Carceri vicine al collasso: sfondato il muro dei 61mila detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 maggio 2024 I dati del Dap confermano che la situazione carceraria ha raggiunto livelli critici, con 145 istituti penitenziari su 189 che superano il tasso di affollamento del 100%. I nuovi dati aggiornati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) attestano un ulteriore incremento del sovraffollamento nelle carceri italiane. Il numero di detenuti presenti alla data del 30 aprile 2024 risulta pari a 61.297: sono cresciuti di 1.131 unità da inizio anno (+1,9%). Siamo sempre più vicini a quello che portò nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo ad infliggerci una umiliante condanna per trattamenti inumani e degradanti. L’aggiornamento dei dati del Dap conferma che la situazione carceraria ha raggiunto livelli critici, con 145 istituti penitenziari su 189 che superano il tasso di affollamento del 100%. Solo due regioni, il Trentino Alto Adige e la Sardegna, registrano un numero di detenuti inferiore ai posti effettivamente disponibili. Questi dati sconcertanti mettono in evidenza una crisi sistemica che richiede urgenti interventi ancora rimasti inevasi, nonostante le sollecitazioni a intervenire sul fenomeno, anche da parte del Presidente della Repubblica lo scorso 16 marzo. Una tendenza preoccupante è l’incremento dei detenuti in attesa di giudizio, soprattutto nel Lazio, come segnala l’aggiornamento da parte del garante regionale Stefano Anastasìa. Ad inizio anno, il numero di detenuti in attesa di giudizio nella regione era di 1.922, ma è cresciuto del 5% fino a superare le 2.000 unità, attestandosi a 2.037. Questo aumento ha portato la percentuale di detenuti in attesa di giudizio rispetto al totale della popolazione detenuta dal 29,4% all’attuale 30,1%, un valore significativamente superiore al 25,5% registrato a livello nazionale. Un altro dato riguarda la presenza di detenuti stranieri. Attualmente, in Italia, ci sono 2.547 detenuti stranieri, che costituiscono il 37,7% della popolazione carceraria regionale, rispetto al 31,4% a livello nazionale. Anche in questo caso, si registra un aumento significativo, con 61 detenuti stranieri in più rispetto all’inizio dell’anno, corrispondenti a un incremento del 2,5% nel Lazio. Un’altra problematica da considerare è la presenza di bambini dietro le sbarre. A livello nazionale, ci sono attualmente 23 bambini detenuti insieme alle loro madri. Il mese precedente erano 18. A tutto ciò si aggiungono i 34 suicidi dall’inizio dell’anno (è compreso anche quello avvenuto nel centro di permanenza e rimpatrio di Ponte Galeria), con l’ultimo avvenuto sabato scorso nel carcere di Siracusa. Un’emergenza che ha portato la Conferenza nazionale dei garanti territoriali, per voce del portavoce Samuele Ciambriello e del direttivo, a indicare delle proposte per far fronte al dramma tramite il documento intitolato “Indignarsi non basta più”. Quest’ultimo rivela la situazione critica e propone soluzioni immediate per contrastare il degrado delle condizioni carcerarie. L’inerzia delle istituzioni ha portato ad un aumento dei suicidi in carcere, con 34 detenuti che si sono tolti la vita solo quest’anno, oltre a quattro agenti di Polizia penitenziaria. Il fenomeno dell’autolesionismo e della violenza sistematica è in crescita, come evidenziato dalle recenti indagini sulle violenze nelle carceri di Reggio Emilia e Milano. I dati rivelano che il 64% dei suicidi coinvolge detenuti con reati contro il patrimonio e il 60% avviene nei primi sei mesi di detenzione. Il sovraffollamento, come confermano i dati appena aggiornati, è diventato insostenibile. Nel documento dei garanti, vengono elencate delle proposte concrete. In primis si propone l’approvazione di misure immediate per ridurre il sovraffollamento, tra cui l’ampliamento dell’istituto della liberazione anticipata. Questa proposta, già al vaglio della Commissione Giustizia della Camera dei deputati, prevede un’estensione del beneficio della liberazione anticipata per detenuti con una condotta esemplare, incentivando comportamenti positivi e riducendo le tensioni nelle carceri. I garanti segnalano anche la necessità di investire nelle infrastrutture carcerarie per rendere gli ambienti più vivibili e igienici. Inoltre, propongono l’assunzione di più personale specializzato nel prevenire e gestire il disagio psicologico, garantendo anche una formazione continua per affrontare situazioni di violenza e stress lavorativo. Si propone inoltre di esplorare l’uso delle nuove tecnologie per migliorare il contatto con l’esterno e rendere più umana l’esperienza detentiva. Altro punto è la critica nei confronti dell’applicazione della circolare del Dap risalente a luglio del 2022 che, a giudizio della Conferenza nazionale dei garanti, avrebbe peggiorato le condizioni all’interno del carcere. Questa circolare, pensata per dare un trattamento più personalizzato ai detenuti, sta causando problemi. Anche se dovrebbe favorire un trattamento più aperto, in realtà molte celle sono chiuse per la maggior parte del tempo. Questo crea tensioni tra i detenuti e fa sì che le carceri siano sempre più affollate. Questa situazione potrebbe portare a nuove condanne dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Per questo motivo, i garanti propongono di rendere meno rigida l’applicazione di questa regola, considerando meglio la situazione reale delle carceri. L’altra osservazione da parte della Conferenza nazionale dei garanti territoriali riguarda l’importanza di intervenire per garantire il diritto all’affettività anche all’interno del carcere. I garanti denunciano il mancato intervento, né a livello amministrativo né legislativo, riguardo alla sentenza auto-applicativa della Corte costituzionale numero 10 del 2024. Questa sentenza riguarda la protezione del diritto all’affettività delle persone detenute e il diritto a colloqui riservati e intimi, senza controllo visivo. Per questo motivo viene evidenziata l’urgenza di garantire che questa sentenza venga applicata in modo uniforme in ogni istituto penitenziario, come stabilito dalla Corte costituzionale. Inoltre, i garanti ritengono importante sottolineare che non sono state fatte azioni concrete per aumentare in modo coerente e uniforme i contatti con i familiari e altre persone esterne. Le promesse fatte dal ministro Carlo Nordio riguardo all’aumento dei colloqui telefonici, fatte subito dopo i tragici suicidi di due donne avvenuti nella sezione femminile della Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, non si sono mai tradotte in azioni effettive. La situazione attuale richiede un impegno attivo e la traduzione di quest’ultimo in soluzioni immediate. Di fronte a oltre 60mila persone coinvolte, la speranza e la dignità di intere comunità sono messe in discussione dall’inerzia del Legislatore, il quale, con il suo immobilismo, rischia di svilire i principi fondamentali di giustizia e umanità. I garanti chiedono quindi un intervento tempestivo per riportare speranza e dignità nelle vite di coloro che si trovano dietro le sbarre. Lo fanno ricordando le parole di Papa Francesco, il quale afferma che il carcere deve essere un luogo di rinascita, sia morale che materiale. L’appello dei garanti territoriali è chiaro: è ora di passare dalle parole ai fatti, dalla indignazione all’azione. La dignità e la speranza di migliaia di individui dipendono da questa trasformazione. Carceri e recidiva, al dibattito organizzato da Gelmini si è parlato di sovraffollamento e suicidi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 maggio 2024 “Vogliamo ascoltare la voce di imprenditori, ma anche volontari e associazioni che portano avanti, nonostante mille difficoltà, progettualità importanti da replicare in altri istituti penitenziari”, ha detto la portavoce di Azione. “Incentivare il lavoro nelle carceri, avvicinando il mondo dell’impresa ai detenuti, è prioritario se vogliamo puntare alla recidiva zero. Quella di oggi è un’iniziativa trasversale, oltre ogni appartenenza o colore politico. Siamo tutti in prima linea e siamo qui per ascoltare chi ogni giorno opera nelle carceri italiane, mettendo al centro la formazione e il lavoro”. Lo ha detto Mariastella Gelmini, senatrice e portavoce di Azione, in apertura dell’evento “ESG e Carcere: l’inclusione possibile” nella sala Zuccari del Senato. “Penso - ha aggiunto - alla Fondazione Severino, a Ethicarei, Sielte, Bee4, la Cooperativa L’Arcolaio, ma anche al Dipartimento Amministrazione Penitenziario (Dap) e al Collegio del Garante nazionale per le persone private della libertà. Vogliamo ascoltare la voce di imprenditori, ma anche volontari e associazioni che portano avanti, nonostante mille difficoltà, progettualità importanti da replicare in altri istituti penitenziari. Il lavoro è inclusione e questo vale anche per chi è recluso. La funzione rieducativa della pena prevista dall’Art. 27 della nostra Costituzione deve essere la nostra bussola”. All’evento hanno partecipato esponenti di diversi partiti, da Marco Scurria di Fd’I alla dem Lia Quartapelle, fino a Ivan Scalfarotto di Iv e Giustizia Versace di Azione. Gli operatori del carcere garantiscono formazione e lavoro ma gli ostacoli sono molti e solo una minoranza di detenuti ha accesso a lavoro e formazione, è stato il senso del dibattito, e pochissimi a lavoro fornito dalle aziende. Tuttavia è provato che dove c’è lavoro si riduce la recidiva, ha aggiunto Gelmini, e il senso di un ciclo di incontri che stiamo mettendo in campo è capire in modo trasversale come intervenire per migliorare la legge Smuraglia, come diffondere le buone pratiche e come superare il pregiudizio su chi si trova in carcere. “La pena della reclusione comporta la perdita della libertà, non la perdita della dignità - ha detto Ivan Scalfarotto - L’idea secondo la quale il carcere dovrebbe essere afflittivo oltre la perdita della libertà personale è inaccettabile, così come è del tutto sbagliato pensare che la sanzione penale sia la panacea per qualsiasi allarme sociale”. Per Versace “lavorare in carcere non deve essere un’eccezione” e per questo “dobbiamo unire le forze e mettere in campo le giuste sinergie per replicare esempi virtuosi, che meritano di essere raccontati, e anche per mettere le imprese nelle condizioni di formare e assumere detenuti ed ex detenuti senza pregiudizi”. La parola “carcere”? Nella Costituzione italiana non c’è di Paolo Foschini Corriere della Sera, 8 maggio 2024 L’ex ministra Marta Cartabia: “Rieducazione e interventi sociali, reinserimento vuol dire più sicurezza per tutti. Bisogna uscire dal tunnel mentale che prevede il carcere come unico sbocco della sanzione penale. La maggior parte dei detenuti vive situazioni di disagio, dipendenze, problemi psichiatrici: bisogna investire in strutture esterne che abbiano cura di loro e che oggi mancano”. La cosa pazzesca di quando a farti leggere un testo è qualcuno che davvero “la sa” - come si dice - è che all’improvviso ti apre gli occhi sul fatto che nel testo c’è già scritto tutto, bello chiaro, e che ancora più chiaro e spesso più importante in certi casi è quello che non c’è. Così Marta Cartabia - presidente emerita della Corte Costituzionale (prima donna a esserlo) poi ministra della Giustizia con il governo Draghi, oggi tornata al suo mestiere di prof di Diritto costituzionale alla Bocconi di Milano, la città in cui si era laureata con una tesi sulla possibile esistenza di un “Diritto costituzionale europeo” - quando le spieghi che vorresti intervistarla sull’articolo 27 della Costituzione e sulla sua applicazione attuale nelle carceri italiane sente per prima cosa la necessità di precisare, con la pazienza di chi è costretto a spiegare quel che chiunque ai suoi occhi dovrebbe ricordare: “Intanto occorre attenersi al testo dell’articolo. È vero che in genere si è soliti collegarlo al tema del carcere. Ma basta leggerlo, in realtà, per vedere che in questo articolo la parola carcere neppure c’è”. Oddio... non c’è! “Infatti si parla solo di pena, senza specificare. Anzi, sempre per stare al testo: “le pene”, al plurale. Il che significa certamente da parte dei nostri Costituenti la consapevolezza di un tema ineludibile, quello delle sanzioni per i comportamenti portatori di un disvalore. Ma indica anche che il “come” di tali sanzioni è tutto da immaginare. E noi dobbiamo stare attenti a non sovrapporre l’esistenza innegabile di una tradizione carceraria al fatto che tale tradizione, diciamo pure abitudine, non si possa cambiare”. Vede che ci siano stati passi avanti in questo senso? “Quelli compiuti negli ultimi decenni sono appunto consistiti, soprattutto, nell’immaginare pene diverse dal carcere. Oltre naturalmente, nel 2007, all’abolizione completa della pena di morte che proprio l’articolo 27, nell’ultima riga, fino ad allora consentiva che fosse regolata dalle leggi militari, in tempo di guerra”. E poi? “Direi che alcuni passi avanti ci sono stati. Sia attraverso le misure alternative alla detenzione, che vengono decise dal magistrato di sorveglianza spesso dopo che il condannato è comunque passato dal carcere; sia oggi attraverso le pene sostitutive, che invece sono decise dal giudice a conclusione del processo. E quindi permettono di evitare il passaggio dal carcere, dove non è necessario: e questo fa una bella differenza. La messa alla prova può essere assegnata addirittura prima della sentenza, sospende il processo e se il percorso si conclude bene evita anche l’iscrizione nel casellario. Lo scopo ultimo è quello di uscire dal tunnel mentale che prevede il carcere come unico sbocco della sanzione penale. Idea che, come abbiamo visto, nella Costituzione non c’è”. È uno dei punti della riforma voluta da lei come Ministra… “E mi risulta che attualmente le persone fuori dal carcere con misure o pene alternative siano oltre 70mila rispetto a circa 65mila, se non più, in carcere”. Che sono comunque il doppio dei detenuti degli Anni 80, con trenta suicidi nei primi quattro mesi del 2024… “Numeri tremendi. A maggior ragione se si pensa che allo stesso tempo i reati più gravi sono diminuiti in modo verticale. Mentre il sovraffollamento è tornato ai livelli del 2012, quando con la famosa sentenza Torregiani l’Italia fu condannata dall’Europa per tortura. Il direttore di San Vittore, Giacinto Siciliano, ha definito recentemente il sistema carcerario italiano di oggi come una discarica sociale in cui finiscono perlopiù persone con problemi di dipendenza o psichiatrici. Che in stato di detenzione potranno solo peggiorare. In entrambi i casi si sconta la mancanza di strutture idonee, fuori dal carcere, in cui ricevere le cure di cui avrebbero bisogno”. Fin qui le modalità delle pene. E la loro funzione? “L’articolo 27 su questo è chiaro: la parola chiave è rieducazione. Che a mio parere va intesa nel suo senso più ampio: dare una seconda possibilità, consentire a chi ora è in carcere di uscire con una prospettiva nuova sulla sua vita. Diciamo che modalità di esecuzione e finalità delle pene sono legate tra loro a doppio filo”. A che punto siamo? “La Costituzione è molto realistica, indica una direzione da percorrere e infatti usa l’espressione “tendere alla rieducazione del condannato”: tendere a, suggerisce l’idea di un lavoro inesauribile, di un perenne avvicinamento a una meta mai definitivamente raggiunta. Ma indica anche che bisogna continuare a provarci, per conquistare ogni volta un metro in più”. Come? Con quali priorità? “La prima che indicherei è interrogarsi sulle radici profonde della criminalità. E se, come suggerisce il direttore di San Vittore, la maggior parte dei detenuti vive situazioni di disagio sociale, cioè emarginazione, dipendenze, problemi psichiatrici, allora forse bisogna investire in strutture, istituzioni, comunità esterne al carcere che si prendano cura di quel disagio, in modo da prevenire la commissione di reati. Queste strutture mancano”. E quando comunque si arriva in carcere? “Il carcere è un universo abitato da situazioni molto diverse l’una dall’altra. E sono tutte situazioni che richiedono competenze specifiche. Avere a che fare con detenuti in 4i bis è diverso dall’occuparsi di un detenuto che soffre di dipendenze o con problemi psichiatrici. La popolazione carceraria sta cambiando e questo ci porta all’altra priorità: la formazione continua di