L’affondo delle “toghe rosse” di Md: dobbiamo far rispettare le regole, non realizzare i piani del Governo di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 10 novembre 2024 L’autocritica per i silenzi sul “protagonismo” di alcuni magistrati. Landini: “L’attacco alla dipendenza della magistratura è un problema per tutti i cittadini”. “Vorrei rassicurare tutti che le nostre fonti non sono né Lenin né Mao, bensì la Costituzione italiana e le pronunce della Corte costituzionale”. Davanti una non affollatissima platea di giovani e anziani giudici e pubblici ministeri (tra cui molti ex) che celebrano i sessant’anni di vita di Magistratura democratica, l’ottantatreenne Gianfranco Viglietta illustra le radici della corrente più radicale della sinistra giudiziaria. Le cosiddette “toghe rosse”, tornate d’attualità perché accusate di fare opposizione politica al governo Meloni con i loro provvedimenti: “È la vecchia storia che si ripete, diventando farsa”, ricorda Viglietta. Che evoca l’epiteto di “giudici comunisti” ripreso ultimamente da Salvini, al quale risponde un altro antico rappresentante della corrente, Livio Pepino. È lui a ricordare come il garantismo (sempre evocato dal centro-destra per giustificare le sue riforme in materia di giustizia) sia uno dei pilastri fondativi di Md, specificandone il significato: “Garantismo vuol dire che la legittimazione della magistratura non si misura dai risultati che raggiunge, ma dalla necessità di rispettare le regole. Salvini non lo capirà mai, ma i risultati sono lo scopo della politica, quello della giurisdizione è il rispetto delle regole”. La scelta di dare la parola alle toghe in pensione che negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso hanno quasi tutte subito procedimenti disciplinari (poi finiti nel nulla) per aver espresso le proprie opinioni, serve a rammentare - come fa l’ex procuratore generale di Firenze Beniamino Deidda - che “ci accusavano di fare politica, mentre noi denunciavamo il legame tra la politica e i capi degli uffici giudiziari, e oggi siamo tornati al presunto complotto dei giudici politicizzati”. Oltre che sul garantismo, anche sulle critiche ai procedimenti giudiziari si realizza un apparente rovesciamento dei ruoli, quando proprio le “toghe rosse” ne rivendicavano la piena legittimità. Franco Ippolito, che ha chiuso la carriera da segretario generale della Cassazione, ripercorre il caso Tortora e la protesta di Md contro “la torsione degli strumenti processuali e la chiusura corporativa di quella magistratura che rigettò sempre ogni critica a quel clamoroso errore giudiziario”. Lo stesso Ippolito invita anche all’autocritica, quando lamenta che in casi più recenti “la voce critica di Md è mancata sul cosiddetto processo trattativa Stato-mafia, e le poche voci dissonanti sono state attorniate da gelido silenzio”. È uno dei casi - dice- in cui la corrente “non ha saputo contrastare un offuscamento del ruolo e dell’immagine di garanzia della giurisdizione, omettendo di criticare casi di soggettivo protagonismo di magistrati, di uso distorto di strumenti processuali, di trasformazione dell’espiazione della pena in intollerabile pena supplementare”. Le memorie si susseguono con gli interventi di altri fondatori o storici rappresentanti del gruppo, da Giovanni Palombarini a Gianfranco Amendola, passando per Nello Rossi e Elisabetta Cesqui, ma non è un amarcord né un nostalgico richiamo ai tempi andati; sembra piuttosto un invito alle nuove leve a non cedere sui principi. Con tanti applausi di solidarietà e incoraggiamento alla presidente di Md Silvia Albano e al giudice bolognese Marco Gattuso, attaccati per i provvedimenti sui migranti richiedenti asilo. Il segretario della Cgil Maurizio Landini arriva per denunciare che “l’attacco all’indipendenza della magistratura è un problema per tutti i cittadini”, ricevendo ovvio consenso. Oggi proprio Albano coordinerà un dibattito tra i leader politici (tra cui il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto) e il segretario Stefano Musolino si confronterà con quelli delle altre correnti. E c’è attesa per il ministro Carlo Nordio, che sui rapporti con le toghe (di tutti i colori) ha annunciato fiducioso: “Al di là delle ovvie differenze di posizioni troveremo l’atmosfera giusta in funzione di ciò che ci interessa massimamente, un funzionamento rapido e moderno della giustizia”. Si vedrà anche da questo appuntamento. Md fa festa, ma sullo sfondo c’è di nuovo il caso Albania di Mario Di Vito Il Manifesto, 10 novembre 2024 Il sessantennale a Roma, tra la storia delle toghe rosse e gli attacchi del governo. Il clima è quello di una festa, del resto parliamo di una festa di compleanno. Ma tre le decine di toghe rosse accorse ieri alla sala della Protomoteca del Campidoglio, a Roma, per il sessantennale di Magistratura democratica il sottofondo era inevitabilmente tutto un riflettere sul momento in corso, cioè sulla guerra che il governo ha deciso di combattere sul terreno della giustizia. Per la forma, comunque, la mattinata è trascorsa con una serie di interventi sulla storia di Md, dagli anni eroici dei pretori d’assalto e della “giurisprudenza alternativa” fino al caso 7 aprile, con Riccardo Palombarini, nel 1979 istruttore a Padova, che combatté sul piano del diritto il teorema del procuratore Calogero, secondo il quale l’Autonomia operaia era la centrale della lotta ormata. Lo scontro giudiziario fu meno duro solo dello scontro politico (per molti una ferita ancora aperta), ma, con una certa eleganza, Palombarini ha deciso di glissare sugli attacchi che gli arrivarono dalle colonne dell’Unità e anche dalla frangia di Md più vicina al Pci, che nell’occasione mise in mostra uno dei suoi lati più oscuri. L’attualità è arrivata con l’intervento di Nello Rossi, che ha tirato in ballo Nordio e la sua recente dichiarazione sui magistrati che “non dovrebbero criticare la legge”. Per Rossi quella del ministro è “una distopia”, anzi “un incubo di conformismo giuridico” perché “la Costituzione prevede la possibilità di ogni giudice di dubitare della conformità della legge ordinaria alla legge fondamentale”. In prima fila c’era la presidente Silvia Albano, la giudice della sezione immigrazione del tribunale di Roma messa sotto scorta per le minacce ricevute dopo aver tenuto due delle sei udienze per i dodici migranti trasferiti illegittimamente in Albania e dunque riportati in Italia. Più laterale il segretario Stefano Musolino, che negli ultimi tempi si è esposto parecchio partecipando a vari programmi televisivi: non solo le comode tribune del pomeriggio ma anche le spesso discutibili trasmissioni serali, dove appare quasi impossibile riuscire ad avere un confronto civile con gli altri ospiti. “Purtroppo la situazione richiede di essere presenti anche lì…”, la conclusione in un sospiro un membro dell’esecutivo di Md. Tra i presenti anche Marco Patarnello, linciato dalla destra per un messaggio non meno che equilibrato inviato in una mailing list interna e Marco Gattuso, il giudice di Bologna la cui vita privata è stata esposta al pubblico ludibrio perché ha rinviato alla Corte di giustizia Ue il decreto sui paesi sicuri. Alla fine della sessione è intervenuto il segretario della Cgil Maurizio Landini. Non detto “rivolta sociale” per il terzo giorno consecutivo, ma in quasi cinquanta minuti di discorso, ha parlato di “libertà in pericolo” e ha elencato tutte le volte in cui il governo se l’è presa con i diritti garantiti dalla Costituzione, a partire da quello di sciopero. L’elefante nella stanza della Protomoteca, in tutto questo, è il caso Albania, destinato a tornare di moda domani, con le udienze di convalida a Roma di sette nuovi deportati. “Gli orientamenti interpretativi di massima credo siano stati piuttosto delineati - spiega per tutti Musolino -. Ci sono stati finora vari orientamenti giurisprudenziali, tutti fondati sul presupposto della superiorità della norma europea. Su questo c’è un coro unanime di tutti quelli che hanno studiato la materia. Sarei sorpreso se cambiasse qualcosa”. La cosa più probabile, in sostanza, è che ci sarà un nuovo appello alla Corte europea o direttamente la disapplicazione della norma. Si vedrà. La festa di Md, intanto, si chiude oggi con un confronto tra i segretari delle correnti dell’Anm - che a gennaio rinnoverà il suo comitato direttivo centrale, dunque si può già tranquillamente cominciare a parlare di campagna elettorale - e le annunciate presenze di Elly Schlein e di Nordio, che qualche giorno fa aveva fatto sapere che “venerdì” sarebbe andato “al congresso di Magistratura democratica”, sbagliando data e contenuto dell’evento. Forse è per questo che il suo intervento sarà solo in video. Intercettazioni e ordinanze, arretra il diritto di cronaca di Carlo Melzi d’Eril e Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2024 Diritto e informazione. Dalla politica una serie di interventi per rafforzare privacy e presunzione d’innocenza. Inviti del Parlamento a inasprire le misure a carico di editori e giornalisti. Se lo stato della libertà di espressione si misura anche dal punto di equilibrio di volta in volta raggiunto fra i diritti di cronaca e alla riservatezza, lo scorcio finale della passata legislatura e il tratto iniziale dell’attuale segnano un indubbio arretramento dello spazio lasciato dalla politica all’informazione. Così, già l’amministrazione Cartabia aveva aperto la strada, con il decreto legislativo a tutela della presunzione d’innocenza, accentuando la gerarchizzazione della comunicazione degli uffici giudiziari, condizionandone le modalità (comunicati a detrimento delle conferenze stampa) e subordinandola comunque alla presenza di specifiche ragioni di interesse pubblico odi necessità per le indagini. Ma a quel decreto si è poi ancorata, la disposizione, che a breve sarà approvata definitivamente dal consiglio dei ministri, sul divieto di pubblicazione delle ordinanze cautelari, sia integrali sia per estratti. E nel contesto di un ampio, seppure frammentato, intervento sulle intercettazioni, la legge Nordio, in vigore da pochi mesi, ha introdotto da una parte il divieto di pubblicazione, anche parziale, del contenuto degli ascolti se non è riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento, dall’altra l’obbligo di eliminare dai verbali le espressioni che riguardano dati personali sensibili su soggetti diversi dalle parti. Plurime sono poi le sollecitazioni a un inasprimento del trattamento sanzionatorio: innanzitutto i pareri del Parlamento sul divieto di pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare chiedono all’esecutivo di valutare misure pecuniarie più pesanti nei confronti sia dei giornalisti sia degli editori. Ma a primavera molto fecero discutere emendamenti al disegno di legge sulla riforma della diffamazione presentati da Fratelli d’Italia con la previsione del carcere contro giornalisti che avessero consapevolmente e ripetutamente pubblicato fatti falsi. In origine, quando il “nuovo” codice di procedura penale venne approvato, le regole sulla pubblicazione degli atti di indagine del processo penale erano già viziate da un certo bizantinismo. In sostanza non erano ovviamente divulgabili quelli segreti, mentre di quelli non segreti, se si procedeva al dibattimento, si poteva diffondere il contenuto, ma non il virgolettato, fino alla sentenza di secondo grado. Ciò costituiva il bilanciamento tra gli unici beni giuridici allora considerati rilevanti dal legislatore. Da un lato la libertà di manifestazione del pensiero con il relativo controllo dell’esercizio del potere giudiziario; dall’altro il buon funzionamento del processo penale che, nel sistema tendenzialmente accusatorio del i989, non solo consentiva la segretezza degli atti d’indagine finché la parte non potesse venirne a conoscenza, ma imponeva, con il sistema del doppio fascicolo, che il giudice non avesse accesso a quanto compiuto da - gli inquirenti, salvo eccezioni. In sintesi: non si voleva che il tribunale venisse a conoscenza “a mezzo stampa” di atti espressamente esclusi dal fascicolo per il dibattimento. Nessuno spazio era concesso allora a riservatezza o presunzione di innocenza, almeno extraprocessuale. Oggi, invece, questi ultimi beni giuridici sembrano essere alla radice delle modifiche legislative, il che determina un certo qual cambio di paradigma. La necessità di tutelare i dati personali di chi è coinvolto nel procedimento è auspicio più che comprensibile, tuttavia sarebbe stato forse sufficiente una applicazione più rigorosa della disciplina in materia di trattamento dei dati a fini giornalistici. Meno comprensibile è il riferimento alla presunzione di innocenza, che non pare sia difesa davvero dai divieti di pubblicazione delle ordinanze o delle intercettazioni non ritenute rilevanti dal giudice. Anche qui sarebbe stato più opportuno affidarsi alle disposizioni che impongono la precisione nella informazione giudiziaria, in materia di diffamazione, riservatezza, obblighi deontologici. Il buio imposto allo sguardo della stampa implica il noto rischio che il potere non controllato degeneri. Quello giudiziario, non fa eccezione. Dopo 569 giorni di carcere viene assolto dall’accusa di omicidio: ora chiede 150mila euro di risarcimento di Manuela Bergamonti La Repubblica, 10 novembre 2024 L’avvocato di Surinder Pal ha presentato istanza per ingiusta detenzione. Ha trascorso in carcere 569 giorni, poi è stato assolto dall’accusa di aver ucciso il professor Cosimo Errico in una cascina di Entratico, provincia di Bergamo. Ora Surinder Pal, indiano di 66 anni, chiede un risarcimento di 150mila euro allo Stato per ingiusta detenzione. L’omicidio era avvenuto il 3 ottobre 2020 all’interno della Cascina dei Fiori, di proprietà della vittima. Il corpo semicarbonizzato di Errico, docente di microbiologia in un istituto superiore, era stato trovato dal figlio in cucina. