Più carcere, meno speranza: un anno di Decreto “Caivano” di Simona Musco Il Dubbio, 11 novembre 2024 I giovani reclusi tra disillusione e sovraffollamento. Il sistema carcerario minorile al collasso: cresce il numero dei ragazzi in cella, ma i percorsi di recupero sono spariti. le proteste si moltiplicano, ma invece delle risposte educative arrivano punizioni sempre più dure. “Non avevamo mai visto nulla di simile”. L’associazione Antigone sceglie questa frase per iniziare il report che racconta un anno di Decreto Caivano. Un anno in cui i minori in carcere sono aumentati, senza dissolvere problemi e nubi che si addensano sopra il sistema carcerario minorile. Anzi, i problemi, scrivono i membri dell’associazione, sono pure aumentati. Senza che nulla sia stato pensato in termini di progetti educativi, piani di accoglienza, reintegrazione sociale. Una discarica sociale che ha un solo effetto: produrre nuova criminalità minorile, esacerbare i problemi. Era stato chiaro, sul Dubbio, Girolamo Monaco, direttore dell’Istituto per minorenni di Treviso, uno degli Ipm più sovraffollati e, pertanto, in difficoltà, in Italia: “Siamo abituati a confondere la colpa con la responsabilità. Il carcere è lo specchio della società: se produce disagio, il disagio si manifesta. Ma per far sì che il carcere serva a qualcosa dobbiamo riempire i vuoti con valori e parole. I ragazzi chiedono di essere visti”, aveva spiegato. Finora, però, nessuno sembra aver posato lo sguardo su questi giovani. La popolazione carceraria minorile è aumentata del 48 per cento in soli ventidue mesi, nonostante la criminalità minorile non abbia registrato picchi significativi. A metà settembre 2024, gli Ipm contano 569 giovani detenuti, con un tasso di ingresso che ha registrato una crescita del 16,4 per cento rispetto all’anno precedente. La maggior parte degli ingressi è dovuta a misure cautelari, mentre il numero di minori condannati è in aumento, segno di un sistema che sta diventando sempre più punitivo e sempre meno educativo. Il sovraffollamento è uno dei problemi principali degli istituti minorili: in 12 dei 17 Ipm sparsi per il Paese, la capienza massima viene regolarmente superata, con punte di affollamento che superano il 180 per cento. A Treviso, appunto, ci sono 22 ragazzi per 12 posti, un tasso di affollamento del 183 per cento. Le condizioni di vita nelle strutture sono precarie: materassi sul pavimento, sezioni inagibili, e carenze strutturali, come la mancanza di frigoriferi e illuminazione in alcune sezioni. La situazione non solo mina il benessere fisico dei detenuti, ma contribuisce a generare tensione, con frequenti proteste e tentativi di evasione. L’aumento dei minori in carcere, statistiche alla mano, è scattato successivamente all’approvazione del Decreto Caivano, come spiegato davanti alla Commissione Bicamerale per i minori da Antonio Sangermano, a capo del dipartimento per la Giustizia minorile del ministero. “Dall’entrata in vigore del decreto Caivano, relativamente a ingressi e presenza media giornaliera, il numero è obiettivamente cresciuto, non può e non deve essere negato”, ha sottolineato, aggiungendo solo secondariamente che i dati “vanno connessi anche ad altri fattori causali, come l’aggravarsi delle devianze minorili e l’enorme aumento di stranieri minori non accompagnati”. Ma i minori non accompagnati c’entrano poco con questa storia e sono sempre i numeri a raccontarlo: al 15 settembre sono 266 i ragazzi e le ragazze stranieri detenuti negli Ipm, il 46,7 per cento dei presenti, ma con una percentuale in calo rispetto al 51,2% registrato a metà gennaio. Il decreto Caivano, paradossalmente, è arrivato in un momento in cui i tassi di criminalità minorile si erano abbassati, stando alle statistiche: contrariamente all’immagine diffusa dai media, che raccontavano di un’invasione di baby criminali, nel 2023 i ragazzi denunciati e/o arrestati erano diminuiti del 4,15 per cento rispetto al 2022. E analizzando l’andamento a lungo termine, dal 2010 al 2023, il trend risulta “oscillante ma generalmente costante, senza aumenti esponenziali”. Insomma, era necessario dare risposte al disagio, slatentizzato anche dal Covid, come evidenziato ancora da Monaco, ma si è scelto di rispondere ai fatti di cronaca con il pugno duro. “Il decreto Caivano spiegava ancora il direttore dell’Ipm di Treviso ha reso “carcerizzabili” reati che prima non prevedevano la custodia, come l’oltraggio pubblico ufficiale o il furto semplice”. Ed ecco spiegato il trucco, assieme ad un altro dato: il decreto ha “abbassato i limiti edittali della richiesta di misure cautelari custodiali nel collocamento in comunità”, come sottolineato ancora una volta da Sangermano, aumentando inoltre “le fattispecie che consentono l’arresto sempre facoltativo in flagranza. Il combinato disposto di questi elementi, unito all’eliminazione del termine di un mese per l’aggravamento della violazione della misura cautelare del collocamento in comunità, con conseguente collocamento della presenza negli Istituti penali per minorenni, ha oggettivamente prodotto un possibile incremento degli ingressi e delle presenze in Ipm”. In questo contesto, la vocazione educativa degli Ipm sembra essere svanita. Le attività scolastiche e di reinserimento sociale sono ridotte e la somministrazione di psicofarmaci, in particolare antipsicotici, è aumentata drasticamente. Molto più che per gli istituti per adulti. Un fenomeno che è sintomo del malessere crescente tra i giovani detenuti, molti dei quali soffrono di disturbi psichiatrici legati alla condizione di detenzione e alle esperienze traumatiche vissute. Il ricorso eccessivo ai farmaci non solo non risolve il problema, ma peggiora la situazione, impedendo il recupero delle potenzialità educative dei giovani. Da qui l’aumento delle proteste nei confronti delle condizioni di detenzione, sempre più frequenti, tracimando spesso in atti di violenza, come incendi nelle celle e tentativi di evasione. In molti casi, questi atti sono reazioni dirette al trattamento inumano e alle condizioni di vita precarie, un tentativo di trovare ascolto in un sistema che sembra ignorare i minori reclusi. Ma queste proteste vengono spesso etichettate come “rivolte”, un termine che aiuta a non vedere il disagio e aiuta, anzi a punirlo: le nuove norme, infatti, portano con sé pene ancora più severe - fino a otto anni di carcere anche nella forma di resistenza passiva - “per giustificare un modello di carcerazione minorile sempre più simile a quello degli adulti: chiuso, sovraffollato, violento”, scrive ancora Antigone. Le conclusioni dell’associazione sono drastiche: il Decreto Caivano ha acuito i problemi, interrompendo i percorsi educativi e di recupero e mettendo in discussione l’efficacia di un sistema che dovrebbe essere orientato alla riabilitazione. Una scelta che ha reso più difficile il reinserimento sociale dei giovani, con un aumento della frustrazione tra i detenuti e una crisi di fiducia nelle istituzioni. “La violenza accade, nelle nostre carceri, quando si smette di guardare e di avere cura” di Girolamo Monaco Il Dubbio, 11 novembre 2024 Riportiamo di seguito la lettera firmata da Girolamo Monaco, direttore dell’Istituto Penale per Minorenni di Treviso, pubblicata il 30 aprile 2024 su Huffpost. Mi chiamo Girolamo Monaco e sono il direttore dell’Istituto Penale per i Minorenni di Treviso. Ho letto i Vostri articoli a seguito delle violenze commesse dentro l’IPM di Milano. Come persona e operatore sociale, dopo alcuni giorni di riflessione, come direttore di un Istituto Penale per Minorenni, sento il dovere etico di partecipare e (nel mio piccolo) contribuire al dibattito che quei tristi fatti impongono a tutto il sistema della Giustizia, soprattutto quella che è istituita in favore dei minorenni. Di fronte alle violenze del “Beccaria” io non ho parole. Non ho parole, ma non posso neppure restare in silenzio. Sono coinvolto e responsabile: non posso far finta che la struttura milanese sia assolutamente diversa da quella nella quale io lavoro. Davvero poco importa se i fatti sono accaduti a Milano, piuttosto che a Palermo, o Roma, o Treviso. Le violenze sono dentro le strutture. Tutte le strutture. Questa verità è da considerare. Sempre. La violenza accade. E non posso non dire che la violenza accade sempre (ripeto: sempre) quando le persone non vengono guardate. “Guardare”: parola ricchissima, che significa osservare, conoscere e proteggere; significa: vedere, valutare e conservare (conservare, non distruggere); guardare significa vigilare, stare attenti, vegliare; guardare significa aver cura. Quando non si guardano i soldati, gli eserciti commettono i più grandi soprusi. Quando non si guardano gli individui nella loro umanità, si lascia spazio alle azioni più bestiali. Quando gli utenti non sono guardati come destinatari di un servizio, l’unico bisogno che resta è quello di ridurli al silenzio. Io non posso restare in silenzio, e devo guardare e vegliare sulle persone che mi vengono affidate: gli operatori di polizia penitenziaria e del trattamento, che vanno riconosciuti come persone e chiedono indicazioni chiare e sicure; e gli utenti-detenuti di un carcere minorile, che chiedono anch’essi di essere riconosciuti come persone, e necessitano, allo stesso modo, di indicazioni chiare e sicure. Il mio impegno dentro il carcere minorile è guardare (con tutti quei significati che ho capito) gli adulti che sono latori di professionalità, culture e fatiche; e guardare i minori che portano storie devastate, e parlano i linguaggi delle parole, dei corpi e dei segni. Le responsabilità non sono soltanto individuali. Per questo io, operatore dentro una struttura detentiva, sento il bisogno morale di dare la mia risposta. I colpevoli delle violenze verranno individuati e le responsabilità, dirette e indirette, verranno chiarite; ma la Giustizia farà un passo avanti se sapremo tutti rispondere ai perché certi fatti diventano possibili. Io non posso nascondere che la violenza fisica, psicologica, relazionale e gestionale degli individui dentro le strutture (la violenza di chi sta dalla parte del giusto e la violenza di chi sta dalla parte del torto) è normalizzata dai vuoti di presenza, di compagnia, sostegno, indirizzo, supporto e guida (tutto quello che è il vero senso del potere: la violenza è quindi, secondo la mia trentennale esperienza dentro le carceri minorili, un “vuoto del potere” quando “non guarda” i suoi uomini, quando “non guarda” i suoi utenti). Conosco bene la natura perversa della violenza delle strutture per restare io in silenzio. Conosco il valore e il travaglio di tutti i colleghi che, come me, di fronte alle quotidiane difficoltà, emergenze e contraddizioni, si impegnano per umanizzare i luoghi della detenzione, che sono specchio della nostra epoca, dell’attuale società, delle nostre paure e debolezze. Io avanzo quindi per me stesso, per i miei collaboratori, per i miei colleghi, ed anche ai miei superiori, la coraggiosa ed umile riflessione che pone l’atto del “guardare” come fondamento di ogni responsabilità relativa alla sicurezza sociale, al controllo comportamentale, alla rieducazione e reinserimento dei condannati. Se le sentenze della Consulta diventano un optional di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 novembre 2024 Ormai 10 mesi fa, e 12 anni dopo già una sollecitazione della Corte inevasa dal Parlamento, la Consulta con una sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che nega ai detenuti il diritto all’affettività. Ma nulla è stato fatto. Ma le sentenze della Corte Costituzionale valgono ancora, oppure ormai sono state tacitamente derubricate a meri consigli, accantonabili se ci sono difficoltà pratiche ad attuarle? Ormai 10 mesi fa, e 12 anni dopo già una sollecitazione della Corte inevasa dal Parlamento, la Consulta con una sentenza additiva di principio ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che nega ai detenuti il diritto all’affettività, cioè a colloqui intimi (in spazi simili ad ambienti domestici) senza il controllo a vista degli agenti qualora non ostino esigenze di sicurezza, iniziando “dove le condizioni materiali della singola struttura lo consentano e con la gradualità eventualmente necessaria”, in un’”azione combinata di legislatore, magistratura di Sorveglianza e amministrazione penitenziaria”. Solo che da allora si è mosso nulla: e se non sorprende che la maggioranza politica irrida la questione dell’affettività in carcere e il Ministero della Giustizia abbia sinora stoppato le iniziative locali di taluni direttori di carceri già pronti a sperimentare, colpisce di più la ragione ad esempio della inammissibilità del reclamo di un detenuto contro la risposta del carcere di Asti sull’”assenza di locali idonei da destinare ai colloqui “riservati” di “affetto”“. La giudice di Sorveglianza di Torino, infatti, non ritiene di aprire una qualche interlocuzione che diffidi o quantomeno pungoli l’inadempiente amministrazione penitenziaria, ma oppone al detenuto “concreti dubbi che le modalità “riservate” di fruizione dei colloqui con i familiari, introdotte con la sentenza della Corte Costituzionale, costituiscano un diritto soggettivo “perfetto”“: a suo avviso sono invece soltanto “una aspettativa “legittima”, cioè “contemplata dalla legge” ma che “può trovare concreta realizzazione solo all’esito dell’avverarsi di più condizioni”. E siccome il carcere di Asti, “allo stato, ha riferito la mancanza di idonei locali”, per la giudice ciò “determina il mancato avveramento di una delle condizioni e non consente all’aspettativa di trasformarsi in vero e proprio diritto”. L’apparato motivazionale è più nutrito di quello col quale mesi fa un giudice di sorveglianza a Firenze ritenne sbrigativamente (in una ordinanza poi riformata) l’acqua calda in cella “non un diritto essenziale garantito al detenuto, ma una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere”. Ma intanto sono segnali del nuovo che avanza anche tra le toghe: l’idea di diritto negoziabile dalla logistica, “optional” montabile sulla macchina giudiziaria solo quando il suo “costo” sia abbordabile. Tablet con internet in carcere: una spinta alla riabilitazione dei detenuti di Federica Pozzi Il Messaggero, 11 novembre 2024 Detenuti al passo con i cambiamenti sociali e una giustizia rieducativa e riabilitativa. Sono i due punti su cui si basa la proposta di riforma legislativa avanzata dalle Camere penali internazionali che prevede l’utilizzo dei tablet con accesso a internet nelle carceri italiane. Una proposta che verrà presentata il prossimo giovedì alla Camera dei deputati in occasione dell’incontro “Verso gli Stati Generali della Sicurezza 2025”, in cui saranno presenti, tra gli altri, Ettore Rosato, segretario del Copasir e rappresentanti di Governo della Difesa e dell’Interno. “L’idea è che nel momento in cui si varca la soglia del carcere venga concesso al detenuto, al pari di altri oggetti di uso comune, un mezzo di comunicazione per mantenere un residuo collegamento con la società, che gli permetta di riabilitarsi e ricostruire un nuovo futuro”, ha spiegato l’avvocato Alexandro Maria Tirelli, presidente delle Camere penali del diritto europeo e internazionale. Un mezzo di comunicazione con le dovute limitazioni: i tablet sarebbero configurati in modo da limitare l’accesso ai contenuti approvati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, garantendo in questo modo che i detenuti non comunichino con l’esterno e non accedano a social media o contenuti inappropriati. Chi sta scontando la propria pena, potrà consultare testi e libri digitali, accedere a siti di informazione e giornalismo, film e materiali didattici, partecipare a corsi online di formazione tecnica e professionale, seguire corsi di apprendimento linguistico per i detenuti stranieri e partecipare a lezioni scolastiche a distanza, dai corsi elementari fino alle scuole medie e superiori. Non solo la possibilità di mettersi al passo con i tempi, la proposta prevede anche una “forma di libertà anticipata basata sul progresso educativo e di risocializzazione, misurato attraverso un sistema di studio e test a punteggi”. I detenuti potranno quindi partecipare a corsi quali, tra gli altri, educazione civica, legalità, convivenza sociale e, superando il test finale, potranno