso senza sapere che cosa chiedere. Ho solo detto: correte, vi prego. C’è mio marito che urla e non capisco perché”. Poi ha ripreso il telefonino… “Sì. Ho qui, nella testa, le grida di mio marito che ripete “Andrea si è impiccato. Oddìo, si è impiccato”. Ho saputo poi che Daniele - povero piccolo - era corso dai vicini a chiamare aiuto, aveva preso a calci le porte. Ha visto il padre tentare di rianimare suo fratello ma aveva capito che non si sarebbe salvato… Era la fine”. Se vieni da un ricordo così devi avere coraggio per trovare la strada della vita da quel giorno in poi. Teresa Manes ha 55 anni, la sua voce arriva da Bracciano, dove abita, e il suo coraggio porta il nome di suo figlio, Andrea Spezzacatena. Il 20 novembre 2012 quel ragazzino allegro e gentile si tolse la vita e in questi 12 anni non c’è stato giorno che da qualche parte - in una scuola, in un incontro pubblico, in un libro o un post - sua madre non abbia tenuto acceso il suo ricordo: un adolescente, come lo racconta sempre lei, tormentato dai bulli che ha trovato più forza per morire che per resistere alle loro angherie. “Il ragazzo dai pantaloni rosa”, così lo conoscono tutti. Ed è con questo titolo che ieri è uscito nelle sale il film ispirato alla sua storia (regia di Margherita Ferri, prodotto da Eagle Pictures e Weekend Films, sceneggiatura di Roberto Proia). Claudia Pandolfi nel film è la madre di Andrea. Le corrisponde? “Sì, direi che il filo conduttore c’è e lei mi piace molto. Io trovo che sia un bel film e fa impressione la corrispondenza fra il mio Andrea e il ragazzino bravissimo che lo interpreta (Samuele Carrino, mentre il capo-bullo è Andrea Arru; ndr). Con questo film mi sono resa conto che Andrea è cresciuto”. In che senso? “Vede, quando arrivò a casa la prima copia del libro che scrissi su di lui mi sono emozionata moltissimo perché mi sono resa conto che con quel libro avrei riportato mio figlio dove doveva stare: fra i banchi di scuola. E così ho poi fatto. Uso quel che avevo scritto per veicolare il messaggio contro il bullismo. Adesso, con il film, Andrea è cresciuto, è come se lui fosse andato oltre la scuola e avesse trovato un lavoro da pedagogista. Pensi che voleva fare lo psicologo…”. All’anteprima del film, a Roma, si sono sentiti fischi e commenti omofobi tra gli studenti. E in una scuola media di Treviso alcuni genitori hanno chiesto di bloccare la proiezione temendo che non fosse adatto per i ragazzi... “I fischi e i commenti mi sono dispiaciuti molto. i ragazzi avranno anche sbagliato ma prima di loro ha sbagliato chi non li ha preparati e poi redarguiti. Per me il film resta un progetto di sensibilizzazione. E mi fa paura che una scuola faccia un passo indietro per l’opposizione di due o tre genitori”. I magistrati che si occuparono del suicidio esclusero bullismo e omofobia... “Dissero che non c’era nulla per provare il nesso di causalità. Lui non lasciò biglietti. Archiviarono tutto e io francamente non avevo più energia, né voglia, né risorse economiche e psicologiche per inseguire un risultato giudiziario diverso. E poi per avere che cosa, alla fine? Una decisione che dicesse che c’era stato bullismo? Per me c’è stato”. Le sue certezze sono legate a quel che ha scovato online dopo la sua morte? “Esattamente. Nella mia testa la parola bullismo non si era mai affacciata, anche perché ho sempre creduto che un ragazzo bullizzato trovasse scuse per non andare a scuola (liceo scientifico Cavour di Roma; ndr) e invece lui non vedeva l’ora di andarci, ogni giorno. Poi ho visto le chat e mi sono resa conto. I compagni di scuola stavano diventato bulli senza rendersene conto e lui stava diventando vittima senza pensarci. Pur di far parte del gruppo accettava scherzi, battute, offese”. E poi c’era quella pagina Facebook… “Era lo spazio creato dai bulli per deriderlo: “Il ragazzo dai pantaloni rosa”. È stata chiusa da Facebook su disposizione della polizia. Io e il mio avvocato abbiamo provato a chiedere di recuperarla per rogatoria, i magistrati non ci hanno nemmeno provato. Io ho una laurea in Giurisprudenza che non ho mai usato ma in quel caso mi è servita perché avevo gli strumenti per capire che nell’archiviazione c’era qualcosa che non mi tornava. Comunque: le polemiche non servono a niente. Ho mollato il fronte giudiziario ed è meglio così”. Che cosa ha pensato leggendo di Leo, il ragazzino bullizzato a scuola che si è ucciso pochi giorni fa? “Ogni volta che la cronaca racconta storie simili a quella di Andrea sento addosso un senso di sconfitta profonda. Ma non posso permettermi di scoraggiarmi e mollare. Perché avverto più che mai oggi la necessità di avvicinarmi alle fragilità degli adolescenti, anche emotive. Ed è per questo che sto seguendo un corso universitario per diventare insegnante di sostegno per questi ragazzi”. Perché “pantaloni rosa”? “Fui io a scolorire un paio di suoi jeans con un lavaggio sbagliato, ecco perché quei pantaloni tendevano al rosa e diventarono oggetto di dileggio”. Suo figlio Daniele ha visto il film? “Con lui di Andrea parliamo di rado ma condivide tutto quello che faccio. Il film voleva vederlo ma poi ci ha ripensato. Per ora non se la sente, poi deciderà”. Lei va spesso al cimitero? “Quasi mai. Che ci vado a fare? Non ha senso. Andrea è sempre accanto a me”. La regista - Margherita Ferri, 40 anni, regista romagnola nata a Imola, con Il ragazzo dai pantaloni rosa (sopra la locandina) ha diretto il suo secondo lungometraggio dopo l’esordio del 2018 con Zen sul ghiaccio sottile. Ha diretto anche alcuni episodi delle serie tv Status, Zero, Bang Bang Baby e Home Sweet Rome. L’attrice - A interpretare Teresa Manes, 55 anni, la madre del 15enne Andrea Spezzacatena che si tolse la vita il 20 novembre 2012, è Claudia Pandolfi, attrice romana, 50 anni il prossimo 17 novembre. Andrea è invece il giovane attore pugliese di Gallipoli Samuele Carrino. Le polemiche - Alcune famiglie di una scuola media di Treviso si sono opposte alla proiezione del film sostenendo che potrebbe avere “effetti negativi” sui ragazzi. Alla “prima”, che si è svolta alla Festa di Roma, alcuni spettatori adolescenti lo hanno accolto con fischi e commenti omofobi. La società e la follia di Gianni Beretta Il Manifesto, 13 novembre 2024 Una chiamata urgente da un telefono pubblico: Basaglia deve trasmettere un articolo sulla morte di Pasolini. Con lui aveva condiviso le battaglie per la riforma psichiatrica. È il 3 novembre del 1975. Un primo pomeriggio umido e fosco, quando un tipo si dirige a passo svelto verso l’Antico Posto di Ristoro sul piccolo valico della Libbia, nel comune aretino di Anghiari. Ha urgente bisogno di fare una chiamata. Ma di lunedì il telefono pubblico è chiuso. Picchia allora insistentemente sul portone di vetro fino a che arriva Lucio, il giovanissimo figlio del proprietario: “mi disse che doveva trasmettere un articolo alla redazione di Paese Sera; e io gli aprii”. Quell’uomo era Franco Basaglia, nell’impellenza di inviare un pezzo sull’amico Pier Paolo Pasolini, assassinato al Lido di Ostia il giorno prima. “Il grande artista e intellettuale ci ha parlato di una mutazione genetica in corso con gravissimi guasti nel nostro sistema sociale ed in particolare sulle nuove generazioni”. Così scrisse Basaglia, aggiungendo: “il movimento che in questi anni si è creato sui temi della lotta all’emarginazione e all’esclusione si deve collegare ancor più alla lotta politica generale per una società in cui i rapporti tra le persone non siano basati sullo sfruttamento e la mercificazione”. Naturalmente il cofondatore di Psichiatria democratica, del quale si