Dietro le sbarre si misura il livello di civiltà di un Paese di Giacomo Galeazzi interris.it, 9 maggio 2024 Su carcere e salute è intervenuto al convegno all’università Lumsa il Garante dei detenuti: “Dall’inizio dell’anno 4.283 atti di autolesionismo, 32 suicidi e 668 tentativi di suicidio”. L’appuntamento scientifico, coordinato dalla professoressa Letizia Caso (associato di Psicologia sociale e giuridica, Università Lumsa), è stata un’occasione di incontro tra discipline diverse. È sempre più evidente l’urgenza di ragionare sulle istanze di fragilità che attraversano la popolazione dei detenuti. Tenendo presente le peculiarità e gli strumenti che contraddistinguono gli istituti penali per adulti e per minori. Tra i temi discussi l’intervento con adulti e minori autori di reato. Il primo contributo scientifico del Centro di ricerca sui sistemi sociali e penali “Diritto alla speranza”. Il Das è stato recentemente costituito nell’ateneo romano e diretto dal professor Filippo Giordano (ordinario di Economia aziendale). Si tratta di una iniziativa nata dall’esigenza di un ampio confronto sul tema del diritto alla salute. E sui profili di maggior criticità rilevati nella sua realizzazione all’interno degli istituti penitenziari. Particolarmente rilevanti gli interventi di Felice Maurizio D’Ettore (presidente del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale). E di Claudia Clementi (direttore Casa Circondariale Regina Coeli di Roma). “I detenuti presenti nei nostri istituti in questo momento sono 61.356. La capienza regolare è di 51157 posti. E i posti regolarmente disponibili sono 47.247 - afferma D’Ettore. L’indice di affollamento è 129,86. In alcuni istituti quest’ultimo dato è molto più altro, purtroppo. Gli atti di autolesionismo dall’inizio dell’anno sono 4283, +177 rispetto allo scorso anno. I suicidi sono 32, i tentati suicidi 668?. Emergenza - “Le aggressioni fisiche al personale di Polizia Penitenziaria sono 666 dall’inizio dell’anno, quelle al personale amministrativo 27 - prosegue D’Ettore-. Stiamo andando verso le mille aggressioni. Questi sono tutti dati che dimostrano quanto c’è da fare, ma allo stesso momento quanto si sta facendo con le risorse attuali. In questo momento c’è una situazione di difficoltà all’interno degli istituti, combattuta e attenuata dalle persone che vi operano e che però ha bisogno di un’implementazione di risorse molto importante. Per avere la medicina penitenziaria ci vogliono le risorse”. Ora, aggiunge D’Ettore, “il Dap sta tentando, attraverso il ministero della Sanità, di supplire ad alcune carenze che ci possono essere sui territori regionali”. E racconta: “Io vado a parlare con presidenti di Regione per cominciare a trovare delle soluzioni. In Campania, Veneto, Calabria, ora vedremo se anche nel Lazio e altre, stiamo proponendo una serie di protocolli. Non vogliamo sostituirci al Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ndr), ma qualche stimolo ogni tanto può essere utile. Ci sono dei protocolli che addirittura il procuratore della Repubblica di Napoli, Nicola Gratteri aveva proposto con le Asl locali nel tentativo di affrontare il disagio psichico, non solo la malattia, anche il disagio”. Regina Coeli - “Stiamo aspettando che il parere del Dap su questi protocolli, ma nel frattempo alle regioni li proponiamo, perché penso che sia opportuno arrivare ad una soluzione. Così come, stiamo proponendo al ministero della Sanità di dare delle prestazioni che si aggiungono a quelle delle regioni che si sono rese disponibili- afferma il Garante dei detenuti-. La malattia diventa una problematica più ampia con la situazione di detenzione e il diritto alla salute, sancito dall’articolo 32 della Costituzione, vale per tutti, quale che sia la condizione del soggetto. Un tema che non è compreso facilmente”. Claudia Clementi è il direttore della Casa Circondariale “Regina Coeli” di Roma: “Oramai c’è una situazione di disagio e di patologia mentale molto diffusa. L’area del disturbo è così elevata, ovviamente per chi è detenuto si associa a tutta una serie di altre difficoltà, che oramai il carcere non può essere più la risposta unica a queste situazioni. È vero che i detenuti sono soggetti, in custodia cautelare o che hanno commesso dei reati e quindi debbono giustamente scontare una pena, però in alcuni casi la problematica relativa al disturbo mentale, pur non determinando un’incapacità d’intendere e di volere, prevale sulla commissione del reato”. Collaborazione - La storia del carcere di Regina Coeli è un episodio curioso dell’urbanistica romana. Fu costruito al posto del quartiere residenziale previsto dal Piano Regolatore del 1873, in una posizione “fuori porta”, che in pochi anni sarebbe divenuta centralissima. Era abitudine delle suore recitare ad un’ora fissa il “Regina Coeli” - da cui derivò appunto il nome dell’Istituto penitenziario - ricordato dall’immagine della Madonna nella Rotonda principale. Il carcere venne aperto nel 1890. Precisa Clementi, “oggi l’unica cosa che si può fare è dare una risposta integrata che preveda una collaborazione tra le varie professionalità. Quella degli operatori penitenziari e quella degli operatori sanitari”. A volte “noi non conosciamo i dati sanitari dei detenuti, perché a causa della normativa sulla privacy, non sappiamo quali sono le persone all’interno dei nostri istituti che hanno dei disturbi diagnosticati e chi sono le persone che assumono terapie prescritte dagli psichiatri. Non sappiamo quali sono e quanti sono i detenuti che risultano tossicodipendenti. E quando parliamo di dipendenze oggi, non parliamo di quelle tradizionali, ma di polidipendenze, da sostanze che non sono ancora classificate. Oggi c’è l’allarme fentanyl e siamo tutti preoccupati per questa cosa”. Disagio - “Ma non è solo questo, ci sono tante altre situazioni dove il disturbo si assomma a disturbo e il disagio si assomma a disagio - sottolinea Clemente. Io dico sempre una frase: per molte delle persone che sono in carcere, la commissione del reato è l’ultimo dei problemi. A Regina Coeli c’è una forte attenzione sulla sanità in carcere. Ci sono molti professionisti sanitari, certo sempre meno rispetto a prima perché la carenza di risorse esiste per tutte le amministrazioni a vari livelli, ma ci sono strumentazioni diagnostiche. E c’è la vicinanza a strutture esterne d’eccellenza del territorio romano. Quindi è un’esperienza che, seppur a volte connotata da una difficoltà di dialogo perché capita di ‘parlare lingue diversè. Avendo obiettivi comuni e grazie alla buona volontà di tutti consente di superare le complicazioni. Ma ci sono situazioni che non possono essere trattate in un ambiente come quello del carcere. Hanno bisogno di altre strutture”. Suicidi, il ministero risponde agli avvocati di Bologna. Ma basta? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 maggio 2024 Il ministro della Giustizia, tramite una nota del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha risposto alle preoccupazioni dell’Ordine degli Avvocati di Bologna riguardo alla tragedia dei suicidi, in particolare quello di una donna detenuta nel carcere La Dozza della città avvenuto nel mese di marzo. Nella nota, il Ministero ha sottolineato l’attenzione data al problema e le azioni intraprese per affrontare l’emergenza umanitaria nei penitenziari italiani. Tuttavia, l’Ordine degli Avvocati di Bologna ha ribadito che le misure attuali potrebbero non essere sufficienti per risolvere il problema in modo completo e duraturo. Come già riportato dal Dubbio, nel marzo scorso, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna ha denunciato con forza le inaccettabili condizioni in cui versano i detenuti del carcere La Dozza di Bologna, una struttura originariamente progettata per metà degli attuali ospiti. Si tratta di individui vulnerabili, spesso afflitti da patologie psichiatriche e tossicodipendenze, lasciati senza alcun supporto né speranza di una vita migliore, né dentro né fuori dal carcere. Una denuncia che il Coa bolognese ha diffuso con un comunicato rivolto a tutte le autorità, dalla magistratura di sorveglianza al ministero della Giustizia, evidenziando l’urgente necessità di un intervento concreto per affrontare la crisi umanitaria nelle carceri. Il ministero della Giustizia ha risposto alle preoccupazioni sollevate dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna. La nota del Dap fornisce un’analisi dettagliata sul fenomeno del suicidio in carcere e sulle strategie messe in atto dall’Amministrazione per prevenirlo. Il suicidio è un problema complesso influenzato da molteplici fattori, come evidenziato dal Dap. Per affrontare questa sfida, il Dipartimento ha implementato una serie di misure, tra cui un approccio multidisciplinare coinvolgendo personale di diversi reparti, la formazione del personale sulla prevenzione del suicidio, protocolli per la gestione dei casi a rischio, e la collaborazione con enti esterni come le autorità sanitarie e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Inoltre, sono stati aumentati i finanziamenti per i servizi psicologici, dimostrando l’impegno del Dap nel migliorare costantemente i propri sforzi di prevenzione del suicidio. La nota del Dap sottolinea che ulteriori iniziative sono in corso, come la collaborazione con il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi per sviluppare un nuovo strumento di valutazione del rischio e con il Ministero della Salute per implementare soluzioni condivise di prevenzione del suicidio. Il Dap ha contattato diverse istituzioni, tra cui il Consiglio Nazionale Forense e l’Ispettore Generale dei Cappellani Carcerari, per coinvolgerli negli sforzi di prevenzione del suicidio. Nonostante l’impegno del Dap, l’Ordine degli Avvocati di Bologna ha espresso profonda preoccupazione per l’aumento esponenziale dei casi di suicidio all’interno degli istituti penitenziari, definendolo una “vera e propria tragedia umanitaria”. Nella lettera di ringraziamento al ministro Carlo Nordio, il Coa ha sottolineato la drammatica situazione di sovraffollamento, con una media nazionale del 130%, ben oltre la soglia che nel 2013 portò alla condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti inumani e degradanti. Gli avvocati bolognesi hanno posto in dubbio l’efficacia delle misure annunciate dal Ministro, come la creazione di gruppi di lavoro, l’assunzione di nuovi agenti di polizia penitenziaria e la maggiore sensibilizzazione del personale carcerario. Pur apprezzando gli sforzi, ritengono che siano necessari interventi strutturali e immediati per scongiurare ulteriori tragedie. La lettera richiama il guardasigilli al suo dovere di tutelare le garanzie costituzionali e i valori universali di libertà e dignità umana. Si sottolinea la necessità di contrastare la deriva populista nel diritto penale, che rischia di trasformare le carceri in luoghi di sofferenza intollerabile. Esorta il ministro a un’azione immediata e concreta per garantire condizioni di vita dignitose ai detenuti, a partire da un aumento dello spazio vitale all’interno delle carceri. Si invoca un cambio di rotta che ponga al centro la tutela dei diritti umani e la rieducazione dei condannati, come previsto dalla Costituzione. “E allora, Sig. Ministro - scrive il Coa - davvero non si creda che, specie qualora non sia possibile assicurare già nel breve periodo il rispetto del precetto Costituzionale, allora misure di clemenza o forme di detrazione di pena per effetto di buona condotta, possano essere considerate una resa dello Stato, come recentemente abbiamo potuto sentire dalle Sue stesse parole”. Infatti, come ben sottolinea l’avvocatura bolognese, la cultura giuridica liberale, alla base del nostro sistema democratico, non può cedere alle pressioni populiste che vorrebbero trasformare la pena in vendetta pubblica. La lettera degli avvocati bolognesi rappresenta un monito forte e chiaro alle istituzioni affinché si intervenga con urgenza per porre fine alla tragedia dei suicidi in carcere. Il rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali non può essere sacrificato sull’altare del populismo o della mera gestione dell’emergenza. Tra penalisti e Anm è scontro sulla proposta di legge Giachetti di Angela Stella L’Unità, 9 maggio 2024 Disappunto dell’Unione Camere Penali per la decisione dell’Associazione nazionale magistrati di non aderire a un documento comune per sollecitare il governo a intervenire sull’emergenza carceri. “Ci sono questioni fondamentali sulle quali la visione della magistratura intera dovrebbe convergere. I diritti e le garanzie dei detenuti e delle persone private della libertà - rileva l’Ucpi - non dovrebbero conoscere distinzione alcuna. Di fronte alle condizioni di vera e propria illegalità nella quale sono costretti a vivere e a morire i detenuti delle nostre carceri, chi si erge a tutore della legalità non dovrebbe avere dubbi nel chiedere alla politica e al governo l’adozione di rimedi urgenti per ricondurre la situazione nei limiti di una condizione di tollerabile sopravvivenza”. Il riferimento è alla proposta di liberazione anticipata speciale del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, elaborata insieme all’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino. Da quanto appreso, le motivazioni addotte dalla Giunta dell’Anm - la cui discussione è partita dalla valutazione degli esiti del convegno organizzato da Radio Radicale e dal titolo “Senza dignità” dove sono intervenuti il Ministro Nordio, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia e il presidente dell’Uci Francesco Petrelli lo scorso 23 aprile per non sottoscrivere il documento sono le seguenti: le loro posizioni sono state già espresse in un documento del Cdc, in cui si faceva la sintesi delle diverse sensibilità all’interno del ‘sindacato’ delle toghe diviso tra i reazionari di Magistratura Indipendente e i progressisti di Area e Magistratura democratica. Inoltre alcuni hanno proposto di scrivere un nuovo testo da proporre all’Ucpi - anche privo di riferimenti alla liberazione anticipata -. Altri invece hanno criticato aspramente la proposta dei penalisti italiani perché tutta focalizzata sulla decompressione del fenomeno del sovraffollamento carcerario solamente attraverso l’istituto della liberazione anticipata speciale, quindi non facilmente modificabile. L’Inps nega la Naspi ai detenuti disoccupati: basta con questa insopportabile discriminazione di Silvia Gariboldi* e Ivan Lembo** Il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2024 Garantire la dignità del lavoro delle persone detenute, sia che questo si realizzi alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria sia che venga svolto per aziende esterne. Favorire la piena attuazione dell’art. 27 della Costituzione, che attribuisce alla pena una funzione rieducativa. Questi gli obiettivi che caratterizzano, da oltre 30 anni, l’azione della Cgil, sulle questioni che segnano la condizione delle persone ristrette. In questa ottica si inserisce la vertenza che da qualche anno il sindacato ha aperto nei confronti dell’Inps che, a partire dal 2019, nega il riconoscimento della Naspi ai detenuti che prestano attività lavorativa per l’amministrazione penitenziaria. Due recenti sentenze del Tribunale di Milano dello scorso mese di aprile (n. 1335/2024 e n. 1895/2024) consolidano un orientamento giurisprudenziale a favore dei lavoratori su questo tema. I giudici milanesi sono stati chiamati infatti nuovamente a esprimersi in merito al diritto all’indennità di disoccupazione dei lavoratori ristretti, che prestano la loro opera in favore dell’amministrazione penitenziaria. Si tratta di lavoratori che svolgono, a rotazione, funzioni essenziali per la vita quotidiana del carcere, quali addetti alle pulizie, cuochi, manutentori, addetti alla consegna delle medicine e di altri beni necessari, ecc. Il trattamento di disoccupazione è riconosciuto a tutti i lavoratori dipendenti, che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione e che presentino congiuntamente i seguenti requisiti: a) siano in stato di disoccupazione involontaria (ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. c), del