tutto il personale”. Lei da Ministra aveva visitato Santa Maria Capua Vetere, ora c’è l’inchiesta sulle violenze al minorile milanese Beccarla. La formazione basta? “Non è l’unica cosa, naturalmente c’è la scarsità di personale da colmare e ci sono i problemi delle strutture, ma senza la formazione il resto sarà inutile. Quando sono arrivata al Ministero ho scoperto con stupore che non si facevano concorsi per le direzioni delle carceri da più di 25 anni. Ma oltre ai concorsi servono corsi, continui”. Ultimo punto, quello centrale: ma una società con meno carcere e più alternative, diciamo così, siamo sicuri che sia più sicura? “Poco ma sicuro, parlano i numeri: un detenuto che ha fatto un percorso di reinserimento è meno incline alla recidiva, un ragazzo che in carcere ha subito violenze ne uscirà più violento. Basta vedere le statistiche. Se non per convinzione, facciamolo per convenienza: stare con la Costituzione vale sempre la pena”. “Bisogna aver visto il carcere”. Un tirocinio in cella per le toghe di Valentina Stella Il Dubbio, 8 maggio 2024 L’iniziativa nasce da un’idea dell’associazione Italiastatodiritto e del suo presidente, l’avvocato Guido Camera, insieme ad altre organizzazioni e movimenti come Associazione Amici di Sciascia, la Fondazione Enzo Tortora, la Società della Ragione, Unione Camere Penali. Il 14 maggio sarà presentata alla Camera da +Europa. Far trascorrere ai magistrati ordinari in tirocinio almeno quindici giorni in carcere, compresa la notte: è questo il fulcro della proposta di legge che verrà presentata il prossimo 14 maggio alla Camera dei deputati su iniziativa dei parlamentari di +Europa Riccardo Magi e Benedetto della Vedova. L’iniziativa nasce da una idea dell’associazione Italiastatodidiritto e del suo Presidente, l’avvocato Guido Camera, che, insieme ad altre organizzazioni e movimenti (come Associazione Amici di Sciascia, la Fondazione Enzo Tortora, la Società della Ragione, Unione Camere Penali), ha elaborato questa proposta pensata nel segno delle battaglie “per una giustizia giusta” di Leonardo Sciascia e di Enzo Tortora “e che ci è quindi sembrato naturale intitolare proprio Sciascia-Tortora”, scrive Camera nella lettera di presentazione. La pdl si articola in due semplici previsioni: che l’attività formativa del magistrato comprenda anche lo studio del diritto penitenziario e della letteratura dedicata al ruolo della Giustizia; che i magistrati in tirocinio svolgano un’esperienza formativa in carcere di quindici giorni. La prima previsione vuole arricchire il quadro della formazione del magistrato con lo studio del diritto penitenziario e con esperienze culturali che lo aiutino ad adottare un approccio anche filosofico e umanistico alla delicatissima funzione che si accinge ad esercitare. “La lettura dei testi sciasciani, insieme agli interrogativi sulla giustizia che solleva Enzo Tortora nelle sue lettere dalla prigionia, sono un invito alla riflessione sull’immensa responsabilità che grava su chi si accinge a giudicare”, sottolinea ancora Camera. Come si ricorda leggendo il comunicato di presentazione “la proposta fu del resto enunciata dallo stesso Ministro della giustizia in carica, Carlo Nordio, il 18 novembre 2011 a Palermo, durante il secondo Leonardo Sciascia Colloquium organizzato dalla Associazione degli Amici di Sciascia quale prima proposta che avrebbe indirizzato al Parlamento se mai fosse divenuto Ministro della Giustizia”. La seconda previsione si occupa della necessità di effettuare un’esperienza significativa della vita in carcere da parte dei giovani magistrati, sulla scorta dell’esempio di quanto già avviene in Francia. “Accostarsi all’umana sofferenza che accompagna la restrizione della libertà personale serve a ricordare che l’esercizio della funzione giudiziaria non si risolve in un fatto solamente tecnico, abbisognando sempre di adeguata “scienza del cuore umano”“, sottolinea sempre il presidente dell’Associazione. In particolare si richiede una modifica al decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26, che istituisce la Scuola Superiore della Magistratura: “Durante la sessione presso la Scuola, i magistrati ordinari in tirocinio svolgono un periodo non inferiore a quindici giorni di esperienza formativa carceraria, nonché di approfondimento interdisciplinare anche delle tecniche di mediazione dei conflitti. L’esperienza formativa carceraria deve prevedere, secondo modalità operative concordate con il Consiglio Superiore della Magistratura e il Ministero della giustizia, anche il pernottamento dei magistrati ordinari in tirocinio all’interno di case circondariali o di reclusione”. È noto, rammenta sempre l’associazione Italiastatodidiritto, che “il Presidente emerito della Corte Costituzionale Prof. Valerio Onida, primo Presidente della Scuola Superiore della Magistratura, fu determinatissimo nell’organizzazione di stage dei magistrati presso gli Istituti penitenziari, ispirati dalla sua esperienza di volontario presso lo Sportello giuridico del Carcere di Bollate e dalle sue visite in carcere. Quella iniziativa, così come la proposta di legge Sciascia Tortora, del resto, traeva spunto dall’esperienza della Scuola della magistratura francese a Bordeaux, durante la quale i giovani magistrati francesi, addirittura, durante lo stage si vestono con gli abiti della Polizia al fine di realizzare coi detenuti un’esperienza il più possibile simile alla realtà”. Di questo tema si parlerà anche a Modena, in uno degli eventi organizzati dall’associazione nell’ambito del Festival della Giustizia penale 2024 dal titolo “La vita e la morte nella giustizia penale”. In particolare sabato 18 alle ore 15 si terrà il dibattito, moderato da un giornalista del Dubbio, “La vita dell’innocente durante e dopo il processo. In ricordo di Enzo Tortora (18 maggio 1988)” con gli interventi di Guido Camera, Eugenio Albamonte (già presidente dell’Anm), Mario Rossetti (autore del libro Io non avevo l’avvocato), Francesca Scopelliti (compagna di Enzo Tortora e presidente della Fondazione Internazionale per la Giustizia Enzo Tortora). Per leggere la proposta e sottoscriverla www.italiastatodidiritto.it L’arredamento può cambiare la vita dei detenuti: “Lo Stato non può far ammalare in cella le persone” di Rossella Grasso L’Unità, 8 maggio 2024 “Lo spazio è importante perché lo Stato ha in carico i detenuti: non possiamo vedere entrare uomini e donne giovani e forti per far uscire persone sostanzialmente malate perché le condizioni sono tali che alla fine il corpo si ammala, oltre alla mente”. Ne è convinta Marella Santangelo, Ordinario di Composizione architettonica e urbana e delegata al Polo Universitario Penitenziario (PUP) dell’Università Federico II di Napoli. Insieme a Paolo Giardiello, docente di Architettura degli interni e arredamento dello stesso ateneo da anni lavora al progetto per creare modelli sperimentali di intervento per il lavoro e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale. Nell’ambito della Design Week a Napoli è stato presentato per la prima volta al pubblico il nuovo progetto di arredi per gli istituti penitenziari italiani frutto di quattro anni di lavoro. “Il carcere purtroppo è un luogo di sofferenza e di dolore ma non nasce per questo scopo - ha detto Giovanni Russo, Capo del DAP Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, intervenuto alla presentazione del progetto - Il carcere ha uno scopo di rieducazione e riabilitazione. Questo progetto serve a rendere più umano e vivibile l’ambiente in cui i detenuti devono trascorrere la loro detenzione, in un’ottica di recupero sociale e di acquisizione di un ruolo personale, professionale, con cultura, con abilità anche sportive che consentono al detenuto, una volta terminata la carcerazione di poter rientrare nella società formato e con una plausibile speranza di trovare un lavoro, oltre che accoglienza nella comunità e nella società”. Migliorare la condizione dei detenuti a partire dagli spazi - Si chiama “C.u.r.v.e.”, ovvero Centered Unortodox Rights Value Equipments, ed è il progetto pilota che mira ad arrivare in tutte le carceri italiane. “Punta al nuovo arredo per questioni di benessere dei detenuti ma anche all’impiego dei detenuti - spiegano Santangelo e Giardiello - Tutto quello che abbiamo progettato viene realizzato nelle falegnamerie dei penitenziari. Per il momento si sta già sperimentando nel carcere di lecce e di Sulmona da cui provengono i prototipi che sono in mostra a palazzo Gravina per la Design Week”. Il gruppo di lavoro “Modelli sperimentali di intervento per il lavoro e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale” è composto da Gabriella De Stradis, Pasquale Orlando, Antonio Scotti, Carmine Cipollone, Francesco Addante, Paolo D’Addabbo. “In questo momento stiamo vivendo l’emergenza carceri - continua Santangelo - Legata al sovraffollamento, ancora una volta, siamo in attesa di una ulteriore condanna da parte della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, ma con il nostro gruppo di lavoro, con cui lavoriamo sullo spazio della detenzione da anni, riteniamo che se si comincia a lavorare alla rigenerazione, recupero e riqualificazione, degli istituti già esistenti, già si può fare un gran pezzo di lavoro. Insieme naturalmente ad altri tipi di decisioni che non riguardano lo spazio, rispetto alla questione della durata detenzione”. Riportiamo di seguito la spiegazione del progetto da parte degli architetti del team della Federico II. Il progetto di arredi per le carceri - Il progetto “Modelli sperimentali di intervento per il lavoro e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale” nasce per identificare nuovi modelli di intervento per il lavoro e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale, prevedendo un coordinamento nazionale e una strategia complessiva che razionalizzi l’attuale sistema delle lavorazioni, valorizzandone le potenzialità e introducendone delle nuove, al fine di trasmettere al detenuto le competenze che gli permettano di acquisire le professionalità necessarie a garantire continuità lavorativa al momento del ritorno in libertà. Il Piano intende delineare una strategia da adottare per rispondere alla domanda interna espressa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che riguarda il fabbisogno di articoli di arredo destinati all’allestimento delle celle e la realizzazione di percorsi riabilitativi e di reinserimento lavorativo dei detenuti attraverso l’acquisizione di competenze. Riqualificazione di spazi e reinserimento lavorativo di persone - La strategia è quella di offrire componenti di arredo aggiornati in termini di ergonomia, qualità e sicurezza rispetto a quelli attualmente prodotti nelle falegnamerie degli istituti e l’introduzione di lavorazioni maggiormente professionalizzanti per i detenuti che sono impiegati nel processo produttivo. Il sistema di produzione progettato, che include il design aggiornato degli articoli, la revisione del ciclo produttivo e l’introduzione di nuovi macchinari, è orientato a soddisfare il fabbisogno attuale e di assorbire eventuali evoluzioni delle richieste. Il design modulare, la dotazione strumentale e l’assetto snello della produzione offrono alle falegnamerie tutta la flessibilità per convertire la produzione e puntare in futuro a soddisfare una nuova domanda di arredi destinati ad altri luoghi dell’Amministrazione Penitenziaria, come l’allestimento delle aree comuni interne agli istituti penitenziari, delle caserme della Polizia Penitenziaria, degli uffici dei dipendenti. Il nuovo sistema arredativo è composto sia da oggetti di arredo già indicati dai capitolati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - sgabello, sedia, tavolo, mobile contenitore piccolo e grande, letto - che da una serie di arredi innovativi destinati a situazioni particolari o a nuove funzioni - letto, tavolo e seduta a scomparsa, casse e contenitori integrati ai letti, panche e sedute per gli spazi comuni, scaffali, librerie. Determinanti per questo sono state alcune considerazioni derivanti dallo studio dei luoghi e degli impianti di produzione attualmente esistenti in alcuni istituti e dalle loro potenzialità. L’idea dell’ottimizzazione degli arredi attraverso il miglioramento dei processi e delle attività, l’aggiunta di nuove lavorazioni e l’introduzione di ulteriori sistemi e macchinari, si fonda dunque su principi di ergonomia, funzionalità, manutenibilità, resistenza, sicurezza nel rispetto delle normative nazionali oltre che di quelle specifiche di settore, basandosi altresì sulla conoscenza della realtà penitenziaria. Partecipare alla costruzione di ambienti accoglienti, funzionali - Tale sistema vuole non solo soddisfare dei bisogni essenziali ma partecipare alla costruzione di ambienti accoglienti, funzionali, evocando forme e materiali del domestico, per restituire qualità allo spazio e quindi all’abitare in esso. La proposta del nuovo sistema integrato di arredi muove dalle potenzialità desunte dalle lavorazioni delle falegnamerie presenti negli istituti penitenziari del territorio italiano e, in continuità con la produzione attuale, integra le lavorazioni incentrate sulla trasformazione di superfici piane di lastre di semilavorati lignei come il compensato e il multistrato con lavorazioni finalizzate alla realizzazione di componenti basate su superfici curve ottenute grazie a macchine capaci di incollare, piegare, formare e tagliare pezzi anche complessi che poi saranno giuntati tra loro senza l’utilizzo di ferramenta metalliche. Tale modalità persegue lo scopo di ridurre le parti componenti dei singoli oggetti, limitare le giunzioni, evitare le ferramenta e quindi diminuire i tempi di montaggio, ottimizzare l’intero ciclo produttivo e raggiungere livelli di sicurezza e manutenzione superiori a quelli di oggetti derivanti da lavorazioni tradizionali. Pochi elementi uniti tra loro senza viti e tutto pensato per la sicurezza - Tali prodotti, composti da pochi elementi uniti tra loro secondo tecniche tradizionali, riducono i tempi di produzione, esaltano le capacità del materiale prescelto - il legno - offrono maggiore resistenza e durabilità e consentono uniformità di realizzazione dei prodotti nei diversi centri di produzione ovvero di lavorazioni specifiche e personalizzate distribuite in luoghi diversi. L’idea alla base del nuovo sistema arredativo è quella di utilizzare le potenzialità del legno compensato curvato per ottenere, mediante l’assemblaggio di componenti elementari essenziali, una varietà di oggetti, anche personalizzabili e adeguabili a esigenze diverse, verificati strutturalmente, capaci di rispondere a criteri di durabilità e manutenzione oltre che di riproducibilità e flessibilità. Tale sistema risponde alle esigenze del mondo penitenziario oltre a soddisfare criteri ergonomici avanzati e ottemperare ai dettati delle normative vigenti. La forma, solitamente prevalente nel progetto di design, è qui una conseguenza e non un obiettivo primario, tanto da essere modificabile pur mantenendo fissi i criteri fondamentali del processo progettuale e produttivo, risultante delle potenzialità delle macchine disponibili, degli strumenti e delle capacità degli operatori. In sintesi, gli oggetti di arredo scelti riducono le fasi di stoccaggio e approvvigionamento di materiale (unico materiale); ottimizzano le fasi di lavorazione; riducono le componenti assemblate e i tempi di montaggio; eliminano i sistemi di giunzione metallici; eliminano materiali e riducono operazioni pericolose; offrono un sistema di parti componibili che consente di ottenere varianti e personalizzazioni. “L’Italia si comporta come Orbán”. Un ddl di Scalfarotto per abolire le manette in tribunale di Franco Bechis Italia Oggi, 8 maggio 2024 Era stato fra i primi nel parlamento italiano a sollevare con una interrogazione nel 2023 il caso delle condizioni di detenzione in Ungheria di Ilaria Salis. Il renziano Ivan Scalfarotto è stato anche fra i primi a indignarsi (giustamente) a inizio anno quando si è vista condurre la Salis in udienza con le manette ai polsi e una catena con cui veniva accompagnata in aula. Per questo Scalfarotto ha voluto andare a fine marzo in Ungheria in occasione della successiva udienza del processo, rivedendo manette ai polsi e catena che lo hanno fatto indignare ancora di più tuonando contro il regime