Promesse tradite: per i detenuti l’aumento delle telefonate resta un miraggio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 maggio 2024 “Più telefonate a casa per i detenuti”, aveva promesso il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nell’agosto del 2023 per far fronte all’emergenza suicidi. A gennaio del 2024, il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, aveva ribadito l’impegno del governo in questa direzione durante una visita al carcere di Montorio, tristemente noto per l’alto numero di suicidi avvenuti al suo interno. Tuttavia, a un anno di distanza dalle promesse, nulla è stato fatto. I detenuti italiani continuano ad avere diritto a una sola telefonata a settimana della durata massima di 10 minuti, come stabilito dall’articolo 38 del regolamento penitenziario. Che nelle carceri ci sia il traffico di telefoni cellulari non è una novità. Non nei numeri un po’ ingigantiti espressi dal procuratore Nicola Gratteri, ma il problema esiste da sempre. Non è solo una criticità italiana, ma in tutti quei Paesi dove i colloqui telefonici sono molto limitati. Nel 2018, il governo francese ha risolto l’annoso problema lanciando una gara d’appalto che ha realizzato circa 50mila utenze nei penitenziari del Paese. I detenuti hanno un telefono fisso in ogni cella, per comunicare così con l’esterno ma solo con i numeri autorizzati dall’amministrazione penitenziaria. Nelle carceri italiane, invece, come già detto, si è rimasti fermi al vecchio e per ora immutabile articolo 38 del regolamento penitenziario che riconosce alle persone detenute una telefonata a settimana della durata massima di 10 minuti e, ai detenuti per i reati rientranti nell’articolo 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario (reati cosiddetti ostativi, principalmente mafia e terrorismo), due colloqui telefonici al mese. L’unico momento in cui i colloqui telefonici sono stati, di fatto, liberalizzati, è avvenuto durante il periodo della pandemia. Come si legge nel recente ventesimo rapporto di Antigone, nel corso dell’emergenza da Covid-19, la legge n. 70 del 2020 ha previsto la possibilità di concedere autorizzazioni per i colloqui telefonici, escludendo i detenuti sottoposti al 41 bis, oltre i limiti stabiliti dal regolamento penitenziario. Le Direzioni degli istituti potevano autorizzare tali colloqui fino a una volta al giorno, specialmente quando la comunicazione telefonica coinvolgeva figli minori, figli maggiorenni con gravi disabilità, coniuge, partner di unione civile, convivente stabile o altra persona con legame affettivo significativo. Sulla carta, soprattutto grazie al richiamo della circolare del 26 settembre 2022 del Dap, le direzioni delle carceri hanno una discrezionalità nell’autorizzare colloqui telefonici che superano il numero stabilito dalla normativa. Tuttavia, questa possibilità è stata progressivamente ridotta, come emerge dal ventesimo rapporto di Antigone. Nel 2022, il 36% degli istituti visitati dall’associazione registrava oltre tre quarti di detenuti che effettuavano telefonate straordinarie. Nel 2023, questa percentuale è scesa al 19%. Inoltre, sono raddoppiati gli istituti in cui nessun detenuto è autorizzato a fare telefonate extra. Il risultato è un ritorno, di fatto, ai livelli pre-pandemici, con gravi conseguenze non solo sul mantenimento dei legami familiari (considerato un elemento chiave per il reinserimento in società dei detenuti), ma anche sul contrasto al traffico di telefoni cellulari all’interno delle carceri. Garanti territoriali in disaccordo con il nazionale: “Sì alla liberazione anticipata speciale” di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 maggio 2024 Emergenza carcere. Il direttivo chiede l’approvazione del ddl Giachetti. E pure Magistratura democratica. Notte di tensione al Beccaria. È “doveroso procedere celermente alla discussione e all’approvazione parlamentare di misure immediatamente deflattive del sovraffollamento, e facilmente applicabili, partendo dall’unica posposta al vaglio della Commissione Giustizia della Camera presentata dall’On. Giacchetti con cui si intende modificare l’istituto della liberazione anticipata nei termini grossomodo già sperimentati nel 2013, in conseguenza della condanna da parte della Cedu nel caso Torreggiani contro Italia”. Contrariamente a quanto sostenuto solo pochi giorni fa dal Garante nazionale dei detenuti, Felice Maurizio D’Ettore, il Portavoce e il Direttivo della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali dei detenuti hanno pubblicato ieri, in un documento ufficiale, il loro endorsement alla pdl sulla liberazione anticipata speciale che porta la prima firma del radicale Roberto Giachetti (Iv). “Indignarsi non basta più!”, scrivono il Portavoce dei garanti territoriali, Samuele Ciambriello, che è anche il garante campano, e i membri del Direttivo - Luca Muglia, Bruno Mellano, Veronica Valenti, Valentina Farina, Francesco Maisto, Valentina Calderone - nel testo dove chiedono di intervenire immediatamente per “migliorare le condizioni delle carceri italiane, in nome della tutela della dignità umana”. Al contrario, D’Ettore il 24 aprile scorso in commissione Giustizia ha argomentato il suo “no” alla liberazione anticipata speciale considerandola “un rimedio “sintomatico”, transitorio e di carattere contingente, già sperimentato nel 2013 a seguito della sentenza della Corte Edu Torreggiani”, che “con tutta evidenza, mostra i limiti della sua efficacia deflattiva se, dopo pochi anni dalla cessazione della sua vigenza, i movimenti in ingresso ed i correlati tassi di sovraffollamento hanno ripreso a riproporsi in modo crescente”. Piuttosto, secondo D’Ettore, occorre una “risposta sistemica ampia” ai problemi delle carceri. Ma se, come scrivono i Garanti territoriali, l’indice di sovraffollamento è di nuovo “arrivato al 130,03%”, se “il 64% delle persone che si sono tolte la vita negli ultimi due anni (34 quest’anno, 69 nel 2023, ndr) aveva commesso reati contro il patrimonio; il 60% dei suicidi si è verificato nei primi sei mesi di detenzione; il 40% dei suicidi si è consumato oltre i primi sei mesi, con una percentuale elevata nell’ultimo periodo di detenzione e l’interessamento di molti detenuti senza fissa dimora”. Se, ancora, “le persone con patologie psichiatriche che si sono tolte la vita sono meno del 10%”, sembra allora evidente che il riaffermarsi di una situazione emergenziale sia dovuto ad un approccio carcerocentrico della giustizia. E che per tornare ad uno Stato di diritto si richiedano intanto azioni immediate. È evidente almeno al Presidente Mattarella che il 18 marzo scorso ha sollecitato “interventi urgenti” contro il sovraffollamento e i suicidi (e “per dare seguito al suo monito i Garanti territoriali si mobiliteranno ogni 18 del mese”, ha annunciato ieri Ciambriello). Così come è evidente per il Pd che parla di “emergenza umanitaria” e per Magistratura democratica che ieri in un documento ha auspicato una risposta “nell’immediato” e “interventi di medio e lungo periodo”, “in modo da poter riaffermare il volto costituzionale della pena e assicurare la dignità di ogni persona che si trova a vivere e lavorare in carcere”. Le toghe progressiste sollecitano “la rapida approvazione” della liberazione anticipata speciale; la possibilità di sospendere l’”ordine di esecuzione della pena detentiva (ove essa debba essere eseguita in strutture sovraffollate)”; “l’approvazione di provvedimenti di clemenza”, oltre che una serie di interventi strutturali. A partire da “un potenziamento delle risorse umane”, scrive Md. Forse anche questo non più rinviabile, come dimostra una volta di più la notte “ad alta tensione” che si è consumata tra domenica e lunedì nel carcere minorile Beccaria di Milano. I sindacati di polizia penitenziaria riferiscono di una “rivolta che ha coinvolto molti detenuti” dopo che uno di loro aveva dato fuoco alle suppellettili di una cella creando scompiglio e crisi di panico. La situazione ha richiesto l’intervento, oltre che dei vigili del fuoco, anche della polizia di Stato perché, secondo i sindacalisti, gli agenti penitenziari non erano in numero sufficiente. E forse anche non preparati adeguatamente. D’altronde, nell’inchiesta della procura per le torture sui giovani reclusi di cui sono accusati molti agenti arrestati, uno degli episodi di violenza si sarebbe consumato dopo un mini incendio simile a quello dell’altra notte. I Garanti territoriali dei detenuti alzano la voce: “Indignarsi non basta più” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 maggio 2024 Tra le proposte contenute nel documento a firma di Samuele Ciambriello, Luca Muglia, Bruno Mellano, Veronica