celebrano i cento anni dalla nascita, menzionava pure le battaglie condivise con Pasolini “contro la violenza sociale e istituzionale che produce la mostruosità dei manicomi e dei lager”. L’EPISODIO, fin qui sconosciuto, è stato scoperto ad Anghiari durante la scrittura di Tovaglia a Quadri per mano di Andrea Merendelli e Paolo Pennacchini: un mix di recitazione e canzoni popolari di una cena all’aperto fra una portata e l’altra di bringoli, stracotto di chianina e cantucci con vin santo finali. L’edizione di quest’anno è stata intitolata Mattimonio, proprio a rievocare il percorso di chiusura del manicomio di Arezzo (pressoché contemporanea a quello di Trieste). Quel fatidico giorno Basaglia era alla Fattoria della Scheggia ospite di Agostino Pirella, per l’appunto direttore del manicomio arertino, che con lui firmò quell’articolo. I due si trovavano con certa frequenza “intra Tevero et Arno”, ovvero a cavallo del Casentino e della Valtiberina, in quell’ex staterello del Granducato di Toscana che fu il primo nella storia ad abolire la pena di morte; ma anche a togliere i “matti” dalle carceri aprendo i manicomi. Discutevano sul come procedere verso la “de-istituzionalizzazione” per quello che sarebbe stato, tre anni più tardi, il varo della Legge 180, che gli ospedali psichiatrici doveva abolire. Ebbene, grazie alla brillante rappresentazione di Mattimonio, Tovaglia si è aggiudicata a Padova (lunedì scorso, ndr) nientemeno che il Premio Nazionale della Critica Teatrale. Giusto alla vigilia del suo trentesimo compleanno che si svolgerà nello scenario del Castello di Sorci (sempre in Anghiari). Dove fra l’altro Basaglia e Pirella erano usi cenare talvolta con la loro equipe. Nell’opera, Flavia (attrice protagonista) richiama la storia di Adalgisa Conti, una 26enne anghiarese che nel novembre 1913, senza madre né padre e dopo neppure un anno di matrimonio, viene rinchiusa ai Tetti Rossi (com’era soprannominata la struttura manicomiale aretina) per volere del marito Probo Palombini. Durante i complicati preparativi del suo di “mattimonio” Flavia evoca una lettera in cui Adalgisa affermava: “Io sono la peggiore di tutte; per colpa mia, perché non sono sottomessa e umile a cedere ai voleri di mio marito…”. Adalgisa Conti rimarrà rinchiusa lì dentro per settant’anni, fino alla sua morte nel 1983. Su Adalgisa Conti già nel 1978 uscì una incredibile autobiografia curata da Luciano della Mea dal titolo Manicomio 1914: gentilissimo sig. dottore, questa è la mia vita che parte da un suo scritto in cui chiede al proprio medico di riconsiderare il provvedimento di ricovero. Non ricevendo risposta (il consorte non la rivoleva indietro) e manifestando intenzioni suicide, Adalgisa venne spostata al reparto “agitate”. La pubblicazione fu tradotta al tedesco, fino ad essere promossa con una foto che la raffigurava insieme a un’altra immagine di Rosa Luxemburg. Anni dopo ispirò pure l’opera teatrale Lola che dilati la camicia del regista Marco Baliani. Del resto in quella decade la battaglia per l’abolizione delle strutture costrittive si intrecciava strettamente con l’emergere dei movimenti femministi. Lo psichiatria Piero Iozzia, dal ‘74 responsabile del “lungodegenti donne” del Manicomio provinciale di Arezzo, ce la ricorda così: “taciturna, quasi non parlava; ma era capace di rivolgerti un flebile sorriso affettuoso, da vecchietta”. E poi ci riferisce di quando la colsero sporcandosi i bianchi capelli con le proprie feci. “Il personale interpretò il gesto come che volesse tingerseli, forse di rosso; e chiamarono la parrucchiera, nel mezzo dello stupore delle altre degenti”. Al riguardo nel suo Psicoanalista senza muri, diario da una istituzione negata, Paolo Tranchina (anch’egli operante ad Arezzo) sosteneva come giorno per giorno si dovesse cercare di “dare un senso a comportamenti apparentemente senza senso”. C’è voluto comunque oltre un decennio perché quel luogo venisse gradualmente chiuso. Un lungo percorso dove, come ci descrivono gli psichiatri Paolo Serra e Cesare Bondioli, fra le prime azioni ci fu “il superamento di ogni barriera e forma di contenzione; a cominciare dall’abbattimento delle pareti dentro le quali erano segregati ventiquattr’ore su ventiquattro, e privati di ogni dignità, i cosiddetti ‘inquieti’”. Condizioni ben narrate da Fabrizio, l’attore che nella Tovaglia impersona un ex infermiere di quell’inferno. La più giovane, Sandra Rogialli, ci riporta invece di aver svolto il suo volontariato prelaurea in psicologia proprio ai Tetti Rossi, seguendo minori che erano stati ricoverati in quanto considerati “pericolosi per sé e per gli altri” o per “pubblico scandalo”. Per poi andare ad esercitare la professione di psicoterapeuta sul territorio nei servizi di salute mentale dediti a superare quelle “scuole speciali” e “classi differenziali” che Basaglia, nell’articolo per Pasolini, aveva definito “ghetti per bambini”. La “clinica dei pazzi” venne definitivamente sigillata nel 1989 e oggi ospita la sede aretina dell’Università di Siena. Che a ricordo ha recentemente allestito nei locali della provincia di Arezzo la mostra Arte ai margini, dove appaiono numerosi dipinti realizzati fra il ‘58 e il ‘78 dai pazienti durante il loro internamento. A partire da Livio Poggesi che scrive di suo pugno: “questi periodi di alto e basso prendono quasi tutti nella vita, ma come a me è una cosa incredibile, mortali come mi prendono. Comunque spero di stare benino e che questi fatti non mi succedano più ma restino solo nei miei disegni che si possono vedere nei miei diari”. La Tovaglia a Quadri aveva già dedicato l’edizione del 2005 a 44 Matti, richiamando il trasferimento durante il passaggio del fronte (per ragioni di sicurezza e protezione) dei pazienti dal manicomio di Arezzo (troppo adiacente la stazione ferroviaria) al Castello anghiarese di Galbino - tranne, naturalmente, Adalgisa Conti che fu invece spostata al manicomio di Siena. Nell’agosto di quello stesso anno destino volle che il marito Probo, il quale l’aveva fatta internare, rimanesse vittima dello scoppio di una mina lasciata a tempo nella caserma dei carabinieri di Anghiari dai tedeschi durante la loro ritirata (dove Palombini era detenuto per essere un acceso militante fascista). E allora torna alla mente l’articolo di Basaglia e Pirella su quella triste pagina 4 di Paese Sera, tutta dedicata a Pasolini, dove appaiono pure gli omaggi di Eduardo de Filippo, Cesare Zavattini, Lea Massari, Michelangelo Antonioni. Un’epoca lontana quella, in cui Franco Basaglia affermava che “salvo casi sporadici la follia è il prodotto della società e delle sue regole costrittive” e che “una società, per dirsi civile, dovrebbe accettare sia la ragione come la follia”. Mentre oggi i servizi territoriali di sanità mentale - laddove esistano - sono sempre più precari, qualcuno in Parlamento manifesta nostalgie paventando la riapertura di “strutture per i malati di mente”. In tempi di sempre più crescente smania di “contenzione” dello stato di diritto e delle libertà democratiche. La sentenza del Comitato anti tortura: “Italia ferma ai metodi manicomiali” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 novembre 2024 Il rapporto europeo dopo le verifiche nei reparti psichiatrici degli ospedali di Milano Niguarda, Melegnano, Cinisello Balsamo e Roma San Camillo. L’Italia, pioniera nell’abolizione dei manicomi, fatica ancora a liberarsi della loro eredità: la contenzione fisica prolungata ed eccessiva, la scarsa tutela giuridica nei Trattamenti Sanitari Obbligatori (Tso) e le condizioni igieniche inadeguate persistono nelle strutture