D. Lgs. n. 181/2000); b) possano far valere nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione almeno 13 settimane di contribuzione (art. 1, D.Lgs 22/2015). L’attività lavorativa prestata all’interno degli Istituti penitenziari è disciplinata dall’art. 20 dell’Ordinamento Penitenziario (Op) (D.Lgs 354/1975) che, tra l’altro, prevede che la stessa possa essere organizzata a turni e sulla base di graduatorie, per garantire a tutti i detenuti di lavorare. Accade pertanto che, tra un turno e l’altro, il detenuto si trovi in uno stato di disoccupazione involontario, del tutto simile a quello del lavoratore subordinato del mondo libero a cui sia scaduto il contratto a termine. In quest’ultimo caso, Inps riconosce pacificamente la prestazione poiché, correttamente, qualifica lo stato di disoccupazione che ne deriva come non determinato dalla volontà del lavoratore. Tuttavia, nonostante sia l’Op evidenzi la finalità rieducativa del lavoro e riconosca una serie di situazioni soggettive tutelabili del lavoratore detenuto, identiche a quelle del lavoratore libero, nel 2019 l’Inps, con un proprio messaggio, ha stabilito - diversamente da quanto riconosciuto fino ad allora e senza che fosse intervenuta una modifica legislativa - che non dovesse essere riconosciuta la prestazione di disoccupazione in occasione dei periodi di inattività tra un turno e l’altro. È in questo contesto che si inseriscono le sentenze di aprile, che confermano quelle altrettanto positive di dicembre 2023 (n. 4380/2023) e di novembre 2021 (n. 2718/2021), sempre del Tribunale di Milano, di maggio 2022 del Tribunale di Busto Arsizio (n. 238/2022) e quelle, ancora, di aprile 2024 del Tribunale di Siena (n. 42/2024) e di Firenze (n. 342/2024). I giudici, partendo dal presupposto della equiparazione del lavoro intramurario a quello libero - pena la violazione del diritto costituzionale di eguaglianza - affermano che sia la cessazione dello stato di detenzione, sia la cessazione di un turno di lavoro, per il meccanismo dell’avvicendamento previsto dai regolamenti penitenziari, realizzano quello stato di disoccupazione involontaria che giustifica la concessione dell’indennità. Non esistono, infatti, specifiche previsioni da parte della legge istitutiva della Naspi che escludano il riconoscimento della indennità ai detenuti. Nessun fondamento ha quindi la posizione assunta dall’Inps, secondo il quale il lavoro prestato per l’amministrazione penitenziaria ha carattere peculiare e non può determinare l’accesso all’indennità di disoccupazione. Tale conclusione è confortata anche dalla recente pronuncia della Cassazione del mese di gennaio 2024 (Sent. n. 396/2024) che, richiamata l’evoluzione della disciplina del lavoro penitenziario, ha evidenziato come lo stesso abbia perso i tratti della specialità che lo caratterizzavano all’origine, riconoscendo in favore dei lavoratori detenuti i diritti spettanti a tutti i lavoratori. Ricondotto, in generale, il lavoro del detenuto alle dipendenze del Dap nel novero dei comuni rapporti di lavoro, ed escluso che la cessazione del rapporto lavorativo possa considerarsi volontaria, la Corte afferma che “non consta alcuna ragione che renda il lavoro carcerario incompatibile con il riconoscimento nella Naspi in caso di perdita del primo”. Una diversa interpretazione comporterebbe, oltre ad una ingiustificata diversità di trattamento, la violazione degli articoli 35 comma 1, 38 comma 2, 27 comma 3 della Costituzione, che sanciscono, nell’ordine: la tutela del lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni” da parte della Repubblica; il diritto a che siano previsti e assicurati ai lavoratori “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia (…), disoccupazione involontaria”; che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La continua soccombenza non sta convincendo Inps a rivedere le proprie posizioni, mettendo fine ad una discriminazione insopportabile e ingiustificata. L’azione del sindacato su questo fronte non si fermerà, continuando a raccogliere le domande di Naspi tra i detenuti degli istituti penitenziari e presentando ricorsi a fronte di respinte ingiuste e immotivate. *Avvocata giuslavorista, collabora con Camera del Lavoro di Milano e Patronato INCA-Cgil **Responsabile Politiche Sociali Cgil Milano La gabbia del linguaggio nel carcere immobile di Luigi Travaglia* Il Manifesto, 9 maggio 2024 Parlare dietro le sbarre. All’interno e non oltre il carcere esiste un universo comunicativo dotato di regole proprie. Sono poche parole, sempre le stesse, inusuali e specifiche, inventate o storpiate, per la maggior parte sconosciute o prive di significato al di fuori delle strutture di detenzione. Dentro le mura esistono due modi di comunicare: il binario della comunicazione con gli agenti e quello della comunicazione tra detenuti. Due piani che si sovrappongono continuamente, paralleli ma mai convergenti. Nel primo caso, vige un implicito patto di riduzione formale del linguaggio che agisce come una regola dello svantaggio decisa in partenza. Questa è la lingua che qui si parla, questa è la lingua che devi imparare: una zona linguistica sospesa, un passo avanti al tu ed uno indietro al lei. È il formale informale, una via di mezzo dove non prevale mai né l’uno né l’altro, anche se l’impostazione con la quale ci si rivolge agli agenti è sempre preposta al lei. Quest’indeterminazione linguistica pone i detenuti in una posizione di subordinazione costante perché finto formale e finto informale, sommandosi si annullano a vicenda. Tendenzialmente il vocabolario del carcere è ristretto alla necessità di far funzionare quel tanto che basta la burocrazia penitenziaria. Le richieste, i bisogni e le necessità, si devono conformare alla modulistica, la quale tendenzialmente è poco generosa e non concede mai oltre le tre righe. L’universo comunicativo del carcere, ostinatamente nel 2024, raggira ed esclude le possibilità di comunicare con coerenza e dignità. La pochezza dei codici comunicativi imposti dall’alto ricade verso il basso: nella relazione tra reclusi la semplificazione concettuale per imitazione è sovrana. In mancanza di alternative si segue ciò che è preposto all’efficacia; i detenuti si adeguano. Se da un lato è vero che in cella una comunicazione schietta, diretta e colloquiale è necessaria per impostare subito i termini e le regole di una convivenza forzata, dall’altro lato è costantemente permeata dalle delimitazioni oltre le quali non c’è risposta ed è inutile farsi domande. Ci si abitua a non poter esprimere i propri disagi perché mancano gli strumenti lessicali che dovrebbero essere garantiti dall’alto dei canali istituzionali preposti. Il risultato di questa mancanza è che in cella la maggior parte delle volte che una conversazione accenna ad argomenti esterni al burocratese carcerario è vista con sospetto e diffidenza. Il primo tabù comunicativo è l’emotività, tagliata fuori in quanto incomprensibilmente complessa. La catena che dovrebbe portare un detenuto verso uno psicologo si spezza nel momento in cui tra i due si frappongono moduli, domandine, attese e silenzi. Escludendo lo spazio e l’organizzazione per le parole necessarie, il linguaggio del carcere omogeneo e trasversale riproduce giorno dopo giorno schemi inefficaci. Questo stato delle cose è garantito dal privilegio anomalo di poter essere un apparato della Repubblica che sembra seguire logiche e regole irrazionali ma ben accette. Irresistibilmente lento, complesso e oscuro, il carcere deve essere riformato. In un paese dove non si scuotono le fondamenta della parola carcere mentre il resto della società è investita da una trasformazione radicale, il progresso al quale possiamo aspirare resta chiuso a chiave in un cassetto. *Luigi Travaglia è un nome di fantasia dietro il quale si nasconde uno dei 61mila detenuti nelle carceri italiane. La giustizia smembrata dalle carriere separate di Donatella Stasio La Stampa, 9 maggio 2024 Il cuore della riforma Nordio non ridurrà la durata dei processi né diminuirà gli errori. Censure in Rai e fuori, manganelli, accuse agli organi di controllo: la regola è il corpo a corpo. Quando una battaglia giuridica si fa politica è necessario che la polis, la cittadinanza, ne comprenda il senso e prenda posizione. La battaglia in questione è quella sulla separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, vecchia di più di 40 anni, portata avanti da una parte degli avvocati penalisti in nome della terzietà del giudice, cavalcata nell’ultimo trentennio in chiave punitiva prima da Silvio Berlusconi, poi da Matteo Salvini e ora da Giorgia Meloni detta Giorgia. Ed è a questo punto della storia che la battaglia si fa più politica, perché, al di là del ribaltamento dell’attuale assetto costituzionale della magistratura, si inserisce in un disegno riformatore dell’architettura costituzionale, in cui il potere è sempre più accentrato nelle mani di chi governa e i contrappesi vengono indeboliti, dimezzati, anestetizzati. Il gran fermento di riforme - si fa per dire - di questa stagione politica (premierato forte, autonomia differenziata, separazione carriere) impone di guardare ad esse non separatamente ma come parti di un tutto. Non perché ciascuna non presenti, di per sé, più di una criticità, ma perché la somma di tutte e tre mette a nudo l’idea di Paese (o di nazione) cara alla destra di governo: democratura o capocrazia, chiamatela come volete, fatto sta che siamo di fronte a uno svuotamento della democrazia costituzionale, che perderebbe proprio i suoi pezzi più qualificanti: il “ponte ideale” tra il Nord e il Sud, come lo ha definito il presidente della Repubblica Sergio Mattarella; i contrappesi al potere esorbitante del governo; la funzione di “garanzia” del pubblico ministero nel sistema della legge uguale per tutti. Ecco perché la separazione delle carriere non è più questione tecnica ma politica e interroga tutti quanti noi sulla democrazia che vogliamo. Sgombriamo subito il campo dall’argomento secondo cui con le carriere separate (che di fatto già lo sono, dopo la riforma Cartabia) e con un Csm non più a maggioranza togata e non più presieduto dal Capo dello Stato, oppure presieduto da un Capo dello Stato dimezzato (quale diventerà con l’approvazione del premierato), avremo una giustizia più giusta ed efficiente. Non sarà così. La riforma non ridurrà la durata dei processi, e neppure il ricorso alla custodia cautelare, non cancellerà gli errori giudiziari, non eviterà cadute deontologiche dei magistrati, non modernizzerà la macchina giudiziaria, non farà aumentare il personale oggi carente, non migliorerà la competitività del nostro Paese. Non esiste al mondo un sistema di giustizia perfetto. Anzi, come ricorda un grande giurista francese, Antoine Garapon, “giudicare in una democrazia è un’esperienza che esige un’elaborazione permanente del lutto di una giustizia perfetta”. La riforma porterà invece a un totale rovesciamento dell’attuale assetto della magistratura, voluto dalle madri e dai padri costituenti proprio per impedire un ritorno alla tragica esperienza del ventennio fascista, con giudici di fatto addomesticati dal regime e allineati allo spirito dei tempi. Gli avvocati italiani sono quasi 250mila e quelli iscritti alle Camere penali circa 10mila. Fatico a credere che, in una stagione politica come quella che stiamo attraversando, gli avvocati democratici non sentano l’urgenza, più che di separare le carriere di giudici e pm, di difendere l’essenza della nostra democrazia costituzionale. Anche a voler prescindere dalla più generale prospettiva di riforma in cui si inserirebbe la separazione delle carriere, un anno e mezzo di governo Meloni ci racconta già molto sul rischio concreto di una deriva antisistema (per non chiamarla autoritaria). Ce lo racconta la cronaca delle censure in Rai e fuori dalla Rai, della violazione dei regolamenti parlamentari e della leale collaborazione istituzionale, dell’uso dei manganelli, degli attacchi ai giudici indipendenti e di quelli, striscianti o espliciti, agli organi di garanzia e di controllo, dalla Consulta al Quirinale alla Corte dei conti e ai media. Purtroppo, non abbiamo una classe politica dirigente interessata al confronto, alla mediazione, al bilanciamento, ma soltanto a un corpo a corpo continuo. Gli avvocati democratici darebbero un segnale importantissimo se chiedessero, almeno, una pausa di riflessione sulla separazione delle carriere, proprio perché funzionale a una prospettiva di riforma generale dell’attuale equilibrio dei poteri, nella quale i controlli e i limiti all’azione delle maggioranze politiche rischiano concretamente di indebolirsi se non di sparire. Forse gli avvocati democratici hanno sottovalutato questo pericolo, sebbene per mestiere siano chiamati a difendere sempre i diritti e le libertà di tutti, a partire dalle minoranze, e perciò dovrebbero difendere anche la funzione “di garanzia” della magistratura tutta, compresi i pm. In un mondo che vede arretrare, con modalità inedite, le democrazie vecchie e nuove verso le autocrazie, gli avvocati democratici dovrebbero uscire dai loro studi professionali e fare come i loro colleghi israeliani, prima della guerra: svelare gli “inganni” delle riforme sulla giustizia lanciate dal premier Netanyahu, spiegarli ai cittadini comuni, e insieme a loro riempire le piazze per mesi e mesi per protestare contro quelle riforme, che alla fine sono state bloccate. Gli avvocati democratici dovrebbero fare quel che diceva nel 2014 un grande avvocato penalista, ormai scomparso, Marcello Gallo, e cioè “lavorare per una legislazione che non consenta sotterfugi, che non tolleri interpretazioni tali da condurre dall’assetto liberal-democratico a soluzioni apparentemente innocenti ma sostanzialmente ispirate alla logica dell’autoritarismo” Gallo, che fu anche senatore della Democrazia cristiana e presidente della commissione Bicamerale per i pareri al nuovo codice di procedura penale, disse anche di più ai suoi colleghi: “Mai come oggi la ‘necessità’ ci si presenta e ci costringe a prendere posizione. Ci costringe a uscire dall’adorata asetticità del mestiere di giuristi per affrontare quello che la mia generazione affrontò nel ‘43: la scelta di un futuro non solo per noi ma per tutto il paese”. Ecco, questa è la scelta che dovrebbero fare oggi gli avvocati democratici. E non soltanto loro. Ma io, pm controcorrente, insisto: separare le carriere non è l’Apocalisse di Gaetano Bono* Il Dubbio, 9 maggio 2024 L’Anm sbaglia a bocciare la riforma senza nemmeno leggere il testo: servono dialogo e un approccio laico, per evitare che le magistratura debordi nel campo della politica. Non condivido la posizione di quanti pregiudizialmente si oppongono a qualsivoglia ipotesi di separazione delle carriere, prospettando scenari apocalittici, come l’ineluttabile assoggettamento del pm al potere esecutivo, con correlata mutazione genetica in superpoliziotto. Quindi ritengo che sbagli l’Anm nel bocciare a priori la proposta di legge del Governo senza avere contezza del testo, che non è stato ancora presentato, in base a un indimostrato automatismo tra separazione e asservimento del pm al potere politico. I prospettati pericoli per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura - che io per primo avverto come estremamente seri - dipenderanno dal se e come le carriere verranno separate; ad esempio, non capisco perché essere contrari alla separazione se - limitando gli esempi ad alcuni dei requisiti a mio avviso irrinunciabili - il pm continuasse ad avere: indipendenza dall’Esecutivo, obbligatorietà dell’azione penale, terzietà e imparzialità rispetto alla polizia giudiziaria, cultura della giurisdizione, inamovibilità, governo autonomo, distinzione tra magistrati solo per diversità di funzioni. Occorrerebbe, dunque, un approccio laico che consentisse di vagliare con serenità le proposte di legge, analizzandone le singole disposizioni ed evidenziando gli eventuali effetti negativi. In mancanza di ciò, non ci si dovrebbe poi sorprendere se la riforma venisse ideata prescindendo dalle ragioni di chi è contrario alla separazione, ma propone come unica alternativa