Valenti, Valentina Farina, Francesco Maisto e Valentina Calderone, ci sono provvedimenti urgenti da prendere in merito al sovraffollamento carcerario. Il Portavoce e il Direttivo della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, “ancora una volta, manifestano grande preoccupazione per la totale indifferenza della politica rispetto all’acuirsi dello stato di sofferenza dei detenuti e al peggioramento delle condizioni di vivibilità nelle carceri italiane. Per questo motivo è stato elaborato un documento contenente proposte di misure urgenti da mettere al più presto in campo e da diffondere alle istituzioni politiche, al Ministro della Giustizia, al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e alla società civile”. È quanto si legge in una nota, che riporta alcune principali proposte elaborate dal Portavoce Samuele Ciambriello e dai membri del Direttivo Luca Muglia, Bruno Mellano, Veronica Valenti, Valentina Farina, Francesco Maisto, Valentina Calderone. Le proposte prevedono: l’approvazione urgente di misure deflattive del sovraffollamento, partendo dalla discussione e dall’approvazione parlamentare di misure immediatamente deflattive del sovraffollamento e facilmente applicabili, come la proposta, presentata dall’On. Giacchetti quale primo firmatario (AC 552), di modificare l’istituto della liberazione anticipata e prevedendo uno sconto di ulteriori 30 giorni a semestre, per i prossimi due anni, rispetto a riduzioni già concesse dal 2016 ad oggi (30 + 45). Garantire l’accesso alle misure alternative ai detenuti che, tra quei circa 30mila che stanno scontando una pena/o un residuo di pena inferiore ai tre anni, si trovano nelle condizioni di potervi accedere. Di questi, 5.080 detenuti devono scontare appena 8 mesi di carcere. Discutere sulla circolare sul riordino del circuito della media sicurezza (DAP circ. n. 3693/6143 del 18 luglio 2022), visto che la maggior parte dei detenuti si trova a trascorrere circa 20 ore in celle chiuse. Risulta di importanza fondamentale il tema dell’affettività in carcere. Il Portavoce e il Direttivo della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali sottolineano che, ancora oggi, né in via amministrativa né in via legislativa si è inteso prendere posizione sulla sentenza auto applicativa della Corte costituzionale n. 10 del 2024 in tema di tutela del diritto all’affettività delle persone detenute e del diritto a colloqui riservati e intimi (senza controllo visivo). Occorre da subito, aumentare le telefonate e le videochiamate in modo omogeneo e razionale. Magistratura Democratica: “Per le carceri indispensabili interventi nell’immediato” di Davide Varì Il Dubbio, 7 maggio 2024 La corrente progressista dell’Anm pone l’attenzione su una tematica già al centro del dibattito politico e invoca la rapida approvazione di un provvedimento legislativo sulla cosiddetta liberazione anticipata speciale. “Il tasso di sovraffollamento, il numero di suicidi, le criticità nell’assistenza sanitaria espongono le persone detenute e quelle che in carcere lavorano a una quotidianità che rischia di porre in discussione i diritti fondamentali della persona e compromettere la funzione di reinserimento sociale che la Costituzione indica come coessenziale all’esecuzione delle pene”. Lo scrive Magistratura democratica in un documento, ricordando che “lo stesso presidente della Repubblica ha sottolineato quanto sia indispensabile affrontare immediatamente la situazione, con l’adozione di interventi urgenti. È necessario riformare il sistema dell’esecuzione penale, in modo da poter riaffermare il volto costituzionale della pena e assicurare la dignità di ogni persona che si trova a vivere e lavorare in carcere”. Per Md, “sono auspicabili interventi che possono offrire una risposta nell’immediato: la rapida approvazione di un provvedimento legislativo sulla cosiddetta liberazione anticipata speciale, la previsione, calibrata secondo razionali criteri di priorità, della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva (ove essa debba essere eseguita in strutture sovraffollate), l’approvazione di provvedimenti di clemenza”. Non solo: Magistratura democratica rileva che sono anche “necessari” interventi “di medio e lungo periodo”, quali “un ripensamento dell’edilizia penitenziaria, ma, soprattutto, un potenziamento delle risorse umane (polizia penitenziaria, operatori sanitari, educatori, Uepe, magistratura di sorveglianza)”, nonché un “ripensamento delle modalità di esecuzione della pena detentiva, immaginando la costruzione di percorsi trattamentali differenziati e capaci di proporre alle persone detenute concrete possibilità di reinserimento sociale al momento della conclusione della pena detentiva”, un rafforzamento “del sistema delle pene sostitutive, con un più ampio coinvolgimento di enti territoriali e mondo delle associazioni nella costruzione di percorsi di reinserimento sociale” e “delle strutture deputate a trattare il disagio psichico degli autori di reato”, oltre a un “ripensamento di alcune politiche penali informate a una cultura sicuritaria rivelatasi poco efficace e per lo più carcerogena”. Per Magistratura Indipendente, “solo assicurando autentiche e concrete condizioni di dignità alle persone sottoposte all’esecuzione penale e rendendo non utopica la promessa di reinserimento sociale si riuscirà ad ottenere un avvicinamento alla funzione che la Costituzione assegna al diritto penale”. Disgelo con l’Anm, il piano di Nordio per la riforma di Errico Novi Il Dubbio, 7 maggio 2024 Oggi il guardasigilli incontrerà a via Arenula il “sindacato” dei giudici, sabato interverrà al loro congresso: sono i due segnali che descrivono la strategia “pacificatoria” messa a punto da Meloni e dal suo ministro per evitare di fare la fine del Cavaliere. Tutto in poche ore. I comunicati di fuoco delle correnti contro la riforma. Il cambio di strategia di Carlo Nordio. La sua presenza al congresso Anm, prima esclusa e ora prevista. Fino all’appuntamento clou con il “sindacato” dei giudici, fissato per oggi alle 16. Ordine del giorno: la grande riforma costituzionale della giustizia, appunto. Una sfida delicatissima. Proprio l’ambizione e la portata del progetto, concordato venerdì scorso nel maxivertice a Palazzo Chigi con Giorgia Meloni, vietano all’Esecutivo e al guardasigilli di procedere “inaudita altera parte”. Cioè, di scrivere il ddl costituzionale sulla magistratura senza ascoltare i magistrati. Il dialogo fin dove possibile ci sarà. E sarà inaugurato oggi a via Arenula. Non sarà un incontro di cortesia, ma il primo passo di un percorso studiato. Che ha una logica e un obiettivo. La logica è stata chiarita innanzitutto dalla premier venerdì: la riforma della giustizia va fatta ma non deve trasformarsi nell’innesco di una guerra fra governo e magistrati come avvenne a inizio anni Duemila con Silvio Berlusconi. L’idea è innanzitutto della presidente del Consiglio, ma è pienamente condivisa da Nordio. Il quale ha ben chiara una sottile ma decisiva distinzione: il grande ddl costituzionale sulla magistratura, a partire dalla separazione delle carriere, è anche il traguardo a cui punta, legittimamente, un partito della maggioranza, Forza Italia, ma non per questo l’obiettivo va perseguito con le logiche della lotta politica. In realtà, lo sa bene anche il numero due di via Arenula, Francesco Paolo Sisto, massimo esponente in materia di giustizia del partito di Antonio Tajani: riforma sì, ma niente guerra. Ed ecco spiegato l’incontro che Nordio, Sisto, i due sottosegretario Andrea Delmastro (FdI) e Andrea Ostellari (Lega) e i più alti dirigenti del ministero della Giustizia avranno oggi alle 16 con la giunta Anm guidata da Giuseppe Santalucia. Sarà chiarita l’intenzione di basare sul dialogo i prossimi passi, in modo da trovare la sintesi sui tre pilastri del progetto: separazione delle carriere, sorteggio temperato per eleggere i togati Csm e, last but non the least, l’Alta Corte per la “giustizia domestica” di tutte le magistrature. Realizzarla, la sintesi, sarà arduo. La separazione, tanto per cominciare: la linea dell’Anm emerge già nei comunicati diffusi ieri da Magistratura indipendente e Unicost, i gruppi moderati. “Forte preoccupazione e ferma contrarietà” all’intero progetto, nel primo caso; addirittura una “mobilitazione di tutta la base della magistratura per scongiurare riforme che potrebbero farci scivolare verso regimi non democratici”, nel caso di Unicost, la corrente che pure sarebbe il baricentro dell’associazionismo giudiziario. Parole forti, seppur non del tutto nuove. È nuova invece, la strategia di Meloni e Nordio: non puoi pensare di convincere la magistratura