accumulare punti che daranno diritto a uno sconto di pena. Un modo per incentivare “l’impegno personale verso la risocializzazione” e una forma di reinserimento “graduale e meritocratica”. “Non ha senso isolare il detenuto dalla società in cui un domani dovrà tornare: il tablet non servirà per andare su TikTok ma per studiare, per la formazione professionale, per una crescita personale”, ha concluso l’avvocato Tirelli. La proposta ha già sollevato alcune polemiche, tra cui quelle del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe). “Il rischio - secondo il segretario generale Antonio Capece - è che i detenuti possano superare i limiti di controllo e dall’interno governare le azioni criminali sul territorio”. La nuova Consulta? Può attendere. Meloni e il nodo del giudice donna di Giulia Merlo Il Domani, 11 novembre 2024 Per ora regge l’accordo di due giudici di destra, uno di opposizione e un tecnico. Il nome femminile è dirimente. Nella rosa di nomi, FdI confermerebbe Marini. FI punta su Sisto, Zanettin. In lizza Casellati e Cerrina Feroni. L’ora è tarda, ma una soluzione ancora non si vede per completare la composizione della Corte costituzionale. La pratica è ancora sulla scrivania della premier Giorgia Meloni ed è una di quelle più spinose, perché è attenzionata con attenzione dal Quirinale. Ad ogni occasione, Sergio Mattarella ma anche l’attuale presidente della Consulta Augusto Barbera hanno sollecitato la necessità che il parlamento trovi la mediazione necessaria per eleggere il quindicesimo giudice mancante da oltre un anno, eppure la settimana scorsa anche la nona votazione è andata a vuoto. E la cosa ormai sta infastidendo e non poco il Colle, non solo per un fatto di metodo. Il 21 dicembre, infatti, termineranno il mandato altri tre giudici di nomina parlamentare (tra cui il presidente Augusto Barbera) e allora sì che la Consulta rischierebbe la paralisi. Il regolamento della Corte, infatti, prevede che il collegio non possa funzionare con meno di 11 componenti, dunque basterebbe un’influenza stagionale di uno dei membri per bloccare i lavori. Eppure ad oggi - secondo il calendario della Camera fino a fine mese - non sono previste convocazioni per la decima votazione. Fonti di centrodestra preventivano che, alla fine, la strategia del governo sia quella di spingersi fino a gennaio (una volta approvata anche la legge di Bilancio) per eleggere “a pacchetto” tutte e quattro le toghe. Anche a costo di scontentare il Colle. Infatti un accordo sul singolo nome è stato impossibile da trovare con le opposizioni - complice l’incaponimento di Meloni nel far eleggere il suo consigliere giuridico e autore della riforma del premierato, Franceso Saverio Marini - mentre con quattro la quadra sarà più facile da trovare. Con un elemento di attenzione, però: secondo le regole costituzionali, anche se si potrà votarli tutti insieme, i giudici avranno bisogno di maggioranza diverse. In concreto, il giudice che prenderà il posto di Silvana Sciarra dovrà ottenere i tre quinti del parlamento in seduta comune (dopo la seconda votazione, la maggioranza scende); per gli altri tre, invece, servirà la maggioranza qualificata dei due terzi, perché si tratterà della prima votazione. Un dettaglio, ma che imporrà al centrodestra di trovare una maggioranza molto larga perché il “pacchetto” superi lo scrutinio segreto. I nomi - Finalmente, dopo il decimo voto a vuoto, sono iniziati i primi prudenti contatti tra maggioranza e opposizione. Un terreno comune apparentemente si è trovato: due nomi spetteranno al centrodestra, uno all’opposizione e il quarto sarà un tecnico considerato super partes. Un compromesso che dovrebbe dimostrare la buona volontà dell’alleanza di governo, visto che in prima battuta l’intenzione era quella di esprimere tre giudici su quattro. Da questo schema con un nome tecnico si parte a ragionare, ma la situazione è tutt’altro che sbloccata. “Ora nessuno ha davvero la testa per decidere”, spiega una fonte di governo, riferendosi al tour de force che aspetta la maggioranza da ora a fine anno, che non lascerebbe molto tempo per i bilancini della Consulta. Sul fronte di Fratelli d’Italia, tuttavia, Meloni considererebbe il nome di Saverio Marini non negoziabile. La premier avrebbe dato la sua parola al giurista e ha intenzione di mantenerla. Formalmente, infatti, non è nemmeno mai stato bruciato. Nonostante sia stato molto pronunciato durante l’ottava votazione, quando il centrodestra aveva tentato lo sfondamento precettando tutti i propri parlamentari in aula con il mandato di votare Marini, alla fine il blitz è saltato il voto è andato in bianco. Un posto - quello di FdI - è dunque preso. Il secondo, invece, dovrebbe spettare a Forza Italia, che può mettere in campo una rosa di nomi. Quelli che girano con maggiore insistenza sono quello del senatore Pierantonio Zanettin, avvocato di Vicenza e quello del viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, a sua volta avvocato ma a Bari. Entrambi vantano ampia esperienza parlamentare nel settore della giustizia, ma la loro provenienza territoriale non sarebbe elemento secondario nel giudizio che spetta al segretario del partito, Antonio Tajani. Come fanno notare fonti interne, infatti, il nord avrebbe già una nutrita rappresentanza e dunque ora per la Consulta si dovrebbe privilegiare un esponente del sud. L’incognita donna - A non essere ancora fuori dalla corsa sono anche due nomi femminili. C’è la ministra veneta Elisabetta Casellati, sempre presente tra i papabili in nomine che riguardano la giustizia, ma con il caveat del fatto che aprirebbe un vuoto nella compagine ministeriale. Si starebbe facendo largo anche il nome della costituzionalista Ginevra Cerrina Feroni, attualmente Vice Presidente del Garante per la protezione dei dati personali. Il suo nome potrebbe essere tenuto in considerazione anche in quota tecnica, considerandone il profilo e anche la potenziale trasversalità nel centrodestra. Proprio la questione donna è dirimente: una dovrà far parte del quartetto, visto anche che una degli uscenti è Silvana Sciarra, e ancora non è chiaro in quale “quota” cadrà. Come profilo tecnico, un altro nome circolato insistentemente è quello di Roberto Garofoli, ex capo di gabinetto al Tesoro ed ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Mario Draghi a Palazzo Chigi. Secondo i retroscena, il suo nome sarebbe stato proposto dalla segretaria dem Elly Schlein a Meloni, ma - se rimarrà in lizza - dovrà vedersela con la contrarietà già espressa dal Movimento 5 Stelle. Tra il Movimento e Garofoli, infatti, non corre buon sangue: nel dicembre 2019, infatti, proprio gli attacchi dei grillini lo costrinsero alle dimissioni dal ruolo di capo di gabinetto del ministro Giovanni Tria, a causa di una norma poi stralciata nel dl Fiscale. Anche all’opposizione il rebus non è di facile soluzione. Il Pd è diviso in una sfida tutta toscana: da un lato fonti vicine alla segretaria hanno ipotizzato il nome del costituzionalista di Pisa Andrea Pertici, che è anche dirigente dem; dall’atro il fronte riformista pensa all’ex deputato e costituzionalista Stefano Ceccanti. Nomi che però rischiano di scontare proprio ciò che l’opposizione contestava al nome di centrodestra Marini: una evidente marchiatura politica. A disposizione, poi, rimane anche sempre il nome dell’ex presidente dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, Massimo Luciani. Secondo fonti dem, tuttavia, c’è prima di tutto da sbrogliare con i pontieri meloniani l’incognita su chi esprimerà il nome femminile: se non lo farà la maggioranza, toccherà all’opposizione e questo riaprirà il toto-nomi. Dal punto di vista giuridico, infine, viene fatto notare un ulteriore problema intorno a una assegnazione così schematica dei nomi per quote. Impostando in questi termini il ragionamento pubblico, si legittima un pensiero: che il “tecnico” sia un giurista super partes, mentre gli altri tre, brandizzati da un partito, le braccia armate dell’uno o dell’altro. Illazione, questa, inaccettabile per un giudice costituzionale. Eppure, come ha detto l’attuale presidente Augusto Barbera al Foglio, “il costituente volle che cinque giudici fossero eletti dal parlamento”, e “non è che questi siano eletti dallo spirito santo ma dai gruppi parlamentari” e anche nella prima repubblica “venivano scelte persone che avevano svolto attività politica” senza che questo abbia mai guastato gli equilibri della corte. Scontro governo-toghe: Nordio e Sisto promuovono il dialogo, Salvini attacca i magistrati di Valentina Stella Il Dubbio, 11 novembre 2024 Il guardasigilli apre al confronto, ma il vicepremier rilancia lo scontro con le toghe accusandole di voler fare politica. Il segretario di Md Stefano Musolino: “Grettezza istituzionale”. Da un lato il ministro Carlo Nordio - espressione di Fratelli d’Italia - e il numero due di via Arenula, l’azzurro Francesco Paolo Sisto a smorzare i toni con la magistratura, dall’altro lato il vice premier Matteo Salvini che a suon di post su X va in direzione opposta e continua ad attaccare le toghe. Tutto questo è avvenuto oggi, mentre nella sala della Protomoteca del Campidoglio a Roma era in corso la festa dei 60 anni di Magistratura democratica. L’intervento del ministro Nordio - Il Guardasigilli, in collegamento da remoto, come preannunciato nei giorni scorsi al Salone della Giustizia, porta un messaggio di conciliazione: “Noi vogliamo un dialogo con la magistratura proprio perché sappiamo che la magistratura è quella chiamata ad applicare le leggi - ha evidenziato il ministro -. Il nostro governo chiede il vostro contributo, perché stiamo vivendo un momento di transizione veramente importante, stiamo colmando la carenza di organico - ha proseguito -. Abbiamo chiesto “aiuto” anche ad Anm e Csm e aumentato le assunzioni. Altro problema è la critica al merito politico e al contenuto delle leggi soprattutto una volta che sono state approvate e qui il presidente Mattarella è stato chiarissimo. Mi auguro ci sia sempre meno una critica della magistratura al merito politico delle leggi e mi auguro un abbassamento dei toni da parte della politica nel criticare le sentenze”. Nordio ha rilanciato la separazione delle carriere, che “non farà sì che il pm sia sottoposto al potere esecutivo”, soluzione che “mi farebbe inorridire”. La riforma, ha sottolineato, “farà sì che ci sia l’autonomia dell’organo requirente”. Le parole di Silvia Albano - “Ringraziamo di cuore il ministro per aver scelto di partecipare, questo è il dialogo che vorremmo”, ha commentato poi dal palco Silvia Albano, presidente di Magistratura Democratica. La magistrata, giudice alla sezione immigrazione del Tribunale civile di Roma, sotto attacco nelle settimane precedenti per non aver convalidato i fermi dei migranti in Albania, ha poi risposto alle polemiche di chi attacca Md etichettando i suoi esponenti come “toghe rosse”. “Il fatto che chi cerca di applicare la Costituzione venga appellato come “giudice comunista” mi preoccupa molto per lo stato della nostra democrazia e per il suo futuro - ha evidenziato. In tasca non abbiamo né il libretto di Mao né il Capitale di Marx, ma la Costituzione. Io non ho nessuna intenzione di fare uno scontro con il governo, è il governo che vuole farlo con me. E io da questo scontro voglio sottrarmi. Non sono intervenuta mai in questo periodo perché c’è stata una personalizzazione insopportabile. Non c’è nessuna personalizzazione, ma solo dei giudici che cercano di fare il loro lavoro. C’è stato un pronunciamento unanime di tutte le comunità dei giuristi, dall’Unione delle Camere penali all’associazione dei professori di diritto dell’Unione europea. Per dire che sulla supremazia del diritto europeo non ci si può fare nulla”. Alla magistrata è stata assegnata una scorta dopo aver subito minacce per email e sui social. L’intervento del viceministro Sisto - A cercare di abbassare la temperatura è poi intervenuto in presenza il vice ministro Sisto pur ribadendo la necessità che un potere con interferisca con gli altri: “È giusto criticare le leggi, il problema è che non bisogna interferire con i percorsi formativi delle leggi. La Costituzione è chiara: il Parlamento scrive le leggi, i magistrati le applicano. Nessuno disturba chi scrive le leggi, nessuno disturbare chi le applica: basta rispettare questa elementare regola di geometria costituzionale. Il dibattito ci deve essere, nelle audizioni ascoltiamo tutti, ma poi il Parlamento deve essere libero di poter decidere”. E sulle ultime decisioni ha precisato: “Il tema dei Paesi sicuri è un tema che il governo ha affrontato con grande responsabilità. Si può non essere d’accordo e si vedrà. Certo un po’ più di cautela nella disapplicazione dei provvedimenti di rango primario sarebbe auspicabile. C’è una Cassazione fissata per il 4 dicembre su questi primi provvedimenti, c’è stato un avvio verso il controllo della Corte di giustizia europea. Secondo un mio personale avviso - ha aggiunto Sisto - andava rimandato prima alla Corte costituzionale e poi alla Corte europea. C’è un momento di grande confusione in cui i provvedimenti si rincorrono l’uno con l’altro e diventa difficile avere un orientamento, non è questo il Paese che noi vogliamo. Con un po’ di buon senso e di pazienza riuscendo a trovare il bandolo della matassa per consentire a ciascuno il suo ruolo, indipendentemente da ciò che purtroppo è accaduto in questo frangente”. Infatti il 4 dicembre la prima sezione civile della Cassazione tratterà le dodici impugnazioni ai trasferimenti pilota di metà ottobre, sui cui si è pronunciato il Tribunale di Roma dopo la sentenza del 4 ottobre della Corte di Giustizia europea, a cui si è opposta il ministero degli Interni e sul rinvio pregiudiziale agli ermellini presentato a giugno, in cui gli stessi giudici chiedono di chiarire l’interpretazione della valenza della lista dei Paesi sicuri contenuta nel decreto del ministero degli Esteri. La presidente Margherita Cassano, decidendo di accorpare le due questioni (sollevate prima dell’emanazione del “dl Paesi sicuri”), probabilmente ipotizza che la decisione sia uguale per entrambe. Intanto domani sempre la sezione immigrazione del Tribunale civile di Roma si pronuncerà sui trattenimenti dei nuovi sette migranti portati due giorni fa nell’hotspot di Gjader in Albania. Tornando all’evento di Magistratura democratica c’è da registrare il botta e risposta tra il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto e il sostituto procuratore della Cassazione Marco Patarnello, il magistrato che lo scorso 19 ottobre ha inviato una mail nella piattaforma dell’Anm, poi pubblicata non integralmente dal giornale il Tempo e diventata un caso politico. Durante l’intervento di Sisto, mentre dal palco il numero due di Via Arenula affrontava il tema della riforma della separazione delle carriere, dalla platea il magistrato ha chiesto: “Non siete preoccupati che un pm così autoreferenziale, in un Csm tutto suo, diviso da quello dei giudici, possa avere troppo potere?”