psichiatriche. La recente condanna senza precedenti della Corte Europea nei confronti del nostro Paese per l’abuso di questa pratica evidenzia una problematica connessione con il passato. Una criticità già emersa nel rapporto del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (Cpt) dello scorso anno, le cui conclusioni rispecchiano le precedenti osservazioni del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, allora guidato da Mauro Palma. Il Cpt ha diffuso un rapporto sulle verifiche condotte in quattro reparti psichiatrici italiani, evidenziando la loro difficoltà nel distaccarsi dalle logiche manicomiali. L’organo ispettivo effettua controlli quadriennali in tutti i Paesi della Comunità Europea per valutare la conformità agli standard comunitari nei settori di competenza (psichiatria, strutture per anziani, carceri e immigrazione). Dal 2004, le visite del Cpt in Italia si sono invariabilmente concluse con raccomandazioni, sistematicamente disattese, volte a sanare le gravi criticità identificate. Le ispezioni effettuate in quattro importanti ospedali (Milano Niguarda, Melegnano, Cinisello Balsamo e Roma San Camillo) hanno rivelato uno scenario preoccupante, dominato da procedure che riportano alla mente il modello manicomiale, ormai superato da decenni in gran parte d’Europa. Uno dei punti più critici è risultato essere l’uso eccessivo e prolungato della contenzione fisica. In sostanza, le persone ricoverate vengono immobilizzate contro la loro volontà, spesso per giorni interi. Questa metodologia, condannata dagli standard internazionali, viene giustificata ricorrendo a una norma giuridica, l’articolo 54 del codice penale, interpretata in modo eccessivamente elastico, a discapito dei diritti dei degenti. Ancora più allarmante è il fatto che venga applicata anche a chi ha acconsentito al ricovero, privandolo così di ogni tutela giuridica. Le problematiche emerse dall’inchiesta non si limitano alla contenzione fisica. Il ruolo del giudice tutelare, chiamato a garantire i diritti delle persone sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio (Tso), appare del tutto formale. Il magistrato si limita a firmare moduli prestampati, senza incontrare l’interessato e senza valutare la situazione nel suo complesso. Questo contrasta nettamente con gli standard europei, che prevedono un confronto diretto tra le parti. Anche l’informazione ai ricoverati risulta insufficiente. Molti di loro, interpellati dal Cpt, ignoravano i propri diritti e il proprio status giuridico. Un’ulteriore criticità riguarda le condizioni di vita all’interno dei reparti: spazi angusti, scarsa igiene e totale assenza di aree verdi sono elementi ricorrenti nelle descrizioni fornite dagli ispettori. L’attuale normativa, impropriamente denominata “Legge Basaglia”, ha di fatto trasferito i metodi manicomiali in ambito ospedaliero. Eppure, rimangono tuttora inevase le principali indicazioni che gli organismi internazionali chiedono da tempo di attuare. La Guida ai servizi di salute mentale basati sulla comunità, pubblicata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel giugno 2021, ha richiesto l’abbandono del modello biomedico-farmacologico, l’eliminazione delle procedure coercitive, l’adozione di un approccio olistico al disagio psicosociale e l’implementazione di buone prassi già sperimentate con successo. Queste includono il supporto tra pari, la presenza di sostegno territoriale concreto e l’integrazione dei servizi di salute mentale con un supporto sociale ampio, comprensivo di alloggio, istruzione e servizi sociali. Anche le Nazioni Unite, attraverso l’Alto Commissario per i Diritti Umani, hanno sollecitato l’abolizione delle misure coercitive e l’applicazione del Crpd (Convention on the Rights of Persons with Disabilities). Nonostante ciò, persiste l’immobilità della psichiatria istituzionale italiana che sembrerebbe ignorare le direttive della comunità internazionale. Forse la sentenza di condanna della Cedu potrebbe fare da sprone per rendere effettiva la riforma della salute mentale. Migranti. Decreto Paesi sicuri, quella battaglia a perdere del governo Meloni di Davide Vari Il Dubbio, 13 novembre 2024 L’immigrazione è un fenomeno epocale che richiede visione, competenza e una strategia a tutto campo. Non può essere affrontata con decreti d’emergenza che si sgonfiano al primo soffio di vento giudiziario. Il Decreto sui Paesi Sicuri è un colabrodo, un gioco al massacro orchestrato da un governo che sembra volersi giocare tutto - anche la credibilità - sul contrasto all’immigrazione. Ormai è chiaro a tutti - tranne forse a qualche anima sperduta nei corridoi di Palazzo Chigi e a “mister X”, Elon Musk - che quel decreto è un fallimento, un bersaglio facile, facile per quei magistrati che vogliono fare rispettare il diritto internazionale, certo, ma anche per quei pochi che l’hanno giurata a questo governo fin dal primo giorno e che si sfregano le mani ogni volta che una nave imbarca una manciata di disgraziati da spedire in Albania. E così, la famigerata difesa dei confini nazionali (sic!) diventa una pantomima, coi giudici che smontano il decreto pezzo per pezzo. Il diritto europeo impone infatti che ogni richiesta di asilo venga valutata singolarmente, e l’elenco dei Paesi sicuri si rivela una scorciatoia destinata a schiantarsi contro il muro del diritto. Insomma, il governo ha scelto di combattere una battaglia persa in partenza, sprecando risorse ed energie in una guerra che non porterà a nulla se non a un’ulteriore perdita di credibilità. L’immigrazione è un fenomeno epocale che richiede visione, competenza e una strategia a tutto campo. Non può essere affrontata con decreti d’emergenza che si sgonfiano al primo soffio di vento giudiziario. Ma al momento, a Palazzo Chigi, sembra prevalere la politica del colpo ad effetto. Basterebbe una rilettura veloce de “L’arte della guerra” di Sun Tzu per capire che la prima virtù di un generale è quella di saper comprendere quale battaglia valga la pena combattere. E, a occhio e croce, trasformare un fenomeno epocale come l’immigrazione in vessillo ideologico non è una buona idea. Così come non è una buona idea forzare il diritto e pensare di sfangarla di fronte a un drappello di magistrati che altro non aspetta se non il momento di colpire e affondare. Migranti. “Paesi sicuri”, lo scontro è tra diritto e arbitrio di Gianfranco Schiavone L’Unità, 13 novembre 2024 Non c’è nulla di politicamente pretestuoso nei quesiti posti alla Corte Ue dal tribunale di Roma sul trattenimento dei sette richiedenti asilo in Albania. Ciò che colpisce in questa storia -che molti, sbagliando, vedono come una battaglia tra poteri dello Stato a colpi di cavilli legali su temi astrusi - è l’atteggiamento arrogante dell’esecutivo, che pretende di imporre la sua volontà come se quelle regole che caratterizzano un ordinamento democratico, e che dunque limitano il potere di qualunque Esecutivo, non esistessero e tutto fosse “a libera disposizione” di coloro che detengono temporaneamente il consenso. I quesiti posti alla Corte di Giustizia europea dal Tribunale di Roma sul trattenimento in Albania di sette richiedenti asilo provenienti da Egitto e Bangladesh sono chiari e precisi. Il problema sta da tutta un’altra parte: quella di “Paese di origine sicuro” è una nozione giuridica definita dalla Direttiva 2013/32/UE (e nell’Allegato 1) e non già un concetto politico liberamente disponibile alla politica interna ed estera, come invece vorrebbe il governo italiano. Sostenere (e volerlo persino imporre per legge) che Paesi devastati dalla violenza politica e