a esultare per il “divorzio” tra giudici e pm, ma puoi almeno rassicurarla sulla volontà di non trasformare la grande riforma in un appiattimento dei pm sotto l’Esecutivo. E sarà proprio questo il punto sul quale oggi Nordio, Sisto, Ostellari e Delmastro più insisteranno con la delegazione guidata da Santalucia: potete restare contrari alla separazione, ma non dovrete assolutamente temere derive pericolose per l’autonomia della magistratura requirente. A dare un’indiretta e utile sponda alla linea dialiogante di Nordio è quell’Unione Camere penali a cui spetta la primogenitura della riforma sulle “carriere”: nella nota diffusa ieri, l’associazione presieduta da Francesco Petrelli ha ricordato il “divorzio” tra giudici e pm dovrà essere attuato “nel rispetto dell’indipendenza della magistratura, che rappresenta un bene fondamentale per la tenuta della nostra democrazia”. C’è da aspettarsi un’ampia disponibilità del governo a valutare, con l’Anm, la soluzione sull’Alta Corte: sul tavolo ci sono sia il testo presentato nella scorsa legislatura da Giusi Bartolozzi, all’epoca deputata di FI e oggi capo di Gabinetto di Nordio, con cui si ipotizza di sostituire la sezione disciplinare del Csm, sia lo schema proposto dal “padre” del progetto, Luciano Violante, che ha invece sempre guardato a un “giudice delle impugnazioni” per tutte le magistrature, sia per il disciplinare che per i ricorsi sulle nomine. Ma il segnale più esplicito è la correzione di rotta compiuta da Nordio sul congresso Anm: fino a poche ore fa era certa la sua assenza, ieri ha assicurato a Santalucia che alle assise di Palermo interverrà personalmente, a costo di sfidare i dissensi. E sul fatto che le prime linee del “sindacato” faranno pochi sconti è stata chiara, ieri, la vicepresidente dell’Anm Alessandra Maddalena: “Bene che il ministro abbia cambiato idea, decidendo di incontrarci e di essere presente al nostro congresso”, ma “l’intenzione del governo è alterare il disegno costituzionale che ha sancito l’indipendenza della magistratura, con una continua opera di delegittimazione”. È il timore che ha provocato anche il netto no ai test psicoattitudinali. E che dimostra quanto sarà arduo, in ogni caso, il disgelo a cui intende dedicarsi Nordio. Nordio sogna la “riforma epocale” ma da due anni non attua la legge Cartabia di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 maggio 2024 Mentre si parla dei massimi sistemi, come la separazione delle carriere e la riforma del Csm, si scopre che il ministro della Giustizia non è stato in grado in due anni di attuare la norma sui criteri generali per la trattazione delle notizie di reato. E’ tutta una grande attesa per la riforma epocale del ministro Nordio, che dovrebbe separare le carriere dei magistrati, ridefinire il ruolo del Csm e persino - si sussurra - toccare il principio di obbligatorietà dell’azione penale. Eppure, è dal giugno 2022 che il ministero della Giustizia è inadempiente rispetto all’attuazione di una delle norme più importanti introdotte dalla riforma Cartabia: quella secondo cui gli uffici di procura stabiliscono i criteri di priorità nella trattazione delle notizie di reato tenendo conto dei “criteri generali indicati dal Parlamento con legge”. A presentare il provvedimento al Parlamento per la sua approvazione dovrebbe essere proprio il ministro della Giustizia, anche in virtù del patrimonio conoscitivo di cui dispone grazie alle sue strutture rispetto al funzionamento dell’organizzazione giudiziaria. Eppure, come detto, è dal giugno 2022 che ciò non avviene. Un ritardo che chiama in causa soprattutto la figura di Carlo Nordio, diventato Guardasigilli nell’ottobre 2022 dopo le dimissioni del governo Draghi, avvenute a luglio. Chiariamo: non si tratta di una materia di interesse tecnico, tutt’altro. In sintesi, inondate da un numero di notizie di reato impossibile da gestire, le procure sono costrette a decidere - con proprie circolari interne - a quali procedimenti dare priorità e quali trattare in via secondaria (con l’alta probabilità che questi reati finiscano in prescrizione, cioè al macero). Ogni ufficio requirente individua in modo diverso i propri criteri di priorità nell’azione penale, col risultato non solo di generare possibili trattamenti diseguali del cittadino di fronte alla legge in base al territorio in cui si trova, ma soprattutto di affidare di fatto alle procure la definizione delle politiche nel settore criminale. Per cercare di garantire un uniforme esercizio dell’azione penale, la riforma Cartabia del 2021 ha stabilito che il Parlamento indichi dei “criteri generali” ai quali le procure devono adeguarsi nell’individuare i propri criteri di priorità. Con una legge del giugno 2022 il legislatore ha proceduto ad adeguare il codice di procedura penale a questa importante novità. Sono trascorsi quasi due anni, ma la legge che stabilisce i criteri generali non è ancora stata adottata. Una “dimenticanza” di non poco conto da parte del ministro Nordio, che nel corso degli anni ha speso fiumi di parole e inchiostro sulla sostanziale elusione del principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale e sulla necessità di una regolamentazione di questa situazione. Tale è l’inerzia del ministro della Giustizia che lo scorso novembre il senatore di Forza Italia, Pierantonio Zanettin, ha depositato un proprio disegno di legge in cui vengono stabiliti i criteri generali nella trattazione delle notizie di reato: “gravità dei fatti, anche in relazione alla specifica realtà criminale del territorio e alle esigenze di protezione della popolazione”, “tutela della persona offesa in situazioni di violenza domestica, o di genere e di minorata difesa”, “offensività in concreto del reato, da valutare anche in relazione alla condotta della persona offesa e al danno patrimoniale e/o non patrimoniale a essa arrecato”. L’iniziativa, per stessa ammissione del proponente, aveva come obiettivo soprattutto quello di smuovere le acque. Questo, però, non è avvenuto: il ministero della Giustizia ha continuato a non presentare in Parlamento il testo richiesto dalla riforma Cartabia. L’inerzia di Nordio risulta significativa soprattutto se si considera il dibattito in corso in questi giorni sulla riforma costituzionale della magistratura. Mentre si parla dei massimi sistemi, come la separazione delle carriere, la riforma del Csm e, paradossalmente, anche l’ipotesi di abolizione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, si scopre che il ministro della Giustizia non è stato in grado in due anni di indicare dei criteri generali per la trattazione prioritaria delle notizie di reato. Se queste sono le premesse, c’è poco da essere ottimisti. Giustizia, Nordio parte con il piede sbagliato di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 7 maggio 2024 La lentezza della giustizia ci costa uno o due punti di Pil ogni anno: così qualche giorno addietro il Ministro Nordio. Una quantificazione spesso ripetuta, in realtà priva di ogni riscontro da parte degli analisti economici, ma è certo che la lentezza delle nostre procedure incide sulla competitività del nostro paese. Concentrarsi sul recupero di efficienza del nostro sistema giustizia? Sulle difficoltà incontrate dal processo civile e dal processo penale telematico, sulla drammatica carenza di personale tecnico informatico, anche quello di base, mentre tanto si parla di intelligenza artificiale e di giustizia predittiva? Macché! Grandi riforme costituzionali: Pm separati dai giudici, un Csm diviso in sezioni oppure due Csm, sorteggio, temperato o secco, dei componenti magistrati e così via. E infine ritorna, con magniloquente denominazione, l’Alta Corte Disciplinare, nelle varie proposte declinata in versione M, L, XL, XXL: giudice disciplinare al posto della ben più modesta attuale “Sezione disciplinare del Csm”, giudice disciplinare per tutte le magistrature, includendo Tar, Consiglio di Stato, Corte dei conti, e ancora giudice del ricorso contro tutte le decisioni del Csm. Tali e tante sono le proposte da più parti avanzate nel corso degli anni che occorre attendere, se vi sarà, una formulazione precisa. Ma sin da ora si può andare al nodo della questione: preteso lassismo della gestione disciplinare del Csm. È un luogo comune che si prende il lusso di eludere il confronto con i dati statistici. Si trovano, molto dettagliati per il 2023 e confrontati a tutto il decennio precedente, nella Relazione del 25 gennaio 2024 del Procuratore Generale della Cassazione liberamente accessibile. Nel 2023 vi sono state 15 condanne di cui 2 alla rimozione. Si devono aggiungere 5 decisioni di non doversi procedere per dimissioni o pensionamento