. E il viceministro: “Non lo temiamo, perché con la riforma, se il pm avrà un potere cinque volte superiore, il giudice lo avrà dieci volte superiore”. I tweet di Salvini - Ad un certo punto molti dei magistrati presenti hanno cominciato a guardare il telefonino. Nelle chat era appena stato inoltrato un post su X di Matteo Salvini, che ha scritto il seguente messaggio accompagnato dalla foto di Silvia Albano: “Quei giudici, pochi per fortuna, che invece di applicare le leggi le stravolgono e boicottano, dovrebbero avere la dignità di dimettersi, di cambiare mestiere e di fare politica con Rifondazione Comunista. Sono un problema per l’Italia”. A difesa della collega è intervenuto il segretario di Magistratura democratica, Stefano Musolino: “Spero Salvini si incontri con Nordio e il ministro lo persuada a cambiare atteggiamento per uscire fuori da questa grettezza istituzionale, che non serve, e a recuperare invece un dialogo costruttivo con le istituzioni di cui Nordio oggi si è fatto garante. Speriamo che la linea Nordio prevalga sulla linea Salvini”. Su Salvini si è espresso anche il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, intervenuto in una tavola rotonda con i leader dei gruppi associativi: “Faccio appello ad un rinnovato senso istituzionale. Stiamo parlando di istituzioni dello Stato, non stiamo parlando di uno scontro tra persone. E io mi preoccupo sempre di come può essere percepito tutto questo dai cittadini che sono disorientati, non sanno cosa stia accadendo intorno ad un problema importante che io non sottovaluto per nulla che è il controllo e la gestione dell’immigrazione. Quel tipo di approccio non giova a comprendere nulla ma crea e accresce la confusione su un tema su cui invece occorre rinnovare una riflessione razionale e serena tenendo conto di tutte le implicazioni, alcune delle quali non dipendono dal nostro ordinamento”. Il leader delle toghe poi ha mostrato preoccupazione per le reazioni politiche che potrebbero esserci qualora domani i giudici di Roma non convalidassero i trattenimenti in Albania: “Temo che possa reinnescarsi una polemica che non giova a nessuno. Confido che ciò che è stato scritto nei provvedimenti già emessi possa essere letto e compreso. Si può dissentire o meno, la parola finale spetterà alla Corte di Cassazione e a quella di Giustizia, ma non c’è alcuna volontà di innescare uno scontro fazioso con le forze politiche o di politicizzazione”. L’ultima vendetta contro i giudici: sanzioni per l’ingiusta detenzione di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2024 Camera, al voto martedì Costa (FI) propone pene economiche. Ma l’esecutivo vuole introdurre modifiche ancora più pesanti. La vendetta del governo nei confronti dei magistrati è iniziata. E qualsiasi occasione è buona. Anche se riguarda un provvedimento che, in teoria, dovrebbe concentrarsi sulla riforma della Corte dei Conti in discussione in commissione Affari Costituzionali alla Camera su proposta del capogruppo di Fratelli d’Italia, Tommaso Foti. Martedì i deputati finiranno di votare gli emendamenti e tra quelli che saranno approvati ce n’è uno che prevede una ritorsione nei confronti dei magistrati: il governo vuole punire disciplinarmente i pm e i giudici che avranno disposto un’ingiusta detenzione. Tutto parte da un emendamento del deputato di Forza Italia, Enrico Costa. Quest’ultimo ha presentato una modifica al disegno di legge chiedendo che nei casi di ingiusta detenzione, il fascicolo sul magistrato venga mandato direttamente alla Corte dei Conti che possa contestargli il danno erariale. Insomma per colpirlo economicamente. Ma l’emendamento è stato prima accantonato dal governo e adesso l’esecutivo ha intenzione di riformularlo se possibile in versione ancora più pesante per i magistrati: il nuovo emendamento prevederà che il fascicolo venga mandato al Procuratore Generale della Corte di Cassazione che ha l’obbligo di esercitare l’azione disciplinare nei confronti del magistrato. La norma è stata scritta tra Palazzo Chigi con la supervisione del sottosegretario Alfredo Mantovano e il ministero della Giustizia. Sarà depositata martedì, il giorno del voto in commissione alla Camera. Funzionerà così. Un indagato viene arrestato, poi in caso di assoluzione fa domanda per chiedere la riparazione del danno in caso di ingiusta detenzione. Una decisione che viene presa in prima battuta dalla Corte di Appello. Se poi la sentenza diventa definitiva, la persona assolta ha diritto a un risarcimento economico del danno da parte dello Stato. Non è quindi, ovviamente, il magistrato a pagare di tasca propria. Ma per il governo serve che il magistrato o il giudice che hanno disposto la detenzione debbano pagare disciplinarmente e andare incontro a sanzioni sulla propria carriera all’interno della magistratura. La responsabilità nei casi di ingiusta detenzione è una battaglia che in questi mesi è stata portata avanti spesso dal centrodestra, anche dopo l’inchiesta ligure che ha portato ai domiciliari nei confronti dell’ex presidente della Regione Giovanni Toti. Secondo la relazione al Parlamento del ministero della Giustizia relativa all’anno 2023 (introdotta proprio grazie a una norma di Costa), 2018 al 2023 sono state risarcite dallo Stato 4.368 persone ingiustamente arrestate, per una somma complessiva di 193 milioni di euro. Negli ultimi trent’anni, invece, lo Stato ha sborsato quasi un miliardo per risarcire coloro che finiscono in carcere ingiustamente. Ma per Costa non basta. Deve essere il singolo magistrato a essere punito dal punto di vista disciplinare. Ad aprile, quando era stata pubblicata la relazione del ministero della Giustizia al Parlamento, Costa aveva accusato il ministero di “inerzia” perché, a fronte dei risarcimenti, in sei anni sono state avviati solo 87 procedimenti disciplinari e solo 4 da via Arenula negli ultimi due anni, tra il 2022 e il 2023. Questo a fronte di un esborso del ministero dell’Economia pari a 28 milioni per entrambi gli anni. Con la nuova norma, invece, l’atto sarà trasmesso direttamente al Pg della Cassazione che dovrà obbligatoriamente esercitare l’azione disciplinare. Pagelle alle toghe, Costa (FI) critica la nuova circolare. Il Csm: “Non è come dice” di Simona Musco Il Dubbio, 11 novembre 2024 Per il deputato è inefficace. La replica: “Bastano anche pochi casi anomali per una bocciatura”. “La prossima settimana il Csm approverà una circolare in base alla quale un magistrato, per subire conseguenze sulle valutazioni di professionalità, deve sballare oltre 2/3 dei suoi provvedimenti. E pare che la voteranno tutti, laici e togati. Appassionatamente”. A scriverlo su X è Enrico Costa, deputato di Forza Italia. Il riferimento è alla nuova circolare sui nuovi criteri di valutazione di professionalità, elaborata dalla IV Commissione, che verrà votata il 13 novembre. La circolare parte con l’handicap di un sistema informatico ancora non adeguato a mettere in atto la campionatura degli esiti degli affari trattati nelle fasi successive che pure prevede. Le segnalazioni riguardanti “gravi anomalie” continueranno a essere delegate ai dirigenti degli uffici. Ma il concetto di “grave anomalia” va inteso sotto due punti di vista: uno quantitativo e uno qualitativo. Dal punto di vista quantitativo, si parla di “carattere significativo” delle anomalie quando più di due terzi dei provvedimenti o delle richieste risultano respinte o annullate. Tale incidenza statistica va valutata in relazione al parametro della capacità, per stabilire “se l’elevato numero di rigetti, riforme o annullamenti sia realmente legato a carenze nella capacità del magistrato o se dipenda da fattori esterni, come l’introduzione di nuove norme legislative o cambiamenti negli orientamenti giurisprudenziali”. Insomma, impossibile stabilire con un algoritmo un’anomalia, sottolinea la circolare. Per quanto riguarda il punto di vista qualitativo, come spiega il togato Marco Bisogni (Unicost), “l’affermazione (di Costa, ndr) non è corretta ed è frutto di una interpretazione errata della proposta di circolare il cui articolo 6, infatti, definisce le cosiddette gravi anomalie distinguendo due ipotesi differenti. La prima sussiste quando il provvedimento del magistrato viene riformato (o rigettato) per abnormità o per altri vizi gravi, in questi casi - diversamente da quanto sostenuto - la grave anomalia rileva senza alcun collegamento con il dato statistico (anche pochi provvedimenti annullati possono quindi portare ad una valutazione negativa del magistrato) - sottolinea -. La seconda, residuale, ipotesi di grave anomalia sussiste invece quando, valutando il complesso degli affari trattati dal magistrato, il tasso di annullamento, rigetto o, si badi bene, di semplice riforma dei provvedimenti sia superiore a 2/3. Il numero dei 2/3 comprende, in altri termini, tutte le ipotesi di modifica anche solo parziale del provvedimento del magistrato (nella statistica dei 2/3 rientra ad esempio anche la riforma di una sentenza solo sulla sussistenza di una circostanza aggravante, sulla quantificazione della pena o sul riparto delle spese). Così spiegato a me pare che il sistema concepito sia non solo rispettoso della riforma Cartabia, ma anche idoneo a ridurre i rischi di conformismo giudiziario”. Ad intervenire anche la togata Francesca Abenavoli (Area) che, rimandando l’approfondimento della questione al plenum, ha sottolineato come “le gravi anomalie (quali annullamenti o rigetti per abnormità, mancanza di motivazione eccetera, come si specifica all’articolo 6 della circolare conformemente a quanto indicato nella norma primaria) possono essere anche qualitative e, quindi, attenere alla gravità dell’errore per cui potrebbe rilevare anche solo qualche grave anomalia”. Un concetto confermato ulteriormente da Bernadette Nicotra (Magistratura indipendente), altra componente togata della Commissione, che ha sottolineato il carattere corale della circolare, risultato “di un’intensa attività di coordinamento e di sintesi. La circolare distingue il dato quantitativo da quello qualitativo. Il legislatore, nel declinare alcune situazioni sintomatiche delle gravi anomalie, fa sostanzialmente riferimento a fatti rilevanti dal punto di vista disciplinare, come le ipotesi di negligenza inescusabile o di ignoranza tale da aver determinato grave violazioni di legge o travisamento dei fatti, o ancora emissioni di provvedimenti privi di motivazione, che sono e devono essere censurabili soltanto in sede disciplinare, perché in senso contrario si correrebbe il rischio di trasformare indebitamente il procedimento valutativo della professionalità in un giudizio disciplinare mascherato e privo delle necessarie garanzie - spiega -. Ecco perché la IV Commissione si è orientata a non ancorare il concetto di gravi anomalie ad un dato sostanzialmente solo statistico comparativo. E ciò anche perché mancano quegli strumenti informatici capaci di rilevare, allo stato, e comparare i dati statistici a livello nazionale. Il sistema delle valutazioni di professionalità deve prevedere un modello di magistratura che sia capace di presidiare la propria indipendenza, anche interna, che sia espressione del potere diffuso, che si muova sinergicamente con gli altri attori del pianeta giustizia, per trovare sempre soluzioni legittime e dare risposte in modo puntuale e celere. Ci tengo inoltre a sfatare la falsa narrazione in base alla quale il 99% delle valutazioni è positivo: ad oggi si tratta del 60-65%. Solo la piena operatività della circolare - conclude - ci consentirà di poter dire se si sia raggiunto il necessario equilibrio. Tutto sarà sempre emendabile”. Magistrati, il Consiglio superiore è in mano alle toghe di destra di Francesco Grignetti La Stampa, 11 novembre 2024 I progressisti di Area hanno 6 rappresentanti, 4 i centristi e solo 1 Md. Ai tempi della Prima Repubblica, quando governava la Dc, ed esisteva il mitico Manuale Cencelli per la spartizione delle cariche, la poltrona di procuratore capo di Roma valeva quanto due ministeri. Questo per dire che il potere politico non ha mai, proprio mai, perso di vista il potere giudiziario, temendone la forza. Ma all’epoca i poteri andavano a braccetto. E infatti la suddetta procura di Roma si era meritata il nomignolo di “Porto delle nebbie”. Un ufficio dove le inchieste che facevano male ai politici si perdevano fatalmente. Il peso delle toghe rosse - Altri tempi. Oggi, come durante tutto il ventennio berlusconiano, i due poteri si guardano in cagnesco. O meglio, il centrodestra si sente sotto attacco. Per dirla con le parole del ministro Carlo Nordio, che ha il dente avvelenato con gli ex colleghi, la magistratura “ha esondato” e sarebbe ora che facesse un passo indietro. A volte però, le apparenze ingannano. E se si va a ben guardare il tanto mitizzato peso delle “toghe rosse”, ci si accorgerà che pesano molto meno di un tempo. Qualche numero dunque, per capire dove batte il cuore della magistratura italiana. Nel Consiglio superiore della magistratura ci sono 20 membri togati, eletti dai colleghi. Il gruppo di maggioranza relativa è Magistratura Indipendente, con 7 rappresentanti. È la corrente dei conservatori, accusata a mezza bocca dagli altri di “collateralismo” con il governo di Giorgia Meloni, tanto più che Alfredo Mantovano, potente sottosegretario alla Presidenza, è un magistrato prestato alla politica ed è stato un pilastro di MI. Seguono i progressisti di Area con 6 rappresentanti; i centristi di Unicost con 4; Magistratura democratica ha 1 solo rappresentante; e poi ci sono due indipendenti. Tra qualche mese, a gennaio, si voterà per il rinnovo dei vertici dell’Associazione nazionale magistrati e si vedrà se ci sono movimenti, ma allo stato il quadro pende per il conservatorismo in toga. La componente laica - Sempre al Csm c’è anche una forte maggioranza di membri laici, quelli eletti dal Parlamento, espressione del centrodestra. Anche il vicepresidente, l’avvocato Fabio Pinelli, viene da lì. Comunque Pinelli è un uomo dalle relazioni trasversali: è stato indicato in particolare dalla Lega, ma aveva buoni rapporti con Matteo Renzi ed era stimato da Luciano Violante. Questa geografia politica tra togati e laici nel primo anno di attività ha causato non poche frizioni perché si è visto spesso un asse tra i 7 rappresentanti di MI, i laici di centrodestra, Pinelli che non ha disdegnato di votare in alcune occasioni cruciali, con ciò rompendo una tradizione di astensioni, e qualche volta anche i membri di diritto, cioè Primo presidente di Cassazione e procuratore generale di Cassazione, che sono confluiti su nomi di magistrati conservatori. Anche la prima presidente di Cassazione Margherita Cassano è stata una figura di spicco di Magistratura Indipendente. Il caso Spiezia . È quanto successe nel luglio 2023 per la nomina del procuratore capo di Firenze, Filippo Spiezia, di rientro dall’esperienza di Eurojust, che ha superato per un filo il candidato dei progressisti Ettore Squillace Greco, già procuratore di Livorno. Quella volta, di fronte a una parità perfetta, il vicepresidente Pinelli scese in campo, giustificando la decisione per la “importanza” della nomina. Ora, siccome Matteo Renzi era in rotta con la procura di Firenze, e Pinelli era stato avvocato per la fondazione renziana Open, la storia non passò liscia. Da allora, il procuratore Spiezia governa con pugno di ferro la procura. È nemico innanzitutto delle fughe di notizie, in senso molto lato. Nei giorni scorsi c’è stata una protesta dei giornalisti fiorentini perché il procuratore ha nascosto per tre giorni la notizia di un incidente mortale sul lavoro occorso a un operaio di origini marocchine, investito sul cantiere autostradale dove lavorava; ma già qualche settimana prima, come raccontato dal sito Professione Reporter, c’erano stati “una violenza sessuale, un accoltellamento, un’aggressione, due rapine. Tutto a Firenze, nel giro di tre notti. Senza nessuna comunicazione da parte della Procura e delle Forze dell’ordine. Divieto di cronaca nella città degli Uffizi”. Il ruolo delle procure - È un fatto, comunque, che le maggiori procure italiane siano rette da magistrati di grande valore, ma anche di conclamata prudenza e provenienti da correnti conservatrici. Certo non dei “descamisados”. Così è per Roma, dove il procuratore capo è Francesco Lo Voi, già capo a Palermo per 8 anni, vicino a Magistratura Indipendente, che si insediò nel gennaio 2022 dopo aspra contesa con il facente funzioni Giuseppe Prestipino e Marcello Viola, che era procuratore aggiunto di Firenze. Lo stesso è per Milano, dove i tempi d’oro e l’armonia tra i sostituti procuratori sono un lontano ricordo. Dopo la delusione romana, Marcello Viola è procuratore nel capoluogo lombardo dall’aprile del 2022 (nomina appena confermata dal Consiglio di Stato). E anche Viola, come Lo Voi, proviene da Magistratura Indipendente. A Napoli, poi, governa il notissimo Nicola Gratteri, già procuratore capo di Reggio Calabria. L’uomo è vulcanico e sarebbe totalmente sbagliato collegarlo a una corrente. Però è un fatto che sulla sua nomina, conservatori e progressisti hanno litigato di brutto e anche nel suo caso pesò la convergenza tra Magistratura Indipendente e i laici di centrodestra, cui si aggiunse il vicepresidente Pinelli. Accadeva nel settembre 2023. Quella volta, i progressisti di Area, sconfitti, scrissero un comunicato di fuoco. Le principali procure d’Italia, insomma, sono rette da uomini di Magistratura Indipendente se si eccettuano Palermo (dove c’è Maurizio De Lucia) o Catania (il Csm ha scelto Francesco Curcio per sostituire