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, la vittima era accovacciata davanti al frigorifero quando era stata raggiunta da 23 coltellate, sferrate alle spalle. Il cadavere era stato poi cosparso di benzina e bruciato nell’intento di nascondere le prove. Fu un’impronta di scarpa insanguinata a indirizzare le indagini verso Pal e Mandip Singh, il connazionale che condivideva con lui un appartamento a Casazza, accusato di favoreggiamento. I due lavoravano per Errico nella cascina, conoscevano bene l’edificio: per la pm Carmen Santoro sapevano quindi come muoversi, dove trovare le taniche di carburante e il quadro elettrico, che venne trovato staccato. Il movente? Rubare 632 euro che il professore aveva incassato quella stessa mattina dalla visita didattica di una scuola elementare alla cascina. C’erano poi delle intercettazioni ambientali e telefoniche che, secondo l’accusa, inchiodavano i due indiani. Ma la traduzione dalla lingua punjabi venne interpretata in modo differente dal consulente dell’accusa e dal perito del tribunale e alla fine i due uomini vennero entrambi assolti con la formula della vecchia insufficienza di prove. Il pm, che per Pal aveva chiesto una condanna a 24 anni di reclusione, impugnò l’assoluzione, che però venne confermata anche in appello. Rinunciò così al ricorso in Cassazione e la sentenza divenne definitiva. Il 66enne nell’ottobre 2021 venne scarcerato dopo aver trascorso in cella più di un anno e mezzo. Ora chiede un risarcimento per il danno subito. “Fin dal primo giorno il mio assistito si è sempre dichiarato innocente e non ha mai lasciato l’Italia - spiega il difensore, l’avvocato Michele Agazzi. È una persona mite, che parla poco e non ha mai creato problemi a nessuno, nemmeno quand’era detenuto. Visto l’esito del processo ci è sembrato doveroso presentare istanza per il risarcimento. L’aspetto drammatico di questa vicenda è il fatto che non si sia ancora individuato il colpevole dell’omicidio di Cosimo Errico. Rimane un delitto irrisolto”. Santa Maria Capua Vetere. Detenuto morto dopo torture, il video del colloquio col magistrato è “sparito” di Attilio Nettuno casertanews.it, 10 novembre 2024 Ci sarebbe un video dell’audizione del Magistrato di sorveglianza, Marco Puglia, con Hakimi Lamine, il detenuto morto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere un mese dopo i pestaggi avvenuti il 6 aprile 2020. Le immagini sarebbero state trasmesse alla Procura ma quel video manca nel fascicolo. Si tinge di giallo il processo a carico di 105 imputati - tra agenti, funzionari del Dap e due medici - che si sta celebrando nell’aula bunker a Santa Maria Capua Vetere dinanzi alla corte d’assise presieduta dal giudice Roberto Donatiello. Il 10 aprile 2020, quattro giorni dopo la mattanza, il magistrato di sorveglianza Puglia ha effettuato dei colloqui attraverso l’applicativo Teams con i detenuti che dopo i fatti del 5 e 6 aprile erano stati trasferiti in isolamento al reparto Danubio. I colloqui sarebbero stati registrati dal magistrato che poi li ha trasmessi, nei giorni successivi, in Procura. Da quelle immagini e audio, però, sarebbe “scomparso” il file contenente il colloquio con Hakimi Lamine. Un buco di circa 8 minuti su cui le difese hanno chiesto lumi alla Procura. Il video “non è stato rinvenuto” ha replicato il pubblico ministero Alessandro Milita che ha risposto all’istanza dei difensori degli imputati che ritengono quel video necessario anche per verificare le condizioni di Lamine il 10 aprile 2020. Gli audio e i video dei colloqui sarebbero stati depositati su una pen drive ma il colloquio di Lamine - annunciato nella registrazione - non c’è. La Corte ha disposto ulteriori verifiche all’ufficio di Procura. Nel corso dell’udienza è stato escusso uno dei detenuti picchiati che ha raccontato del pestaggio avvenuto il 6 aprile 2020. Il testimone ha confermato di essere stato picchiato con manganelli da alcuni agenti in assetto antisommossa, tra cui una donna che lo avrebbe colpito nelle parti basse. Nella sua testimonianza, l’uomo ha detto che alcuni degli agenti locali lo avrebbero difeso durante il pestaggio da parte dei colleghi. Il detenuto non è tra quelli che denunciarono l’aggressione. Il motivo, secondo quanto chiarito in aula, sarebbe legato al fatto che doveva scontare una pena lunga e che non voleva essere trasferito in un altro penitenziario in cui non era conosciuto. Si torna in aula lunedì. Tra gli avvocati che difendono i detenuti vittime delle aggressioni ci sono: Carmine D’Onofrio (tra i primi a depositare una denuncia per uno dei detenuti facendo avviare l’indagine), Mirella Baldascino, Luca Viggiano, Goffredo Grasso, Elvira Rispoli, Fabio Della Corte, Giuseppe De Lucia, Gennaro Caracciolo, Ferdinando Letizia, Marco Argirò, Pasquale Delisati, Andrea Balletta e Giovanni Plomitallo. A rappresentare l’Asl di Caserta, invece, l’avvocato Marco Alois mentre l’avvocatura dello Stato si è costituita per il Ministero della Giustizia. Asl e Ministero della Giustizia sono stati citati anche in qualità di responsabili civili. Tra i difensori degli imputati sono impegnati - tra gli altri - gli avvocati Giuseppe Stellato, Mariano Omarto, Vittorio Giaquinto, Raffaele Costanzo, Angelo Raucci, Roberto Barbato, Dezio Ferraro, Elisabetta Carfora, Domenico Di Stasio, Valerio Stravino, Massimo Trigari, Luca Di Caprio, Mario Corsiero, Rossana Ferraro, Ernesto De Angelis, Claudio Botti, Vitale Stefanelli, Michele Spina, Fabrizio Giordano, Raffaele Russo, Valerio Alfonso Stravino, Antonio Leone, Domenico Pigrini, Ciro Balbo, Dario Mancino, Natalina Mastellone, Gabriele Piatto, Carlo De Benedictis, Rosario Avenia, Domenico Scarpone, Eduardo Razzino. Genova. Proteste a Marassi per chiedere il trasporto al pronto soccorso di un detenuto Il Secolo XIX, 10 novembre 2024 L’episodio è accaduto venerdì 8 novembre. La denuncia di Pagani, Uila: “Cinquanta detenuti si sono rifiutati di entrare nelle rispettive celle, dichiarando che non vi avrebbero fatto rientro se un detenuto ‘ndranghetista non fosse stato inviato al pronto soccorso”. “Dalle ore 11:30 di ieri cinquanta detenuti con reati di associazione a delinquere si sono rifiutati di entrare nelle rispettive celle, dichiarando che non vi avrebbero fatto rientro se un detenuto ‘ndranghetista non fosse stato inviato al pronto soccorso”. Lo afferma Fabio Pagani, segretario della Uilpa Polizia Penitenziaria. “La trattativa è durata più di un’ora, poi il detenuto è stato inviato al pronto soccorso cittadino - afferma Pagani - Non vogliamo entrare nel merito della salute del detenuto, di origine calabrese e affetto da determinate patologie, ma che l’invio al pronto soccorso di un detenuto con reati di associazione a delinquere avvenga tramite una protesta da parte dei detenuti è sintomo di una gestione della sicurezza a Marassi decisamente fallimentare. Oltretutto il direttore era presente in sede e l’ultima parola spettava a lei”. Al pronto soccorso la visita è durata circa un’ora, e il detenuto è tornato in carcere: “Possiamo affermare che non esisteva nessuna urgenza - dice Pagani - Non sappiamo più come dirlo. Cos’altro deve accadere affinché il governo prenda reale coscienza dell’emergenza penitenziaria in atto, sicuramente senza precedenti almeno negli ultimi 30 anni, e vari un decreto per mettere le carceri in sicurezza?”. Qualche dato: “Sono 18 mila le unità mancanti alla polizia penitenziaria - dice ancora Pagani - Sono 14 mila i detenuti in più rispetto ai posti disponibili. Suicidi, omicidi, risse, aggressioni, stupri, devastazioni, evasioni e proteste pericolose come quella di Marassi: le carceri, oggi, non possono mirare a perseguire alcuno degli obiettivi assegnati loro dalla Costituzione e dalle leggi. Vista anche l’incertezza manifesta del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che annuncia decreti poi non discussi in Consiglio dei Ministri, riteniamo che la Premier Giorgia Meloni dovrebbe avocare a sé la materia, a meno che non l’abbia derubricata nella sua agenda, eventualità sulla quale, peraltro, nutriamo più di qualche sospetto. Ogni giorno che passa, il disastro aumenta. Lo ribadiamo: non c’è più tempo”. Messina. Viaggio dentro al carcere di Gazzi, una realtà spaccata a metà di Alessandra Serio tempostretto.it, 10 novembre 2024 Una fotografia della vita dietro le sbarre che evidenzia le maggiori criticità del penitenziario di Messina. È considerato un carcere “modello” quello di Messina Gazzi. O, meglio, dove i detenuti, grazie a un’ottima gestione e sforzi enormi degli operatori, vivono molto meno peggio rispetto ai detenuti di altri penitenziari, in particolare rispetto a quelli siciliani. Un dato non da poco, alla luce della piega drammatica presa dall’emergenza carceri in tante strutture italiane, dove rivolte e suicidi sono tragicamente sempre più frequenti. Vita da detenuti. E da detenute - Gazzi è però un carcere spaccato a metà, dove le detenute donne sembrano stare peggio degli uomini e dove anche tra gli uomini ci sono nette differenze. A pesare è soprattutto il fatto che si tratta di una struttura pensata per ospitare i reclusi “transitori”, dove ci sono invece quasi la metà degli uomini condannati in via definitiva e quasi tutte donne “di passaggio”, per lo più detenute lontano da casa. Chi cerca il riscatto - Se da un lato la direttrice Angela Sciavicco e gli operatori cercano di coinvolgere tutti in tante attività socializzanti e rieducative - dal progetto della compagnia teatrale curata da Daniela Ursino a diversi corsi di formazione - la verità è che quasi la metà dei detenuti non è interessato a tali attività, finendo per “disturbare” chi al contrario si impegna in azioni in grado di fornire una prospettiva di reinserimento sociale, una volta scontata la pena. E che, soprattutto, contribuiscono a costruire una “routine di normalità” che rende più accettabile e vivibile la detenzione. Il reparto femminile - L’apatia e la demotivazione, nei confronti delle attività di socializzazione, sembra caratterizzare anche gran parte delle detenute, la maggior parte di loro scarsamente scolarizzate e in alcuni casi depresse, “Disagio e solitudine”: sono questi gli aggettivi adoperati dalla Garante dei detenuti del Comune di Messina, Lucia Risicato, dopo il sopralluogo del settembre scorso al reparto femminile. Per molte di loro la detenzione è transitoria, sono lontane da casa e non possono vedere i loro affetti neppure durante i colloqui, non li sentono spesso. E hanno enormi difficoltà burocratiche che si sommano a quelle riscontrate per le cure e le visite periodiche. A parte il ginecologo che entra a Gazzi una volta a settimana, infatti, le altre visite da effettuare all’esterno sono una corsa a ostacoli, come e più dei malati non detenuti. Come per gli uomini, tutte le celle destinate alle donne hanno frigo, ventilatore e non è mai mancata l’acqua, neppure quando il resto della città viveva l’emergenza estiva. Questo non basta, però, a cambiare le condizioni di vita delle circa 20 detenute ospitate, se poi non riescono neppure a sentire regolarmente le proprie famiglie lontane, o non riescono a ottenere i documenti necessari ad accedere a permessi ed attività. Il paradosso della Tac e le cure negate - Le cure negate e le difficoltà logistiche sono quindi le emergenze del carcere di Gazzi, dove giace impacchettato nel deposito un apparecchio per le Tac da oltre 30 mila euro, che però non funziona, in attesa degli ok burocratici. Renderlo operativo, spiega la direttrice Sciavicco, costerebbe circa 200 mila euro di investimento iniziale. Una cifra che alcuna istituzione sembra al momento interessata a sostenere. La piaga della droga dentro il carcere - L’altro aspetto critico evidenziato a più riprese è quello della droga. Anche a Gazzi, come in tutti i penitenziari, ne gira tanta, e gli angusti spazi di un carcere