ungherese che tratta così in udienza gli imputati e indignandosi per l’amicizia fra Giorgia Meloni e quell’autocrate illiberale di Viktor Orbán. Scalfarotto però poi deve avere capito che il regime ungherese c’entra fino a un certo punto, perché quelle manette ai polsi in aula sono piuttosto frequenti anche in Italia. Il 3 aprile scorso così Scalfarotto ha depositato in Senato un suo disegno di legge per modificare “il codice penale e le norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, al fine di tutelare la libertà personale dell’imputato durante le udienze”. Il testo del ddl (n.1093) è stato svelato venerdì 3 maggio con la pubblicazione necessaria alla sua assegnazione alla commissione giustizia di palazzo Madama. Il testo è composto da due soli articoli. Il primo stabilisce che “l’imputato assiste all’udienza al fianco del proprio difensore, senza manette ai polsi ovvero altri strumenti coercitivi che ne limitino la libertà, anche se detenuto, salvo che sussista un concreto pericolo di fuga o di violenza che ne motivi l’applicazione”. Il secondo articolo specifica che pure in questi casi in cui si ravvisi il pericolo di fuga o di atti violenti “il giudice può con ordinanza motivata disporre l’adozione di specifiche misure per prevenirli, in ogni caso diverse dall’uso delle manette ai polsi o di altri strumenti coercitivi quali celle”. Dunque ora viene chiesto all’Italia di fare quello che si chiedeva all’Ungheria, scoprendo che il caso Salis non è così isolato nemmeno qui. Lo spiega bene Scalfarotto nella relazione che accompagna il suo ddl: “Nei tribunali italiani è frequente osservare che l’accompagnamento dell’imputato in aula con le manette ai polsi e costretto con esse ad assistere al proprio processo ovvero ad assistervi all’interno di gabbie o di perimetrazioni coercitive”. Non è raro, è addirittura “frequente” a leggere Scalfarotto trattare a Milano come a Roma come in tutte le aule giudiziarie del paese un detenuto esattamente come è stato fatto con la Salis in Ungheria. E il senatore aggiunge: “Di fatto, nonostante il nostro ordinamento preveda l’utilizzo di questi strumenti solo come eccezione, nelle aule di tribunale si assiste con frequenza ad immagini di imputati ammanettati o reclusi in gabbie durante le udienze”. Secondo il parlamentare renziano che aveva composto la delegazione di osservatori a Budapest insieme a Nicola Fratoianni, Ilaria Cucchi, Zerocalcare e tanti altri, “l’utilizzo di questi mezzi di coercizione appare in palese contrasto con la presunzione di innocenza scolpita in Costituzione, visivamente messa in discussione dai segni tipici della pena, portati da soggetti non ancora giudicati”. Il disegno di legge vuole vietare manette e gabbie anche per i detenuti che potrebbero commettere in aula atti di violenza, ma non offre soluzioni alternative che invece sono affidate alla fantasia dei poveri giudici che vi devono provvedere. Adesso però dopo la certificazione addirittura in un disegno di legge parlamentare sul fatto che le regole di Orba sono identiche a quelle italiane e che qui nessun governo se ne è mai occupato indipendentemente dal suo colore politico, bisognerebbe per par condicio riaprire le liste delle europee e candidare tutte le e i Salis d’Italia. “Liberi di crescere”, al via i progetti di sostegno per i figli delle persone detenute di Rosalba Miceli La Stampa, 8 maggio 2024 Parte il nuovo bando dell’impresa sociale “Con i Bambini” con un impegno di 10 milioni di euro. L’articolo 9 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia recita: “il bambino i cui genitori, o uno dei due, si trovano in stato di detenzione, deve poter mantenere con loro dei contatti appropriati”. Contatti che alimentano la relazione di attaccamento reciproco, mantenendo vivi i legami affettivi, arginando gli effetti negativi prodotti dalla separazione, anche traumatica, all’interno del contesto familiare. In continuità con la convenzione Onu, il 21 marzo viene firmata a Roma (e rinnovata più volte) la “Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti” da parte del Ministero della Giustizia, l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza e l’Associazione Bambinisenzasbarre. Ma come sostenere e tutelare i minori che entrano in contatto con la realtà penitenziaria? È necessario proteggerli dalle conseguenze affettive ed educative di questa condizione che può avere possibili ricadute negative sulla salute generale e sullo sviluppo cognitivo, sulla continuità dei percorsi scolastici e formativi, esitando spesso in situazioni di povertà educativa e marginalità sociale. Ogni anno sono decine di migliaia i minorenni che entrano in un istituto penitenziario per fare visita a un familiare detenuto. In particolare, nel 2021 in Italia si sono svolti 280.675 colloqui tra detenuti e almeno un familiare minorenne, sottolinea l’impresa sociale “Con i Bambini”. Le visite dei bambini al familiare in carcere rappresentano esperienze di grande risonanza emotiva, sia per i bambini che per il familiare stesso. Ansia, imbarazzo, paura, ma anche attesa e gioia si alternano durante i brevi momenti di incontro. In questi casi è molto importante prevedere la creazione di spazi e di tempi a favore dei minori, cercando di stabilire un clima sereno e accogliente e di facilitare la relazione e l’espressione delle emozioni. Dopo il colloquio arriva il momento del distacco. È una fase molto delicata, come quella dell’iniziale ricongiungimento. Le aspettative di entrambe le parti sono state in qualche modo soddisfatte? O rimane ancora qualcosa di non detto, di non fatto, di non risolto? “Liberi di crescere” è il nuovo bando dell’impresa sociale “Con i Bambini”, società senza scopo di lucro interamente partecipata dalla Fondazione con il Sud e soggetto attuatore del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. L’iniziativa si propone di sostenere dei progetti a favore dei figli minorenni di persone detenute. Nei giorni scorsi sono stati pubblicati gli esiti della procedura di selezione. Tra i 18 progetti selezionati sette prevedono interventi nell’area Nord, tre nell’area Centro e otto nell’area Sud, con un impegno complessivi di 10 milioni di euro. “Tutte le proposte - scrivono gli operatori della società “Con i Bambini” sul sito dedicato - presentano un programma di azioni ben equilibrato tra “dentro” e “fuori” il contesto detentivo, creando una linea di continuità in grado di consentire la normalizzazione della relazione con il genitore detenuto, facilitandone così il rientro in famiglia nel post scarcerazione. Un modello di intervento multidimensionale che agisce su più livelli: il benessere socio-relazionale dei bambini e dei ragazzi, le competenze genitoriali dell’adulto detenuto e del partner in stato di libertà, il supporto alla diade genitore-figlio in contesti detentivi accoglienti e l’attivazione delle comunità di riferimento”. I progetti selezionati agiscono in 69 istituti penitenziari di diversa natura: case circondariali e case di reclusione maschili e femminili, Icam, Ipm, Icatt, carceri di massima sicurezza, distribuiti in 64 comuni in tutta Italia. Solo 6 progetti prevedono azioni circoscritte a una sola casa circondariale, mentre la maggior parte delle proposte riveste una dimensione più ampia, coinvolgendo la maggior parte degli istituti di pena presenti a livello di una determinata regione. Questa situazione permette di agire a livello sistemico, mettendo al centro il minore, ovvero il soggetto più vulnerabile, a partire dal sistema familiare e allargandosi via via, alla comunità tutta per una presa in carico globale e continuativa di bambini/e e ragazzi/e figli di persone detenute. Per info: https://www.conibambini.org/ Giustizia minorile, una fuoriserie senza benzina di Ilaria Dioguardi vita.it, 8 maggio 2024 Christian Serpelloni e Ilaria Summa sono i responsabili del settore penale dell’Unione nazionale camere minorili. Con la vicenda del Beccaria sullo sfondo, con loro continua il viaggio di Vita.it nella giustizia minorile italiana, vero fiore all’occhiello del nostro Paese, che vive tante criticità ma che va difeso. Continua ad essere alta la tensione nell’Istituto penitenziario minorile-Ipm “Cesare Beccaria” di Milano, al centro di un’indagine della procura su presunte torture e aggressioni ad alcuni giovani detenuti che ha portato in cella e alla sospensione dal servizio, in totale, 21 agenti. Entro la prossima settimana qui arriveranno 47 nuovi agenti di polizia penitenziaria. Intanto, nella notte fra domenica e lunedì, alcuni giovani detenuti hanno appiccato un incendio, domato in tre ore, in una cella. Fortunatamente non ci sono stati feriti. Cosa sta succedendo al Beccaria? Ma soprattutto, qual è lo stato di salute della giustizia minorile italiana? Lo abbiamo chiesto agli avvocati Christian Serpelloni e Ilaria Summa, responsabili del settore penale dell’Unione nazionale camere minorili. Serpelloni, un commento su quello che sta succedendo al Beccaria? Il Beccaria ha una storia particolare. Negli ultimi anni è mancata una stabilità nella direzione, si sono susseguiti vari direttori, alcuni rivestivano in contemporanea una carica nell’Ipm e in un istituto penale per adulti. Il Beccaria per molti anni ha avuto anche un vero e proprio “cantiere aperto” all’interno del carcere. Queste situazioni non hanno certo agevolato la vita dei detenuti e degli operatori. Ovvero? Non voglio essere frainteso. Lungi da me trovare giustificazioni per quello che è successo e che è in corso di accertamento, ma sicuramente vivere in quelle condizioni non deve essere stato facile per nessuno. Le indagini sono in corso, per quanto riguarda i fatti di maltrattamenti e violenze da parte degli agenti sappiamo che alcuni indagati hanno deciso di non avvalersi della facoltà di non rispondere. I fatti sono gravi, non si vorrebbero mai vedere in nessun istituto detentivo, men che meno in un Ipm. Per quanto riguarda ciò che è successo, il Beccaria non è nuovo, purtroppo, a questi fatti. Qual è il rischio più grande? Il rischio è che vi sia una delegittimazione delle istituzioni. Non è mai facile la vita all’interno di un istituto detentivo, a maggior ragione con quello che è in corso di accertamento. Questo è un grosso problema. Alcuni ragazzi dicono, in modo talvolta spavaldo e strumentale: “Noi lo sapevamo”. Il minorenne che delinque è un soggetto molto complesso, che si trova a vivere un profondo disagio e lo manifesta spesso in modo particolarmente grave. La carcerazione nell’ambito minorile è e deve restare la soluzione estrema, quella alla quale si ricorre quando tutte le altre strade sono state percorse invano. Va detto, però, che nella nostra esperienza, il lavoro fatto su alcuni ragazzi detenuti, grazie alle possibilità che offre il diritto minorile, è stato particolarmente efficace: tanto che alcuni sono riusciti, una volta usciti, ad emanciparsi dalla realtà nella quale avevano vissuto prima di entrare in istituto. Ma occorrono molte risorse, molta collaborazione da parte delle istituzioni per poter offrire un domani realmente migliore. Il nostro diritto penale minorile lo paragono sempre ad una fuoriserie… con poca benzina. E quindi? Anziché aggiungere benzina, qualcuno ritiene di dover cambiare la macchina. Questo ci lascia perplessi. Alcuni pensano che il diritto penale minorile italiano non sia più adeguato ai tempi. In realtà molte norme e molti istituti non sono stati applicati o vengono applicati solo in parte per la cronica carenza di risorse. Spesso nei tribunali per i minorenni manca personale amministrativo, i magistrati sono particolarmente oberati, dovendosi occupare contemporaneamente di fascicoli civili e penali; gli uffici dei servizi sociali sono in affanno e in carenza di personale e risorse. I progetti di messa alla prova, talvolta per mancanza di risorse, sono standardizzati e non personalizzati. Questo non va bene. La macchina, insomma, ha poco carburante. Nel diritto penale minorile servirebbe un intervento strutturale, non congiunturale e una reale visione di sistema. Le presenze medie sono aumentate negli istituti penali minorili. A gennaio 2024 si sono superate le 500 presenze... Questo è un argomento molto complesso. Dobbiamo chiederci se il carcere sia il luogo idoneo per intervenire in determinate situazioni di criminalità e di disagio minorile. Qui si apre una finestra di riflessione rilevante. Con il decreto Caivano e con la successiva legge di conversione si è operato un intervento particolarmente energico in ambito penale minorile, dal tenore fortemente retributivo. Voglio dire che sono state introdotte norme che danno maggiore attenzione al fatto e meno alla soggettività di chi lo ha commesso. Il decreto Caivano opera infatti su molti fronti. Ce ne dica qualcuno... Si è aperto il fronte delle misure di prevenzione anche in ambito minorile. Ad esempio, ai maggiori di anni 14 è possibile l’applicazione del dacur (divieto di accesso alle aree urbane, anche detto “daspo urbano”, ndr), nonché dell’avviso orale. Si è intervenuti in modo restrittivo sulle misure precautelari e cautelari. Inoltre, è stato escluso in modo automatico l’accesso alla messa alla prova, qualora il minore sia accusato di reati particolarmente gravi quali violenza sessuale di gruppo, rapina aggravata o omicidio. Nel diritto penale minorile la messa alla prova poteva essere richiesta per qualsiasi tipo di reato e, dati alla mano, l’istituto, correttamente applicato, ha funzionato bene anche per i reati più gravi. Ora, con la legge 159 del 2023, l’attenzione è concentrata principalmente sul fatto e non tanto sulla persona, come accade per gli adulti, ma i minorenni… adulti non sono. Si spieghi meglio... Si va a guardare molto di più al fatto commesso e molto meno al soggetto che lo ha commesso. Questo, unitamente alla carenza di risorse per applicare correttamente le misure di diversion come la messa alla prova, ha comportato un aumento di presenze negli Ipm, che erano di 350-380 minori fino alla fine dell’anno scorso. Ora abbiamo superato le 500 persone. Questo non è certo determinato solo dalle modifiche normative, ma sicuramente non hanno aiutato a ridurre la popolazione carceraria. È pur vero che il fenomeno della devianza minorile è in crescita. Molti agiti devianti sfociano nel penale. Abbiamo una recrudescenza negli ultimi anni, soprattutto nel post Covid. Ci sono poi realtà territoriali con problemi specifici, questo non va dimenticato. Del resto il nome dato dal decreto, salvo essere particolarmente stigmatizzante, ne è l’esempio. Ilaria Summa, quali sono i motivi della recrudescenza delle devianze minorili? I motivi sono molti e il discorso si farebbe lungo. Molto banalmente posso dirle che vi è una siderale assenza di centri di aggregazione che possano fornire modelli positivi. I ragazzi che vivono nei quartieri delle grandi città sono spesso lasciati a loro stessi, si aggregano e tendono a seguire il soggetto che ha maggiore personalità. Lei si occupa da circa vent’anni di diritto penale minorile. Cosa può dirci, dei cambiamenti (o dei non cambiamenti) che ci sono stati in Italia? La devianza minorile, pur avendo tratti comuni ha spesso caratteristiche legate al territorio. Tempo fa il vice direttore del carcere di Nisida (Napoli), ci ha raccontato che, mentre un tempo la criminalità minorile era legata soprattutto a reati contro il patrimonio e in parte contro la persona, a furti e qualche rapina, da qualche anno a questa parte gli adolescenti hanno fatto un “salto”: vogliono diventare dei piccoli boss. Quindi attuano strategie che vedono praticare dagli adulti. Anche al Nord, nelle città di piccole e medie dimensioni, si notano cambiamenti. Ad esempio, gli adulti utilizzano molto di più di un tempo i minori per lo spaccio di sostanze, sono aumentate le rapine a mano armata commesse da minori, è aumentato il fenomeno delle aggregazioni devianti, che alcuni impropriamente chiamano “baby gang”. Perché è sbagliato parlare di “baby gang”? In primo luogo perché il termine fa riferimento ad altri tipi di aggregazione, nati in paesi extra europei. Nella nostra esperienza notiamo che si stanno sviluppando - come dicevo prima anche per l’assenza di alternative - aggregazioni di ragazzi e ragazze privi di punti di riferimento, che pongono in essere condotte devianti spesso per cercare di affermarsi nella società. Si tratta di