Carmelo Zuccaro, ma poi il ministro Nordio ha tardato mesi a controfirmare la nomina). Da ultimo, c’è da dire, il Csm lavora con meno spaccature. La nomina del nuovo procuratore di Torino, Giovanni Bombardieri, proposto all’unanimità dalla V Commissione, vicino alla corrente centrista Unicost, ne è un segno. E presto ci sarà la nomina per il procuratore capo di Bologna dove sono in lizza altri pregevoli nomi. Liguria. Carceri, la mappa dei problemi tra sovraffollamento e suicidi di Aurora Bottino primocanale.it, 11 novembre 2024 I sei istituti penitenziari della Liguria non sono esenti dalle problematiche e anzi, in alcuni casi i dati fotografano situazioni ancora più gravi che nel resto di Italia. Le carceri italiane sono da tempo al centro di quelle che sono denunce da parte di sindacati e associazioni per problemi ormai cronici come il sovraffollamento, la sicurezza, la carenza di personale e tagli ai fondi che pesano su situazioni spesso definite critiche. I sei istituti penitenziari della Liguria non sono esenti dalle problematiche e anzi, in alcuni casi i dati fotografano situazioni ancora più gravi che nel resto di Italia. Carcere di Marassi: detenuti “pericolosi” e realtà come il Teatro dell’Arca - Il carcere di Marassi è l’istituto più grande della Liguria e ha aperto le sue porte nel lontano 1902. Da anni l’istituto lotta contro il problema del sovraffollamento, con numeri da capogiro: a ottobre 2024 Marassi ospitava 679 detenuti rispetto a una capienza massima di 550, scalando la classifica italiana con una media del 130%, sopra a quella nazionale. Le celle straripano di detenuti con più di 310 persone in attesa di giudizio definitivo e il numero di stranieri che è sopra al 50% del totale delle persone detenute. Secondo i sindacati molte sono tossicodipendenti o affette da patologie psichiatriche, rendendo il clima ancora più esplosivo: solo lo scorso agosto nell’istituto c’erano stati pesanti disordini scoppiati a causa di detenuti definiti “pericolosi” della sesta sezione, trasferiti da altre carceri dove avevano già creato problemi simili tra cui quello di Torino. Il bilancio della giornata era stato di incendi, allagamenti e celle distrutte. I crimini però sono molti e la Uilpa, il sindacato della polizia penitenziaria, continua a denunciarli: “Omicidi, risse, aggressioni, stupri, devastazioni, evasioni e proteste pericolose: quante volte ancora dobbiamo dirlo? Le carceri, oggi, non possono neppure mirare a perseguire alcuno degli obiettivi a esse assegnati dalla costituzione e dalle leggi” incalzava il segretario Fabio Pagani. Contemporaneamente alla complessa vita dell’istituto genovese, sono tanti i detenuti che seguono percorsi formativi o prendono parte a realtà come quella del Teatro dell’Arca, direttamente all’interno della casa circondariale, uno spazio dove chi deve scontare una pena può staccare e immedesimarsi nella vita di altri, costruito da detenuti per i detenuti e inaugurato nel 2016. Carcere di Sanremo: continuano gli episodi di violenza - Anche nel molto più recente (inaugurato nel 1996) carcere di Sanremo la situazione è sempre più difficile con aggressioni e risse che si susseguono con frequenza preoccupante. L’istituto si trova fuori dal centro urbano e risulta isolato: con i mezzi pubblici è raggiungibile con gli autobus della Riviera Trasporti S.p.A che prevede sette corse giornaliere. Un numero irrisorio che comporta problematiche per amici e parenti dei detenuti ma anche per i volontari, al momento molto pochi. Nell’imperiese come a Genova pesa il sovraffollamento, caratterizzato da numeri minori ma sempre importanti: nel mese di ottobre 265 detenuti su un numero massimo di 223. A settembre sono stati almeno cinque gli episodi di violenza denunciati dai sindacati. Tra gli ultimi quello che ha visto una ventina di detenuti rifiutarsi di far rientro in cella e finire per devastare la terza sezione, già oggetto di vandalismi a fine agosto. Solo qualche giorno dopo una decina di persone si è armato di spranghe di fortuna (probabilmente recuperate da alcuni tavoli) e ha tentato di raggiungere un altro recluso per un regolamento di conti. Due agenti che si sono frapposti hanno rimediato 27 e 8 giorni di prognosi. Le denunce riguardano spesso il sovraffollamento, la carenza di organico e il provveditorato di Torino, competente per Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta e colpevole secondo i sindacalisti di non traferire i detenuti violenti liguri ma anzi, “di farne arrivare di nuovi dalle carceri delle altre regioni”. Carcere di Chiavari: il 90% dei detenuti è tossicodipendente - La struttura è stata inaugurata a fine XIX secolo come carcere minorile, poi trasformata in un istituto maschile e fino al 2013 è rimasta casa circondariale, per poi diventare una casa di reclusione. Da anni le associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti ritengono Chiavari una struttura performante con laboratori a cui partecipano quasi tutti i circa 60 detenuti ospitati nell’istituto, ma alcuni problemi permangono. Tra questi la tossicodipendenza (molte delle persone detenute sono in carcere per reati legati allo spaccio o all’uso di sostanze) ma anche i traffici illeciti. Ad aprile 2024 era arrivata la denuncia del sindacato della polizia penitenziaria: “Anche nella Casa di reclusione di Chiavari, in via del Gasometro, sono stati rinvenuti due cellulari nei reparti detentivi” scriveva Vincenzo Tristaino, segretario regionale per la Liguria del Sappe. “Il ritrovamento conferma tutte le ipotesi investigative circa l’ormai conclamato fenomeno di traffici illeciti, fenomeno favorito anche dalla libertà di movimento dei detenuti a seguito del regime custodiale aperto e delle criticità operative attuali, in cui opera la Polizia Penitenziaria, con dei livelli minimi di sicurezza”. Carcere di Imperia: al centro la carenza di organico - Quella al centro di Oneglia è l’unica casa circondariale prevista per le province di Imperia e Savona. Anche qui i problemi principali sono la carenza di personale di polizia e un notevole sovraffollamento carcerario, anche dovuto alla continua entrata e uscita di detenuti in attesa di giudizio ma anche alla chiusura del carcere di Savona nel 2016. Secondo l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale Antigone “la carenza di personale è collegata al fenomeno del sovraffollamento, in quanto di regola i pochi agenti penitenziari in servizio sono utilizzati principalmente per le operazioni periodiche di sfollamento verso altri istituti penitenziari e per i trasferimenti in Tribunale, a danno della gestione trattamentale dei detenuti le cui attività possono essere sospese in mancanza di personale di controllo”. Ci sono circa 15 detenuti rispetto alla capienza regolamentare, con una carenza organica di 10 unità di polizia penitenziaria. Carcere della Spezia: tra infiltrazioni d’acqua e suicidi - Nel carcere di via Fonte Vivo il sovraffollamento è un problema che affonda radici nel passato. La struttura, datata 1930, ha visto sacrificare molte aree nate per il trattamento dei detenuti per creare nuove celle. Post covid la situazione rispetto al numero di persone detenute è migliorata: nel 2019 erano 229 a fronte di una capienza massima di 151, mentre oggi quel numero si aggira intorno ai 140 detenuti. Questo non cancella le altre criticità della casa circondariale, tra cui la struttura, definita dai sindacati fatiscente - si sono registrati diversi i casi di legionella registrati negli ultimi anni - con un grave problema di infiltrazioni d’acqua nonostante i lavori di ristrutturazione, le continue aggressioni al personale e una carenza di organico non indifferente. Importante poi segnalare un alto numero di suicidi, il più alto in Liguria, tanto che nel 2022 gli operatori avevano organizzato diversi sit - in di fronte al cancello del carcere per segnalare condizioni di lavoro “troppo difficili e pesanti”. Piemonte. “Diritti dei detenuti non garantiti: le carceri sono al collasso” La Stampa, 11 novembre 2024 La denuncia di Avs in vista del Consiglio regionale aperto di domani a Torino sulle condizioni di lavoro della Polizia penitenziaria. “Lo abbiamo promesso e lo stiamo facendo: i sopralluoghi nelle carceri piemontesi sono una nostra priorità di mandato, con l’obiettivo di conoscere da vicino le condizioni di vita delle persone detenute, confrontarsi con il personale penitenziario e denunciare le gravi carenze strutturali, sanitarie e sociali che caratterizzano il sistema penitenziario regionale, ormai incapace di garantire i diritti dei detenuti e di supportare adeguatamente chi vi lavora”. Lo dichiarano Alice Ravinale, Giulia Marro e Valentina Cera, consigliere regionali di Avs, parlando di “sistema carcerario al collasso” e ricordando che domani è in programma un consiglio regionale aperto sulle condizioni di lavoro della polizia penitenziaria in Piemonte. I sopralluoghi hanno riguardato più strutture, tra cui quelle di Torino, Cuneo, Biella, Ivrea, Fossano, Saluzzo, Asti, Alba e Alessandria. Ravinale denuncia un sistema penitenziario “in crisi totale. È un vero e proprio annus horribilis per l’universo carcerario italiano - sostiene - un sistema che è arrivato a un livello di sovraffollamento mai raggiunto dalla sentenza Torregiani e 79 persone sono morte suicide. E anche in Piemonte la situazione è drammatica”. “Le condizioni di vita all’interno delle carceri sono difficili da sostenere: sovraffollamento, celle inadeguate, scarsa pulizia e strutture fatiscenti creano un ambiente di forte tensione, con gravi ripercussioni sulle relazioni tra detenuti e personale penitenziario. In molte carceri piemontesi mancano proprio i servizi essenziali” aggiunge Marro. Napoli. “Repressione e zero cultura. Il Parco Verde così non potrà mai cambiare” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 11 novembre 2024 “La repressione è stata la madre di tutti gli interventi. Ma nessuno ha ascoltato la comunità sana ed educante del territorio per capire le difficoltà con cui vive”. Nel Parco Verde di Caivano tutto cambia perché nulla cambi, per chi ci abita. Come racconta Bruno Mazza, che nel cuore dell’abbandono ha piantato un seme di speranza con l’Associazione Un’infanzia da vivere. Un anno dopo i fatti di cronaca che hanno mobilitato la politica nazionale, nella periferia Nord di Napoli sono arrivati i soldi, gli elicotteri e i militari. Ma quella resta “la periferia della periferia”, un’area dove 10mila persone vivono nel “degrado assoluto”, tra topi, immondizia e amianto. “Non c’è cultura, non c’è lettura, non c’è scrittura. Non ci sono infrastrutture, non ci sono fiorellini, non c’è un’altalena per i bambini”, spiega Mazza. Non ci sono colori, nel mondo che costringe l’infanzia in una scala di grigi. L’attività dei volontari è l’unico appiglio per i 6mila abitanti del Parco Verde, a cui bisogna aggiungere quelli degli altri quartieri, il rione Iacp e il “Bronx”, che invece restano invisibili ai riflettori che si sono accesi con il decreto Caivano, messo a punto dal governo dopo lo stupro di gruppo di due bambine nell’estate 2023. È la risposta dello Stato suggellata dalla visita di Giorgia Meloni, che accogliendo l’invito del parroco don Maurizio Patriciello è andata a Caivano due volte. La seconda pochi mesi fa, per l’inaugurazione del centro sportivo Delphinia, “bonificato” e riconsegnato ai cittadini dopo un intervento da oltre 10 milioni. “Faremo di Caivano un modello per la Nazione intera, dimostreremo che si poteva fare ed esporteremo quel modello in molte altre Caivano d’Italia”, aveva scandito Meloni lo scorso maggio. Assicurando anche la lotta alla dispersione scolastica con l’arrivo di altri docenti. Nelle parole di chi vive quei luoghi, però, quella promessa resta un miraggio vicino e impossibile da acciuffare. Ora il centro gestito dalla società dello Stato Sport e Salute è intitolato a Pino Daniele. Si trova a circa 700 metri dal Parco Verde ma per raggiungerlo bisogna attraversare una strada trafficata, all’uscita dell’autostrada. Servirebbe una navetta, ragiona Mazza. Ma il vero problema è che il programma di attività offerte dalla struttura sono a pagamento. E quasi nessuno può permettersele. Non i bambini del Parco Verde, che “passano 5-6 ore a scuola, le altre 10 nel territorio. E se per loro non c’è un’alternativa, non resta che la criminalità”. Le famiglie si danno da fare come possono. Mentre il degrado li inghiotte: i 758 alloggi del Parco Verde sono colpiti da infiltrazioni d’acqua e hanno l’amianto sui tetti. Oltre 200 famiglie considerate abusive sono in attesa di regolarizzare la loro posizione. Nell’area non è prevista la pulizia delle strade, non c’è la raccolta differenziata. Le piazze di spaccio si sono spostate poco più in là. E gli interventi per i quali sono stati finanziati 12 milioni non sono ancora stati realizzati. Un’infanzia da vivere è supportata dall’ente no profit Fondazione con il Sud, “altrimenti avremmo chiuso”, dice Mazza. “Siamo qui da 16 anni, e negli ultimi 12 mesi non è cambiato nulla”, ripete tra il baccano dei bimbi che giocano e studiano. Ci sono anche i ragazzi che arrivano dal carcere per la messa alla prova. I volontari si sono inventati i laboratori didattici e di cucina, il calcio, il basket e la pallavolo. Ma presto arriverà l’inverno, e bisognerà rinunciare anche all’attività all’aperto. Perché la palestra non c’è. Come non ci sono i libri. In compenso, nell’associazione, ci sono i pastelli e gli scivoli colorati a spazzare via una lunga storia di disagio e criminalità. Bruno Mazza l’ha vissuta in prima persona, quando a soli 11 anni è stato sfollato a Caivano per il terremoto dell’80. Per sei anni 4mila persone hanno vissuto in baracche di ferro. Poi l’emergenza è stata messa a “sistema”. Il Parco Verde è diventato una sorta di “ghetto”. E per i bambini come Bruno, “respinti” anche dalla scuola, l’unico orizzonte è stato il carcere. Dentro e fuori gli istituti minorili, passando per le comunità di recupero, fino ai cancelli di Poggioreale. “Da lì ho iniziato a vivere la mia libertà, dietro le sbarre, attraverso lo studio. Ho fatto 12 anni di carcere, mi sono diplomato. E una volta uscito, dall’alto osservavo i bambini e rivedevo il mio passato. Da lì è nata l’idea di fondare l’associazione, per dare loro quell’infanzia che io e tanti altri ragazzi non siamo riusciti a vivere”. Per un semplice motivo, dice Bruno. “Perché senza istruzione non saremo mai liberi”. Napoli. La madre del 19enne che ha sparato: “L’ho fatto arrestare io, si passavano la pistola come si fa con le figurine” di Gennaro Scala Corriere del Mezzogiorno, 11 novembre 2024 Anna Elia è la mamma di Renato Caiafa che si è difeso: “Ho trovato la pistola per strada, è partito un colpo per sbaglio”. Il marito Ciro fu ucciso in un agguato, il figlio Luigi, baby-rapinatore, da un agente di polizia. “Chiedo allo Stato di intervenire tra i vicoli di Napoli, di garantire un futuro ai nostri figli. Ci sono troppe armi in giro”. È l’appello di Anna Elia, la madre di Renato Caiafa, il 19enne fermato per la morte di Arcangelo Correra, rimasto ucciso in un tragico incidente mentre maneggiava una pistola. Questa almeno è la versione del giovane fermato. “Mio figlio è un bravo ragazzo - racconta ancora la donna - Ha compiuto da poco 19 anni, si arrangia a fare l’aiutante pizzaiolo. Quando lo chiamano, va a lavorare. Cinque anni fa ha perso suo fratello Luigi e il padre in pochi mesi”. Nelle dichiarazioni rilasciate a “Il Mattino”, la donna spiega cosa è accaduto in piazzetta Sedil Capuano alle 5 del mattino di sabato. Racconta che è stato proprio Renato a spiegargli le cose: “Mio figlio mi ha detto che si stavano passando la pistola tra le mani come si passano le figurine dei calciatori e in quel momento è partito un colpo che ha centrato Arcangelo alla fronte. L’ho portato io in Questura. Poi Renato mi ha detto di andare da Antonella, la madre di Arcangelo e di spiegarle che era stato un tragico errore, che non voleva”. Parole che nella testa di Anna Elia continuano a rimbombare. La donna esclude che l’arma fosse del figlio o, almeno di sua esclusiva diponibilità: “Chi possiede un’arma ha soldi, perché le pistole costano, e mio figlio non ne aveva di soldi. Lavorava a giornata in pizzeria, poi ci chiedeva dieci o venti euro per la benzina di