non sono certo i luoghi ideali per una disintossicazione. E sembra girare più nel reparto maschile che tra le donne. Lo spaccio in carcere è un fenomeno sempre più frequente su cui anche le forze dell’ordine hanno acceso i riflettori e lanciato l’allarme più volte, recentemente. E proprio per contrastare l’ingresso dello stupefacente nei penitenziari sono state effettuate le ultime retate, sia a Messina che a Barcellona. Messina. Quella città che ignora il carcere di Gazzi di Alessandra Serio tempostretto.it, 10 novembre 2024 Nominare la Garante dei detenuti, Lucia Risicato, non basta, se le istituzioni continuano a non occuparsi del carcere. C’è una comunità che ignora il carcere, di per sé fisiologicamente “predestinato” se non pensato per cancellare dalla quotidianità delle comunità i detenuti e il carcere in sé. È grave però quando a chiudere gli occhi ostinatamente sono le istituzioni che, invece, anche di quei detenuti dovrebbero farsi carico. Non soltanto per garantire l’umanità della pena, ma anche per favorire il loro reinserimento nella società, una volta usciti, nella speranza che non tornino a delinquere. Accade a Messina, dove per mesi si è dibattuto e premuto per la nomina del garante comunale dei detenuti e dove, dopo aver affidato il ruolo a una figura di spessore come quella di Lucia Risicato, si continua a oscurare il penitenziario dietro un muro di gomma. Eletta dal consiglio comunale a metà luglio scorso, la Garante ha presentato al Comune due relazioni, seguite a due visite ispettive nei reparti maschile e femminile, tra fine agosto, insieme alla Camera penale, e a fine settembre. Il dossier arrivato sul tavolo di Palazzo Zanca è una fotografia chiara di quelli che sono gli aspetti positivi del carcere di Gazzi ma indica chiaramente sia le principali problematiche, sia le possibili soluzioni. All’indomani della prima ispezione a Gazzi, la giurista aveva rilasciato una intervista al nostro giornale, indicando qual è la strada che sta imboccando il sistema penale italiano, partendo dal caso “modello” del carcere di Gazzi. La Garante aveva anche indicato cosa si può fare. Alcune delle soluzioni immediatamente percorribili, come l’apertura di uno sportello distaccato dell’anagrafe in istituto, o l’implementazione dei servizi sociali, oggi totalmente assenti a Gazzi. Penitenziario che, come tutti gli altri siciliani, sconta in particolare il problema della droga dietro le sbarre. E dove c’è un discreto numero di donne detenute afflitte da problematiche prettamente sociali, come la difficoltà nelle cure, la depressione, l’isolamento dovuto alla detenzione lontano dalle famiglie. Nel dossier anche il problema dovuto all’aspetto logistico, su cui Garante e Camera penale concordano: il penitenziario messinese va ricostruito, senza aggiungere ulteriori carceri o posti di detenzione ma rendendo dignitoso lo spazio esistente. Proprio sul nodo edilizia si era giocata la “concorrenza” alla nomina del Garante, prima della elezione di Lucia Risicato. Il carcere, e dopo? - E vanno individuati posti in Rsa o case famiglia a quei detenuti in via definitiva che stanno così male da non avere davanti a sé la prospettiva di una cura risolutiva e che, una volta usciti dal carcere, non avrebbero neppure un posto dove vivere né avere assistenza medica adeguata. Il coinvolgimento dell’Università - Anche l’Università di Messina potrebbe fare la sua parte. In ateneo potrebbero svolgersi i servizi sociali di alcuni soggetti. E sempre l’Ateneo potrebbe occuparsi di riordinare e catalogare i 10 mila volumi presenti nella biblioteca dell’istituto. La Garante ha perciò sollecitato a UniMe la sottoscrizione di un protocollo di intesa, anche alla luce del fatto che sono già stati stanziati i fondi per la realizzazione del polo didattico penitenziario e sono stati nominati i tutor che seguiranno i detenuti nella preparazione degli esami. Il Comune sordo e cieco - Da luglio ad oggi, e da fine settembre ad oggi, nessuna apertura è però arrivata alle istanze raccolte in carcere ed elaborate alla luce dello screening effettuato in carcere. Un silenzio assordante continua a rimbombare intorno al carcere di Gazzi e, a quattro mesi dall’insediamento, la nomina della Garante rischia di apparire una mera operazione di facciata, se non è messa neppure in condizioni di operare. Ad oggi Lucia Risicato non ha neppure un indirizzo pec destinato a ricevere ufficialmente le segnalazioni da vagliare. Cassino (Fr). Emergenza carceri, dal Comune l’impegno a migliorare le condizioni dei detenuti di Alberto Simone leggocassino.it, 10 novembre 2024 La Casa circondariale di via Sferracavalli è tra le 20 strutture penitenziarie più affollate d’Italia, un dato che evidenzia l’urgenza di misure straordinarie. Dopo Cassino, è atteso l’intervento da altri comuni della Provincia. L’opposizione vota la mozione presentata da Sarah Grieco ma si sfila dalle critiche al pacchetto sicurezza. Il sovraffollamento del carcere di Cassino è stato il tema di una mozione presentata ieri sera al Consiglio comunale dalla consigliera di maggioranza Sarah Grieco. Mozione passata con il voto unanime dell’assemblea. Nel suo intervento, l’avvocato Grieco ha chiesto al Comune di promuovere un movimento dei Comuni della provincia di Frosinone per denunciare il “degrado assoluto” in cui versano le carceri italiane e la necessità di un intervento immediato per migliorare le condizioni degli istituti penitenziari. In particolare, la consigliera ha sollecitato il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e il Provveditorato regionale Lazio-Abruzzo-Molise a destinare risorse finanziarie e umane al carcere di Cassino, che soffre di un tasso di sovraffollamento. “Le carceri italiane sono al collasso. A Cassino, la situazione è particolarmente grave, con celle che ospitano fino a sette detenuti e un tasso di sovraffollamento del 169%”, ha sottolineato la Grieco. Il carcere di Cassino è, infatti, tra le 20 strutture penitenziarie più affollate d’Italia, un dato che evidenzia l’urgenza di misure straordinarie per alleviare la pressione sulle strutture e garantire condizioni di sicurezza. La mozione, che è stata accolta con favore dalla maggioranza consiliare, include anche la richiesta alla Regione Lazio di stanziare fondi per le politiche formative, lavorative, sociali e sanitarie all’interno delle carceri. Un aspetto che la consigliera ha definito fondamentale per il reinserimento dei detenuti nella società. Oltre alla sollecitazione regionale, la mozione chiede al Governo e al Parlamento di adottare leggi adeguate per affrontare la crisi del sistema penitenziario, puntando a un intervento normativo che tuteli tanto i diritti dei detenuti quanto la sicurezza della persona. Tuttavia, alcuni membri dell’opposizione hanno sollevato dubbi sulla premessa del “pacchetto sicurezza” inserito nella mozione, che prevede misure più rigide contro il crimine. Il consigliere Buongiovanni ha infatti precisato: “Sosteniamo il pacchetto sicurezza che garantisce il rispetto delle regole, ma approviamo solo le conclusioni della mozione, non le premesse.”. Nonostante le differenze su alcuni punti, la mozione ha visto l’approvazione unanime dell’assemblea. Adesso, il passo successivo sarà quello di ottenere l’approvazione della mozione anche da parte di tutti i Comuni della provincia di Frosinone, per dare vita a un movimento unito che possa fare pressione su tutte le istituzioni competenti e promuovere un cambiamento. Sondrio. Una nuova vita dopo il carcere. Il Comune entra nella rete: “Sarà più mirato il reinserimento” di Fulvio D’Eri Il Giorno, 10 novembre 2024 Reinserire in società chi ha sbagliato, pagando per questo con una pena detentiva, è un dovere di una società civile. Ed è per questo che c’è bisogno di un patto territoriale per promuovere interventi e azioni finalizzati al reinserimento sociale di soggetti in esecuzione penale esterna e in messa in prova. È questo il senso della rete istituzionale, al quale il Comune di Sondrio ha aderito, proposta dall’Ufficio di esecuzione penale esterna di Como che ha programmato la riorganizzazione del sistema dei servizi, degli interventi e delle azioni per il reinserimento. Cinque le aree di intervento: culturale, formativo, ricreativo e sportivo; orientamento e inserimento professionale; mediazione culturale e linguistica; prevenzione della devianza e della recidiva; comunicazione con il territorio. “Si tratta di un ambito nel quale come amministrazione comunale siamo impegnati da tempo, in stretta collaborazione con la casa circondariale - sottolinea l’assessore ai Servizi sociali Maurizio Piasini. Come ente capofila del servizio sociale dell’ambito territoriale di Sondrio, collaboriamo stabilmente con l’Ufficio esecuzione penale esterna di Como. Soltanto avendo una visione d’insieme è possibile individuare i percorsi più efficaci. Volentieri abbiamo quindi aderito alla proposta e procederemo alla sottoscrizione dell’accordo per la costituzione di una rete istituzionale territoriale con l’obiettivo di sostenere e potenziare gli interventi per il reinserimento”. Il Comune è impegnato da diversi anni come partner di azioni rivolte alla popolazione carceraria. Proprio il mese scorso, nell’ambito del progetto “Porte aperte”, promosso nei territori di Sondrio e di Lecco, con il finanziamento della Regione Lombardia, coordinato dalla Cooperativa Forme, è stato attivato un laboratorio sperimentale di giustizia di comunità. Un gruppo di detenuti presso la Casa Circondariale di Sondrio è stato coinvolto nella riqualificazione del lavatoio nella frazione Pradella inferiore. Firenze. Carcere, nasce Casa Mimosa: “Qui gli ex detenuti iniziano a ricostruirsi una vita” di Andrea Guida firenzetoday.it, 10 novembre 2024 La scorsa settimana è stata inaugurata una nuova e importante opportunità per i detenuti a fine pena. Si chiama Casa Mimosa e si tratta infatti di un appartamento in via Corelli - rimesso a posto da Fondazione Solidarietà Caritas - che accoglierà un massimo di due ex detenuti del carcere di Sollicciano che hanno bisogno di un posto dove abitare e iniziare a ricostruirsi una vita. Gli ex detenuti vivono in autonomia ma fanno riferimento a un educatore e seguono un percorso personalizzato che prevede accoglienza, orientamento ai servizi del territorio, la ricerca di un lavoro e di un alloggio e l’assistenza per i documenti, in collaborazione con avvocati e servizi sociali. “Siamo sempre stati vicini ai temi della giustizia - spiega Vincenzo Lucchetti, presidente di Fondazione Solidarietà Caritas di Firenze -. Tutti sappiamo che la situazione a Sollicciano è molto difficile. Di tutti detenuti che ci sono, la maggioranza purtroppo è irrecuperabile. C’è però un 40% sul quale si può lavorare. Il problema è che quando questi detenuti escono dal carcere vengono abbandonati a loro stessi. Non trovano lavoro e non trovano dove stare. Per questo motivo abbiamo pensato a questa iniziativa, che per il momento è simbolica perché ne possiamo accogliere solo due”. Al momento i due ex detenuti accolti sono extracomunitari e già seguiti dalla Fondazione all’interno del carcere. “I nostri operatori agiscono anche nel carcere, insieme a tutti gli altri operatori presenti. Sono detenuti sui quali si può fare un tentativo di recupero, che già durante il loro periodo di detenzione hanno mostrato la voglia di ricominciare e di non ricadere negli errori del passato”. Il progetto vuole essere un segnale per evidenziare come nelle carceri italiane spesso non funzioni la finalità di recupero. “Purtroppo il carcere in Italia non è un centro di riabilitazione - sottolinea Lucchetti -. Questo per mille motivi: dal sovraffollamento, al personale che manca per motivi economici fino alle strutture troppo vecchie”. Casa Mimosa rappresenta solo il primo dei tanti progetti legati a questo tema che Fondazione Solidarietà Caritas di Firenze ha in mente. “Quello che ci aspettiamo è che questo esperimento vada felicemente in porto. Il periodo di domiciliazione nella nostra struttura è di quattro mesi. Non sono tanti, però ci aspettiamo che in questo periodo di tempo noi riusciamo a sistemare i loro documenti, riuscire a trovare un lavoro e quindi aiutarli a trovare una sistemazione domiciliare. Poi ci sono tante idee sul carcere. A breve uscirà un bando in collaborazione con Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze proprio legato a questo tema, per creare laboratori all’interno del carcere per aiutare i detenuti ad avere una professionalità già prima di uscire. Le iniziative sono tante. La speranza è che una parte di queste riesca a raggiungere risultati”. Milano. La voce delle persone detenute scavalca le mura del carcere e arriva a BookCity agensir.it, 10 novembre 2024 “Cercavo qualcuno con cui confrontarmi sui libri che leggo, poi invece ho trovato altro, qualcosa che nemmeno immaginavo di cercare: qualcuno che mi accetti per essere umano e non per carcerato e così ho trovato la libertà per 10 ore”. Così Luciano, ristretto a San Vittore, descrive la sua esperienza insieme a studentesse e studenti che entrano nella casa circondariale di Milano grazie ai progetti di lettura condivisa promossi da anni dalla Biblioteca del Confine della Casa della Carità, “per rompere - si legge in un comunicato - stereotipi e pregiudizi, ribaltare prospettive e accorciare le distanze tra chi sta dentro il carcere e chi sta fuori, offrendo alle persone detenute la possibilità di evadere, almeno con la mente, dalla dura quotidianità”. I progetti realizzati nell’anno scolastico 2023-2024 saranno presentati a BookCity Milano nel corso di due eventi, durante i quali sarà lanciato il podcast “La città invisibile”: “Il racconto personale di un’esperienza unica che dà voce a studentesse e studenti, insieme a insegnanti, operatrici e operatori culturali che lavorano in carcere, ma anche alle persone ristrette a San Vittore”. Dall’11 novembre potrà essere ascoltato su Spotify e sul sito della Casa. Il primo appuntamento, dal titolo “Leggere rende liberi - Leggere La Malnata di Beatrice Salvioni tra i ‘malnatt’” è in programma lunedì 11 novembre alle 11 nella Sala Eligio Gualdoni a Palazzo di Giustizia (via Freguglia 1, Milano) e racconta - attraverso la voce degli studenti della “Società di Lettura” del Liceo Volta, di operatrici e operatori delle realtà sociali e culturali coinvolte e delle istituzioni carcerarie - il valore e le potenzialità relazionali che gli incontri di lettura in carcere sono in grado di promuovere. Il secondo appuntamento, intitolato “Pagine di Libertà”, è in programma mercoledì 13 novembre alle 18 alla Casa della Carità, insieme al Liceo Cremona, dove studentesse e studenti della Quinta E del liceo Luigi Cremona invitano a un momento di dialogo e riflessione sul carcere, attraverso letture e video da loro prodotti. Milano. “Teatro e rap mi salvano dalla rabbia” di El Simba Corriere della Sera, 10 novembre 2024 Un giovane da poco uscito dal Beccaria: “Mai più parole d’odio”. Quando sono entrato al Beccaria ero in guerra con il mondo. Scrivevo canzoni rap piene di nemici, di azioni violente. Dentro il carcere ho iniziato a capire che la guerra con il mondo era in realtà qualcosa dentro di me, una rabbia che mi faceva vedere in chiunque un nemico. Lì ho conosciuto Beppe e Lisa, che mi hanno proposto di fare teatro. Ho iniziato a farlo, e mi vergogno un po’ a dirlo, non perché sapessi cosa fosse o volessi diventare un attore, ma perché nei laboratori c’erano molte ragazze. Era un modo per restare in contatto con l’esterno, per far finta che, tra quelle mura, potesse esistere una normalità, fosse ancora possibile sentire il calore umano. Pian piano ho scoperto nuovi modi di stare con gli altri, non più come nemici o persone al mio servizio, ma come compagni con cui prendersi per mano e attraversare, ad occhi chiusi, lo spazio della vita. Non sapevo chi fossero Shakespeare o Sofocle. Non mi piaceva leggere; la mia cultura me l’ero fatta per strada, in quella che molti di noi si vantano di chiamare “l’università della strada”. È vero, anche lei ti insegna qualcosa, ma il più delle volte insegna l’odio. Sono di madrelingua spagnola, e leggere è sempre stata una fatica, figurarsi in italiano. Ma non sembra essere un problema in teatro. Prima di leggerle, le parole di Sofocle le ho recitate. C’era sempre qualcuno che leggeva per me il testo, me lo spiegava e mi aiutava a mandarlo a memoria. Avevo con me il copione, ma non lo usavo. Non so cosa sia successo, ma una notte dove i pensieri non ti lasciano in pace le parole del copione hanno iniziato a fare rumore nella mia testa. Si recitavano da sole, se così posso dire. Ho dovuto prendere il copione e ho iniziato a leggere. Tutto era diventato semplice. Leggevo veloce e capivo tutto. Una mattina Beppe mi ha portato un articolo del “Corriere” che parlava della morte del grande rapper Tupac, spiegando come si fosse arrivati a dare un nome a chi lo aveva ucciso. Se fossi stato il ragazzo di prima, i pensieri si sarebbero fermati alla lotta tra bande, all’arma. Ma ciò che ha attirato la mia attenzione è stato che Tupac leggeva Shakespeare. In quel momento, i due mondi - del rap e del teatro - si sono saldati. Con Romeo e Giulietta, Sogno di una notte di mezza estate, Antigone e Alice nel paese delle meraviglie, ho iniziato a cambiare il modo di scrivere. Non più testi che parlano di odio, ma parole che scavano dentro di me, che placano la rabbia. Scrivere musica e recitare mi aiuta a trovare la mia pace, nella speranza che, in un momento storico come questo, possa diventare pace per tutti. Scrivo testi non facili da amare perché non scelgo parole d’odio, ma che cercano di spiegare il mondo dentro e fuori di me. Non saranno mai canzoni seguitissime, ma sono parole vere di chi la strada non solo l’ha vissuta, ma ha rischiato di morirne. Dimenticavo... Beppe e Lisa sono il regista e l’attrice della compagnia Puntozero, composta da giovani detenuti e non, e per i curiosi le mie canzoni sono su tutte le piattaforme musicali sotto il nome di El Simba. Milano. “Siamo noi i nemici di noi stessi” di Renè e Davide* Corriere della Sera, 10 novembre 2024 La lotta è costante, senza esclusione di colpi. È una guerra e ogni guerra ha le sue battaglie, alcune vinte, altre perse, ma lo scopo finale è la pace. Questo è applicabile a vari frangenti tra cui la lotta alla dipendenza, che è il motivo per cui siamo qui a La Nave, reparto di trattamento avanzato per la cura delle dipendenze presso il carcere di San Vittore. Nei nostri cervelli regna il caos: sentimenti contrastanti, conflitti interiori, pregiudizi e differenti personalità che lottano per sopravvivere. Siamo accomunati dall’assenza di amor proprio. La cura inizia dalla consapevolezza di avere una malattia e il primo passo è ricominciare a volerci bene per mettere in ordine le priorità. Riconciliarci con noi stessi. Ma come? La Nave può aiutarci a trovare i primi rudimenti per motivarci e piantare in noi il seme della determinazione. Certo, questo seme per germogliare avrà bisogno di particolari attenzioni, che al momento ci sono precluse, ma che avremo modo di utilizzare una volta fuori. Perché è là fuori che ci metteremo alla prova. Contando su una rete di supporto, se sapremo acchiapparla: centri diurni, comunità, servizi dipendenze, ma non solo. Dovremo imparare a chiedere aiuto, a fidarci di chi ci tende la mano: famiglia, amicizie pulite, incontri con chi ha gli stessi problemi, associazioni di volontariato. Certo, ci saranno ancora battaglie e muri di pregiudizio da abbattere. Ma non ci arrenderemo mai. Nella speranza di vivere un giorno, finalmente, felici e astinenti. *Detenuti nella Casa circondariale di Milano San Vittore Firenze. Dal carcere alla giustizia riparativa: al via Settimana della legalità promossa da Caritas di Niccolò Gramigni La Nazione, 10 novembre 2024 Un ciclo di eventi dall’11 al 16 novembre a Firenze organizzati con la collaborazione del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Firenze. Dal carcere alla giustizia riparativa, dal lavoro carcerario alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Oltre ad uno spettacolo teatral-musicale, alla presentazione di libri e ad un cortometraggio. È la Settimana della Legalità, un ciclo di eventi, che si terranno a Firenze dall’11 al 16 novembre, organizzati dalla Caritas di Firenze e dal Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Firenze con la collaborazione della Fondazione Caritas. Il 13 novembre incontro sulla “Giustizia riparativa” con Marta Cartabia dell’Università Bocconi di Milano, già ministra della Giustizia; il 14 novembre presentazione del Rapporto sulla povertà con l’arcivescovo di Firenze, monsignor Gherardo Gambelli. Il 16 novembre, alle 18, al Teatro La Fiaba, proiezione del cortometraggio prodotto da Keep Digging Production per Caritas Firenze. A seguire tavola rotonda con: Bernard Dika, portavoce del presidente della Regione Toscana, Marzio Mori, direttore Caritas Firenze, Luca Orsoni, responsabile Area Young Caritas Firenze, Sara Benvenuti, docente dell’Università degli Studi di Firenze, e Alina Tamas, responsabile Area Giustizia e Carcere Fondazione Solidarietà Caritas Ets. “Non è costruendo carceri che riusciamo ad avere le nostre città più sicure - spiega Marzio Mori, direttore Caritas Firenze -. Bisogna creare legami sociali, portare cultura, aprire strutture per accogliere i più deboli. Così come dovremmo puntare sulla giustizia riparativa e sulle misure alternative per limitare il sovraffollamento carcerario”. “Studi certificati hanno dimostrato che la percentuale di recidiva tra i detenuti che intraprendono percorsi alternativi è pari al 2%. Per chi sconta la pena in carcere fino all’ultimo giorno di detenzione è al 70% - dichiara Vincenzo Lucchetti, presidente Fondazione Caritas -. Bisognerebbe investire maggiormente su strutture e misure alternative alla detenzione”. “Occorre un cambio di mentalità - afferma Sara Benvenuti, docente di Giurisprudenza - bisogna superare l’idea di un sistema punitivo unicamente afflittivo e carcerocentrico, che non rieduca e non risocializza, bensì offre solo una risposta retributiva al male commesso e l’illusione di poterlo con la forza dello Stato contenere e controllare… possibilmente al di là del muro e lontano dalla società civile”. Firenze. 20mila aiutati negli ultimi vent’anni dalla Madonnina del Grappa di Maurizio Costanzo La Nazione, 10 novembre 2024 L’istituzione ecclesiale di Firenze celebra i suoi primi 100 anni in Palazzo Vecchio Funaro: “Il monito di don Facibeni è mai voltarsi dall’altra parte”. Dagli anziani ai disabili, dalle madri in difficoltà ai giovani smarriti, dai bambini ai poveri, dai detenuti ai migranti. Oltre ventimila persone fragili aiutate negli ultimi vent’anni. Sono i numeri dell’Opera Madonnina del Grappa diffusi nel centenario della sua nascita, un anniversario che si è celebrato sabato 9 novembre presso la Sala d’Arme in Palazzo Vecchio. La Madonnina del Grappa è un’istituzione ecclesiale cattolica a carattere caritativo fondata dal presbitero galeatese Giulio Facibeni nel 1924 a Firenze. Oggi la Madonnina del Grappa ha tantissime attività: case-famiglia per ragazzi in difficoltà; case di riposo per anziani; case di accoglienza per ex detenuti; case di accoglienza per migranti; case vacanze per anziani e bambini; scuola di formazione e lavoro per giovani Neet; un centro sportivo; una missione in Brasile e una in Albania. Complessivamente, gravitano attorno alla Madonnina oltre mille persone. “Questo non è un giorno qualunque perché c’è un sentimento di riconoscenza e affetto che legano la Madonnina del Grappa alla città di Firenze - ha detto la sindaca di Firenze Sara Funaro - Don Giulio Facibeni aveva una aderenza ai bisogni dei cittadini più fragili che raramente si è vista. Cento anni dell’Opera permettono a ognuno di noi di poter raccontare quelli che sono stati i cambiamenti sociali della città. Il monito delle parole di Facibeni, estremamente attuali, ci dice che non bisogna mai voltarsi dall’altra parte, che tutti siamo responsabili delle nostre comunità e che quando c’è un cittadino che soffre noi dobbiamo essere i primi che dobbiamo prendercene carico”. L’arcivescovo di Firenze Gherardo Gambelli, dopo aver citato il sindaco Giorgio La Pira, ha detto: “Oggi ci troviamo davanti ad emergenze non meno difficili ed è triste constatare come in praticamente tutti i paesi del mondo solo le spese per il riarmo crescono a misura dei bisogni imposti dalla incapacità dei governi e della comunità internazionale di risolvere pacificamente, cioè nel rispetto del diritto internazionale e umanitario, le questioni internazionali e dagli interessi economici sottesi all’industria bellica. Tanto più triste quanto maggiori sono i bisogni essenziali per assicurare il diritto ad una vita dignitosa che vengono trascurati. Ad esempio è chiarissima la consapevolezza che per fronteggiare una possibile nuova pandemia - oltre che per salvaguardare il diritto umano alla salute - sarebbe necessaria la costruzione di una rete di servizi sanitari efficienti e accessibili a tutti gli uomini e le donne della terra, il cui costo sarebbe nettamente inferiore a quello del riarmo”. “Oggi resta l’eredita di un uomo che ha avuto fiducia nella provvidenza di Dio - ha detto l’arcivescovo di Firenze Gherardo Gambelli - un uomo che ha creduto nella possibilità di ricostruire dopo un contesto di guerra e distruzione a partire dal coinvolgimento della popolazione, questa è l’eredità più bella di don Giulio Facibeni, in un mondo ancora oggi segnato da discordie. Facibeni ci insegna che attraverso la condivisione e la solidarietà si costruisce una società più solida e più giusta e si contribuisce alla lotta contro