adolescenti spesso privi di punti di riferimento, talvolta provenienti da famiglie magari benestanti, ma di fatto disfunzionali e abbandoniche. Se questo disagio non viene intercettato in fretta questi ragazzi e queste ragazze rischiano di perdersi e radicalizzarsi in ambienti molto pericolosi. Quindi, un altro grande problema è l’intervento... Sì, deve essere tempestivo ed efficace. Il tempo per un minorenne è un fattore assolutamente essenziale se lo si vuole aiutare veramente. Nordio all’Anm: “Carriere separate, ma pm autonomi” di Errico Novi Il Dubbio, 8 maggio 2024 Lunedì Carlo Nordio e l’Anm avevano duellato a distanza. Si erano dati appuntamento per il giorno dopo. Si sono visti ieri pomeriggio a via Arenula: da una parte il guardasigilli e la prima linea della Giustizia di governo, dall’altra la delegazione dei magistrati, guidata da Giuseppe Santalucia. Si è parlato di riforma. Di separazione delle carriere innanzitutto. E Nordio è stato rassicurante ma chiaro: “Mai e poi mai ci sarà un pm assoggettato all’Esecutivo. È un principio assoluto. Abbiamo assunto con gli elettori l’impegno a separare le carriere, ma abbiamo anche un impegno nei confronti dei padri costituenti, che hanno voluto l’autonomia del magistrato. Non la si toccherà, né per la magistratura requirente né per i giudicanti”. Santalucia lascia l’incontro con la consapevolezza che il ministro ha le idee chiare, andrà avanti, e che non ci sarà trattativa. Né potrebbe esserci, dice il presidente dell’Anm, “non si tratta di aprire un tavolo sindacale: tutta la magistratura associata, in tutte le sue componenti, è contraria alla riforma, e lo ribadiremo sabato al nostro congresso”. Sabato, appunto: altro giorno cruciale. Perché da qui a tre giorni, all’assise palermitana delle toghe, Nordio ci sarà, “prenderò l’ultimo aereo venerdì da Venezia, dove presiederò il G7 della giustizia”. Il guardasigilli sa di doversi aspettare critiche, al congresso delle toghe, ma che tutto avverrà nella “franchezza” del confronto di ieri. A loro volta, i magistrati sanno un’altra cosa: le riforme si fanno anche senza di loro. È questa la vera notizia. E arriva nel giorno dell’ennesimo corto circuito. Dell’arresto ordinato da un gip, su richiesta di un pm, nei confronti del presidente di una Regione, il ligure Giovanni Toti. Un crocevia emblematico, in cui proprio il ministro autore della riforma che separerà giudici e pm “osa” esprimersi sulla misura cautelare inflitta al governatore: “Da pm raramente ho chiesto provvedimenti di custodia dopo anni di indagine”. Il Pd, per voce della responsabile Giustizia Debora Serracchiani, esprime sconcerto per le parole di Nordio, che “sembrano quelle della difesa di Toti”. Ma tutto si tiene. Un pm ligure avrà pure insistito nel ritenere indispensabile la detenzione domiciliare per il presidente della Liguria, ma c’è stato pur sempre un gip, suo collega, amministrato nella carriera dallo stesso Csm, ad aver accolto le richieste della Procura. I cronisti istigano Santalucia con la più perfida delle domande: con la riforma ci saranno ostacoli alle indagini sui politici? Il leader Anm è un gran signore: disinnesca l’effetto scenografico del quesito, e si limita a dire che “finora, con questo assetto costituzionale, ci sono state inchieste fatte bene e inchieste fatte male, ma siamo stati in grado di far fronte a terrorismo, corruzione e mafia, mentre con l’assetto previsto dalla riforma non lo so: semplicemente non sento la necessità di cambiarlo”. E non solo Santalucia offre la più ragionevole delle risposte possibili per un capo delle toghe, ma riferisce, con altrettanta onestà, come il ministro abbia tenuto a precisare che “la riforma costituzionale terrà ferma l’indipendenza della magistratura nella sua interezza”. E sul piano dei princìpi, il paventato assoggettamento del pm all’Esecutivo era il solo reale allarme che l’Anm avrebbe potuto sollevare. Ma appunto, la riforma si fa anche se l’Associazione dei magistrati non la condivide, e anche se sabato tutte le correnti saranno unite nel dirlo. Ieri, con Santalucia, che proviene dal gruppo progressista “Area”, c’erano altre due componenti della giunta da lui guidata: la vicepresidente Alessandra Maddalena, che è della centrista “Unicost”, e Cecilia Bernardo, che rappresenta la moderata “Magistratura indipendente”: uno spettro assai esteso di “anime” dell’Anm, che conta anche sull’altro gruppo progressista, “Magistratura democratica”, sui movimentisti di “Articolo 101” e sui postdavighiani di “Autonomia e indipendenza”. Con Nordio, il suo vice Francesco Paolo Sisto, di FI, e i sottosegretari Andrea Delmastro, di FdI, e Andrea Ostellari, della Lega. Squadre in formazione- tipo, per così dire. Ma partita diversa dal passato. Anche dal passato burrascoso dell’era Berlusconi, quando le riforme si facevano a dispetto dell’Anm, ma in un clima talmente infuocato da trasformare il “sindacato” delle toghe nel principale partito d’opposizione. Stavolta non è così: la politica procede senza sfidare ma nemmeno temere i magistrati. Al punto che nel ddl “a brevissimo in Consiglio dei ministri”, come assicura Nordio prima dell’incontro, ci saranno non solo le carriere separate e l’Alta Corte per i giudizi amministrativi e disciplinari di tutte le magistrature, ma anche il riconoscimento della “libertà e indipendenza” dell’avvocato all’articolo 111. Un terzo attore, come nel processo, che complica le obiezioni di giudici e pm, perché riproduce nella Carta “il sistema accusatorio voluto da una Medaglia d’argento della Resistenza, Giuliano Vassalli”: è lui, ricorda Nordio, ad aver previsto “percorsi separati” nella magistratura. Le toghe potranno anche essere contrarie. Ma il governo, almeno nelle intenzioni, stavolta non considera la circostanza come il tema del giorno. Le toghe incontrano Nordio: “Sulla riforma non trattiamo” di Mario Di Vito Il Manifesto, 8 maggio 2024 Resa dei conti rinviata ma distanze incolmabili. Santalucia (Anm): “Problema culturale”. Verso il congresso di Palermo con la paura del “sindacato giallo” come in Rai. Una formalità, più che una questione di qualità. L’incontro tra il ministro Carlo Nordio e l’Anm sulla riforma della giustizia prossima ventura non ha spostato di un millimetro l’asse del discorso, e ogni questione di merito verrà comunque affrontata quando il testo uscirà dal consiglio dei ministri (“A brevissimo”, promette il ministro). Le toghe dunque mantengono tutte le loro perplessità verso un provvedimento che, almeno nelle intenzioni, separerà le carriere, porterà a un doppio Csm, istituirà un’alta corte e, forse, eliminerà pure l’obbligatorietà dell’azione penale. Così il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia all’uscita dal ministero ieri pomeriggio: “Nordio ha tenuto a precisare a noi che la riforma costituzionale terrà ferma l’indipendenza della magistratura nella sua interezza”. E poi: “Noi abbiamo detto che tutta la magistratura associata in tutte le sue componenti è contraria alla riforma. Non si tratta di fare una trattativa di tipo sindacale. Le nostre sono contrarietà culturali e costituzionali”. La riforma e le sue implicazioni saranno spiegate da Nordio in persona al congresso dell’Anm che comincerà venerdì pomeriggio a Palermo. Il ministro, che in un primo momento era intenzionato a non andare vista la contemporaneità del G7 sulla giustizia a Venezia, ha fatto sapere che arriverà in Sicilia nella serata di venerdì, dunque il suo intervento andrà in scena sabato. La struttura del congresso prevede diversi momenti di tribuna libera in cui qualsiasi magistrato potrà iscriversi per intervenire. È in questa sede che emergerà il dibattito vero e proprio sulla riforma. E l’unica cosa certa è che tutte le correnti sono a dir poco molto critiche: non solo la sinistra giudiziaria (Area, Magistratura democratica), ma anche i centristi di Unicost (che auspicano addirittura “una mobilitazione di tutta la base della magistratura per scongiurare riforme che potrebbero farci scivolare verso regimi non democratici”) e la destra di Magistratura Indipendente. Intervistato da Domani il segretario generale Claudio Galoppi, tendenzialmente un governista (è stato consigliere della ex presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati), ha esternato le sue preoccupazioni parlando di misure che “mirano a scardinare l’equilibrio tra poteri”. Solo alla fine si è lasciato andare a una considerazione di politica interna all’Anm: “L’unità della magistratura associata è fuori discussione, ma non è frutto di un calcolo politico. È nelle cose”. Già perché quello di Palermo sarà un congresso dal sapore elettorale, perché è l’ultimo della presidenza Santalucia e perché a gennaio si rinnoverà il Comitato direttivo centrale dell’associazione (e tutti i magistrati saranno chiamati a votare). Visto il divorzio “consensuale” tra Area e Md (che l’ultima volta insieme erano risultati la lista più votata) è assai probabile che a prevalere sarà Magistratura indipendente. Che però non sembra avere alcuna intenzione di assumere poi la presidenza dell’associazione. Un gioco a carte scoperte: Mi, storicamente, preferisce rimanere ai margini nelle questioni più politiche - e il presidente dell’Anm per sua natura è la figura che si trova a dover trattare con i governi - e concentra i suoi sforzi sulle faccende sindacali: ferie, stipendi, organici e così via. L’appello all’unità dell’associazione serve a mantenere in piedi la struttura evitando beghe troppo grandi e conflitti interni che farebbero perdere a tutti (anche a Mi) potere contrattuale. Un rebus che si risolve sempre allo stesso modo, cioè con una coalizione larghissima e il continuo appello all’unità. E un conseguente rischio di annacquare i contenuti dell’Anm: la paura, diffusa soprattutto a sinistra, è che succeda quello che è già accaduto alla Rai, con la nascita di un “sindacato giallo” utile per guastare ogni interlocuzione seria. In tutto questo si registrano le lamentele, espresse al manifesto, da parte di Md, con la presidente Silvia Albano che ha parlato in maniera esplicita della funzione di tappo fatta da Mi per evitare che magistrati “di un certo orientamento culturale” - leggi: quelli progressisti - arrivino ad occupare posizioni dirigenziali importanti. Sembra un dettaglio, ma bisogna annotare che al momento Mi esprime i capi delle procure di Roma e di Milano. E al governo può contare su un pezzo da novanta come il suo ex associato Alfredo Mantovano. O forse è soprattutto lui che sa di poter contare sulla sua vecchia corrente. “Doppio Csm e carriere separate, questa deve essere la volta buona” di Francesco Malfetano Il Messaggero, 8 maggio 2024 Intervista a Francesco Petrelli, presidente dell’Unione camere penali, partiamo dall’attualità. L’esecutivo sostiene che la separazione delle carriere arriverà in consiglio dei ministri entro maggio - prima delle Europee per intenderci - con un ddl costituzionale. È la volta buona... oppure pensa, come qualcuno ha già fatto notare, che si tratti di un modo per prendere tempo? “Non abbiamo ragione di pensare una cosa del genere e continuiamo a dare fiducia al ministro. Se ha detto che il ddl sarà portato al Consiglio dei ministri, speriamo che accada. Sotto il profilo politico siamo in qualche misura soddisfatti che il governo metta la faccia sul progetto di riforma costituzionale della separazione delle carriere. Sotto un profilo tecnico, invece, com’è noto l’unione della Camere penali nel 2017 ha provveduto a raccogliere oltre 71 mila firme di cittadini italiani e ha presentato un proprio disegno di legge in merito, al quale tra l’altro le altre forze di maggioranza si sono sostanzialmente adeguate. Diciamo che quello è il nostro manifesto, e speriamo che questo nuovo disegno non si allontani dalla geometria che abbiamo immaginato. Poi per carità ogni riforma è perfettibile”. La criticità a cui facevamo riferimento è proprio questa, per accelerare il governo avrebbe potuto affiancarsi ad uno dei disegni di legge già depositati in Commissione... “Su questo disegno, con questi tempi, ed in questa situazione politica il governo ha fatto un passo che non fatico a definire “impegnativo”. Vedremo se sarà rispettato, e ne trarremo le conseguenze. Diciamo che questa deve necessariamente essere la volta definitiva, l’ultima Thule. Non potremo attendere oltre”. Per di più tra premierato e autonomia, mettere sul tavolo un tema così corposo e divisivo, è un rischio per la fattibilità stessa della riforma non trova? “Sì, credo l’affollamento costituisca un punto di criticità. Lo abbiamo detto sin dall’inizio. Tra l’altro sia il ministro Nordio che il viceministro Sisto hanno sempre spiegato che queste riforme andavano in qualche modo coordinate e sarebbe stato necessario come dire creare una sorta di staffetta tra le diverse iniziative. Anche su questo abbiamo dato fiducia al ministro e ripeto staremo a vedere”. Cosa risponde a chi dice che la politica controllerebbe i pm? “Il nostro disegno di legge, sul quale si sono evidentemente appoggiate le altre ipotesi di riforma, è molto chiaro ed è volto proprio a tutelare l’indipendenza del pm attraverso la costituzione di due distinti consigli superiori - uno per i requirenti e uno per i magistrati giudicanti. Francamente è difficile immaginare qualcosa di più equilibrato. Continuare e ad insistere su questo profilo di presunta criticità, significa affermare cose che sono totalmente fuori il disegno di riforma. Io infatti credo sia vero il contrario. E cioè che questa riforma tuteli ancor di più l’indipendenza e l’autonomia della magistratura. Soprattutto la cosiddetta indipendenza interna, proteggendo la magistratura stessa da influenze che ne condizionano le scelte non dai poteri esterni ma interni alla magistratura”. Nascerebbero non solo due Csm ma anche un’alta Corte destinata a sostituire il Csm nei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati. Che ne pensa? “Di un’Alta corte di giustizia si è molto parlato anche negli anni passati, ed è una questione controversa, tutta da valutare. Detto ciò noi ci siamo già definiti laici e non appena conosceremo il disegno di legge ci esprimeremo. È comunque evidente che una scelta di questo genere abbia una sua possibile coerenza. Bisogna però vedere chi sceglie i membri e quali ne sono in concreto i poteri”. Inutile chiederle quale delle due ratio del sorteggio condivide quindi, secco o moderato. “Vede, si tratta di disegni costituzionali molto delicati, non si può esprimere dei pareri senza conoscerli in maniera puntuale”. Cavanna, ex laico Csm: “Nuove norme sul disciplinare o sarà tutto inutile” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 8 maggio 2024 “Pg libero di oscurare le indagini, difensori delle toghe pagati dallo Stato: sistema folle”. “Guardi, come prima cosa bisognerebbe evitare che i magistrati sottoposti a procedimento disciplinare siano difesi a spese dello Stato e quindi di tutti noi cittadini”, dice l’avvocato genovese Stefano Cavanna, componente della sezione disciplinare del Csm nella scorsa consiliatura. Avvocato Cavanna, paghiamo la difesa tecnica dei magistrati? Certo. Il giudice o il pm incolpato ha la facoltà di farsi assistere da un collega, e il regolamento di amministrazione e contabilità del Csm prevede espressamente che a quest’ultimo, oltre al pagamento di una indennità di missione, vengano rimborsate per intero le spese di viaggio per raggiungere Roma. Quindi al magistrato che decide di farsi assistere dal collega che non lavora nella Capitale, il treno o l’aereo lo rimborsa il Csm? È così. Da presidente della commissione Bilancio del Csm mi ero battuto affinché questo privilegio anacronistico venisse abolito. Invece è rimasto... Il disciplinare dei magistrati è l’unico ad avere natura giurisdizionale, mentre tutti gli altri sono dei procedimenti amministrativi. Ha mai visto che lo Stato paga il treno all’avvocato che va in tribunale per difendere un suo assistito? Cosa pensa dell’Alta Corte? Il discorso è complesso. E comunque prima di imbarcarsi in riforme costituzionali dall’esito quanto mai incerto, sarebbe opportuno intervenire sulle norme attuali. Ad esempio? Abrogare l’assoluzione per scarsa rilevanza del fatto, spesso motivata sulla mancanza di strepitus: se non lo ha saputo nessuno, perché punire il magistrato? Assurdo. La quasi totalità dei procedimenti termina