tanto in tanto. Non poteva essere sua quell’arma. Sono madre di un ragazzo ucciso e vedova di un uomo morto ammazzato, non gliel’avrei mai consentito di custodire una pistola”. Già perché Anna Elia è la madre di Luigi Caiafa, il 17enne ucciso a Napoli la sera del 4 ottobre 2020 , mentre commetteva una rapina. Caiafa, insieme con un complice, aveva preso di mira due ragazzi a piedi tra via Duomo e via Marina, ma in quel momento passavano degli agenti in borghese. Caiafa estrasse una pistola “giocattolo” ma priva del tappo rosso e uno degli agenti sparò, causandone la morte. Caiafa era in compagnia di Ciro De Tommaso, 18 anni, figlio di Gennaro De Tommaso, detto “Genny ‘a carogna”, arrestato per narcotraffico e oggi collaboratore di giustizia. La tragica fine di Luigi Caiafa fu celebrata anche sui muri della città. Per il 17enne fu allestito un murale con il suo volto proprio lì, in piazzetta Sedil Capuano, a trenta passi dal luogo in cui Arcangelo Correra ha trovato la morte. Ci furono polemiche per quel murale che culminarono con la rimozione per ordine della Prefettura. Appena un mese prima che fosse cancellato, Ciro Caiafa, marito di Anna Elia e padre del 17enne, fu ammazzato in un agguato di camorra all’interno della sua abitazione. Il killer entrò proprio dalla porta accanto alla quale campeggiava ancora il viso sorridente del figlio Luigi. La donna spiega ancora, facendo riferimento a quel ritratto: “Lo Stato per me? Processi, forze dell’ordine, provvedimenti restrittivi. E ho sempre perso con lo Stato, anche quando scoppiò il caso della rimozione del murale dedicato a mio figlio: lo hanno tolto, ok, lo Stato ha vinto, ma io vedo ancora tanti ragazzi armati in giro”. Poi un pensiero anche per Arcangelo e la sua famiglia: “Piango per lui, poteva accadere anche a mio figlio. Ho un solo desiderio: abbracciare Antonella, piangere con lei, in attesa che qualcuno salvi i nostri giovani”. Napoli. La mamma di Giogiò: “Basta Comunità, a 14 anni ci vuole il carcere” ansa.it, 11 novembre 2024 “Sono centri ricreativi, quando escono sono ancora criminali”. Domenica mattina: a Qualiano (Napoli) sfilano i bambini dell’Ic Pinetamare di Castelvolturno assemblati nell’orchestra intitolata al suo Giogiò, testimonianza di un impegno che da allora Daniela Di Maggio, la mamma di Giovanbattista Cutolo, il giovane musicista napoletano ucciso per futili motivi ad agosto del 2023, non ha mai interrotto girando l’Italia nel ricordo del figlio stroncato a 24 anni. L’ultimo episodio che ha riportato la foto di Giogiò sulle prime pagine dei giornali è quello che ha visto protagonista Arcangelo Correra, ammazzato a 18 anni dal cugino 19enne nel corso di un gioco con la pistola. “Episodi come quello - spiega la mamma di Giogiò - ci impongono una riflessione sulla differenza tra carcere riabilitativo e carcere ricreativo. Se faccio uscire un ragazzo che ha già commesso reati importanti dopo aver sostenuto un corso per pizzaiolo o dopo essersi rifatto gli occhi passeggiando sulla spiaggia di Nisida, non ho costruito una coscienza e non devo poi meravigliarmi se ucciderà di nuovo. È sul sistema carcerario e sulle leggi che va fatta una riflessione. Il killer diciassettenne di Santo Romano (il giovane di 19 anni ucciso nei giorni scorsi a San Sebastiano al Vesuvio per una scarpa pestata - ndr) era uscito di prigione a maggio: anche nel suo caso la galera invece di restituirci un angioletto, ha rimesso in libertà un criminale”. “Un anno fa - ricorda Daniela Di Maggio - ho profetizzato che moriremo tutti per mano di bambini armati. Ecco perché ho chiesto e sono riuscita a far introdurre il reato di stesa, proprio perché questi ragazzi escono continuamente dalle prigioni e continuano a uccidere e a spargere sangue. Ecco perché va capito bene il confine tra carcere riabilitativo e carcere ricreativo. Il killer del mio Giogiò era stato messo alla prova. Una volta terminata ha ucciso. Ecco perché ho proposto di togliere la messa alla prova”. Nel frattempo la discussione ha fatto passi avanti e oggi si parla di abbassare l’età punibile per i minori: “Lo sto gridando da un anno: andai da Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia. Portai due report di neuropsichiatria da cui si evince che i ragazzini di oggi hanno un’età cognitiva molto più avanti rispetto ai tempi a cui risale la legge Mattarella sui minori. Oggi a 12 anni guidano le auto, non possiamo più applicare quelle leggi. A 14 anni si devono aprire le porte del carcere, basta con le comunità di prova. Bisogna far pagare un prezzo ai genitori e togliere la patria potestà quando è il caso. Se vedo ragazzi andare in giro con le scarpe di Gucci da 1000 euro una domanda come genitore me la devo fare e invece danno biberon di veleno a ragazzi che finiscono con l’uccidere i figli dell’Italia perbene. Non è più accettabile - conclude la mamma di Giogiò - così si generano solo mostri”. Napoli. L’ex detenuto: “Soldi e droga, anch’io ho vissuto così ma ora dico: basta scorciatoie” di Dario del Porto La Repubblica, 11 novembre 2024 “La nascita di mia figlia è stata la molla per cambiare. Sono andato all’estero a lavorare perché mi vergognavo, adesso mi sento più ricco”. “Appena arrivato a Nisida mi sono detto: “Mi hanno portato in carcere? E allora sono uno buono. Ero pronto a spaccare il mondo”. Aveva 15 anni, M. C., napoletano del quartiere Secondigliano, quando fu condotto per la prima volta nell’istituto minorile che ha ispirato la fiction Mare fuori. Aveva commesso reati di droga, era già stato per tre mesi in comunità ed era evaso due volte. Oggi ha cambiato vita, ha 27 anni, si è trasferito in centro Italia e lavora sodo. Assistito dall’avvocata Mariangela Covelli, ha chiuso i conti con la giustizia. E ai ragazzi che, nella sua città d’origine si fanno la guerra a colpi di pistola, dice: “Basta con le armi e con l’illegalità. Trovatevi un lavoro”. Perché secondo lei tanti giovanissimi girano con una pistola in tasca? “È diventata una tragica moda. Lo fanno per sentirsi grandi. “Tengo la pistola, so’ ruoss”, pensano. Sono forte” Ma è solo un’illusione, vero? “Sì, assolutamente. L’unica forza di una persona è la sua famiglia. Io l’ho imparato”. Il carcere può aiutare un ragazzo a comprendere i suoi errori? “Può servire, ma solo se dietro al ragazzo c’è una famiglia. A me non è capitato, non ce l’avevo. Mia madre e mio padre erano detenuti. Ero solo e tutto ciò che mi passava davanti era tutto negativo”. Come si comportò una volta entrato in cella? “Il primo anno non è stato facile, litigavo con tutti. Mi proponevano corsi di ogni tipo: informatica, pizzeria. Ma io rifiutavo sempre. Un giorno facevo discussioni con gli agenti, l’altro con i ragazzi. E ogni volta finivo in isolamento. Da una cella all’altra. Poi si avvicinò un educatore e le cose cambiarono”. Perché? “Prese a cuore la mia situazione. Mi diede un obiettivo da raggiungere: se ti comporti bene, disse, ti faccio andare a lavorare e potrai tornare a casa. Mi sono fidato. Così ho cambiato atteggiamento. Ho iniziato a frequentare i corsi, ho conseguito il diploma da elettricista e un attestato per poter lavorare, facevo ceramica. Sono uscito da Nisida a 17 anni con l’affidamento ai servizi sociali”. E ha chiuso con il crimine? “Non in quel momento. Ho commesso un altro reato. E sono finito a Poggioreale. Il carcere è più duro, celle affollate, caldo”. Il carcere non l’ha aiutata, dunque? “Recuperare i detenuti è sempre una cosa molto difficile, sia per i minori, sia per gli adulti. Le opportunità, a Nisida, te le danno. La prima cosa è la volontà del ragazzo. Nessuno riesce a farsi un’altra vita solo grazie al carcere” Lei come ha fatto? “Per me è stata determinante mia figlia. Quando è nata ho compreso il valore della famiglia. Sono uscito dal carcere di Carinola nel 2019. Da allora lavoro. Ho iniziato all’estero perché mi vergognavo di far vedere che andavo a lavorare. Mia moglie era incinta, abbiamo fatto due biglietti per il Lussemburgo e sono stato sette mesi in un ristorante. Tornato a Napoli, mi sono fatto forza, con la merenda sotto il braccio. E come è andata? “Oggi quelli che mi vedono, mi apprezzano. Ci vogliono più attributi per andare a lavorare che per commettere un reato. Non ho niente contro lo Stato, ma non fanno nulla per aiutare il mondo delle carceri. Solo chi ci è stato dentro può capirlo. Guadagnavo anche 10mila euro al mese con la droga. Ma mi sento più ricco oggi perché lavoro”. Napoli. Abbiamo perso tutti, ma ora la carneficina finisca di Maurizio Patriciello Avvenire, 11 novembre 2024 Sbigottiti. Si fatica a trovare le parole giuste per descrivere e commentare quest’ultimo, terrificante episodio: un ragazzo di 18 anni, è stato colpito alla testa con un colpo di pistola. Ancora un giovane è stato ucciso a Napoli, a pochi giorni di distanza dagli omicidi di Emanuele Tufano e Santo Romano. Eppure, in questi giorni non sono mancate marce anticamorra, incontri nelle scuole, vertici delle istituzioni. Il problema è che loro, i giovani con le pistole, vivono in un mondo parallelo, un mondo dove senza l’apposito passaporto, non entri. Parlano una lingua diversa, si sacrificano per “valori” - disvalori? - diversi. Hanno ingaggiato una vera e propria guerra con la società dalla quale si sono sentiti - o si sono - esclusi. Un mondo dove finanche il linguaggio, i motteggi, le smorfie, i gesti, le affettuosità vanno interpretati. E questo armamentario particolare li fa sentire gruppo, famiglia, gang, banda. Da contrapporsi alla banda rivale. Zeppi di rabbia e di rancore verso una società dalla quale, da sempre si sono sentiti emarginati, hanno trovato la via del riscatto. Le loro famiglie, problematiche e povere, non hanno saputo o potuto educarli. La scuola ha fatto il possibile, ma poi, in certi casi, ha dovuto alzare bandiera bianca. Non ce l’ha fatta. Tanti insegnanti hanno dovuto difendersi da certi genitori che mal sopportano anche il minimo rimprovero fatto al figlio in classe. La chiesa ha dovuto assistere con amara tristezza al loro esodo appena hanno raggiunto l’età dell’adolescenza. Il mondo del lavoro non li ha considerati. Il Paese si è accontentato, negli anni, di un’apparenza di pace. Ammettiamolo, finché non ci scappa il morto, siamo tutti propensi a dire che, in fondo, le cose vanno bene. Il confronto, poi, con la Napoli in preda alla camorra sanguinaria degli anni passati non ci aiuta. Ben magra consolazione vi viene dal constatare che le “stese” o i morti ammazzati, rispetto al passato sono diminuiti. Tante personalità della politica e del mondo della cultura, intervistati, hanno detto che siamo di fronte a una nuova emergenza. Che sia una emergenza è sotto gli occhi di tutti; che sia nuova, non mi pare. Perché Napoli, da sempre, soffre di queste sopraffazioni che la tengono come incatenata, e non le fanno spiccare il volo. Che le causano attacchi di panico e scrupoli di coscienza. Tre omicidi nel giro di pochi giorni sono impressionanti. Gli anni vissuti dalle tre vittime, messi insieme arrivano a 52. “Abbiamo paura” ci dicono le mamme. “Abbiamo paura” ripetono tanti bravi figlioli che studiano e la sera vorrebbero uscire a fare quattro passi. Hanno ragione da vendere. Ma da dove cominciare? Ho parlato con l’insegnante di uno degli aguzzini degli ultimi omicidi. “Era ingestibile” mi ha confidato. E la scuola rimanda alla famiglia. Una famiglia che tante volte non c’è o non c’è più. E se c’è ha bisogno di essere supportata. Occorrono un esercito di carabinieri e poliziotti, insieme a un esercito di insegnati motivati e assistenti sociali preparati. Occorre avere uno sguardo d’insieme. Occorre avere il coraggio della verità, anche quando a qualcuno potrebbe non piacere. I quartieri a rischio non hanno mai smesso di partorire violenza, com’era largamente prevedibile. Le omissioni da parte di una politica che negli anni si è lavata le mani del mondo minorile fortemente problematico, ci stanno presentando il conto. Un conto salatissimo, che senza pietà, pretende anche gli interessi. Troppe armi a Napoli. Troppa violenza. Troppa disoccupazione. Troppa paura. In questi giorni ho incontrato centinaia di studenti, a San Sebastiano al Vesuvio, a Caivano, ad Afragola, a Benevento. Sono andato senza una relazione scritta. Ho chiesto loro di aiutarci a entrare nel loro mondo, nelle loro paure. A raccontarci le loro speranze. Credo che abbiamo il dovere di fare pace tra le diverse generazioni. Di smetterla di guardarci in cagnesco. Poi occorre pensare a fare pace tra i diversi quartieri della città. Le periferie ancora pagano lo scotto dell’isolamento nel quale sono state confinate. Infine occorre fare pace tra i ragazzi cosiddetti perbene e i loro coetanei che hanno imparato a gustare l’amaro sapore del male. Non è facile, ma dobbiamo tentare. Ne va della vita di questa nostra cara gioventù. Guai a pensare - come sento dire in giro - che più risorse economiche, da sole avrebbero il potere della bacchetta magica. I soldi sono necessari. Ma devono arrivare a loro, a questi ragazzi a rischio e alle loro famiglie, non perdersi nei mille rivoli che affrontano durante il tragitto. Ma ci vogliono, soprattutto, cuori grandi. Che sappiano prendere per mano i genitori prima e i loro figli dopo. E aiutarli a credere nelle forze sane della società. Testimoni, andiamo alla ricerca affannosa di testimoni, senza i quali finanche i maestri dovranno rassegnarsi a segnare il passo. Forza. Insieme ce la faremo. Rinuncino le forze politiche a raccogliere gli stracci da lanciare all’avversario. Fanno male ai poveri. Non è questo il momento di farsi la guerra. Accettino con grande umiltà di contribuire al risanamento di una città tra le più belle del mondo, che trascina con sé tanti problemi. Chi salva una vita salva il mondo intero. Abbiamo pianto tre giovanissime vite in pochi giorni. Abbiamo perso tutti. Questa carneficina deve finire. Oggi non domani. Napoli. Presentazione del progetto “Chiavi di Libertà” per il supporto ai figli dei detenuti di Elisabetta Cina gaeta.it, 11 novembre 2024 Il progetto “Chiavi di Libertà” sarà presentato a Napoli per supportare i minori figli di detenuti, migliorando le loro condizioni di vita attraverso azioni educative e sociali specifiche. Il progetto “Chiavi di Libertà” sarà presentato domani dalle ore 10 alle 12 presso l’Istituto Salesiano E. Minichini di Napoli, e rappresenta un’iniziativa significativa nell’ambito del bando “Liberi per Crescere”, promosso dall’Impresa Sociale “Con i Bambini”. Questa iniziativa mira a migliorare le condizioni di vita dei minori figli di detenuti, un tema sempre più rilevante dato il contesto carcerario italiano e le conseguenze che ha sui legami familiari di chi vive in tali situazioni. Obiettivi e modalità del progetto - “Chiavi di Libertà” è ideato per supportare i minori che affrontano il difficile compito di vivere con un genitore in detenzione. Parte di un Partenariato che include come capofila l’associazione Telefono Azzurro CAM, il progetto si propone di creare un modello di presa in carico personalizzata. La sofferenza dei bambini in questa condizione non è solo emotiva ma è amplificata anche da una povertà educativa, vista la mancanza di risorse e sostegno. Il progetto è finalizzato a garantire i diritti e il benessere di questi giovani, attraverso azioni concrete. Il progetto si articola in sei azioni specifiche, denominate “Chiavi”, che mirano a garantire un ambiente favorevole, promuovere legami affettivi, fornire supporto socio-educativo e formativo ai detenuti, garantire inclusione sociale e offrire formazione. Queste azioni sono organizzate per attuare i diritti espressi nella Carta dei Diritti dei Figli dei Detenuti, le cui aree verticali toccheranno vari aspetti del supporto sociale e educativo. Le figure chiave dell’incontro - L’evento di presentazione del progetto vedrà la partecipazione di figure istituzionali e accademiche significative, tra cui Giuseppe Acocella, Rettore dell’Università Telematica Giustino Fortunato. Saranno presenti anche Samuele Ciambriello, Garante dei Detenuti della Regione Campania, e Lucia Castellano, Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania. Queste personalità giocheranno un ruolo cruciale nel promuovere il progetto e nel sottolineare l’importanza di affrontare la questione del supporto ai figli dei