In carcere, senza educatori e progetti. “Minori in cella a rischio abbandono” di Ilaria Beretta Avvenire, 12 novembre 2024 Strutture sovraffollate con sporcizia per terra e materassi dove si annida pure la scabbia. Cosi gli Ipm, a lungo fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano, si sono trasformati in una bomba ad orologeria. “Una delle comunità più abbandonate del nostro Paese”. È così che don Domenico Cambareri definisce gli istituti penali per minorenni (Ipm), a lungo considerati fiore all’occhiello del sistema italiano e un esempio a livello globale. Don Domenico non parla per sentito dire ma per quello che vede: dal 2020 è cappellano di uno dei 17 Ipm italiani, il Pietro Siciliani di Bologna, che recentemente ha raccontato anche in un libro per San Paolo dal titolo “Ti sogno fuori. Lettere da un prete di galera”. “A Bologna al momento sono reclusi 44 ragazzi, nei mesi scorsi siamo arrivati anche a 50, e in teoria - spiega Cambareri di ritorno da una giornata all’istituto - la capienza massima sarebbe di 40 unità. La differenza sembra poca cosa, soprattutto rispetto ai numeri delle carceri per adulti, ma non lo è: il personale degli Ipm è ai minimi termini (noi, per esempio, siamo sette) e basta che ci siano due o tre ragazzi in più per sbilanciare gli equilibri. Per capirlo bisogna pensare agli Ipm non come a delle carceri ma come a degli istituti scolastici in cui ogni giovane viene seguito da diverse figure: l’educatore, lo psicologo, l’insegnante. Se il loro numero non cresce ma aumentano i ragazzi da seguire ovviamente l’impatto è significativo e si perde la dimensione educativa con cui sono state create queste strutture. E poi saltano le opportunità formative, di inserimento lavorativo e di ascolto, perché il personale in affanno riesce a garantire solo il disbrigo delle pratiche burocratiche”. Eppure anche negli Ipm il sovraffollamento - denunciano i dati dell’ultimo rapporto stilato da Libera con il Gruppo Abele - è al 110% con 569 minori reclusi a fronte di 516 posti disponibili e appena cinque strutture che rispettano la soglia di capienza massima. Ma stipare più adolescenti del dovuto nelle celle “in condizioni igieniche - aggiunge il don - aberranti, con muri macchiati di cibo o anneriti da un tentato incendio, le cicche per terra, latrine e materassi sporchi dove si annida persino la scabbia”, inevitabilmente trasforma quei luoghi in una bomba ad orologeria. In effetti le cronache dell’anno consegnano generose esempi di proteste, incendi, casi di autolesionismo e tentativi di evasione. “Noi stessi - conferma don Domenico - quest’estate, con il caldo e le attività ridotte, abbiamo vissuto settimane complicate. La tensione era altissima”. Del problema si accorge chi vive gli Ipm ma anche il governo: il ministero della Giustizia, martedì scorso, ha inviato una nota ai sindacati di polizia penitenziaria per informare della volontà di creare un tavolo sulla criticità delle carceri per minorenni. Intanto ha annunciato l’apertura di quattro nuovi Ipm a Rovigo, L’Aquila, Santa Maria Capua Vetere e Lecce e da qualche settimana le uniformi - finora bandite dal sistema penitenziario minorile, che seguiva il principio dell’educazione più che della pena e della repressione - sono state messe di nuovo addosso agli agenti delle strutture per ragazzi per rendere più autorevoli gli agenti. “È un brutto segnale - commenta don Domenico - che dà l’idea del clima repressivo che si respira. Pur comprendendo la ratio con cui la misura è stata reintrodotta mi domando se la divisa sia la risposta giusta”. I tempi in cui gli Ipm erano una specie di isola felice rispetto alla situazione traumatica delle carceri per adulti sembrano ormai definitivamente archiviati. Da un lato il decreto Caivano, approvato nell’autunno 2023, ha allargato i reati perseguibili con la custodia cautelare e inasprito le misure per spaccio e, nonostante la criminalità minorile non sia in crescita (anzi, nel 2023, è diminuita del 4%), in due anni il numero dei giovani detenuti è aumentato del 48%. Dall’altro le comunità educanti, che dovrebbero accogliere i minori sottoposti a provvedimenti penali, sono in crisi: quelle in capo diretto al ministero della Giustizia sono appena tre (a Bologna, Catanzaro e Reggio Calabria), le altre - gestite da enti privati accreditati - soffrono per mancanza di personale e risorse economiche. Come se non bastasse al Nord, soprattutto nelle grandi città, si sono moltiplicati gli arrivi di minori non accompagnati per i quali manca una sistemazione. “Noi a Bologna - esemplifica Cambareri - abbiamo una maggioranza di tunisini, anche per la complicità delle mafie italiane e nordafricane legate allo spaccio degli stupefacenti e che coinvolgono i giovanissimi”. Se gli italiani hanno più possibilità di essere destinati ad altre soluzioni, visto che nel sistema gli Ipm dovrebbero essere solo l’ultima spiaggia, i minori non accompagnati sono abbandonati a se stessi e l’asticella dei diritti si abbassa, con spostamenti da una struttura all’altra che colpiscono soprattutto gli stranieri compromettendone il percorso. Ma non sono questi gli unici trasferimenti che coinvolgono gli Ipm. Con il decreto Caivano è aumentato anche il flusso di ragazzi che dagli istituti minorili passano a quelli per adulti. Teoricamente chi ha commesso un reato da minorenne può finire di scontare la pena negli Ipm anche se ha tra i 18 e 25 anni. Finora questa era la prassi. Oggi invece numerosi ragazzi vengono trasferiti nelle sezioni per adulti subito dopo aver compiuto 18 anni, tanto che per la prima volta nella storia degli Ipm il 60% di chi li abita è minorenne. “L’impressione è che i trasferimenti nelle carceri avvengano a scopo punitivo per i ragazzi più difficili ma questo significa abbandonare dei ragazzi a se stessi in un’età in cui hanno ancora bisogno di una rete educativa, segnarli in profondità e condannarli a perdersi. Si potrebbe fare molto meglio: c’è tanta bellezza in questi ragazzi sprecati”. Tenta il suicidio nel Cpa di Genova. Sono 17 gli “under 25” tra chi si è tolto la vita in carcere di Ilaria Beretta Avvenire, 12 novembre 2024 Era in isolamento perché aveva preso la scabbia e lì, in quella cella separata dalle altre, ha tentato di togliersi la vita stingendosi attorno al collo un laccio ricavato dai pantaloni. È successo nel Cpa, il Centro di prima accoglienza, di Genova e il protagonista di questa brutta storia è un ragazzo di origine egiziana di appena 17 anni che da circa una settimana era stato arrestato per furto. Per fortuna il minore è stato fermato in tempo e salvato da un agente della polizia penitenziaria, l’unico in servizio, che si accorto di quello che stava succedendo. “L’agente - ha spiegato Fabio Pagani, segretario regionale del sindacato Uil di polizia penitenziaria che ha dato notizia dell’accaduto - è entrato in cella senza indugio, rischiando il contagio. Però, non possiamo sempre sperare nei miracoli e nella professionalità; da qualche tempo si ha la netta sensazione di una sorta di disinvestimento nel Dipartimento giustizia minorile e comunità”. Per questo - continua Pagani - “sollecitiamo un potenziamento degli investimenti nel settore dei minori reclusi nel capoluogo ligure. Dall’inizio del 2024 sono ben 43 i giovani arrestati e presenti al Centro di prima accoglienza genovese con un solo poliziotto penitenziario in servizio”. Il caso di Genova non è certo un caso isolato anche se avere numeri certi sui comportamenti autolesionistici dei minori ristretti non è facile. Secondo l’associazione Antigone che monitora la situazione negli istituti penali per minori, nell’ultimo biennio sono stati segnalati ripetuti tentativi di suicidi a Cagliari, tre a Bologna, due ad Airola (Benevento) e uno, a settembre, a Catanzaro. A giugno un minorenne di origine maghrebina ha tentato di impiccarsi in cella nell’Ipm Malaspina, a Palermo, e a evitare il peggio, anche in questo caso, ci hanno pensato gli agenti. Anche scorrendo l’elenco dei detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri per adulti dall’inizio dell’anno, e che ad oggi sono 80, si trovano le storie di tanti giovanissimi. Ben 17 avevano meno di 25 anni: il più giovane, Youssef Barsom - con acclarati problemi psicologici - è morto a San Vittore, dove era appena stato trasferito contro al parere dei suoi tutori, dopo aver dato fuoco a un materasso: aveva appena compiuto 18 anni. Troppe rivolte, nelle carceri arriva il “negoziatore” di Luca Bonzanni Avvenire, 12 novembre 2024 In una bozza di decreto ministeriale spunta l’ipotesi di figure che avranno il compito di mediare durante le sommosse. A essere coinvolti saranno ispettori e sovrintendenti della Polizia penitenziaria. L’obiettivo è favorire la “de-escalation” dei soggetti coinvolti in risse. Previsti corsi formativi con esame. Alla base c’è la “necessità di adottare una gestione efficace degli eventi critici di natura particolarmente complessa che turbano gravemente l’ordine e la sicurezza degli istituti penitenziari”. Per farlo, anche nella polizia penitenziaria entreranno in servizio i “negoziatori”: figure nuove per il corpo (ma già presenti nella Polizia di Stato e nei Carabinieri), che avranno il compito di mediare durante rivolte, sommosse, proteste collettive o azioni di un singolo recluso che possano mettere a rischio l’incolumità di agenti, operatori, strutture, provando a scongiurare l’uso della forza. Il profilo di questo nuovo ruolo è contenuto nella bozza di un decreto del ministero della Giustizia da poco condiviso con i sindacati di categoria, per dar concretezza nei prossimi mesi a questa novità. Che matura - come si coglie in filigrana al documento - come tentativo di risposta alle crescenti tensioni che attraversano le carceri d’Italia. Il decreto finale andrà a definire il perimetro del nuovo ruolo: “Il negoziatore - si legge al primo articolo - interviene nei casi di eventi critici di speciale complessità che possono verificarsi in ambìto penitenziario e nello svolgimento dei compiti istituzionali del corpo di polizia penitenziaria, attuando le tecniche operative idonee rispetto al livello di rischio dello scenario e funzionali alla strategia stabilita per la gestione non conflittuale della situazione”. In particolare, “il ruolo del negoziatore è quello di favorire la de-escalation emotiva dei soggetti coinvolti, il contenimento della minaccia, prendere tempo, salvaguardare la tutela dell’incolumità dei presenti, creare i presupposti per la resa del soggetto e l’eventuale rilascio di ostaggi, consentire la risoluzione o riduzione del danno”. Non agirebbe in solitaria, ma sempre in raccordo con altri, perché - specifica la bozza - “l’attività di negoziazione è distinta dalla responsabilità decisionali”: in sostanza, “l’assunzione degli obiettivi strategici” della negoziazione “deve essere sempre ricondotta all’autorità competente”, ad esempio un magistrato, “sulla base degli sviluppi dell’attività in corso”. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) definirà poi un vero e proprio protocollo operativo; i negoziatori saranno incardinati nelle articolazioni territoriali Gruppo operativo mobile (il Gom, che ha compiti di interventi di alto profilo operativo), nel Nucleo investigativo centrale (che si occupa prevalentemente di indagini su criminalità organizzata e terrorismo) e nel Gruppo di intervento operativo della polizia penitenziaria (istituito a maggio per affrontare le emergenze in carcere). L’introduzione del negoziatore è un tassello che si affiancherebbe ad altre iniziative prese nell’ultimo periodo dal governo per rispondere ai turbamenti che attraversano gli istituti di pena, come l’istituzione - contestata dal mondo dell’associazionismo e dei penalisti - del reato di “rivolta in carcere” previsto dal Ddl Sicurezza ora in discussione al Senato. Ma cosa sta succedendo, nelle carceri italiane? Secondo l’ultimo report, del Garante nazionale dei detenuti basato sui dati del Dap, dall’inizio dell’anno e fino al 4 novembre si sono contate sei rivolte (contro le due dello stesso periodo del 2023), 177 “atti collettivi turbativi dell’ordine e della sicurezza” (+74%), 281 rifiuti collettivi di rientrare nelle celle (+64%). L’aspetto più rumoroso del dramma silenzioso e quotidiano che si consuma nelle celle: sono infatti 80 i detenuti che si sono tolti la vita da inizio anno, ormai vicini al record negativo del 2022 (84 suicidi), e 1.778 i tentati suicidi (+8%). La nuova figura del negoziatore della polizia penitenziaria si articolerebbe su due livelli: uno strettamente operativo, l’altro con compiti di docenza e di formazione e con la possibilità di intervenire nelle situazioni di “eccezionale gravità”. Il decreto fissa anche le modalità d’accesso alla specializzazione, riservata agli ispettori e ai sovrintendenti della polizia penitenziaria. Per gli “operativi” si prevede un corso della durata non inferiore a tre settimane presso “una scuola, istituto di istruzione o altra sede formativa decentrata designata dall’amministrazione”, con un esame finale; sarà poi necessario, “al fine di garantire il necessario mantenimento delle competenze”, effettuare “periodiche attività di aggiornamento professionale, anche presso altre forze di polizia, e conseguire le relative valutazioni positive”. La corsa dell’esecuzione penale esterna (che non rallenta il sovraffollamento delle carceri) garantedetenutilazio.it, 12 novembre 2024 Incremento del 54% in cinque anni per coloro che si trovano in condizione di limitazione extramuraria della libertà. Secondo gli i dati più recenti (riferiti al 31 ottobre di quest’anno) le persone complessivamente in carico agli uffici dell’esecuzione penale esterna del nostro Paese sono 140.744 di cui 93.028 sottoposte a misure di esecuzione penale esterna o di comunità. Poco meno di cinque anni fa -il 15 dicembre 2019- erano rispettivamente 102.119 e 60.360. In questi cinque anni si è quindi verificato un incremento del 38% per il numero complessivo di persone in carico agli uffici e del 54% per coloro che si trovano in condizione di limitazione extramuraria della libertà. D’altro canto, come ci si dovrebbe attendere, a tale incremento non è corrisposto un andamento decrescente dei detenuti presenti che al 31 ottobre di quest’anno sono cresciuti del 2% rispetto al periodo precedente la pandemia da Covid 19 e del 15% in confronto al 31 dicembre 2021 e cioè dopo la fine di tale emergenza. Considerando in maniera più attenta i dati relativi alle misure alternative alla detenzione e di comunità, la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova ai servizi sociali rappresentano il 49%, mentre le misure e sanzioni di comunità il 41% il restante 11%. è costituito infine da altre misure di sicurezza e sanzioni sostitutive. Le percentuali e le proporzioni tra misure alternative alla detenzione e misure di comunità risultano sostanzialmente stabili nel tempo mentre è cresciuta l’incidenza delle sanzioni e pene sostitutive passate dallo 0,6% del 2019 al 5% di quest’anno. E’ interessante anche sottolineare che il 68% delle pene o sanzioni alternative coinvolge persone provenienti dalla libertà o dagli arresti domiciliari mentre coloro che vi accedono provenendo dagli istituti di pena sono il restante 32%. Tale proporzione risulta anch’essa stabile nel tempo perché alla data del 15 dicembre 2019 le persone in misura alternativa che provenivano dalla detenzione costituivano il 35%. In particolare va segnalato che, nel periodo considerato le persone in esecuzione penale esterna provenienti dalla liberà si sono incrementate di circa dieci mila unità, quelle provenienti dalla detenzione sono cresciute invece della metà, cioè di cinque mila unità. In sostanza da questi dati risulta piuttosto evidente che il sistema di esecuzione penale esterna riguardi prevalentemente un target di persone esterne al circuito carcerario e, che conseguentemente, incida solo marginalmente sulle condizioni di grave e continua crescita del sovraffollamento degli istituti penitenziari del Paese. Questa impressione viene confermata con maggiore evidenza anche dalla valutazione delle dinamiche relative al numero di detenuti in attesa di giudizio o con pene residue inferiori a tre anni che in buona parte potrebbero rientrare nel circuito dell’esecuzione penale esterna. Infatti, al notevole incremento delle persone in esecuzione penale esterna non è corrisposta una riduzione dei numeri delle persone in carcere che, invece, stanno continuando a crescere in maniera molto consistente soprattutto negli ultimi due anni. Tale fenomeno in particolare risulta addirittura accentuato nel Lazio dove a fronte di un incremento del 95,4% delle persone in esecuzione penale esterna corrispondono numeri in crescita sia dell’insieme dei detenuti (del 11% rispetto al 2019) e di coloro con pene residue inferiori a 3 anni (nell’ordine del 3%). Il carcere non può essere l’unica soluzione di Barbara Rosina huffingtonpost.it, 12 novembre 2024 Mi piacerebbe che dovunque ci fossero luoghi e competenze di aggregazione e di ascolto. Assistenti sociali, psicologi, psichiatri, infermieri, educatori, volontari, medici, persone che semplicemente abitano nel quartiere. Luoghi e