invece così. E poi intervenire sulle fattispecie disciplinari, studiate apposta per punire il meno possibile. Qualche altra modifica senza toccare la Costituzione? Riformare l’esercizio dell’azione disciplinare e vietare l’archiviazione in via istruttoria da parte del procuratore generale senza un vaglio della sezione disciplinare del Csm. La riforma Mastella del 2006 ha eliminato qualsiasi possibilità di verifica sull’esercizio dell’azione disciplinare da parte della Procura generale della Cassazione, che può procedere alla pre-archiviazione in istruttoria senza che la sezione disciplinare anche solo lo sappia o, successivamente, possa conoscerne le motivazioni. Il risultato, ad esempio, è stato che fatti connessi allo scandalo Palamara, casi assolutamente assimilabili, sono stati trattati in maniera opposta. Alcuni sono stati perseguiti, altri, i più, sono spariti nelle nebbie. In sostanza, la Procura generale ha fatto quel che ha voluto senza che anche solo si potesse sapere in base a quale ragionamento, e men che meno che lo si potesse sindacare. L’azione disciplinare però può essere esercitata anche dal ministro della Giustizia... Si, ma trattandosi di un organo politico, è evidente che non sia una garanzia, tanto è vero che si tratta di iniziative rarissime. Lei ha polemizzato spesso, sia in plenum che sulla stampa, con il procuratore generale di allora per questi fatti... In occasione di discussioni su trasferimenti di ufficio, si scopriva che alcuni erano stati graziati e altri no. È chiaro che prevedere la discrezionalità del pubblico ministero significa sancire la definitiva legittimazione del correntismo da tutti deprecato a parole. Avevo proposto, senza alcun risultato, la modifica della norma affinché, in sede di riforma, si prevedesse l’incolpazione coatta nel processo disciplinare. Un intervento da fare subito? Limitare il potere delle correnti dell’Anm, cambiando la composizione della sezione disciplinare, ora a maggioranza togata, prevedendone invece la parità con i laici. Rotazione biennale dei suoi componenti e modifica del ruolo del presidente, ora affidato al vicepresidente del Csm. Cosa si otterrebbe con questa modifica? Il vicepresidente del Csm è eletto con i voti indispensabili dei togati. È lecito pensare che la sua terzietà potrà essere condizionata, quando si troverà a giudicare un togato appartenente alla corrente che è stata determinante per la sua elezione. Dare informazioni sulla “dolce morte” in Svizzera non è istigazione al suicidio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2024 La Corte di cassazione, sentenza n. 17965 depositata oggi, ha accolto, con rinvio, il ricorso del Presidente di Exit Italia condannato in appello a tre anni e quattro mesi di reclusione. Non vi è alcuna prova che il Presidente della associazione Exit Italia, Emilio Coveri, abbia in qualche modo rafforzato il proposito suicidario di Barbara Giordano - una insegnante quarantenne affetta dalla sindrome di Eagle - nel corso della conversazione telefonica del 2019 in cui ella chiedeva informazioni sul suicidio assistito in Svizzera. La Corte di cassazione, sentenza n. 17965 depositata oggi, ha così accolto, con rinvio, il ricorso dell’imputato contro la condanna comminatagli dalla Corte di appello di Catania a tre anni e quattro mesi di reclusione per l’istigazione al suicidio. In primo grado il Gup lo aveva assolto perché il fatto non sussiste. La V Sezione penale bacchetta più volte la Corte territoriale evidenziandone “plurime lacune e fratture logiche” nell’apparato argomentativo, anche a prescindere dall’obbligo di motivazione rafforzata a cui sarebbe stata tenuta considerando il ribaltamento di una assoluzione. Per integrare il reato previsto dall’articolo 580 c.p., una fattispecie plurisoggettiva necessaria impropria, spiega la Corte, devono necessariamente concorrere “l’azione autolesiva del soggetto passivo (di per sé non punibile) e la condotta del soggetto attivo del reato, che deve risolversi in una forma di istigazione, ossia nella determinazione o nel rafforzamento dell’altrui volontà suicida, ovvero di agevolazione dell’esecuzione del suicidio”. La condotta di partecipazione morale - contestata all’imputato - rappresenta dunque, sul piano condizionalistico, un mero antecedente necessario dell’evento, che influisce, sul piano psicologico, sulla determinazione del soggetto passivo di compiere il gesto autolesivo. Per risultare tipica, però, deve presentare un “intrinseco finalismo” orientato all’esito finale, altrimenti si correrebbe il rischio di dilatare il perimetro oggettivo della fattispecie fino a ricomprendere qualsiasi condotta che abbia comunque suscitato o rafforzato l’altrui volontà suicidaria comunque liberamente formatasi. Così ricostruito il quadro, la sentenza impugnata “appare del tutto inadeguata” nel ricostruire la responsabilità dell’imputato. La Corte, infatti, avrebbe dovuto innanzi tutto spiegare in che termini le parole pronunciate “debbano ritenersi specificamente orientate a rafforzare la volontà della Giordano di accedere al suicidio - vincendone dunque eventuali resistenze - e non rappresentino piuttosto la generica manifestazione delle astratte opinioni dell’imputato sul fine vita”. Tacendo il fatto che l’unica ricostruzione della conversazione è proprio quella fornita dallo stesso imputato che tuttavia ne offre una lettura completamente diversa. Neppure può attribuirsi al Coveri, come fatto surrettiziamente, una “sorta di posizione di garanzia” nei confronti di chi si rivolge all’associazione, per via della quale egli non potrebbe manifestare le proprie opinioni sul fine vita. Ma, prosegue la Cassazione, le “lacune e le aporie motivazionali” sono ancora maggiori con riguardo al nesso eziologico, affidato ad un sillogismo: la Giordano per via delle sofferenze e dello stato depressivo che ne era conseguito era un soggetto fragile, dunque, vulnerabile e per questo influenzabile e di fatto influenzata dai discorsi del Coveri nel corso dell’originario contatto telefonico del dicembre 2017. È stato invece del tutto sterilizzato, ai fini del giudizio condizionalistico, il “rilevante intervallo temporale” tra il contatto telefonico - del dicembre del 2017 - e l’esecuzione del suicido, nel marzo del 2019. È evidente, scrive la Corte, che, qualora la supposta condotta istigatoria sia di molto risalente all’esecuzione del suicidio, è necessario valutare con estrema cautela la sua effettiva natura condizionante anche in considerazione delle ragioni per cui il proposito suicidario è stato portato a termine solo dopo molto tempo. Senza contare poi che i contatti con l’associazione si erano interrotti ad agosto del 2018 mentre nel gennaio del 2019 a seguito di un nuovo ricovero le sofferenze erano aumentate. La sentenza di condanna dunque non ha dimostrato l’effettiva influenza della conversazione del 24 dicembre 2017 sulla decisione. Ed in effetti - chiosa il Collegio - “l’unico dato certo offerto dalla sentenza è che, a seguito di tale conversazione, la Giordano ha acquisito le informazioni necessarie per mettersi in contatto con la clinica svizzera ed avviare la pratica di suicidio assistito”. Infine, conclude la Cassazione, anche ammesso che la condotta all’imputato corrisponda a quella tipizzata, la Corte avrebbe dovuto evidenziare le ragioni per cui egli “non possa eventualmente aver agito in maniera solo imprudente e, qualora avesse ritenuto atteggiarsi il dolo nella sua forma eventuale, se e per quale motivo possa ritenersi che l’imputato si fosse chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo”. Veneto. Il Garante dei detenuti: “Sovraffollamento record. Suicidi triplicati” Il Resto del Carlino, 8 maggio 2024 Il tasso di occupazione delle celle è del 134%, con punte del 160% a Verona e Treviso. Sovraffollato anche l’istituto minorile di Treviso. Ecco cosa emerge dalla relazione del Garante. Quasi triplicati i suicidi nelle carceri del Veneto. A dirlo sono i gli ultimi dati resi noti in Consiglio regionale: nel 2023, i detenuti che si sono tolti la vita sono passati da 3 a 8 in un anno, l’11.6% sul totale della popolazione carceraria. Tutti uomini dai 26 ai 50 anni, che si sono uccisi impiccandosi, mentre tra i tre dell’anno precedente c’era anche una giovane donna di 28 anni. È una fotografia allarmante quella emersa dalla relazione del Garante regionale dei diritti della persona, presentata e approvata nell’ultima seduta del consiglio regionale. Tra le ragioni dei suicidi, incide anche un sovraffollamento da record. Ma non solo. In tutto il Veneto sono aumentati i reati (+8%), con una impennata di omicidi del 23%. La capienza regolamentare dei nove istituti penitenziari veneti è di 1.947 detenuti, ma sono 2.600 i carcerati stipati nelle celle, con un tasso di affollamento del 134%. Con picchi del 160% a Verona e Treviso. Un sovraffollamento da record: 16 punti sopra la media nazionale e inferiore solo a Friuli-Venezia Giulia, Lombardia e Puglia. Tra le persone che sono attualmente in cella, 622 (di cui 324 stranieri) sono in attesa di condanna definitiva. A colpire è anche il dato della popolazione straniera, che nelle carceri venete raggiunge il 51,42%, uno dei dati più alti in Italia. Carcere minorile di Treviso - Sovraffollato anche il carcere minorile di Treviso: sono in 15 i giovanissimi carcerati, a fronte di sili 10 posti. Una situazione che dovrebbe migliorare con il trasferimento di alcuni minori alla nuova struttura di Rovigo. Polizia penitenziaria: mancano 248 agenti - Se rimane cronica e trasversale a tutti gli istituti di pena la carenza di agenti della polizia penitenziaria - sotto organico di 248 unità - risulta particolarmente evidente a Treviso, Verona, Venezia e Padova. Un quadro preoccupante che fa il paio con un altro dato che ha caratterizzato la dinamica criminale della regione: dopo due anni di flessione, tra luglio 2022 e luglio 2023 si è riscontrato un aumento dell’8% dei reati, con una impennata di omicidi del 23%. Milano. Pestaggi nel carcere minorile: “Botte a mio figlio, nessuno si mosse” di Sandro De Riccardis e Rosario Di Raimondo La Repubblica, 8 maggio 2024 Nei verbali dell’inchiesta di Milano la testimonianza di una madre: “Picchiato ammanettato da tre agenti, denunciai alla direttrice questi fatti gravissimi”. Reclusi e personale raccontano di celle sporche e di un clima di violenza, compresi i riti di iniziazione tra i ragazzi. Era il 22 dicembre del 2022. Quel giorno Paola (nome di fantasia) andò a trovare il figlio al Beccaria ma il ragazzo non si presentò al colloquio: “Ho la febbre”. La mamma gli lasciò il regalo di Natale. Pochi giorni dopo, in videochiamata, scoprì la verità: “Aveva segni di percosse sul viso, un segno nero sotto l’occhio, la guancia arrossata. Mi disse che era stato picchiato da tre agenti”. Tutto era cominciato per motivi banali. A.C., il giovane detenuto, era in punizione. Un poliziotto gli aveva concesso di guardare la tv, quello del turno successivo l’aveva spenta ed era scoppiato un battibecco. “L’agente l’ha fatto uscire - ha messo a verbale la madre - l’ha ammanettato e portato in un ufficio senza telecamere. Sono arrivati altri due agenti che hanno iniziato a picchiarlo a pugni e calci anche in testa mentre era ammanettato”. Il 10 gennaio, la madre di A.C. scrisse una mail alla direttrice Maria Vittoria Menenti (oggi indagata): “So che lei è intervenuta a seguito delle urla. Ciò che è successo è gravissimo. Mio figlio è stato ammanettato e picchiato, l’impronta dell’anfibio era ancora sulla testa quando è giunto in pronto soccorso. I segni sulla psiche non si cancellano. Soffro al pensiero di come si sia sentito in quegli attimi terribili. Solo, maltrattato, impotente”. Chiese alla direttrice di prendere provvedimenti. Arrivò una risposta lapidaria: “Sono state poste in essere le attività previste nel caso specifico”. A.C. venne trasferito in un altro carcere. Tra i suoi effetti personali mancavano una felpa di marca e una chiavetta dove il detenuto aveva salvato le foto, che si era scattato, dei segni delle violenze. Gli dissero pure che avrebbe dovuto pagare 120 euro per una telecamera rotta, accusa che lui respinse. “La direttrice mi ha visto a terra con il sangue in faccia. Ha detto ai tre agenti di togliermi le manette. Il mio compagno di cella quando mi ha visto si è messo a piangere”, disse il detenuto alle pm. Questo è un racconto, uno dei tanti, dal girone del Beccaria. Di cui, in procura, hanno parlato in tanti: detenuti, psicologhe, personalità legate al mondo del carcere. Parole che toccano ogni ambito: dalle “celle sporche” a voci di corridoio, di cui si fa cenno nelle carte, di consumo di alcol e droghe fra chi era lì per garantire sicurezza. Il filo comune: la violenza. Anche fra detenuti. Una psicologa racconta dei “riti di iniziazione” per i nuovi arrivati di cui le hanno parlato i ragazzi: “Veniva messo del detersivo a terra e se il ragazzo di turno non fosse stato in grado di stare in piedi, sarebbe stato preso a calci. Un altro rito prevedeva percosse con un frustino ricavato da un rosario di plastica di quelli regalati da don Gino”. Un ex ospite del Beccaria ha parlato delle violenze: “Una volta è morto il cane del mio migliore amico, a cui ero affezionatissimo... Sono impazzito, ho fatto casino, urlavo, mi sono dato un pugno da solo... Il capoposto mi ha chiamato e mi ha dato uno schiaffone: per due giorni facevo fatica a masticare”. Era stato portato in “un ufficio senza telecamere”. Quello del capoposto. “Lui era da solo: proprio come i killer, senza testimoni”. Poi racconta del pestaggio di un suo amico. “Ho visto con i miei occhi lui tutto gonfio, qua sul labbro l’impronta degli stivali delle guardie, gli hanno schiacciato la faccia”. Altri detenuti gli hanno detto che “è stato picchiato da tre guardie, uno lo teneva e l’altro gli dava i pugni sulle costole; l’altro non so, credo pugni, ginocchiate. Poi l’hanno messo per terra e gli schiacciavano la faccia, ed era ammanettato”. I pm chiedono i motivi di tanta furia: “Da quello che ho sentito, perché era chiuso in cella e non lo facevano uscire da due settimane, una specie di isolamento, e lui ha iniziato a spaccare tutto. L’avrei fatto anche io”. A un certo punto il testimone si scopre il braccio e mostra le ferite. “Te le sei fatte da solo?”, chiede la pm. “Si”. “E un medico ti ha visto?”