le guerre”. Il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani ha parlato di come la Madonnina del Grappa è stata fondamentale per la trasformazione sociale del quartiere di Rifredi: “Rifredi senza Facibeni sarebbe una distesa ci case frutto della speculazione e del boom edilizio degli anni Sessanta” e invece “oggi ci sono il campo di calcio, i laboratori, il teatro, che sono un polmone verde e di socialità”. “Dagli orfani della prima guerra mondiale ci sperano decenni e generazioni, ma possiamo dire che anche oggi viviamo in una situazione post-bellica - ha detto il presidente della Madonnina del Grappa Vincenzo Russo - Se anche non si svolgono azioni militari sul nostro territorio, sono presenti sul piano morale, psicologico e a volte anche materiali, situazioni di deserto, devastazione, disorientamento e privazione nella vita delle persone. A soffrire di ciò, particolarmente, sono i giovani: giovani smarriti, disorientati, giovani con problemi di dipendenza, giovani che soffrono di salute mentale, giovani senza famiglia. L’Opera vuole conservare quella predilezione che fu di don Facibeni e che riguardava proprio i ragazzi, i giovani; di loro, in modo particolare, vuole continuare a prendersi cura. L’Opera vuole assumere in sé, ancora oggi, tutto il vuoto e il dolore dei giovani per trasformarlo insieme a loro. Solo così si possono porre le basi, affrontando il problema sin dalla radice, per la costruzione di una città futura”. L’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa fu fondata a Firenze nel 1924 da don Giulio Facibeni. Nel corso della prima guerra mondiale, Facibeni venne chiamato al fronte sul Monte Grappa come cappellano militare, dove si spese per sostenere spiritualmente i soldati. Qui nacque in lui l’idea dell’Opera, ispirata dalla statua della Madonnina del Grappa. Tornato alla pieve di Rifredi a Firenze, nel 1923, essendo venuto anche a contatto con i molti orfani del conflitto mondiale, il 21 ottobre 1923 pose la prima pietra dell’Opera, inaugurata ufficialmente il 4 novembre 1924. I bambini ospitati nel giorno dell’apertura erano dodici. Dopo quattro anni salirono a cento, poi a 350 nel 1939, fino ai 1200 dopo la seconda guerra mondiale. Alla morte di don Facibeni, le redini della Madonnina del Grappa furono prese da don Corso Guicciardini, alla cui scomparsa è subentrato l’attuale presidente don Vincenzo Russo. Al convegno per i cento anni della Madonnina del Grappa hanno partecipato, tra gli altri, Anna Scattigno, storica della Chiesa, già docente dell’Università di Firenze e Pisa; Luigino Bruni, economista, docente di economia politica, Università Lumsa di Roma; Chiara Saraceno, sociologa, già docente all’Università di Trento e Torino. Napoli. Giustizia riparativa, al via corso di specializzazione all’Università Federico II di Francesca Piccolo Il Mattino, 10 novembre 2024 Gli eventi tragici degli ultimi giorni a Napoli impongono riflessioni, si fissano in alto nell’agenda istituzionale e pubblica i temi dell’educazione, della sicurezza, della rigenerazione e dell’inclusione. Le Università riportano l’attenzione sul circuito di strumenti giuridici messi in campo con opportunità di formazione e specializzazione per gli operatori. Ieri pomeriggio presso l’Aula Magna del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II (Vico Monte della Pietà, 1 - Napoli) si è tenuta la presentazione del programma didattico del Corso di perfezionamento in Giustizia Riparativa, organizzato dal Dipartimento universitario con la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale - Sezione San Tommaso d’Aquino, la Fondazione Pol.i.s. della Regione Campania, il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale con il contributo di Fondazione Con il Sud. “Un’opportunità di specializzazione per coloro che hanno concluso la laurea specialistica, professionisti, avvocati, psicologi, sociologi già operanti nei circuiti formali della mediazione familiare e di quella interculturale - dice Michelangelo Pascali docente e coordinatore. “Attendiamo da anni il decreto attuativo annunciato dalla riforma Cartabia, in grado di conferire strumenti giuridici più incisivi, e in questa sfida sociale un ruolo centrale lo avranno i centri di mediazione pubblica”. Carmine Matarazzo, professore di Teologia pastorale della Pontificia Facoltà Teologia dell’Italia Meridionale - Sezione San Tommaso d’Aquino - “da anni lavoriamo nella formazione dei volontari in ambito cattolico collaborando con la Fondazione Pol.i.s. della Regione Campania, resta fondamentale il dialogo con le vittime in senso riparativo ma anche con i “carnefici” per il loro reinserimento”. “La punizione è un paradigma trasversale appartenente ad ogni epoca, ma è necessario declinare un concetto di giustizia inclusiva, riparativa che metta al centro la capacità di responsabilizzare e rimotivare coloro che entrano in carcere o vivono per lungo tempo nel circuito della comunità penitenziaria - spiega Samuele Ciambriello garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive. don Tonino Palmese presidente Fondazione Pol.i.s. ha posto l’accento “sulle possibilità di reinserimento attraverso il lavoro e sulle azioni di supporto ai parenti delle vittime”. Nella tavola rotonda Dora Gambardella, direttrice del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II ed Enrica Amaturo, coordinatrice del Corso di dottorato in Scienze Sociali e Statistiche dell’Università Federico II. Varese. Fuori e dentro le sbarre, a Glocal una riflessione su come i giornalisti parlano di carcere varesenews.it, 10 novembre 2024 A Glocal un approfondimento su carcere e media con Susanna Ripamonti e don David Maria Riboldi. Stiamo facendo bene il nostro lavoro? Diamo al nostro lettore una informazione precisa sul mondo del carcere, puntando i riflettori sui problemi delle strutture carcerarie e le condizioni di vita dei detenuti? I relatori del panel “Fuori e dentro le sbarre, la narrazione del carcere”, intervenuti sabato 9 novembre a Glocal, il Festival del giornalismo di VareseNews, hanno risposto di no. Susanna Ripamonti, direttice di “Carte Bollate” - rivista del carcere di Bollate scritta dai detenuti - e Don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio e fondatore della onlus La Valle di Ezechiele, hanno dialogato con la giornalista di VareseNews Santina Buscemi, approfondendo proprio questi temi. L’indice puntato contro la spettacolarizzazione delle notizie, con risalto alle storie che infervorano lo sguardo giudicante del cittadino verso chi delinque. Se cento detenuti escono per un permesso lavoro e uno evade, i giornali daranno clamore a questa sola fuga, senza puntare i riflettori sui percorsi di inserimento lavorativo affrontati con impegno da tanti altri. Un clamore mediatico alle storie negative che può trasformarsi in un vero e proprio stravolgimento per i detenuti. Ne ha fatto un esempio Susanna Ripamonti, raccontando come nel 2008, dopo la gravidanza di una detenuta, un giornale titolò “Bollate carcere a luci rosse” e le polemiche che seguirono, ci fu un giro di vite nelle politiche interne della struttura carceraria. “Da allora le attività a cui le detenute possono accedere sono molto diminuite e la causa è da ricercare anche e soprattutto nel clamore mediatico che si creò - ha evidenziato Ripamonti - non sarebbe stato meglio approfondire la tematica della sessualità in carcere?”. Non solo detenzione narrata in modo sensazionalistico e giudicante, ma anche la criminalità presente nella nostra società percepita come più grave rispetto al reale. “Le denunce sono diminuite, per esattezza dal 2011 al 2023 sono state 500mila in meno, eppure la stampa fa passare il messaggio che i crimini siano in aumento. Non siamo forse noi ad essere più apprensivi rispetto a prima?” ha provocatoriamente chiesto Don Riboldi. “Il sistema carcerario non funziona, ma di questo non importa nulla a nessuno. Le recidive sono del 70%, che scende al 28% con misure cautelari alternative e su questo occorrerebbe investire, invece la realtà non cambia e sono stati introdotti anche tredici nuovi reati con l’ultimo decreto sicurezza” ha rimarcato Ripamonti. Per spronare il mondo dell’informazione a produrre articoli che aderiscano alla realtà, e approfondimenti che non concorrano alla diffusione di una violenza verbale che dilaga, fra politica e social, l’11 aprile del 2013 fu scritta la Carta di Milano. Il documento deontologico parla di diritto all’oblio, informazione corretta e rispettosa delle persone. “I detenuti sono persone e questo non va dimenticato mai” hanno chiosato i due relatori. La Fondazione Severino premiata per l’impegno ad aiutare i detenuti a reinserirsi nella società di Daniela Solito La Repubblica, 10 novembre 2024 Un premio per l’impegno nel difendere i diritti civili e nell’offrire alle persone detenute opportunità di reinserimento nella società, con un’attenzione particolare al mondo della detenzione femminile. Per questi motivi la Fondazione Severino, organizzazione no profit che offre supporto a persone svantaggiate e principalmente a detenuti, è stata premiata con il riconoscimento ‘Be the hope - RFK Human Rights Italia Awards 2024’, durante la serata che si è svolta ieri a Milano, presso ‘La Pelota’ di Brera. Il premio è stato consegnato da Kerry Kennedy, presidente onoraria della Robert F. Kennedy Human Rights Italia che da più di trent’anni si dedica alla difesa dei diritti fondamentali, alla presidente della Fondazione, Paola Severino, per l’impegno e il supporto concreto alle persone detenute e ai giovani che hanno commesso reati. Si tratta di un riconoscimento importante che arriva dall’organizzazione RFK Human Rights Italia con lo scopo di portare avanti l’eredità morale del senatore Robert Francis Kennedy nel campo della difesa dei diritti umani e civili. Durante il discorso alla cerimonia di premiazione, Paola Severino ha espresso la sua gratitudine: “Durante la mia esperienza come ministro ho visto da vicino quanta sofferenza ci sia negli istituti di detenzione e ho deciso di costruire una fondazione che potesse contribuire a migliorare le condizioni di vita di queste persone e a restituire alla società degli individui migliori”. E ha aggiunto: “La pena non deve avere solo una funzione afflittiva, ma deve anche offrire opportunità di crescita e reinserimento. Fondazione Severino mira a contribuire, a dare attuazione alla funzione rieducativa della pena e a garantire che ogni individuo recluso possa avere accesso a strumenti che facilitino un nuovo inizio”. Paola Severino: “Diamo fiducia ai detenuti con formazione e lavoro” di Roberta Amoruso Il Messaggero, 10 novembre 2024 La presidente della Fondazione premiata agli RFK Human Rights Italia Awards: “Siamo in prima linea nel sostegno soprattutto alle donne strappate alla famiglia”. Professoressa Paola Severino, il premio “Be the hope - RFK Human Rights Italia Awards 2024” appena ricevuto da Kerry Kennedy, presidente onoraria della Robert F. Kennedy Human Rights Italia, è un riconoscimento prestigioso dell’impegno nella difesa dei diritti civili profuso dalla Fondazione Severino da lei presieduta. Poter tendere la mano a un detenuto deve essere però un premio quotidiano. Com’è nata l’idea della Fondazione. “Soprattutto durante la mia esperienza da ministro della giustizia, ho visto tanta sofferenza nelle carceri e toccato con mano come si possa cambiare la vita dei detenuti se si dà loro supporto e si lavora su formazione e inserimenti lavorativi, dando attuazione alla funzione rieducativa della pena. È stato questo a spingermi a mettere la mia esperienza al servizio degli altri. C’è un episodio che più di tutti l’ha spinta? “Da donna e da madre mi sconvolgevano particolarmente alcune donne ristrette con figli da cui erano state separate all’ingresso in carcere o con figli sotto i tre anni che vivevano con loro in istituto. Non smettevo di pensarci. Tornavo a casa e ne parlavo con la mia famiglia. E mia figlia, che fa l’avvocato come me, mi ha spinta a costituire la nostra Fondazione, cui si dedica con tanta passione ed energia. È stata sempre lei a insistere perché dessi il mio nome alla Fondazione. Io avevo molte perplessità. Diceva che avrebbe permesso alla fondazione di poter accedere con minori difficoltà al mondo del carcere. In effetti, così è stato”. Un’opera per una “società più giusta e coesa”, dice lei, anche per i detenuti. Funziona? Quale sostegno date? “Siamo partiti facendo formazione finalizzata a inserimenti lavorativi. Una formazione accessibile anche a chi non avesse un livello di scolarizzazione elevato, esperienze lavorative pregresse e non parlasse perfettamente la lingua italiana. E lo abbiamo fatto su professionalità che il mercato del lavoro ha difficoltà a reperire”. Per esempio? “Penso ai corsi da montatore di ponteggi, da guidatore di muletto, di educatore e operatore cinofilo, di