competenze gratuiti, senza etichette religiose o d’altro tipo. Useremo vecchi e nuovi media per dire che li abbiamo lasciati soli, che non li abbiamo educati bene, che non ci siamo accorti che erano disperati o violenti, che piangevano o che avevano una pistola, che non abbiamo saputo nulla dagli amici o dalla scuola, che i servizi non ci hanno aiutato. Ma intanto ragazze e ragazzi muoiono o uccidono, intanto ragazze e ragazzi colpiscono o vengono colpite e colpiti con parole o con pugni, intanto giovani donne subiscono violenza da giovani uomini. Napoli, Piacenza, Foligno. Sento legali incaricati dai loro clienti e non solo loro e non soltanto avvocati, per esempio altre persone vicine alle famiglie delle vittime, a invocare l’abbassamento della punibilità di chi commette reato. Sento genitori accusare, sento politici proporre ricette che non hanno saputo applicare o che, applicate, non hanno prodotto risultati. E dico, noi assistenti sociali, in tutto questo vociare cosa diciamo, soprattutto, cosa facciamo? Diciamo, poco, in verità perché il segreto professionale e il nostro codice deontologico non ci permettono di parlare dei casi specifici. Quello che facciamo, tanto, in verità, ma spesso distorto ad arte o incompreso: ascoltiamo, relazioniamo, attiviamo sistemi e luoghi di protezione. Ripeto - quando mi viene chiesto - che, se attivati, ci muoviamo seguendo i protocolli e la legge. Ma, mentre lo ripeto, sapendo che è giusto così, già so che sembrerà una risposta burocratica e che non accenderà un lume di speranza sul futuro di questi giovani, vittime o autori di reato che siano. Eppure, forse, dico forse, se ci fosse un’informazione diversa - istituzionale prima; se si sapesse che esistono - e soprattutto se esistessero davvero - luoghi e competenze capaci di aiutare, potrebbe andare meglio. Mi piacerebbe che dovunque e, in maggior misura dove il degrado insiste, ci fossero luoghi e competenze di aggregazione e di ascolto. Assistenti sociali, sì, ma non solo: psicologi, psichiatri, infermieri, educatori, volontari, medici, persone che semplicemente abitano nel quartiere. Luoghi e competenze gratuiti, senza etichette religiose o d’altro tipo. In alcuni quartieri, le parrocchie, diciamolo, sono gli unici posti con sale o spazi disponibili all’aperto o al chiuso. Una società che non pensa alle nuove generazioni, che non le comprende, che non chiede loro cosa pensano e di cosa hanno bisogno, che le giudica o le piange, non ha futuro. Bonus o restrizioni della libertà - non sono una buonista, ma il carcere non può essere l’unica soluzione - sono palliativi comodi. In attesa della nuova tragedia da commentare. La riforma della giustizia arriva alla Camera. “Nessun rischio di pm sottoposti al governo” di Lodovica Bulian Il Giornale, 12 novembre 2024 Il 26 il testo in aula, oltre al centrodestra l’appoggio di Iv, Azione e Più Europa. Le toghe contro le carriere separate. Dopo settimane di scontro, il ministro della Giustizia Carlo Nordio (foto) chiede “un abbassamento dei toni da parte della politica nel criticare le sentenze”, ma anche che “ci sia sempre meno una critica della magistratura al merito politico delle leggi”, dice dal convegno per i 60 anni di Md. L’auspicio è che si apra un “dialogo” costruttivo, anche perché sulla giustizia il governo ha messo in cantiere una riforma cardine, fortemente voluta dal Guardasigilli e da tutto governo, dopo quella con cui è stato abolito il reato di abuso d’ufficio che già ha fatto infuriare i magistrati. La separazione delle carriere è il capitolo più delicato e ambizioso delle linee programmatiche di Nordio che vuole rivoluzionare nel profondo l’ordine giudiziario. Una battaglia storica di Forza Italia oggi condivisa dall’intera maggioranza che compone l’esecutivo. Del resto separare le carriere di giudici e pubblici ministeri è il pallino del ministro Nordio dai tempi in cui faceva il magistrato, ma è anche un terreno minato per i difficili rapporti tra politica e magistratura. Una nuova stagione di dialogo, è almeno l’auspicio di Nordio, sarebbe necessaria per arrivare alla meta senza barricate, per altro già annunciate invece dalla categoria. Servirebbe acqua sul fuoco per portare avanti la riforma costituzionale - la terza, dopo quelle su premierato e autonomia - ed evitare strappi che non farebbero bene a nessuna delle parti in campo. Intanto nelle scorse settimane il ddl Nordio è approdato in Commissione Affari costituzionali di Montecitorio, che l’ha adottato come testo base, da sottoporre ora agli emendamenti. L’articolato dovrebbe arrivare il 26 novembre in Aula, e l’intenzione dichiarata di Forza Italia è di ottenere il sì della Camera entro l’anno. Il centrodestra incassa anche il sostegno al di fuori del perimetro di maggioranza, con Più Europa che ha votato a favore del testo base, e conta su quello di Italia Viva di Matteo Renzi, oltre che su quello di Azione. E proprio ieri il ministro è entrato nel merito della riforma, soprattutto delle critiche delle toghe che si preparano a opporsi alla riforma. Perché, dicono, separare le carriere tra requirenti e giudicanti potrebbe portare a una sottomissione del pubblico ministero alla politica: “Non c’è il rischio che i pm vengano sottoposti al potere dell’esecutivo, mi farebbe inorridire come è magistrato, per 40 anni pm”, ha detto Nordio. La riforma, ha sottolineato, “farà sì che ci sia l’autonomia dell’organo requirente”. Sul punto il vice ministro Francesco Paolo Sisto, durante il convegno di Md, ha avuto un botta e risposta con il sostituto procuratore della Cassazione Marco Patarnello, il magistrato che lo scorso 19 ottobre inviò una mail nella piattaforma dell’Anm diventata un caso politico e criticamente rilanciata anche dalla premier Meloni. Mentre dal palco Sisto spiegava la riforma della separazione delle carriere, dalla platea Patarnello ha chiesto: “Non temete che in questo modo il pubblico ministero avrà troppo potere?”. E Sisto: “Non lo temiamo, perché con la riforma, se il pm avrà un potere cinque volte superiore, il giudice lo avrà dieci volte superiore”. E comunque, “ciò che dovrebbe tranquillizzare tutti - ha sottolineato - è che ci sarà comunque un referendum che lascerà la decisione al popolo. Così il Csm vanifica la riforma sulla valutazione dei magistrati di Ermes Antonucci Il Foglio, 12 novembre 2024 Per il Consiglio superiore della magistratura il fatto che un pm fallisca due inchieste su tre, per esempio avviando indagini che si rivelano infondate o ottenendo l’arresto di persone che poi si rivelano innocenti, non è sufficiente per valutare negativamente il suo operato. Vi fareste operare da un medico che ha una statistica di un morto ogni tre pazienti? Con molta probabilità no. E se la media fosse di un morto ogni due pazienti? Probabilmente scegliereste in maniera ancora più convinta un altro medico. Se la media fosse addirittura di due morti ogni tre pazienti, sicuramente mandereste quel medico al diavolo e avvisereste tutti i vostri famigliari di stargli lontano. Per il Consiglio superiore della magistratura, invece, il fatto che un pubblico ministero fallisca due inchieste su tre, per esempio avviando indagini che si rivelano infondate o ottenendo l’arresto di persone che poi si rivelano innocenti, non è sufficiente per valutare negativamente il suo operato. Secondo la nuova circolare sulla valutazione di professionalità che il Csm si appresta ad approvare (il testo ha già ricevuto il via libera unanime della Quarta commissione del Consiglio), un magistrato potrà subire effetti negativi sulla valutazione della propria professionalità soltanto quando “oltre due terzi dei provvedimenti o delle richieste risultano annullate, riformate o rigettate” nelle fasi o nei gradi successivi di giudizio. Si è di fronte all’ennesima opera di vanificazione da parte del Csm di una riforma approvata dal Parlamento. Quest’ultimo nel 2022 aveva stabilito con legge che il Csm nel valutare le toghe avrebbe dovuto tener conto, non solo degli annullamenti o dei rigetti dei provvedimenti per gravi ragioni (come abnormità, negligenza nell’applicazione della legge o mancata valutazione di prove decisive), ma anche del dato statistico: se, cioè, gli annullamenti, i rigetti o le riforme dei provvedimenti giudiziari “assumono carattere significativo rispetto al complesso degli affari definiti dal magistrato”. La legge ha lasciato al Csm il compito di stabilire quando la bocciatura delle decisioni adottate da un magistrato debba considerarsi statisticamente “significativa”. La risposta dell’organo di governo autonomo delle toghe è paradossale: soltanto quando oltre due terzi dei provvedimenti o delle richieste risultano annullate, riformate o rigettate. Tradotto: se un pm sbaglia otto volte su dodici va tutto bene. Ma il paradosso non finisce qui. Quali sono i provvedimenti dai quali verranno estratti i dati statistici? La legge, su iniziativa del deputato Enrico Costa, ha previsto l’istituzione di un “fascicolo per la valutazione del magistrato”, che avrebbe dovuto contenere (in teoria) tutti i provvedimenti del magistrato, inclusi gli esiti nelle successive fasi di giudizio (come arresti ingiusti e sentenze ribaltate). L’obiettivo complessivo della riforma era quello di rendere finalmente sostanziali le valutazioni di professionalità, che da decenni sono invece di fatto inesistenti (il 99,6 per cento dei magistrati riceve valutazioni positive, secondo gli ultimi dati comunicati dalla ministra Marta Cartabia). In fase di attuazione della norma, però, il nuovo Guardasigilli Carlo Nordio ha specificato che nel fascicolo devono confluire non tutti i provvedimenti ma solo quelli “a campione”. Il Csm intende ora dare la mazzata definitiva. Nella circolare, infatti, si prevede che nel fascicolo finiscano i provvedimenti redatti dal magistrato e quelli “relativi all’esito degli affari trattati nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudiziario”, estratti a campione nel numero di cinque per ciascuna categoria e per ciascun anno di valutazione. Insomma, il numero dei provvedimenti che costituiranno il fascicolo per la valutazione è veramente esiguo ed è destinato a consegnare una rappresentazione soltanto superficiale del lavoro svolto dal magistrato. Da questo ristrettissimo insieme di provvedimenti saranno estratte le statistiche. A tutto ciò deve aggiungersi che, come stabilito dalla legge sull’ordinamento giudiziario del 2006, la valutazione di professionalità “non può ricordare in alcun caso l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove”. Questo significa che un pubblico ministero non può essere valutato, per esempio, per aver chiesto al termine di un processo condanne a vent’anni di reclusione nei confronti di dieci imputati, che poi però vengono tutti assolti dal giudice. In altre parole, il pm non risponde in alcun modo delle sue inchieste flop. L’ennesimo paradosso mascherato da tutela dell’indipendenza: se il gup respinge la richiesta di rinvio a giudizio, questa può essere oggetto di valutazione della professionalità. Ma una volta andati a processo, questo può naufragare senza alcuna conseguenza per il pm, anche per un numero infinito di volte. Così le valutazioni rimarranno di fatto inesistenti. La Cedu dice basta: troppa contenzione in psichiatria è tortura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 novembre 2024 Per la prima volta, grazie all’impegno di L’Altro Diritto - Società della Ragione Onlus e Fondazione Franco Basaglia, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha stabilito che l’Italia ha violato i diritti umani di un paziente psichiatrico, immobilizzato con forza e trattato con farmaci pesanti in un ospedale. Questa pratica è stata condannata come inumana e degradante. La recente sentenza della CEDU nel caso Lavorgna c. Italia rappresenta un precedente di grande rilievo per il sistema giudiziario italiano, poiché è la prima volta che la Corte condanna l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in un caso di contenzione meccanica e farmacologica all’interno di un reparto psichiatrico. La sentenza riconosce che il trattamento riservato al paziente durante la sua degenza presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) dell’Ospedale di Melzo è stato inumano e degradante, in violazione del divieto assoluto di trattamenti inumani e degradanti stabilito dall’articolo 3 della Convenzione. Il caso coinvolge Matteo Lavorgna, diciannovenne all’epoca dei fatti, affetto da un disturbo psicotico non altrimenti specificato. Il giovane era stato ricoverato volontariamente il 30 settembre 2014 su consiglio del suo psichiatra, il quale aveva ritenuto necessario un intervento protetto per evitare che la situazione degenerasse. Tuttavia, in seguito a un episodio di aggressività verso i genitori durante una visita, lo SPDC aveva applicato misure di contenzione meccanica, immobilizzando Lavorgna al letto per quasi otto giorni consecutivi, nonostante fosse già sottoposto a pesanti sedazioni farmacologiche. Il ricorso, depositato presso la CEDU, si basava sulla denuncia del giovane per maltrattamenti e coercizione da parte del personale medico, con accuse riguardanti anche l’omissione di un’adeguata verifica sulla necessità di prolungare la contenzione meccanica, nonostante Lavorgna fosse in stato di calma apparente e sotto controllo medico. In Italia, la sua denuncia era stata archiviata dal tribunale, che aveva ritenuto legittimo l’uso della contenzione in quanto misura necessaria per evitare rischi futuri. Nella sentenza del 7 novembre scorso, la Corte di Strasburgo ha stabilito che il trattamento subito da Lavorgna costituisce una violazione sostanziale e procedurale dell’articolo 3 della Convenzione. La Corte ha, infatti, evidenziato come la prolungata contenzione meccanica non fosse giustificabile, in quanto la condizione di pericolo che ne aveva determinato l’applicazione non persisteva più con tale intensità, mancando così di motivazioni oggettive e necessarie. Inoltre, la Corte ha censurato l’inefficacia dell’indagine condotta in Italia, non ritenendola conforme agli standard richiesti per un accertamento trasparente e indipendente. Gli interventi delle due associazioni sopracitate hanno contribuito in modo significativo alla decisione della Corte, sostenendo che, in assenza di norme chiare sui limiti della contenzione meccanica in ambito psichiatrico, tale pratica debba essere giustificata solo in casi di necessità assoluta e comprovata, come prevede l’articolo 54 del Codice penale. Le organizzazioni hanno evidenziato che la contenzione non può essere usata a scopo cautelare, ma esclusivamente per rispondere a un pericolo concreto e imminente, come confermato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione italiana nel caso Mastrogiovanni. La decisione della CEDU apre un’importante riflessione sulla necessità di stabilire regolamentazioni più precise e rigide in merito all’uso della contenzione in contesti psichiatrici. Il caso Lavorgna solleva interrogativi su un utilizzo della contenzione che appare non solo ingiustificato dal punto di vista della necessità medica, ma anche lesivo della dignità umana. Tale pratica si pone in contrasto con il principio di proporzionalità richiesto per le misure restrittive della libertà individuale. Inoltre, la sentenza sollecita una riforma dei protocolli sanitari italiani, poiché attualmente mancano norme specifiche che disciplinino la contenzione meccanica e farmacologica. La Corte Europea ha ribadito che la contenzione meccanica non deve essere considerata un intervento terapeutico, ma un mezzo di sicurezza, utilizzabile solo come ultima risorsa e per il minor tempo possibile. La condanna dell’Italia segna, quindi, un passo significativo verso una maggiore tutela dei diritti delle persone affette da disturbi psichiatrici e potrebbe stimolare il legislatore italiano a intervenire con normative specifiche, in linea con gli standard di diritti umani delineati dalla CEDU e dalle linee guida del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT). La Cassazione: no al divieto assoluto per la posta al 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 novembre 2024 La Corte Suprema di Cassazione ha emesso una significativa sentenza, la numero 41191, che ridefinisce i limiti della corrispondenza per i detenuti sottoposti al regime del 41 bis. La Prima Sezione Penale, presieduta da Giuseppe De Marzo, ha stabilito che non possono essere imposti divieti generalizzati alla corrispondenza tra detenuti sottoposti al regime speciale, ribadendo che lo strumento ordinario deve essere il “visto di censura”. La decisione nasce dal ricorso presentato da un detenuto, recluso perché boss camorrista, contro un’ordinanza del Tribunale di Napoli del 17 giugno 2024, che aveva confermato le limitazioni alla sua corrispondenza. Secondo la Suprema Corte, mentre l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario prevede come “contenuto necessario” la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, eventuali ulteriori limitazioni possono essere disposte solo in presenza di “specifiche esigenze di sicurezza” . Tali restrizioni aggiuntive devono essere “motivate in modo stringente” e