il mantenimento dell’unicità delle carriere. Eppure sarebbe un peccato la rinuncia al dialogo, e dunque alla possibilità per l’Anm di offrire il proprio contributo di tipo tecnico- giuridico. Ci tengo a sottolinearne la natura tecnico- giuridica, in quanto la ritengo l’unica possibile per la magistratura, onde non oltrepassare quella linea oltre la quale si sconfinerebbe in valutazioni politiche, che competono esclusivamente al Parlamento e al Governo; ma non per questo è da reputarsi meno prezioso il dialogo con i magistrati che, procedendo quotidianamente all’applicazione della legge, possono essere considerati degli interlocutori privilegiati per saggiare il funzionamento di istituti giuridici e gli effetti che deriverebbero da innovazioni normative. Non solo, ma la magistratura è portatrice di una qualificata sensibilità costituzionale e istituzionale, alla quale non si dovrebbe rinunciare in caso riforme aventi a oggetto quelle garanzie volte a preservare i valori costituzionali e l’equilibrio tra i poteri dello Stato. Pur condividendo la posizione dell’Anm sui prospettati rischi, tuttavia mi trovo in radicale contrasto su un punto essenziale, giacché io contesto la tesi della mancanza di alternative, e ritengo che si possa trovare un modo di realizzare la separazione delle carriere, che sia in linea con i principi e i valori della Costituzione e delle Carte sovranazionali. Siccome non mi piace essere assertivo nei ragionamenti, e siccome in questa sede non posso andare oltre per limiti di spazio, rinvio al mio libro “Meglio separate - un’inedita prospettiva sulla separazione delle carriere in magistratura”, edito da Lelettere, nel quale ho cercato di dimostrare che si può arrivare alla separazione, salvaguardando le attuali garanzie di autonomia e indipendenza della magistratura e la tutela giurisdizionale dei diritti, che anzi potrebbero essere ulteriormente rafforzate. Dunque sono sì favorevole, ma a determinate condizioni. Inoltre nel processo di riforma vedo un’opportunità per migliorare il sistema giustizia, qualora alla separazione si accompagnino ulteriori interventi (senza i quali sarebbe inutile) tra cui: maggiore specializzazione dei magistrati, riduzione dei procedimenti civili e penali, diminuzione dei tempi dei processi, accorpamento delle procure piccole in uffici più grandi ed efficienti, investimenti in infrastrutture fisiche e informatiche, incremento di magistrati e personale amministrativo. Quanto al ddl governativo, in attesa di conoscerne il testo, posso esprimere qualche valutazione su due delle cose che finora sembrerebbero punti fermi, ossia doppio Csm e concorsi separati. Sono favorevole ai due Csm, purché per ciascuno vengano mantenute sia le garanzie e le prerogative dell’attuale, sia la proporzione tra componente togata (due terzi) e laica (un terzo) dei consiglieri, trattandosi di condizioni indispensabili per assicurare l’indipendenza della magistratura. E sono d’accordo anche sui concorsi separati, che potrebbero comportare una preparazione specifica per le diverse funzioni requirenti e giudicanti, prodromica a quello che, secondo me, costituirebbe uno dei maggiori vantaggi derivanti dalla separazione, ossia una maggiore specializzazione delle professionalità di giudice e pm, che è indispensabile per fronteggiare le sempre più ardue complessità derivanti dal progresso tecnologico e dai mutamenti sociali. *Sostituto procuratore a Caltanissetta L’azione dei pm, l’opposizione dell’Anm alla riforma Nordio: a voi l’intreccio pare normale? di Francesco Damato Il Dubbio, 9 maggio 2024 Il rischio che le vicende penali condizionino il legislatore si aggiunge all’egemonia dei magistrati nei ministeri. Come per le guerre all’estero e le loro connessioni, chiamiamole così, per esempio fra Ucraina e Gaza, così per le guerre interne, pur senza il sangue delle altre, rischiamo di perderne il conto. Stavo leggendo le cronache giudiziarie dalla Liguria, con l’arresto del governatore Giovanni Toti e tutto il resto - e riflettendo sui curiosi tempi di una, anzi più indagini avviate quattro anni fa, che hanno sorpreso anche un esperto come il ministro della Giustizia ed ex magistrato Carlo Nordio - quando sono stato raggiunto dalla notizia dell’incontro fra lo stesso Carlo Nordio e il presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati Giuseppe Santalucia sulla riforma della giustizia in cantiere fra Palazzo Chigi e via Arenula. Essa prevede di sicuro la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, la divisione del Consiglio superiore in due sezioni, un’Alta Corte per i procedimenti disciplinari riguardanti tutte le magistrature, che ora vi provvedono direttamente e da sole, forse anche un intervento sulla obbligatorietà dell’azione penale sancita dalla Costituzione. Con una franchezza in ogni caso apprezzabile, da preferire a frasi e formule ambigue, il presidente del cosiddetto sindacato delle toghe ha dichiarato di avere annunciato al ministro una “opposizione culturale e costituzionale” della sua categoria. Una opposizione cioè politica - “non sindacale”, ha riconosciuto Santalucia - alla riforma in arrivo come proposta del governo. Un’opposizione politica condotta in una sede non politica, non essendo l’Associazione dei magistrati un partito, né rappresentato in Parlamento né extra- parlamentare. Tanto alla Camera quanto al Senato, l’Associazione dei magistrati si affida evidentemente al sostegno che la sua opposizione riuscirà a trovare, o meritarsi, nei e fra i gruppi parlamentari. Se tutto questo sia regolare o opportuno francamente non so. È sicuramente ordinario, entrato cioè nelle abitudini consolidate, aggravate dalla circostanza che i magistrati hanno di avere, dietro l’apparenza della estraneità, sostanzialmente una doppia rappresentanza, indiretta e diretta. Indiretta con la pratica appunto dei collegamenti con i partiti e rispettivi gruppi parlamentari, diretta con il notissimo distaccamento di tante toghe presso uffici del governo, ministeri e quant’altro, dove si confezionano i disegni di legge, i decreti legge, i decreti delegati eccetera, e dove si stendono anche le modifiche che maturano nel percorso parlamentare dei provvedimenti. Già messa così, la situazione appare, anzi è molto complessa, a dir poco. Ma essa diventa imbarazzante o inquietante, sempre a dir poco, quando l’annunciata “opposizione culturale e costituzionale” dell’Associazione dei magistrati a una riforma in gestazione, o a quelle già all’esame del Parlamento, si somma, s’intreccia, si contorce con una miriade di iniziative giudiziarie, più o meno clamorose che siano, dalla Sicilia al Piemonte, dalla Puglia alla Liguria e domani chissà dove. Iniziative che, condotte a carico dei politici e, più in generale, di una politica sospettata e accusata di banale o criminale commercio di favori, più o meno inevitabilmente si sovrappongono anche alle campagne elettorali, che non mancano mai, in un Paese in cui c’è sempre qualche organo rappresentativo da rinnovare. Quali sono - mi e vi chiedo - i rapporti fra queste iniziative, prese singolarmente o nel loro complesso, e l’opposizione di natura - ripeto - culturale e costituzionale, cioè politica e non sindacale, non solo esercitata ma ora anche rivendicata dal presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati? Che peraltro è alla viglia di un congresso al quale è stata assicurata la rispettosa presenza della politica ai livelli anche massimi del presidente della Repubblica e del ministro della Giustizia. La domanda che mi sono posto e vi ho girato come lettori nasce pure da un allarmato appello appena lanciato dal vice presidente della Camera Giorgio Mulè, di Forza Italia, ai politici di ogni colore a svolgere il loro mandato di parlamentari, e riformatori anche della Costituzione, senza lasciarsi intimidire dalle proteste di chi si sente colpito. Se non è una guerra anche questa, poco francamente le manca. “Mio padre prima vittima delle Br. La memoria non sia un’arma politica” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 9 maggio 2024 Silvia, la figlia di Graziano Giralucci, ucciso nel ‘74 nella sede dell’Msi di Padova: “Ho superato il rancore”. “Dopo cinquant’anni, di questa vicenda dovrebbero occuparsi gli storici e io dovrei sentirmi libera di andare a trovare mio papà al cimitero senza essere costretta a difendere la sua memoria dagli attacchi e dalle strumentalizzazioni”, dice con l’aria un po’ sconfortata Silvia Giralucci, che sta per compiere cinquantatré anni e ne aveva tre quando suo padre Graziano venne ucciso la mattina del 17 giugno 1974, insieme a Giuseppe Mazzola. Due militanti del Movimento sociale italiano assassinati nella sede del partito a Padova, nella centralissima via Zabarella; Mazzola aveva sessant’anni, Giralucci non ancora trenta. Furono le prime due vittime delle Brigate rosse, e oggi verranno celebrate nel Giorno della Memoria dei caduti nei cosiddetti “anni di piombo” insieme agli altri morti di quel drammatico ‘74: l’anno in cui la sovversione rossa si affacciò sulla scena nazionale dopo un quinquennio dominato dalle stragi nere, culminato con le bombe di Brescia e del treno Italicus (28 maggio e 4 agosto, 20 morti e 150 feriti). Ma anche a mezzo secolo di distanza ci sono vittime che è più faticoso di altre ricordare. Le strumentalizzazioni - “Per mio padre e Mazzola la strumentalizzazione è cominciata il giorno stesso in cui sono morti”, racconta Silvia, che condurrà la cerimonia al Senato, alla presenza del capo dello Stato: “Non sono state considerate due persone ma due fascisti, discriminati da chi li ha uccisi e da chi li spalleggiava, elevati a martiri dai loro camerati e amici. E dura ancora oggi, purtroppo”. È come se la figlia di Giralucci fosse costretta a vivere in una gabbia; ovviamente di quel duplice omicidio non ricorda quasi nulla, però è cresciuta dilaniata dagli affetti strappati e col peso di una diversità trasferita dal papà, assassinato perché si trovava in quella sede missina, a una memoria tuttora divisa e divisiva. Com’è successo di recente quando al Consiglio comunale di Padova - di cui Silvia ha fatto parte nella scorsa legislatura, eletta con una lista civica a sostegno del sindaco di centrosinistra - è stata presentata dal centrodestra la proposta di intitolare una via a Sergio Ramelli, lo studente del Fronte della gioventù assassinato a Milano un anno dopo, nel 1975, per aver ricordato in un tema scolastico i due morti di Padova: “C’erano delle remore, per certi versi anche comprensibili nel timore di nuove cerimonie faziose, e io ho provato a spiegare che comunque esisteva un legame tra quel fatto e la nostra città, ma da una consigliera del Pd mi sono sentita dire “per me le vittime sono altre”. Una frase inaccettabile e gravissima”. La verità negata - In via Zabarella, la targa del Comune in ricordo delle prime vittime delle Br che ad aprile dello stesso anno, a Genova, avevano rapito e tenuto sequestrato per un mese il magistrato Mario Sossi è incastonata accanto al portone del condominio, tra un’enoteca e un negozio di videogiochi. “Ma l’hanno dovuta cambiare perché a forza di ripulirla dalle scritte offensive si era consumata”, si rammarica Silvia Giralucci. E per appenderla al muro, togliendola dal palo dov’era fissata inizialmente, come fosse un cartello stradale, c’è voluto un bel po’ di tempo: “Una professoressa di liceo che abita lì mi disse che volevano salvaguardare il palazzo non per ragioni politiche, ma perché temevano che l’edificio e gli appartamenti perdessero di valore. Dopodiché aggiunse: “E poi siamo sicuri che siano state le Br?”. Capito? Una docente di storia di questa città”. All’inizio anche per i morti di Padova qualche giornale (non solo di estrema sinistra) scrisse di una possibile “faida interna” al Msi, una sorta di regolamento di conti nella città coinvolta nelle trame nere legate alle stragi. Le Br impiegarono quarantott’ore a rivendicare l’azione; scrissero di aver occupato la sede missina “fucina del terrorismo antiproletario” e “i due fascisti presenti, avendo violentemente reagito, sono stati giustiziati”. Un’esecuzione a freddo. Ma per alcuni quelle Brigate erano ancora “cosiddette rosse”. Solo quattro anni più tardi davanti alle immagini della strage di via Fani dopo il sequestro Moro, la mamma di Silvia trovò il coraggio di dirle: “Sono stati loro ad ammazzare tuo papà”. Lei aveva sette anni, e cominciò una lunga presa di coscienza durata decenni. Nei quali si sono celebrati pure i processi a esecutori e mandanti: “Uno degli assassini era morto in carcere, gli altri si dissociarono e ottennero i benefici di legge, ma io ricordo la rabbia che provavo a vederli arrivare a piede libero, alcuni anche con i genitori, mentre io e mia madre eravamo sole”. Curcio e la lettera - Tra i “concorrenti morali” dichiarati colpevoli c’è anche Renato Curcio, e quando nel 1991 il presidente della Repubblica Cossiga s’impegnò per concedergli la grazia, la figlia di Graziano Giralucci inviò al Quirinale una lettera di protesta. A oltre trent’anni dall’ultimo verdetto, tutti i condannati sono da tempo definitivamente liberi. “Lo considero normale in una società civile - commenta Silvia -, dove il carcere dovrebbe tendere a restituire i detenuti migliori di come sono entrati, cosa che purtroppo non avviene. E oggi quella lettera a Cossiga non mi rappresenta più; sono riuscita a superare il rancore grazie soprattutto al volontariato in carcere con il gruppo di Ristretti orizzonti. Con i detenuti ho parlato delle conseguenze dei reati che restano per sempre, del loro debito con le vittime che non si estingue scontando la pena, ricevendo un ascolto per la mia storia che fuori non avevo mai trovato. Questo ha contribuito a responsabilizzare loro e a cicatrizzare le mie ferite; l’ascolto può aiutare a lenire il dolore delle vittime più di qualsiasi pena inflitta al colpevole”. Un simbolo usurpato - Né aiuta - spiega la ex bambina che non ha potuto conoscere davvero suo padre, andando poi alla ricerca delle ragioni per cui ciò accadde attraverso la scrittura di un libro, L’inferno sono gli altri, sulla violenza politica degli anni Settanta - trasformare le vittime in eroi, branditi da una fazione perennemente in lotta contro un’altra. Anzi, a lei ha reso il fardello più pesante: “Si dava per scontato che io fossi di destra, forse immaginando che le idee politiche si trasmettono come il Dna, ma non è così. E io devo subire, ogni anno, i saluti romani e il tremendo rito del “Presente!” ostentato per lo più da ragazzi che sanno poco o niente di quella vicenda. Un martire sceglie di morire per una causa, mentre mio papà era tante altre cose, non solo un giovane militante del Msi, dal quale peraltro s’era distaccato su richiesta di mia madre, tornando a frequentare la sede per via della campagna referendaria contro il divorzio. Ormai faceva soprattutto altro, e aveva una bambina piccola che lo aspettava a casa dopo il lavoro. Tutti me ne hanno parlato come di un uomo pieno di altri interessi, giocatore e allenatore di rugby, sempre sorridente e allegro. Il modo e il luogo in cui è morto lo hanno inchiodato per sempre a un’idea politica, come se l’istante impresso su una fotografia rappresentasse un’intera vita, ma non è giusto”. “Persone, non simboli” - Le strumentalizzazioni, quindi, non sono solo di una parte: “Ridurre le persone a simboli e martiri serve a costruirsi un albero genealogico, a sentirsi a propria volta detentori di un credito. La logica del martire porta con sé quella del nemico, sono complementari, e così la memoria diventa un’arma da usare contro gli altri. Ma che cosa c’entriamo, io e mia madre, con tutto questo?”