anticipato, spesso motivati dalla volontà di sottrarsi al procedimento disciplinare. Le assoluzioni sono state 20 per insussistenza dell’illecito disciplinare o per scarsa rilevanza del fatto. Una percentuale “fisiologica” di assoluzioni (a meno che per il giudice disciplinare non debba valere il principio di accogliere tutte le richieste dell’accusa), condanne severe se in 7 casi complessivi gli incolpati sono usciti dalla magistratura. E ancora. Nel 2023 il Ministro della Giustizia ha promosso 1/3 dei procedimenti disciplinari, mentre per 2/3 l’iniziativa è stata del Procuratore Generale presso la Cassazione. Eppure il Ministro, cui la Costituzione attribuisce in via primaria la iniziativa disciplinare, dispone della imponente massa di informazioni delle relazioni del suo Ispettorato. Lassismo della politica? Il rigore del sistema disciplinare italiano è attestato non solo dai rapporti annuali che prendono in considerazioni gli Stati membri del Consiglio d’Europa, ma soprattutto dal raffronto con i dati del Conseil Supérieur de la Magistrature francese. Tra i sistemi giudiziari europei quello francese è il più vicino al nostro e il numero dei magistrati è pressoché simile. Il Rapport d’activité 2023, ultimo disponibile, indica per l’anno precedente 9 decisioni per i magistrati, due assoluzioni, una rimozione e sei sanzioni di diverso livello; per i pubblici ministeri presi in esame cinque casi, quattro non luogo a procedere e una di rimozione dalla funzione di procuratore. Nessun serio osservatore che conosca la realtà della magistratura italiana e di quella francese si azzarderebbe a sostenere che il livello professionale e deontologico della nostra sia nettamente inferiore. Tutto si può criticare del nostro Csm, ma almeno confrontarsi con i dati. Vi è poi un approccio di fondo sbagliato. In nessun corpo professionale si penserebbe di promuovere professionalità e deontologia a suon di sanzioni disciplinari, piuttosto che in formazione iniziale e aggiornamento continuo. Ma “Alta Corte” suona così bene che il banale confronto con i dati e con le esperienze di altri paesi e di altre professioni diviene superfluo. Separazione delle carriere, la magistratura si ribella: “Radicale contrarietà alla riforma Nordio” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 maggio 2024 Dichiarazioni di fuoco da parte di Magistratura Indipendente e Unicost sulla linea scelta dal Governo Meloni per dividere i percorsi dei pubblici ministeri e dei giudici. “Apprendiamo da notizie di stampa che il governo avrebbe approvato le linee portanti della riforma costituzionale della Giustizia, con la previsione della separazione delle carriere, della istituzione di un’Alta Corte per il giudizio disciplinare dei magistrati, della elezione del Csm per sorteggio. Esprimiamo, in merito, la nostra forte preoccupazione e la nostra radicale contrarietà”. Lo scrivono in un documento la presidente e il segretario generale di Magistratura Indipendente, Loredana Miccichè e Claudio Galoppi, sottolineando che “separare le carriere significa allontanare definitivamente il pubblico ministero dalla cultura della giurisdizione. Significa creare un corpo autonomo di super poliziotti destinati alla sottoposizione inevitabile all’Esecutivo. Tutto questo - rilevano - si risolverà in un grave danno per i cittadini, per i loro diritti e per le loro libertà”. Per i vertici di Magistratura Indipendente, “si va in una direzione opposta a quella auspicata a livello europeo, come affermato nella dichiarazione di Bordeaux del Consiglio Consultivo Europeo dei giudici e dei procuratori. Ridisegnare il governo autonomo della magistratura consegnando alla sorte le funzioni di alta amministrazione del Csm è una scelta espressione della logica qualunquista dell’uno vale uno che tanti danni ha già fatto all’Italia. La direzione, invece, per una riforma seria dell’autogoverno - aggiungono - è quella di prevedere un esercizio della discrezionalità secondo regole certe e chiare”. Cosa pensa Unicost della separazione delle carriere - “Ci auguriamo una mobilitazione di tutta la base della magistratura per scongiurare riforme che potrebbero farci scivolare verso regimi non democratici”. È quanto si legge in un documento del direttivo nazionale Unicost relativo alla riforma Nordio, che”suscita molte perplessità nel metodo e nel merito”. Preliminarmente, “in quanto il Governo starebbe aspettando la celebrazione del prossimo congresso Anm di Palermo per evitare polemiche in sede congressuale”. Nel merito, i magistrati di Unicost, commentando il recente meeting annuale europeo dell’Eaj (European Association of Judges), dove “i delegati della nostra Anm hanno ribadito la preoccupazione per le proposte di riforma”, condividono la risoluzione adottata dall’associazione europea “ritenendo che le modifiche di riforma costituzionale già in discussione in Parlamento e l’annunciato nuovo ddl di riforma costituzionale “costituiscono un grave attacco all’indipendenza della magistratura, con concreto pericolo per l’attuale equilibrio dei poteri”. Nel documento, si rileva che le proposte di riforma “sono in contrasto con gli standard europei secondo cui l’obiettivo precipuo degli organi di autogoverno è quello di proteggere l’indipendenza della magistratura e del singolo giudice e affinché questo obiettivo si realizzi il Consiglio deve essere libero da influenze politiche dell’esecutivo e i suoi componenti devono essere eletti tra pari secondo un metodo democratico”. Gli associati di Unità per la Costituzione, pertanto, conclude la nota, esprimono “gratitudine nei confronti dell’Associazione Nazionale Magistrati Italiana che ha fatto sentire presso gli organismi internazionali e, in particolare, europei la voce dei magistrati italiani, preoccupati per le derive antidemocratiche che minano l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge che solo una magistratura autonoma e indipendente può assicurare”. Sorteggio Csm, il gruppo dei CentoUno è favorevole In un documento criticano la risoluzione dell’Associazione europea dei giudici (Eaj). A due giorni dalla risoluzione dell’Associazione Europea dei Giudici (EAJ) che ha stigmatizzato, concordemente con la l’Anm nazionale, la riforma sulla separazione delle carriere e del Consiglio Superiore della Magistratura è arrivato un documento dei membri del Comitato direttivo centrale del gruppo dei CentoUno in cui, a differenza della maggioranza dei magistrati, ci si dice d’accordo con il sorteggio dei membri del Csm, obiettivo al quale starebbe lavorando il governo e in particolare il ministro della Giustizia: “sostenere (come fa l’EAj, ndr) che l’estrazione a sorte non sia coerente con l’esigenza di una scelta democratica nell’ambito della magistratura appare affermazione non condivisibile, sia in considerazione del tipo di organo che i magistrati selezionati devono comporre, sia alla luce delle linee guida indicate nel documento del Consiglio d’Europa del 2007, sia perché il sorteggio è il sistema più oggettivo e democratico di scelta che possa esistere per la magistratura, in quanto è l’unico che, in ossequio anche al principio costituzionale della differenza tra magistrati solo per le funzioni svolte, sceglie in modo oggettivo tra tutti gli eleggibili del corpo elettorale, senza guardare ad alcuna differenza di tipo culturale fra i suoi esponenti o di appartenenza correntizia”. Dunque per le toghe Cristina Carunchio, Giovanni Favi, Ida Moretti e Andrea Reale “La risoluzione appare, in buona sostanza condizionata dai pregiudizi che l’attuale direzione Anm vanta nei confronti del metodo del sorteggio, che, al contrario, ha ricevuto un fortissimo avallo dai suoi iscritti in una consultazione referendaria interna tra soci Anm, tenutasi nel gennaio 2022, nel corso della quale ben il 42% dei votanti si sono dichiarati favorevoli al metodo del sorteggio per la scelta dei componenti togati del Csm”. E concludono: “La risoluzione avrebbe dovuto, last but not least, tenere maggiormente in considerazione e rispettare l’esito delle elezioni della nostra Associazione, che conta ben quattro rappresentanti del Comitato direttivo centrale appartenenti a una lista che ha fatto del sorteggio per le elezioni Csm una battaglia associativa da svariati anni”. Toghe, s’ode anche a destra un “niet” alle carriere separate di Angela Stella L’Unità, 7 maggio 2024 Nordio cambia idea e annuncia che sarà al congresso dell’Anm a Palermo. Ma da Mi a Unicost, a Area, correnti compatte sul no alla riforma del ministro. Cambio di programma: il Ministro Nordio sarà sabato prossimo al Congresso dell’Anm a Palermo e oggi incontrerà anche la giunta e il Presidente del ‘sindacato’ delle toghe per parlare del ddl costituzionale sulla separazione delle carriere, riforma del Csm, sorteggio per i suoi membri e Alta Corte per il disciplinare. Dunque il Guardasigilli ha accolto la richiesta di dialogo e chissà se queste due iniziative gli consentiranno di ricevere una accoglienza meno fredda. Non esserci avrebbe significato snobbare la magistratura e andare avanti con la riforma senza un dialogo aperto avrebbe rappresentato l’inizio di un duro scontro. Comunque la linea dell’Anm è compatta nella sua netta contrarietà e lo dimostrano anche le note giunte ieri da tre dei più importanti gruppi associativi. Paradossalmente, la più dura è stata Magistratura Indipendente, tacciata fino a questo momento di essere collaterale all’Esecutivo: “esprimiamo, in merito, la nostra forte preoccupazione e la nostra radicale contrarietà. Separare le carriere significa allontanare definitivamente il pm dalla cultura della giurisdizione. Significa creare un corpo autonomo di super poliziotti destinati alla sottoposizione inevitabile all’Esecutivo” scrivono la Presidente Loredana Miccichè e il Segretario Generale Claudio Galoppi. Inoltre “ridisegnare il Governo Autonomo della magistratura consegnando alla sorte le funzioni di alta amministrazione del CSM è una scelta espressione della logica qualunquista dell’uno vale uno che tanti danni ha già fatto all’Italia”. Per il gruppo conservatore “alla base di questo disegno vi è solo la volontà di mortificare la giurisdizione e con essa la magistratura, in una sorta di reazione scomposta per ciò che la magistratura ha operato e rappresenta: il controllo di legalità nel rispetto del principio di separazione dei poteri e nell’interesse esclusivo dei cittadini”. Fatte queste premesse MI chiede “all’ANM una immediata mobilitazione culturale e operativa che non escluda nessuna forma e modalità di espressione di un motivato e forte dissenso”. Parole risolute che segnano un ritorno a casa - possiamo dire - della corrente di destra, che fino a questo momento aveva spaccato l’Anm e aveva dialogato solo con il Guardasigilli. Queste parole fanno capire che MI ha inteso che tatticamente non può isolarsi dall’intero ‘sindacato’ delle toghe, considerato anche il fatto che a Palermo per il congresso sono attesi circa 700 magistrati pronti a far sentire la loro voce contro Nordio. A prendere posizione anche Unicost, la corrente di centro: “Ci auguriamo una mobilitazione di tutta la base della magistratura per scongiurare riforme che potrebbero farci scivolare verso regimi non democratici” scrive il direttivo. “Il Governo starebbe aspettando la celebrazione del prossimo congresso ANM di Palermo per evitare polemiche in sede congressuale”. Nel merito, i magistrati di Unicost, commentando il recente meeting annuale europeo dell’EAJ (European Association of Judges), dove “i delegati della nostra Anm hanno ribadito la preoccupazione per le proposte di riforma”, condividono la risoluzione adottata dall’associazione europea “ritenendo che le modifiche di riforma costituzionale già in discussione in Parlamento e l’annunciato nuovo ddl di riforma costituzionale costituiscono un grave attacco all’indipendenza della magistratura, con concreto pericolo per l’attuale equilibrio dei poteri”. Nella giornata di ieri è arrivata pure una nota del coordinamento di Area Dg, la corrente progressista dell’Anm: “Ancora una volta il governo annuncia la separazione delle carriere presentandola come una riforma garantista e nell’interesse dei cittadini. Crediamo non sia così”. Per una giustizia “più efficiente e garante dei diritti occorre ridurre il numero di reati, affrontare il tema della legalizzazione delle droghe leggere, investire sulle pene alternative, ma il governo - stigmatizza ancora AreaDg - introduce sempre nuovi fattispecie di reato e non interviene sul sovraffollamento carcerario. Rispettiamo la volontà del legislatore ma la giustizia è uno dei fondamenti della democrazia e - conclude la nota - non può essere oggetto di propaganda e di battaglie ideologiche”. Si è espressa anche l’Unione Camere Penali: “Si tratta di una riforma necessaria al fine di realizzare nel processo la figura di quel giudice terzo voluto dall’art. 111 della Costituzione, separato dall’accusa e dalla difesa, garante dei diritti dei cittadini”; tuttavia “resta fermo che la necessaria separazione delle carriere dovrà essere attuata nel rispetto dell’indipendenza della magistratura che rappresenta un bene fondamentale per la tenuta della nostra democrazia”. Le carriere separate entrano in agenda. È la riscossa di Forza Italia di Paolo Delgado Il Dubbio, 7 maggio 2024 La decisione di accelerare la marcia della riforma della giustizia, con la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante come capitolo centrale, è arrivata la settimana scorsa a sorpresa. Fino a quel momento la premier non aveva nascosto l’intenzione di rallentarne il percorso, ufficialmente sulla base di una considerazione tattica. Sul tavolo c’è già una riforma costituzionale radicale e lacerante, cioè tale da spaccare il Paese in due, il premierato. Giorgia Meloni riteneva più prudente evitare di sovraccaricare ulteriormente tensione e divisioni e puntava dunque a rinviare la riforma della giustizia a un secondo tempo, dopo aver incamerato l’elezione diretta del premier. Dietro questa spiegazione tattica e legata solo all’opportunità era però diffuso e legittimo il dubbio di una ostilità più sostanziale di Chigi a una riforma poco gradita agli umori giustizialisti della base elettorale di FdI. Sono due le domande che si pongono dopo il breve vertice di maggioranza che, la settimana scorsa, avrebbe stabilito di procedere a passo di carica, presentando il progetto di riforma al Cdm prima delle Europee. Prima di tutto se il dado è stato tratto davvero o l’annuncio sia più scena e apparenza che sostanza concreta. In secondo luogo, ove la decisione fosse reale, cosa ha spinto Meloni a cambiare così radicalmente opinione. Il primo quesito è in realtà ancora privo di risposta. Per ora il testo sul tavolo dei ministri non è arrivato. In settimana sono previsti due appuntamenti centrali: il G7 sulla giustizia presieduto dal ministro Nordio e l’assemblea dell’Anm. La premier non vuole addensare nubi sulla prima scadenza e ha tutto l’interesse nel sondare gli uomori dei togati nel corso del secondo. Il no alla riforma è scontato ma i toni possono essere rivelatori. Tra i magistrati, oggi, il peso specifico della magistratura giudicante prevale di molto su quello degli inquirenti, che sono i più ostili alla separazione delle carriere. Inoltre, e forse soprattutto il nodo delle riforme prima o dopo le Europee non è ancora stato sciolto. La premier e con lei tutta FdI preferirebbero evitare l’approvazione definitiva dell’autonomia differenziata prima del 9 giugno: temono di pagare quel voto a caro prezzo nelle urne del Sud. In cambio Meloni è disposta a rinviare a dopo le elezioni l’approvazione in prima lettura del premierato: anche per questo viene confermata la scelta di evitare tagliole o scorciatoie a fronte dell’ostruzionismo dell’opposizione, peraltro confermato. È ovvio che il semaforo rosso per le riforme della Lega e di FdI renderebbe impossibile il passo avanti di quella targata Fi, appunto il capitolo giustizia. Infine sul testo della riforma Nordio pesa ancora un’incognita decisiva. L’intervento previsto sull’obbligatorietà dell’azione penale, o più precisamente sull’introduzione di un voto parlamentare destinato a sancire le priorità dell’azione penale ogni anno, continua a creare dubbi in quantità industriale. Per l’opposizione sarebbe infatti facilissimo bersagliare la riforma accusandola di voler far decidere ai governi e alle loro maggioranza in merito a quali reati rendere davvero obbligatoria l’azione penale e quando invece trasformarla in opzionale. Non è affatto sicuro, forse neppure probabile, che l’annuncio della settimana scorsa sia davvero il preludio a una proposta governativa di riforma della giustizia prima delle elezioni. Un indizio arriverà oggi quando la conferenza dei capigruppo del Senato deciderà quando calendarizzare il voto sull’autonomia differenziata. Salvini si era detto disposto a rinviare a dopo il 9 giugno ma Calderoli, autore della riforma e ormai a tutti gli effetti “grande vecchio” del Carroccio è di parere opposto e se la spunterà anche le altre due riforme in programma accelereranno. In ogni caso anche un ulteriore rinvio, probabilmente sino all’inverno, non escluderebbe la decisione di procedere a passo più spedito di quanto Chigi non immaginasse sino a poco fa. A orientare Meloni in questo senso sono due elementi in