detenuti. Altri relatori includono Giovanni Galano, Garante Regionale dell’infanzia e dell’adolescenza, e Nicola Nardella, Presidente della VIII Municipalità del Comune di Napoli. La presenza di rappresentanti locali come Rosida Baia, Vicesindaco di San Marco Evangelista, e Carmen Cardillo, Assessore alle Politiche Sociali dello stesso comune, dimostra l’impegno della comunità nel sostenere il progetto. Anche il Presidente del Tribunale di Napoli Nord, Pierluigi Picardi, e il Direttore della U.O.C. di Pediatria Santobono-Pausillipon, Paolo Siani, porteranno la loro esperienza e visione su questo fondamentale tema. Infine, il dottor Dario Bacchini, docente di psicologia dello sviluppo all’Università Federico II, e Nicola Caprio, Presidente del CSV Napoli, apporteranno contributi importanti alle discussioni. La situazione attuale e la necessità di intervento - Le carceri italiane stanno affrontando sfide enormi, con una qualità di vita per i detenuti che lascia molto a desiderare. Le conseguenze non si limitano ai soli detenuti, ma si amplificano nei loro rapporti con i figli, che spesso vivono una condizione di isolamento e difficoltà economica. Il progetto “Chiavi di Libertà” rappresenta quindi un tentativo di riparare a questa situazione, garantendo assistenza non solo agli adulti coinvolti ma ponendo un forte focus sui minori. È essenziale che i bambini abbiano la possibilità di mantenere un legame affettivo sano con i genitori. Gli ambiti previsti dal progetto rispondono espressamente a questa esigenza. Creare un ambiente sicuro e affettuoso, oltre a fornire un supporto educativo e formativo, è critica per il futuro dei minori coinvolti. L’attivazione delle sei “Chiavi di Libertà” è vocata a favorire una rete di protezione e inclusione per questi ragazzi, in modo tale da mitigare gli effetti dell’assenza genitoriale e contribuire a un sano processo di crescita e sviluppo. Il progetto “Chiavi di Libertà” non rappresenta solo un intervento sociale, ma si pone come una necessità attuale e urgente, affrontando in modo diretto le problematiche legate alla genitorialità in un contesto detentivo e al benessere dei minori. Latina. “Il carcere come risorsa: avviamento al lavoro e reinserimento del condannato” latinatoday.it, 11 novembre 2024 Proseguono gli incontri nell’ambito del progetto di Terza Missione “3CiLab - Costituzione, Carcere e Città di Latina” dell’Università Sapienza di Roma, coordinato dalla professoressa Fabrizia Covino, docente di Istituzioni di diritto pubblico. Il progetto si propone di approfondire il tema dei diritti della persona all’interno della realtà carceraria, favorendo l’interazione tra studenti, detenuti, docenti e amministrazione penitenziaria ed è in linea con gli obiettivi della Terza Missione dell’Università che, accanto alle tradizioni funzioni di insegnamento e ricerca, mira a favorire lo sviluppo sociale, culturale ed economico del territorio, attraverso la promozione del dialogo e della collaborazione tra il mondo accademico e la comunità locale. Dopo il primo incontro del novembre 2023 dal titolo “Carcere e Costituzione. Esperienze a confronto” tenutosi presso la Facoltà di Economia de La Sapienza, sede di Latina, e i seminari su “La Costituzione dentro e fuori le mura”, di maggio presso la casa circondariale di Latina, la prossima iniziativa si terrà il 15 novembre alle 10:00, presso l’Aula 2 della Facoltà di Economia, sede di Latina, sul tema “Il carcere come risorsa: avviamento al lavoro e reinserimento del condannato”. Durante l’incontro, moderato dalla professoressa Covino, interverranno la direttrice della casa circondariale di Latina, Pia Paola Palmeri, e Rodolfo Craia, funzionario capo dell’Area giuridico-pedagogica. Il confronto a cui parteciperanno gli studenti di Sapienza e di alcune scuole del territorio è aperto alla cittadinanza. Oggetto della riflessione è la possibilità per i detenuti di lavorare, attività che rappresenta uno degli elementi del trattamento rieducativo, perché svolge un ruolo cruciale ai fini del loro reinserimento sociale, permette di acquisire competenze professionali che saranno utili una volta scontata la pena e riduce il rischio di recidiva, contribuendo così al pieno recupero dell’individuo. Mantova. La medicina narrativa ritorna in carcere vocedimantova.it, 11 novembre 2024 Mantova Poesia-Festival Internazionale Virgilio inizia in carcere il terzo anno di laboratorio, esperienza nata nel novembre 2022 in collaborazione con la Medicina penitenziaria di Asst, nell’ambito di un percorso di medicina narrativa. Tra il 2023 e il 2024 sono stati numerosi i temi affrontati e i conduttori dei workshop. In questa nuova stagione - che si è aperta a ottobre 2024 e continua nel 2025 - si proporrà ai partecipanti di sviluppare il rapporto con sé stessi attraverso l’autobiografia e la scrittura come dialogo, utilizzando la forma epistolare. “Continuiamo ad andare in carcere - spiega Lucia Papaleo - presidente dell’associazione La Corte dei Poeti che organizza il festival virgiliano - perché succede sempre che chi si approccia a questo tipo di esperienza non ne verrà più fuori, tanta è la felice contropartita. A fronte di ciò che noi possiamo portare, è infinitamente superiore ciò che riceviamo in cambio. Noi portiamo noi stessi, il nostro desiderio di esserci, le nostre braccia, i volti, le voci, le risate, lo stupore, gli abbracci, le penne, i poeti, le speranze. Dalle persone detenute riceviamo idee, connessioni, energie, entusiasmo, emozioni, coraggio di provare cose impossibili, vitalità, speranza”. Il laboratorio ormai si identifica con il titolo “La parola come cura”. “In questi due anni - commenta Laura Mannarini, responsabile della Medicina penitenziaria - la parola ha curato in tanti modi, ma soprattutto ha curato la capacità di credere al cambiamento. La cura inoltre è stata preziosa anche per la poesia stessa: la scrittura che esce dal carcere supera ogni retorica o accademia, si purifica, diventa essenziale. Le persone che partecipano ai laboratori sono libere di esserci o non esserci, spesso non possono tornare agli incontri successivi per vari motivi, o perché vengono spostate ad altri istituti di pena, o per eventi che impediscono la partecipazione. Ma il gruppo che si crea è sempre vitale e coeso”. Viene dunque proposta una serie di incontri-scrittura a partire dalle lettere. Lettera a me stesso/a me stesso/a (curato dalle assistenti sociali Roberta Pasotti e Marisa Pini); Lettere alla guerra e alla pace, curato da Sergio Sichenze, autore di una raccolta di poesie sulla guerra di prossima pubblicazione nella collana “La Corte dei poeti”, 1° dicembre 2025; Lettera al mondo (prendendo spunto dalla “lettera al mondo” di Emily Dickinson), curato da Lucia Papaleo, Carla Villagrossi e Luciana Bianchera, 12 gennaio 2025; Lettere al carcere, con la speciale partecipazione di Alessandro Fo, scrittore, latinista, poeta, traduttore dell’Eneide di Virgilio e delle Metamorfosi di Apuleio, con una intensa esperienza di sostegno culturale in diversi istituti di pena. Una sua raccolta, “Filo spinato”, che riguarda un percorso con le persone detenute, contiene poesie sulla quotidianità nel carcere di cui fa parte la cosiddetta “domandina”, strumento per chiedere ogni cosa, dalla più piccola alla più necessaria, che scandisce le attese e le speranze (9 febbraio 2025). Un altro appuntamento sarà quello con Marco Valentini, poeta, psicologo e psicoterapeuta, che terrà un laboratorio sulla lettura di testi poetici nonché dei testi scritti dai partecipanti al laboratorio come azione riflessiva e introspettiva di cambiamento (2 marzo 2025). Proseguono gli appuntamenti del laboratorio di lettura e scrittura creativa sul modello del laboratorio tenuto da oltre 30 anni al carcere di Opera: saranno curati da Giuliana Adamo e Luciano Zampese, con cadenza mensile e vedranno i partecipanti confrontarsi su uno o più testi che fungeranno da stimolo per le loro scritture. Anche quest’anno il laboratorio si concluderà con un evento finale di letture e musica, cui saranno invitati ospiti esterni e parenti delle persone detenute. Infine, il legame carcere-territorio si realizzerà con altre due iniziative: una “uscita” per le persone detenute che potranno ottenere il permesso che si concretizzerà nella guidata-laboratorio emozionale alla mostra di Palazzo Te “Picasso: poesia e la salvezza” a cura di Elena Miglioli (responsabile Ufficio Stampa e Comunicazione di Asst Mantova) e Laura Mannarini (responsabile della Medicina penitenziaria di Asst Mantova). Il laboratorio, in programma per il 3 dicembre, sarà condotto dell’operatore museale Simone Rega e costituirà occasione di scrittura nei successivi laboratori nei quali far confluire l’emozione dell’arte. Da Oliver Stone a Gomorra, quando la fiction “cattiva maestra” finisce nel mirino politically correct di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 11 novembre 2024 La messa in scena del male nelle opere di finzione e il rischio di emulazione: la violenza è causa o effetto di film e serie televisive? Mickey e Mallory se ne andavano in giro per il loro soutwest lisergico seminando cadaveri: 52 in tre settimane. Uccidevano a caso, per piacere, per noia o per fastidio, belve imbizzarrite, grotteschi come cartoon. Metafora un po’ tagliata con l’accetta di una nazione impazzita e senza bussola che sembra sprofondare nel culto fanatico e primitivo delle armi. Verso la metà degli anni 90 la coppia protagonista del road movie di Oliver Stone, “Natural born killer”, finisce sotto accusa: non nel climax del film, ma nella vita reale. Era successo che il 6 marzo 1995, pochi mesi dopo l’uscita nelle sale, Ben Darras e Sarah Edmondson, due adolescenti dell’Oklahoma, si imbottiscono di Lsd, salgono in macchina e sconfinano in Mississippi dove freddano con due colpi di calibro 38 in testa Bill Savage, un uomo d’affari incontrato per caso in un drugstore sull’autostrada. Poi continuano la folle corsa verso Lousiana, si fermano in un minimarket ed esplodono una raffica contro la cassiera Patsy Byers, che rimarrà paralizzata per il resto della vita. Dopo l’arrestola polizia scopre che le camerette di Edmonson e Darras erano tappezzate dai poster di Mickey e Mallory e dalle locandine del film verso cui avevano sviluppato un’ossessione morbosa, un classico caso di emulazione. I familiari delle vittime fecero causa al regista e alla Time Warner sostenendo che la disturbante pellicola fosse la causa primaria di quegli omicidi insensati. A denunciare Stone anche il noto scrittore di legal thriller John Grisham, sconvolto dall’assassinio di Savage che era suo amico personale. Per gli avvocati di Patsy Byers esisteva “un chiaro nesso casuale tra il film e gli omicidi” e Stone doveva pagare in quanto “responsabile di quei crimini come i pazzi che hanno premuto il grilletto”. Natural Born killer entra anche una delle stragi più celebri ed efferate degli ultimi decenni, quella alla Columbine high school del 20 aprile 1999; gli autori del massacro, Eric Harris e Dylan Klebold, utilizzavano l’acronimo “NBK” per firmare i propri deliri. Anche il sistema dell’informazione punta il dito contro la pellicola, in particolare i media di orientamento conservatore che dipingono Stone come “cattivo maestro”, parlando del suo film come un’opera “ripugnante e satanica”. I tribunali però danno ragione a Oliver Stone e alla Time Warner, respingendo tutte le accuse e accogliendo la linea della difesa che si appella al Primo emendamento che protegge la libertà d’espressione. La stessa, presunta relazione tra gli omicidi e la pellicola viene cassata dai giudici che sottolineano “i problemi esistenziali e sociali molto più profondi” che hanno spinto quei ragazzi apparentemente normali a trasformarsi in brutali assassini. Anche in Italia, seppur in forme meno truculente, il dibattito sulla cattiva influenza delle fiction sulle giovani generazioni ha il suo filo da tessere. Basti pensare a Gomorra, il film e soprattutto la serie tv e le polemiche che ha innescato. Sotto la lente della critica l’effetto emulazione, gli atteggiamenti dei giovanissimi che scimmiottano il linguaggio e la prossemica del boss Genny Savastano e dei suoi scherani, delle baby gang del napoletano con le pistole tenute di piatto sulle foto dei profili social, i pestaggi dei coetanei, il bullismo pseudo camorrista e tutta la prosopopea farlocca. Un fenomeno pressoché identico si è verificato a Roma con Romanzo Criminale, “modello” per migliaia di ragazzini emuli dei vari Libano, Freddo e Dandy; anche dentro il raccordo anulare ci sono stati diversi casi di baby gang che si sono ispirate alla serie. Negli anni in cui Romanzo Criminale abbatteva tutti record di ascolto i tabaccai della capitale vendevano addirittura accendini con i volti degli epigoni cinematografici della Banda della Magliana. Nessun tribunale italiano però si è mai sognato di censurare queste opere in nome dell’ordine e della pubblica sicurezza o ha mai stabilito un nesso causale tra le serie e la criminalità giovanile. Ci hanno pensato i sociologi, gli psicologi e i commentatori tuttologi dei giornali a puntare il dito contro la “mitizzazione” dei criminali, interpretati da attori in voga e pieni di charme con cui è facile identificarsi. Un po’ come accade nei film sui mafiosi italo-americani di Martin Scorzese o nella violenza grottesca messa in scena nelle opere di Quentin Tarantino. E come sempre ci si è divisi tra chi sostiene il ruolo nefasto di queste serie sui più giovani e chi al contrario nega qualsiasi rapporto tra violenza rappresentata e violenza reale. Un dibattito vecchio come il mondo a cui apparentemente non c’è soluzione. La censura non è la risposta. Ma tra serie tv e musica trap lo “stile boss” può fare danni di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 11 novembre 2024 L’immaginario malavitoso ha fatto breccia nel pubblico giovanile, creando un modello per una parte di adolescenti. Qualche giorno fa, in una scuola della periferia di Roma, una alunna dodicenne ha accoltellato un compagno di classe, rea a suo avviso di avere “fatto la spia” rispetto a un compito copiato. Si tratta di un episodio purtroppo sempre meno isolato, che al di là delle mere statistiche generali sulla criminalità e su quella giovanile, è tanto più grave se messo in rapporto a una tendenza sempre più marcata negli stili e nei modelli seguiti dagli adolescenti. È un dato incontestabile e sottolineato a dovere dagli studiosi che negli ultimi anni, nel nostro paese, si è accelerato un processo di appropriazione, da parte dei più giovani, di un bagaglio estetico e comportamentale tipico della malavita, con modalità e conseguenze diverse rispetto al passato. Per la prima volta, in Italia, le sottoculture giovanili hanno proposto in massa il mito del “piccolo gangster” o del “bad boy”, senza che questa connotazione abbia una radice sociale. Le sottoculture giovanili italiane, in generale, sono state costantemente importate dai paesi anglosassoni e - come per tutti i modelli e gli stili adolescenziali e post-adolescenziali - hanno messo sempre al centro la ribellione sociale e generazionale. Una ribellione che si manifestava nei comportamenti e nell’estetica: si può partire sommamente in questa storia dai cosiddetti “teddy boys” e “mods” inglesi, per poi passare ai punk, dark e a tutte le sottoculture derivanti dai ghetti neri statunitensi, come l’hip-hop. Movimenti che arrivavano nel nostro paese spesso edulcorati e privati dell’aspetto più violento, che è rimasto per almeno un decennio appannaggio dell’aggregazione politica. Non è mai mancata, di certo, una fascinazione autoctona per la nostra malavita, ma tale simpatia difficilmente ha varcato i confini del territorio in cui la presenza dei boss era avvertita in modo tangibile, e non ha mai tracimato verso il mondo giovanile. Non è mai stata, in un certo senso, mitizzata. Un ruolo importante, in questo processo, lo ha giocato la creazione di quel “nuovo immaginario” che l’ex-ministro Gennaro Sangiuliano auspicava per la narrazione culturale del nostro paese, ma che nei fatti è stato messo a punto in negativo da una serie di autori cinematografici e televisivi, dopo aver constatato il successo di alcune rappresentazioni. Un paradigma rovesciato, rispetto alla tradizione cinematografica e