sono ammissibili solo quando il normale visto di censura risulti insufficiente a garantire la sicurezza. La sentenza rappresenta un importante punto di equilibrio tra le esigenze di sicurezza proprie del regime detentivo speciale e i diritti fondamentali dei detenuti. La Corte ha sottolineato come non sia “del tutto in linea con il contenuto delle disposizioni di legge” prevedere un divieto assoluto e generalizzato di corrispondenza tra detenuti sottoposti al 41 bis, considerando che questi ultimi hanno già contatti diretti con gli altri detenuti del medesimo gruppo di socialità. Il provvedimento è stato quindi annullato con rinvio al Tribunale di Napoli per un nuovo esame, che dovrà tenere conto dei principi espressi dalla Cassazione. La decisione stabilisce un criterio significativo nella gestione della corrispondenza dei detenuti in regime di 41 bis, richiedendo una valutazione caso per caso e una motivazione specifica per ogni limitazione che vada oltre il normale visto di censura. La sentenza conferma così il principio secondo cui anche nel regime del 41 bis, pur caratterizzato da maggiori restrizioni per motivi di sicurezza, eventuali limitazioni ai diritti dei detenuti devono essere sempre proporzionate e adeguatamente giustificate da concrete esigenze di prevenzione. Basilicata. Al via il progetto “Vale la pena lavorare”. Formazione e inclusione per i detenuti melandronews.it, 12 novembre 2024 Con delibera di Giunta (n. 665 del 4 novembre scorso) è stato approvato un progetto denominato “Formazione e Inclusione: Servizi e misure di inclusione area giudiziaria Vale la Pena lavorare” la cui gestione è affidata all’Agenzia Regionale per il Lavoro e l’Apprendimento Basilicata (A.R.L.A.B). Le azioni del progetto “Vale la pena lavorare” sono finanziate, per una spesa di circa 1,4 milioni di euro, attraverso la programmazione del Pr FESR FSE 2014-2020, con l’obiettivo di potenziare l’inclusione sociale delle persone ospitate nelle Case circondariali lucane e quelle in carico al sistema dei servizi territoriali UEPE (Uffici di Esecuzione Penale Esterna) e USSM (Uffici Servizi Sociali Minorenni) secondo un percorso complesso diretto a dare una risposta alle difficoltà di inserimento lavorativo delle persone maggiormente fragili e a rischio di discriminazione. Ne dà notizia l’Assessore allo Sviluppo Economico e Lavoro Francesco Cupparo. I destinatari sono persone che, a diverso titolo e con diverse misure, sono sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria limitativi o privativi della libertà personale, quali ad esempio: detenuti e internati nei diversi Istituti del territorio regionale, semiliberi, ammessi al lavoro all’esterno, ecc.; persone in carico agli Uffici UEPE e USSM della Regione Basilicata sottoposte a misure alternative ampiamente intese e/o a misure di sicurezza non detentive (affidati, detenuti domiciliari, liberi vigilati, ecc.) e/o in carico ad altro titolo (es: assistenza post-penitenziaria). Il progetto - ha spiegato l’assessore - intende rendere disponibili azioni orientative e formative e di politica attiva (compreso il tirocinio, anche interno), accompagnate da servizi di supporto e di personalizzazione, allo scopo di sostenere le persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria limitativi o privativi della libertà personale in percorsi di reinserimento sociale fondati sul lavoro che, a partire dall’acquisizione di competenze professionali spendibili, consentano loro di acquisire autonomia e competenze utili alla realizzazione professionale e ad operare attivamente nella società. L’intervento, in continuità con gli anni passati, è volto pertanto ad ampliare le opportunità di reinserimento socio-lavorativo di persone in esecuzione penale attraverso l’offerta di politiche attive e servizi personalizzati, con l’obiettivo dell’inclusione attiva e conseguente riduzione del rischio di povertà ed esclusione sociale. Formazione e lavoro sono precondizione essenziale per il reinserimento sociale in quanto spazio per la costruzione di relazioni sociali, occasione di autoaffermazione e di crescita personale e strumento per la riduzione delle recidive e della vulnerabilità dei soggetti inseriti nel circuito penale. Il progetto finanzia, pertanto, percorsi integrati di inserimento sociale e lavorativo attraverso interventi multiprofessionali. L’approccio è la presa in carico multiprofessionale con il coinvolgimento dei servizi sociali dei Comuni. Il progetto, quindi, tende a combattere le discriminazioni nel mercato del lavoro, attraverso il recupero e lo sviluppo delle potenzialità, soprattutto dopo la fase emergenziale sanitaria che ha determinato un maggiore isolamento nelle carceri, per il raggiungimento di livelli sempre più avanzati di autonomia, oltre che contribuire a ridurre lo stigma verso le persone con provvedimento dell’Autorità Giudiziaria. Attraverso l’acquisizione di conoscenze che abbiano una ricaduta sull’utilizzo degli strumenti delle politiche attive del lavoro e di quelle tecniche specifiche relative ai diversi settori di qualificazione, si tende a promuovere progressivamente uno sviluppo equilibrato della personalità, stimolando le potenzialità di crescita, di inserimento e di partecipazione sociale e lavorativa. L’obiettivo generale - aggiunge Cupparo - è un efficace inserimento socio-lavorativo, attraverso una pluralità di strumenti e misure, dalla formazione d’aula o di tipo laboratoriale, ai tirocini interni ed esterni, alla partecipazione ad attività di mentoring. Gli interventi progettuali considerano le caratteristiche dei destinatari (adulti, minori o giovani), le diverse tipologie di misure giudiziarie cui sono sottoposti (detentiva o meno), le disponibilità interne ed esterne di luoghi formativi (compresi i contesti lavorativi nei quali realizzare le attività), oltre alle effettive prospettive occupazionali del territorio. I Percorsi individuali multiprofessionali sono articolati in una serie di azioni rivolte all’inserimento sociale e lavorativo dei destinatari finalizzati ad orientare e accompagnare i destinatari in azioni di rafforzamento personale e sociale e in azioni di inserimento lavorativo. Firenze. Carcere e lavoro, a Sollicciano i numeri sono impietosi di Mauro Bonciani Corriere Fiorentino, 12 novembre 2024 Cigl e “Altro Diritto”: solo in 8 hanno un’occupazione. Il Garante: “Serve un ufficio pubblico apposito”. Sono solo otto i detenuti di Sollicciano che hanno un lavoro all’esterno del carcere, in cui rientrano ogni sera. Un numero che meglio di tante parole fotografa la difficoltà di creare opportunità lavorative e di reinserimento nel più grande penitenziario toscano, dove i detenuti sono oltre 500. E proprio “Carcere, diritti e lavoro” a Sollicciano e in più in generale nelle carceri toscane sono stati al centro dell’iniziativa organizzata da Cgil Firenze e “L’Altro Diritto” che si è svolta ieri a Firenze presso la Camera del lavoro in Borgo Greci, presente anche Gloria Manzelli, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per Toscana e Umbria. E per dare una svolta, il garante regionale dei detenuti, Giuseppe Fanfani ha lanciato una proposta concreta: “Serve una struttura pubblica che si occupi di lavoro per i detenuti una volta usciti e del loro accompagnamento, perché nessuno li vuole, questa è la verità. Ogni carcere deve avere un referente su questo. Invece oggi tutto viene fatto dall’esterno. Benissimo i volontari, le azioni di Comuni e Regioni, ma occorre strutturare una realtà che non può che essere pubblica, che conosca anche le esigenze del territorio così da fare formazione mirata in funzione delle esigenze, ad esempio per camerieri o muratori se mancano. E ci deve essere anche una modifica delle leggi così da avere per quattro, cinque anni, uno sgravio contributivo per chi assume queste persone”. Su Sollicciano Fanfani ha ribadito “è una struttura fuori dal tempo, da ogni dignità, non ha neppure spazi per laboratori o altre attività. È un troiaio”. Anche Manzelli ha sottolineato le criticità: “A Sollicciano la situazione è molto difficile, drammatica direi. Occorre un intervento radicale per ristrutturarlo. C’è poi il problema che le carceri accolgono le emergenze sociali, persone cioè che non si sa gestire, con problemi psichiatrici e di tossicodipendenze”. Secondo la Cgil i posti regolamentari del carcere fiorentino sono 497 ma 136 non sono disponibili per lavori di ristrutturazione, i detenuti sono 531, gli agenti di polizia penitenziaria 435 contro l’organico previsto di 416, gli educatori sono 10 contro gli 11 previsti, mentre agli 8 detenuti che lavorano fuori si aggiungono 18 che stanno facendo il corso di orticoltura. L’assessore al sociale di Palazzo Vecchio (il Comune spende circa mezzo milione ogni anno per progetti legati al carcere) ha spiegato che si lavorerà per rendere più efficaci tali percorsi e Bernardo Marasco, segretario della Cgil Firenze ha concluso: “Nessuno deve essere estraneo alla società. I diritti vanno garantiti, anche per riconquistare la cittadinanza”. Genova. Detenuti psichiatrici a Marassi: così il carcere diventa lazzaretto di Aurora Bottino primocanale.it, 12 novembre 2024 Il problema dei detenuti psichiatrici non è una novità nella struttura penitenziaria genovese, dove la consistente presenza di detenuti di questo tipo è causa da tempo di criticità. Le carceri italiane sono da tempo al centro di quelle che sono denunce da parte di sindacati e associazioni per problemi ormai cronici come il sovraffollamento, la sicurezza, la carenza di personale e tagli ai fondi che pesano su situazioni spesso definite critiche. I sei istituti penitenziari della Liguria non sono esenti dalle problematiche e anzi, in alcuni casi i dati fotografano situazioni ancora più gravi che nel resto di Italia. L’inchiesta di Primocanale andrà a ricostruire quelli che sono i problemi delle carceri liguri attraverso testimonianze, documenti e numeri. Marassi bocciato dall’associazione Nessuno Tocchi Caino: “Non è un carcere ma un ricovero” - Nessuno Tocchi Caino è una Ong italiana attiva internazionalmente il cui obiettivo è l’attuazione della moratoria universale della pena di morte e più in generale la lotta contro la tortura. Ogni anno l’associazione viaggia per le carceri italiane stilando poi un report rispetto alle condizioni in cui vivono i detenuti. Questa volta è stato il turno del carcere di Marassi, dove il segretario Sergio D’Elia ha toccato con mano la situazione: “Questo è un luogo dove non ci sono solo persone private della libertà ma persone private di tutto, soprattutto della dignità. Non c’è una responsabilità della direzione, è dove vengono ricoverate le persone che non si vuole vedere in giro per la città. Sono i disgraziati, gli umiliati, gli ultimi della nostra società”. A Marassi un altissimo numero di detenuti psichiatrici: violenza all’ordine del giorno - Il problema legato ai pazienti psichiatrici non è una novità nella struttura penitenziaria genovese, dove la consistente presenza di detenuti di questo tipo è causa da tempo di criticità, un nodo non semplice da sciogliere che viene denunciato da tempo. “Molte di queste persone hanno problemi di salute mentale e siccome è costoso gestirli laddove dovrebbero essere gestiti, quindi negli ospedali, nelle comunità per i dipendenti da sostanze o nei centri di igiene mentale, vengono messi qui - spiega D’Elia -. Manicomi, lazzeretti, ospedali psichiatrici e giudiziali sono stati chiusi e le Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) non riescono a contenere il numero sempre più alto di persone che dovrebbero essere seguite e curate. Qui non possono rifiutarsi di accogliere, e così diventa un ricovero”. L’ultimo omicidio avvenuto tra le stanze del penitenziario di Genova, avvenuto nel 2023, aveva riaperto la questione dei detenuti psichiatrici. In quel caso l’uomo poi condannato per aver ucciso il proprio compagno di cella era già stato dichiarato due volte semi infermo di mente. “In Liguria su sei strutture non esiste un penitenziario in grado di gestire i detenuti affetti da patologie psichiatriche” aveva denunciato l’Unione Sindacati Polizia Penitenziaria. Il carcere più vicino dotato di un reparto per la salute mentale è infatti quello di Torino, che ha una capienza di 20 posti, di cui 10 riservati all’osservazione psichiatrica disposta dall’Autorità Giudiziaria. “Un numero ridicolo, troppo basso, considerato che nel nord ovest sono attualmente presenti oltre 5500 detenuti”. Ancora troppi detenuti rispetto agli agenti: “Loro cosa hanno fatto per finire in carcere?” - Non siamo a livelli di sovraffollamento di un anno fa, ma su 550 posti regolamentari nel mese di novembre ci sono 664 detenuti. Un problema non da poco contando che gli agenti della polizia penitenziaria presenti sono 40 in meno rispetto alla pianta organica. “L’appello è allo Stato. I detenuti hanno sbagliato, certo, ma qui a Genova ci sono anche quelli in attesa di giudizio, quindi non possiamo dire in modo definitivo che siano colpevoli. E poi ci sono gli agenti della polizia penitenziaria, loro cosa hanno fatto per finire in carcere? Perché anche loro sono finiti in carcere, innocenti, ma nello stesso stato dei detenuti per le condizioni di lavoro a cui sono costretti, per l’ambiente, per la salubrità dei luoghi, per la dignità, la qualità del lavoro. Sono vittime anche loro di una situazione strutturale che andrebbe ripensata totalmente”. Venezia. Suicidi in carcere, in arrivo 26 professionisti per gestire la crisi di Maria Ducoli La Nuova Venezia, 12 novembre 2024 Bando aperto fino a dicembre per reclutare psicologi, psichiatri, assistenti sociali, pedagogisti ed esperti in criminologia clinica che si occupano della valutazione del rischio suicidario all’ingresso. Psicologi, ma anche psichiatri, assistenti sociali, pedagogisti o esperti in criminologia clinica. La chiamata alla partecipazione al bando del tribunale di sorveglianza di Venezia che si chiuderà il prossimo 12 dicembre è collettiva, e l’obiettivo è quello di reclutare dai 24 ai 26 professionisti da inserire all’interno del proprio organigramma. Nel concreto, queste figure devono emettere un giudizio tecnico scientifico sulla personalità della persona detenuta, assistendo così il giudice nella valutazione psicologica e sociale delle misure di sorveglianza e considerando il loro impatto nel percorso di recupero. La persona potrebbe essere a rischio suicidio, se viene messa in carcere? Gli arresti domiciliari potrebbero essere una soluzione migliore o, al contrario, va allontanato dall’ambiente domestico? Tutte domande a cui gli esperti trovano una risposta. “Questo comporta una valutazione attenta del percorso deviante, delle dinamiche che hanno portato l’individuo a intraprendere un percorso criminale, all’analisi del disagio mentale che la carcerazione inevitabilmente comporta, grave o lieve che sia” spiega Ada Schiumerini, esperta in psicologia penitenziaria. La figura di questi esperti è quindi fondamentale, eppure non è facile trovare professionisti che decidano di entrare nel mondo detentivo. Il motivo? Certo, da una parte va detto che non è sicuramente un ambiente semplice, che il carico emotivo è importante per chiunque varchi le soglie del carcere, ma c’è anche una questione più pratica: il compenso. Si arriva, nelle migliori delle ipotesi, a 600 euro netti, con una paga oraria che fino a qualche anno fa era di 17 euro, oggi alzata a 30 dopo diverse battaglie sindacali e dell’Ordine degli psicologi. Si tratta, comunque, di cifre irrisorie considerando le responsabilità degli esperti ma anche il compenso che uno psicologo riceve nel privato, con sedute che possono arrivare a 90 euro l’ora. Il tema non è solo la difficoltà a reclutare gli esperti dei tribunali di sorveglianza ma, più in generale, gli psicologi in carcere, una figura quanto mai necessaria ma ancora poco valorizzata, sotto tutti i punti di vista. Eppure, il bisogno non manca: quest’anno sono stati tre i suicidi in cella nella casa circondariale di Santa Maria Maggiore, a prova che di carcere si muore ancora. Numeri che raccontano delle storie, accomunate da un disagio latente, non percepito, che è sfociato nel gesto estremo. Ecco, allora, che l’Ordine degli psicologi, ma anche lo stesso direttore della casa circondariale Enrico Farina e il Garante dei diritti delle persone detenute del Comune di Venezia, Marco Foffano, si sono detti da tempo concordi sul fatto che servirebbero più ore e più personale. I professionisti che si dedicano alla salute mentale delle persone in carcere sono i cosiddetti esperti ex articolo 80 che, essenzialmente, svolgono due attività: un primo colloquio per valutare il rischio suicidario al momento dell’inizio della pena detentiva e la presa in carico successiva. A queste figure, si aggiungono poi i consulenti tecnici di parte (ctp), chiamati dagli avvocati per eventuali perizie, e i consulenti tecnici d’ufficio (ctu), con competenze specifiche per supportare i giudici nella fase decisionale. Tutte figure fondamentali, ma spesso introvabili. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuto morto dopo la mattanza, il giallo si infittisce casertanews.it, 12 novembre 2024 “Il colloquio col magistrato non è stato registrato”. Il caso sollevato dalle difese per il buco di otto minuti durante i quali il magistrato di sorveglianza Marco Puglia ha parlato con Hakimi Lamine. Il colloquio con Hakimi Lamine, il detenuto morto un mese dopo il pestaggio al carcere di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile 2020, non sarebbe stato registrato e per questo manca agli atti del fascicolo della Procura. È quanto emerso nel corso dell’udienza, celebrata all’aula bunker, del processo a carico di 105 persone tra agenti, funzionari del Dap e due medici. Il caso del colloquio con il magistrato di sorveglianza Marco Puglia, il cui video non sarebbe stato rinvenuto nel fascicolo della Procura, era stato sollevato dalle difese degli imputati nelle precedenti udienze. In apertura del processo, il presidente della Corte d’Assise Roberto Donatiello ha letto una lettera di Puglia nella quale il magistrato di sorveglianza ha chiarito di non aver registrato il colloquio con Lamine (cosa invece avvenuta con gli altri detenuti portati in isolamento al reparto Danubio dopo i pestaggi). Un buco di 8 minuti nei colloqui col magistrato - Nel corso dell’udienza dell’8 novembre scorso, è stato proiettato anche un video del colloquio tra Puglia e il detenuto De Luca, al termine del quale il poliziotto penitenziario presente nella saletta dove i reclusi si collegavano con la piattaforma Teams, annunciava l’ingresso in sala di Hakimi, ma poi le immagini si fermano per riprendere otto minuti dopo con il detenuto D’Alessio, che sarà sentito dopo il maghrebino. Fu proprio il magistrato di sorveglianza del tribunale di Santa Maria Capua Vetere Marco Puglia a parlare il 10 aprile 2020, quattro giorni dopo le violenze, attraverso l’applicativo Teams con alcuni detenuti che dopo i fatti erano stati trasferiti in isolamento al reparto Danubio. Dopo aver registrato i colloqui, il magistrato li trasmise alla Procura, come ha egli stesso ammesso in aula, ed in effetti tutti i video dei colloqui sono presenti nel fascicolo del pm tranne quello di Hakimi. Per le difese si tratta di una prova decisiva - Mancherebbe agli atti dunque una prova ritenuta molto rilevante dalle difese, perché è proprio la morte di Hakimi che ha radicato la competenza della Corte d’Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, e coloro che sarebbero responsabili del decesso rispondono di un apposito capo di imputazione - tortura con l’aggravante della morte della persona offesa - che può portare a pene molto pesanti (dai 30 anni all’ergastolo). Il processo riprenderà mercoledì. Cuneo. Gli agenti del carcere indagati per tortura: “Li scassiamo, vanno addomesticati” di Elisa Sola La Stampa, 12 novembre 2024 Il tribunale del Riesame sugli abusi in carcere: nessuna sospensione, uno di loro è stato promosso. Qualcuno titubava: “Va bene pestare, non subito. “Ma noi li pestiamo, compare, tanto all’isolamento sono”. Sei agosto 2023. L’assistente capo Rosario Rossi non sa di essere intercettato con 32 colleghi della polizia penitenziaria. C’è un problema da gestire nel carcere di Cuneo. Aria di rivolta. E Rossi rassicura così l’interlocutore. In quelle celle fredde e spoglie del settore isolamento, poche settimane prima, nella notte tra il 20 e il 21 giugno, almeno cinque detenuti pachistani erano stati denudati. E lasciati, secondo la procura di Cuneo che coordina le indagini del Nucleo investigativo regionale della penitenziaria, a piangere per ore “senza acqua, cibo e coperte”. Con ferite e lividi. I segni del pestaggio avvenuto all’inizio della serata nella cella 417. Diventata nota, negli ambienti carcerari, come “la cella della mattanza”. O “la cella degli indiani”. Sulle azioni dei poliziotti indagati per le presunte torture e lesioni, c’è la dura e netta valutazione del tribunale del Riesame di Torino. Sono “condotte crudeli, brutali e degradanti per le vittime”, scrivono i giudici. “Frutto non già di una situazione eccezionale ed episodica, ma conseguenza di una prassi fuorviante improntata alla violenza”. Il tribunale ha confermato, accogliendo la tesi del procuratore Onelio Dodero, la sospensione dal servizio per alcuni mesi dei due indagati con le posizioni considerate “più gravi”, l’ispettore Giovanni Viviani e l’agente Rossi, difesi dagli avvocati Antonio Mencobello e Leonardo Roberi. Furono “torture” dunque, secondo il tribunale della Libertà, quelle messe in atto dagli agenti verso detenuti inermi e quasi tutti incensurati. “Sussiste un concreto e attuale pericolo di reiterazione del reato”, scrive il presidente Cristiano Trevisan, che sottolinea come i poliziotti indagati non siano stati “sospesi disciplinarmente dal servizio”. Non risulta nemmeno, aggiunge, “che siano incorsi in altre sanzioni disciplinari per i fatti per cui si procede”. “Anzi - precisa Trevisan - per quanto emerso in udienza, con dichiarazione del pm non smentita dall’indagato né dal difensore, parrebbe che l’ispettore Viviani sia stato addirittura promosso, dopo i fatti, al grado di vice comandante della polizia penitenziaria”. La “promozione” è stata decisa dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Dopo che il gip di Cuneo aveva già ordinato l’interdizione dal servizio. L’inchiesta è ancora aperta. Non ci sono solo le testimonianze, le consulenze medico legali e i filmati delle videocamere. Ma anche le intercettazioni. Decine di pagine di conversazioni trascritte, per dimostrare che i “pestaggi” sarebbero stata una “prassi”. È il 14 luglio 2023 quando l’agente Rossi, intercettato, dice: “Mi sa che stasera faccio un guaio, ti giuro, vado giù e lo scasso”. Due giorni prima, due suoi colleghi parlano del “trattamento” dedicato ai “nuovi giunti”: “Se arrivano nuovi che ancora…vanno addomesticati… vanno addestrati”. Per i giudici, si tratta di una “chiara allusione all’uso della forza”. Alcuni poliziotti - registrati nello stesso periodo - a un certo punto si rendono conto che forse qualcuno sta esagerando. C’è un agente che dice ad altri due: “Io te l’ho già detto cinque minuti fa. Tu sei responsabile, va bene pestare, però ci vuole un attimino prima di pestare”. E c’è anche chi smette di parlare. Il primo agosto 2023, l’assistente capo Rossi fuori dal carcere chiama un collega e gli chiede a che punto siano le indagini: “Che aria tira?”. L’ amico gli risponde: “C’è sempre quello del Provveditorato”. Rossi si blocca: “Non parliamo, non parliamo, poi ci vediamo”. Il 14 agosto l’ispettore Viviani, quello poi “promosso”, viene intercettato dopo aver ricevuto da un collega il rapporto su un detenuto definito “problematico”. Esclama stupito: “Che poi… neanche quattro schiaffi, no?”. Come a dire: “Non si può fare?”. Infine, c’è chi, il 19 agosto 2023, evoca “i bei tempi”. Quelli in cui, scrive il giudice, “non c’erano le telecamere e la gestione violenta dei detenuti era impunemente consentita”. Il poliziotto si sfoga con un collega: “Se entri in cella, a quel punto gliele devi dare… con queste cazzo di telecamere non puoi neanche più respirare”. Torino. Riapre il Cpr di via Brunelleschi, ma la città non vuole di Toni Castellano lavialibera.it, 12 novembre 2024 Dopo la chiusura di marzo 2023, riapre a Torino la struttura che era stata ritenuta disumana. Dopo alcune proteste, nelle quali i migranti ospitati avevano danneggiato i locali in cui erano reclusi, il centro non è più agibile. In attesa che lo Stato decida a chi affidare la gestione, a Torino associazioni e forze politiche si mobilitano. Non esiste ancora una data ma, in attesa che la gestione venga affidata, sembra essere prossimo alla riapertura il Centro di permanenza per il rimpatrio degli immigrati con provvedimento di espulsione (Cpr) di via Santa Maria Mazzarello, a Torino, soprannominato il “Brunelleschi”, dal nome del corso su cui si affaccia. La struttura era stata chiusa a marzo 2023 perché la vita all’interno era diventata impossibile dopo le proteste di febbraio durante le quali i migranti avevano danneggiato i locali in cui erano reclusi. Disumano, inefficace e costoso - Le proteste erano solo l’epilogo del percorso che ha condotto alla chiusura. Lo stesso Comune di Torino - in un incontro promosso a Palazzo Civico dalla garante dei detenuti, Monica Gallo, e dall’assessore alle Politiche sociali Jacopo Rosatelli - lo aveva definito “disumano, inefficace e costoso”. I migranti rinchiusi protestavano contro le pessime condizioni di vita: perenne sovraffollamento e condizioni igienico-sanitarie al limite, assistenza sanitaria inadeguata, tempi di reclusione lunghissimi, mancanza di attività e assenza di contatti con l’esterno, oltre a una detenzione indifferenziata tra richiedenti asilo, migranti vulnerabili, persone con disabilità, presunti minori e persone socialmente pericolose, con precedenti penali o accuse di terrorismo. Alcuni moduli abitativi - 50 metri quadrati, bagni inclusi - in cui vivevano, mangiavano e dormivano sette persone non avevano le porte dei servizi igienici, che per giunta stavano a pochi metri dai letti più vicini. Per ragioni di sicurezza non si poteva accendere o spegnere le luci oppure mangiare seduti a un tavolo. La struttura ha una capienza massima di 210 posti, ma gran parte dei moduli abitativi erano ormai inutilizzabili e così nel febbraio 2023 i 121 migranti rinchiusi nel Cpr abitavano in spazi che ne avrebbero accolti al massimo novanta. In una zona separata dalle altre aree detentive si trovava l’ospedaletto, struttura che di sanitario, a parte il nome, non aveva nulla: le dodici camere doppie venivano usate per l’isolamento dei detenuti più difficili. È in una di queste che a maggio del 2021 è morto Moussa Balde, 22enne guineano, vittima di un pestaggio a Ventimiglia e suicida a Torino. Il governo vuole nuovi Cpr - Nella scorsa primavera il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva annunciato il rafforzamento del sistema di trattenimento dei migranti tramite l’apertura di nuovi Cpr in ogni regione italiana. Con tanto di elenco, non pubblico ovviamente, dei luoghi papabili, sui quali si stavano facendo “le ultime verifiche tecniche” con l’indicazione che fossero facilmente sorvegliabili, distanti dai centri abitati e nei pressi degli aeroporti usati per i rimpatri. Attualmente i Cpr in Italia sono dieci. Si trovano a Bari, Brindisi, Caltanissetta, Roma, Potenza, Trapani, Gradisca d’Isonzo, Macomer (Nuoro), Milano e Torino. Ma come detto, quest’ultimo è chiuso. Tuttavia, salvo l’apertura del centro in Albania, dei venti nuovi Cpr annunciati dal ministro nessuno ha aperto i battenti. Quindi sarà sembrato più semplice riaprirne uno che esiste già, quello di Torino appunto. Nessuna comunicazione da Roma - Da Roma, però, non ci sarebbe stata nessuna comunicazione con l’amministrazione cittadina. “Con il ministero dell’Interno non esiste nessun dialogo. Subito dopo la chiusura del 2023 abbiamo mandato a Roma la richiesta ufficiale del Comune per non riaprire mai più il centro, con tanto di proposte alternative per un’accoglienza diffusa, ma non è mai arrivata alcuna risposta”, spiega a lavialibera Francesca Troise, presidente della Circoscrizione 3 e competente per la zona di Torino in cui si trova il Cpr. Alla riapertura del Brunelleschi, il centro dovrebbe avere 70 posti (pari a un terzo di quelli della precedente gestione) nelle aree rosse e blu, già ristrutturate. “Settanta persone sono un numero gestibilissimo e per questo motivo circoscrizione e Comune propongono di usare metodi diversi dalla brutale reclusione scelta dal ministero”, aggiunge ancora Troise. Le proposte per limitare la detenzione amministrativa variano dall’obbligo di firma al trattenimento per il tempo del riconoscimento nelle camere di sicurezza della città, oppure all’inserimento e presa in carico da parte di associazioni di quartiere o della città con tanto di accompagnamento ai corsi di italiano e all’assistenza sanitaria. Due aziende in lizza per la gestione - La gara d’appalto, ovviamente al ribasso, ha una base di otto milioni e mezzo di euro per una gestione di 24 mesi, prorogabile per altri dodici. All’inizio di ottobre è stato pubblicato l’esito della gara europea per l’affidamento dell’appalto di gestione e sono state ammesse solo due proposte su tre, quella della cooperativa Ekene di Padova e quella della cooperativa Sanitalia Service di Torino. Cooperative in concorrenza da tempo nel settore tanto che a Milano, lo scorso agosto hanno gareggiato per il bando di gestione del Cpr di via Corelli, commissariato dal Tribunale. In quel caso ha vinto Ekene presentando un’offerta da 3,085 milioni di euro per due anni, con base d’asta a 7,7 milioni. Il nuovo contratto per il Brunelleschi doveva partire il 1° novembre. ma ad oggi non è ancora stato annunciato l’esito. Fuori dai centri abitati - Il problema è che la decisione sulla riapertura è stata presa senza alcun confronto con gli enti cittadini o con gli abitanti della circoscrizione in cui il centro si trova. E probabilmente nemmeno con le linee guida per la costruzione dei nuovi Cpr, che indicano come idonei luoghi fuori dai centri abitati. Quando nel 2017 i centri di identificazione ed espulsione (Cie) furono convertiti in Cpr, le indicazioni del ministero (allora guidato da Marco Minniti, Pd) su apertura e costruzione dicevano che i nuovi centri sarebbero stati piccoli, con una capienza di cento persone al massimo, in luoghi lontano dalle città e vicino agli aeroporti. Il Brunelleschi si trova invece in un quartiere, Pozzo Strada, densamente abitato: “La logica è che gli serve, quindi utilizzano quello che c’è - ci dice Guido Savio, avvocato, membro di Asgi, esperto di diritto penale e dell’immigrazione -. Paradossalmente, per il punto in cui siamo, io sostengo che sia un bene che stiano vicini ai centri abitati perché se da un lato danno fastidio ai residenti per disordini e proteste, rumore e perdita di valore degli immobili da un altro almeno si garantisce un minimo di controllo sociale. Chi abita nei palazzi vicini, dall’alto, vede tutto quello che succede in quei cortili. E ripeto, vista la tragicità, è bene che qualcuno veda”. Una rete civica contro la riapertura - Per opporsi alla riapertura la circoscrizione 3 di Torino si è mossa subito e insieme al Comune e alla garante dei detenuti ha creato una rete civica, in cui sono entrati il Gruppo Abele, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, Cgil, Cisl, Uil, Anpi, Arco, Acli, Arci, Uisp la commissione solidarietà dell’Ordine dei Medici di Torino, il referente della Pastorale migranti della diocesi e altri continuano ad aggiungersi. “Le persone che abitano nel quartiere non vogliono il Cpr e non solo per una questione di sicurezza. Quel luogo rappresenta la negazione dei diritti umani. Ci sono state proteste e rivolte, tantissimi atti di autolesionismo, un suicidio. La gente sente il disagio: è una ferita nella quotidianità della vita urbana. Non si spiegano perché lo Stato abbia scelto di dedicare delle risorse per un luogo che inghiotte la gente e azzera i principi democratici del nostro paese” racconta la presidente della Circoscrizione 3. “A livello legale non ci sono contromisure che possano evitare la riapertura perché la competenza è dello Stato e non degli enti locali - aggiunge Savio -. Avendolo sistemato e speso dei soldi è chiaro che intendano aprirlo. Non si torna indietro. Si può solo aspettare la data”. Dubbi sull’efficacia dei Cpr - Se l’apertura sembra ormai sicura rimangono invece i dubbi sull’efficacia, del Brunelleschi come dei Cpr di tutta Italia. I numeri dei rimpatri sono minimi, a fronte di una spesa pubblica enorme. Il rapporto Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri, pubblicato a ottobre da ActionAid e dal dipartimento di scienze politiche dell’Università di Bari, fornisce i dati di ciascun Cpr della nostra penisola mettendo in evidenza il numero dei rimpatri, quindi l’efficacia, e i costi in relazione alle varianti singole e ai tempi di detenzione media. Ebbene, il Cpr di Torino ha una percentuale di rimpatri eseguiti del 37 per cento, più bassa di dieci punti rispetto alla media nazionale del periodo 2018-2023. La percentuale di uscite per decorrenza termini raggiunge il 21 per cento degli ingressi (a Milano è il 10 per cento), molto al di sopra della media nazionale. Nella gestione 2018-2023 ha registrato una media di 88 presenze giornaliere e di 783 ingressi annuali con una permanenza media di 46 giorni (la media nazionale è di 36 giorni). Il 24 per cento degli ingressi annui proviene dal carcer, mentre a livello nazionale è più bassa di nove punti. La quota di richiedenti asilo è del 15 per cento, che nel resto del paese sale al 22 per cento. Nel periodo 2018-2023, ogni persona nella struttura ha avuto un costo giornaliero medio di 34,30 euro, poco al di sopra del dato nazionale. Il costo complessivo della struttura è stato di oltre quindici milioni di euro, di cui il 32 per cento per la manutenzione straordinaria, segno questo delle numerose proteste sfociate in gesti vandalici. Infine, “nonostante sia stato sostanzialmente chiuso per l’intero anno, nel solo 2023 il Cpr di Torino è costato oltre tre milioni di euro. Il costo medio di un singolo posto nel 2022 è stato pari a