. Niente, si risponde Silvia Giralucci, emozionata e un po’ preoccupata per l’avvicinarsi del cinquantesimo anniversario: “Capisco che il mio cognome sia diventato anche un pezzo di storia d’Italia, ma certe celebrazioni io le vivo come un’usurpazione. Oggi servirebbe altro per omaggiare i caduti del terrorismo: una riflessione approfondita sulla violenza, su come si fa politica, sull’umanità degli avversari. Sarebbe ora, ma non so se sarà la volta buona”. Campania. Oltre 2.000 detenuti in eccesso e gravi carenze nell’assistenza sanitaria di Antonio Carlino cronachedellacampania.it, 9 maggio 2024 “Le carceri campane sono un’immagine impietosa della realtà detentiva italiana”, ha dichiarato Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Campania, presentando la sua relazione annuale. I dati snocciolati sono a dir poco sconcertanti: 7.573 detenuti a fronte di appena 5.645 posti disponibili, con un sovraffollamento che supera il 35%. Un dato ancora più preoccupante è la presenza di 2.706 persone che scontano pene inferiori ai due anni, spesso definiti “invisibili” dal sistema carcerario. Oltre al sovraffollamento, emerge una situazione drammatica per quanto riguarda la salute dei detenuti. Più di 1.400 persone soffrono di dipendenze da sostanze stupefacenti, spesso denunciate dai loro stessi familiari. Nonostante il lavoro del Sert di Poggioreale e Secondigliano, la situazione rimane critica, soprattutto nelle carceri dell’avellinese dove manca completamente la figura dello psichiatra. A questo si aggiunge la carenza di psicologi, psichiatri e mediatori linguistici, che contribuisce a creare un clima di tensione e frustrazione all’interno delle carceri. “Il tasso di suicidi nelle carceri è venti volte superiore a quello della popolazione libera”, denuncia Ciambriello. Un dato che, da solo, dovrebbe bastare a spingere le autorità ad intervenire con decisione. Il Garante punta il dito sulla magistratura e sulle direzioni carcerarie, chiedendo un maggiore impegno per gestire il sovraffollamento e migliorare le condizioni di vita dei detenuti. “Basterebbe poco”, sostiene Ciambriello, “senza bisogno di nuove leggi, per rendere le carceri luoghi più umani e meno disumani”. La situazione descritta da Ciambriello è un’emergenza che non può più essere ignorata. È necessario un intervento immediato e concreto per garantire i diritti fondamentali dei detenuti e tutelare la salute pubblica. Non si può più restare inerti di fronte a una realtà che rappresenta una vergogna per il nostro Paese. Siracusa. Suicida a pochi mesi dalla scarcerazione. Aveva 32 anni, soffriva di problemi psichici di Irene Carmina La Repubblica, 9 maggio 2024 La denuncia del Garante dei diritti dei detenuti: “L’ennesimo carcerato si toglie la vita, ma ai politici non interessa”. Un altro suicidio nelle carceri siciliane, il quarto da gennaio a oggi. Sabato pomeriggio un uomo di 32 anni, detenuto nel penitenziario di Cavadonna, a Siracusa, si è impiccato nella sua cella utilizzando un lenzuolo. Immediatamente soccorso da medici e infermieri che hanno tentato di rianimarlo per quasi un’ora, è stato trasportato al pronto soccorso dell’ospedale Umberto I di Siracusa, dove due giorni dopo è morto. L’uomo, che era affetto da disturbi psichici, a settembre avrebbe finito di scontare la pena detentiva. “Si conferma una tragica statistica che indica come periodo di maggiore criticità per i suicidi in carcere quello dei primi 5-6 mesi dall’ingresso in istituto e gli ultimi sei mesi prima dalla data di fine pena”, dice Giovanni Villari, Garante dei detenuti di Siracusa. La colpa, per il garante, è prima di tutto della politica: “Perché dovrebbe interessarsi dei detenuti? Non rientrano nelle loro mire politiche. Sono soltanto detenuti, non liberi cittadini”. Gli fa eco da Palermo Pino Apprendi, anche lui garante dei detenuti. “Ancora un giovane, un trentenne, in isolamento per malattia contratta in carcere per mancanza d’igiene, si è tolto la vita. Siamo a 35 suicidi dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane. E intanto la politica si affanna a cercare consenso elettorale senza mai sfiorare il tema dei diritti umani e del diritto alla salute delle persone in carcere”. Nella Casa circondariale di Siracusa, sono attualmente ospitati 696 detenuti, a fronte di 545 posti. I nuovi ingressi sono circa mille ogni anno, mentre il personale di polizia penitenziaria è sotto organico di venti unità. La situazione del carcere di Siracusa riflette quella italiana. “Al 31 marzo, nel nostro Paese ci sono 61.050 detenuti, di cui 2.620 donne, per una capienza complessiva nei 189 istituti di pena, di 51.180 detenuti - osserva Villari - Questo porta a una carenza di spazio, vitale per i detenuti, e crea tensioni all’interno degli istituti penitenziari. A ciò si aggiungono condizioni sanitarie spesso non dignitose e carenza di personale”. Infine, il Garante lancia un appello alle istituzioni: “Bisogna potenziare i programmi di supporto psicologico e morale all’interno delle strutture detentive al fine di offrire un aiuto concreto a coloro che si trovano in situazioni di disagio estremo”. Pavia. Il caso del suicidio di Jordan Tinti e il ridotto personale in carcere approdano in Parlamento di Michele Boni ilcittadinomb.it, 9 maggio 2024 Il caso della morte del trapper Jordan Tinti e delle carenze di personale nel carcere di Pavia è approdato in Parlamento per un’interrogazione del Movimento Cinque Stelle. Il caso del rapper di Bernareggio Jordan Tinti, morto in carcere a Pavia a marzo, è approdato alla Camera dei deputati per le condizioni della casa circondariale di Torre di Gallo e la carenza di personale. L’onorevole Cinque Stelle Valentina Barzotti insieme alle colleghe Valentina D’Orso e Vittoria Baldino ha presentato un’interrogazione parlamentare sul tema. Il caso Jordan Tinti e le risposte del sottosegretario Ostellari - A rispondere martedì 7 maggio a Montecitorio è stato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari che ha ripercorso la situazione dell’ex rapper brianzolo di Bernareggio che è stato trovato privo di vita nella sua cella e ha inoltre sottolineato come “c’è in corso un’indagine da parte della Procura per fare luce sulla questione”. Per quanto riguarda il personale in servizio l’esponente del Governo ha evidenziato che “al momento sono 314 i dipendenti impegnati nella casa circondariale pavese e a breve saranno introdotte altre 4 unità. Sono stati effettuati anche diversi concorsi e altri saranno fatti per ampliare l’organico di tutti gli istituti penitenziari”. Risposte che però non hanno convinto la pentastellata Barzotti. Il caso Jordan Tinti e Barzotti: “Condizioni insopportabili in carcere” - “Non siamo assolutamente soddisfatti della risposta data oggi dal Sottosegretario Ostellari alla nostra interrogazione sul suicidio del trapper Jordan Jeffrey Baby nel carcere di Torre del Gallo a Pavia. Ancora una volta abbiamo denunciato le insopportabili condizioni di quel carcere - ha chiosato Barzotti -. Gli istituti penitenziari non possono trasformarsi in luoghi di morte o di perdita della speranza, devono offrire le condizioni per la rieducazione dei condannati. Questo significa più personale di Polizia penitenziaria, più servizi trattamentali e sanitari, più mediatori culturali e più borse lavoro. Su questo il governo non dà alcuna risposta: nelle carceri vediamo personale precario, sotto organico, che spesso si trova a fare cose che non dovrebbe neanche fare. Il sottosegretario ci parla di protocolli di formazione della Polizia penitenziaria, quando gli agenti sono chiamati a svolgere un carico di lavoro inaccettabile e non hanno purtroppo il tempo di fare corsi di formazione. Lo denunciamo da anni, allo stato attuale i detenuti quando entrano in carcere non hanno alcun tipo di prospettiva e quando escono si ritrovano in condizioni peggiori rispetto a quelle in cui sono entrati. Tutto questo è inaccettabile, il governo si dia una mossa”. Jordan Tinti inizialmente detenuto a Monza e poi trasferito a Pavia stava scontando la pena di 4 anni e 4 mesi, dopo aver aggredito e derubato un uomo in stazione a Carnate insieme al rapper romano Gianmarco Fagà. Roma. Al Cpr di Ponte Galeria sostegno psichiatrico per i detenuti rainews.it, 9 maggio 2024 L’annuncio della Garante, Valentina Calderone. Il prefetto di Roma Lamberto Giannini sta firmando un protocollo con la Asl. Il prefetto di Roma Lamberto Giannini “sta firmando un protocollo con la Asl e ci sara’ uno psichiatra per tre giorni a settimana e per quattro ore all’interno del Centro di rimpatrio di Ponte Galeria”. Lo ha detto la garante dei detenuti di Roma, Valentina Calderone, nel corso dell’audizione alla commissione Politiche sociali di Roma, presieduta da Nella Converti del Partito democratico. Mi sembra molto rilevante rispetto alla condizione di salute mentale delle persone - ha aggiunto -. Nelle settimane successive alla morte di Ousmane Sylla ci sono state molte persone che hanno provato a rompersi le gambe cercando di cadere o scagliandosi contro le sbarre. Ci sono stati sei tentativi di impiccagione, si prova in tutti i modi di rendersi visibili rispetto a una condizione ritenuta intollerabile”. Milano. Lo psicologo Renato Rizzi: “L’affettività in carcere non può più aspettare” di Patrizia Pertuso metronews.it, 9 maggio 2024 “Chiamami ancora amore, chiamami ancora amore, che questa maledetta notte dovrà pur finire, perché la riempiremo noi da qui di musica e parole”: sono le parole di un brano di Roberto Vecchioni, stampate sulla locandina di un incontro che oggi, dalle 15 alle 18, alla Casa della Cultura (via Borgogna 3), affronterà il tema della “Affettività in carcere”. Parteciperanno Valentina Alberta, Presidente della Camera penale di Milano, Giuseppe Bettoni, Presidente della Fondazione Archè Onlus, Fabio Gianfilippi, Magistrato di sorveglianza a Spoleto, Renato Rizzi, medico e psicologo, consulente presso il carcere di Bollate, Mario Serio, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, e lo scrittore Giorgio Panizzari. A moderare l’incontro ci sarà Francesco Maisto, Garante dei detenuti di Milano. L’incontro nasce dalla sentenza numero 10 della Corte Costituzionale, emessa lo scorso 26 gennaio 2024, che inibisce l’illegittimità ad incontri affettivi in carcere. Una sentenza che è arrivata proprio nel giorno in cui in Alabama, Kenneth Eugene Smith è stato giustiziato nell’Holman Correctional Facility di Atmore usando una maschera ad azoto. A parlarne a Metro, è uno dei partecipanti all’incontro di domani, Renato Rizzi. Dottor Rizzi, quel 26 gennaio è stato un giorno importante sia per l’Italia, quanto per l’America dove per la prima volta si è deciso di applicare un metodo ritenuto “disumano” per giustiziare un condannato a morte… “Il 26 gennaio scorso in Alabama è stato messo a morte attraverso ipossia di azoto, un metodo in disuso dal 1982, un uomo sul quale, attraverso una maschera sul volto, è stato insufflato azoto e tolto ossigeno. Questa modalità ha provocato convulsioni e un’agonia che è durata oltre 20 minuti: una cosa inaccettabile, in totale contrapposizione all’emendamento della Corte Suprema che aveva rigettato tutti i ricorsi. È stata una sofferenza gratuita che ci ha riportato al Medioevo. In quello stesso giorno, la Corte costituzionale italiana ha emesso una sentenza con cui ha dichiarato illegittimo il divieto di colloqui affettivi in carcere. Ha ammesso la validità di una relazione affettiva, e quindi anche sessuale ritenendo che “non ci sono obiettive ragioni di pericolosità” in questi comportamenti. In effetti questo divieto era una vessazione gratuita, “esageratamente afflittiva” come si scrive nella sentenza. Si tratta di un passaggio estremamente importante per l’Italia, un paese governato da un punto di vista penitenziario in modo piuttosto singolare: basti pensare al fatto che il sindacato della polizia penitenziaria è sempre stato ostile a questo tipo di permessi, usando anche linguaggi volgari ed osceni”. In che senso? “Le faccio un esempio su tutti: sulla loro rivista non si parla di afflittività della pena ma di affettività del pene. Quindi per questo sindacato nazionale sussiste una posizione oltre che volgare estremamente oltranzista. Tutto ciò al di là di quanto sta venendo alla luce sulle violenze in carcere”. Quale è stata la molla che ha posto al centro dell’attenzione questo aspetto? “La legittimità dell’affettività in carcere è venuta fuori da un esposto di un detenuto che ha fatto causa allo Stato dal carcere di Terni. La sua istanza è arrivata al Giudice di sorveglianza di Spoleto il quale, nel gennaio del 2023, ha inviato tutto alla Corte costituzionale per avere un parere. Un anno dopo, nel gennaio del 2024, la Corte costituzionale ha dato luogo a questa sentenza che è strabiliante”. Dottor Rizzi, cosa cambierà ora? “In Europa su 51 stati 31 hanno già questo tipo di possibilità tra cui la Spagna, la Francia e la Norvegia. In quei Paesi sono già previsti incontri che vanno da un minimo di 2 ore fino a un massimo di 14 ore. Nella sentenza di gennaio è stabilito che ci deve essere una privacy quindi nessun controllo uditivo né visivo durante questi incontri. Attualmente solo Padova ha cominciato a recepire la sentenza e ha permesso la creazione di alcuni spazi nel cortile da poter adibire per questi incontri”. Cosa intende per “spazi nel cortile”? “A Padova hanno pensato di mettere nel cortile alcune strutture prefabbricate. Solitamente si adibisce una stanza vicino all’ingresso in modo che il partner non si senta in carcere ma possa percepirsi più adeguatamente protetto. All’estero, invece, ci sono dei mini appartamenti dotati anche di frigorifero che assomigliano a case normali oppure delle stanze”. Dottor Rizzi, quanto è importante l’affettività in carcere a livello psicologico? “La deprivazione affettiva in carcere è un dato inquietante perché pone le persone in una condizione di disagio prima di tutto psicologico e poi anche fisico. Nella nostra Costituzione è sancito il diritto alla salute dichiarato come un “bene essenziale”. E il diritto al sesso è uno degli elementi del benessere psicofisico. Naturalmente stiamo parlando di una sessualità transgenere, che non preveda alcuna distinzione fra le diverse sessualità: tutti devono avere il diritto di incontrare i loro partner”. Nel corso della sua esperienza da psicologo in carcere, questo bisogno di affettività è più vivo negli uomini, nelle donne, in entrambi oppure in entrambi ma in modi diversi? “In entrambi viene vissuto in modo identico, ma con modalità differenti. Nelle donne la privazione del contatto fisico non si esplica solamente nel sesso, ma comprende abbracci, carezze e baci. Le donne ricercano più una omosessualità che miri ad una specie di contatto familiare mentre gli uomini vivono l’omosessualità in carcere non come scelta, ma come costrizione. In questo caso viene percepita semplicemente come atto fisico”. Perché parla di omosessualità? “Perché il carcere prevede che i maschi siano da una parte le femmine dall’altra e quindi la carenza di sessualità viene in qualche modo supplita da un’affettività che sfocia nell’omosessualità. Si fa ricorso all’onanismo, alla masturbazione, e poi, in alcuni casi, si finisce nell’omosessualità soprattutto nelle detenzioni di una durata non limitata. Parlo sempre di una scelta consenziente, ovviamente. La rinuncia coatta a vivere la propria sessualità pone le persone di fronte alla scelta tra la masturbazione e l’atto omosessuale. Però la masturbazione può creare dei problemi perché in teoria potrebbe essere punita: mancando la privacy se il detenuto viene visto, il suo comportamento può rientrare tra gli atti osceni in luogo pubblico. Il ché fa aumentare la pena di chi è recluso da tre mesi a tre anni. Inoltre, tutto ciò mette il detenuto nelle condizioni di incorporare sensi di colpa e di una diminuzione dell’autostima personale oltre a portare a complicazioni anche di tipo fisico come la mancanza di erezione”. Ci sono dei tempi di applicazione per la sentenza della Corte costituzionale? “Credo che la sentenza preveda l’attuazione immediata, ma dipende dalle singole carceri e dai tempi di adeguamento necessari alle strutture”. Dall’incontro di domani che cosa vi aspettate? “L’incontro di domani avrà come protagonisti il giudice di sorveglianza di Spoleto che chiarirà tutto l’iter che l’ha portato a chiedere alla Corte costituzionale di emettere una sentenza. Ci saranno i Garanti dei detenuti, sia quello regionale che quello nazionale, e il presidente della Camera penale di Milano. Mi aspetto che tutti diano la stura all’evidenza di attuare le misure che dovrebbero essere