da conflitti interni siano considerati di origine sicura, come lo sono molti dei Paesi dichiarati tali dal governo italiano, rappresenta una distorsione enorme e non accettabile dei criteri e principi previsti dal diritto Ue. Non a caso nessuno Stato Ue ha, ad esempio, inserito l’Egitto, dove è stato torturato ed ucciso Giulio Regeni (e dove migliaia di persone vengono fatte sparire o torturate nelle carceri come ricorda anche la storia di Patrick Zaki) tra i paesi di origine sicura. Perché il Tribunale di Roma - XVIII sezione civile, con ordinanza RG 46690/2024 ha deciso di operare ben quattro rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE), chiedendone altresì la trattazione d’urgenza, in merito all’applicazione della procedura accelerata di frontiera, con contestuale trattenimento, sul caso dei sette richiedenti asilo (egiziani e bengalesi) trasportati coattivamente nei centri voluti dal governo italiano in Albania in quanto provenienti da paesi di origine considerati sicuri dal governo stesso? Il Tribunale appare ben consapevole che l’applicazione della procedura accelerata di frontiera comporti, oltre che il trattenimento, ovvero una limitazione della libertà personale, anche una “particolare celerità del procedimento, con conseguente compressione dei diritti della difesa, la possibilità di dichiarare la domanda manifestamente infondata, l’esclusione dell’effetto automaticamente sospensivo del ricorso giurisdizionale avverso la decisione negativa della Commissione territoriale”. Proprio per tali motivi il Tribunale ritiene di essere competente “anche nel corso di un giudizio di convalida di un trattenimento, (ndr e non solo in sede di impugnazione del rigetto della domanda di asilo) di sollevare una questione pregiudiziale a codesta eccellentissima Corte, giacché tale potere è funzionale a garantire un ricorso pieno ed effettivo” previsto dall’articolo 46 della Direttiva 2013/32/UE (procedure) Con il primo rinvio alla CGUE il Tribunale di Roma osserva che nella normativa previgente all’ultimo intervento normativo fortemente voluto dal Governo, ovvero con il vecchio D.M. del 7 maggio 2024 (norma secondaria) veniva prevista la creazione di un elenco di Stati terzi ritenuti Paesi di origine sicuri, così valutati sulla base di schede informative su ognuno di essi. Con il d.l. 23 ottobre 2024, n° 158 spetta invece “al solo legislatore ordinario (che opera con lo strumento della legge o dell’atto avente forza di legge) sia la disciplina generale delle modalità e dei criteri di tale designazione, sia la designazione stessa. Con il risultato che la designazione del Paese di origine sicuro potrebbe avvenire anche derogando tacitamente alla disciplina generale e quindi senza rispettare i criteri da quest’ultima stabiliti”. Chiede dunque il Tribunale di Roma alla CGUE se il diritto dell’Unione “osta a che la designazione dei Paesi di origine sicuri sia affidata ad un atto normativo primario, avente forza e valore di legge”. Con il secondo rinvio alla CGUE il Tribunale di Roma mette in luce che il nuovo “decreto-legge non riporta né le specifiche fonti informative utilizzate né la loro provenienza; e neppure vi fa riferimento in modo preciso per consentire di risalire a quelle fonti e di esaminarne il contenuto e non permette, quindi, al richiedente asilo di contestarne, ed al giudice di sindacarne la provenienza, l’autorevolezza, l’attendibilità, la pertinenza, l’attualità, la completezza, e comunque in generale il contenuto”. Ciò ad avviso del Tribunale determina “una significativa limitazione del carattere effettivo della tutela giurisdizionale” che è diritto fondamentale della persona sancito anche dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Chiede dunque alla CGUE se nel designare un Paese terzo come di origine sicuro, uno Stato UE possa, senza violare il diritto dell’Unione, non esplicitare “il metodo di valutazione ed i criteri di giudizio adoperati in concreto, nonché le fonti dalle quali ha tratto le pertinenti informazioni su quel determinato Paese”. Con il terzo rinvio alla CGUE il Tribunale di Roma torna sulla questione dei “poteri spettanti al giudice nella valutazione della correttezza della designazione di uno Stato terzo come Paese di origine sicuro” ovvero se il giudice possa avvalersi di proprie autonome fonti informative qualificate per svolgere quell’analisi e valutazione concreta che gli viene richiesto di attuare sulla base dell’interpretazione del diritto dell’Unione che la stessa CGUE ne ha dato con la nota sentenza del 4 ottobre 2024, causa C-406/22. Chiede pertanto il Tribunale di Roma se il diritto UE “impone agli Stati membri di attribuire ai giudici il potere-dovere di utilizzare tutte le informazioni ad essi disponibili, provenienti da fonti qualificate, per compiere una valutazione effettiva e attuale della correttezza della qualificazione dello Stato terzo come Paese di origine sicuro, indipendentemente dal fatto che l’autorità che lo ha così designato abbia reso note le fonti e le informazioni su cui ha basato le proprie valutazioni oppure no”. Con il quarto rinvio alla CGUE il Tribunale di Roma, proprio riferendosi alle conclusioni della sentenza della CGUE del 4 ottobre, ritiene, sulla base di un’interpretazione che ritengo corretta del diritto UE, che “un Paese terzo non possa essere considerato sicuro se tale non è per gruppi di individui, sia che ciò dipenda dalla porzione di territorio in cui si trovano o potrebbero trovarsi” (...) sia che dipenda dalla “categoria di soggetti alla quale appartengono”. Ritengo molto importante la valutazione del Tribunale laddove evidenzia in particolare che “l’applicazione di una procedura accelerata appare incompatibile con l’esistenza di situazioni di persecuzione, discriminazione e maltrattamento come quelle relative a categorie di persone: tali situazioni, infatti, emergono normalmente soltanto all’esito di un’approfondita istruttoria sulla situazione di ogni singolo richiedente protezione, possibile esclusivamente nelle procedure amministrative ordinarie di esame della domanda di protezione, che permettono tempi adeguati di analisi e valutazione della posizione individuale del richiedente e sono soggette eventualmente ad impugnazione attraverso ricorsi in sede giurisdizionale esperibili entro termini di decadenza non stringenti”. Muovendosi su una linea di pensiero non molto dissimile da quella del Tribunale di Bologna che ha anch’esso effettuato un rinvio pregiudiziale alla CGUE (Ordinanza R.G. 14572-1/2024) e di cui ho scritto sull’edizione del 30 ottobre 24, il Tribunale di Roma chiede ora dunque alla CGUE se non sia in contrasto con il diritto europeo una disposizione che designi un Paese di origine come sicuro se esso non può essere designato come tale per determinate categorie di persone. Il lettore mi scuserà per l’inevitabile ricorso a qualche tecnicismo, ma sono certo che da quanto sopra esposto coglierà bene come i quesiti interpretativi posti dal Tribunale di Roma siano chiari e precisi e che nell’ordinanza che a molti ancora fa scandalo non ci sia invero nulla di politicamente pretestuoso. Il problema sta da tutta un’altra parte: come ho già ricordato nell’edizione del 23 ottobre 24 la nozione di “paese di origine sicuro” è una nozione giuridica definita dalla Direttiva 2013/32/UE (e nell’Allegato 1) e non già un concetto politico liberamente disponibile alla politica interna ed estera, come invece vorrebbe il Governo italiano. Sostenere (e volerlo persino imporre per legge) che Paesi devastati dalla violenza politica e da conflitti interni siano considerati di origine