poco più di 16mila euro”, numeri che oggi indicano il Brunelleschi come il Cpr più costoso di tutta Italia, e alla luce della bassa percentuale di rimpatri, in relazione ai costi elevati, portano a dedurre che il vero scopo non sia rimpatriare. Piuttosto rassicurare l’elettorato e, eventualmente, intimorire i migranti. Uno scenario aperto - L’inchiesta sulla morte di Moussa Balde ha visto pochi giorni fa l’archiviazione di dieci persone indagate a vario titolo. Secondo il giudice per le indagini preliminari (gip), le “gravi criticità nella gestione e idoneità dei locali del Cpr da parte di tutti gli enti e responsabili preposti” non sono “perseguibili penalmente per difetto di specifica copertura sanzionatoria”. Insomma, le violazioni ci sono state, ma “l’assenza di un sistema di adeguata vigilanza del rispetto dei loro diritti” e la “farraginosità della normativa relativa ai trattenuti nei Cpr” salva gli indagati. Tuttavia, poche settimane fa “un giudice di pace di Roma ha finalmente accolto le sollecitazioni che tutti gli esperti del settore facevano da anni sul sistema dei Cpr - ci racconta l’avvocato Savio - ponendo alla Corte costituzionale una questione di legittimità sul profilo dei modi della detenzione che non sono determinati per legge. Oggi, i privati che gestiscono i Cpr hanno la massima autonomia sulla detenzione dei migranti nelle strutture. Non esiste nessuna legge che disciplini questo settore. Mentre l’articolo 13 della nostra Costituzione prescrive sia i casi che i modi di limitazione delle libertà personali. Tutte le libertà personali, anche quelle dei migranti trattenuti in Cpr devono essere disciplinate dalla legge. Ora la Corte dovrà decidere la questione di legittimità costituzionale e, se accolta, il parlamento, come è per il carcere, dovrà disciplinare i modi della detenzione. Questo potrebbe cambiare tutto il sistema”. Milano. Il cappellano dell’Ipm Beccaria affiancato da un imam per la cura dei ragazzi di Roberta Barbi vaticannews.va, 12 novembre 2024 Don Claudio Burgio, cappellano dell’istituto di pena minorile di Milano, ha chiesto di avere un imam accanto nella sua opera pastorale così da assistere i tanti giovani musulmani detenuti nella struttura. L’appello è stato raccolto dall’Arcidiocesi e dal Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale. La domanda di fede nella Generazione Z non è cessata, anzi, è “un fuoco che brucia sotto la cenere”: parola di don Claudio Burgio, un sacerdote che di ragazzi se ne intende, da anni accanto a quelli più difficili o forse solo più bisognosi di cure, come lo sono i reclusi nell’istituto di pena minorile Beccaria di Milano di cui è cappellano. “Il rapporto con Dio per i giovani d’oggi è diverso da quello delle generazioni precedenti - racconta ai media vaticani - è molto meno formale e convenzionale e più personale, spesso critico verso le istituzioni e la tradizione, ma comunque c’è ed è per questo che abbiamo bisogno di un approccio diverso con questi ragazzi”. Dal momento che anche tra i detenuti più giovani la percentuale di stranieri, soprattutto provenienti da Paesi di religione islamica, sta crescendo enormemente, don Burgio si è fatto portavoce di una richiesta originale: essere affiancato da un imam nella cura spirituale di questi ragazzi. “Il carcere deve essere educativo e non punitivo - spiega - l’educazione passa anche per la cura della spiritualità. Bisogna dare a tutti una possibilità di formazione nella vita e formazione anche da un punto di vista religioso”. I giovani musulmani dell’Ipm hanno accolto felicemente la notizia: “Sono desiderosi di conoscere questa figura quando arriverà e di portare avanti insieme un discorso formativo e di preghiera - afferma il cappellano - è un modo per convivere e spero diventi anche un modo per spegnere i momenti di fatica e conflittualità che inevitabilmente in carcere si presentano”. Alla richiesta del cappellano del Beccaria hanno aderito anche il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano e l’Arcidiocesi che si è adoperata per cercare una persona da affiancargli per i giovani musulmani: “Viviamo in un tempo in cui il dialogo interreligioso è una prospettiva importante - prosegue don Claudio - con la persona che lavorerà con me spero di intraprendere una proficua collaborazione e uno sguardo comune nel rispetto delle differenze che ci sono tra di noi e che sono un valore e una ricchezza”. Una proposta, quella del cappellano milanese, che dimostra quanto sia vivo il dialogo interreligioso tanto caro a Papa Francesco all’interno della Chiesa: “Nel campo della Pastorale carceraria siamo un po’ indietro, ma è importante avviare questo dialogo - conclude - ci sono diverse esperienze in alcuni istituti italiani, ma non è ancora una prassi consolidata, speriamo lo diventi al più presto”. Napoli. Alla marcia per la strage di Ponticelli critiche al “modello Caivano” La Presse, 12 novembre 2024 Ampie critiche al modello e al Ddl Caivano si levano dalla commemorazione in occasione dei 35 anni della strage di Ponticelli, a Napoli, dove 4 innocenti persero la vita. La manifestazione, organizzata da Libera, ha visto la partecipazione di circa tremila persone, coinvolgendo 11 scuole di tutta la Municipalità VI. “In tante e tanti per ricordare Gaetano De Cicco, Salvatore Benaglia, Domenico Guarracino e Gaetano Di Nocera, quattro vittime innocenti di camorra in un quartiere che ha già pagato un tributo di sangue altissimo. In questi ultimi giorni ci sono stati gli omicidi di Santo, Emanuele, Arcangelo. Sono tante le vittime di questo territorio e i ragazzi hanno deciso di scendere in piazza. Quello che è successo ha portato a un decreto che è servito solo a riempire gli IPM senza dare risposte a questi ragazzi, parlo del decreto Caivano. È l’esempio lapidario di come una politica legalitaria e giustizialista non è risolutiva” afferma Pasquale Leone, referente provinciale di Libera Napoli, alla luce dei nuovi sanguinosi omicidi che si sono consumati in città. “Pensare che si possa risolvere il problema dell’educazione e della violenza giovanile a Napoli attraverso le carceri è completamente fuorviante. Serve un piano straordinario educativo per le comunità e i territori” ribadisce il referente regionale di Libera Campania, Mariano Di Palma. Amaro il commento di Silvia Guarracino, figlia di Domenico, una delle quattro vittime innocenti della strage di Ponticelli “Dopo 35 anni non è cambiato nulla, anzi è peggiorato. Prima i ragazzini di 15 o 16 anni non erano armati. Napoli non credo possa salvarsi da sola, ha bisogno del sostegno dello Stato, della presenza delle istituzioni, di creare lavoro e cultura”. Per l’Assessore alla sicurezza del Comune di Napoli, Antonio De Iesu “I giovani devono essere consapevoli nell’assumersi le proprie responsabilità davanti alle regole del vivere civile. Io non sono contro il modello Caivano, dico applichiamolo in altre zone, come ad esempio qui a Ponticelli”. Di diverso avviso il presidente della Municipalità VI Alessandro Fucito “Non credo che sia il modello Caivano la soluzione. Servirà un piano straordinario per l’educazione e il reddito delle aree a rischio del Paese a partire dalle periferie di Napoli”. Anche l’Unione degli Studenti Campania contraria al modello e al decreto Caivano “Noi pensiamo che le città più sicure non le facciano soltanto i militari, soltanto i controlli ma le facciano i servizi” ha detto Jacopo Re. Modena. In carcere più strumenti di riscatto e reinserimento comune.modena.it, 12 novembre 2024 In Consiglio comunale la seduta dedicata al Sant’Anna con la testimonianza di un detenuto e gli interventi del direttore Sorrentini, di padre Stenico e della garante De Fazio. Said è un semilibero, esce al mattino e torna nel primo pomeriggio. È detenuto nel carcere di Sant’Anna da cinque anni e denuncia il sovraffollamento che c’è. Ma Said è uno dei “fortunati”, perché è uno dei pochi (una trentina in tutto) che ha la possibilità di lavorare fuori, in una cooperativa: “un’esperienza che - afferma - mi ha cambiato la vita”. Con un permesso speciale ha potuto prolungare il suo tempo fuori dal carcere e ha portato la propria testimonianza in occasione della seduta del Consiglio comunale di lunedì 11 novembre, dedicata alla Casa Circondariale di Modena Sant’Anna. Ad aprire i lavori è stato il presidente del Consiglio Antonio Carpentieri, che ha introdotto gli interventi del sindaco Massimo Mezzetti, del direttore della Casa circondariale di Modena Orazio Sorrentini, di padre Giuliano Stenico, della garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale Giovanna Laura De Fazio e, appunto, di un detenuto. Presenti alla seduta diverse autorità civili e militari. Sul tema è stata discussa anche una mozione presentata da Pd, Alleanza Verdi-Sinistra, Spazio Democratico, Movimento 5 stelle, Modena Civica, Pri-Azione-Sl, Forza Italia. Il presidente Carpentieri ha ricordato il percorso intrapreso dall’Assemblea che ha visto la visita dei consiglieri alla Casa Circondariale, una prima commissione di approfondimento e la seduta consiliare. In particolare, Carpentieri ha evidenziato l’importanza dell’umanizzazione del carcere, non solo come questione etica ma anche di giustizia, sicurezza sociale e civiltà. Il presidente ha quindi sottolineato che, come organo che rappresenta la città, il Consiglio deve lavorare affinché le strutture penitenziarie possano fornire ai detenuti strumenti concreti di riscatto e reinserimento, mentre chi ci lavora deve essere messo nelle condizioni di svolgere il proprio compito con serenità e professionalità. Il sindaco Massimo Mezzetti, che a sua volta si è recato in visita al carcere nei giorni scorsi, ha ricordato la rivolta che scoppiò nel marzo 2020 e ha richiamato il costante problema del sovraffollamento carcerario a Modena e in Italia, con 550 detenuti a fronte dei 372 posti presenti al Sant’Anna. Il sindaco ha quindi sottolineato che il carcere in Italia non sta funzionando, che produce recidiva e non garantisce i diritti sia dei detenuti sia di coloro che vi lavorano, e la giustizia si deve basare su una pena certa e sul diritto a un corretto reinserimento nella società. Ha quindi auspicato che dal Consiglio si levi una voce di richiesta di certezza della pena e di maggiori risorse per consentire che le pene tendano davvero alla rieducazione del condannato, come stabilisce l’articolo 27 della Costituzione. Il direttore della Casa circondariale Sorrentini ha evidenziato la difficoltà di dirigere un carcere “ancor più quando è afflitto da varie carenze e quanto più c’è sovraffollamento; un problema comune a quasi tutte le carceri italiane. Il carcere di Modena - ha proseguito - ha 34-35 anni e, dei due padiglioni, quello vecchio ne dimostra anche di più, in quanto presenta difetti strutturali legati alla sua vetustà: la decisione di destinare risorse al carcere è una scelta politica che va fatta ai più alti livelli”. Sorrentini ha inoltre sottolineato che il recupero e il reinserimento di un detenuto non dovrebbe essere un tema divisivo, che occorre creare più opportunità per i detenuti e che “il principio cardine per il recupero è quello della individualizzazione del trattamento”. Per Padre Giuliano Stenico “un carcere punitivo non è civile né umano, risponde a logiche di vendetta contraddicendo al nostro senso civico e all’obiettivo di ridurre la criminalità, perché rispondere al male con altro male rinforza il circolo vizioso del male. In carcere c’è sovraffollamento e isolamento: il primo - ha sottolineato Stenico - impedisce ai detenuti di entrare in contatto con se stessi e di riflettere per arrivare a un cambiamento, il secondo spesso li porta alla depressione. O aiutiamo le persone a rieditare la loro identità o forniamo le basi a una recidiva”. Stenico ha infine aggiunto che “non si possono dividere le condizioni degli agenti che lavorano in carcere, logoranti e nel lungo tempo insostenibili, da quelle dei detenuti: chi fa politica deve preoccuparsi innanzitutto delle persone”. A concludere degli interventi la garante De Fazio si è soffermata sul diritto all’affettività e alla sessualità delle persone detenute, riconosciuto dalla Corte costituzionale: “Uno degli aspetti oggetto di allarme generale, anche per l’istituto di Modena - ha detto - rispetto a condotte autolesive è proprio legato ai rapporti affettivi e con i familiari. La sentenza della Corte costituzionale rappresenta una svolta significativa affermando la necessità che vengano garantiti alle persone ristrette colloqui privati con i propri partner: occorre trovare spazi adeguati, anche al di fuori della struttura, prevedendo colloqui non sotto la sorveglianza visiva. I rapporti affettivi e familiari sono indispensabili anche rispetto alla funzione rieducativa della pena, perché sono uno dei maggiori fattori di motivazione”. Livorno. In nome dei diritti, storia di Giovanni De Peppo di Dario Nuzzo Confidenze, 12 novembre 2024 Mi sono sempre battuto per il benessere degli animali e delle persone private della libertà. Così ho accettato di seguire il progetto al penitenziario di Gorgona dove i detenuti si prendono cura di mucche e cavalli creando un rapporto speciale con loro. Ero un bambino particolare, e per particolare intendo che mi sentivo quasi mancare quando passavo di fronte alle macellerie di Trieste, la città dove ho trascorso la mia infanzia, e vedevo gli animali appesi, perché all’epoca non c’era la discrezione di oggi e non si nascondeva nulla ai bambini. Solo guardandoli riuscivo a percepire quanta sofferenza e devastazione potesse esserci dietro quello che arriva in tavola, ed è stato proprio allora che ho iniziato a rifiutarmi di mangiare carne, con buona pace dei miei genitori, per poi diventare vegano con il trascorrere del tempo. Degli incontri fatti da piccolo con animali che non fossero quelli classici da compagnia, mi è rimasto impresso quello con un pinguino reale che la città di Trieste aveva adottato da una nave di carico proveniente dal Sud delle Americhe. Ricordo che era stato ribattezzato Marco, era diventato molto popolare tra noi bambini, di ritorno da scuola lo trovavamo sulle rive e lo seguivamo, guardandolo incedere con quella sua camminata buffa… Solo che non era molto socievole, e se qualcuno del gruppo lo importunava rischiava di farsi beccare. Già da piccolo sentivo quanto gli animali fossero in grado di provare emozioni e relazionarsi tra loro proprio come facciamo noi, e con il tempo ho deciso di portare questo credo attivamente nella mia vita: per tanti anni nel mio impegno sociale e civile come consigliere comunale e poi assessore a Livorno, che è la città dove vivo tuttora, mi sono concentrato sui diritti degli animali, cercando di dare il mio contributo sia al loro benessere in città e di lanciare un messaggio improntato alla convivenza tra uomo e animale. Ho sognato una città dove le rondini potessero fare il nido indisturbate, dove i cani potessero avere spazi verdi per correre e giocare, dove le colonie feline potessero ricevere aiuto e riconoscimento per garantire ai gatti le cure di cui avevano bisogno. E ho lottato perché diventasse esattamente questo. Parallelamente all’impegno politico ho lavorato principalmente come assistente sociale, ed è per questo che quando nel 2018 sono andato in pensione, a 65 anni, il sindaco di Livorno mi ha scelto come garante dei diritti delle persone private della libertà. C’è un parallelo importante da capire, secondo me, tra la comprensione dei diritti delle persone in difficoltà e quelli degli animali, e mi sono sempre battuto perché entrambe le categorie venissero ascoltate. L’isola di Gorgona, dove si trova un carcere che ospita al suo interno detenuti di media e alta sicurezza, ha una storia speciale che incrocia racconti di altissima umanità con l’empatia per gli animali. Tutto sta nell’idea di “cura” che si apprende man mano che la vita ci mette di fronte alla necessità di aiutare qualcuno di più fragile. Sull’isola esiste una colonia agricola collegata al carcere, un luogo dove i detenuti stessi vengono messi al lavoro. Solo che la colonia agricola comprendeva un macello dove nei tanti anni di attività sono stati uccisi migliaia di animali. Con la Lega Anti Vivisezione, un’importante associazione nazionale votata alla tutela degli animali con cui collaboro, oltre al progetto della colonia agricola c’era anche molta pressione per la chiusura del macello, una struttura che per me aveva dell’assurdo. Per tanti anni, il carcere si è mosso sotto un direttore sensibile e consapevole affiancato da un veterinario attento, che si occupava della salute e del benessere degli animali della colonia agricola. In seguito, c’è stato qualche avvicendamento, si è creata una situazione che ha rischiato di fermare un lavoro durato anni, fatto di sensibilizzazione anche a partire dalle scuole, di collaborazioni con le università d’Italia e soprattutto mirato a offrire la possibilità ai detenuti di sviluppare un legame empatico con gli animali. Nel 2020 però, il macello è stato finalmente chiuso, dopo aver ottenuto nel 2016 l’interruzione delle attività di macellazione degli animali. Che il progetto di mettere in contatto i detenuti con gli animali della