adeguatamente rispettate”. Torino. “Game Over”, dialogo tra studenti e giovani detenuti di Chiara Sandrucci Corriere di Torino, 9 maggio 2024 Un laboratorio al Ferrante Aporti con la partecipazione di 20 scuole superiori di Torino. Esiste un confine molto sottile tra ragazzi “dentro” e “fuori”, incontrare i coetanei che sono in carcere aiuta a capire quanto in fondo si è simili. È uno degli obiettivi del progetto “Game Over - Essere dentro” che si è concluso ieri con uno spettacolo conferenza e una riflessione finale sul rispetto delle regole al Campus Einaudi. Il laboratorio annuale iniziato a novembre si è svolto dentro l’istituto penale minorile Ferrante Aporti, ma con la partecipazione da fuori di 20 scuole superiori di Torino e provincia, 3.500 studenti e 8 classi con 200 ragazzi in visita in carcere. Il progetto è nato dall’impegno sociale del Fondo Alberto e Angelica Musy, con il sostegno di Fondazione Compagnia di San Paolo e condotto da un team composto dalla compagnia Teatro e Società, dall’associazione milanese “Sulleregole” e dal dipartimento di Giurisprudenza dell’università di Torino. “Quello che la nostra famiglia chiede alla giustizia è il reinserimento delle persone in società”, ha detto la vedova Musy spiegando ai ragazzi l’attività del Fondo costituito in memoria del marito Alberto mancato 10 anni fa in seguito ad un’aggressione a colpi di pistola. “Noi oggi lottiamo perché le persone detenute trovino un posto nella legalità, nella cittadinanza”. Ragazzi che provengono da Torino e che a Torino torneranno. “Chi entrando da noi si aspettava di vedere i protagonisti di “Mare fuori”, ha trovato invece ragazzi che somigliano a loro, con gli stessi abiti e lo stesso accento”, ha fatto notare Giuseppe Carro, neo direttore del Ferrante Aporti. “Il confine è davvero molto sottile, una constatazione utile a chi è dentro ma anche a chi sta fuori”. Durante l’anno 8 classi hanno avuto la possibilità di entrare in carcere per incontrare i coetanei ristretti che frequentano il laboratorio di teatro. “Si sono confrontati con le modalità del teatro conferenza: i ragazzi del Ferrante si esibiscono con un pezzo teatrale e poi si parla insieme di vari temi come il rispetto delle regole e la libertà”, spiega a margine Franco Carapelle dell’associazione Teatro e Società, da 31 anni presente alle Vallette e da 3 anni al Ferrante Aporti, che ha condotto l’evento conclusivo del progetto rivolto a 300 studenti in sala. Ieri i giovani del Ferrante non c’erano, in compenso era presente Ferdinando, uscito in permesso dalle Vallette per partecipare all’evento in qualità di attore. Ha raccontato agli studenti delle scuole superiori come nella loro sezione sia stato sventato un suicidio, una storia vera tra lacrime e applausi. Messina. “Liberi di sognare”, Daniela Ursino e i detenuti attori in carcere di Rosaria Brancato Il Sicilia, 9 maggio 2024 “La bellezza del teatro in luoghi impensabili”. “Voglio portare bellezza in un luogo impensabile”. Nel 2017 Daniela Ursino ha immaginato la contaminazione della bellezza là dove può apparire assurdo. È così che è nato il progetto che ha portato il teatro (e non solo) in carcere ed è diventato molto di più. Una compagnia teatrale, “Liberi di sognare”, un palcoscenico e un teatro a Gazzi il “Piccolo Shakespeare” ed una serie di spettacoli e iniziative che hanno messo le ali e volano alto. È Daniela Ursino, presidente dell’associazione D’aRteventi. “Il teatro per sognare” così è nato tutto e l’idea di Daniela Ursino è stata subito sposata dall’arcivescovo di Messina monsignor Accolla e dal direttore della Caritas padre Basile nonché dall’intero istituto penitenziario. “È diventato il progetto di tutti, condiviso e pensato da tutti. È diventato il progetto del carcere, un percorso che non è mai stato un semplice laboratorio di uno o due mesi che approda allo spettacolo”. La sala multifunzionale è stata trasformata nel Piccolo Shakespeare grazie all’impegno concreto anche degli studenti del Liceo Basile, indirizzo artistico, che si sono occupati delle quinte, delle scenografie, dei fondali. Il foyer è come quello dei teatri ed ha “l’abbraccio” di due istituzioni storiche “Il Piccolo” e La Scala, presi a modello e partner. La parte della convivialità e dell’accoglienza è stata affidata agli studenti dell’istituto Antonello. C’è poi l’importante collaborazione con l’Università di Messina e con studenti e studentesse. E naturalmente la piena adesione di registi di primo piano, aiuto registi, e poi scenografi, costumisti. Un’azione corale perché la bellezza crea bellezza. C’è la voglia di riscatto e di mettersi in gioco dei detenuti e delle detenute, l’emozione di mettere in scena copioni intensi e complessi o di contribuire comunque in ruoli e posizioni diverse allo spettacolo. C’è la gioia di vedere tra il pubblico i propri cari, i figli, le figlie, i genitori, applaudire ed emozionarsi. Ci sono tantissime storie, come lo spettacolo che ha visto in scena le donne in regime di alta sicurezza che hanno dovuto indossare le maschere e vedere che anche le studentesse universitarie che hanno preso parte allo spettacolo hanno coperto il volto. Ci sono le storie di giorni e giorni di prove, di chi si è impegnato per una strada del tutto di nuova. E poi c’è l’arcivescovo che ha accolto al Duomo la compagnia di attori, aspettandoli scalzo, intorno all’altare dove loro hanno portato la storia di San Francesco. O ancora gli spettacoli al teatro greco di Tindari o il ricordo di Falcone e Borsellino al Palacultura con i detenuti che hanno recitato momenti di vita dei magistrati uccisi dalla mafia davanti agli studenti “la cultura come momento di legalità”. E ancora la Festa della musica nel campo di calcio del carcere di Gazzi, con le forze dell’ordine che recitano insieme ai detenuti. Un progetto che cresce di anno in anno e che viene replicato in altri istituti penitenziari. “È un viaggio nella bellezza, tra teatro, musica e danza, perché la bellezza crea altra bellezza”. Proprio in questi giorni è andato felicemente in porto un altro progetto che ha visto insieme la Libera compagnia del teatro per sognare con gli attori della compagnia Volere volare, tutti attori speciali. Ma Daniela Ursino non si ferma nell’idea di una società che accoglie davvero “il mio è un progetto proiettato verso l’esterno e abbiamo già trovato una sede per accogliere un altro scrigno per chi è in libertà o semi libertà e vuol continuare a fare teatro. Perché è questo il bello, in carcere presentano istanze e vengono selezionati, ma quando escono sono talmente felici di questo progetto che vogliono continuare”. Il grande sogno di Daniela Ursino è che davvero una società che accoglie e integra sia pronta a fare quel passo in più, quello che porta al lavoro, a risposte occupazionali per quanti, usciti dall’esperienza in carcere vogliono vivere una nuova vita. Colombo e la Costituzione “madre di tutte le leggi” spiegata ai giovani di Paolo Foschini Corriere della Sera, 9 maggio 2024 L’ex magistrato porta nelle classi la Carta. Più importante dei singoli articoli è il “sistema” che compongono. Alla base il riconoscimento della dignità di ogni essere umano. Se c’è un percorso di carriera - e in fondo anche di vita - piuttosto emblematico su ciò che si può scegliere di fare per migliorare il Paese in cui si vive, o almeno per provare a farlo, forse pochi esempi in Italia sono significativi come quello di Gherardo Colombo. Trentatré anni in magistratura come protagonista di inchieste importantissime, la P2, Sindona, Mani pulite, e tante altre. Col “potere” - una parola che non gli è mai piaciuta ma insomma, per capirci - di fare indagini, interrogare, e chiedere intercettazioni, poi arresti, poi condanne. Con uno scopo che era quello assegnatogli dal suo mandato di magistrato: scoprire quelli che avevano violato certe regole e far sì che ricevessero la sanzione prevista da altre regole. Finché un giorno del 2007, all’improvviso, Colombo si dimette dalla magistratura. “A un certo punto - dirà - ho capito che per il rispetto delle regole la repressione non serve. Bisogna partire da molto prima: dalla loro spiegazione”. E in particolare dalla spiegazione della regola madre di tutte: la nostra Costituzione. Spiegandola ai giovani, addirittura ai bambini. Così da diciassette anni Gherardo Colombo ha sostituito le sue vecchie centinaia di processi con centinaia e centinaia di scuole. In tutta Italia. E l’associazione Sulleregole fondata nel 2010 con un gruppo di amici progressivamente riunitisi attorno a lui (www.sulleregole.it) ha oggi un calendario di appuntamenti già fissati fino all’anno prossimo. “Penso che comunicare la Costituzione ai giovani - ripete - sia una delle cose più importanti che possiamo e dobbiamo fare per loro. Perché si possono rispettare solo le regole che si conoscono. Anzi: non solo che si conoscono, ma di cui si è compreso il senso. A partire dalla Costituzione per un motivo molto semplice: è la legge cui devono obbedire tutte le altre leggi, un testo di cui tutti parlano ma che in realtà pochi conoscono. E in questo caso mi riferisco agli adulti, prima che ai ragazzi”. In effetti, vien da dire, almeno i primi dodici articoli con i princìpi fondamentali non sarebbe una gran fatica impararli a memoria, messi insieme son più corti del testo di una canzone. “Certo non farebbe male - osserva Colombo - ma in realtà non si tratta dei singoli articoli. Il punto è che la Costituzione va pensata, e quindi raccontata, come sistema coerente. Con un punto di partenza preciso che è il riconoscimento della dignità di ciascun essere umano. Così dalla dignità di ciascuno derivano i diritti involabili di ogni individuo, e se tutti hanno pari diritti allora vuol dire che siamo una democrazia, e perché una democrazia sia reale ci vuole una scuola aperta e garantita per tutti... capito? Un sistema”. E il sistema scelto da Colombo per fare in modo che i giovani si appassionino a questo sistema è il metodo della formica e del dialogo: una classe dopo l’altra, con pazienza, parlando a chi oggi ha dieci anni per quando ne avrà venti. “La lezione frontale - chiarisce - non funziona per niente. Ma se con i giovani parti dal confronto, dal rapporto concreto che le “regole” hanno con la vita reale e in particolare con la loro, beh, lì cambia tutto. Spesso inizio chiedendo semplicemente se “le regole vi piacciono o no”. E in molti casi la risposta è no, perché “limitano la libertà”. Ma quando poi salta fuori che le regole non servono solo a vietare certe cose ma soprattutto a consentire di farne altre, per esempio una torta, visto che anche una ricetta di cucina consiste in una serie di regole, allora hai trovato la chiave per fare entrare dentro la Costituzione nel modo giusto anche i bambini”. Dopodiché, una volta entrati, è chiaro che i livelli di lettura si moltiplicano. “E si può riflettere, per esempio, sulla forza che ha consentito ai membri della Costituente di costruire un testo unitario e condiviso nonostante le loro diverse ideologie e appartenenze politiche. E ricordare che quasi tutti loro avevano vissuto due guerre mondiali, e l’invenzione dell’atomica. E avevano capito prima di noi, per averlo visto da molto vicino, che o ci si salva tutti o non si salva nessuno”. Regola non scritta, ma forse la più importante che la Costituzione - se potesse riassumere se stessa con un megafono - oggi griderebbe a tutti noi. “Storie senza frontiere”, un libro per ragazzi che sognano di diventare operatori umanitari di Marta Serafini Corriere della Sera, 9 maggio 2024 Da domani nelle librerie, le testimonianze dei cooperanti di Medici Senza Frontiere in un volume che racconta il mondo attraverso le loro storie. “Cosa resta degli affanni del mondo, cosa delle ingiuste morti e dei dolori, ma cosa, anche, della capacità dell’essere umano di rinunciare a ciò che conosce per andare incontro all’altro? Due cose: lo specchio, e la testimonianza”. Scrive così Valeria Parrella nell’introduzione di “Storie Senza Frontiere” , il primo libro di racconti per ragazzi di Medici senza frontiere, firmato da Gigliola Alvisi in collaborazione con l’associazione, edito da Piemme, nelle librerie da domani. Medici Senza Frontiere è una grande famiglia fatta di infermieri, logisti, psicologi, operatori sanitari, medici e molte altre figure professionali. È un osservatorio sul mondo in cui l’essere umano è al centro. Un luogo ideale dove chiunque “stia in terreno” sa di trovare aiuto e sostegno. Giulia, la coordinatrice finanziaria, che dopo una laurea in Economia frequenta uno stage in Msf e decide di restare invece di andare a lavorare in azienda. Moussa, il mediatore culturale nato in Costa d’Avorio e arrivato a Lampedusa, 12 anni fa. Enrico 50 anni infermiere che arriva a Raqqa appena liberata dall’Isis. Ma anche Candida che voleva fare la giornalista ma in un campo profughi in Sud Sudan ha capito che voleva fare qualcosa che le sembrasse più utile. Volontari, li chiamano spesso. Come se fossero missionari mossi da una vocazione. E la vocazione c’è, sicuramente: quella di partire di vedere luoghi lontani e provare a portare nel mondo un pezzettino di giustizia sociale e di sostegno in Paesi dove anche un ospedale è un lusso. Ma c’è anche la professionalità e il coraggio perché - come scrive Valeria Parrella - “l’assenza della paura, nel mondo della paura, è il traguardo più alto per una comunità”. Le loro storie, raccolte in questo libro, raccontano di Paesi lontani e vicini, di guerre dimenticate, di ospedali in prima linea, di accoglienze e sostegno, della complessa macchina organizzativa che garantisce elettricità, acqua potabile, cibo, farmaci, sicurezza a chi ne ha assoluto bisogno. Ed è sempre più spesso grazie alle voci di questi professionisti che riportiamo ciò che accade nei luoghi più inaccessibili e interdetti alla stampa. Crimini di guerra compresi. Non solo operatori umanitari allora. Ma anche testimoni e occhi. Dietro ogni racconto, il volto di bambini, donne, uomini a cui è stata data la possibilità di una nuova vita. E quello di operatori che sanno esattamente qual è la loro missione: garantire cure e dignità ai propri pazienti. Esseri umani che aiutano altri esseri umani. La libertà di stampa in Italia c’è, ma nessuno la usa di Piero Sansonetti L’Unità, 9 maggio 2024 Nessuno impone il bavaglio. Censura sugli scandali politici? Citatemi un caso! È invece sui problemi sociali che i giornalisti si mettono il bavaglio da soli. Per esempio, i giornali che si stracciano le vesti contro i rischi di censura, non hanno scritto una riga sulla strage dei bambini compiuta nei giorni scorsi dalle autorità libiche su motovedette fornite dall’Italia. Nei giorni scorsi si è parlato molto dell’arretramento dell’Italia nella classifica dei paesi in cui vige la libertà di stampa, stilata da “Reporter senza frontiere”. Pare che siamo passati dal quarantaquattresimo posto al quarantasettesimo. E i giornali italiani - in particolare Il Fatto e Repubblica spiegano che i motivi di questa retrocessione sono due: le leggi-bavaglio contro i giornalisti, che impedirebbe loro di raccontare la verità sulla corruzione dei politici, e l’acquisto da parte di Angelucci, deputato di maggioranza, dell’agenzia Agi. Hanno ragione Repubblica e Il Fatto? Evidentemente no. In Italia è del tutto evidente che non c’è nessuna censura a favore dei politici. C’è qualcosa che non sappiamo della Santanché? C’è qualcosa che non sappiamo di Toti? C’è qualcosa che non sappiamo dell’inchiesta contro il Pd in Puglia? C’è qualcosa che non sappiamo su Sgarbi? O sulle faccende che riguardano il Piemonte? O forse ci manca qualche notizia su Fassino al Duty Free? O qualcuna di queste notizie è stata esclusa dalle prime pagine dei giornali? No. Sappiamo assolutamente tutto. Comprese moltissime vicende private rese pubbliche con discutibili intercettazioni (che in Italia sono mediamente 10 volte più frequenti che negli altri paesi occidentali, e quasi sempre vengono divulgate, legalmente o illegalmente, dalle Procure). Chili e chili di carta stampata ore e ore di trasmissioni Tv su tutti gli scandali politici, compresi quelli che riguardano il marito di una assessora