sommelier, di HACCP. Andando in carcere ci siamo poi resi conto che per chi ha una pena molto lunga corsi di questo tipo hanno spesso poco senso. E allora abbiamo organizzato laboratori artistici, culturali e sportivi. Fondamentali, perché si lavora sull’autostima, si offre un diverso punto di vista sui partecipanti all’area educativa, si dà uno strumento di elaborazione del proprio vissuto, di confronto con altri detenuti e si crea un ponte con l’esterno attraverso chi conduce i laboratori. Un mondo parallelo proiettato verso la vita futura... “È così. Abbiamo sportelli di counseling sui diritti dei detenuti, facciamo screening per evitare alcuni problemi di salute e ricerca su temi penitenziari e diritti dei detenuti con la Luiss. Sensibilizziamo infine le aziende sui vantaggi dell’inclusione lavorativa”. La realtà femminile deve essere però la più dura e delicata... “Molte delle donne provengono da contesti difficili e commettono reati perché costrette da un uomo della loro famiglia. Necessitano quindi di un supporto per avviare un efficace percorso di risocializzazione e reinserimento. Peraltro siamo molto connotate al femminile, perché tanti degli avvocati, operatori e volontari sono donne e abbiamo a Roma il carcere per sole donne più grande di Europa. Per tutta questa serie di ragioni siamo particolarmente attivi in istituti e sezioni femminili, dove abbiamo, laboratori di ceramica, di scrittura, di teatro, di riciclo creativo, di rigenerazione di prodotti informatici. Da quest’anno abbiamo, infine, portato con Komen Italia le loro unità mobili fornite di mammografi ed ecografi per lo screening senologico. La riabilitazione non funziona sempre. A che punto siamo? “Ovviamente su tossicodipendenti e psichiatrici bisogna lavorare su un altro tipo di riabilitazione, affidata alle istituzioni e alle comunità. Ma con la fetta di popolazione non affetta da questi problemi la formazione e l’accompagnamento nella fase dell’uscita dà la quasi assoluta certezza che la persona seguita non tornerà a delinquere. Perché si fornisce uno strumento per raggiungere l’emancipazione economica, presupposto indispensabile per un percorso nella legalità e per non tornare a perdere la libertà”. C’è una storia di recupero che porta nel cuore? “Una giovanissima detenuta ha commesso l’errore di portare un carico di droga in Italia. Aveva la mamma malata e, abbandonata dal padre e senza fonti di reddito, non sapeva come affrontare le spese per le sue cure. Ma è stata arrestata appena arrivata a Fiumicino e ha trascorso in carcere il durissimo periodo del covid. Qui in Italia non aveva nessuno ed era destinata all’espulsione appena finito di scontare la pena. Non solo. In vista del suo ritorno in patria l’organizzazione per la quale aveva portato la droga in Italia le aveva prospettato gravi ritorsioni per lei e la sua famiglia, visto che aveva collaborato con le autorità italiane per individuare mandanti e destinatari della droga. Sulla base di questo presupposto con un’associazione che si occupa di donne vittime di violenza, Befree, abbiamo ravvisato gli estremi per chiedere asilo. La abbiamo così inserita in un corso da sommelier svolto a Rebibbia e le abbiamo trovato un lavoro. Al momento è ancora in Italia e continua a lavorare nel mondo dell’enogastronomia con grande successo. Quanta strada c’è ancora da fare? “Tanta, però lavorando su formazione e risocializzazione si può contribuire ad abbassare la recidiva, a garantire la sicurezza sociale e a diminuire gli investimenti che lo Stato deve fare per mantenere così tanti detenuti in carcere e garantire la sicurezza di noi tutti. Si tratta di un compito troppo importante per poterci fermare”. Arcangelo ucciso nei vicoli, la maledizione di Napoli di Diego De Silva La Stampa, 10 novembre 2024 Giovani armati e pronti a sfidare chi li affronta. È una cultura mafiosa vecchia e ridicola ma difficile da estirpare che sporca una delle città più belle del mondo. Penalisticamente parlando, la futilità o l’abiezione di un motivo è un’aggravante. La parificazione delle due categorie serve alla legge per definire inequivocabilmente la gravità di un atto doloso (cioè compiuto con l’intenzione di nuocere) e dunque sanzionarlo con una pena maggiorata. A ben vedere, però, fra un motivo futile e uno abietto c’è una differenza non da poco. Se stupro e poi uccido per soddisfare una perversione, il motivo che fonda l’omicidio è sicuramente abietto, perché mescola morale e crudeltà (il piacere venuto dall’infliggere una sofferenza). Anche se stupro e poi uccido per assicurarmi che la vittima non mi denunci sono mosso da un motivo abietto (quello di garantirmi l’impunità), che non ha una connotazione patologica ma bassamente egoistica, e tuttavia la legge assoggetta alla stessa riprovazione, utilizzando una definizione estesa. Il motivo futile, invece, non ha logica (né perversa né utilitaristica): semplicemente non ne ha; ed è assimilabile al motivo abietto solo in ordine alla sproporzione rispetto all’atto delittuoso. Se sparo a qualcuno perché mi ha macchiato una scarpa, in un certo senso il mio motivo è futile due volte: la prima perché è stato scatenato da una causa effimera (la supervalutazione dell’oggetto, dissacrato dall’altro), la seconda perché ha generato una violenza del tutto spropositata rispetto al gesto che l’ha prodotta (può una scarpa macchiata valere una vita?). Da un po’ di tempo (troppo), gli episodi criminali che riguardano l’adolescenza a Napoli registrano una prevalenza della categoria della futilità. È di ieri la notizia della morte del diciottenne colpito alla testa da una pistolettata nella zona dei Tribunali, un’altra vittima che si unisce alle due più recenti (un quindicenne del rione Sanità ucciso in zona Mercato; un diciannovenne a San Sebastiano al Vesuvio per una discussione - appunto - per futili motivi), che fanno pensare a una sorta di fisiologia del delitto futile che attanaglia la città più bella del mondo con una frequenza avvilente. Il ragazzo che esce di casa armato, pronto a togliere la vita a chi lo affronta o lo sfida, ha piantato nella testa il concetto dell’onta. Crede cioè di avere una reputazione, un’immagine, un’identità sociale se non addirittura un nome da difendere. Si atteggia e si comporta da gangster in erba (la scelta preferenziale della pistola sul coltello - come dimostrano i casi più recenti - caratterizza antropologicamente questo specifico modello criminale). E quando vivi in una suggestione simile, quando ti reciti il copione addosso, quando ti convinci di quest’autorappresentazione (magari riconosciuta dal tuo gruppo di pari) e addirittura la militi, fino a farla diventare una giusta causa di morte, basta un nulla - cioè una futilità qualsiasi - a far divampare una violenza che non controlla più se stessa, non misura la quantità della sua potenza d’uscita e soprattutto sottovaluta le conseguenze (neanche quelle personali) del disastro che produce. Come se non ci fosse uno Stato di diritto che prevede il crimine (nel senso di sapere che esiste, non in quello letteralmente preventivo, di cui s’occupa ben poco), e lo punisce anche esemplarmente, quando lo scova o lo coglie in flagranza. Come se non ci fosse uno Stato. Come se la comunità fosse regolata da norme inefficaci, largamente inutili. Come se la possibilità di essere raggiunti da una pena che può arrestare la vita, recluderla e rovinarla non infondesse alcun timore. Tutto per onore dell’onta. Un valore assoluto, indiscutibile. Retaggio di culture mafiose vecchie come il cucco e durissime a morire che ancora fanno proseliti, contaminano fasce generazionali, esaltano e motivano gli ignoranti, rincretiniscono ulteriormente i già cretini offrendo il solito, scontato catalogo di gesti, battute sfrontate e provocatorie di cui riconosci la volgarità peculiare alla prima intonazione e nell’attimo in cui ti c’imbatti quasi ti annoiano, tanto quell’aggressività cafona e minacciosa è rimasta intatta nei decenni; allora pensi: “Ecco qua, ci risiamo”, e lotti fra la voglia di reagire e quella di lasciar perdere. Perché questi comportamenti delinquenziali sono vecchi, reimpanati e rifritti eppure piacciono tanto ai cattivi discepoli (che spesso sono peggio dei cattivi maestri), che credono fermamente nell’onta. Se non suonasse irrispettoso per chi ha fatto le spese delle loro malefatte, potremmo chiamarli “igienisti dell’onta”, tanto sono affetti dall’ossessione di lavarla. Spernacchiare e mostrare il ridicolo della sottocultura gangsteristica dell’onta potrebbe essere un modo di combatterla. Perché la delinquenza fa scuola ma è una scuola vecchia, pacchiana e decrepita, anche più di quella evasa da chi non ci va (e ci andrebbe, se fosse finalmente riformata). È un lavoro spontaneo che possono fare (e fanno) anche i gruppi di adolescenti, dal basso, praticando altri gesti, altri linguaggi, e diffondendoli. Perché Napoli, se lo mettano in testa tutti, è e sarà sempre al di sopra di chi la sporca. Napoli, i ragazzi dei clan vogliono essere “fighi”, vogliono sedurre: dobbiamo disarmarli di Roberto Saviano Corriere della Sera, 10 novembre 2024 Giovanissimi ossessionati dall’aspetto fisico e dai gioielli diventano criminali: tre vittime in 17 giorni. La Camorra lascia fare, tutto le torna utile. Servono scuole sempre aperte e insegnanti che diventino maestri di strada. Emanuele ammazzato il 24 ottobre, Santo ammazzato il 2 novembre, Arcangelo ammazzato il 9 novembre. Emanuele aveva 15 anni, Santo 19, Arcangelo 18. È questa l’età in cui si muore ammazzati. Non vi stupisce il silenzio del governo? Del governo comunale, regionale, nazionale? Non mi stupisce, la risposta del resto quale dovrebbe essere, la solita: “Più polizia, più posti di blocco”. Da quanto si fa così senza risolvere molto, anzi quasi nulla? Da sempre. Eppure quello che sta accadendo non è qualcosa di inaspettato, o nuovo, semplicemente è inosservato. Perché si muore così giovani? Perché così tante vittime? Non è una singola faida, non sono tutti collegati nello stesso conflitto. Facciamo ordine: cosa conta oggi? Cosa conta per un ragazzino (in realtà per tutti) più di ogni cosa? Il denaro. Cosa porta il denaro? Bellezza, stile, essere figo, essere carismatico. Cosa porta carisma e denaro? Comandare, poter sedurre, piacere. E come fai ad arrivarci in una realtà dove non esistono contratti, dove il lavoro nero è per sempre, dove ogni risparmio e ogni progetto spesso sono impossibili? Entri in una paranza, o inizi ad atteggiarti a gran duro per promuoverti e provare a trovare uno spazio. Scegli di avere una pistola, uccidere ed essere ucciso il destino. Ovvio che non tutti fanno questa scelta, ovvio che c’è chi in miseria e difficoltà non diventa un paranzino, un killer, un camorrista, ma la forza di una catena si misura sul suo anello più debole. Vi immaginate esseri violenti, da favela, strafatti di cocaina e crack. Nulla di tutto questo. Sono ragazzini che passano la vita ad ascoltare brani che parlano d’amore e tradimento, ossessionati dall’aspetto fisico e dall’essere brillanti, in continuo corteggiamento con le ragazzine e i loro amici, nel sogno di essere considerati i più simpatici, diventare i più ricchi, essere temuti dai più fessi. Questo sono, e queste fragili ambizioni li portano dritti nella scalata criminale. Vittime, spesso colpevoli, ma sempre vittime. Le vittime colpevoli sono coloro che scelgono di uccidere, di spacciare, di fare del male ma si ritrovano trascinati dalla violenza che loro stessi credono di scegliere. E ormai stiamo assistendo all’emergere di faide su faide, tutte combattute da ragazzini, anche se spesso nessuno di loro viene da famiglie camorriste. Arcangelo Correa è stato ucciso da una pistola che passava di mano in mani tra ragazzini. Era incensurato, i suoi genitori commerciati con un negozio di vestiti, suo cugino Luigi Caiafa nel 2020 era stato ucciso a 17 anni dai falchi della polizia. Aveva tentato una rapina con una pistola finta e nell’inseguimento venne ammazzato: secondo le dichiarazioni della polizia aveva puntato la pistola finta contro di loro, secondo gli avvocati dei familiari la polizia gli aveva scaricato addosso proiettili per costringerlo a fermarsi. Proprio il fratello di Luigi si è costituito, lui ha sparato in fronte al cugino, dichiara per errore. Armi in mano, armi nei jeans sul coccige; tenute assicurate al corpo dall’elastico della mutanda e dalla cintura. Armi che sparano e uccidono per gioco. Una situazione di guerra costante dove il rischio della morte non esiste, c’è la certezza di morte. Questo è il valore aggiunto che hanno nella prassi criminale i ragazzini, nessuna paura di morire, la leggerezza con cui considerano il carcere come una necessità per diventare uomini. Anche quando non sono camorristi ambiscono ad esserlo: c’è una foto pubblicata sul Corriere della Sera di qualche giorno fa che ritrae il 