sicura, come lo sono molti dei Paesi dichiarati tali dal Governo italiano, rappresenta una distorsione enorme e non accettabile dei criteri e principi previsti dal diritto UE. Non a caso nessuno Stato UE ha ad esempio inserito l’Egitto, dove è stato torturato ed ucciso Giulio Regeni (e dove migliaia di persone vengono fatte sparire o torturate nelle carceri come ricorda anche la storia di Patrick Zaki) tra i paesi di origine sicura. Credo che a nessuno verrebbe mai in mente una simile scelta, tranne che al triste Governo italiano, così inadeguato a temporaneamente guidare quella stessa Repubblica che alla sua Costituzione (art. 10 c.3) tutela il diritto d’asilo tra i diritti fondamentali della persona. Un Paese come la Nigeria dilaniato dai conflitti interni compariva anch’esso tra i paesi di origine sicura fino a poco fa quando è stato depennato grazie alla richiamata sentenza della Corte di Giustizia. Non avrebbe però mai dovuto comparire nell’elenco, lo stesso in cui ancora c’è la Georgia, dove ben due regioni secessioniste, l’Ossezia del nord e l’Abkhazia, con l’appoggio di Mosca, sono di fatto separate dal resto del Paese. Compariva (dove c’è tuttora) nella lista italiana il Bangladesh mentre erano in corso le repressioni politiche del precedente Governo di quel Paese che hanno prodotto centinaia di morti, specie tra gli studenti. E si potrebbe continuare su altri Paesi, ma non ve n’è bisogno perché il punto è chiaro. Ciò che colpisce in questa storia che molti cittadini italiani non comprendono perché la guardano erroneamente come fosse una battaglia tra poteri dello Stato condotta a colpi di cavilli legali su temi astrusi, è l’atteggiamento arrogante dell’Esecutivo che pretende di imporre in ogni modo la sua volontà come se quelle regole e limiti che caratterizzano un ordinamento democratico, e che dunque limitano il potere di qualunque Esecutivo, non esistessero e tutto fosse per così dire “a libera disposizione” di coloro che detengono temporaneamente il consenso. Una storia dunque molto pericolosa per noi, non solo per gli stranieri che ci chiedono asilo. AfD tedesca, e probabilmente anche quello dei Patrioti di Orban. I socialisti non hanno ancora deciso ma sono orientati al semaforo verde, quando si arriverà davvero al momento del voto, slittato a data da destinarsi per dar tempo alla presidente di mediare e salvare la sua commissione ma, secondo il capogruppo FdI a Strasburgo Fidanza, anche perché si sarebbero creati problemi sul nome della commissaria al Green Deal e alla Concorrenza Teresa Ribeira, socialista spagnola in seguito alla gestione dell’alluvione a Valencia. Migranti. Contro i giudici il governo ripristina l’Appello, ma non calcola l’effetto-valanga di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2024 “Più di 30mila ricorsi l’anno, a rischio i target Pnrr”. Per contrastare le decisioni sgradite, l’esecutivo ha reintrodotto il reclamo in materia di asilo abolito nel 2017. Una scelta che rischia di avere effetti indesiderati: secondo il Csm, la nuova competenza aggraverà i carichi di lavoro delle Corti d’Appello fino al 37%, compromettendo il raggiungimento degli obiettivi del Piano. Una valanga di oltre trentamila ricorsi l’anno destinati a piombare in pochi mesi sulle Corti d’Appello, aggravando i carichi di lavoro di quasi il 40% e mettendo a rischio i target Pnrr. È il potenziale impatto degli ultimi decreti in materia di immigrazione, il decreto Flussi dell’11 ottobre e il decreto Paesi sicuri del 23 ottobre, nei quali il governo, per contrastare le decisioni sgradite arrivate dai giudici di primo grado, ha reintrodotto il ricorso in Appello contro i provvedimenti dei Tribunali in materia di asilo, abolito nel 2017 (finora le decisioni erano impugnabili soltanto in Cassazione). Una scelta che rischia di avere un pesantissimo effetto indesiderato, stimato dall’Ufficio statistico del Consiglio superiore della magistratura in un apposito studio, citato in due delibere approvate nel corso dell’ultimo plenum. Secondo il Csm, i decreti del governo sono destinati a produrre una zavorra di fascicoli in grado di compromettere il raggiungimento degli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che impongono di abbattere del 90%, entro la metà del 2026, il numero di cause civili pendenti alla fine del 2022. Insomma: per provare a ottenere qualche decisione favorevole in più, il governo rischia di mancare perdere miliardi di finanziamenti europei. La prima delibera ad affrontare la questione è quella sulla determinazione dei carichi esigibili, cioè la quantità massima di lavoro richiedibile a un singolo magistrato a parità di funzioni. Nel testo, i due decreti del governo sono presentati come un “elemento di novità che inciderà notevolmente sui carichi di lavoro complessivi delle Corti d’Appello”, avendo “significativamente ampliato” le loro competenze. Il Csm cita quindi una “prima analisi” dell’Ufficio statistico sull’impatto delle nuove norme, condotta “prendendo le mosse dai procedimenti iscritti in primo grado” in materia di immigrazione nel periodo 1° luglio 2023-30 giugno 2024, che ammontano a 80.556. Sulla base di questo numero e dei tassi di impugnazione, si legge, “è possibile stimare in oltre trentamila i procedimenti che presumibilmente verrebbero impugnati; ovvero tra 30.611 (38% degli iscritti in primo grado) e 34.639 (43% degli iscritti in primo grado)”. Questa montagna di nuovi processi andrà ad aggiungersi in pochi mesi all’arretrato delle Corti d’Appello e finirà per costituire oltre un terzo del loro lavoro, da trattare peraltro in via prioritaria (la decisione va presa entro venti giorni). I ricorsi stimati tra il luglio 2023 e il giugno 2024, infatti, “rappresenterebbero il 33-37% dell’ammontare complessivo” dei procedimenti iscritti nelle Corti nello stesso periodo, pari a 92.514. Date queste premesse, la conclusione del Consiglio è inevitabile: “L’impatto reale di tale riforma sui carichi esigibili sarà oggetto di attenta valutazione nella prossima delibera annuale, ma stando ai dati riportati, rischia da subito di compromettere gli obiettivi Pnrr per le Corti d’Appello”. Lo stesso avvertimento, peraltro, era stato già lanciato all’unanimità dai 26 presidenti delle Corti d’Appello del Paese all’indomani dell’approvazione del decreto Flussi, chiedendo un ripensamento al ministro della Giustizia Carlo Nordio: l’intervento, scrivevano, “renderebbe assolutamente ingestibili i settori civili di tutte le Corti, impegnate, con ridotti organici di magistrati e di personale amministrativo, nello sforzo di raggiungere gli obiettivi del Pnrr per la giustizia, in particolare quello della riduzione dei tempi processuali”. Il “ripristino del reclamo al giudice di secondo grado”, si leggeva nella lettera, “sconvolge un assetto ormai consolidato che ha assicurato un’adeguata tutela dei diritti e, al tempo stesso, la sostenibilità dell’intervento giudiziario”. Per tutta risposta però il governo ha rilanciato col decreto Paesi sicuri, introducendo il reclamo persino contro le sospensioni dei provvedimenti di allontanamento disposte dal Tribunale in sede di appello contro le decisioni della Commissione territoriale (l’autorità amministrativa competente in primo grado). Le nuove norme saranno operative trascorsi trenta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto Flussi, attualmente all’esame del Parlamento. L’impatto delle nuove leggi è definito “assorbente” e “dirimente” anche nel parere sullo schema di decreto legislativo sulle piante organiche dei Tribunali per minori, persone e famiglia, il nuovo organo specializzato