pugliese. Sappiamo poco, probabilmente, degli argomenti a difesa degli imputati, perché la stampa non è mai interessata alle possibilità di innocenza, ma sappiamo tutto, tutto, tutto quel che si può sapere sulle accuse, anche le più strampalate (sto pensando adesso al caso dell’Utri) messe in piedi da qualche spesso fantasioso sostituto procuratore della repubblica. Possiamo ben dire che almeno un terzo dell’informazione di prima pagina dei giornali è costruito dalle Procure. È del tutto impensabile che in Italia esista una forma di censura a protezione dei politici. Nessuno è in grado di citare un solo episodio di censura. Dico: uno solo. Su Angelucci il discorso è diverso. È chiaro che l’acquisto da parte sua di un’agenzia di stampa che - per sua natura - ha il compito di fornire ai giornali l’informazione di base, è abbastanza preoccupante. Anche se la vastità delle fonti alle quali attingono oggi i giornali, aiutati dalle tecnologie, rende abbastanza modesta la preoccupazione per il potere dell’Agi di Angelucci. Quindi non è vero che in Italia c’è poca libertà di stampa? Non è vero. Nessuno limita questa libertà, tranne i giornali stessi. E i giornalisti. Succede effettivamente che i giornali censurino o nascondano un certo numero di informazioni. Non certo gli scandali, né il gossip. Nascondono di sicuro tutto quello che riguarda i profughi. In questi giorni per esempio, i giornali che denunciano le leggi bavaglio, non hanno scritto una riga sulla strage dei bambini compiuta dalle autorità libiche su motovedette italiane. Lì sì, è scattato il bavaglio. Nessuno può dire che l’uccisione di sei bambini nel Mediterraneo non sia una notizia. Eppure quasi nessun giornale l’ha pubblicata. Diciamo l’autobavaglio. È molto raro anche che i giornali si occupino delle condizioni nelle quali vivono i detenuti. Problema drammaticissimo che mette in discussione l’elevatezza della nostra civiltà. O della emarginazione alla quale sono condannati ii popoli rom e sinti. È molto raro che i giornali parlino della povertà in Italia e dell’aumento della fame nel mondo, fenomeno in controtendenza dopo i piccoli passi avanti compiuti ad inizio secolo. L’informazione sul proliferare delle armi è limitatissima. È molto frammentaria anche l’informazione sui massacri in Palestina, che ora si è un po’ diffusa grazie non certo ai giornali ma alla mobilitazione degli studenti. Eccetera eccetera. La situazione è esattamente questa. Ed è paradossale. Chi indica le leggi bavaglio come causa della caduta della nostra libera stampa è esattamente lo stesso che si è messo il bavaglio sulle grandi questioni sociali e della libertà, e riesce a occuparsi solo di Santanché, o di Sgarbi o di Fassino. Accettando che il suo lavoro perda della nobiltà che gli spetta e si riduca a piccolo spionaggio al servizio di vari padroni oscuri. Il problema è esattamente questo. La libertà di stampa esiste il libero giornalismo invece è un fenomeno molto molto raro. I campus italiani si riempiono di tende. Il governo si prepara a reprimerle di Luciana Cimino Il Manifesto, 9 maggio 2024 In vista dell’incontro tra il Comitato ordine e sicurezza e i rettori, la mobilitazione continua. E se a Parigi e Amsterdam piovono botte, in Spagna il governo si dice “orgoglioso” delle proteste negli atenei. Se a Parigi, Berlino, Amsterdam i governi hanno scelto di usare il pugno duro sugli studenti che protestano contro il massacro dei palestinesi e la militarizzazione dell’Europa, la Spagna di Pedro Sánchez, ancora una volta, è andata in controtendenza. Martedì sera la ministra per la scienza, l’innovazione e l’università, Diana Morant si è detta, a nome del governo, “orgogliosa” della mobilitazione nelle università iberiche e “degli studenti che pensano in modo critico, lo esercitano e lo trasmettono alla società, gli atenei non sono solo spazi di formazione accademica, ma anche di formazione del pensiero”. Morant ha aggiunto anche che è giusto “riconoscere la protesta sociale attraverso gli studenti”, la loro “posizione sulla Palestina è la stessa che sta difendendo il presidente del governo di Spagna dentro e fuori le nostre frontiere”. Il governo italiano, invece, si era già distinto per le manganellate, gli arresti di manifestanti e le confuse ricostruzioni ufficiali degli scontri nei mesi scorsi. Se manterrà questa linea si saprà tra qualche giorno: il 13 maggio si riunirà il Comitato per l’ordine e la sicurezza con i rettori e le rettrici, come richiesto dalla ministra per l’università Anna Maria Bernini al ministro dell’interno Matteo Piantedosi. La presidente della Crui Giovanna Iannantuoni si era già dimostrata contrariata dalle cariche alla Sapienza dello scorso aprile ma il governo di destra mantiene il punto su “possibili tensioni”. “C’è la protesta e c’è anche una frangia molto piccola che va oltre certi limiti, fanno azioni distruttive e reati, sfondano porte, attaccano e forze dell’ordine”, aveva detto Bernini qualche giorno fa a Napoli per poi ribadire ieri: “Il boicottaggio delle università è un grande inganno, perpetrato in malafede”. “Dobbiamo avere accordi anche con Paesi non democratici”, ha detto alla platea plaudente della presentazione del Master in Mediterranean Cooperation and Security organizzato dall’Università Luiss Guido Carli e da Med-Or, la fondazione di Leonardo presieduta da Marco Minniti, presente all’evento. Ma non tutti i rettori sembrano intenzionati a chiedere aiuto alle forze dell’ordine per sgomberare le tende che i collettivi universitari stanno montando negli atenei da nord a sud. “Con gli studenti abbiamo un dialogo aperto, noi continuiamo a fare l’università ma diamo anche un luogo dove questi ragazzi possano esprimersi - ha detto ieri il rettore dell’Università Federico II di Napoli Matteo Lorito - Hanno tutto il nostro rispetto, la nostra assoluta comprensione, al di là delle convenzioni poi personali che ognuno di noi ha”. Il ragionamento di Lorito è che “se in Medio Oriente le cose continuano così io credo che i ragazzi avranno la possibilità di manifestare il loro dissenso rispetto ad alcuni aspetti politici e a quello che sta accadendo, anche perché tutti noi siamo toccati profondamente, ognuno di noi la sera guarda il telegiornale sempre con apprensione”. Le tende sono arrivate ieri anche a Palermo e Cosenza. “Sono mesi che lavoriamo con l’università di Palermo per chiedere l’interruzione degli accordi di ricerca con le università e le aziende israeliane complici del genocidio con le aziende italiane che sostengono le politiche belliche - ha spiegato il collettivo Scirocco - Non ci possiamo tirare indietro dopo gli attacchi a Rafah”. A Roma, invece, si è svolto un presidio molto partecipato dopo la vandalizzazione della targa in memoria del rettore Sufian Tayeh, ucciso dall’esercito israeliano, posta venerdì scorso dagli studenti davanti al dipartimento di Fisica della Sapienza. Organizzata anche una raccolta di firme contro il tirocinio “Mare Aperto” con la marina militare che prevede esercitazioni belliche nel Mediterraneo. Nei prossimi giorni, annunciano le studentesse e gli studenti, le acampade arriveranno anche all’università di Bari, al Politecnico di Milano, alla Ca’ Foscari di Venezia. Mentre alla lunga lista di università europee in mobilitazione (Paesi Bassi, Germania, Finlandia, Norvegia, Danimarca, Belgio, Spagna, Portogallo, Gran Bretagna, Irlanda) si sono aggiunte ieri Austria e Svizzera. “La polizia negli atenei è una grande lezione per i giovani: insegna a diffidare delle istituzioni” di Chiara Sgreccia L’Espresso, 9 maggio 2024 “Il potere non è per loro. È contro di loro, contro la loro sincerità, contro chi muore sotto le bombe. Oggi nessuno può sapere come evolveranno le proteste. Per fortuna i ragazzi sono immuni all’ipocrisia di chi pensa che le cose vadano bene così”. Il fisico e saggista Carlo Rovelli parla con L’Espresso delle proteste degli studenti che si stanno allargando velocemente in tutto il mondo. Eccole: le tende sono arrivate (tornate) anche in Italia. Dopo che gli studenti dell’ateneo di Bologna si sono accampati in Piazza Scaravilli, nel cuore della città universitaria lo scorso 5 maggio per chiedere all’Alma Mater Studiorum di rompere i legami della ricerca con gli enti israeliani e i rapporti con l’industria bellica, anche a La Sapienza di Roma (6 maggio) e alla Federico II di Napoli (7 maggio) i manifestanti della Rete studentesca per la Palestina hanno allestito l’acampada: “È il momento di portare la nostra mobilitazione a un livello superiore: aderiamo alla chiamata internazionale dell’intifada studentesca”, spiegano. Sono sempre di più le università in tutto il mondo che si stanno unendo alla “lotta contro il genocidio del popolo palestinese a Gaza”, lanciata dall’ateneo palestinese Birzeit. Non solo negli Stati Uniti e in Europa, “l’intifada studentesca” sta infiammando anche le università arabe: dalla Tunisia al Libano, all’Egitto, Giordania, Iraq. “Penso sia molto bello che una parte della gioventù prenda a cuore i problemi gravi del mondo. Fanno bene a sperare per il futuro”, commenta Carlo Rovelli, fisico e saggista, che dopo aver insegnato in Italia e negli Stati Uniti oggi è professore ordinario di fisica teorica all’Università di Aix-Marseille in Francia. Spiega di non avere basi per sapere se il movimento di contestazione che sta prendendo forma sarà unitario e duraturo, né per sostenere o contraddire chi dice che potremmo essere di fronte ai semi di un “nuovo Sessantotto”: “La storia non si ripete. Penso che nessuno possa già sapere come evolveranno le cose”. Ma crede che il movimento a supporto del popolo palestinese si stia allargando velocemente in tutti i paesi occidentali “a causa della flagrante contraddizione fra le notizie che arrivano a tutti su quanto accade in Palestina e il racconto dei principali media. In Palestina c’è un massacro in corso, e questo è ovviamente intollerabile per la generosità di molti giovani, che sono immuni, per fortuna, alla pelosità e all’ipocrisia di chi pensa che in fondo vada bene così”. Secondo il professore nel mondo contemporaneo c’è tanta violenza: “una minoranza, a cui apparteniamo, non esita a massacrare per difendere il proprio dominio e i propri privilegi. Il colmo dell’ironia è che usiamo la parola “democrazia” per giustificare il dominio armato di una minoranza ricca sul resto del mondo: il 10 per cento dell’umanità controlla il 90 per cento della ricchezza del pianeta. Il mondo si sta ribellando e andiamo verso un conflitto globale, in più in piena crisi ecologica. E pensiamo solo a vincere, invece che a cercare soluzioni. Spero che i giovani sappiano spingere a cambiare rotta”, aggiunge Rovelli, con la speranza che la voce dei giovani non rimanga inascoltata perché “prendere posizione è importante: il massacro in corso in Palestina è insopportabile. La gente muore di fame, a pochi chilometri da uno stato ricco che li massacra con le bombe”. Il fisico, conosciuto per le sue posizioni a favore della pace, già durante il Concertone del Primo Maggio 2023 aveva esortato pubblicamente i giovani ad agire. A prendere in considerazione i problemi che mettono a rischio il pianeta, come la crisi climatica, le disuguaglianze crescenti e soprattutto la tensione del mondo che si prepara alla guerra: “La guerra che cresce è la cosa più importante da fermare. Invece di collaborare, i paesi si aizzano uno contro l’altro, come galletti in un pollaio. […] Il mondo non è dei signori della guerra il mondo è vostro. E voi il mondo potete cambiarlo, insieme. […] Le cose del mondo che ci piacciono sono state costruite da ragazzi, giovani che hanno saputo sognare un mondo migliore. Immaginatelo, costruitelo”, aveva detto dal palco di Roma, a conclusione di un discorso in grado di scatenare non poche polemiche. “Le accuse di antisemitismo sono ciniche e completamente infondate. Questi stessi giovani scenderebbero egualmente in piazza per difendere la popolazione ebraica massacrata. Anzi, lo farebbero con ancora più furore. Ma è peggio di così: perché brandire la stupida accusa di antisemitismo è soffiare sul fuoco del razzismo: razzismo è leggere tutto in termini di razza, invece che nei termini di chi muore sotto le bombe e chi dà l’ordine di sganciarle. Chi continua a parlare di antisemitismo non sa liberarsi dal suo implicito razzismo”, aggiunge oggi. A difesa dei movimenti studenteschi che lottano affinché la guerra a Gaza abbia fine, a sostegno della popolazione palestinese che stanno prendendo sempre più spazio nelle università: “Penso che l’entrata della polizia negli atenei sia un grande insegnamento per i giovani - conclude- insegna loro a diffidare delle istituzioni. A capire che qualche volta il potere non è per loro. È contro di loro, contro la loro sincerità, contro chi muore sotto le bombe”. Migranti. Tocca ai tribunali costruire la società dell’accoglienza? di Valentina Brinis* L’Unità, 9 maggio 2024 La sentenza di Trapani ha demolito la propaganda sui “taxi del mare” che ha consentito di approvare le norme contro il soccorso in mare, intanto il governo vuol fermare anche gli aerei delle Ong che sorvolano il Mediterraneo. E dunque c’è un giudice a Trapani, prendendo in prestito Bertold Brecht con la sua idea di giustizia a Berlino. Il 18 aprile si è conclusa la fase preliminare di un processo che ha visto sul banco degli imputati alcuni membri degli equipaggi delle organizzazioni umanitarie Juventa, Medici Senza Frontiere e Save the Children. Un procedimento durato sette anni, 7: dal 2017 a oggi. L’accusa principale era quella di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, dopo che alcuni testimoni avevano riportato di essere a conoscenza dell’esistenza di contatti tra gli enti coinvolti e le reti di trafficanti di persone. Anni con il fiato sospeso ad attendere che si facesse chiarezza su comportamenti già chiari, perché salvare la vita in mare di una persona che si trova in pericolo e che rischia di non farcela, è di per sé un gesto inequivocabile. Si tratta di una mossa semplice e allo stesso tempo potente che non richiede spiegazioni. La semplicità viene confermata dalla naturalezza con cui viene compiuta, già una consuetudine per i naviganti di tutti i tempi. Nei secoli in cui si è ripetuta e in cui è stata narrata da scrittori, registi, artisti e poeti, non era mai stata inquisita e sospettata, fino a quando, sette anni fa, è stata travolta dall’onda nera della propaganda più malevola: quella per la quale è possibile dubitare della genuinità di quel gesto legandolo a un ritorno economico. Da qui l’appellativo di “taxi del mare” pronunciato per la prima volta da un politico in carica e non da qualche marinaio nel peggior bar di una città portuale. La fonte autorevole, unita al coro di molte altre - tra cui quella del procuratore generale della Corte d’appello di Catania Carmelo Zuccaro - ha avuto un effetto devastante. L’equiparazione tra Ong e criminalità organizzata ha consentito negli anni l’approvazione di normative tese a ostacolare le pratiche di soccorso in mare. Tra queste si annoverano la legge 77/2019 (convertita dal decreto sicurezza bis del 53/2019) e la più recente stretta data dalla 15/2023. La prima ha introdotto il divieto di “ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane” salvo in caso di autorizzazione da parte dei ministeri dell’Interno, della Difesa e dei Trasporti, con una sanzione al comandante della nave del pagamento di una somma da euro 150.000 a euro 1.000.000. La seconda, oltre a confermare quanto già previsto, dispone che siano sanzionate le imbarcazioni operanti fuori dal coordinamento delle autorità competenti. In virtù di questo, nel corso dell’ultimo anno, la maggior parte delle navi umanitarie sono state fermate e multate. Oltretutto, vista la difficoltà di gestione degli arrivi nel Sud Italia, il Governo italiano ha stabilito che avvenga una rotazione dei porti di sbarco. E così, nell’ultimo anno, sono state indicate le città di Genova, Massa Carrara, Ortona, Ravenna e Civitavecchia, come luoghi in cui far scendere i naufraghi salvati. Proprio questa settimana, il 6 maggio, è stata emessa un’ordinanza dal governo italiano con cui si vogliono