drammaturgica italiana: se il meccanismo della simpatia verso il “bandito” era sempre stato giustificato da un aspetto sociale di rivincita o di lotta al potere (una declinazione continua del mito di Robin Hood, che in ogni caso negli Usa ha portato alla censura per i film sui gangster ai tempi del proibizionismo, compreso il primo Scarface di Howard Hawks) che però si risolveva nella separazione netta tra bene e male, ora una serie di fattori hanno fatto della narrazione della malavita un qualcosa di estremamente suggestivo per gli adolescenti. Le produzioni più famose degli ultimi anni, infatti, hanno messo in rilievo un fattore che prima era non prioritario, e cioè quello del denaro, dello stile di vita iperbolico, dell’ostentazione, non appartenente al cliché del vecchio malavitoso. La spettacolarizzazione della vita dei boss spietati della serie “Gomorra”, fatta di auto e vestiti di lusso, yacht, amicizie glamour nel mondo dello sport e dello spettacolo (quest’ultima circostanza confermata anche da recenti vicende di cronaca), ha fatto breccia in una parte del pubblico adolescenziale, facendo passare la suggestione che il lusso può giustificare violenza, sopraffazione e adesione agli ambienti malavitosi. Ma l’elemento più preoccupante in rapporto al successo di alcune serie, a detta degli studiosi, è l’adesione totale allo “stile” boss: l’abbigliamento (non meno orribile dell’aspetto etico, fatto di “tute gold” e di accessori kitsch ridondanti con brand in bella vista), il linguaggio sempre più asfittico e una condotta alla continua ricerca dello scontro fisico, anche violento, anche mortale, sulla base dell’etica della malavita. A questa fascinazione ha contribuito anche l’emergere prepotente, sul versante musicale, del movimento trap, col fiorire di una miriade di beniamini degli adolescenti, interpreti di storie che spesso hanno al centro modelli ispirati allo stile “bad boy”. Nelle canzoni trap, l’elemento preminente è il rapporto tra ragazzo e ragazza e l’aspetto più rilevante è l’adesione femminile a un modello di rapporto “tossico”, in cui è ampiamente sdoganata la possessività maschile, quando non la violenza. Tra i fatti di cronaca degli ultimi giorni che hanno coinvolto adolescenti, c’è da segnalare anche quello accaduto a Piacenza, dove una tredicenne è morta cadendo dal balcone in circostanze da chiarire, ma che potrebbero avere a che fare col rapporto tumultuoso e violento che intratteneva col suo fidanzato possessivo e violento secondo più di una testimonianza. Quella del rapporto tra la spettacolarizzazione del male ed emulazione, insomma, è una vexata quaestio, che non deve mai aprire la porta a forme di censura ma nemmeno chiuderla alle riflessioni. Altro che emulazione, Gomorra ci ha redenti di Errico Novi Il Dubbio, 11 novembre 2024 Assurde le tesi che accusano Gomorra di aver trasferito nei giovani la fascinazione per il crimine. casomai, film e serie tv ispirati a Saviano hanno smitizzato i boss e decostruito il terrificante mistero dei clan. “Gomorra” è un libro, prima che un film e una serie tv. Risale a 18 anni fa. Ha diviso Napoli. Ha suscitato reazioni ostili, nei confronti di Roberto Saviano. Non tanto, è il paradosso, tra i segmenti della città che vivono ai margini o al di qua del mondo legale, ma nei ceto medio-alti. Tra la cosiddetta borghesia illuminata. “Ci diffama”, “ci ha distrutti”, “ha inflitto il colpo di grazia alla nostra immagine”, “siamo diventati agli occhi del mondo intero la Gotham city d’Occidente”. Alcuni anni dopo Gomorra, dopo il primo libro di Saviano e dopo l’uscita nelle sale della pellicola di Matteo Garrone, due geniali autori del nostro cinema, i Manetti Bros., produssero un musical a metà fra il comico grottesco e la fiction pulp: Ammore e malavita. In apertura, un balletto di turisti che si scatenano con le Vele di Scampia sullo sfondo e dichiarano la loro fascinazione per la cattedrale dello spaccio, per l’incontro ravvicinato con l’epicentro dell’abisso metropolitano. Si scherza, si ride. Una parodia. Ma i fratelli registi, romanissimi, intuiscono in realtà un dato oggettivo: la narrazione “gomorroide” attrae turismo. Rende Napoli una meta per stranieri curiosi. La riporta paradossalmente al centro del villaggio globale. Altro che pubblicità negativa. Si comincia a intuire (siamo nel 2017) che Gomorra, e le sue versioni sequenziali, la serie tv appunto, agiscono come sorprendente veicolo di propaganda, come una paradossale quanto efficace vetrina. I turisti arrivano, si moltiplicano. Sul finire del decennio scorso, Napoli raggiunge un primo acme del proprio successo turistico, interrotto solo dal covid e poi ripreso fino al nuovo exploit della primavera 2023: lo scudetto del Napoli Calcio intreccia le ormai diradate suggestioni gomorroidi con la stupefacente bellezza del Golfo, con il mito della festosità partenopea e il culto pagano di Maradona, il D10S. La piazzetta dei Quartieri spagnoli dove si venera l’effige più famosa di Diego, il murales realizzato nell’ormai lontano 1990 dal compianto Mario Filardi e poi restaurato sette anni fa da Salvatore Iodice e Francisco Bosoletti, è meta di pellegrinaggio 24 ore su 24. E un nuovo momento di esposizione planetaria, per Napoli. Che persiste e continuerà a evolvere. Cosa c’entrano Gomorra e la sua epopea con la rinascita turistica della città? C’entrano eccome. Al di là delle fascinazioni di cui alla scena iniziale di Ammore e malavita, l’opera di Saviano e le successive trasposizioni hanno prodotto in realtà un effetto psicosociale diametralmente opposto all’esito deturpante temuto dai napoletani: hanno demitizzato il crimine. Nel farne parodia, attraverso la riduzione filmica del libro, la camorra è stata decostruita. La versione visuale di Gomorra ha paradossalmente dissolto, sul piano dell’immaginario, la forza, la minacciosa mostruosità della malavita partenopea. In fondo non serve citare i guru delle comunicazione di massa. Basta il genio di uno dei più grandi maestri della comicità universale e icona della cultura popolare partenopea: Totò. Basta la scena di Totò, Peppino e i fuorilegge in cui Alberto, promesso sposo di Valeria, figlia del Principe della risata, convince il Torchio a rilasciare i poveri Totò e Peppino, presi in ostaggio, con l’abbagliante miraggio della notorietà, con una semplice intervista, usata quale merce di scambio. Da spietato rapitore, il Torchio si riduce a infantile narciso. Rilascia i prigionieri e apre le porte al lieto fine di una fra le più straordinarie e memorabili performance di Antonio De Curtis. Ecco, Gomorra ha fatto qualcosa di simile: ha demitizzato i clan della camorra partenopea. Nel vivisezionarli, li ha spogliati della loro carica misteriosa e terribile. È un gioco della rappresentazione che ha agito, più o meno consapevolmente, anche nella percezione esterna, nei turisti, innanzitutto stranieri, che sono accorsi, a milioni e milioni, negli ultimi tre lustri, alle pendici del Vesuvio. Ora, se l’effetto socioantropologico prodotto dall’opera di Saviano, su chi napoletano non era, è stato positivo, persino tranquillizzante e provvidenziale per l’attrattività di Partenope, non si riesce a comprendere per quale motivo Gomorra dovrebbe invece aver corrotto chi a Napoli ci vive, e i giovani in particolare. È davvero temerario sostenere che il modello, gli stilemi, come li chiamerebbero i massmediologi, irradiati dalla diffusione, sul piccolo e grande schermo, dell’opera di Saviano siano l’innesco di una devastante emulazione, un moltiplicatore della devianza. Casomai, il progressivo indebolirsi della camorra tradizionale - causato, in termini concreti, effettuali, dall’impegno straordinario di magistrati e forze dell’ordine e, in termini ideali e culturali, anche dal film e dalla serie su Gomorra - ha lasciato spazio a una versione residuale, ma comunque sanguinaria, del sistema malavitoso precedente: le bande dei baby boss, i ragazzotti protagonisti delle “stese”, le parate in moto e armi in pugno nelle quali giovani gruppi di malavitosi esibiscono la loro spaventosa esuberanza, e manifestano la loro volontà di intimidazione. I colpi inflitti, alla camorra propriamente detta, dalla direzione distrettuale Antimafia di Napoli e dalle forze dell’ordine, le decine di indagini che hanno portato in galera i vecchi boss e disgregato i clan, hanno lasciato spazio a una forma sì terribile, ma, in termini sistemici, terminale e agonizzante del mondo criminale: le “paranze dei bambini”, appunto, di cui lo stesso Saviano si è poi occupato. È chiaro che questo mondo di recrudescenza camorristica a cui i giovani delle periferie hanno dato vita è una metastatsi da estirpare. È un fenomeno mostruoso, che ha provocato assassinii e atti di violenza terribili: Giovanbattista “Giogiò” Cutolo, ucciso a 24 anni, e Santo Romano, che ne aveva 17, sono solo, rispettivamente, la più clamorosa e la più recente fra queste storie di morte. Napoli deve liberarsi di quest’estrema propaggine camorristica, nella consapevolezza altri tentacoli della piovra proveranno ancora ad avvelenare la città. Ma non ha senso associare criminalità giovanile e rappresentazione cinematografico- letteraria della camorra. È assurdo criminalizzare un libro, un film, una serie tv. Saviano ha avuto anzi il merito di sbattere in faccia ai napoletani la realtà che molti si sforzavano di respingere, di ridurre a fenomeno tanto soffocante quanto estraneo. L’esercizio della rimozione è praticato da secoli, a Napoli, in particolare dalle classi dirigenti. Proprio quelle che, non a caso, più si sono indignate e offese nel vedersi rappresentate dallo specchio di Gomorra. “Zecche rosse” e “camicie nere”, è di scena la parodia della politica di Flavia Perina La Stampa, 11 novembre 2024 Zecche rosse e camicie nere se le sarebbero volute dare di santa ragione a Bologna, o forse no, forse tutte e due le falangi speravano nell’interposizione della polizia, come poi è avvenuto (per fortuna). E alla politica, alla politica che cavalca l’onda degli scontri riesumando il vocabolario dei Settanta - zecche rosse è di Matteo Salvini, camicie nere del sindaco Matteo Lepore - si vorrebbe fare una sola domanda: ma non ne abbiamo avuto abbastanza? La sceneggiata muscolare messa in campo dagli opposti movimentismi a Bologna, a una settimana dal voto, è una parodia di guerra civile dalla quale gli adulti dovrebbero prendere le distanze in blocco, usando appunto il linguaggio degli adulti e non le parole-feticcio di stagioni lontane, riabilitate come sistemi sbrigativi per segnalare una posizione di principio. Possono fare di meglio. Dovrebbero fare di meglio, e non per una generica prudenza ma per rispetto delle nostre orecchie e anche dei problemi dei bolognesi, degli emiliani, dei romagnoli che stanno decidendo a che santo votarsi per i prossimi cinque anni. Rivestono cariche importanti, viaggiano in auto blu con scorta, hanno potere, dispongono nomine, regolamenti e leggi: sentirli parlare come gli adolescenti in eskimo e bomber di mezzo secolo fa, le zecche e i neri di quando zecche e neri se le davano davvero, risulta ridicolo ma anche inquietante. Viene da chiedersi se questo sia il bipolarismo 2.0 che ci aspetta, il mondo nuovo in sintonia con il dibattito pubblico americano, cane pazzo, tiranno, mangiagatti, stupratore, spazzatura, comunista, devi andare all’inferno. La differenza che sfugge è che in America le parole, fino ad ora, sono rimaste parole: gattare e cani pazzi non si sono mai ammazzati tra di loro. Da noi l’esperienza del passato ci dice che possono diventare fatti, fatti pericolosi, e persino chi non ci è passato per diretta esperienza dovrebbe avere una voce interna che lo sconsiglia all’uso dell’eccesso verbale contro il nemico. Invece no, tutto è cancellato, col paradosso che il protagonista senjor di questa storia, Matteo Salvini, nei suoi trascorsi fu zecca rossa e frequentò uno di quei covi di zecche rosse (il Leoncavallo) di cui adesso la Lega chiede la chiusura, e ne parlò pure bene come luogo di discussione e confronto. Magari è solo perché siamo anziani, ma tutto ciò che vediamo in questo dibattito appare una finzione. Finto il proclama “Riprendiamoci Bologna” di CasaPound e della nuovissima Rete dei Patrioti: ma cosa possono e vogliono riprendersi che non sono nemmeno candidati? Finto lo sdegno di chi condanna i centri sociali, perché era ovvia e annunciata la loro mobilitazione. Finta la tesi “il corteo andava spostato altrove” perché ovunque avessero sfilato quelli ci sarebbe stata una contro-manifestazione di quegli altri. Finti, soprattutto, gli stati d’animo esibiti dalle due fazioni: i neri che rivendicano il diritto a manifestare come se non lo avessero, come se fossimo nel ‘77 delle piazze interdette alla destra e non nel 2024 del governo della destra, e i rossi che reagiscono come se fossimo nel ‘67 del golpe in Grecia, o nel ‘73 del golpe in Cile, e l’affacciarsi in pubblico di certe formazioni segnalasse un progetto di rovesciamento armato delle istituzioni. Di vero, alla fine, c’è solo l’ennesima campagna in cui entrambe le parti cercano di portare lo scontro zecche rosse-fascisti al centro della scena, giudicando la cosa conveniente per mobilitare l’elettorato di riferimento e difendere i rispettivi interessi nella imminente sfida delle Regionali. Vedremo domenica prossima se sarà servito, e in quali proporzioni. Gino Cecchettin: “Non odio Filippo, la Fondazione Giulia educa all’affettività” di Errico Novi Il Dubbio, 11 novembre 2024 In una toccante intervista a Fabio Fazio a “Che tempo che fa” su Nove, il papà della ragazza uccisa da Turetta, ha spiegato come sia riuscito ad ascoltare le parole dell’imputato senza nutrire odio o rabbia. Gino Cecchettin, padre di Giulia Cecchettin, ha raccontato il proprio percorso interiore durante il processo che vede imputato Filippo Turetta. In una toccante intervista a Fabio Fazio a “Che tempo che fa” su Nove, Cecchettin ha spiegato come sia riuscito ad ascoltare le parole dell’imputato senza nutrire odio o rabbia. “Per un anno ho lavorato su me stesso e ho compreso quanto sia importante coltivare la positività per dare valore alla vita”, ha affermato. Cecchettin ha descritto come l’ambiente intorno a lui durante il processo fosse intriso di tensione e di sentimenti negativi, un clima umano e comprensibile in queste circostanze. “Siamo tutti individui che possono produrre ossigeno, cioè qualcosa di positivo, oppure anidride carbonica, cioè qualcosa di negativo. Questi sentimenti li portiamo a casa, nelle nostre relazioni più care, e reagire positivamente può trasmettere amore e generare valore nel nostro sistema”. Il padre di Giulia ha condiviso anche un momento personale molto significativo: “In quei momenti, mi concentro sul bello, guardo una foto di Giulia e non permetto alla negatività di entrare. Così riesco a mantenere la serenità”. La perdita di Giulia ha portato Cecchettin e la sua famiglia a creare la Fondazione Giulia Cecchettin, ufficializzata da poche settimane e che verrà presentata il prossimo 18 novembre a Montecitorio. La Fondazione, ha spiegato Cecchettin, ha un obiettivo ambizioso: promuovere un’educazione all’affettività nelle scuole italiane, con un’ora settimanale dedicata a questo importante tema. “I progetti della Fondazione mirano a insegnare la bellezza dell’amore, per far capire ai giovani che amare è meglio di odiare”, ha dichiarato Cecchettin. “Il nostro primo progetto, fondamentale, sarà la formazione: vogliamo creare piani didattici che i nostri esperti, professori universitari, psicologi e pedagogisti, stanno elaborando. Questo progetto sarà portato nelle scuole, affinché gli studenti possano comprendere meglio la differenza tra amore e odio e imparino a costruire relazioni sane e rispettose”. Cecchettin ha insistito sull’importanza del linguaggio, che può favorire empatia o distacco: “Le parole fanno la differenza, saper comunicare può avvicinare o allontanare, e trasmettere amore o odio. Questo va insegnato ai ragazzi fin da piccoli”. La proposta di istituire un’ora settimanale di educazione all’affettività si pone come uno dei principali obiettivi della Fondazione Giulia Cecchettin. “Il sogno è di portare avanti il pensiero di Giulia, la sua visione della vita e i suoi valori”, ha aggiunto Cecchettin, sottolineando come sua figlia