istituito dalla riforma Cartabia del processo civile, destinato a entrare in funzione a ottobre 2025 dopo che il ministero della Giustizia ha fatto slittare di un anno il termine originario. Il governo, infatti, vorrebbe assegnare a questi uffici una grande quantità di personale togliendolo proprio alle Corti d’Appello, che in teoria nei prossimi anni dovrebbero “respirare” grazie allo spostamento al nuovo organo della competenza su molte materie di diritto civile. I numeri presi in esame dal ministero, sottolinea però il Consiglio, “risultano oggi stravolti dall’entrata in vigore” dei nuovi decreti, che produrrà gli effetti devastanti descritti dall’Ufficio statistico. “Tali dati”, si legge nella delibera, “impongono di ritenere superata l’analisi ministeriale posta alla base dello schema di decreto in oggetto, tanto in termini di contingente complessivo di unità da destinare” al Tribunale per le persone, “quanto in termini di distribuzione delle risorse tra le diverse sedi, con la conseguente esigenza di un nuovo studio che tenga conto degli impattanti effetti della sopravvenuta normativa primaria”. Pertanto, è la conclusione, si rende “auspicabile e indispensabile un ulteriore differimento dell’entrata in vigore” del nuovo organo giurisdizionale. Un altro grande successo del governo, e tutto per qualche espulsione (forse) in più. Favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, politiche del governo di nuovo sotto esame di Vitalba Azzollini* Il Domani, 13 novembre 2024 Nelle prossime settimane, la Corte di Giustizia Ue valuterà se la normativa europea e quella italiana in tema di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare rispettano la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Se la Corte riscontrasse violazioni, sia il legislatore Ue che quello nazionale dovrebbero intervenire sulle relative discipline. Se i giudici si ostinano a verificare la conformità delle norme rispetto al diritto dell’Unione europea, ciò non significa che abbiano preso di mira le politiche del governo Meloni in tema di immigrazione. Basti pensare alla questione pregiudiziale circa il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, sollevata dal tribunale di Bologna dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Ue. I dubbi del tribunale riguardano in primis la normativa europea, e solo di conseguenza anche la legge nazionale che la attua. I fatti - Nel 2019, una donna di origine congolese, al varco di frontiera dell’aeroporto di Bologna aveva esibito documenti falsi per sé e due minori, la figlia e la nipote, ed era stata arrestata con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, aggravato dall’utilizzo di un servizio di trasporto internazionale (l’aereo) e di documenti contraffatti. Il tribunale di Bologna aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale relativamente alle aggravanti del reato, per contrasto con i principi di uguaglianza, ragionevolezza e di proporzionalità della pena. Nel marzo 2022, la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità della norma sulle aggravanti. Nel luglio 2023, il tribunale ha rimesso il caso alla Corte di giustizia Ue per valutare se l’impianto normativo europeo in tema di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, conosciuto come “Pacchetto facilitatori”, e la legge italiana che lo attua siano compatibili con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La disciplina Ue e nazionale - Il “pacchetto facilitatori”, composto da una direttiva Ue (2002/90) e da una decisione quadro del Consiglio europeo del 2002, impone agli Stati Ue di sanzionare “chiunque intenzionalmente aiuti una persona non cittadina (…) a entrare o transitare nel territorio di uno Stato membro in violazione delle leggi di detto Stato”. Tuttavia, “ciascuno Stato membro può decidere di non adottare sanzioni” per chi agevoli l’entrata dello straniero al solo fine di “prestare assistenza umanitaria alla persona interessata”, quindi senza alcun guadagno finanziario. In sintesi, gli Stati Ue hanno l’obbligo di introdurre il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, ma solo la facoltà di prevedere una scriminante “umanitaria”. In Italia la normativa Ue è stata attuata dall’articolo 12 del Testo Unico sull’Immigrazione, che punisce il reato (reclusione da due a sei anni e multa di 15.000 euro) senza alcuna eccezione umanitaria. L’articolo prevedeva inoltre aggravanti, che - come detto - sono state abolite con la sentenza della Consulta. Il contrasto con la Carta dei diritti fondamentali Ue - Il tribunale di Bologna ha chiesto alla Corte di giustizia di valutare se la normativa europea, prevedendo la criminalizzazione del favoreggiamento dell’immigrazione irregolare senza alcuna esimente per chi agisca a scopi umanitari o per obblighi familiari, violi la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue: in particolare, il principio di proporzionalità (art. 52, paragrafo 1), letto congiuntamente a diritti sanciti dalla Carta stessa, come quello alla libertà personale (art. 6), alla proprietà (art. 17), alla vita (art. 2), all’integrità fisica (art. 3), all’asilo (art. 18), alla vita familiare (articolo 7). Il tribunale ha altresì chiesto alla Corte di valutare se pure l’art. 12 della legge italiana, non escludendo la responsabilità di chi agisca senza scopo di lucro, violi tali disposizioni. L’avvocato generale della Corte di Giustizia Ue, nelle conclusioni del 7 novembre scorso, ha affermato - tra l’altro - che spetta agli Stati membri adottare una legislazione proporzionata, cioè che consenta al giudice di “differenziare l’incriminazione di una persona che ha agito per scopi umanitari” da quella di chi sia mosso esclusivamente dallo “scopo di lucro”. Gli esiti - La decisione della Corte, attesa tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025, potrebbe confermare la validità del “pacchetto facilitatori” oppure ritenere incompatibili con la Carta dei diritti fondamentali Ue alcune disposizioni, specificamente quella che prevede la mera facoltà, e non l’obbligo, per gli Stati membri, di esonerare da responsabilità chi abbia agito per motivi umanitari. In questo secondo caso, la Commissione Ue dovrebbe intervenire sulla normativa europea. Ma anche l’esecutivo italiano dovrebbe riformulare la disciplina sul reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Ne resterebbe travolto anche il “reato universale”, sancito dal decreto Cutro, con cui Meloni ha preteso di perseguire il favoreggiamento stesso su “tutto il globo terracqueo”. Le inevitabili lamentele sulla congiura dei giudici sarebbero ancor più che in altri casi prive di qualunque fondamento. Un mondo diverso di Walter Veltroni Corriere della Sera, 13 novembre 2024 Con Trusk (Trump più Musk) si apre una nuova epoca. E ci saranno ricadute anche sulle democrazie e sull’Europa. Come sarà il mondo nell’epoca Trusk? Temo che sbagli chi pensi, anche tra i sostenitori europei, che gli impegni di radicale trasformazione dell’assetto dello Stato e delle relazioni internazionali dell’America, promossi da Trump con il sostegno di Musk, siano solo boutade furbacchione di campagna elettorale, buone per accalappiare i voti popolari e buone per essere messe nel cestino stracolmo delle promesse tradite dai candidati alla presidenza degli Usa. In fondo, ho ascoltato dire da molti, nel primo quadriennio, un’era fa nel frenetico tempo digitale, cosa è cambiato? Sì, cose come la revoca degli accordi sul clima e il sabotaggio del Medicare di Obama con manovre che produssero più di due milioni di persone senza assicurazione sanitaria. Ma