colonia stesse funzionando ho avuto modo di capirlo quando il macello era ancora aperto, perché mi è rimasta impressa una richiesta molto forte dei prigionieri di salvare una maialina malata dalla macellazione, unicamente perché avendoci a che fare ogni giorno per lavoro si erano affezionati. Tenendo a mente questa vicenda, qualche anno dopo ho partecipato a una serie lezioni di scrittura creativa tenute nel carcere di Gorgona che avevano proprio questo scopo: parlare di come il rapporto con gli animali avesse portato qualcosa di nuovo e positivo nelle vite dei detenuti. La vita in colonia agricola non è diversa da quella nelle altre fattorie, e ha lo stesso potere di “guarigione”, in un certo senso: oltre al lavoro agricolo di prassi, i detenuti che fanno parte del progetto stanno a contatto diretto con gli animali per giornate intere e si prendono cura di loro pulendoli e spazzolandoli, assicurandosi che siano a proprio agio durante le visite con le scuole, dando loro da mangiare e facendo da assistenti al veterinario che si occupa della salute degli animali. Sono giornate molto indaffarate, perché anche se alcuni animali li stanno pian piano trasferendo in santuari che possano accoglierli, ci sono comunque centinaia di bovini, ovini, caprini da accudire, con tutte le loro esigenze e particolarità. Ogni detenuto ha un rapporto speciale con alcuni animali, e capita anche che gli dia un nome, instaurando un legame privilegiato con quello con cui trascorre più tempo. Ogni volta che mi capita di tornare mi rendo conto di quanto le cose siano cambiate in meglio, con il passare del tempo. Per esempio, quando mi capitava di andare sull’isola durante il periodo del cambio di direzione, nonostante avessi un ruolo per lo più istituzionale che non mi consentiva un rapporto diretto con gli animali ospiti della colonia, mi piaceva comunque fermarmi a guardarli, capire come stavano, cosa comunicavano e magari captare qualche bisogno specifico. E la cosa più straziante per me era guardare negli occhi una pecora o una mucca, che al contrario di quanto si pensa sono animali molto espressivi e comunicativi, e tornare a casa senza sapere se alla prossima visita di routine li avrei trovati ancora lì. All’epoca io facevo parte del programma istituzionale e avevo un ruolo prevalentemente da tramite che mi costringeva a tenere una certa distanza dalle singole situazioni, però non poter fare materialmente nulla perché gli animali non venissero portati al macello mi appesantiva il cuore, mi sembrava di essere tornato agli anni 80, quando ero stato a Gorgona per la prima volta con gli altri consiglieri comunali per le prime verifiche sullo stato dei detenuti. Poi, fortunatamente, le cose si sono sbloccate e oltre alla chiusura permanente del macello, che ha liberato tante risorse economiche e dato la possibilità di ricollocare alcuni animali in luoghi che potessero accoglierli o farli adottare, adesso il focus si è completamente concentrato sul rapporto positivo tra detenuti e animali. Oggi mi occupo anche di gestire una cooperativa sociale nella vicina città di Collesalvetti, che ha come obiettivo quello di dare lavoro ai detenuti sull’isola e mantenerli in contatto con gli animali della colonia agricola, perché veder formarsi questi legami giorno dopo giorno, visita dopo visita e progetto dopo progetto, mi ha fatto toccare con mano e ancora più in profondità quanto ci sia bisogno di questa connessione continua con la natura e quanto possa essere utile a tutti. Il futuro che vedo sull’isola e nella società, nonostante tutto, è un futuro di speranza: ci sono molte opere di sensibilizzazione che agiscono in rete, e penso si stia arrivando a una grande consapevolezza di cosa significhi prendersi cura di qualcuno, soprattutto di chi è più fragile. Fossombrone (Pu). Esercizio fisico in carcere, l’Università di Urbino fa la storia di Nicola Petricca Il Resto del Carlino, 12 novembre 2024 Presentati i risultati di 22 anni di ricerca sul campo. Il prof Ario Federici: “Il lavoro fatto da nostri ragazzi. È stato un cammino lunghissimo”. Quando, nel 2002, un gruppo di docenti della neonata Scienze motorie dell’Università di Urbino lanciò un progetto per inserire l’esercizio fisico per i detenuti nel carcere di Fossombrone, le certezze di riuscita erano poche e le notti insonni tante. A giudicare da quanto fosse gremita l’aula 1 del Petriccio che ieri ha accolto la presentazione dei risultati di 22 anni di ricerca, i suoi frutti sono tangibili e concreti. “Una visione di speranza” era il titolo dell’evento, che è stato anche un modo per celebrare la carriera del professor Ario Federici, responsabile del progetto fino al proprio pensionamento, lo scorso 1° novembre, e tra i suoi ideatori, insieme a colleghi come Marco Rocchi, oggi direttore del Dipartimento di Scienze biomolecolari. Tale ricerca ha coinvolto oltre 100 tra studenti e studentesse, alcuni poi diventati docenti, come Silvia Bellagamba, che ha tenuto una relazione sull’attività svolta: “Quando entrammo avevamo sentimenti contrastanti, ma c’era il desiderio di raggiungere gli obiettivi. Grazie alla collaborazione dei detenuti, che ci hanno sempre rispettato, e delle guardie penitenziarie, lo abbiamo potuto fare. Mi auguro che ci siano sempre più iniziative del genere e che la nostra figura sia istituzionalizzata, per diventare parte costante della loro rieducazione”. Proprio rieducazione e speranza sono stati i fili conduttori degli interventi della mattinata, a cominciare da quello di don Luigi Ciotti, presidente di Libera, che Federici ha indicato come ispiratore del progetto. Assente per motivi di salute, ha inviato una lettera letta dal rettore, Giorgio Calcagnini, in cui ha spiegato come “l’esperienza in carcere dovrebbe essere più che mai dinamica, capace di cambiare le persone nel profondo, restituendole alla vita sociale più consapevoli e responsabili”. Tra i relatori ci sono stati anche Marco Rocchi, che ha citato tra gli ispiratori del progetto il maestro Tito Danti, Fabio Musso, prorettore alla Terza missione, Giuseppe Paolini, presidente della Provincia, Fabio Luna, presidente del Coni Marche (che negli ultimi tre anni ha sostenuto economicamente il progetto, insieme a Uisp), l’assessore Gian Franco Fedrigucci, don Daniele Brivio, vicario dell’Arcidiocesi, Piero Sestili, presidente della Scuola di Scienze motorie, e Daniela Minelli, direttrice del carcere forsempronese. Poi è toccato a Federici: “Io sono stato l’asta di una bandiera, il vessillo sono stati miei ragazzi. Ho solo cercato di motivarli. È stato un cammino lunghissimo, ma nessuno potrà cancellarlo”. Poi il racconto si è trasformato in una sorta di lezione, spiegando gli aspetti emersi, ma con una nota: “Negli anni abbiamo capito che non avremmo dovuto inseguire la pubblicazione di articoli a tutti i costi, ma rivolgerci alle singole persone in difficoltà. L’ateneo non poteva essere solo ricerca. Alla fine, nel 2010 arrivo la Terza missione: non più un’università chiusa in laboratorio, ma che porta la propria luce fuori. Non so se siamo riusciti a dare speranza, ma ci abbiamo provato”. Infine, Paolo Ottaviani ha letto il messaggio che suo padre Giuseppe, atleta ultracentenario, aveva portato ai detenuti quando era stato invitato a Fossombrone, e Fiorella Pizzulli, laureata di Scienze motorie e per cinque anni attiva nel progetto, ha letto il contributo inviato da un carcerato. Progetto che Federici spera non si chiuda qui, ma sia preso in mano e portato avanti dai suoi colleghi. Brindisi. Tetro-carcere, i detenuti debuttano con “Orme” brundisium.net, 12 novembre 2024 Il Brindisi Performing Arts Festival si avvia alla conclusione, ma il gran finale è ancora tutto da vivere! Gli ultimi giorni del festival saranno dedicati al debutto di Orme, la nuova AlphaZTL Compagnia d’Arte Dinamica (Premio della Critica 2023), diretta del coreografo Vito Alfarano. Uno spettacolo che si preannuncia memorabile, portando sul palcoscenico gli eventi della storia contemporanea che hanno lasciato il segno nella vita di tutti noi. I danzatori professionisti della AlphaZTL saranno affiancati dai detenuti della Casa Circondariale di Brindisi, che vedranno coronato il lungo percorso di lavoro svolto durante il laboratorio di danza contemporanea tenuto in carcere dalla compagnia nell’ultimo anno. Grazie al sostegno del Garante delle Persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, AlphaZTL da anni sviluppa progetti di danza e teatrodanza in contesti di marginalità sociale, creando ponti tra il mondo esterno e quello carcerario e offrendo ai detenuti strumenti di espressione e crescita personale attraverso le arti performative. L’impegno per rendere la danza uno strumento di integrazione e cambiamento sociale è al centro dell’attività della AlphaZTL e di questa edizione del festival, confermando la missione della compagnia a favore di una cultura partecipativa e di una reale inclusione sociale e lavorativa: anche per questa produzione, infatti, i detenuti, come i danzatori professionisti, riceveranno regolare compenso per il periodo di prove conclusivo e per i giorni di spettacoli. Il debutto di Orme - Ideato da Vito Alfarano e Marcello Biscosi, con la regia e le coreografie di Vito Alfarano, Orme mette in scena eventi, grandi e piccoli, nazionali o mondiali, del secolo scorso e di quello attuale, che hanno impresso in ognuno di noi un ricordo o persino un trauma: il Tuca Tuca e la pandemia, i mondiali di calcio ‘82 e la caduta delle Torri Gemelle, le stragi in mare, l’uomo sulla luna, il diritto di voto alle donne. Eventi che si intrecciano con le piccole, grandi storie di tutti noi, attraverso i quali Orme racconta l’importanza della libertà di amare e di essere, la lotta per i diritti civili, i sogni infranti dei bambini, le persecuzioni razziali, la paura di morire e di vivere. Sarà un viaggio collettivo nelle storie che hanno segnato il Mondo e l’uomo in particolare. Eventi da cui trarre insegnamenti, per sempre. Orme ha debuttato nei giorni scorsi all’interno della sezione BPA YOUNG del festival, con spettacoli riservati agli studenti delle scuole medie e superiori della provincia, e ora si prepara al debutto aperto al pubblico. Lo spettacolo sarà in scena il 15 e 16 novembre al Teatro Don Bosco di Brindisi e il 17 novembre al Teatro Don Bosco di San Pietro Vernotico. Per acquistare i biglietti, visita il sito https://www.ticketsms.it/location/Teatro-Don-Bosco Con il Brindisi Performing Arts, AlphaZTL prosegue il suo percorso verso una maggiore inclusività, rafforzando di anno in anno la propria identità come realtà artistica impegnata nel sociale. Il coinvolgimento e la collaborazione con artisti impegnati per promuovere l’inclusione sottolinea l’impegno della compagnia nel valorizzare il talento in tutte le sue forme, abbattendo barriere e creando un contesto artistico che valorizza l’inclusione come risorsa e opportunità di crescita per l’intera comunità. Brindisi Performing Arts (BPA) è organizzato da AlphaZTL Compagnia d’Arte Dinamica, con il contributo di Ministero della Cultura, Regione Puglia, Comune di Brindisi, Comune di Carovigno, Comune di Mesagne, Comune di San Pancrazio Salentino, Comune di Torre Santa Susanna e Comune di San Pietro, Garante delle Persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Garante Regionale dei Diritti delle Persone con Disabilità, Garante dei Diritti del Minore del Consiglio Regionale della Puglia. In collaborazione con il Ministero della Giustizia e la Casa Circondariale di Brindisi. Media partner Ciccio Riccio. Per maggiori informazioni visita il sito https://www.brindisiperformingarts.com e i nostri profili social o scrivi a brindisiperformingarts@alphaztl.com Porto Azzurro (Li). Licia Baldi, l’insegnante che porta speranza nel carcere, protagonista su Rai3 di Elettra Gullè La Nazione, 12 novembre 2024 Una vita dedicata all’insegnamento e al riscatto dei detenuti. Domani su Rai3, il programma Nuovi Eroi racconterà la straordinaria storia di Licia Baldi, insegnante livornese insignita dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana dal Presidente Sergio Mattarella. Nata nel 1935 a Livorno, Licia ha trascorso la sua vita tra l’insegnamento e il volontariato, offrendo istruzione e speranza ai detenuti del carcere di Porto Azzurro sull’Isola d’Elba. “Ho dedicato la mia vita all’insegnamento. E rifarei tutto, potessi rinascere”: ecco le parole che usa la docente, che racconta con grande orgoglio le sue radici livornesi e la sua carriera. Laureata in lettere classiche, ottenne il primo incarico di supplenza all’Isola d’Elba. “Pensavo di starci poco tempo, e invece mi sono sposata, ho avuto due figli e quattro nipoti. Ho insegnato per 42 anni, prevalentemente lettere classiche, al liceo classico Foresi di Portoferraio”, sorride. Ma il destino l’ha portata anche su un altro cammino, quello dell’insegnamento ai detenuti. Nel 1986, dopo aver partecipato a un convegno presso il carcere di Porto Azzurro, Licia fece una proposta coraggiosa ai detenuti presenti: “Siamo insegnanti, se avete bisogno di noi, scriveteci”. Sorprendentemente, ricevette numerose richieste da parte dei detenuti, che desideravano continuare gli studi. “Allora, come volontari, abbiamo iniziato con un corso di liceo scientifico e, successivamente, anche di un percorso magistrale”, fa sapere. A poco a poco, il progetto crebbe moltissimo. Con l’aiuto di Guido Torrigiani, un professore della Normale di Pisa, portarono diversi detenuti fino al diploma magistrale: 12 in tutto. “È stato un grande successo e da allora abbiamo costituito l’associazione Dialogo, attraverso cui offriamo cultura e istruzione ai detenuti”, racconta con emozione. Licia ed altri volontari non solo hanno portato la didattica all’interno del carcere, ma hanno introdotto anche il teatro e una biblioteca. “Abbiamo iniziato dai corsi di alfabetizzazione fino a un progetto universitario chiamato Universo Azzurro”. Licia ricorda con affetto i successi ottenuti: “Cinque detenuti hanno conseguito la laurea. È una soddisfazione immensa vedere il loro riscatto”. Non sono solo i successi accademici a rendere speciale il lavoro di Licia, ma anche le relazioni umane che ha costruito. “Un ex detenuto, rientrato nello Sri Lanka, mi manda ogni giorno un messaggio con una foto di un fiore. Altri mi hanno scritto messaggi toccanti, segno che il nostro lavoro ha lasciato un’impronta profonda nelle loro vite. Non scorderò mai il messaggio che mi ha inviato un ex detenuto quando seppe dell’onorificenza ricevuta dal presidente Mattarella”, che l’ha nominata Commendatore dell’Ordine al Merito. L’impegno della docente è proseguito con ancora più energia dopo la sua pensione. “Abbiamo creato una sala vestiario per i più poveri, forniamo prodotti per l’igiene personale e collaboriamo a un progetto di coltivazione dei terreni Il verde tra le mura”, fa sapere. Non solo: all’interno del carcere si svolgono attività di artigianato, un corso di scacchi durante l’estate e anche un corso di musica. L’associazione gestisce pure una casa di accoglienza a Portoferraio per i familiari dei detenuti, in modo da offrire loro un alloggio temporaneo in occasione dei colloqui. “Non è semplice organizzare tutto, viste le diverse etnie presenti in carcere, ma siamo fortunati ad avere un cappellano molto bravo che offre supporto a tutti, indipendentemente dalla fede”. “Si cerca di far vivere queste persone”, riflette l’insegnante. Che aggiunge: “I detenuti hanno bisogno di aiuto per rendersi utili, per dare un senso alle loro giornate”. Per lei, insegnare in carcere non è solo una missione educativa, ma un impegno a restituire dignità a chi è in cerca di una seconda possibilità. Domani, la professoressa sarà in tv, col format originale che racconta su Rai3 le grandi storie di eroismo quotidiano di cittadine e cittadini insigniti dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con l’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Prodotto da Stand by Me e Rai Approfondimento con la preziosa collaborazione del Quirinale, Nuovi Eroi va in onda dal lunedì al sabato (dal lunedì al venerdì alle 20.15 e il sabato alle 20:35) su Rai3. Torino. Quando la musica aiuta ad “evadere” dalla quotidianità del carcere torinoggi.it, 12 novembre 2024 Sul palco del teatro del “Lorusso e Cutugno” i cantanti Gionathan e BlackRockStar, insieme a una band di 4 elementi. “Non ci lasciavano più venire via, tanto era l’entusiasmo. Le donne ci hanno chiesto svariati “bis”, mentre con gli uomini abbiamo avuto un simpatico fuori programma: un paio di detenuti sono saliti sul palco per fare un po’ di freestyle”: sSono le prime parole a caldo del cantante Gionathan e di Salvatore Barone, fondatore e presidente di Brothers Keeper Ministry, all’uscita dal carcere torinese delle Vallette. Ieri, lunedì 11 novembre, hanno trascorso la giornata con i detenuti per portare loro un po’ di leggerezza e spensieratezza. Nel teatro della Casa circondariale si sono infatti tenuti due concerti nell’ambito del “Prisons Tour”, sostenuto dal Consiglio regionale del Piemonte, che lo ha reso possibile tramite l’organizzazione partecipata: la mattina il pubblico era composto da un centinaio di detenuti