. “No, no... perché poi scrivono “questo si è tagliato”. Su dieci detenuti, nove sono tutti tagliati. Un mio amico è stato stuprato”. Infine una sintesi brutale della vita dentro: “Veniamo picchiati, siamo sempre chiusi in cella, ci tagliamo, chiamiamo la famiglia dieci minuti un giorno sì e un giorno no”. Milano. Caso Beccaria, l’email di una madre alla direttrice: “Mio figlio ferito” di Andrea Gianni Il Giorno, 8 maggio 2024 Le drammatiche testimonianze agli atti delle inchieste: sono stato picchiato dagli agenti almeno dieci volte, era la normalità. La denuncia di una madre sul figlio “ammanettato e picchiato”, rimasto “solo e impotente” per “attimi terribili”. La risposta di poche righe dell’allora direttrice del carcere minorile Beccaria di Milano, Maria Vittoria Menenti, arrivata il 10 gennaio 2023, per informare la donna che erano “state poste in essere le attività previste nel caso specifico”. C’è anche lo scambio di email tra la madre del giovane detenuto e l’allora direttrice, indagata per presunte omissioni, agli atti dell’inchiesta sulle presunte torture e violenze al Beccaria che ha portato all’arresto di 13 agenti della polizia penitenziaria e alla sospensione dal servizio di altri 8. “Ciò che è successo è gravissimo in quanto ci si aspetta che i ragazzi detenuti siano trattati con umanità (...) mio figlio quel giorno malato è stato ammanettato e picchiato (...) l’impronta dell’anfibio era ancora sulla sua testa quando è giunto in pronto soccorso. I segni della psiche no, quelli non si cancellano con dei giorni di prognosi! Da genitore soffro al pensiero di come si sia sentito in quegli attimi terribili, solo, maltrattato e impotente”, sono i passaggi dell’email inviata dalla madre del detenuto il 2 gennaio 2023, all’indirizzo dell’allora direttrice. Il figlio, durante una videochiamata, le aveva raccontato di aver subito un pestaggio da agenti il 22 dicembre 2022. Sentita nel giugno 2023, la donna ha spiegato ai pm che il figlio le raccontò che quel giorno era arrivata anche la direttrice, perché “aveva sentito urla” e “loro”, ossia gli agenti, “si sono bloccati, ma lei lo ha visto ammanettato, li ha ripresi e lo ha portato nel suo ufficio”. La direttrice, stando al verbale della madre, avrebbe detto al giovane, ancora nel carcere minorile ma che aveva da poco compiuto 18 anni, “che era suo diritto denunciare”. Cosa che, in seguito, lui ha fatto. Un altro giovane, secondo la testimonianza di una psicologa, avrebbe segnalato ai vertici dell’epoca della struttura di aver subito violenze. “Che gli agenti abusassero del potere era un argomento ricorrente - ha spiegato la professionista ai pm -. Più di una volta alcuni ragazzi mi avevano detto che avevano ricevuto degli schiaffoni”. Già il 22 novembre del 2022 una dottoressa, medico per il Servizio dipendenze al Beccaria, aveva segnalato, dopo una visita medica del giorno prima su un minore detenuto, che quest’ultimo “presentava un vistoso ematoma sulla spalla destra” ed “ecchimosi sul lato destro del collo”. E che le aveva riferito di essere stato “aggredito da più agenti di Polizia penitenziaria qualche giorno prima”. Lo stesso ragazzo le aveva “mostrato la mano destra livida riferendo che gli era stata ripetutamente pestata”. La segnalazione, che il medico con lettera intestata aveva inoltrato alla Procura di Milano e alle autorità sanitarie, è agli atti dell’inchiesta. E si riferisce alle violenze subite da un 17enne il 18 novembre di due anni fa e che sarebbero state messe in atto da un gruppo di sette agenti, come poi ricostruito nell’ordinanza che ha portato all’arresto di 13 agenti e alla sospensione di otto colleghi. Tra le testimonianze raccolte c’è anche quella di un ex detenuto 17enne: “Accadeva così, anni fa nel 2021 è successo anche a me che sono stato picchiato (...) ricordo che è successo circa dieci volte”. Il ragazzo ha parlato anche di agenti “alterati dalla cocaina” e di “violenze sessuali” tra minori detenuti. Ieri, tra l’altro, gli inquirenti hanno ascoltato proprio altri giovani vittime di presunti pestaggi e torture, oltre alle otto accertate nell’ordinanza tra autunno 2022 e lo scorso marzo. Si è discusso ieri anche il ricorso al Riesame degli agenti che hanno impugnato l’ordinanza di custodia cautelare a loro carico. La posizione ribadita dai loro legali è che non fu tortura, ma interventi di contenimento di fronte ad atteggiamenti aggressivi dei detenuti. Milano. Caso Beccaria, gli agenti arrestati negano gli abusi: “Mai torturato. Era legittima difesa” di Andrea Gianni Il Giorno, 8 maggio 2024 Partiti i ricorsi contro le ordinanze di custodia cautelare. Nessuna tortura, ma semplici interventi difensivi di contenimento. Questa è la linea difensiva presentata al tribunale del Riesame di Milano dai legali dei 13 agenti della Polizia penitenziaria arrestati nell’inchiesta su un presunto “sistema” di violenze nei confronti di minori detenuti nel carcere Beccaria. Gli avvocati hanno presentato ricorso contro l’ordinanza di custodia cautelare. In particolare, oggi si sono tenute due udienze per altrettanti agenti. Al primo, 33 anni e che dal 2019 lavorava al Beccaria dove aveva anche la residenza, prima di finire in carcere a Bollate, vengono contestati più episodi e i suoi legali, gli avvocati Leonardo Pugliese e Emanuele De Paola, hanno chiesto ai giudici di attenuare la misura cautelare con l’obbligo di dimora o i domiciliari in Campania. Non è un ricorso, dunque, sui gravi indizi di colpevolezza, ma sulle esigenze cautelari (pericoli di reiterazione e inquinamento probatorio) che potrebbero essere contenute anche con una misura diversa dal carcere. Come chiarito dai legali, l’agente, comunque, ripete di non avere “commesso questi gravi fatti”. Al massimo si può essere trattato di una “legittima difesa” come reazione o di un eccesso colposo. La difesa dell’altro poliziotto di 27 anni, per il quale già il gip Stefania Donadeo ha modificato la misura del carcere coi domiciliari, contesta davanti al Riesame la “qualificazione giuridica”, come chiarito dall’avvocato Massimiliano Cataldo, del solo episodio che gli viene contestato sia come maltrattamenti che come tortura. Per la difesa si tratterebbe al massimo di lesioni, ma senza certificato medico il reato sarebbe quello di percosse, con pena sotto i 4 anni e senza necessità di misura cautelare. Da qui la richiesta ai giudici di revoca dell’ordinanza o di misure più lievi, come l’obbligo di dimora. Il Riesame deciderà nei prossimi giorni, mentre nel pomeriggio il pm Rosaria Stagnaro inizierà a sentire a verbale i primi tre minori (una decina in totale) sugli ulteriori casi di presunte violenze. Avellino. Nelle carceri irpine niente Sert e pochi psichiatri di Riccardo Di Blasi orticalab.it, 8 maggio 2024 Il Garante: “Senza assistenza aumentano aggressioni e atti di autolesionismo”. Dall’annuale relazione sugli istituti penitenziari campani emergono anche le criticità di Bellizzi, Ariano e Sant’Angelo. Ciambriello: “Detenuti tossicodipendenti e con disturbi mentali avrebbero bisogno di cure. All’Icam di Lauro quattro donne recluse con i loro figli. Servono più agenti di polizia penitenziaria. Ma serve anche una diversa organizzazione di quelli che ci sono” La fotografia è impietosa: sovraffollamento, presenza di detenuti con più patologie, assenza di psichiatri e psicologi, tasso di suicidi 20 volte superiore a quello delle persone libere. I dati sono dell’Ufficio del Garante regionale dei detenuti, guidato da Samuele Ciambriello. Dalla relazione annuale, elaborata in collaborazione con l’Osservatorio campano sulla vita detentiva, emergono criticità e problemi strutturali che poi finiscono per determinare rivolte, aggressioni ed episodi di autolesionismo, come sovente accaduto nelle ultime settimane specie ad Avellino e Ariano. Per Ciambriello bisogna affrontare sul serio le criticità del nostro sistema penitenziario: “Il 18 marzo scorso il Presidente Mattarella, parlando alla Polizia Penitenziaria, ha detto che c’è bisogno di risposte concrete. Noi lanciamo un appello anche alla società civile. C’è in giro una voglia di prigione, un populismo penale e mediatico. Ci si dimentica che il carcere è uno dei luoghi in cui un paese democratico misura la sua aderenza ai diritti universali dell’uomo e alla Costituzione”. In Campania i detenuti, al 31 marzo 2024, erano 7514, di cui 958 stranieri, 371 donne. Secondo il report 2023, in Provincia di Avellino, ad Ariano ci sono 222 detenuti a fronte di una capienza di 265; ad Avellino 517, circa 20 in più rispetto ai posti previsti; a Sant’Angelo dei Lombardi 164, 60 in più rispetto quanti dovrebbero essere. Caduto nel vuoto anche il proposito di non vedere più bambini dietro alle sbarre. All’Icam di Lauro sono recluse 4 mamme con altrettanti figli. Mancano assistenza e cure adeguate, soprattutto per tossicodipendenti e malati psichiatrici. Spiega Ciambriello: “Noi in Campania abbiamo circa 1400 tossicodipendenti, un centinaio sono nella provincia di Avellino. Uno dei problemi è che nelle strutture irpine il Sert non è presenza stabile dentro il carcere, come in altri istituti, ma entra saltuariamente, a chiamata. Solo a Bellizzi ci sono una sessantina di tossicodipendenti. C’è poi, in tutta la Campania, una popolazione complessiva di circa 400 malati di mente. In provincia di Avellino, a Sant’Angelo dei Lombardi, c’era un’articolazione psichiatrica con dieci posti, ma è da un anno che è inutilizzata. L’Asl ha ufficialmente detto che inizialmente aveva difficoltà a fare entrare psichiatri in un luogo disagiato. Quindi la sezione è rimasta chiusa”. Le condizioni di detenzione sono alla base del bollettino di guerra che ormai, pressoché quotidianamente, arriva dagli istituti penitenziari irpini: “Ad Avellino e Ariano hanno sequestrato 54 oggetti non ammessi in camera di pernottamento. Ad Ariano ci sono stati 39 atti di lesionismo, 12 tentativi di suicidio. Ad Avellino 5 tentativi di suicidio, con una morte, ufficialmente per cause naturali. A Sant’Angelo dei Lombardi, che in parte è un carcere modello, ci sono stati 8 tentativi di suicidio. Ciò che colpisce, in Campania, è che chi si è suicidato o ha tentato il suicidio (165) lo ha fatto nei primi mesi di detenzione o quando mancava poco all’uscita dal carcere. Molti di questi erano detenuti per reati contro il patrimonio, o erano senza fissa dimora”. “Questo succede perché - aggiunge Ciambriello - mancano delle figure sociali di ascolto. Il detenuto quando entra in carcere vede nelle prime 24 ore il medico, l’educatore e lo psicologo, poi rischia di non vederli mai più. Noi abbiamo chiesto di incrementare il numero di queste figure, compresi mediatori e psichiatri. Abbiamo chiesto di incrementare il numero delle telefonate e delle videochiamate. Un detenuto non può stare 20 ore in cella senza lavoro, senza attività educative, ricreative, sportive, di studio. Disordini e rivolte, risse e aggressioni sono anche la spia di un sistema che non funziona. Anche perché il personale di Polizia Penitenziaria è insufficiente oppure da riorganizzare”. Ad Ariano Irpino fino all’anno scorso c’erano una quindicina di agenti in meno rispetto alla pianta organica. Ad Avellino ne mancavano cinque rispetto a quelli previsti. Quattro a Sant’Angelo. “Il problema - riflette il Garante - è che quelli che dovrebbero essere presenti ogni giorno non ci sono. Per svariati motivi: malattia, permessi, aggiornamenti. C’è dunque bisogno di un’organizzazione diversa. L’altro giorno, ad esempio, sono andato a Santa Maria Capua Vetere, c’erano circa 40 agenti in servizio in meno. Dunque, bisogna certamente incrementare il numero degli agenti, ma bisogna anche organizzare diversamente quelli che ci sono”. Inoltre, per quanto riguarda medici, psichiatri, psicologi, “le direzioni sanitarie dovrebbero considerare come potenziare queste figure, dando loro indennità di rischio, riconoscendone la sede disagiata”. Per Ciambriello la politica si è sempre occupata poco di carcere: “C’è una rimozione a prescindere dal colore politico dei governi. Certo, recentemente sono aumentate le categorie da punire. Con questo ministro sono inoltre aumentati i reati per cui è prevista la custodia cautelare. Ma la sicurezza non si può semplificare con il carcere, non può essere declinata solo in termini di proibizioni, punizioni, custodia. C’è bisogno anche dell’accudimento. In tutta Italia su 61 mila detenuti oltre 5 mila devono scontare meno di otto mesi. La domanda è: che ci fanno ancora in carcere? Parliamo di condanne definitive per reati “minori”. In Campania quelli che devono scontare meno di tre anni sono 833. A questi andrebbe data una misura alternativa, il carcere deve essere l’extrema ratio. Andiamo a vedere perché effettivamente sono impossibilitati ad accedere alle misure alternative e vediamo quante persone stanno in carcere dimenticate perché non hanno una dimora o non hanno un avvocato”. Alleggerire il numero dei detenuti consentirebbe sicuramente condizioni di vivibilità migliori per tutti. Tornando all’Irpinia, per Ciambriello, l’emergenza è quella dei detenuti malati di mente e tossicodipendenti che non hanno un Sert interno agli istituti penitenziari: “La droga entra. E ci sono anche casi di chi ha iniziato a drogarsi dietro le sbarre. I disordini si creano anche per questo. Ad Ariano Irpino ci sono state 310 infrazioni disciplinari, ad Avellino 137, a Sant’Angelo 68. Tanti anche gli atti di autolesionismo e scioperi della fame e della sete. Abbiamo bisogno di costruire una comunità penitenziaria dove se stanno bene gli uni stanno bene anche gli altri, quindi sia i detenuti che gli agenti. Non basta solo custodire, bisogna accudire. Se ci fossero più telefonate, più lavoro, più affettività, più psicologi, più figure sociali, più misure alternative, ci sarebbero anche meno proteste e meno atti di autolesionismo. Non stiamo parlando di concessioni o favori, ma di diritti sanciti dalla Costituzione. Fino a qualche anno fa il motto della Polizia Penitenziaria era vigilare per redimere, oggi è infondere speranza, e io lo condivido”. Ciambriello annuncia che la conferenza nazionale dei garanti territoriali, di cui è portavoce, presenterà una serie di proposte da mettere al più presto in campo e da diffondere alle istituzioni politiche, al Ministro della Giustizia, al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e alla società civile. Tra i punti principali: l’approvazione di misure deflattive del sovraffollamento; garantire l’accesso alle misure alternative ai detenuti che stanno scontando una pena o un residuo di pena inferiore ai tre anni; affrontare il tema dell’affettività in carcere, con colloqui riservati e intimi; aumentare le telefonate e le videochiamate in modo omogeneo e razionale. “Indignarsi, dunque, non basta più. Serve praticare l’impegno e tradurlo in soluzioni giuridiche immediate per ridare a più di 60 mila persone speranza e dignità, quelle che, oggi, l’inerzia del Legislatore sta svilendo. Solo così, come Papa Francesco ha recentemente auspicato, il carcere può diventare un luogo di rinascita, morale e materiale, in cui la dignità di donne e uomini non è messa in isolamento”. Milano. “Gusto 17” e “Seconda Chance” insieme per la reintegrazione dei detenuti foodaffairs.it, 8 maggio 2024 “Gusto 17”, l’innovativo ed originale concept di gelato artigianale gourmet e personalizzato, si unisce a Seconda Chance - l’associazione no-profit fondata dalla giornalista Flavia Filippi - nata con l’obiettivo di favorire la reintegrazione dei detenuti nella vita lavorativa e sociale favorendo l’occupazione dentro e fuori dalle carceri. I valori che accomunano Seconda Chance e Gusto 17, che da sempre mette al centro il Cliente e i collaboratori nel proprio percorso di crescita, sono stati il propulsore immediato e naturale per la creazione di una partnership volta all’individuazioni e alla valorizzazione di profili di detenute donne, di qualsiasi età, da inserire all’interno dei propri laboratori di gelato artigianale. “L’incontro con Flavia - racconta Vincenzo Fiorillo, co-founder di Gusto 17 - è stato entusiasmante e al tempo stesso illuminante. Abbiamo avuto modo di comprendere l’importanza di offrire il nostro contributo ad una causa che non è solo sociale ma soprattutto umana; dare una speranza a chi l’ha persa del tutto, ci riempie come imprenditori ma innanzitutto come persone”. “Sin da subito - continua Fiorillo - abbiamo espresso a Flavia la nostra volontà di creare un percorso pensato per le donne detenute che spesso vivono in maniera ancor più problematica non solo il periodo di detenzione ma il reintegro nella società.” Un primo passo si concretizzerà con l’assunzione della prima detenuta a partire da maggio 2024 e vuole essere l’inizio di un percorso di collaborazione ed impegno attivo in un triangolo virtuoso che vede protagonisti Gusto 17, Seconda Chance e gli Istituti Penitenziari italiani. Non solo una vision ma un impegno reale che, grazie all’aiuto di Seconda Chance e dell’Istituto Penitenziario di Bollate, si è concretizzato nell’attuazione di un percorso che ha portato Gusto 17 ad incontrare detenute a fine pena con lo scopo di individuare il primo profilo a cui offrire una ‘seconda possibilità’, lavorativa e di vita, offrendo un contratto a tempo determinato di un anno con possibilità di essere trasformato in tempo indeterminato. La scelta, dunque, rispecchia le caratteristiche della detenuta stessa, la quale verrà formata sulle tecniche di produzione e creazione di prodotti di pasticceria gelato artigianale di Gusto 17. “Sono molto contenta e orgogliosa nel vedere come ‘Seconda Chance’ sta crescendo e si sta strutturando in tutta Italia” - afferma la fondatrice Flavia Filippi - “In questo nostro percorso di sviluppo, Gusto 17 è diventato il primo partner a cui abbiamo offerto e attivato il contratto di una detenuta in Lombardia, sostenendola così nel suo percorso di reinserimento sociale. Speriamo sia l’inizio di un lungo e ricco cammino insieme e ci auguriamo che l’esempio virtuoso di Gusto 17 venga seguito da tanti altri imprenditori dell’intero territorio”. Fossombrone (Pu). Carcerati e studenti: buona pratica di cittadinanza ed educazione civica di Carmelina Maurizio ecnicadellascuola.it, 8 maggio 2024 Nel carcere di Fossombrone, in provincia di Urbino, si è svolto nei giorni scorsi un evento degno di essere raccontato sia