20enne assassino Francesco Pio Valda (che uccise nel marzo 2023 l’innocente 18enne Francesco Pio Maimone) insieme al presunto assassino diciassettenne di Santo Romano (ucciso a San Sebastiano al Vesuvio) che condividono una magnum di Champagne con uno dei figli dei capi del clan Aprea di Barra. I riferimenti sono sempre loro, i vincenti, i ricchi, coloro che dispensano generosità e condanne: presto vivere, presto morire. Ma le vecchie famiglie? Le famiglie camorriste fanno fare, usano e gestiscono, le paranze sono utili sia governate da loro sia quando lasciano fare per poi aggiustare gli equilibri, affiliarli o farli arrestare, sparare loro per uno sgarro o farli crescere. Non dimenticando che molti dei loro figli, intendo delle famiglie storiche, sono proprio loro parte delle paranze. Arcangelo è morto al centro storico, il luogo dove nacque dieci anni fa la prima paranza, “la paranza dei bambini” il primo gruppo camorristico strutturato composto da ragazzini. Oggi l’imperativo dev’essere disarmare Napoli, togliere armi in circolazione ma investire, investire, investire. Formazione, scuole aperte tutto il giorno, assumere e trasformare professori disponibili in maestri di strada, e ancora corsi, corsi e corsi professionali. Questo per iniziare a sottrarre una prima leva di ragazzini pronti a sparare. Il modello Caivano proposto dal governo non solo è stato inefficace ma ha peggiorato la situazione portando in carcere una massa di minorenni e di fatto “professionalizzandoli” al crimine. Queste morti continueranno, e le faide con il progressivo crescere della miseria saranno sempre più feroci: cocaina, erba, eroina e anfetamina i turisti, non vogliono altro e le paranze non vedono l’ora di potergliele vendere. Questa realtà non è Napoli, questa realtà è il mondo. Il caso migranti: perché la giustizia italiana deve rispettare il diritto europeo di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 10 novembre 2024 Nell’esprimere solidarietà alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il presidente ungherese Viktor Orban ha dichiarato che non si può lasciare che i giudici decidano la politica migratoria dello Stato. E si è riferito in particolare alla Corte di giustizia dell’Unione europea, della quale una recente sentenza è stata posta a base di alcune decisioni dei giudici italiani. Si trattava della convalida del trattenimento di migranti per essere oggetto di una procedura semplificata di esame della richiesta di protezione internazionale, sul presupposto che provengono da Paesi sicuri. Se la procedura semplificata (un po’ alla svelta?) si conclude nel senso dell’esclusione del migrante dalla protezione che richiede, esso può essere espulso. La novità della restrizione nei centri in Albania riguarda l’applicazione della procedura semplificata riservata a migranti provenienti da Paesi dichiarati sicuri: se tali non fossero, sarebbe illegittima la “procedura albanese”. La posizione espressa da Orban è importante per capire meglio cosa sia in gioco. Le insultanti sciocchezze su cui si attardano ministri ed esponenti della maggioranza di governo - che spiegano le decisioni negative dei giudici italiani con il fatto che si tratterebbe di giudici politicizzati, antigovernativi, comunisti - hanno come scopo ed effetto quello di nascondere il vero problema. Esso nasce dal rifiuto da un lato di rispettare l’indipendenza dei giudici nell’interpretare ed applicare la normativa vigente e dall’altro di accettare la regola dello Stato di diritto, che vuole che il contenzioso sui diritti sia deciso da giudici separati dal governo. A tutto ciò si aggiunge il rifiuto di ammettere che le leggi nazionali vengano disapplicate dai giudici quando siano in contrasto con le norme europee nelle materie per le quali gli Stati hanno assegnato competenza all’Unione. Come stabiliscono i Trattati, la prevalenza del diritto dell’Unione su quello nazionale è fondamento dell’Unione, che non potrebbe operare se ciascuno Stato andasse per la sua strada. Nel diritto interno italiano gli stessi principi si fondano sugli articoli 11 e 117 della nostra Costituzione. Ne deriva l’obbligo dei giudici nazionali di applicare le norme europee e non quelle nazionali incompatibili. Oppure, quando vi sia dubbio, i giudici sospendono il giudizio e chiedono l’interpretazione della Corte di Giustizia. Essa, decidendo in modo vincolante per tutti gli Stati, assicura l’uniforme applicazione del diritto europeo. Si tratta del principio del primato delle norme europee. Che questa sia la questione sottostante le attuali polemiche è dimostrato dal fatto che proprio il primato delle norme europee è contestato dagli esponenti di due dei partiti della maggioranza, ovvero Lega e Fratelli d’Italia. I giudici, sia quelli nazionali, sia la Corte di Giustizia dell’Unione applicano le norme create degli organi legislativi di ciascun ordinamento. Si dice che, nel caso dei migranti condotti in Albania, i giudici italiani hanno seguito la decisione dei giudici dell’Unione (questo è quello che Orban e i suoi simpatizzanti trovano intollerabile) ed è vero. Ma non si considera che la sentenza della Corte di Giustizia corrisponde a quanto prevede la Direttiva 2013/32. Con essa il Parlamento e il Consiglio europei hanno stabilito che, considerando l’applicazione della legge nazionale in un sistema democratico e la situazione politica generale, un Paese di origine del migrante è ritenuto sicuro se si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente violazioni dei diritti e delle libertà previsti da una serie di atti internazionali e dalla Convenzione europea dei diritti umani, ne? vi si pratica tortura o trattamenti disumani, ne? vi è pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. La Corte di giustizia europea ha affermato che tali condizioni di sicurezza di un Paese sono escluse se sono inesistenti anche solo in una parte del Paese. Quest’ultima ipotesi verrà in futuro eliminata da una nuova norma dell’Unione, che però è stato stabilito entri in vigore dal giugno 2026. Con la norma che ancora non c’è la designazione di Paese sicuro potrà essere effettuata anche escludendo parti del suo territorio o considerando solo specifiche categorie di persone. Con il ricorso pregiudiziale alla Corte di Giustizia, i giudici chiedono se siano conformi alla normativa europea le norme italiane sulla definizione di Paese sicuro, applicabili nei diversi casi dei migranti che si oppongono alla procedura semplificata. Si tratta di un rimedio del tutto fisiologico nel sistema del quale l’Italia ha scelto di far parte come Paese fondatore dell’Unione. Se la resistenza politica ad accettare le conseguenze del primato del diritto europeo dovesse andar oltre il solo attacco politico che ora subiscono i giudici, coerenza vorrebbe che si dicesse chiaramente che non si accetta più la condizione fondamentale per l’appartenenza all’Unione europea. Tra i migranti salvati dalla Life Support. “La deportazione in Albania? Mi spaventa meno di al Sisi” di Chiara Sgreccia Il Domani, 10 novembre 2024 A bordo dell’imbarcazione della ong fondata da Gino Strada, i racconti dei migranti scappati dall’Egitto. L’effetto deterrente del cpr voluto da Meloni sembra nullo: “Siamo disposti a tutto pur di avere una vita”. Amir, Fakhir, Hassan, Ibrahim e Farid siedono in cerchio. Scalzi per non sporcare le coperte ignifughe color cammello che riempiono il pavimento della “shelter area”, la zona della nave di Emergency, la Life Support, dedicata all’accoglienza delle persone salvate in mare. Sono 72 quelle soccorse durante la 25ª missione, mentre la nave dell’organizzazione fondata trent’anni fa da Gino Strada si dirige verso il porto di Livorno, il luogo sicuro di sbarco assegnato dalle autorità italiane. A quasi quattro giorni di navigazione dalle coordinate dei due salvataggi, avvenuti nelle acque Sar maltesi il 31 ottobre. La maggior parte dei naufraghi proviene dalla Siria, anche se c’è chi scappa da Libano, Egitto, Bangladesh, Pakistan, Niger e Nigeria. In tanti si conoscevano prima di partire, si sono fatti forza per affrontare le incognite del lungo tragitto che li separa da casa. Altri, invece, si sono incontrati per la prima volta in Libia, nell’attesa di imbarcarsi per raggiungere l’Europa: “A ogni costo. Nonostante la paura di morire. Perché la vita che facevo in Egitto non era vita”, confessa Hassan. Ha gli occhi enormi, di colore verde così chiaro da sembrare trasparenti, la barba e i capelli ricci, neri come la pece, un sorriso che gli riempie il volto anche mentre racconta che a casa, nell’area di Aswan, dove la sua famiglia è rimasta, non aveva neanche i soldi per mangiare: “Sono felice perché arriveremo in Italia, dove finalmente portò costruirmi la vita che voglio”, afferma risoluto, prima di iniziare a raccontare com’era la sua quotidianità: “La società in Egitto è divisa in due. Da un lato ci sono i ricchi, dall’altro i poveri. Che sono veramente poveri”, chiarisce mentre i compagni fanno cenni di approvazione con il capo: “I giorni in cui riuscivo a lavorare, come muratore o nelle campagne, guadagnavo al massimo 3 dollari, non bastano neanche per il pranzo”. Le mani di Hassan si muovono veloci, come quelle dei suoi amici: al centro del cerchio formato dalle gambe incrociate dei 5 egiziani ci sono le tessere del Domino, il gioco da tavolo cinese in cui Hassan Amir, Fakhir, Ibrahim e Farid sono maestri. Ma a vincere è sempre Fakhir, che quando esulta si fa notare. È così pieno di energia da non star fermo neanche di notte. Quando gli altri naufraghi si coprono il volto con le coperte per riuscire a dormire nonostante le luci che nei corridoi della nave rimangono accese, lui salta, di quattro in quattro, i gradini che collegano il ponte coperto a quello scoperto, ignorando le occhiatacce di chi ha sonno. Fakhir è il più piccolo tra il gruppo degli egiziani. È partito da solo anche se non ha ancora 16 anni. “Voglio restare in Italia per lavorare”, dice mentre giochicchia con il pacchetto di sigarette che tiene sempre a portata di mano. Vale lo stesso per i suoi connazionali, tra i pochi naufraghi a non volersene andare dall’Italia subito dopo lo sbarco. “Sono scappato dal mio paese perché desidero un futuro che lo Stato di al Sisi non è in grado di garantirmi”, continua a ripetere Hassan: “Non sarei partito, altrimenti. L’Egitto non è il paese che voi europei pensate che sia. Siete abituati a vedere le fotografie dei luoghi del turismo, invece c’è tanta povertà. In più nel nostro Paese non è possibile esprimere liberamente i pensieri. Il rischio d’arresto è molto alto: se critichi il governo vieni portato in prigione, se spieghi come è la realtà davvero finisci in prigione. Anche mentre stavamo scappando, se fossimo stati scoperti, saremmo stati rinchiusi in prigione. E non solo noi, ma anche le nostre famiglie”. I 5 egiziani, infatti, raccontano di essere riusciti a fuggire fino in Libia di nascosto: “Mia mamma ha venduto la casa per darmi i soldi per il viaggio”, circa 5mila dollari, a quanto si capisce incrociando i racconti: “Una volta arrivato a Tripoli, sono stato arrestato tante volte”, rivela Hassan abbassando lo sguardo. Ricorda che aveva fame, ma non c’era mai abbastanza cibo per tutti nei lager alla periferia della città libica più popolosa. Ricorda anche che la violenza era all’ordine del giorno: “È passato così tanto tempo da quando sono partito che alcuni della mia famiglia pensano che sia morto, altri hanno ancora speranza. La prima cosa che farò appena sbarchiamo sarà chiamare casa”, dice tutto d’un fiato, tanto che anche Yassin Ramadhan Afa, il mediatore culturale di Emergency, fa fatica a comprendere per tradurre dall’arabo all’inglese: “L’Egitto non è un paese sicuro”, sussurra. Dalle sue parole, si capisce che Hassan e i compagni, uomini all’apparenza in buona salute, maggiorenni fatta eccezione per Fakhir, sanno o almeno hanno sentito parlare delle novità in materia di politiche migratorie che il governo Meloni sta provando a mettere in atto negli ultimi mesi. Dall’intesa con l’Albania per deportare fuori dall’Unione europea i migranti che dopo tanta fatica e sofferenza arrivano a intravederne i confini alla volontà di definire sicuri Paesi che per molti degli abitanti non lo sono affatto. In modo da avere un appiglio legale per respingerli nel luogo da cui sono scappati. Che, però, come spiega Nicola Datena, avvocato e socio di Asgi, associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, tanto legittimo non è: “La nuova lista dei paesi sicuri, anche se adottata con un decreto legge, non risolve le criticità che hanno portato alla non convalida dei trattenimenti in Albania da parte del tribunale di Roma. Secondo le norme europee, un Paese può essere definito sicuro se è completamente sicuro, per tutti e in tutte le sue parti. La nuova lista stilata dal governo italiano, invece, ancora