della sezione maschile, mentre il pomeriggio da una cinquantina di donne. Dopo le tensioni e le rivolte di questa estate, la situazione negli istituti penitenziari si è andata normalizzando e ora hanno finalmente riaperto i cancelli per eventi dall’esterno. Così è stato possibile organizzare il “Prisons Tour”, nel periodo da lunedì 11 a giovedì 14 novembre: dopo il carcere di Torino, toccherà a Genova (12 novembre), Asti (13 novembre) e Biella (14 novembre). Dietro a tutto questo c’è l’associazione Brothers Keeper Ministry di Salvatore Barone e sua moglie Daniela Catena, che opera da oltre 20 anni nelle case circondariali per assistere, aiutare e sostenere i detenuti e le loro famiglie, sia in caso di bisogni pratici e materiali sia per un supporto psicologico e spirituale. L’associazione ha aperto e sta seguendo anche quattro case di accoglienza per detenuti ed ex detenuti in cerca di una nuova possibilità. Gli spettacoli del “Prisons Tour” prevedono brani di musica rap, funk e rock. La presenza del cantante e musicista olandese BlackRockStar, al secolo Rivelino Rigters, è particolarmente importante: con i suoi pezzi racconta i viaggi in Africa, dove ha visto l’estrema povertà dei bambini, ma anche i problemi di salute che ha dovuto affrontare e che lo hanno portato a un passo dalla morte; di quando il padre morì davanti ai suoi occhi all’età di 8 anni e di come da ragazzo sia entrato nelle gang e poi in carcere. Finché non ha conosciuto dei missionari cristiani: attraverso di loro ha ricevuto un messaggio d’amore e di speranza che ha cambiato la sua vita e che ora cerca di trasmettere ai carcerati. Un’esperienza talmente positiva, che gli educatori del carcere li hanno salutati con un impegno: “Si faranno loro carico di chiedere alla direzione di organizzare un nuovo evento con noi”, sorride emozionato Gionathan. Annuisce Salvatore: “A causa degli strascichi delle proteste delle scorse settimane, non tutti i detenuti che avevano fatto richiesta oggi hanno potuto partecipare. È probabile che in primavera ripeteremo il concerto aggiungendo anche dei workshop di scrittura creativa, su più giorni. Ora terminiamo questo tour, poi cominceremo a parlarne”. Arriva il medico di base per le persone homeless, ma i migranti senza documenti restano esclusi di Federica Pennelli Il Domani, 12 novembre 2024 Approvata una legge che porta una buona notizia, frutto di un compromesso con la maggioranza di governo, che però lascia indietro altre persone vulnerabili senza dimora. Le associazioni che lavorano con i migranti: “Siamo felici del riuscito passaggio del Ddl, ma non possiamo non constatare che la normativa non include i cittadini stranieri senza permesso di soggiorno”. La garanzia del diritto alla salute per le persone più fragili finora era stato assolta dalle associazioni del terzo settore impegnate nell’assistenza sanitaria, con l’ausilio della medicina di strada per chi non aveva una casa. Le persone senza dimora, infatti, non erano tutelate dallo stato nel diritto alla medicina di base: se una persona risultava senza dimora, e quindi senza iscrizione all’anagrafe comunale, non aveva la possibilità di avere un medico di base, ma solo di accedere alle prestazioni di emergenza presso i pronto soccorso. Alcune leggi regionali avevano salvaguardato il loro accesso alle cure del medico di base, come la legge Mumolo in Emilia-Romagna, poi applicata in altre cinque regioni: Puglia, Marche, Abruzzo, Liguria e Calabria. Il 6 novembre, invece, il Senato ha approvato all’unanimità il disegno di legge a prima firma Marco Furfaro (Pd), per garantire l’assistenza sanitaria ai senza dimora. Il provvedimento, già approvato alla Camera, è ora definitivo. È stato infatti istituito, nello stato di previsione del ministero della Salute, un fondo con una dotazione di un milione di euro per ciascuno degli anni 2025 e 2026, per il finanziamento di un programma sperimentale con l’obiettivo di assicurare progressivamente il diritto all’assistenza sanitaria alle persone senza dimora prive della residenza anagrafica nel territorio nazionale o all’estero, che soggiornano regolarmente nel territorio italiano. Tutto ciò per consentire alle persone senza dimora l’iscrizione nelle liste degli assistiti delle Aziende sanitarie locali (Asl) la scelta del medico di medicina generale o del pediatra di libera scelta, nonché l’accesso alle prestazioni incluse nei livelli essenziali di assistenza. Dando uno sguardo ai dati Istat relativi al 2021 delle persone senza tetto e senza dimora iscritte all’anagrafe, si evince che erano circa 96mila, il 62 per cento di nazionalità? italiana, e il 38 per cento cittadini e cittadine straniere. Questi ultimi dati, però, riguardano solo le persone senza dimora censite, un dato che non può tener conto della maggior parte delle persone senza dimora che non entrano in contatto con i servizi, che sono la maggioranza. Marco Furfaro dice a Domani che questa legge “affronta per la prima volta il problema. I senza dimora non sono solo quelli che noi siamo abituati a immaginare, che vivono sul ciglio delle stazioni, delle metro o sotto a un ponte. Un senza dimora è anche un padre o una madre di famiglia che divorzia e va a vivere in macchina o da un’amica”. La legge è il risultato di una mediazione con il governo: la proposta iniziale, infatti, prevedeva di assegnare a tutti i senza dimora un medico di famiglia. L’accordo che e? stato raggiunto ha portato al risultato di una sperimentazione di due anni, che riguarderà 14 citta? metropolitane: Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Torino e Venezia. In merito all’esclusione delle persone migranti senza documenti, Furfaro spiega a Domani: “Avrei voluto che riguardasse anche le persone senza dimora senza permesso di soggiorno. Ma con questo governo e questa maggioranza era impensabile intervenire. C’è un tema gigantesco che riguarda decine di migliaia di invisibili che la destra vuole lasciare nell’illegalità per evocare paura e rabbia. Bisogna avere il coraggio di dire che la miglior sicurezza, per loro e per le comunità, è portarli in percorsi di legalità”. I migranti - Alessandra Durante è una medica dell’associazione Naga di Milano, che tramite un ambulatorio visita e assiste persone migranti prive di assistenza sanitaria di base: “Da più di 30 anni lavoriamo sperando che, un giorno, tutti avranno diritto ad avere un medico di base. Ci siamo resi conto che questa è una legge che non serve ai nostri utenti, che sono tutti senza documenti o che magari hanno ancora un permesso di soggiorno, ma non hanno più il lavoro e non hanno più diritto all’iscrizione al servizio sanitario nazionale. Questa legge dà una possibilità alle persone senza dimora, ma è ancora molto lacunosa per i migranti”. Stefano Caselli, presidente del Laboratorio salute popolare (Lsp) di Bologna, da anni assiste anche le persone senza dimora per le cure di base: “Siamo felici del riuscito passaggio del ddl. Questo programma sperimentale che garantisce l’accesso ai servizi sanitari essenziali per i cittadini italiani e stranieri regolarmente soggiornanti ma privi di residenza, è senz’altro un passo avanti verso un reale universalismo del Ssn”, dice a Domani. Tuttavia, continua Caselli, “non possiamo non constatare che la normativa non include i cittadini stranieri senza permesso di soggiorno. E capiamo che ciò accade principalmente per ragioni di compatibilità con le risorse economiche disponibili e con i criteri di regolarità di soggiorno richiesti per l’iscrizione al sistema sanitario italiano con la normativa sull’immigrazione”. ?Le sanitarie e i sanitari del Lsp annunciano che si batteranno “affinché questa misura sperimentale possa essere un primo passo verso l’inclusione progressiva di altri gruppi vulnerabili” ma, al momento, “dobbiamo continuare sottolineare che i vincoli di risorse e di leggi esistenti rappresentano barriere significative per un’ampissima fetta di persone che contribuiscono enormemente alla crescita delle città e che spesso lavorano in condizioni precarie, come ad esempio in asset strategici come aeroporti o interporti. Per non parlare poi dei braccianti adoperati in tutta Italia in ambito agricolo: la storia di Satnam Singh ci può sempre rinfrescare la memoria”. Caselli sottolinea che il censimento attuale in Italia “ci parla di soltanto quattro persone straniere senza dimora ogni dieci totali, ed è completamente fuorviante. Le persone straniere e senza dimora inserite all’interno di quella statistica sono infatti solo quelle che sono entrate in contatto con i servizi, ma esiste un’enorme fetta di invisibili che sono coloro che si rivolgono a noi ogni giorno. Se così non fosse, grazie a questa buona proposta di legge, potremmo finalmente chiudere i battenti; ma così non è”. Migranti. Decreto Paesi sicuri, i giudici rinviano ancora alla Corte Ue di Valentina Stella Il Dubbio, 12 novembre 2024 Il tribunale di Roma sospende il trattenimento per 7 i migranti di origini egiziana e bangalese portati in Albania. Salvini: “Altra sentenza politica”. Di nuovo il “modello Albania”, così come pensato da Giorgia Meloni ed Edi Rama, e il recente decreto Paesi sicuri vengono smontati dai giudici. Ieri la sezione Immigrazione del Tribunale di Roma ha rimesso il caso dei migranti trattenuti nel centro italiano di permanenza per il rimpatrio di Gjader alla Corte di Giustizia dell’Ue, sospendendo il provvedimento di convalida del trattenimento. La decisione riguarda sette migranti, provenienti dall’Egitto e dal Bangladesh, che sono stati portati venerdì dalla nave Libra al di là dell’Adriatico. Il giudizio sulla convalida viene ora sospeso e ne consegue la liberazione e quindi il ritorno nel nostro Paese, nel primo “Cara” disponibile. La magistrata presidente di sezione, Luciana Sangiovanni, come il 18 ottobre, evidentemente consapevole della necessità di una comunicazione chiara per una decisione che avrebbe riacceso le polemiche, ha emanato una nota stampa. “Il rinvio pregiudiziale è stato scelto - si legge nel comunicato - come strumento più idoneo per chiarire vari profili di dubbia compatibilità con la disciplina sovranazionale emersi a seguito delle norme introdotte dal citato decreto legge (il dl Paesi sicuri appunto, ndr), che ha adottato una interpretazione del diritto dell’Unione europea e della sentenza della CgUe del 4 ottobre 2024 divergente da quella seguita da questo Tribunale - nel quadro della previgente diversa normativa nazionale - nei precedenti procedimenti di convalida delle persone condotte in Albania e ivi trattenute”. Tale scelta, spiega ancora Sangiovanni, “è stata preferita a una decisione di autonoma conferma da parte del Tribunale della propria interpretazione”. I giudici hanno posto alla CgUe quattro quesiti, ossia se il diritto dell’Unione “osti a che un legislatore nazionale proceda anche a designare direttamente, con atto legislativo primario, uno Stato terzo come Paese di origine sicuro”, come avvenuto con il Dl Paesi sicuri; e ancora, se il diritto eurounitario “osti quanto meno a che il legislatore designi uno Stato terzo come Paese di origine sicuro senza rendere accessibili e verificabili le fonti adoperate per giustificare tale designazione”; se inoltre il diritto Ue debba essere interpretato nel senso che, nel corso di una procedura accelerata di frontiera da Paese di origine designato sicuro, ivi inclusa la fase della convalida del trattenimento in essa disposto, il giudice possa in ogni caso utilizzare informazioni sul Paese di provenienza, attingendole autonomamente dalle fonti” come la direttiva Ue del 2013; e infine se le norme sovranazionali europee ostino “a che un Paese terzo sia definito “di origine sicuro” qualora vi siano, in tale Paese, categorie di persone per le quali esso non soddisfi le condizioni sostanziali di siffatta designazione”. Inevitabili le spaccature politiche sulla decisione. Il primo a parlare è stato il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini: “Un’altra sentenza politica non contro il governo, ma contro gli italiani e la loro sicurezza. Governo e Parlamento hanno il diritto di reagire per proteggere i cittadini, e lo faranno. Sempre che qualche altro magistrato, nel frattempo, non mi condanni a sei anni di galera per aver difeso i confini…”. Ha scandito a propria volta in Aula il capogruppo di Forza Italia al Senato Maurizio Gasparri: “I magistrati sono eversivi: c’è bisogno di una rifondazione della magistratura. Questa è una ‘Capitol Hill’ al contrario. Abbiamo perso la pazienza”. “Ancora una figura barbina da parte del governo - ha commentato al contrario la responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani -, che dimostra come, con le forzature e i trucchetti per aggirare la legge, non si vada da nessuna parte. L’unico effetto è quello di condannare persone esauste, che arrivano in Europa per scappare da violenze e discriminazioni, a nuovi viaggi e trasferimenti estenuanti. Una scelta crudele e vergognosa che sta peraltro determinando danni enormi al bilancio dello stato”. Ancora, per Riccardo Magi, deputato di +Europa, “siamo stati facili profeti: da mesi affermiamo che la maggior parte dei migranti deportati in Albania sarebbero stati riportati in Italia. Anche stavolta abbiamo avuto ragione. A questo punto, il governo ha l’obbligo di interrompere le deportazioni”. “Prosegue contro ogni logica e contro il buonsenso - ha dichiarato pure il deputato Alfonso Colucci, capogruppo M5S in commissione Affari costituzionali - il gioco dell’oca del governo Meloni sulla pelle dei migranti, che al costo di un miliardo di euro dei cittadini italiani viaggiano avanti e indietro per il Mediterraneo tra l’Albania e l’Italia. Una ignobile speculazione fatta sulla pelle delle persone”. Intanto i pm di Perugia procedono per il reato di minacce aggravate nel fascicolo avviato, dopo la trasmissione degli atti dalla Procura di Roma, in relazione ai messaggi di minacce recapitati sulla mail della giudice Silvia Albano, che si era espressa, insieme ad altri colleghi, il mese scorso su altre procedure di trattenimento in Albania. Migranti. Meloni tira dritto: “Avanti con l’Albania, i giudici vogliono sfinirci” di Ilario Lombardo La Stampa, 12 novembre 2024 I tempi lunghi complicano i piani. La premier: attendere le sentenze europee sui Paesi sicuri. L’incognita del Quirinale: senza un chiarimento in Ue Mattarella potrebbe opporsi. Quando il ministero dell’Interno aveva annunciato il ricorso in Cassazione, il 22 ottobre scorso, Matteo Piantedosi, come tutti gli altri colleghi del governo, si era detto fiducioso che i giudici del Palazzo di Piazza Cavour avrebbero dato presto un responso. E che sarebbe stato favorevole al modello Albania. L’attesa era per gli inizi di dicembre. Nel frattempo il governo si era subito organizzato con il primo strumento legislativo a disposizione, e scatenando l’ira delle opposizioni aveva trasformato il decreto sui Paesi sicuri per i rimpatri in un emendamento del decreto flussi, già in conversione in Parlamento. Ora invece i tempi si allungheranno di nuovo. Perché i magistrati della sezione immigrazione che hanno imposto il trasferimento in Italia dei sette migranti, hanno formalmente chiesto che sia la Corte di Giustizia dell’Unione europea ad esprimersi per sciogliere - si spera definitivamente - ogni dubbio giuridico se l’Italia abbia il diritto di decidere in totale autonomia quali Paesi considerare sicuri. “Il blitz dei giudici romani”, come viene definito da tutte le fonti di governo consultate, questa volta riguarda i tempi. Si intravede una malizia nella nuova sentenza del tribunale della capitale. Mettere nelle mani dei colleghi del Lussemburgo l’ultima parola sulla legittimità dei centri in Albania vuol dire portare la contesa giuridica a un livello giuridico superiore rispetto alla Cassazione. Secondo Giorgia Meloni è diventato “ormai chiaro” che i giudici lavorano “secondo considerazioni politiche” e stanno facendo di tutto, spiegano da Palazzo Chigi, per dilatare i tempi, “e prenderci per sfinimento”. Per il momento il governo non cambierà nulla dell’impianto messo in piedi con Tirana. E l’ordine di Meloni, che attraverso il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari plana sulle chat dei parlamentari, è esattamente questo: “Continuiamo fino a che non ci sarà la sentenza”. Senza minimamente pensare ai costi, e all’impegno di chi dovrà portare i migranti sulle navi fino in Albania e poi imbarcarli di nuovo e trasferirli in Italia. Alla Corte di Giustizia europea il Viminale porterà le sue controdeduzioni. Al netto della rabbia contro i giudici, perché si allungherà l’attesa di una risposta definitiva, il governo è abbastanza ottimista. La strategia comunicativa studiata da Fazzolari si basa su una premessa: è convinzione della destra italiana che la recente sentenza dei giudici del Lussemburgo affermano che è competenza degli Stati designare i Paesi sicuri per i rimpatri. Almeno fino a quando il nuovo Patto dell’Unione sulla migrazione, frutto di un lungo lavoro della scorsa legislatura, non imporrà il contrario. E cioè che a prevalere sarà una lista unica valida per tutti i membri dell’Ue. Per l’Italia Egitto e Bangladesh sono Paesi