fermare le operazioni dei “velivoli e delle imbarcazioni delle ONG sullo scenario del Mare Mediterraneo centrale”. Un provvedimento che si basa su “segnalazioni trasmesse dal Comando generale della Guardia costiera” per cui gli aerei delle ONG sono accusati di “sostanziale elusione del quadro normativo di riferimento” e minacciano sanzioni e sequestri. A pagarne le conseguenze, in ordine di sofferenza umana, troviamo le persone soccorse e i membri degli equipaggi. I primi, indipendentemente dal contesto storico e giuridico, subiscono da sempre la prolungata permanenza a bordo: in passato perché il luogo sicuro di sbarco non veniva assegnato con la rapidità dettata dalle convenzioni internazionali, e ora perché, quando quell’indicazione viene data, per raggiungerla sono necessari molti giorni. I secondi perché da anni sono il bersaglio di campagne denigratorie che hanno fatto passare un messaggio chiaro e diretto: intervenire a supporto di chi è in difficoltà è un’azione sospetta. E così a costruire la società europea dell’accoglienza e dell’integrazione, della convivenza e della pace, ci pensano i tribunali invece di chi siede nei luoghi preposti far rispettare questi principi base su cui si fonda l’idea dell’Unione Europea. *Advocacy Officer di Open Arms Migranti. I “Paesi sicuri” e il patto con l’Albania di Silvia Albano L’Unità, 9 maggio 2024 Secondo il protocollo, in Albania potrebbero essere trattenuti solo i richiedenti asilo provenienti da paesi di origine sicura. Entrano nella lista Bangladesh, Camerun, Colombia, Egitto, Perù e Sri Lanka. Con il DM 7 maggio 2024 è stato allargato l’elenco dei paesi sicuri a ulteriori paesi, includendo così i paesi di origine da cui provengono la maggioranza dei migranti. Attualmente l’elenco dei paesi di origine sicuri è così composto: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Camerun, Capo Verde, Colombia, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia. Rispetto al DM 17 marzo 2023 ove erano stati inseriti paesi come la Nigeria e la Costa d’Avorio, sono stati aggiunti Bangladesh, Camerun, Colombia, Egitto, Perù e Sri Lanka. Forse la necessità del così ampio allargamento deriva dall’esigenza di attuare il protocollo con l’Albania, posto che potrebbero essere lì trattenuti solo i richiedenti asilo provenienti da paesi di origine sicura. Le conseguenze per i richiedenti asilo provenienti da un paese incluso nella lista dei paesi di origine sicura sono molto rilevanti in relazione alla possibilità di effettivamente far valere il proprio diritto di asilo, con una forte limitazione del diritto di difesa e del diritto a rimanere nel territorio dello stato fino all’esame completo della domanda, in deroga ai principi generali affermati nella direttiva UE e nella legge di recepimento della direttiva: si applicano procedure accelerate, tempi strettissimi per audizione e decisione della Commissione territoriale, tempi strettissimi per l’impugnazione del provvedimento di rigetto, mancanza di effetto sospensivo automatico dell’impugnazione del provvedimento di rigetto della Commissione territoriale. Anche recentemente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ribadito (sentenza 11399/24): che il principio generale è la sospensione automatica dell’efficacia esecutiva del provvedimento della CT con la proposizione del ricorso, posta a garanzia della effettività della tutela; la natura di principio generale non può che richiedere la stretta osservanza della possibilità di azione delle deroghe; il giudice in adempimento del dovere di cooperazione istruttoria (art 8 co 3 del D.vo n. 25/2008 - si tratta di dovere inderogabile come più volte affermato dalla Corte di Giustizia) deve, tra l’altro, valutare la effettiva natura di paese sicuro del paese di provenienza del richiedente anche qualora il paese sia inserito negli elenchi contenuti nei decreti ministeriali. Il decreto Ministeriale è fonte normativa secondaria e deve rispettare tanto le fonti sovraordinate, come la Costituzione e la normativa della UE, quanto la legge ordinaria. È lo stesso art 38 della direttiva 2013/32/UE (nuova direttiva procedure) a prevedere la necessità di una verifica della effettiva sicurezza del paese da parte dell’autorità giudiziaria sulla base dei criteri indicati nella norma. L’art 2 bis del D.lvo n. 25/2008, che costituisce attuazione della direttiva 2013/32/UE, stabilisce i criteri in base ai quali un paese può essere inserito nell’elenco dei paesi sicuri: “2. Uno Stato non appartenente all’Unione europea può essere considerato Paese di origine sicuro se, sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione quali definiti dall’articolo 7 del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone. 3. Ai fini della valutazione di cui al comma 2 si tiene conto, tra l’altro, della misura in cui è offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante: a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Paese ed il modo in cui sono applicate; b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, aperto alla firma il 19 dicembre 1966, ratificato ai sensi della legge 25 ottobre 1977, n. 881, e nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 10 dicembre 1984, in particolare dei diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della predetta Convenzione europea; c) il rispetto del principio di cui all’articolo 33 della Convenzione di Ginevra; d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà.” I giudici dovranno, quindi, verificare se il paese designato come sicuro con decreto ministeriale, possa essere effettivamente considerato tale in base a quanto stabilito dalla legge. Medio Oriente. Un negoziato macabro e precario di Michele Giorgio Il Manifesto, 9 maggio 2024 Stallo sulle macerie. Come finirà? A Rafah si consuma, giorno dopo giorno, uno dei drammi più laceranti del mondo contemporaneo dopo mesi di massacri e di stragi. Come finirà? A Rafah si consuma, giorno dopo giorno, uno dei drammi più laceranti del mondo contemporaneo dopo mesi di massacri e di stragi, i 1200 morti israeliani del 7 ottobre, i 35 mila palestinesi, di cui il 70 per cento donne e bambini, ostaggi ebrei compresi di cui nessuno sa davvero quanti siano ancora vivi. È una domanda che si fanno tutti, anche i più indifferenti perché si intuisce che da qui, come dal fronte dell’Ucraina, verrà fuori il nostro futuro e il modo in cui saremo percepiti come una civiltà occidentale credibile al Sud del mondo. La situazione in queste ore appare in uno stallo angosciante e sempre più catastrofico per i palestinesi. Dal punto di vista umanitario e della pura sopravvivenza. Si continua a morire, con e senza bombe: per eliminare i palestinesi e ridurli a fantasmi in mezzo alle macerie di Gaza bastano la fame e le malattie, oltre all’acciaio delle pallottole. È un degrado materiale e morale che punta direttamente alla loro capacità di resistenza, all’idea stessa che possano esistere come popolo e come nazione. Per questo lo chiamano genocidio. Non è una definizione tecnica o giuridica - quella è sotto esame delle istituzioni internazionali - è la realtà dei fatti, è un giudizio politico che scuote, o dovrebbe scuotere, le coscienze. Si negozia e si combatte in attesa di un’offensiva militare israeliana o di un cessate il fuoco, come se questa nuova strage strisciante, condotta in sospensione, fosse lo stato naturale delle cose. Ma la sensazione è che a nessuno dei protagonisti sul campo, da Netanyahu a Hamas, importi più di tanto delle vittime. Loro si stanno giocando una partita diversa, quella della sopravvivenza politica. Per primo Bibi Netanyahu che, come ripetiamo da mesi, vede nella guerra l’unica via per restare al potere. Ma è esattamente così? Lo è in gran parte, eppure forse la situazione è più complicata, la scelta meno secca di quel che sembra: o la guerra o l’uscita di scena. In realtà Netanyahu - preso tra due fuochi, la destra estremista e le pressioni di Biden, come scriveva ieri Michele Giorgio - punta a gestire la guerra ma anche un eventuale cessate il fuoco che visti i precedenti degli ultimi decenni non è mai definitivo. Lo stato di guerra nei territori palestinesi del resto è perpetuo: ogni giorno, da mezzo secolo, i governi israeliani conducono azioni belliche, si impadroniscono della terra degli arabi, erigono muri, vietano strade, eliminano i diritti più elementari, soffocano la libertà di movimento e di pensiero: questo è uno stato colonialista che ha attuato una condizione insostenibile di apartheid. Il fine ultimo è cacciare i palestinesi, non fare la pace con loro e vivere in due stati. Per questo quello in corso è un negoziato macabro e precario rispetto ai fini di questo governo e di cosa è diventato il sionismo in mano ai partiti più radicali ed estremisti. In realtà il premier israeliano è da vent’anni al potere, una sorta di raìs arabo, in questo caso ebraico, confermato da raffiche di elezioni, che manovra le leve del potere con la corruzione e manipola da decenni l’opinione pubblica interna e internazionale, antisemitismo compreso come bene ha sottolineato il senatore americano Bernie Sanders, democratico ed ebreo. Ha un obiettivo a breve termine e non così tanto lontano: superare le elezioni americane di novembre dove se vincesse Trump per lui le cose si metterebbero certamente meglio che con l’attuale amministrazione americana che ha trattato come una sorta di zerbino. Trump è quello che ha riconosciuto Gerusalemme capitale dello Stato ebraico contro ogni risoluzione Onu, la sovranità israeliana sul Golan siriano occupato dal 1967, è il mediatore degli Accordi di Abramo con le monarchie arabe dove seppellire un eventuale Stato palestinese. Biden ha ereditato questo “pacchetto” accettando una visione del mondo così miope e fallimentare che pochi giorni prima del 7 ottobre il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan dichiarava che “la regione del Medio Oriente è più tranquilla oggi di quanto non lo sia mai stata negli ultimi due decenni”. Ed è così che Biden e i suoi sono caduti nella trappola di Gaza, facendosi continuamente ricattare, con un’amministrazione in piena campagna elettorale e in calo di consensi al punto da elargire a Israele miliardi di dollari in aiuti militari, per arrivare poi all’attuale blocco sulle consegne di bombe a Tel Aviv che appare soltanto un tentativo goffo di salvare la faccia. Dall’altra parte c’è Hamas che ovviamente non scomparirà con l’incenerimento di Gaza. Il movimento islamico è stato abile a rilanciare la palla del negoziato in campo israeliano anche se adesso gli Usa hanno chiesto al Qatar, dove tengono una base militare, di eliminare la sua presenza. Ma farlo vorrebbe dire inimicarsi i Fratelli Musulmani che il Qatar ha sempre protetto. Significa entrare in attrito con l’Iran e i suoi alleati che puntano ancora su Hamas che pure ai tempi della guerra civile siriana si era schierato contro Assad. Il cosiddetto “asse della resistenza”, come lo chiamano Teheran e le milizie sciite Hezbollah, è temuto da Israele ma ancora di più dagli Stati arabi, inerti davanti al massacro di Gaza. Come l’Europa neppure loro hanno messo l’ombra di una sanzione a Israele. E anche loro devono garantirsi la sopravvivenza. Allora come finirà? Non finirà, neppure questa volta, con questo negoziato macabro e precario. Medio Oriente. Valichi chiusi, aiuti bloccati. Israele avanza su Rafah di Michele Giorgio Il Manifesto, 9 maggio 2024 Migliaia di civili in fuga. Il carburante non entra, scorte solo per tre giorni. Nella città rimangono 1,4 milioni di palestinesi. Haaretz: Netanyahu vuole affidare a una società privata Usa il controllo del confine tra Gaza ed Egitto. Tedros Adhanom Ghebreyesus ha lanciato ieri un nuovo allarme, sapendo che non sarebbe servito a fermare l’avanzata dei reparti corazzati israeliani nella zona orientale di Rafah e a scuotere i governi mondiali, sempre meno reattivi al contrario della società civile globale. Gli abitanti fuggono dalla città sul confine con l’Egitto. “Tra le 30mila e le 40mila persone hanno lasciato Rafah per Khan Younis e Deir al Balah, ma più di 1,4 milioni di persone rimangono a rischio a Rafah, inclusi 600 mila bambini”, ha avvertito il direttore generale dell’Oms. “L’ospedale Al Najjar di Rafah ha già chiuso - ha proseguito Tedros - I suoi pazienti sono stati trasferiti altrove e il personale ospedaliero sta rimuovendo le scorte e alcune attrezzature per salvaguardarli”. Il carburante che gli ospedali aspettavano non è arrivato, le scorte disponibili non dureranno più di tre giorni. Eppure, una parte del gasolio e benzina occorrenti era a poca distanza, alla stazione di rifornimento di Abu Jarad. Ma le cannonate dei tank israeliani l’hanno fatta saltare in aria. Un video diffuso ieri mostra il bagliore rosso sprigionato dall’esplosione dei depositi di carburante e la stazione di servizio che sparisce. Non sono entrati neanche gli aiuti umanitari dall’Egitto. Contrariamente a quanto annunciato ieri mattina da Israele, entrambi i valichi verso Gaza, Kerem Shalom e Rafah, sono rimasti chiusi, ha denunciato l’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi. Kerem Shalom ha aperto pochi minuti per far passare un’autocisterna e qualche camion. Poi basta. Nessun movimento anche al terminal di Rafah occupato dai carri armati israeliani e dove i soldati a inizio settimana hanno issato la bandiera di Israele al posto di quella palestinese. I comandi militari non hanno commentato il comunicato dell’Unrwa che boicottano da mesi. Piuttosto hanno comunicato il loro bollettino quotidiano di “successi” ottenuti nelle ultime ore. A Rafah Israele sostiene di aver ucciso 30 combattenti di Hamas e di altre organizzazioni palestinesi, in aggiunta ai 20 di due giorni fa. Aggiunge di aver “eliminato” Ahmed Ali, presunto comandante di “forze navali” di Hamas che, comunque, dimostra di conservare ancora buone capacità offensive. Ieri ha indirizzato otto razzi verso il sud di Israele in aggiunta ai lanci dei giorni scorsi che hanno ucciso quattro soldati a Kerem Shalom. I suoi uomini per ora tengono bloccato in periferia l’avanguardia dell’esercito israeliano. Scontri a fuoco proseguono anche nella zona centrale di Gaza centrale così come i bombardamenti di aerei e carri armati israeliani in diverse aree della Striscia, non solo a sud. Il portavoce militare Daniel Hagari, intervistato dal quotidiano Yedioth Ahronot ha annunciato che “è stato presentato un piano al governo per combattimenti a Gaza che dovrebbero durare un anno”. Ha aggiunto che “i prossimi anni saranno difficili e dovremo spiegarlo sia all’interno sia all’esterno”. Parole rivolte anche agli Stati uniti, principali fornitori di armi a Israele, che stanno ritardando, per la prima volta del 7 ottobre, la consegna di bombe ad alto potenziale - 1.800 da 910 chili e 1.700 da 225 chili - perché potrebbero essere usate contro Rafah. In effetti a quello servono, e a bombardare il Libano del sud, non ci sono dubbi. Hagari ha cercato di sminuire le differenze con Washington - contraria, almeno a parole, a una offensiva ampia a Rafah - rimarcando che tra alleati i disaccordi si risolvono “a porte chiuse” e che il “coordinamento con gli Usa ha raggiunto una portata senza precedenti nella storia”. Hagari in fondo non è lontano dalla realtà. Malgrado i “contrasti” tra Washington e Tel Aviv sulla guerra a Gaza di cui i media riferiscono ormai da mesi, l’Amministrazione Biden usa sempre i guanti di velluto con il gabinetto di guerra guidato da Benyamin Netanyahu. Il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Matthew Miller, ha comunicato che “non è ancora pronto” il rapporto sulle violazioni di Israele nella guerra a Gaza che doveva essere consegnato ieri al Congresso. E non ha indicato una nuova data. Israele sta facendo pressioni enormi sugli Usa e altri paesi occidentali per sottrarsi all’accusa di “genocidio” alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aia e alle critiche che riceve per violazioni dei diritti umani e crimini di guerra. Washington inoltre sarebbe d’accordo su una “soluzione” israeliana per il valico di Rafah, rivelata ieri dal quotidiano Haaretz. Israele, ha scritto il giornale, intende negare ad Hamas il controllo della frontiera tra Gaza e l’Egitto, assegnando la gestione del terminal a una società privata statunitense. Il giornale non rivela il nome di questa compagnia formata da veterani dell’esercito americano, di cui si sa solo che ha già operato in diversi paesi del Medio Oriente sorvegliando siti strategici come giacimenti petroliferi, aeroporti, basi militari. Si occuperà in particolare del monitoraggio delle merci che arrivano dall’Egitto. Tel Aviv ritiene che la perdita del transito di Rafah infliggerà un duro colpo, a ogni livello, anche economico, al movimento islamico. Quello che è certo è che l’occupazione del valico ha bloccato ogni uscita di persone dalla Gaza, anche di civili gravemente feriti. Secondo la Gaza Crossings Authority, tra 8mila e 10mila palestinesi sono usciti dalla Striscia negli ultimi mesi. Rafah era l’unico valico di Gaza non controllato da Israele, con il flusso di persone, merci e aiuti umanitari coordinati dalle autorità egiziane e palestinesi. Il mese scorso funzionari militari e di intelligence israeliani ed egiziani si erano incontrati al Cairo per discutere di Rafah senza raggiungere un accordo. Medio Oriente. “Evacuare Rafah? Per andare dove?” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 9 maggio 2024 Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: “A Gaza non c’è più un rifugio sicuro. Italia fedele alla politica filo-israeliana che non vede i palestinesi come titolari di diritti. Siamo il terzo fornitore di armi a Israele, bisogna dire basta”. L’ordine di evacuazione di 100.000 palestinesi, ammassatisi nel corso di questi mesi a Rafah a seguito di precedenti analoghi ordini, è stato il segnale dell’inizio dell’offensiva israeliana, per il momento parziale. Un’operazione terrestre su vasta scala produrrebbe un’ecatombe, lo hanno previsto e lo stanno ricordando in questi giorni le organizzazioni umanitarie e per i diritti umani. Nessun piano di evacuazione potrà garantire sicurezza alla popolazione di Gaza, perché nella Striscia non c’è più alcun luogo dove rifugiarsi. Le zone di provenienza, nel centro e nel nord di Gaza, sono devastate e inabitabili. Per non contare le difficoltà di trasferire 610.000 bambini, persone con disabilità, persone anziane. Il mondo delle istituzioni, almeno in Occidente, sta a guardare, si limita a dichiarazioni di contrarietà o a inviti alla moderazione. Ma una parte del mondo invece è in fermento: le piazze, le università. Luoghi dove l’antisemitismo - che è una rivoltante ideologia contraria ai diritti umani - viene usato come strumento di repressione delle proteste. Si dovrebbe isolare e sanzionare adeguatamente coloro che incitano all’odio, sia online che nelle piazze, e proteggere la libertà d’espressione, favorendo lo svolgimento delle proteste pacifiche: invece, le forze di polizia, negli Usa come in Europa, le sgomberano brutalmente senza fare distinzione. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: la mattanza di Gaza ha raggiunto dimensioni apocalittiche: oltre 34.000 morti, tra cui 10.000 donne uccise e 14.000 bambini. E ora Israele ha avviato un’offensiva terrestre a Rafah. Il mondo sta a guardare e chi osa criticare Israele, in Italia come nei campus universitari di mezzo mondo, viene tacciato di antisemitismo... L’ordine di evacuazione di 100.000 palestinesi, ammassatisi nel corso di questi mesi a Rafah a seguito di precedenti analoghi ordini, è stato il segnale dell’inizio dell’offensiva israeliana, per il momento parziale. Un’operazione terrestre su vasta scala produrrebbe un’ecatombe, lo hanno previsto e lo stanno ricordando in questi giorni le organizzazioni umanitarie e per i diritti umani. Nessun piano di evacuazione potrà garantire sicurezza alla popolazione di Gaza, perché nella Striscia non c’è più alcun luogo dove rifugiarsi. Le zone di provenienza, nel centro e nel nord di Gaza, sono devastate e inabitabili. Per non contare le difficoltà di trasferire 610.000 bambini, persone con disabilità, persone anziane. Il mondo delle istituzioni, almeno in Occidente, sta a guardare, si limita a dichiarazioni di contrarietà o a inviti alla moderazione. Ma una parte del mondo invece è in fermento: le piazze, le università. Luoghi dove l’antisemitismo - che è una rivoltante ideologia contraria ai diritti umani - viene usato come strumento di repressione delle proteste. Si dovrebbe isolare e sanzionare adeguatamente coloro che incitano all’odio, sia online che nelle piazze, e proteggere la libertà d’espressione, favorendo lo svolgimento delle proteste pacifiche: invece, le forze di polizia, negli Usa come in Europa, le sgomberano brutalmente senza fare distinzione. In Italia molto si discute e si polemizza sull’uso del termine genocidio in riferimento a ciò che sta avvenendo a Gaza. Visto da Amnesty International? Questa parola, terribile, che rappresenta il massimo crimine di diritto internazionale, è al centro di uno scontro ideologico che la banalizza e la volgarizza: vedo negare con assolutezza che Israele stia compiendo un genocidio persone che un attimo prima hanno concionato sul Superbonus e un attimo dopo parleranno del premierato; altre affermare senza mezzi termini che, senza alcun dubbio, Israele ha commesso, sta commettendo e commetterà genocidio. Peraltro, quest’anno ricorrono 30 anni dal genocidio del Ruanda e 10 da quello, compiuto dallo Stato islamico, del popolo yazida. Nessuno ne parla. Non interessano. Ma tornando a Israele, per Amnesty International un rischio concreto e imminente di genocidio esiste. La Corte di giustizia internazionale deciderà coi suoi tempi. Ma attenzione: se stabilirà che Israele non ha commesso genocidio, resterà aperta tutta la questione dei crimini di guerra su cui sta indagando l’altro tribunale, la Corte penale internazionale. Mi auguro che le leadership di Israele e di Hamas siano presto raggiunte da mandati di cattura. Quale è complessivamente lo stato dei diritti umani nei Territori palestinesi? Amnesty International ha documentato e denunciato a più riprese il regime di apartheid di fatto instaurato da Israele in Cisgiordania... Tutti gli indicatori ci dicono che, all’ombra della guerra nella Striscia di Gaza, nella Cisgiordania occupata la situazione è ulteriormente peggiorata: dal punto di vista dei raid mortali dell’esercito israeliano, della violenza impunita dei coloni, del numero dei palestinesi in carcere (ormai 9500 tra condannati, in attesa di giudizio o in detenzione amministrativa), decine dei quali torturati e morti in custodia. L’occupazione della Cisgiordania è uno degli aspetti più crudeli dell’apartheid israeliano contro la popolazione palestinese: porre fine all’occupazione sarebbe il primo passo per porre fine all’apartheid. L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione europea, Josep Borrell, ha annunciato che entro maggio altri paesi europei riconosceranno lo Stato di Palestina. Tra questi non c’è l’Italia... Sono scelte politiche. L’Italia ha un ruolo prudente su questo tema, in ossequio a una politica filoisraeliana mai messa in discussione, neanche in questo periodo, che vede i palestinesi al massimo meritevoli di aiuti ma non titolari di diritti. Ma se, per ragioni politiche, a differenza del 72 per cento della comunità internazionale, l’Italia non intende riconoscere lo Stato di Palestina, ciò non implica la rinuncia a chiedere il rispetto dei diritti umani dei palestinesi. Che altro si potrebbe fare di concreto? L’Italia attualmente figura al terzo posto nella classifica dei fornitori internazionali di armi al governo israeliano. Il 5 aprile è stato depositato un ricorso civile al Tribunale di Roma per chiedere un intervento urgente della magistratura che vieti al governo italiano di essere complice con le violazioni di diritti umani da parte delle autorità israeliane a Gaza, ivi compreso l’ulteriore trasporto e vendita di armi. A promuoverlo, coadiuvato da un gruppo di avvocati dell’Ordine di Torino e sostenuto da diverse Ong, è Salahaldin M. A. Abdalaty, un avvocato palestinese di anni che ha perso numerosi parenti a causa dei bombardamenti israeliani. Un mese dopo si è aggiunto un esposto-denuncia presentato alla Procura di Roma da alcuni gruppi della società civile. La presentazione dell’esposto è accompagnata da quella di una diffida al ministero degli Affari esteri che chiede la “immediata sospensione delle autorizzazioni rilasciate in favore di società di produzione e vendita di armamenti che commerciano con lo Stato di Israele e con enti di quello Stato, in quanto sono da ritenere illegittime perché contrarie alle norme del diritto interno ed internazionale”. Questa del contenzioso giudiziario può essere una strada concreta per incidere su quanto sta accadendo a Gaza... Dall’Ucraina al Medio Oriente, passando per altri 57 conflitti armati in corso. Il mondo è sempre più dentro una terza guerra mondiale a pezzi, per usare le parole di Papa Francesco. Tra un mese si vota per le europee, ma il dibattito in Italia si concentra su alleanze, candidature, colpi bassi. Il rispetto dei diritti umani non è nell’agenda della politica. Il Rapporto 2023-2024 di Amnesty International, che abbiamo pubblicato il 24 aprile, presenta un quadro drammatico della situazione dei diritti umani a livello globale. Non è tanto il numero degli stati esaminati, 155, ad allarmare: grosso modo, è lo stesso degli ultimi anni. Ma mai come in questo ultimo biennio il sistema internazionale di protezione dei diritti umani, nato dopo la Seconda guerra mondiale con l’obiettivo di evitare altre sofferenze alle popolazioni civili, è collassato. La guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, il conflitto in Medio Oriente e quelli, meno noti, in Asia e in Africa hanno fatto registrare una sequenza infinita di crimini di atrocità: attacchi diretti contro centri abitati, attacchi mirati contro infrastrutture civili fondamentali come ospedali e centrali elettriche, trasferimenti forzati di popolazioni, uccisioni illegali di civili, cattura di ostaggi e loro prolungata detenzione. Hanno contribuito a questo sfacelo anche l’inazione e i consueti doppi standard del Consiglio di sicurezza: gli Usa hanno bloccato per mesi risoluzioni per risolvere la crisi in Medio Oriente, proteggendo così Israele mentre continuavano a inviargli armi. In sintesi, mentre singole leadership irresponsabili promuovono i conflitti, c’è un fallimento di leadership collettiva nel prevenirli e, una volta scoppiati, nel fermarli. È come se uno stato di cose eccezionale - la guerra e i suoi crimini, la militarizzazione persino del vocabolario - fosse diventato la norma... È vero, la tutela dei diritti umani è assente dal dibattito (la loro violazione, invece, lo è, ovunque corroborata da una narrazione criminalizzante nei confronti del dissenso). Eppure, tra un mese ci sarebbe l’occasione buona per invertire la rotta e riportare avanti la macchina del tempo: le elezioni parlamentari europee. A questo proposito, Amnesty International ha lanciato un suo “Manifesto elettorale” in quattro punti: un’Unione europea fermamente basata sul rispetto dei diritti umani di tutte le persone; una politica europea solidale nei confronti delle persone migranti e rifugiate; una politica estera europea centrata sulla promozione e sulla protezione dei diritti umani nel mondo; un’azione rapida e concreta per contrastare il cambiamento climatico. Qual è l’aspettativa di Amnesty International? Auspichiamo che le candidate e i candidati facciano propri i punti del nostro “Manifesto elettorale”. In un momento storico in cui i principi fondamentali dei diritti umani e la preminenza del diritto sono a rischio, è indispensabile che le persone facciano sentire la loro voce. Le elezioni parlamentari europee avranno un ruolo decisivo nella vita quotidiana futura di milioni di persone. Per dare loro una prospettiva più luminosa, equa e sostenibile, l’Unione europea deve porre i diritti al centro dei suoi programmi d’azione. Vogliamo un Parlamento europeo formato da persone che sosterranno e promuoveranno i diritti umani in casa e all’estero e che saranno pronte a chiamare le istituzioni europee a rendere conto dei loro fallimenti. Che, temo, non mancheranno. L’Egitto al tempo di al Sisi: miseria, carcere e censura di Alessandra Fabbretti Il Manifesto, 9 maggio 2024 Paesi “sicuri”. Centomila prigionieri politici, repressione dei diritti delle minoranze, delle persone Lgbtqia+, della stampa. E da aprile 2023 si moltiplicano le accuse di arresti arbitrari, abusi e respingimenti di rifugiati in fuga dalla guerra civile sudanese. Nel nuovo elenco dei Paesi sicuri per i migranti il governo Meloni inserisce anche l’Egitto, per facilitare il rimpatrio di persone migranti. Neanche Luigi Di Maio, all’epoca in cui guidava il ministero degli esteri e accusava le ong di essere “taxi del mare”, arrivò a tanto. E dire che erano ancora in corso le faticose indagini della Procura di Roma sull’uccisione di Giulio Regeni, il ricercatore di Fiumicello sequestrato, torturato e ucciso tra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016 al Cairo. Oggi, non solo quelle indagini si sono concluse, ma il processo si è aperto e vede alla sbarra quattro 007 egiziani, con accuse che richiamano i racconti diffusi in questi anni dalle più autorevoli organizzazioni per i diritti umani, egiziane e non: in Egitto è “normale” subire da parte delle forze di sicurezza sparizioni forzate, torture durante gli interrogatori o in carcere, processi iniqui o violenze tali da correre il rischio di morire. Lo sa bene Patrick Zaki, attivista e studente dell’università di Bologna che, grazie all’attenzione mediatica ottenuta dai suoi legami con l’Italia, è incorso “solo” nell’elettrochoc, in varie forme di violenza psicologica e tre anni di carcere senza accuse formali né processo. Situazione peggiore per il noto attivista per i diritti umani e civili Alaa Abd El Fattah. In carcere dal 2021, è stato lasciato per mesi in cella di isolamento senza la possibilità di leggere - neanche l’orologio - praticare sport o ascoltare musica. Dietro le sbarre c’è anche chi ci rimette la vita, come Shady Habash, regista 24enne “colpevole” di un video in cui prendeva in giro il presidente Abdelfattah Al-Sisi. Si stima che nelle carceri egiziane siano detenuti tra le 60 e le 100mila persone per reati politici e di coscienza. Tra loro, oltre ai difensori dei diritti umani, anche giornalisti, intellettuali e politici, che commettono l’errore di chiedere riforme sociali ed economiche in un paese in cui l’inflazione è intorno al 35% e tanti giovani fanno lavori sottopagati. Da ottobre, poi, con l’avvio dell’operazione militare israeliana contro la Striscia di Gaza, sono finiti agli arresti anche egiziani che hanno protestato in segno di solidarietà con i palestinesi, come conferma Amnesty International. In Egitto, però, non rischia solo chi fa attivismo: tanti e tante influencer hanno subito condanne per aver violato “i valori morali tradizionali”. Vanno incontro ad arresti e persecuzioni anche membri della comunità Lgbtqia+ oppure i residenti della penisola del Sinai: dopo gli attacchi della branca locale dello Stato islamico, le autorità hanno arrestato arbitrariamente decine di persone poiché sospettate di legami col gruppo. Human Rights Watch e Sinai Foundation for Human Rights hanno documentato l’arresto di una ventina di donne tra il 2017 e il 2022. Le Nazioni unite hanno denunciato invece l’arruolamento di minori per rafforzare i ranghi egiziani nell’area. Da aprile 2023, infine, si moltiplicano le accuse di arresti arbitrari, abusi e respingimenti di rifugiati in fuga dalla guerra civile sudanese. Chi decide di partire alla volta dell’Europa via mare - tra cui anche tanti egiziani, a causa della forte crisi economica, con un’inflazione alle stelle e un sistema produttivo in cui le aziende dell’esercito sono oligopoliste - rischia di non essere tratto in salvo, se il barchino su cui viaggia entra in difficoltà: l’ultimo episodio secondo EuroMed Rights risale a marzo. L’organizzazione riferisce di un’imbarcazione alla deriva con 160 persone tratte in salvo da un mercantile privato.