contiene Paesi, come Egitto, Bangladesh e Tunisia, che secondo le stesse informazioni utilizzate dal ministero non sono sicuri per intere categorie di persone e per interi gruppi sociali”. Così, per Datena, la decisione di far ripartire la nave Libra con i migranti a bordo verso i centri di Shengjin e Gjader ha solo l’effetto di aumentare il livello di scontro politico e istituzionale, “attraverso una sadica sperimentazione sulla pelle delle persone”. A pensare che il trasferimento in Albania delle persone soccorse non faccia altro che reiterare pratiche illegittime e che “ci pone di fronte a un nuovo capitolo dell’esternalizzazione delle frontiere che costerà oltre un miliardo agli italiani” c’è anche Davide Giacomino, dell’ufficio advocacy di Emergency. Come chiarisce, infatti, per la sua collocazione geografica, Shengjin, il porto deputato allo sbarco dei migranti che si trova nell’Albania del nord, non dovrebbe essere considerato “place of safety” per chi viene soccorso nel Mediterraneo centrale. Perché arrivarci significa costringere i naufraghi a un viaggio più lungo del necessario, posticipando la richiesta di asilo e l’accesso a servizi essenziali: “Inoltre una nave non è un luogo adatto per realizzare uno screening attento alle esigenze delle persone”, aggiunge per sottolineare che a bordo dell’imbarcazione della Marina militare è possibile fare solo un controllo approssimativo dei naufraghi. Proprio come è successo durante il primo viaggio della Libra, quando 4 dei 16 migranti individuati come idonei per l’Albania sono stati fatti tornare in Italia. Stesso destino che probabilmente toccherà anche agli otto migranti deportati con l’ultima spedizione e che attendono la decisione sulle convalide. “Ma è la stessa logica di dividere i migranti tra vulnerabili e no che contestiamo. Perché tutte le persone soccorse in mare, in quanto naufraghe, dovrebbero essere considerate vulnerabili e raggiungere un luogo sicuro nel minor tempo possibile”, conclude Giacomino. Consapevole, ancora di più vista la sua professione, dei vissuti difficili e della sofferenza provata dalle persone che trovano il coraggio di attraversare il Mediterraneo centrale, la rotta più letale al mondo, secondo le Nazioni Unite: “Quando sono partito ancora non si parlava dell’intenzione dell’Italia di portare i migranti fuori dall’Europa. Ma anche se l’avessi saputo sarei partito lo stesso. Ho paura, certo, ma per me è l’unica possibilità per avere una vita. Sono disposto a tutto per non perderla”, taglia corto Hassan. Se la politica si riduce a scontri tra ultras di Luca Bottura La Stampa, 10 novembre 2024 Tra chi minimizza la portata degli scontri di Amsterdam, quelli che Netanyahu ha definito un Pogrom, qualcuno li derubrica a una “questione tra ultras”. Ma c’è un problema: è vero. E ce n’è un altro: constatarlo, non significa minimizzare. Perché gli ultras, nello specifico, non erano lì a menarsi. Spiego. In rete girano diversi video dell’accaduto. Alcuni documentano le provocazioni dei tifosi israeliani, i cori a favore della strage di bambini, le bandiere palestinesi strappate. Altri, la caccia all’uomo che ne è seguita, di cui non possiamo identificare con certezza un rapporto causa-effetto. Gli ebrei sono sempre stati un nemico comodissimo, non è dato sapere se la gazzarra innescata dal pallone figliasse dalla cronaca di Israele o dalla Storia, infinita, dell’antisemitismo. Ma c’è una clip che sostiene il ragionamento, spero non troppo contorto, in cui vorrei essere seguito. La partita è appena finita, gli incidenti sono di là da venire, un ragazzo olandese, sostenitore dell’Ajax, sta commentando la gara a favore di telecamera. Interno stadio, la gente sfolla. Il tifoso, calmissimo, spiega che nel primo tempo il match è andato così, nel secondo cosà… un signore di mezza età, lo sguardo spiritato, ottunde la camera con la sua sciarpa del Maccabi. Il ragazzo lo guarda abbastanza sbigottito e prosegue a parlare di pallone. Il tizio lo ammonisce: “Niente politica qui! Non si parla di politica!”. Il ragazzo si giustifica, senza perdere il controllo: “Sto parlando di calcio”. Quello continua, sempre più aggressivo. All’improvviso, il tifoso dell’Ajax comincia a scandire: “Free, free Palestine!”. Più volte. Arriva la moglie del tifoso israeliano, entrambi lo insultano sempre a sincrono. Sono in tre, sembrano due curve. Domanda: quel ragazzo è un ultrà? No, lo è diventato in risposta. I due signori che l’hanno aggredito sono ultrà? No, e per fortuna: la curva del Maccabi è, non da oggi, un ricettacolo dell’estrema destra, ma la coppia non ha l’età né le physique du rôle per appendersi alle ringhiere di uno stadio. Partirebbe almeno un femore. Le dinamiche che si ritrovano a rappresentare, però, derivano da un problema infinitamente più grave: gli ultrà sono quelli che li hanno spediti fin lì a scontrarsi. Coloro hanno trasformato definitivamente la democrazia occidentale nella caccia al consenso, alla propria sopravvivenza politica, col risultato che la pancia della gente, prima o poi, conclude il lavoro di digestione ed emette residui organici. Che la democrazia illiberale avanzi ad ampie falcate è un dato di fatto. In Italia ne abbiamo creato la versione light, ai tempi di Berlusconi, che trasformò la base democristiana del Paese - conservatrice nel senso vero del termine, mentre oggi i conservatori vogliono restaurare ciò che non è mai esistito, meglio se coi manganelli - in uno spalto privo di senso della realtà. Sovrapponendo, per dirne una, Berlinguer a Stalin. Tra le varie analisi (tutte corrette) sul trionfo di Trump, ce n’è una che ci riporta tutti in curva. Nella mia preistorica esperienza di cronista sportivo, capitò di dialogare con ultrà anche parecchio intelligenti. Ma quando si parlava di botte, la risposta era invariabile: “Abbiamo reagito”. Mai e poi mai avevano cominciato per primi. C’erano sempre un torto da vendicare, un onore da difendere, un conto da pareggiare. Eravamo partiti dallo sport come simulacro della guerra, siamo arrivati alla guerra che diventa simulacro del vittimismo sportivo. Che paga, eccome, soprattutto in termini di propaganda elettorale. Quanto avvenuto negli Usa vanta una sola e principale differenza rispetto alle avanzate populiste nel resto del mondo: gli Usa, a differenza per esempio dei Paesi ex comunisti, non vengono da una dittatura. Ed è il dato più pericoloso, il - direbbero loro - game-changer. Con tutto che i protagonisti sono gli stessi: da Putin a Musk, di cui finalmente si intuiscono le reali intenzioni all’atto di acquisire Twitter, passando per i loro pallidi soldatini di qua dalla ex cortina di ferro. Ma pensare di opporre a Trump, alle sue balle reiterate contro le squadre avversarie, gli inviti alla concretezza, ai programmi, alla volontà della gente, significa non aver compreso i termini del problema. Che è sistemico, non politico. Benjamin Netanyahu ha sfruttato in senso vittimistico i fatti di Amsterdam: perché fa politica, interna ed esterna, come un ultrà. Hamas ha sfruttato l’assedio israeliano per imporre una logica ultrà, liberandosi dell’Anp. Perché gli ultrà sono anti-sistema, a meno che non sia il loro. Putin, come gli ultrà, guida la sua curva guadagnando dal merchandising e ricattando la società (il globo su cui nostro malgrado giriamo). E l’informazione che racconta tutto questo, sempre più spesso, in Italia quasi sempre, è composta da ultrà: per guadagnare denaro e potere. Nel momento in cui siamo stati ficcati in una grande curva, che non si svuoterà a breve, quel che ci resta è un piccolo atto forse solo apparentemente nichilista. Guadagnare l’uscita di sicurezza e lasciare lo spettacolo ad altri. Con atti personali che passino attraverso libero arbitrio, laicità, abbandono dei riflessi condizionati. Riconoscendo gli estremisti per convenienza, anche e soprattutto quando si nascondono dietro una grisaglia di credibilità. Kurt Vonnegut diceva: “Quando siete felici, fateci caso”. In questi tempi bui, è un consiglio d’oro. Ne aggiungo un altro, piccino: “Quando vi mettono una sciarpa da ultrà addosso, fateci caso. E lasciatela a terra”. Messico. Carlos, Valentina e gli altri: una chance per i bambini contro violenza e povertà di Paolo Foschini, nostro inviato Corriere della Sera, 10 novembre 2024 Laboratori per i giovani, Talent campus per futuri ingegneri, patto con Unicef fino al 2030. Qual è il futuro di un bambino che nasce in un Paese con 180mila morti ammazzati negli ultimi cinque anni, senza essere in guerra? Dipende. Siamo in Messico. Il piccolo Carlos fa le elementari e non risponde a domande noiose tipo quanti anni ha: sta dipingendo una macchinina coi suoi acquerelli e nessuno è concentrato quanto un bambino che gioca. In un’aula accanto c’è Valentina, poco più grande, che illustra il test con cui lei e il suo gruppo hanno confrontato l’aderenza di un modellino su differenti superfici. Uno dei suoi compagni ha appena accompagnato alla chitarra (“sì, con la dodici corde ho iniziato qui”) un coro di giovanissimi in una canzone sull’amicizia. Forse un giorno saranno anche loro come Nancy Hernandez che oggi di anni ne ha 21 e con una borsa di studio in ingegneria dei materiali ha inventato un affarino di gomma - semplicissimo, ma è facile dirlo dopo - per velocizzare di alcuni secondi l’assemblaggio di un motore: se vi paiono pochi moltiplicateli per le 450 auto al giorno prodotte nell’impianto in cui quell’aggeggio è stato poi adottato, tra 700 robot che fan volteggiare intere scocche come foulard, e capirete che la faccia fiera di Nancy qualche ragione ce l’ha. Sono ragazze e ragazzi come lei a frequentare il Talent Campus che Bmw gestisce dal 2019 (mille internship in accordo con 30 Università) accanto al suo stabilimento di San Luis Potosi, un milione di abitanti a un’ora di volo da Mexico City. E dallo scorso aprile sono duecento bambini come Carlos a fare i compiti e giocare-imparando nello Science Lab aperto a Villa de Reyes, nella stessa area, in collaborazione con la ong Pauta (“Progetto adotta un talento”) e grazie al patto tra l’azienda tedesca e il Club de Niños y Niñas, che di minori in tutto il Messico ne segue 5mila. Peraltro molti di più, tra bambini e adolescenti, saranno quelli raggiunti tramite la partnership “Bridge” che Bmw ha stretto con Unicef fino al 2030: per formare specie nelle materie Stem 10 milioni di giovani non solo in Messico (dove il target è 26mila studenti più 4mila prof in 180 scuole entro il 2026) ma in Sudafrica, Tailandia, India e Brasile. “Perché oggi - sottolinea Ilka Horstmeier, venuta a San Luis dalla Germania per portare ai Responsibility Days 2024 la voce del board Bmw di cui fa parte - un’impresa non si misura sul massimo profitto, ma sul valore aggiunto con cui contribuisce al benessere della società”. Sfida elevata al cubo in un Paese in cui i cartelli della droga sono il quinto datore di lavoro con oltre 160mila “dipendenti” (dati Acled - Armed conflict location and event data), il 36% della gente vive sotto la soglia di sussistenza (Statista research) e Claudia Sheinbaum, prima presidente donna del Messico, ha appena chiesto al Parlamento di inserire almeno in Costituzione la parità di genere visto che il 70% delle 4 messicane su 10 con un impiego (vedi Imco - Instituto mexicano de competitividad) guadagna comunque meno del salario minimo degli uomini. Chiaro che in questo contesto approdare a una delle opportunità formative su cui Bmw ha investito soldi e progetti in sinergia con lo sviluppo dell’impianto di San Luis (3.700 dipendenti, età media 32 anni e 23% di dirigenti donne, “ma siamo all’inizio e col lead program destinato a loro - dice il direttore Daniel Boehringer - saranno sempre di più”) è una svolta di vita. Oltre a quanto detto finora c’è il sostegno alle centinaia di studenti della Colonia Juvenil e del Conalep, il Colegio nacionàl de educaciòn profesional. Sempre con prospettiva di assunzione dei migliori all’interno del gruppo. “L’educazione - ripete Mauricio Mier, presidente del Club de Niños y Niñas - è il passo centrale per una cultura di non violenza individuale e collettiva”. E il rappresentante di Unicef Mexico, Fernando Carrera Castro, ricorda che “non c’è investimento più sicuro di quello sui bambini: zero rischi, ritorno garantito”. “Il nostro scopo - insiste Ilka Horstmeier - non è alimentare populismi ma proporre soluzioni per avere crescita economica unita a sostenibilità ecologica e responsabilità sociale: un mondo fatto di bolle di benessere è il contrario di quel che serve, mentre la parola chiave è collaborazione. Lavorare insieme. E su progetti a lungo termine, come quello con Unicef che non a caso ha per orizzonte il 2030”. E a chi le chiede se in questo senso le imprese possano fare oggi il bene del mondo più di governi con orizzonte fermo alle prossime elezioni risponde con un sorriso: “Questo l’ha detto lei”.