particolare: il peso di Fi, che tutti prevedono uscirà accresciuto dalle urne e solo il 10 giugno sapremo se sarà davvero così, e la scarsità di fondi a disposizione. Fi ha iniziato la legislatura nelle insolite vesti del parente povero. Se le urne lo renderanno invece la seconda forza della coalizione Tajani reclamerà la sua quota di riforme con ben altra determinazione del passato. L’impossibilità di spendere consiglia inoltre di concentrare l’attenzione altrove. Un’ordalia a tutto campo, con le due riforme più incandescenti in campo, ora potrebbe essere non più un guaio ma un appiglio. “Sull’Alta Corte noi dem siamo pionieri, ma le idee del governo fanno paura” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 maggio 2024 Il ddl costituzionale per la separazione delle carriere e per il restyling ordinamentale della giustizia è in via di definizione. Dovrebbe prevedere anche l’istituzione dell’Alta Corte per il disciplinare di tutte le magistrature e il sorteggio temperato per i togati Csm. Ne parliamo col senatore e capogruppo dem in Antimafia Walter Verini. Siete d’accordo sull’istituzione di un’Alta Corte? Noi siamo favorevoli all’Alta Corte, tanto è che l’abbiamo proposta già nel dibattito pubblico nella precedente legislatura durante le riforme cosiddette Cartabia, e l’abbiamo formalmente proposta con un disegno di legge depositato in Senato il 13 ottobre 2022, primo giorno utile dopo le elezioni del 25 settembre, a prima firma Rossomando. Quindi qual è il problema? Il dibattito della precedente legislatura e il ddl presentato all’inizio di questa si trovavano all’interno di un quadro in cui c’erano le riforme dell’ex ministra Cartabia, che andavano secondo noi attuate e non stravolte, e non avevamo ancora la sensazione che questo governo avesse intenzione di riaprire fino a questo punto la guerra contro la magistratura. Questo Esecutivo inserisce l’ipotesi dell’Alta Corte all’interno di una proposta, di cui non abbiamo letto ancora nulla di ufficiale, che è un vero e proprio schiaffo alla separazione dei poteri e all’indipendenza delle toghe. Quale dialogo potrebbe esserci, se resta questo il contesto all’interno del quale si colloca? Cosa prevede la vostra proposta? Noi pensiamo all’Alta Corte come a una sorta di giudice di appello: nel Csm resterebbe una sezione disciplinare che giudica i magistrati, mentre l’Alta Corte sarebbe un giudice dell’impugnazione per tutte le magistrature. Tutti i ricorsi sarebbero trattati lì. Sarebbe composta da 15 personalità con le stesse caratteristiche dei componenti della Corte costituzionale: un terzo eletto dal Capo dello Stato, un terzo dalle Camere e un terzo dalle magistrature. Se il governo seguisse una strada simile, voi sarete favorevoli? Attenzione, l’Esecutivo non sta presentando una proposta sull’Alta Corte ma, da quel che si legge, sta attentando alla separazione dei poteri, come dicevo prima, perché quello che si prevede è innanzitutto una separazione delle carriere. Si tratta di una norma simbolo e del tutto inutile nel merito: ci sono solo circa venti passaggi di funzione all’anno tra giudicanti e requirenti. Inoltre la riforma Cartabia ha già ridotto a uno solo il passaggio nel corso della carriera. Noi crediamo inoltre in una cultura della giurisdizione complessiva: è bene che i magistrati possano cambiare funzioni durante la loro vita professionale. Aggiungo che ci sono state delle indicazioni europee molto chiare qualche anno fa da parte del Comitato dei ministri di Strasburgo, che addirittura parlava, riferendosi anche al nostro Paese, di utilità di passerelle funzionali. Più in generale dobbiamo dire che in questa maggioranza c’è un patto scellerato su tre totem, che prima delle Europee la Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia vogliono agitare e che sono rispettivamente l’autonomia differenziata, il premierato e la riforma della giustizia. Sono tre elementi che colpiscono l’attuale ordinamento costituzionale e che noi consideriamo profondamente sbagliati. La prima accentua le divisioni e le diseguaglianze nel Paese, la seconda colpisce il Parlamento e il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica, sulla terza ho già detto. Siamo preoccupati per una deriva davvero autoritaria, alla quale va aggiunto l’attacco al mondo dell’informazione e al servizio pubblico. Si ipotizza anche di eliminare l’obbligatorietà dell’azione penale. Che ne pensate? Se a questa previsione aggiungiamo che dovrebbe essere la politica a stabilire le priorità, temo che quelle che potrebbe indicare questo governo come finirebbero per riguardare rave party e imbrattatori anziché i reati di corruzione. Anche la riforma Cartabia prevede che sia il Parlamento a delineare le priorità nel perseguimento dei reati, anche se finora la relativa legge non s’è vista... Ma sulle linee generali, lasciando ovviamente agli organi della giurisdizione determinarle nel dettaglio, nel quadro dell’obbligatorietà e non della discrezionalità dell’azione penale. La riforma Nordio prevederebbe anche il sorteggio dei magistrati eleggibili al Csm... Noi vogliamo andare nella direzione della lotta al correntismo e al carrierismo ad esso legato e non contro le aree politico- culturali all’interno della magistratura, che rappresentano un bene per il dibattito. E in questo senso va l’Alta Corte. Noi abbiamo introdotto nella riforma Cartabia dei meccanismi che andavano nella direzione di mitigare quei fenomeni, anche se la chiave sarà sempre quella di una autorigenerazione della magistratura. Però l’idea del sorteggio significa delegittimare per intero la magistratura. Se si aggiunge anche la norma sui test psico- attitudinali, si va veramente verso una deriva pericolosa e inaccettabile: in politica come in magistratura non è vero che uno vale uno. Al Csm devono esserci le toghe più brave, quelle che vengono selezionate ed elette dal Parlamento e dai magistrati per la loro dottrina, il loro percorso, la loro autorevolezza. Giovanni Zaccaro (Area): “La separazione delle carriere è solo un vessillo ideologico” di Mario Di Vito Il Manifesto, 7 maggio 2024 Il segretario di Area alla vigilia del congresso dell’Anm: “Riforme pericolose. Non c’è dubbio che, non solo in Italia, sono sotto attacco la libera stampa, gli intellettuali critici ed in generale le istituzioni di garanzia, fra tutte la magistratura”. Giovanni Zaccaro, giudice alla Corte d’Appello di Roma e segretario di Area democratica per la giustizia, il congresso dell’Anm comincerà venerdì a Palermo, proprio mentre il governo sembra intenzionato a varare la sua riforma della giustizia. Come la vede? In Italia serve una giustizia che tuteli davvero ed in tempo ragionevole i diritti, soprattutto quelli dei cittadini più deboli, che non possono pagarsi gli avvocati migliori. Il governo Meloni-Nordio invece di investire per una giustizia che funzioni meglio ha deciso di spingere per la separazione delle carriere. Ma non serve a nulla. Una riforma di bandiera. Un vessillo ideologico di una parte minoritaria della avvocatura. Un tributo a vecchie battaglie berlusconiane. Il risultato sarà il sacrificio dei diritti dei cittadini che non avranno le risorse per pagare avvocati all’altezza dei pubblici ministeri, che non saranno più promotori di giustizia ma vorranno la condanna ad ogni costo. Il titolo del congresso è “Magistratura e legge tra imparzialità e interpretazione”. Il presidente dell’Anm Santalucia, nel presentarlo, ha citato il caso della giudice Iolanda Apostolico, messa sotto accusa dalla destra perché aveva partecipato a una manifestazione davanti alla nave Diciotti a Catania. Come fa il magistrato a mostrarsi imparziale? Molti dicono che i magistrati non solo devono essere imparziali ma soprattutto devono apparire tali. Non vorrei che di questo passo, però, ci si accontenti solo della apparenza di imparzialità senza tutelare l’imparzialità vera e propria, cioè giudici che decidono senza farsi condizionare né dai pregiudizi personali, né dalle pressioni esterne. Con le continue campagne di delegittimazione rischiamo di avere una magistratura imparziale in apparenza, mentre in concreto è impaurita di scontentare i potenti di turno. Invece oggi, con le maggioranze parlamentari schiaccianti che abbiamo, ancora di più si deve difendere la autonomia sostanziale della magistratura, che è chiamata a tutelare i diritti di tutti, anche di chi è ai margini, anche prendendo decisioni contrarie ai desideri delle maggioranze di turno. Si può dire che la campagna denigratoria di cui fu vittima Apostolico testimonia un certo fastidio da parte delle forze politiche di maggioranza verso la magistratura? Non c’è dubbio che, non solo in