come spunto di riflessione sia come buona pratica di cittadinanza e educazione civica. Gli studenti di due classi quinte dell’istituto tecnico Enrico Mattei di Urbino si sono recati nel carcere, per incontrare i detenuti, che hanno tenuto una vera e propria lezione sul tema della libertà. Ragazze e ragazzi hanno ascoltato le esperienze dei detenuti, tra cui un ergastolano. Al centro delle riflessioni la pena e soprattutto l’aspetto della riabilitazione sociale, partendo dal punto di vista di chi è stato privato della libertà. L’incontro è stato organizzato dal Procuratore Generale della Corte di Appello, Roberto Rossi. L’incontro - Per tre ore studentesse e studenti sono rimasti senza il cellulare, sono poi passati a due a due per i controlli della polizia penitenziaria e hanno toccato con mano quanto il procuratore generale della Corte di Appello di Ancona, Roberto Rossi, ha detto loro subito dopo: “Se finite qui dentro scordatevi la passeggiata con la fidanzata, la gita al mare, la pizza con gli amici e i social. Il concetto ‘tanto non succede niente’ non è vero perché gli errori si pagano e il senso di impunità non esiste”. A parlare con ragazzi e ragazze del Mattei sono stati sette degli 84 reclusi, all’interno della sala adibita a teatro, perché a Fossombrone in carcere si recita anche, arrivati i sette detenuti accompagnati dalla polizia penitenziaria, presente in grande numero ieri. I detenuti hanno preso la parola a turno e hanno ribadito la loro consapevolezza dell’errore e dalla necessità di accettare il prezzo per quanto compiuto. Accorato l’appello dei sette detenuti nell’invitare i giovani ascoltatori a non varcare mail la soglia del carcere, dove hanno detto (alcuni di loro padri di famiglia) in carcere si soffre, tutto è limitato. La realtà del penitenziario di Fossombrone, diretto da Daniela Minelli presente all’incontro, e che ha come comandante della polizia penitenziaria interna un’altra donna, Marta Bianco, è una delle migliori in Italia, tanto da essere definito un carcere modello, dove si può studiare, prendere un diploma, laurearsi, seguire le proprie passioni e scoprirle, imparare a dipingere. Altro messaggio corale dei detenuti è stato quello di studiare, di non trascurare mai la cultura. Nei laboratori, ricavati nell’ala della ex sala operatoria dismessa, i detenuti lavorano e coltivano i propri hobby, sono appesi quadri e iconografie da loro prodotte, le lauree e i diplomi appesi. Tra i detenuti c’era anche un ergastolano, che ha rivelato di provenire alla stessa cittadina dove ha vissuto ed è stato ucciso dalla mafia Peppino Impastato, e ha detto ai giovani presenti di avere scelto la strada sbagliata, quella della mafia. Milano. I “fiori avvinghiati a una sbarra” delle detenute di San Vittore asa.it, 8 maggio 2024 Performance a Milano per il progetto “Girasoli a primavera”. Voci di donne, poesia, speranza, hanno animato la performance delle detenute del carcere di San Vittore “Ci sono fiori bellissimi avvinghiati a una sbarra”, organizzata oggi in sala consiglio a Palazzo Isimbardi a Milano. “I girasoli di primavera” è il nome scelto dalla Casa circondariale e da Città Metropolitana di Milano per il progetto, perché sono fiori che resistono al freddo, seguono il sole e si rialzano, così come i detenuti attraverso i laboratori in carcere. “È il terzo di quattro appuntamenti per dare un senso al reinserimento dei detenuti dei quattro carceri milanesi - ha spiegato il vicesindaco della città metropolitana di Milano Francesco Vassallo - i girasoli sono i detenuti ai quali offriamo un percorso di recupero e reinserimento attraverso le arti, il nostro obiettivo è unire metaforicamente la vita dentro e fuori dal carcere - ha aggiunto - attraverso l’espressione artistica dei detenuti e delle detenute con le loro fragilità”. “San Vittore oggi ha numeri altissimi, un 1050 uomini e 87 donne, lavorare in un contesto del genere è difficile - Giacinto Siciliano, direttore del Carcere di San Vittore - lo è per programmare e gestire, in queste condizioni rischia di essere assolutamente inutile. Ciò Nonostante - ha proseguito - può essere un’occasione per dare stimoli, per utilizzare la convivenza forzata perché le persone possano scoprirsi. Per questo è fondamentale la rete, nessuna iniziativa estemporanea funziona - ha aggiunto - il Teatro dona l’applauso, ti fa capire che se vuoi qualcosa di diverso puoi farlo e significa fiducia”. Di una riabilitazione e di un carcere che non è “buttare via la chiave” ha parlato Alberto Di Cataldo, figlio Francesco Di Cataldo, maresciallo maggiore della penitenziaria ucciso dalle brigate rosse. “Nei momenti difficili che stiamo vivendo oggi il suo esempio ci può essere utile? Assolutamente sì”, ha detto rispetto all’approccio che fu di suo padre, alla luce di quanto accaduto nel carcere minorile di Milano nelle scorse settimane, dove alcuni agenti della penitenziaria sono stati arrestati per abusi e torture sui giovani detenuti. Napoli. I detenuti-pizzaioli cucinano per i propri cari Il Mattino, 8 maggio 2024 La giornata internazionale delle famiglie a Poggioreale. È tutto napoletano e interno al carcere il progetto di formazione lavoro “Brigata Caterina - Pizzeria e Pizzaioli” che sarà presentato alla stampa il prossimo giovedì 16 maggio dalle ore 10 alle 13 presso la casa circondariale, in occasione della Giornata Internazionale delle Famiglie. Il progetto è promosso dalla Casa Circondariale “Giuseppe Salvia” Poggioreale ed è stato avviato con l’Arcidiocesi di Napoli; oggi è realizzato dal gruppo di imprese sociali Gesco in ATI con APL lavoro grazie a Fondi Regionali P.O.R. Campania (F.S.E 2014-2020). Il progetto ha permesso l’attivazione di un percorso di formazione e accompagnamento all’inserimento lavorativo all’interno del carcere destinato a 20 detenuti per diventare pizzaioli. Allo stesso tempo, ha dato l’opportunità ad alcuni di loro di essere assunti presso il laboratorio di pizzeria dell’istituto Salvia. Per la Giornata Internazionale delle Famiglie, la Casa circondariale aprirà le porte ai familiari dei detenuti corsisti del progetto di formazione-lavoro che per l’occasione daranno prova delle loro abilità di pizzaioli, preparando pizze per mogli e figli ospiti. Per i più piccoli sono previste attività di animazione e di lettura, oltre che alcuni doni per celebrare con i propri cari il momento di festa. Per preparare le persone recluse ad affrontare il percorso formativo e nuove opportunità di lavoro, lo staff del progetto le coinvolge in attività parallele a quelle di cuoco specializzato nel settore della pizzeria, offrendo loro occasioni di lettura, momenti di riflessione con conversazioni di letteratura e filosofia, incontri di marketing, comunicazione e lingua inglese. L’obiettivo, condiviso con la direzione della casa circondariale di Poggioreale, è di restituire alle persone recluse coinvolte un senso più ampio di cittadinanza e di inserimento lavorativo. Migranti. Mediterraneo, l’Italia vuole bandire gli aerei delle Ong di Giansandro Merli Il Manifesto, 8 maggio 2024 Una raffica di ordinanze dell’Enac sugli scali siciliani minaccia il fermo dei velivoli. Sea-Watch: “Il governo fa campagna elettorale. Non fermeremo le nostre missioni”. “Chiunque effettua attività in ambito Search and Rescue al di fuori delle previsioni del quadro normativo vigente è punito con le sanzioni di cui al Codice della navigazione, nonché con l’adozione di ulteriori misure sanzionatorie quali il fermo amministrativo dell’aeromobile”. Sta nell’articolo 1 il succo delle ordinanze con cui l’Ente nazionale per l’aviazione civile (Enac) vuole bandire dai cieli del Mediterraneo centrale gli aerei delle organizzazioni non governative. Una raffica di provvedimenti emessi in serie: il 3 maggio per gli aeroporti di Lampedusa, Pantelleria, Comiso e Catania Fontanarossa; il 6 per quelli di Trapani Birgi, Palermo Punta Raisi e Palermo Bocca di Falco. I testi, tutti uguali, sono stati caricati online solo ieri e l’altro ieri. A finire nel mirino Pilots Volontaires e Sea-Watch, i cui velivoli Colibrì e SeaBird 1 e 2 fanno base sull’isola di Lampedusa e monitorano dall’alto quanto accade nel tratto di mare che unisce le coste nordafricane a quelle della Sicilia. Da lì lanciano gli allarmi per le imbarcazioni in pericolo, informano le autorità competenti e le navi umanitarie, riprendono e denunciano le violazioni dei diritti umani commesse spesso e volentieri dalle milizie libiche. Nei confronti di questi testimoni scomodi era difficile sbandierare il teorema del pull factor, cioè del presunto incentivo alle partenze dei migranti che sarebbe generato dalle navi di soccorso. Per il resto, comunque, l’armamentario linguistico e argomentativo è lo stesso utilizzato nei confronti dei mezzi marittimi. Le ordinanze si intitolano: “Interdizione all’operatività dei velivoli e delle imbarcazioni delle ong sullo scenario del Mare Mediterraneo centrale”. Affermano che il controllo delle attività di ricerca e soccorso deve essere monopolio dello Stato. Prendono atto di segnalazioni dell’autorità marittima, dunque della guardia costiera, circa “reiterate attività effettuate da velivoli e natanti, riconducibili alla proprietà di Soggetti anche extra U/E, che si traduce nel prelievo - da imbarcazioni di fortuna - di persone migranti provenienti da rotte nordafricane”. Sostengono, come il decreto Piantedosi di gennaio 2023, che le ong eludono il quadro normativo di riferimento e i loro interventi rischiano di “compromettere l’incolumità delle persone migranti” e aumentano il carico di lavoro della guardia costiera. Non si è fatta attendere la risposta di Sea-Watch: “Un atto vigliacco e cinico di chi usa la criminalizzazione delle ong come strumento di propaganda politica in vista delle imminenti elezioni per il rinnovo del parlamento europeo”. Dichiarazione a cui segue una promessa: “Non fermeremo le operazioni anche a costo di mettere in pericolo i nostri aerei”. Secondo la portavoce della ong Giorgia Linardi questa mossa va letta insieme “alla visita in Libia della premier Giorgia Meloni e alla nuova stretta sulle deportazioni dalla Tunisia”. In ogni caso, sottolinea Linardi, “non è la prima volta che si tenta di interdire le nostre operazioni aeree. Finora il diritto ci ha sempre dato ragione”. Un paio di mesi fa le ong avevano ricevuto una missiva dell’Enac, che è sotto il controllo del ministero delle Infrastrutture e trasporti guidato da Matteo Salvini (Lega), in cui veniva ribadito con toni minacciosi che l’attività Sar è prerogativa dello Stato. Nel 2019 e 2020 c’erano state altre interdizioni al volo con motivazioni analoghe. Le nuove ordinanze non specificano quali norme del codice della navigazione sarebbero violate dalle ong e dunque su quale base potrebbero essere disposti i fermi. Il manifesto lo ha chiesto all’Enac, che non ha risposto. Solo tra gennaio e marzo di quest’anno i due aerei di Sea-Watch hanno condotto 40 missioni per un totale di 205 ore di volo. Hanno avvistato 2.755 persone in pericolo a bordo di 47 imbarcazioni. Tra queste oltre 700 sono state intercettate e ricondotte con la forza a Tripoli dalla sedicente “guardia costiera” libica. In otto casi che hanno avuto questo esito l’ong ha denunciato il coinvolgimento dell’agenzia europea Frontex. Medio Oriente. Il disastro internazionale della vendetta di Zvi Schuldiner Il Manifesto, 8 maggio 2024 Per giorni sono circolate le versioni più disparate su due questioni centrali nella guerra a Gaza: l’attacco israeliano a Rafah e il possibile rilascio degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Rafah è un punto di passaggio critico da Gaza all’Egitto e il governo di Abdel Fattah al-Sisi vedeva nell’attacco una fonte potenziale di gravi problemi, sia perché gli egiziani non sono disposti ad accogliere i palestinesi in fuga verso l’Egitto, sia per le ripercussioni sui rapporti fra Egitto e Hamas, sui rifugiati e sul controllo di un valico di grande importanza strategica. Per gli statunitensi, era chiaro che un attacco israeliano avrebbe portato a ulteriori disastri umanitari e prolungato la guerra, pregiudicando sia i possibili piani nella regione sia accordi con potenziali alleati, e oltretutto aggravando i problemi elettorali del presidente Joe Biden. Lunedì sera tutto era sembrato migliorare, ma già ieri mattina è apparso chiaro che siamo ancora nel bel mezzo di una guerra crudele. Più che un messaggio ad Hamas, l’attacco spacciato per “moderato” è un messaggio a statunitensi ed egiziani, per moderare le pressioni di entrambi e allo stesso tempo migliorare le precondizioni per un possibile negoziato. Netanyahu e il suo altamente problematico governo devono affrontare critiche costanti da parte degli israeliani che si aspettano non solo il rilascio dei circa 130 ostaggi, ma molto di più. E invece tutta la politica del premier è incentrata sulla prosecuzione della guerra, unica possibilità di sopravvivenza politica. Nel sud di Israele, adiacente alla Striscia di Gaza, per centinaia di migliaia di israeliani il ritorno a casa appare ancora lontano. Nel nord, la guerra con Hezbollah ha già spinto 40-50 mila cittadini a lasciare le loro case. A dispetto delle promesse fatte a questo enorme numero di sfollati interni, molti iniziano a rendersi conto che la vita precaria proseguirà, senza un vero futuro e con una situazione economica in continuo peggioramento. Evidentemente, se il governo israeliano dovesse raggiungere un cessate il fuoco con Hamas, questo permetterebbe a Hezbollah di rispettare le proprie dichiarazioni, secondo le quali un cessate il fuoco nel sud è una precondizione per un accordo anche nel nord. Significherebbe riaprire la regione alle pressioni statunitensi, che da tempo cercano di raggiungere accordi simili a quelli sul gas che avrebbero una grande influenza sull’economia libanese. I francesi, da parte loro, continuano a considerarsi molto legati al Libano e sostengono con decisione diverse forze in quel paese, il che non è necessariamente positivo agli occhi degli altri attori della regione. Il 7 ottobre, di fronte al barbaro attacco di Hamas, la chiara indignazione internazionale aveva creato un’atmosfera favorevole a Israele, con una generale condanna dei crimini commessi - omicidi, saccheggi, stupri, incendi. Ma Israele ha scelto una risposta barbara, basata sulla vendetta; così, il quadro internazionale è radicalmente mutato. Non solo nelle università degli Stati uniti; l’inaudito massacro di civili palestinesi ha determinato un mutamento radicale anche in tutta Europa. Nei lunghi anni di governo di Netanyahu, si sono accentuate le correnti nazionaliste fondamentaliste e si è rafforzato l’obiettivo di “liberare le terre sacre assegnateci da Dio”; formule come quella dei due Stati per due popoli hanno dunque perso forza. La politica di Netanyahu è sempre stata all’insegna dell’ambiguità, per esempio, “il denaro ad Hamas è una mossa intelligente per placarne la violenza”. Con gli aiuti del Qatar - costantemente incoraggiati da Netanyahu - sono arrivati a Gaza decine di milioni di dollari, in parte per le necessità di Hamas e in parte anche per la popolazione. La cosiddetta pace di Trump e Netanyahu ha significato un altro passo nella rinnovata presenza statunitense in Medio oriente. In una situazione aggrovigliata. Una delle principali basi militari degli Stati uniti si trova in Qatar. Gli emirati sono alleati tradizionali degli Usa e al tempo stesso Israele, alleato di Washington, ha sempre mantenuto una ostilità di base rispetto ai paesi arabi. William Quandt, uno dei più autorevoli studiosi del Medio Oriente, scriveva negli anni 1970 che quando Hafez al-Assad (il padre dell’attuale presidente siriano) invase la Giordania e Israele fece partire i propri aerei facendolo ritirare senza combattere per la prima volta, lo Stato ebraico dimostrò di poter essere un fattore importante nelle dinamiche del Medio oriente. Quando sentiamo che gli aerei dell’Iran stanno per attaccare, possiamo dormire sonni tranquilli. Non è stata solo la potente aviazione israeliana a decollare: aerei giordani e statunitensi hanno contribuito a sventare un grande attacco di droni. Gli interessi statunitensi nell’area vanno al di là del Medio Oriente. Neutralizzare l’Iran e coinvolgerlo in nuovi accordi significa frenare l’ingresso dei russi e dei cinesi. L’Iran è un fattore