sicuri. La definizione di cosa sia un Paese sicuro è frutto di un procedimento complesso affidato a uffici dei ministeri della Giustizia e degli Esteri che, sulla base di informazioni sensibili, si dedicano proprio a questo. Nel caso dell’Egitto, poi, c’è una frequentazione commerciale e turistica tra i due governi, che per Meloni è la prova del fatto che non possa essere considerato insicuro, nonostante la premier conosca bene lo stato deteriorato del regime di Abdel Fattah al-Sisi, la persecuzione degli oppositori e lei stessa in passato si sia espressa contro la violazione dei diritti umani. I tempi più lunghi complicano certamente i piani di Meloni che pensava di risolvere in fretta, attraverso un’integrazione normativa in corsa, la questione dei centri di Schengjin e Gjiader. Sul medio periodo la premier punta molto sulla nuova Commissione europea, sulla sponda che le ha offerto la presidente Ursula von der Leyen su una svolta nelle politiche migratorie, e sulla presenza del fedelissimo Raffaele Fitto al tavolo di comando dell’esecutivo Ue. Sul più breve periodo però la premier teme altro. e guarda al Quirinale. Se il decreto con i Paesi sicuri andrà in conversione, come sembra, senza un pronunciamento della Corte Ue, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella potrebbe anche fermare tutto. Di fronte a sé il Capo dello Stato avrebbe due strade. Potrebbe respingere l’intero decreto finché non verrà stralciata la parte sui rimpatri sicuri. Oppure fare come fece nel caso della lunga contesa sulle concessioni balneari, quando il governo piazzò nel Milleproproghe un ulteriore rinvio, pur di non adeguarsi alle norme europee. Mattarella inviò una lettera dove mise per iscritto i propri rilievi ed espresse le proprie perplessità sull’ennesima proroga, chiedendo di correggere una legge che era contraria al diritto europeo. Migranti. Meloni e Nordio vogliono la tregua. Salvini attacca di nuovo i magistrati di Errico Novi Il Dubbio, 12 novembre 2024 Toghe e politica, scontro senza fine. La premier teme di arrivare al referendum sulla separazione delle carriere umiliata dalle pronunce. Passa un’ora, scarsa. Un’ora dalla notizia dell’ennesima decisione sui migranti contraria al governo, dall’ennesima batosta che incenerisce il decreto Paesi sicuri e la politica dell’Esecutivo Meloni sui trattenimenti. Basta, a Matteo Salvini, per sfornare a propria volta l’ennesima dichiarazione anti-giudici. “Se uno di questi sette clandestini che per colpa di questa sentenza torneranno in Italia commetteranno un reato, chi paga? È arrivato il momento di approvare la separazione delle carriere e la responsabilità civile dei magistrati”. Rischia di andare avanti così all’infinito. Perché il vulnus normativo è chiarissimo, ormai: le misure fin qui adottate per legittimare la “deportazione” dei migranti sull’altra sponda dell’Adriatico non reggono. E che non avrebbero retto, era in fondo chiaro, alla presidente del Consiglio, prima ancora che il Dl Paesi sicuri fosse varato. Davanti a chi le anticipò, lo scorso 20 ottobre, il rischio di una valanga di pronunce giudiziarie, motivate e difficilmente attaccabili, contrarie al “modello Albania” e al provvedimento emergenziale del Consiglio dei ministri, Meloni scosse la testa e replicò: “Dobbiamo comunque dare un segnale politico: il trattenimento in Albania ha senso per far comprendere anche a chi lucra sul traffico di esseri umani che l’Italia è una meta difficile da raggiungere”. Chiaro. Chiarissimo. Almeno quanto lo scenario che la presidente del Consiglio doveva avere davanti a sé quel giorno: l’elenco dei Paesi verso i quali l’Italia si autodichiarava non obbligata a garantire l’asilo politico avrebbe retto molto a fatica. Così è stato. Alcuni giudici hanno semplicemente disapplicato il decreto, che arriva a definire “sicuro” anche un Paese come l’Egitto, in cui Giulio Regeni è stato barbaramente torturato e ucciso perché, secondo gli aguzzini dello Stato nordafricano, forse era una spia (e non lo era). Era facile immaginare che il combinato disposto fra simili dati storici e la giurisprudenza sovranazionale cristallizzata nella pronuncia della Corte di Giustizia Ue dello scorso 4 ottobre avrebbe trasformato il Dl Paesi sicuri in un proiettile a salve. Adesso, da alcuni giorni, Giorgia Meloni ha un obiettivo: uscire dall’impasse, assorbire le inevitabili sconfitte in tribunale, incassare i colpi e rassegnarsi al ridimensionamento del modello Albania. In attesa di tempi migliori e del nuovo “Patto migrazione e asilo” europeo, che sarà efficace solo nel 2026. Non è certo un balsamo, come situazione, per un Esecutivo di centrodestra. Si è creato quello che da giorni viene definito un “cul de sac” proprio su una delle materie più identitarie per un governo a guida conservatrice. Capita. Dai vicoli ciechi tocca uscire, e in fretta. Evitare di rimanerci intrappolati. Ed è esattamente quello che Meloni intende fare. Che Meloni e Nordio, anzi, intendono fare. La prima per ragioni politiche intuibili, il secondo perché ha la competenza per comprendere quanto inutile sarebbe, per il centrodestra, sbattere la testa contro il muro, insistere in una battaglia già persa. Non è un caso che il guardasigilli abbia scelto una nuova strategia, nel confronto con l’Anm e la magistratura in generale: la “distensione con riserva”. Cioè la tregua armata. È il senso del discorso pronunciato dal ministro in occasione dei 60 anni di Magistratura democratica, corrente a cui sono iscritti alcuni, ma solo alcuni, dei giudici autori delle decisioni sfavorevoli all’Esecutivo sui migranti. Il quadro sarebbe ormai ben definito. Se non fosse che a complicarlo c’è appunto Salvini. Niente affatto intenzionato ad abbassare i toni nei confronti dei giudici. E a riconoscere l’irrecuperabile vantaggio che le toghe hanno acquisito, almeno a medio termine, nei confronti della politica, sulla questione migranti in Albania. A Salvini si aggiungono altre voci della maggioranza: sempre ieri Maurizio Gasparri ha definito i magistrati “eversivi”. Sarebbe tutto, in fondo, fisiologico: centrodestra diviso su un dossier molto identitario e altrettanto controverso. Ma sulla giustizia, generalmente intesa, Meloni punta forte. Sulla separazione delle carriere in particolare: i motivi sono diversi, ma si tratta innanzitutto dell’esigenza di riequilibrare i rapporti fra politica e toghe. L’obiettivo passa per una riforma costituzionale, quella sulle “carriere” appunto, prossima all’approdo in Aula: entro questa settimana arriverà il via libera della commissione Affari costituzionali, che pur di smaltire i 262 emendamenti, tutti dell’opposizione, è pronta a più di una “notturna”. Sulla strada che Meloni intende percorrere, nella dialettica coi magistrati, c’è pure il referendum a cui il ddl di Nordio sulle carriere separate sarà inevitabilmente sottoposto. Se ci si arrivasse dopo mesi e mesi di batoste riportate dal governo sui migranti nei tribunali, italiani e non, il rischio serissimo è che, a quel referendum, la magistratura si presenti rafforzata. Rinvigorita dallo spot della vittoriosa “guerra” sui richiedenti asilo. La prospettiva peggiore, per Meloni. Lei lo sa, Nordio lo sa. Forse lo sa pure Salvini. Che però non ha intenzione di trarne le conseguenze. Migranti. Caso Albania, il Viminale fa ricorso alla Corte di giustizia Ue: cosa succede ora di Francesco Malfetano Il Messaggero, 12 novembre 2024 L’esecutivo pronto a rispondere al tribunale: “L’avevamo messo in conto”. E spera in un assist a sorpresa dai magistrati europei. Intanto i richiedenti asilo andranno in Puglia. Si riparte dal via. Nel gioco dell’oca in cui si sta trasformando lo scontro tra governo e giudici sull’Albania, Giorgia Meloni ha tutta l’intenzione di rilanciare i dadi e insistere. Anche dopo l’impugnazione davanti alla Corte di giustizia europea infatti, da palazzo Chigi trapela netta la stessa indicazione: “Per noi non cambia niente, andiamo avanti”. Per di più - spiega chi segue il dossier tra i fedelissimi di Meloni, il Viminale, il ministero della Giustizia e la Farnesina - “non è che questa sia stata una mossa proprio inattesa”, avendola già messa in conto quando il Consiglio dei ministri ha inserito in un decreto la lista dei Paesi sicuri. Al limite a spiazzare è stata l’immediatezza della reazione del Tribunale di Roma, talmente rapida da non consentire neppure ai 7 migranti arrivati nel centro di Gjadër a bordo della Nave Libra di completare le procedure previste dal protocollo e, quindi, al “modello Albania” di essere operativo almeno una volta. Una reazione che agli occhi dei più vicini tra i consiglieri di Meloni finisce con l’essere un’ennesima prova evidente della politicizzazione della magistratura. E cioè di una “cattiva fede da parte dei pochi giudici” che continuano a lavorare “seguendo l’ideologia”. La linea, insomma, è la stessa di qualche settimana fa. Stavolta però se le mosse governative più immediate saranno riportare gli egiziani e i bengalesi trasferiti in Albania in un centro per richiedenti asilo in Puglia e rispedire l’imbarcazione della Marina Militare al largo di Lampedusa per un primo screening a bordo dei migranti soccorsi in acque internazionali, la reazione più a lungo raggio finirà con il coinvolgere Bruxelles e Strasburgo. Come fanno sapere infatti fonti vicine al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi (ieri impegnato nel Comitato di ordine e sicurezza convocato a sorpresa a Napoli), il Viminale è pronto a ribattere colpo su colpo davanti alla Corte di giustizia Ue. “Faremo le nostre contro deduzioni” spiegano, sottolineando anche in questo caso come si tratti di “una strategia identica” a quella adottata quando il Tribunale di Roma ha sospeso il decreto interministeriale sui Paesi Sicuri spingendo il governo al varo del decreto poi finito all’interno del Dl Flussi. Il rischio, d’altro canto, è proprio questo. Cioè che il governo si impantani in una lotta all’ultimo cavillo. Una guerra sporca dal climax assicurato. Le occasioni di scontro infatti non mancheranno. Dalla pronuncia della Consulta sull’ammissibilità del referendum abrogativi sull’Autonomia differenziata proposti dalle Regioni all’elezione da parte del Parlamento dei componenti mancanti della stessa Corte Costituzionale, fino alla riforma del Csm e alla separazione delle carriere che non a caso ieri è tornata ad essere evocata con vigore dal centrodestra. Una lunga serie di criticità in cui a lungo andare potrebbe dover intervenire Sergio Mattarella, aprendo a scenari giudicati poco piacevoli un po’ da tutte le parti in commedia. Intanto gli occhi di tutti sono adesso puntati sul prossimo 4 dicembre. Vale a dire quando la Corte di Cassazione dovrà pronunciarsi in merito alla possibilità dei giudici di agire autonomamente oppure di doversi attenere alla lista dei Paesi sicuri stilata dal governo dando il là ad una nuova fase più intensa del conflitto. La certezza è che Giorgia Meloni quando si mostra in video-collegamento sul palco di Bologna per provare a tirare la volata in Emilia-Romagna ad Elena Ugolini, preferisce non entrare minimamente nell’argomento. A differenza di un belligerante Antonio Tajani “Ci sono alcuni magistrati che stanno cercando di imporre la loro linea politica al governo. Questo non è accettabile”. E di un più “classico” Matteo Salvini che attacca toghe e coop rosse: “Torneranno in Italia liberi di camminare - ha spiegato ieri al comizio bolognese -. Se uno di questi sette la settimana prossima compie un reato, spaccia, stupra, scippa o ammazza, chi ne dovrebbe rispondere?” Interrogativi, questi, che il centrodestra tutto nei prossimi giorni userà ampiamente. L’idea predominante è che i primi ad essere pronti a schierarsi contro i magistrati siano gli elettori italiani. E, quindi, che quella dello scontro sull’immigrazione possa diventare una carta per drenare consenso elettorale. Specie se, come confidano sperando nel nuovo patto di Migrazione e Asilo che entrerà in vigore nel 2026 ma è già stato approvato dall’Europarlamento, a livello europeo l’interpretazione della norma contestata ieri non dovesse poi avere l’esito atteso dai giudici italiani. Medicina umanitaria, una risposta italiana per il futuro di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 12 novembre 2024 Si è tenuto a Roma, presso l’Auditorium dell’Università UniCamillus, il convegno dal titolo “Medicina Umanitaria: Una Risposta Italiana per il Futuro”. L’evento ha visto la partecipazione di esponenti istituzionali, esperti e volontari umanitari di rilievo internazionale, e ha rappresentato un’occasione cruciale per esplorare il ruolo della medicina umanitaria nella gestione delle emergenze globali e nella costruzione di una resilienza sanitaria sostenibile. Le crisi sanitarie globali sono molteplici e interconnesse. Tra le più gravi vi è la crisi dei rifugiati: milioni di persone in fuga da conflitti vivono senza assistenza sanitaria adeguata. Anche il cambiamento climatico peggiora la situazione, intensificando eventi estremi come inondazioni e ondate di calore, che causano migrazioni forzate e aumentano le malattie infettive. Le pandemie restano una minaccia, come mostrato dal Covid-19, che ha indebolito i sistemi sanitari globali, mentre nuove infezioni suscitano timori. Inoltre, l’insicurezza alimentare, anch’essa aggravata dai conflitti e dal clima, accresce malnutrizione e vulnerabilità. La medicina umanitaria diventa essenziale, non solo come risposta emergenziale, ma come investimento per il futuro. “Il medico fa la differenza quando opera in chiave umanitaria - ha sostenuto Gianni Profita, Rettore di UniCamillus - Sono fiero che l’Università UniCamillus, con la sua vocazione internazionale e umanitaria, contribuisca a formare tale consapevolezza”. Questo può avvenire solo unendo le forze, come sostiene Cristiano Camponi, Direttore Generale dell’INMP - Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto alle malattie della Povertà, ente del SSN: “Istituzioni, enti del Terzo Settore, università: tutti possono contribuire a mettere al centro il paziente, tenendo conto sia della sua salute fisica che delle sue peculiarità umane, psicologiche e sociali”. Questa considerazione umana del paziente è ciò che rende “umanitaria” la medicina, ed è “la parte più bella di questo mestiere, perché è una vocazione, e si salva la vita del prossimo senza aspettarsi un tornaconto economico” commenta la Professoressa Donatella Padua, Delegata alla Terza Missione UniCamillus. Il professor Massimo Gravante, Docente di Dermatologia e Parassitologia Generale presso UniCamillus, ha mostrato un video delle sue missioni in Benin dove ci sono casi di lebbra, albinismo, malaria di bambini anche molto piccoli. “In ogni missione umanitaria, però, è fondamentale il rispetto della dignità delle popolazioni locali, sia in termini di credo religioso che di orientamento culturale” ha sottolineato. Drammatico lo scenario raccontato da Andrea Accardi, Programmes Advisor di Intersos: “Nel mondo c’è stata un’escalation importante di conflitti armati: nel 2009 erano 17 in 16 contesti politici. Oggi abbiamo 50 Paesi che vivono in una condizione di alto livello di conflitto. Il focus è su Medio Oriente, Ucraina e Sudan”. Una vocazione che dovrebbe essere normale, eppure non lo è. Come sottolinea il Mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, “oggi si globalizzano guerre ed egoismo, per questo la sfida della medicina umanitaria è quella di salvarci tutti, partendo dai più deboli”. Le difficoltà nell’affrontare queste situazioni sono molteplici. “Le emergenze aumentano e i soldi sono pochi, ed è difficile aspettare gli interventi delle istituzioni ufficiali internazionali”. Ed è proprio alle istituzioni che si rivolge Emergency, la cui Medical Division è rappresentata dal Chirurgo Maurizio Cardi: “Nei territori in cui operiamo, miriamo a responsabilizzare le istituzioni locali, per permettere a tutti di accedere gratuitamente alle cure migliori”. Non solo operare, ma anche creare resilienza. È quanto viene ribadito da Francesca Toppetti, Direttrice Generale di Emergenza Sorrisi ETS: “Come ONG, in 23 Paesi operiamo bambini affetti da malformazioni del volto acquisite o congenite, ma non basta. Per consentire alla sanità locale di essere indipendente, occorre trasferire competenze ai medici dei Paesi con cui collaboriamo: finora ne abbiamo formati 700”. Il benessere dei bambini è l’obiettivo di Telefono Azzurro Onlus, rappresentato nella tavola rotonda da Michele Riondino, che è il Responsabile Diritti dell’Infanzia. “Dal 1987, anno di nascita del Telefono Azzurro, le chiamate dei minori sono aumentate, soprattutto dopo il Covid. I disagi maggiori nei più piccoli sono quelli di tipo psicologico, e non c’è salute dove non vi sia salute mentale” ha spiegato, ribadendo l’importanza del diritto all’ascolto dei più piccoli. Professionalità, dunque, ma anche tanto cuore. Quel cuore necessario per comprendere davvero il paziente nella sua accezione più indifesa e bella di essere umano. Come esorta Fabrizio Frinolli Puzzilli, Presidente AMKA, “chi parte per le missioni umanitarie deve essere pronto, non solo dal punto di vista professionale, ma anche umano”.