Italia, sono sotto attacco la libera stampa, gli intellettuali critici ed in generale le istituzioni di garanzia, fra tutte la magistratura. Si tratta di un tratto tipico del populismo in cui i governanti pretendono di fondare la loro legittimazione nella immedesimazione con i cittadini. Mentre nelle democrazie liberali, quanto più forti sono le maggioranze, tanto più incisivi devono essere i sistemi che le limitano e controllano. In Italia, invece, si vorrebbe una sorta di dittatura della maggioranza, in cui il suffragio popolare consenta di passare sopra le regole e le garanzie. Il governo, e più in generale la destra, fa ampio uso del termine “garantista”. Però i provvedimenti che ha adottato sembrano per lo più volti a punire severamente le fasce più deboli, mentre per quelle più forti è come se venisse attuata una sorta di tutela, pensiamo all’abolizione dell’abuso d’ufficio, ad esempio. A partire da questo, sarebbe favorevole a misure di amnistia e di indulto? Una delle peggiori conseguenze della epoca berlusconiana è l’espropriazione della parola garantista. Dall’essere la battaglia per difendere i diritti dei cittadini più deboli è diventata la scusa per l’impunità dei colletti bianchi. Il sovraffollamento carcerario è una vergogna nazionale, non consente il trattamento individuale dei detenuti, non permette la tutela della salute, aggiunge un’afflizione ulteriore alla pena. I suicidi, le rivolte e i maltrattamenti sono solo la punta dell’iceberg. Ci vuole tempo per costruire carceri più moderni ma invece serve agire subito per ridurre la popolazione carceraria in modo da rendere umana la detenzione. Lo sa che gran parte dei detenuti sconta pene per reati legati alla droga? Basterebbe legalizzare le sostanze stupefacenti leggere: le carceri sarebbero meno affollate, i giudici si occuperebbero finalmente di processi seri come quelli di corruzione o evasione fiscale e soprattutto le mafie perderebbero la loro fonte di guadagno. Magistratura democratica sostiene che i suoi rapporti con Area siano “risolti” e che comunque avete delle affinità culturali tra di voi. Quale sarà il rapporto tra Area e Md in questo congresso? Non è il momento delle beghe interne. Tutti i magistrati italiani hanno il dovere civico di essere uniti per testimoniare insieme il pericolo delle riforme annunciate, che rischiano di alterare l’equilibrio fra i poteri dello Stato e depotenziare le istituzioni di garanzia. La presidente di Md Silvia Albano ha detto al manifesto che Magistratura indipendente sembra voler “pregiudizialmente precludere che magistrati di un orientamento culturale ritenuto non omogeneo possano accedere a incarichi dirigenziali”. Cosa ne pensa? Mi spiace questa ossessione per le nomine. Per noi di Area il tema va ridimensionato. Dobbiamo ridurre il peso dei dirigenti giudiziari e stimolare modelli di gestione condivisa degli uffici. Proprio in questa ottica Area ha organizzato seminari ed ha preparato un documento che contiene molte proposte per promuovere una organizzazione orizzontale e non verticistica dei tribunali in modo da depotenziare la figura del dirigente e la caccia al posto direttivo. Dobbiamo debellare il virus della carriera che ha purtroppo ha contagiato i magistrati italiani, che per la Costituzione sono tutti uguali a prescindere dal ruolo svolto. In questo modo, le singole correnti dei magistrati tornerebbero a fare politica del diritto piuttosto che occuparsi di nomine. Il Csm deve essere un attore della politica sulla giustizia mentre si sta riducendo ad un nominificio. Mi spiace che il vice presidente Pinelli, sempre molto acuto, non abbia colto il punto. Non si rende conto che esprimendo il suo voto in materia di nomine concorre ad enfatizzare questo aspetto mentre dovrebbe occuparsi di più dei pareri sulle leggi di riforma o delle norme che garantiscono la indipendenza interna dei magistrati o di quelle che valutano l’efficienza e la qualità del lavoro dei singoli e degli uffici. Claudio Galoppi (Mi): “La magistratura è unita contro la riforma Nordio” di Giulia Merlo Il Domani, 7 maggio 2024 Il segretario generale di Magistratura indipendente dice che la riforma del Csm e la separazione delle carriere “mirano a scardinare l’equilibrio tra poteri” e chiede una interlocuzione col ministro. La riforma annunciata dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, stravolgerà l’ordinamento giudiziario, ma anche il Csm, e “mira a scardinare il delicato equilibrio tra poteri”. Lo dice senza mezzi termini Claudio Galoppi, segretario generale della corrente moderata di Magistratura indipendente, che conferma la totale unità dei gruppi associativi nell’opporsi all’iniziativa del governo. Nei prossimi giorni si attende la presentazione del testo di riforma costituzionale, che per ora si conosce solo in bozza e che sarebbe al vaglio limature e correzioni, ma lo scontro tra toghe e governo si preannuncia già infuocato. Separazione delle carriere e creazione di due Consigli superiori della magistratura, istituzione di una Alta corte per il disciplinare e togati scelti con sorteggio. Questi sono i punti principali della bozza di riforma della giustizia. Cosa ne pensa e c’è un disegno coerente? Si tratta di una riforma che modifica radicalmente l’attuale assetto costituzionale della magistratura e che rischia di minare la tenuta del principio di separazione dei poteri. Mi spiego meglio: la separazione delle carriere, ad esempio, porterà inevitabilmente alla creazione di un corpo di super poliziotti, che dovranno prima o poi essere sottoposti all’esecutivo, che ne indirizzerà scelte e azioni. Ma in tal modo chi sarà danneggiato saranno i cittadini, che vedranno affievolirsi la garanzia di un giusto processo fin dalla fase delle indagini. Inoltre, il pubblico ministero verrà allontanato dalla comune cultura della giurisdizione, che conferisce all’organo dell’accusa non una visione persecutoria e competitiva del processo, ma una visione basata sulla centralità del contraddittorio, della solidità delle prove e della reciproca lealtà. E per quanto riguarda il Csm? Ci preoccupa molto anche la scelta di selezionare i componenti del Csm per sorteggio: una scelta molto pericolosa, espressione della logica qualunquista dell’uno vale uno, che il nostro Paese ha già sperimentato con danni evidenti. Per non parlare poi dell’Alta Corte disciplinare, la cui istituzione mortifica le funzioni del Csm, che, nell’esercizio di questa competenza, si è sempre distinto per rigore e imparzialità. Insomma, un disegno riformatore, stando alle anticipazioni, che non affronta le vere priorità della giustizia ma che mira a scardinare il delicato equilibrio tra poteri e garanzie delineato dalla nostra Costituzione, punto di riferimento, proprio in questa materia, per molti altri Paesi. È in campo anche l’ipotesi di rendere facoltativo l’esercizio dell’azione penale. Vede un disegno per ridimensionare il ruolo della magistratura? Il principio di obbligatorietà dell’azione penale non è un privilegio della magistratura. È soprattutto un presupposto fondamentale del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Tuttavia, a fronte delle obiettive difficoltà di applicazione, anziché eliminare il principio, sarebbe auspicabile un serio intervento di depenalizzazione, che finora non è mai stato attuato. Anche il meccanismo della indicazione di priorità non ha dato i risultati sperati ad assicurare la gestione efficiente della domanda di giustizia. Pensa possa emergere uno spazio di dialogo con il ministero? Abbiamo sempre auspicato e richiesto dialogo e interlocuzione. Credo che, soprattutto quando si parla di riforma costituzionale, affrontare insieme i problemi e elaborare le possibili soluzioni sia assolutamente necessario. Il ministro della Giustizia, che già ci ha ricevuti, conosce la nostra totale apertura al confronto. Il suo gruppo associativo, Magistratura indipendente, è considerato il più dialogante con la maggioranza, anche con i laici al Csm. Si sta oggi allargando la distanza? Come gruppo associativo non ci occupiamo delle dinamiche e delle relazioni all’interno del Csm, che sono ovviamente rimesse alla responsabilità dei singoli componenti. Auspichiamo però che anche il Csm sia interlocutore attento e vigile in questo percorso. Avete chiesto all’Anm una mobilitazione. La magistratura - anche associata - sarà unita oppure, come sostiene Nordio, la maggior parte dei magistrati sarebbe d’accordo con la separazione delle carriere? Su questo punto voglio essere chiaro: l’unità della magistratura associata è fuori discussione, ma non è il frutto di un calcolo politico. È nelle cose, è la naturale conseguenza, pur all’interno di