importante di fronte alle necessità di Putin, imbarcato nell’invasione dell’Ucraina, un ginepraio inaspettato. I cinesi si contengono e al tempo stesso creano nuovi potenziali alleati. Per molti anni la formula “due Stati per due popoli” è stata la risposta problematica e debole del pacifismo israeliano e dell’Europa di fronte al fascismo annessionista israeliano. Improvvisamente Europa e Stati uniti sembrano volere un revival della formula. Una delle ragioni evidenti della reazione dell’estrema destra al governo in Israele è senza dubbio diretta a contrastare la possibilità di un forte rilancio di qualsiasi accordo di pace. Che porterebbe Israele ad accettare un accordo con l’Arabia saudita che, a quel punto, comporterebbe la necessità di legittimare le aspirazioni palestinesi. Medio Oriente. “La situazione è fuori controllo, ormai nessuno crede più che la guerra possa finire” di Greta Privitera Corriere della Sera, 8 maggio 2024 La città di Rafah sotto attacco: “Manca tutto, anche l’acqua. Le persone ora hanno gli sguardi vuoti”. Quando i bambini hanno sentito i grandi dire: “Hamas ha accettato l’accordo di cessate il fuoco”, hanno preso il cellulare di Mohammed Rajab, l’hanno collegato a una cassa, hanno scritto su un foglio “la festa del cessate il fuoco” e hanno ballato per le due ore successive. Poco dopo, il governo di Netanyahu ha risposto che la “proposta accettata da Hamas è lontana dalle richieste d’Israele”, ma i grandi non l’hanno detto ai piccoli perché volevano che andassero a dormire felici. Poi, sono iniziati i bombardamenti nella parte est di Rafah - la città sul confine egiziano dove hanno trovato rifugio oltre un milione di gazawi - e i bambini si sono svegliati. “Gli abbiamo detto che non sarebbe durato tanto e che davvero la pace è vicina. Ma nessuno di noi ci crede più: Netanyahu non ha alcun interesse a finire questa guerra”, dice Rajab in videochiamata. Rajab è un uomo di Gaza City. Risponde da al-Mawasi, che con Khan Younis è la città indicata dalle Forze di difesa israeliane come area sicura per i centomila profughi della zona est di Rafah appena evacuata e da due giorni nuovo target dell’esercito che cerca i miliziani di Hamas. Rajab vive con tutta la famiglia - che comprende 17 bambini tra figli e nipoti - in un appartamento da cui si vede il Mediterraneo. Ci mostra una distesa infinita di tende tagliata a metà da una strada che segue le curve tracciate dalla spiaggia. Si chiama Strada del mare. Riusciamo a distinguere un’interminabile fila di macchine e di carretti e di persone. “Sono quelli che arrivano da Rafah”, dice lui. “La situazione è fuori controllo. Questa non può essere considerata una zona umanitaria, Israele aveva annunciato che avrebbe espanso il campo profughi di al-Mawasi, ma è tutto falso. Qui non c’è un buco libero, manca tutto, mancano le infrastrutture, le sorgenti da cui prendere l’acqua. Ci sono centinaia di casi di epatite”, continua Rajab. “Questo attacco a Rafah è il colpo finale alla nostra dignità”, dice Noor Nashwan, giovane ricercatrice di Gaza City che con la sua famiglia ha appena lasciato la città sul confine egiziano. “Abbiamo camminato quattro ore per raggiungere al-Mawasi. Non abbiamo soldi per affittare una macchina. I miei genitori sono anziani, è la quarta volta che prendiamo gli ultimi stracci che ci sono rimasti e cambiamo tenda”. Racconta che a sconvolgerla non sono più le case rotte, i morti, le bombe “ma gli sguardi vuoti delle persone. Sembra che i gazawi non provino più sentimenti, che, disumanizzati dal mondo, abbiano smesso di essere umani”. Si chiede se questo vuoto, questa anestesia dell’anima, potrà mai essere curato. Anche Martina Marchiò, coordinatrice di Medici Senza Frontiere a Rafah, aveva creduto, o forse più sperato, che una tregua fosse possibile. “E invece no. Da due giorni le persone stanno evacuando, ma non sanno bene dove andare, che cosa fare. Dal nostro ambulatorio in sole due ore abbiamo visto passare oltre 500 famiglie. L’offensiva di Israele su Rafah avrà effetti disastrosi per oltre un milione di persone già sofferenti”. Intanto, all’ospedale indonesiano, Msf ha iniziato a dimettere i pazienti che possono camminare per preparare una possibile evacuazione. Reham Moeen, farmacista di 27 anni, ci scrive: “Sto nel blocco Ovest, non mi è ancora arrivato il messaggio che me ne devo andare. Temo che questa volta sarò io a morire”. Russia. Il premio Pulitzer assegnato al dissidente Kara-Murza per i suoi articoli dal carcere di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 8 maggio 2024 Il dissidente Vladimir Kara-Murza ha vinto il Premio Pulitzer per il giornalismo (sezioni commenti) per una serie di articoli pubblicati sul Washington Post e scritti nei primi sei mesi del 2023 dalla prigione in cui è rinchiuso da poco più di due anni. L’oppositore russo è stato condannato a 25 anni di carcere per aver criticato l’aggressione militare della Russia ai danni dell’Ucraina. L’arresto di Kara- Murza risale all’aprile 2022. Quando scoppiò la guerra in Ucraina, l’oppositore politico si trovava negli Stati Uniti. Decise però di ritornare in Russia per condurre in patria le battaglie politiche contro Putin. Una mossa rivelatasi fatale. Poche ore dopo aver rilasciato un’intervista alla Cnn, in cui definiva Putin a capo di un “regime di assassini, venne arrestato dalla polizia. La giuria del Premio Pulitzer ha definito gli articoli di Kara-Murza “appassionati”, “scritti dalla sua cella con la consapevolezza dei rischi personali, mettendo in guardia l’opinione pubblica sulle conseguenze del dissenso nella Russia di Vladimir Putin e insistendo su un futuro democratico per il suo Paese”. Quando è stata comunicata l’assegnazione del Premio Pulitzer, Evgenia Kara-Murza, contattata dal Washington Post, si è definita con ‘il cuore spezzato’ dato che il marito non potrà essere presente ad alcuna cerimonia di premiazione. Uno degli articoli che sono valsi al dissidente russo il Pulitzer, pubblicato sul Washington Post il 7 giugno 2023, si intitola “La guerra di Putin all’Ucraina si fa beffe della legge”. Viene usata la parola vietata dalla legge russa. Un gesto di sfida e di libertà al tempo stesso nei confronti del boss del Cremlino. “La legge, sia russa che internazionale - scrive Kara-Murza - vieta le guerre di aggressione. Ma da più di quindici mesi, l’uomo che si autodefinisce presidente del mio Paese conduce una guerra brutale, immotivata e aggressiva contro uno Stato vicino, uccidendo, bombardando le città, conquistando i territori”. In questo editoriale, Kara- Murza sottolinea la repressione brutale ai danni di chi esprime le proprie idee: “Oggi in Russia ad essere giudicati non sono coloro che conducono questa guerra criminale, ma coloro che vi si oppongono: i giornalisti che dicono la verità. Artisti che attaccano adesivi contro la guerra, sacerdoti che invocano il comandamento “Non uccidere”, insegnanti che chiamano le cose col loro nome. Genitori i cui figli disegnano immagini contro la guerra. Oppure, come nel mio caso, politici che si pronunciano apertamente contro questa guerra e contro questo regime. Ho ricevuto una condanna a 25 anni per cinque dichiarazioni pubbliche. Il capo delle mie guardie ha scherzato sarcasticamente nel tribunale di Mosca: “Hai fatto un lavoro impressionante”. Nei propri scrittiKara- Murza ha sempre avuto, essendo uno storico, un occhio di riguardo per le vicende dell’Europa e della Russia. Chi si è battuto per le libertà in Russia ha pagato con il carcere. Un copione che si ripete, Chi ha gettato nel baratro la Russia, secondo Kara- Murza, non potrà sottrarsi ad una condanna politica e morale. “Lo stesso - evidenzia il dissidente sul Washington Post - accadrà con l’attuale guerra in Ucraina, e accadrà molto prima di quanto possa sembrare per coloro che l’hanno scatenata. Questo perché, oltre alle leggi giuridiche, ci sono leggi della storia, e nessuno è ancora riuscito a cancellarle. E poi verranno giudicati i veri criminali, compresi quelli i cui mandati di arresto sono già stati emessi dalla Corte penale internazionale. Come sapete, i crimini di guerra non sono soggetti a prescrizione. Ho un consiglio per tutti coloro che hanno organizzato il mio e altri processi farsa contro gli oppositori della guerra, cercando di presentarci come “traditori della Patria”, per tutti coloro che sono così nostalgici del sistema sovietico: ricordate come è finita. Tutti i sistemi basati sulla menzogna e sulla violenza finiscono allo stesso modo”. Intanto, ieri Putin ha giurato in occasione del suo quinto mandato. Il patriarca russo Kirill ha auspicato vita eterna per il padrone del Cremlino. La solita retorica che non tiene conto della storia e che ormai è completamente sganciata dalla realtà. Stati Uniti. Parte la riforma legislativa sulla cannabis di Bernardo Parrella Il Manifesto, 8 maggio 2024 L’agenzia anti-droga (Dea) e il Procuratore Generale statunitensi hanno proposto di spostare ufficialmente la marijuana dalla Tabella I alla Tabella III della legislazione vigente sui narcotici. In linea con le raccomandazioni delle autorità sanitarie nazionali, sollecitate mesi fa dallo stesso Biden, la decisione è tanto attesa quanto di portata storica per lo scardinamento del controverso Controlled Substances Act in vigore da oltre mezzo secolo (poi adottato variamente nel resto del mondo). Lo ha sottolineato fra gli altri David Culver, vice-presidente del gruppo industriale U.S. Cannabis Council: “Il passo più significativo nella riforma sulla cannabis della storia moderna e una chiara spinta verso la legalizzazione a livello federale”. Attualmente la marijuana è infatti inclusa nella classificazione più restrittiva, la Tabella I (sostanze prive di valore terapeutico e a forte rischio d’abuso, con pene draconiane per l’uso ricreativo), insieme ad eroina, psichedelici, amfetamine. Per quelle incluse nella Tabella III se ne riconosce invece l’uso medico e la scarsa potenzialità di dipendenza fisica o psicologica; è il caso di oppioidi, ketamina, steroidi e perfino del Marinol, versione sintetica del THC spesso prescritto per il trattamento di nausea da chemioterapia e inappetenza dovuta all’AIDS. Con l’effettivo cambio di tabella sarebbe garantito l’uso dietro prescrizione medica e si darebbe via libera alla ricerca scientifica. Le aziende del settore avrebbero altresì accesso a sgravi fiscali (ma non alle auspicate facilitazioni bancarie) e a maggiori spazi di manovra nel mercato borsistico Usa - finora possibili solo in Canada, dove la cannabis è legale dal 2018, secondo Paese al mondo dopo l’Uruguay. Va chiarito che nell’immediato ciò non comporta alcun cambiamento a livello legislativo: l’eventuale nuova classificazione ha tempi lunghi e richiede il beneplacito di altre agenzie governative, un periodo di valutazioni pubbliche, il ritardo dei cavilli burocratici. Non a caso alcuni attivisti lo giudicano comunque un passetto da lumaca, ritenendo che la perdurante illiceità delle norme federali interferisca con i programmi di segno opposto implementati a livello statale (sono 38 gli Stati in cui è previsto l’uso personale e la vendita per gli adulti in base a diverse formulazioni). Motivo per cui il gruppo parlamentare democratico ha presentato un’ulteriore proposta di legge per annullare definitivamente ogni divieto sulla cannabis, mentre il fronte repubblicano ha già avviato una raccolta-fondi a sostegno di interventi legali per bloccare sul nascere la proposta della Dea. La quale fa seguito alle aperture già promesse da Biden nella campagna elettorale nel 2020 e reiterate durante lo State of the Union del marzo scorso con un riferimento preciso: “Nessuno dovrebbe andare in galera solo per l’uso o il possesso di marijuana”. E se per qualcuno non si tratta altro che dell’ennesima strategia tesa a raccattare voti alle presidenziali del prossimo novembre, molte fonti e testate mainstream sembrano invece accogliere con favore l’intera manovra, a riprova di un’istanza anti-proibizionista sempre più urgente e sostenuta dai due terzi della popolazione. Anche perché, tra i pochi ma utili effetti pratici dell’eventuale riclassificazione, si prevede un flusso di investimenti nel relativo settore imprenditoriale, finora statico ma valutato fino a 28 miliardi di dollari. Forse ancor più importanti le prevedibili ricadute a livello internazionale, vieppiù ora che un altro pezzo grosso come la Germania ha detto sì alla regolamentazione. Un primo e concreto segnale di riforma che potrebbe stimolare altri Paesi, variamente interessati o vicini alle politiche Usa, a cavalcare l’inevitabile vento del cambiamento. El Salvador. Denuncia delle ong all’Onu: 327 casi di sparizioni forzate in 2 anni di Costanza Oliva Avvenire, 8 maggio 2024 Il “metodo Bukele” ha portato a detenzioni arbitrarie, soprattutto tra le comunità più povere, per un totale di 78mila arresti. Il rapporto: “In gran parte giovani tra i 18 e 30 anni”. Sono 327 i casi di sparizioni forzate, oltre 78mila detenzioni arbitrarie e almeno 244 morti sotto la “custodia” dello Stato. È il risultato di due anni di stato di emergenza in El Salvador, il più piccolo Paese dell’America Latina. Sistematiche violazioni dei diritti umani documentate da sei organizzazioni non governative in un rapporto che il 9 maggio verrà presentato al Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate. L’estado de excepción proclamato dal presidente Nayib Bukele nel marzo del 2022 doveva essere una misura temporanea per far fronte alla crescente violenza delle maras, le bande criminali, che, peraltro, come confermato dall’inchiesta del prestigioso giornale El Faro, sarebbe stata causata dalla rottura del patto segreto stretto dall’attuale governo con le gang per ridurre gli omicidi in cambio di benefici finanziari e garanzie di impunità. Da allora l’autoritario presidente “millenial” ripete con orgoglio che El Salvador “da essere il Paese più pericoloso del mondo si è trasformato in quello più sicuro del Continente”. Se il “dictator mas cool” del mondo, come si è autodefinito Bukele, - da poco rieletto per un secondo mandato, nonostante sia vietato dalla Costituzione - è riuscito a ridurre drasticamente i tassi di omicidio, lo ha fatto barattando le libertà costituzionali del suo popolo. Da due anni sono sospese le garanzie di un giusto processo, così come i diritti di associazione e di riunione, l’inviolabilità della corrispondenza, il limite di 72 ore alla detenzione amministrativa, la presunzione di innocenza e il diritto alla difesa e all’assistenza legale. Il pugno di ferro del “metodo Bukele” ha portato a detenzioni arbitrarie, soprattutto tra le comunità più povere, per un totale di 78mila arresti. “In gran parte, - documentano le organizzazioni -,si tratta di giovani di età compresa tra i 18 e i 30 anni accusati di essere affiliati alle pandillas”. Un tatuaggio in alcuni casi può essere sufficiente per far scattare le manette e finire nel maxi-carcere da 40mila posti che il governo ha fatto costruire in tempi record. Le sei organizzazioni per i diritti umani hanno documentato che le autorità si rifiutano in modo sistematico di fornire informazioni sulle persone detenute. In alcuni casi si tratta di una pratica che mira a generare terrore e sottomissione nei familiari. In altri, “il rifiuto di fornire informazioni sui detenuti è dovuto al fatto che le autorità cercano di nascondere torture e condizioni inumane in cui sono tenuti in prigione”, si legge nel rapporto. Nel quadro delle sparizioni forzate, sono stati identificati tre modus operandi. In tutti i casi, gli arresti da parte di agenti dello Stato avvengono in luoghi pubblici e di fronte a testimoni, salvo poi essere negati. Solo settimane o, in alcuni casi, mesi dopo, a seguito dell’insistenza delle famiglie, avviene l’identificazione, ma le informazioni rilasciate sono comunque scarse. Nel secondo caso, non vengono proprio fornite informazioni. Nel terzo, si scopre che le persone detenute sono morte. Come ricorda il rapporto, le stesse pratiche di sparizione venivano usate dagli agenti statali e dai gruppi paramilitari durante la guerra civile tra le forze armate governative e la guerriglia del Fronte Farabundo Martí de Liberación Nacional che dilaniò il Paese tra il 1980 e il 1992. Era una strategia di controllo sociale per silenziare le persone considerate oppositrici al regime.