fosse una ragazza che amava la vita, dotata di una grande bontà e altruismo. La Fondazione, quindi, non si limita a ricordare Giulia ma si propone come strumento per diffondere quei valori che lei stessa incarnava, trasmettendo un messaggio di speranza e positività alle nuove generazioni. Cecchettin ha ribadito l’importanza di questo progetto, dichiarando che il lavoro della Fondazione ha come scopo non solo la memoria di Giulia, ma anche la promozione di una cultura dell’amore e del rispetto nelle scuole italiane. “Per me è fondamentale che i ragazzi imparino a comprendere il significato del rispetto e dell’affetto autentico nelle relazioni”, ha concluso Cecchettin. Attraverso questa iniziativa, la Fondazione Giulia Cecchettin spera di costruire un futuro in cui le giovani generazioni crescano consapevoli dell’importanza dei legami positivi e dell’amore, valori che la stessa Giulia ha sempre rappresentato. Ricordare Giulia Cecchettin non basta: “Serve subito l’educazione sessuo-affettiva a scuola” di Chiara Sgreccia Il Domani, 11 novembre 2024 A un anno dal femminicidio della 22enne di Vigonovo gli studenti fanno di nuovo sentire la loro voce per contrastare la violenza di genere e decostruire il patriarcato. Un minuto di rumore, altro che di silenzio. Anche quest’anno gli studenti delle scuole italiane preferiscono far sentire la loro voce invece che tacere. Per ricordare il femminicidio di Giulia Cecchettin, uccisa l’11 novembre del 2023 perché “in quel momento volevo tornare insieme a lei. Lei non voleva e mi faceva arrabbiarle che non volesse. Però io in quel momento incolpavo lei di non riuscire a portare avanti la mia vita. Volevo che il nostro destino fosse lo stesso per entrambi. Se soffro io, devi soffrire anche tu, cose di questo tipo”, ha detto Filippo Turetta nell’aula del tribunale di Venezia lo scorso 25 ottobre. A dimostrazione che, ancora una volta, i femminicidi sono “omicidi di Stato”, che non tutela e protegge le donne. Non sono eccezioni, azioni di un mostro perché “un mostro è una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro”, scriveva Elena Cecchettin, la sorella della 22enne uccisa nel parcheggio del Comune di Fossò, nella lettera pubblicata dal Corriere della Sera pochi giorni dopo il femminicidio. Così, non basta non dimenticare Giulia Cecchettin ma serve anche “rivendicare l’importanza dell’educazione sessuale, affettiva e al consenso nelle nostre scuole. Perché solo ripartendo dall’educazione e dalla prevenzione possiamo costruire dei rapporti più sani, fondati sul rispetto reciproco”, chiarisce Paolo Notarnicola, coordinatore nazionale del sindacato studentesco Rete degli studenti medi, a proposito del minuto di rumore organizzato negli istituti scolastici del Paese lunedì 11 novembre. “Un anno fa eravamo nelle scuole e nelle piazze per gridare che Giulia Cecchettin doveva essere l’ultima. Ma quest’anno sono già 91 i femminicidi avvenuti in Italia”, aggiunge Camilla Velotta, per spiegare le motivazioni che hanno portato la Rete degli studenti medi anche a lanciare una petizione rivolta a tutti i cittadini e un appello alle istituzioni affinché vengano creati nelle scuole spazi sicuri in cui tutte le soggettività possano sentirsi tutelate, per ogni orientamento sessuale e di identità di genere. “Ripartire da un’educazione sana e consapevole è l’unica possibilità che abbiamo per formare delle generazioni più sensibili e attente al tema e per sradicare la cultura della violenza che permea la nostra società”, si legge nel documento attraverso cui gli studenti delle scuole superiori chiedono al ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara: “Programmi di educazione sessuale, affettiva e al consenso in ogni istituto, che ci educhino a costruire rapporti umani sani e rispettosi dell’autodeterminazione dell’altro, basati su un approccio orizzontale e transfemminista”. Come spiegano gli studenti, infatti, le politiche messe in atto dal governo Meloni fino a oggi non sono affatto sufficienti. Con il progetto “Educare alle relazioni” presentato da Valditara a novembre 2023, sull’onda dell’alta attenzione mediatica al tema, dopo il femminicidio di Cecchettin e gli stupri di Palermo e Caivano, “è stato fatto un tentativo vano di occuparsi di violenza di genere, impostando la riflessione in maniera criminalizzante, facendo leva sulle conseguenze penali a cui si ricorre se si commettono violenze. Invece che educare a non commetterle. Serve invertire la rotta ripartendo dagli spazi che attraversiamo ogni giorno, che ci formano e ci consegnano la possibilità di leggere il mondo sotto altre lenti”. A credere che per contrastare la violenza di genere in maniera strutturale serva a poco un approccio basato sulla responsabilità individuale e che mira a punire invece che a creare consapevolezza, c’è anche Chiara Cerruti, del movimento femminista e transfemminista Non una di meno. Che da anni si impegna per contrastare la violenza di genere e il patriarcato anche attraverso la formazione nelle scuole. E che per il prossimo 23 novembre, in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne (25 novembre) ha indetto due manifestazioni nazionali, a Roma e Palermo. “Se si vuole combattere la violenza di genere con la prevenzione non è questo il modo di farlo”, dice Cerruti, incisiva, riferendosi al progetto “Educare alle relazioni”: “Faccio l’insegnante da tanti anni e mi rendo conto che la scuola tende a separare le emozioni e il benessere della persona dagli aspetti cognitivi e d’apprendimento. A mettere in secondo piano i sentimenti, la conoscenza dei corpi, le capacità relazionali, elementi che sono al centro dello sviluppo”. Per la professoressa e attivista di “Non una di meno”, infatti, il piano di Valditara, “non solo crea un sistema basato sulla paura delle conseguenze e non sulla consapevolezza del senso di giustizia e uguaglianza”. Ma anche dimentica di prendere in considerazione il fatto che sono i primi anni di vita della persona a essere fondamentali per la costruzione della sua identità, visto che parla di una formazione su base volontaria a partire dal terzo anno delle scuole superiori. Un progetto di cui oggi non si sente più neanche parlare. Come aggiunge, infatti, Marta Rohani, psicoterapeuta e delegata scuola di Arcigay, associazione Lgbtqia+ attiva da più di 25 anni, che conta 43 gruppi impegnati nella formazione nelle scuole su tutto il territorio nazionale: “Non ho dati certi per quel che riguarda l’avvio di “Educare alle relazioni”. Guardando sui vari siti delle scuole non trovo nulla. Ho cercato anche tra i bandi, visto che tra le conseguenze del piano di Valditara ci sarebbe dovuto essere anche il coinvolgimento dei Centri anti violenza, ma niente. Secondo me il progetto è caduto nel vuoto, sembra solo propaganda volta a disincentivare la responsabilità sociale”, chiarisce Rohani riferendosi anche al fatto che le linee guida sull’educazione civica emanate dal ministro, tranne che per la riga in cui si parla di “rafforzare e promuovere la cultura del rispetto verso la donna”, non fanno accenni alla necessità di introdurre l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole. “E promuovono un modello di istruzione basato sulla competitività, sulla cultura d’impresa, che mette al centro l’individuo, non la società. Un modello che noi rifiutiamo”, spiega Smilla, studentessa di Osa, l’organizzazione politica di Opposizione studentesca d’alternativa. Che per il prossimo 15 novembre, il “No Meloni day2” ha stilato un programma di 10 punti da portare all’attenzione del ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara. In cui si sottolinea anche la necessità che un progetto strutturale, curricolare e portato avanti da esperti psicologi, psicoterapeuti, sessuologi e ginecologi, di educazione sessuale e affettiva prenda forma nelle scuole del Paese: “Il nostro ragionamento va anche oltre l’11 novembre. La drammatica vicenda di Cecchettin ha reso il tema dell’educazione sessuale e affettiva un tema di massa. Ma la nostra è una battaglia che va avanti da anni perché parliamo dei nostri bisogni”. Necessità che anche Lucrezia Iurlaro, presidente dell’associazione Tocca a Noi, la rete che si batte per un accesso libero e universale ai prodotti igienico-sanitari, ha toccato con mano durante gli incontri di formazione organizzati nelle scuole e nei luoghi dello sport nell’ultimo anno: “Quando parli di crescita, adolescenza, cambiamento dei corpi, inevitabilmente discuti anche di educazione all’affettività e sessualità. Avendo a che fare con studenti, anche delle scuole medie, ci siano resi conto di quanto gli stereotipi di genere si radichino presto nelle menti delle persone. Ma anche di quanto sia importante un dialogo aperto e consapevole per decostruirli. L’interesse nelle scuole è alto, gli allievi ci riempiono di domande. Infatti abbiamo intenzione di riflettere su come riuscire a promuovere un’educazione sessuale e affettiva strutturata all’interno degli istituti. Anche perché, se non partiamo dalla base, dalla conoscenza dei nostri corpi, come possiamo pretendere che esista il rispetto per noi stessi e per gli altri?”. Il caso di Aurora e le domande giuste di Giusi Fasano Corriere della Sera, 11 novembre 2024 Il quindicenne che ha ucciso la fidanzatina di tredici. È lui che ha imparato e scelto la violenza, è il mondo attorno a lui che ha ignorato, trattato male o coltivato il suo crescendo di aggressività. Ci siamo dimenticati in fretta di Aurora. Un volto come un altro da archiviare nell’elenco dei femminicidi. Il più classico dei casi: lei non ne può più di quel ragazzo prevaricatore e violento, vuole lasciarlo; lui non sa come mettersi in tasca la paura di un addio e nella sua testa crescono i pensieri di vendetta, nei suoi piani c’è l’assedio, nelle sue parole trovano spazio le minacce. Fino all’irreparabile. A lui che la uccide. È una storia già sbiadita, quella di Aurora, morta a Piacenza il 25 ottobre. Eppure è una storia unica. Perché di ragazzine uccise purtroppo è piena la cronaca, come tutti sanno, ma non era mai successo che un’adolescente di 13 anni - 13! - finisse stritolata dal meccanismo possesso-gelosia-omicidio messo in moto da un quindicenne. Quindici anni sono pochi per muoversi con disinvoltura nel territorio della violenza di qualsiasi genere. Ma sono straordinariamente pochi per gli atteggiamenti di aggressione fisica legati a una relazione intima. Questo quindicenne (ora in carcere) è stato visto da testimoni mentre dava pugni alle mani di Aurora che cercava disperata di tenersi aggrappata alla ringhiera del terrazzo da cui alla fine è volata giù. I testi descrivono una scena che sa di indifferenza emotiva agghiacciante e che, si è scoperto indagando, come sempre non veniva dal nulla all’improvviso. La vita di quell’adolescente era scandita dalla violenza. Una volta aveva dato fuoco a una roulotte, un’altra aveva aggredito un passante, un’altra ancora aveva puntato un paio di forbici contro una prof, in un bar aveva derubato un cliente. Aurora aveva raccontato a sua madre che litigavano spesso, che lui era possessivo e la faceva soffrire. Ma, dice la signora, “mi illudevo che fossero problemi fra fidanzatini”. Molti pensano che la madre di lei abbia sottovalutato segnali evidenti. Ma se anche fosse, non sarebbe giusto farle portare la croce più pesante. È lui che ha imparato e scelto la violenza, è il mondo attorno a lui che ha ignorato, trattato male o coltivato il suo crescendo di aggressività. È lui che, pur giovanissimo, aveva addosso tutti i virus della violenza di genere e nessun anticorpo. La cosa giusta quindi è farsi domande su di lui e sui semi della violenza germogliati nella sua testa. La violenza degli uomini contro le donne, lo ricordiamo una volta di più, è un problema degli uomini. Migranti. Le “previsioni” delle toghe sui verdetti in arrivo agitano la maggioranza: “Sentenze già scritte” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 11 novembre 2024 Sisto: “No a critiche personali ai magistrati”. La giudice Albano: “La legislazione nazionale è subordinata a quella europea”. Francesco Paolo Sisto e i ringraziamenti al Guardasigilli Carlo Nordio in videocollegamento dal Veneto, la giudice Silvia Albano torna a mettere le cose in chiaro. Dal suo punto di vista di magistrato della sezione immigrazione del Tribunale di Roma e di presidente di Magistratura democratica, la corrente della cosiddette “toghe rosse” riunite per celebrare i sessant’anni di vita. “Il giudice italiano è anche giudice europeo - afferma - e firmando i trattati l’Italia ha ceduto una parte della sua sovranità. La legislazione nazionale è subordinata rispetto a quella europea e se il giudice nazionale ritiene che una norma sia in contrasto quelle dell’Unione, o nutre dei dubbi, ha due strade: disapplicarla o rivolgersi alla Corte di giustizia europea. Non è opposizione al governo, ma il nostro lavoro”. Tre settimane fa, per aver firmato uno dei decreti che hanno annullato i trattenimenti dei primi migranti portati in Albania, proprio lei è finita al centro di polemiche e accuse di “scelta pregiudiziale”, con tanto di minacce e conseguente affidamento di una tutela da parte delle forze dell’ordine. “Ho fatto da parafulmine - commenta - e ne è scaturita una campagna che nei fatti s’è tradotta in una intimidazione”. Perché la storia non è finita, e già oggi il Tribunale di Roma è chiamato a decidere la sorte di altri sette naufraghi trasferiti nei container albanesi. Stavolta a pronunciarsi non sarà Albano, che spiega: “Non si tratta di posizioni dei singoli magistrati. La sezione si è già riunita, c’è un verbale e ci sono questioni giuridiche importanti da affrontare. Lo facciamo sempre quando entra in vigore una nuova normativa, perché va analizzato come si rapporta al diritto nazionale e sovranazionale”. Non è un’anticipazione di giudizio, bensì l’illustrazione di una situazione “normale” sul piano giuridico che però è diventata ad altissimo coefficiente politico. Promettendo nuove scintille tra governo, maggioranza e i giudici chiamati a decidere. Tanto che il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, mette le mani avanti: “Temo che possa innescarsi di nuovo una polemica che non giova a nessuno, e confido che ciò che è stato scritto nei provvedimenti già emersi possa essere letto e compreso. Si può dissentire o meno, l’ultima parola la diranno la Corte di Cassazione e quella di Lussemburgo, ma non c’è nessuna volontà di politicizzazione, o di alimentare uno scontro con le forze politiche da parte dei giudici”. A dimostrare che i timori di Santalucia siano più che fondati ci aveva pensato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, che alle parole di Albano era scattato: “Ci sono sentenze già scritte. Stiamo peggio che in Corea del Nord. Lì, forse, ci sono più garanzie e più trasparenza nella giustizia di quante ve ne siano in Italia”. Tra giuristi i toni sono diversi, e nel convegno di Md il viceministro Sisto - avvocato, oltreché senatore di Forza Italia - esprime perplessità “sul piano tecnico”, in attesa che la Cassazione esamini il ricorso del governo contro i verdetti “anti-Albania” nell’udienza del prossimo 4 dicembre. “Mi ha colpito che sono scritti tutti allo stesso modo - dice - con le stesse identiche parole; e poi il fatto che per la valutazione dei Paesi sicuri siano stati utilizzati degli allegati precedenti al decreto legge rinviato alla Corte europea”. Sisto strappa persino un (contenuto) applauso della platea non certo benevola nei suoi confronti quando stigmatizza gli attacchi personalizzati ai magistrati che hanno preso decisioni sgradite: “I giudici devono rispondere dei loro provvedimenti, non della loro vita privata”. Ma c’è molto altro a dividerlo dalle toghe che lo ascoltano. Quando Silvia Albano sottolineava come “sia normale e giusto che i magistrati dicano la loro sulle riforme che riguardano questioni di loro competenza, senza che ciò precluda la possibilità di decidere su quelle stesse materie applicando e interpretando le nuove norme”, scuoteva vistosamente la testa, per poi replicare: “A prescindere dalla libertà di espressione, se un giudice si occupa di certe materie non dovrebbe parlarne pubblicamente prima. Ci vuole maggiore cautela”. Il resto del confronto (e delle polemiche) alle prossime puntate.