in altri campi, di politica finanziaria o di relazioni internazionali, non si sono visti allora significativi e radicali cambiamenti tra le diverse amministrazioni. Credo però che stavolta sarà diverso. Credo che lungo l’asse del pensiero millenarista di Musk e delle suggestioni apocalittiche di Bannon, conosceremo un tempo di cambiamenti sostanziali, non di continuità. Sarà così, lo stiamo vedendo, in Ucraina e sarà interessante seguire le contorsioni della politica europea nel momento in cui Zelensky sarà lasciato solo e ci si affiderà al self control espansionistico di Putin nella speranza che non intenda andare oltre le conquiste militari già acquisite o in rapida acquisizione. Il mondo non è più nell’equilibrio del passato e tutto è possibile. Putin lo ha lucidamente capito, parlando della inedita condizione geopolitica e coltivando l’idea di una nuova grandezza russa con la costituzione di una potenza euroasiatica in grado di competere con il colosso cinese. Il mondo cambia i suoi equilibri e in questo contesto il processo di depotenziamento dell’Unione Europea, corrosa dai sovranismi e dai nazionalismi populistici animati negli stati membri, è funzionale a una strategia di ridisegno dei rapporti di forza, economici e finanziari. Se la Nato sarà più debole, se le strategie di autentica integrazione europea - le politiche di difesa e di bilancio - saranno messe sul binario morto, si affermerà la prospettiva di un mondo fatto di tre fortezze, la Russia, la Cina e gli Usa alimentate delle debolezze degli altri mercati e di stati nazionali fiaccati dai dazi e costretti a trattare uno per uno con i grandi arbitri le proprie condizioni di sicurezza e di scambio. Lo ha detto con grande chiarezza Steve Bannon nella illuminante intervista di Viviana Mazza: “Sì, i dazi stanno arrivando, dovrete pagare per avere accesso al mercato Usa. Non è più gratis, il libero mercato è finito”. C’è, pure a destra, poco da ridere e poco da festeggiare, anche per il tono aggressivo e intimidatorio usato nei confronti di chi presiede il governo del nostro paese. Credo dunque che la strategia del blocco Trusk sia più ampia e debba essere considerata per quello che è, senza presuntuose riduzioni a folclore di una linea che è nutrita di analisi, mezzi, intenzioni chiare. Si è fatta strada, Musk non fa che ripeterlo, l’idea che la democrazia, come meccanismo fondato sul voto popolare e sull’intermediazione rappresentata dalla delega, a cominciare dai Parlamenti, sia un orpello pesante e incongruente per una società dell’istante come è diventata quella digitale. Da questo punto di vista è paradossale che la critica della globalizzazione si appoggi però sul postulato che l’unica dimensione universale consentita è quella dei mercati tecnologici, almeno nella sfera del consumo e nelle dinamiche comunicativo relazionali con i social elevati a camera globale. Musk ha sostenuto recentemente che giornali e televisione non servono a garantire comunicazione, che l’unica verità possibile sia quella prodotta da decine di milioni di persone che nello stesso tempo immettono in rete punti di vista e notizie, poco conta se fondati o no sulla realtà. Centomila che diventano nessuno e uno, uno solo, che decide. Lo schema è lo stesso che si applica in politica: consentire un confuso rumore di fondo, non importa quanto critico, mentre un uomo della provvidenza assume decisioni in nome del popolo. Allo stesso modo sui social gli algoritmi regolano i rapporti di forza tra i singoli isolati e le macchine sofisticate che inondano di news, reali o inventate, la rete nella quale si consuma il bisogno di conoscenza e l’illusione di relazione. Depotenziata la comunicazione, imbrigliata la magistratura, diffusa e legittimata l’intolleranza con parole ieri impronunciabili, ci si ritrova laddove il blocco Trusk ha onestamente detto agli elettori di voler andare: verso un mondo diverso. Non si può rimproverare furbizia o mascheramento delle intenzioni. I Trusk hanno detto con nettezza la loro strategia e su quel progetto hanno ottenuto un inequivoco successo elettorale. Fast and furious. Il primo martedì di novembre non hanno vinto i repubblicani, sta nascendo qualcosa di più: un progetto di potere per questo tempo rivoluzionario. Balbettare flebilmente la ripulsa di tutto questo in nome del politicamente corretto o discutere appassionatamente se si debba, a sinistra, essere più moderati o più estremisti, è un diletto per perditempo. Roosevelt, con Mussolini al potere e la grande depressione in casa, non organizzò un flashmob, inventò il New Deal. Stati Uniti. Le improponibili deportazioni promesse da Trump di Massimo Ambrosini Avvenire, 13 novembre 2024 Donald Trump, a quanto trapela, non perde tempo nel concretizzare le sue promesse elettorali. Tra queste, si profila l’impiego di risorse del Pentagono, dunque in teoria destinate alla difesa, per realizzare il progetto di deportare tutti gli immigrati che vivono e lavorano degli Stati Uniti senza autorizzazione. Il neoeletto presidente ha alzato la posta: non ha soltanto rilanciato l’idea di completare il lungo muro con il Messico, ma intende anche sradicare ed espellere persone che si sono insediate negli Stati Uniti da molti anni, hanno trovato occupazione, pagato le tasse, costituito delle famiglie, a volte avviato delle imprese o intrapreso studi universitari. Anche negli Usa per tutti i reati ci sono norme di prescrizione, ma non per l’immigrazione irregolare: è una colpa incancellabile. Il primo banco di prova per un programma di questo genere riguarda la fattibilità, come ha ricordato Elena Molinari su questo giornale. Stiamo parlando di una popolazione stimata in 10,9 milioni di persone nel 2022. Più degli abitanti della Lombardia e di diversi Stati Usa. Già si parla infatti di campi di detenzione dove rinchiuderli, in vista della deportazione. Ma con una popolazione di quelle dimensioni, la presidenza Trump dovrà predisporre strutture enormi, con tutti i costi relativi. Tra i candidati all’espulsione figurano anche molti minorenni e molti genitori di figli che, essendo nati sul territorio nazionale, per legge sono cittadini statunitensi. I genitori saranno posti di fronte al disumano dilemma tra lasciare i figli negli Stati Uniti, detenuti in condizioni deprecabili, e portarli con sé, in paesi di origine che non conoscono, dopo aver iniziato un percorso educativo nel paese in cui sono nati. L’eventualità di permessi per cure genitoriali è esclusa dall’ideologia della destra intransigente, che ha già coniato un termine per screditare ogni concessione umanitaria: parla di “bambini-paracadute”, intendendo che i genitori mettono appositamente al mondo dei figli per potersi insediare negli Stati Uniti approfittando dei diritti genitoriali. Una linea di tolleranza zero è confermata indirettamente dalla notizia che il responsabile del programma di deportazione dovrebbe essere Tom Homan, regista della separazione dei bambini dai genitori sotto la precedente presidenza Trump. Problemi più consistenti potrebbero essere frapposti al programma trumpiano dagli interessi economici. L’argomento è intriso di cinismo, ma non facilmente aggirabile. Importanti settori economici, come l’agricoltura californiana, dipendono largamente dal lavoro degli immigrati irregolari: in quel caso, si stima, garantiscono più della metà delle giornate di lavoro. Lo stesso discorso vale per le famiglie e i servizi domestici, o per l’edilizia e i servizi alberghieri. Trump presumibilmente offrirà ai datori di lavoro più ingressi regolari, come aveva già fatto a suo tempo. Ma la sostituzione, ammesso che avvenga, non sarà né semplice né immediata. Rimpiazzare dei lavoratori già sperimentati, socializzati al lavoro, abituati ai ritmi e alle regole, con altri neoarrivati e inesperti, è un’impresa impegnativa, prolungata, e tutta a carico dei datori di lavoro. Lo scenario più attendibile è quindi quello di un’operazione simile a varie altre messe in campo dalla politica sovranista, compreso l’accordo Italia-Albania: Trump prenderà qualche iniziativa clamorosa, rinchiuderà delle famiglie in qualche struttura detentiva, separerà i bambini dai genitori, deporterà qualche migliaio di malcapitati, magari residenti negli Stati Uniti da molti anni, rovinando la vita di persone spedite dopo anni in Paesi insicuri e impoveriti con cui non hanno più legami. L’impatto mediatico sarà notevole, e si leveranno proteste. Ma anche le proteste faranno il gioco di Trump: daranno all’opinione pubblica l’impressione che il presidente tira dritto, e attua il suo programma inflessibilmente. L’immigrazione irregolare non scomparirà affatto, dovrà nascondersi di più e vivere nella paura. Ma non verrà di certo a mancare ai datori di lavoro che la sfruttano. Elezioni Usa, solo la cannabis resiste alla valanga di Bernardo Parrella Il Manifesto, 13 novembre 2024 La recente tornata elettorale nel Stati Uniti prevedeva, oltre all’elezione del Presidente e al parziale rinnovo del Congresso e del Senato, una serie di “ballot” locali sul fronte droga. Pur se di segno alterno, i risultati confermano il taglio antiproibizionista, riguardo soprattutto alla cannabis. A cominciare dal successo pieno in Kentucky, con l’OK a tutte le 106 ordinanze atte a consentire l’apertura di dispensari in altrettante contee e città: passo necessario onde superare i divieti locali scattati dopo l’approvazione statale, lo scorso anno, della marijuana terapeutica. Oltre 340.000 i voti favorevoli complessivi in giurisdizioni di taglio soprattutto repubblicano, a conferma del sostegno ormai bi-partisan alla riforma delle persistenti restrizioni federali. Queste ordinanze vanno ad aggiungersi alle oltre 40 città che avevano già approvato l’avvio dei dispensari, che inizieranno ad operare nel gennaio 2025, dopo la cernita delle circa 4.000 domande già presentate. Anche in Nebraska gli elettori hanno detto Sì a due referendum similari (con un netto 70% e 67%), la cui applicazione resta tuttavia in attesa della decisione finale dei giudici per il ricorso presentato dal fronte oppositore. Questo è il terzo tentativo dei promotori per superare simili intoppi, dopo aver presentato in estate quasi 115.000 firme ciascuno a sostegno delle due normative. In Texas, la depenalizzazione per uso personale è passata ad ampia maggioranza nelle città di Dallas, Bastrop e Lockart, nonostante l’opposizione del governatore e del procuratore generale statali. In Oregon il 55% degli elettori ha approvato il “ballot” a sostegno di lavoratori e addetti della cannabis a formare sindacati e concordare contratti di lavoro collettivi. Una misura importante a ulteriore consolidamento di un settore in rapida ascesa, dopo la piena regolamentazione approvata nel lontano 2014. Niente da fare invece per la legalizzazione della marijuana ricreativa in Florida. Nonostante l’aperto appoggio di Trump e una rigorosa campagna d’informazione, l’Amendment 3 si è fermato al 57%, al di sotto della soglia del 60% necessaria per approvare l’emendamento costituzionale. Pur se diversi poll ne avevano previsto il successo, è risultata decisiva l’opposizione del governatore Ron DeSantis e della maggioranza repubblicana nel parlamento statale. Analogo risultato sia nel South che nel North Dakota: rispettivamente, il 55% e il 52% degli elettori ha detto No alla regolamentazione della cannabis per gli adulti, dopo un identico esito negativo registrato già nel referendum del 2022. Invece in Massachusetts è stata bocciata la Question 4 (58%), mirata a depenalizzare uso, coltivazione e consumo personale di piccole quantità di sostanze quali psilocibina (nei funghi), ibogaina, mescalina e Dimetiltriptammina (DMT). Nonostante il forte impegno degli attivisti e il ritorno di fiamma degli psichedelici in ambito terapeutico, il dato risente della decisione estiva della Food and Drug Administration (FDA) di negare l’approvazione dell’MDMA come coadiuvante della psicoterapia nel trattamento del Disturbo da stress post-traumatico (PTSD), suggerendo maggior cautela e ulteriori studi scientifici. In California è passata la Proposition 36, misura sostenuta da pubblici ministeri, colossi aziendali e strutture carcerarie che, pur promettendo di offrire terapie per i tossicodipendenti dopo l’arresto, in realtà finirà per sottrarre risorse a prevenzione, reinserimento e riduzione del danno. Come chiarisce la Drug Policy Alliance, “questa sorta di guerra alla droga 2.0 apparentemente offre soluzioni rapide a problemi creati da decisioni politiche sbagliate e dal disinvestimento dai sistemi di supporto sociale. Occorrono invece soluzioni concrete, tra cui servizi d’assistenza, trattamenti basati sull’evidenza e prevenzione diffusa, onde salvare la vita e migliorare le condizioni dei consumatori”. Premiato Dawit Isaak, il giornalista eritreo detenuto da 23 anni africarivista.it, 13 novembre 2024 Dawit Isaak, giornalista eritreo e svedese detenuto senza processo in Eritrea da 23 anni, ha ricevuto il prestigioso premio svedese Edelstam per i diritti umani, in riconoscimento del suo impegno per la libertà di espressione. Il premio, assegnato dalla Fondazione Edelstam, è stato conferito per “il suo eccezionale coraggio” nella difesa dei diritti umani. Il premio Edelstam, che celebra l’impegno in difesa dei diritti umani, verrà ufficialmente consegnato il 19 novembre a Stoccolma. Poiché Isaak è ancora detenuto in Eritrea, la figlia Betlehem Isaak ritirerà il premio in sua vece. Isaak, fondatore del quotidiano indipendente eritreo Setit, è stato arrestato nel 2001 dopo che il suo giornale ha pubblicato lettere che chiedevano riforme democratiche. Il suo arresto faceva parte di una ampia repressione governativa che ha coinvolto due dozzine di figure di spicco, tra cui alti funzionari, parlamentari e giornalisti indipendenti. Da allora, il governo eritreo ha mantenuto il silenzio riguardo alla sua posizione e alle sue condizioni di salute. Si presume che molti degli altri arrestati insieme a lui siano morti. Attraverso Setit, Isaak ha criticato duramente il regime eritreo e ha lanciato appelli per la libertà di stampa e la democrazia, azioni che hanno portato al suo arresto. La Fondazione Edelstam ha chiesto il suo rilascio, sollecitando le autorità eritree a rivelare la sua posizione e a permettergli di avere accesso a un avvocato e a un’assistenza consolare. Caroline Edelstam, presidente della giuria del premio, ha dichiarato: “Dawit Isaak è il giornalista detenuto da più tempo al mondo. Siamo profondamente preoccupati per la sua salute, non sappiamo dove si trovi, non è accusato di crimine e gli è stato negato il diritto alla famiglia, all’assistenza consolare e legale: si tratta di una sparizione forzata”. La Fondazione ha anche lanciato un appello alla comunità internazionale affinché faccia pressione sull’Eritrea per la liberazione di Isaak e per sostenere le riforme nei diritti umani nel paese. L’Eritrea, dove Isaak è stato arrestato, è l’unico Paese africano senza media privati, avendo chiuso tutte le testate indipendenti nel 2001, con il pretesto della “sicurezza nazionale”. Dal 1993, anno dell’indipendenza, non si tengono elezioni e il presidente Isaias Afwerki è al potere da quasi 31 anni.