differenti visioni della giurisdizione, di una comune sensibilità istituzionale. Sardegna. Più di mille detenuti senza direttore e carceri sovraffollate L’Unione Sarda, 7 maggio 2024 A Uta 649 persone su 561 posti, a Bancali 468 su 454 posti. L’associazione “Socialismo Diritti Riforme” contro il ministero. Sardegna “area residuale nelle scelte del ministero”, con 1.117 detenuti privi di un direttore e carceri sovraffollate. Lo sottolinea Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV”: l’Isola, afferma, “continua a non disporre di personale ai vertici degli istituti penitenziari, basti pensare che 1.117 detenuti non possono contare su un direttore stabile a tempo pieno, con serie limitazioni nell’esercizio dei diritti”. Il direttore reggente di Uta e Bancali inoltre ha recentemente assunto l’incarico di dirigente dell’Ufficio Affari Generali, Personale e Formazione del Provveditorato Regionale. Questa situazione “intollerabile”, denuncia, non preoccupa né il ministero della Giustizia né il dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”. C’è poi il problema del sovraffollamento: “A Uta 649 detenuti (32 donne) per 561 posti, con una capienza del 115,6%, ben oltre il limite regolamentare, un record di presenze ulteriormente accentuato dal numero di detenuti con gravi problemi di salute e 149 stranieri”. E non va molto meglio a Bancali, con “468 detenuti (20 donne) per 454 posti, con un eccesso di presenza del 103%”. Ulteriore aggravante, a Bancali manca anche il comandante. “La Sardegna purtroppo - conclude Caligaris - continua a scontare il fatto di essere un’area residuale nelle scelte del Ministero. Un’isola a cui si riserva un trattamento d’impronta coloniale dove mancano gli investimenti necessari per rendere gli spazi adeguati ai bisogni dei detenuti e del loro recupero sociale”. Venezia. “Carcere sovraffollato”. Il programma anti-suicidi e per il lavoro Corriere del Veneto, 7 maggio 2024 Quasi 250 detenuti e di questi due terzi sono stranieri, in prevalenza di origine tunisina, albanese e marocchina. Numeri che confermano il sovraffollamento del carcere di Venezia del 155 per cento. È la denuncia di Elisabetta Zamparutti, dell’associazione Nessuno tocchi Caino che ieri assieme alla Camera penale veneziana ha organizzato il convegno su “Sovrappopolamento e recidiva” dopo aver effettuato la visita all’interno. “La situazione a Santa Maria Maggiore però non è la peggiore - spiega Andrea Franco, della commissione Carcere della Camera penale - Ci sono quattro detenuti psichiatrici che non dovrebbero stare lì. Come Camera penale vogliamo creare un programma anti-suicidio che prevede l’intervento anche dell’Usl che serva da prevenzione”. Dei 246 detenuti, 53 sono in attesa del primo giudizio, 28 condannati non definitivi e 149 in via definitiva. “Uno dei problemi maggiori è l’assenza di assistenza psicologica adeguata”, insiste Zamparutti. Mentre Debora Serracchiani, responsabile della Giustizia del Partito democratico sottolinea che il dato più preoccupante “è quello del sovraffollamento”. “Non aiuta poi la presenza di alcuni detenuti psichiatrici accertati o con problemi di tossicodipendenza - dice -. C’è poi il problema del presidio sanitario che non è presente all’interno del carcere che necessita di avere una presenza psicologa superiore alle ore oggi garantire. Ma la prospettiva è buona perché il direttore vuole impegnarsi molto su attività di formazione e lavorative”. L’obiettivo infatti è quello di recuperare degli spazi alla vecchia casa lavoro alla Giudecca che potrebbero essere adibiti ai semi-liberi e all’attività lavorativa. “Un modo per abbattere la recidiva - spiega Serracchiani -. Formarli, farli lavorare e dare loro una opportunità esterna per il reinserimento”. Potrebbero essere impiegati in strutture alberghiere, di ristorazione o in società di igiene ambientale per piccole mansioni: lavorerebbero durante il giorno e rientrerebbero alla sera. “Ma sono un’esigua minoranza - precisa l’associazione Nessuno tocchi Caino -. Ci sono quelli in attesa di giudizio, quelli che devono aver maturato i requisiti e non avere problemi disciplinari”. All’incontro hanno partecipato anche il presidente della Camera penale Renato Alberini, Annamaria Marin responsabile carcere della Camera penale e Sergio d’Elia segretario nazionale di Nessuno tocchi Caino. Milano. Il regista Aurelio Grimaldi: “Al Beccaria torture sudamericane” di Elvira Terranova Adnkronos, 7 maggio 2024 “Quello che è successo al carcere minorile Beccaria di Milano è un segnale di ritorno al Medioevo. Quelle che ho viste nelle immagini andate nei tg le chiamo torture sudamericane, torture crudeli, per fare del male”. A parlare è il regista e scrittore Aurelio Grimaldi, che commenta così i fatti del carcere minorile Cesare Beccaria di Milano, dove nelle scorse settimane sono stati arrestati 13 agenti penitenziari e altri otto sono stati sospesi dal servizio per presunti maltrattamenti e torture. Grimaldi è l’autore del libro ‘Meri per sempre’, poi diventato un film cult nel 1989 con Michele Placido, ambientato nel carcere Malaspina di Palermo. “Non credevo alle mie orecchie, quando ho sentito la notizia - dice Aurelio Grimaldi, impegnato in questi giorni in Sicilia per girare il suo nuovo film - Intanto stiamo parlando del carcere minorile di Milano, dove pensiamo che le cose siano organizzate meglio che altrove. È stato intitolato al grande Cesare Beccaria, che parlava “Dei delitti e delle pene” nel 1764 e ora, nel 2024, succedono queste cose. Io non voglio prendermela con gli agenti penitenziari, che spero verranno portati severamente davanti alle forze dell’autorità. Però credo che gli agenti che vengono pagati dallo Stato e gli operatori che non fanno il loro dovere sono doppiamente responsabili. Se il reato lo commette chi deve salvaguardare la sicurezza nazionale è più angosciante. Al di là dei responsabili”. Secondo Aurelio Grimaldi “il sistema di giustizia minorile va completamente rivisto” e il “governo Meloni sta prendendo la strada più sbagliata”. “Un agente di Polizia penitenziaria si può permettere questa cosa perché convinto che i suoi superiori siano d’accordo. Se succedono queste cose vuole dire che questo sistema si è modificato, perché pensavano che fosse un sistema condiviso. C’è una sorta di ‘liberi tutti’“. E ricorda quanto accaduto ai tempi in cui insegnava al carcere Malaspina di Palermo, quando fu scoperto che gli agenti picchiavano dei giovani detenuti. “Tenga conto che al Malaspina la guerra tra me e gli agenti penitenziari saltò fuori non perché gli agenti torturassero i ragazzi, ma perché picchiarono ad esempio un alunno, perché aveva rivolto frasi erotiche a una docente del corso lavoratori”, ricorda. “Mi chiamarono e da quel momento è successo un casino. Gli agenti di Palermo coi quali c’è stata una guerra non torturavano ma davano punizioni- prosegue - Li portavano alle ‘case popolari’, cioè in isolamento e li picchiavano. Ma sentire che nel 2024 succedono queste cose indica che è il sistema minorile che non funziona”. Aurelio Grimaldi critica, poi, il decreto Caivano: “Si pensa solo ad aumentare le pene per i minori che delinquono e prevede sanzioni anche per i genitori dei ragazzi che delinquono - dice - I genitori dei miei alunni di allora, proprio come i genitori di Caivano, compresi quelli delle ragazzine violentate, sono casi limite di un sistema sociale che fa acqua da tutte le parti, sono a loro volta vittime del sistema sociale”. Al momento nel carcere minorile Beccaria, che è solo maschile, sono detenuti 82 ragazzi, a fronte di 70 posti teoricamente disponibili dopo il recente ampliamento della struttura. Solo 11 dei ragazzi detenuti hanno ricevuto una condanna definitiva; tutti gli altri sono in attesa di un processo e sono quindi in custodia cautelare, cioè la detenzione che viene ordinata dal giudice prima del processo o prima della fine delle indagini, se si teme che la persona indagata possa commettere altri reati, scappare o “inquinare” le prove. “Sono numeri altissimi - dice ancora Grimaldi - Se pensiamo che gran parte è in custodia cautelare perché non è mai stato condannato”. Intanto, proprio la notte scorsa è scoppiato un incendio nel carcere minorile Beccaria di Milano. I vigili del fuoco hanno impiegato circa tre ore per spegnere l’incendio. Il segretario regionale per la Lombardia del Sindacato Autonomo di Polizia, Alfonso Greco, parla di una “notte di alta tensione” e di “una rivolta che ha coinvolto molti detenuti”. Stando alla ricostruzione del Sap “alcuni detenuti, dopo la mezzanotte, hanno dato fuoco alle suppellettili della cella - afferma Greco - e, una volta usciti, hanno devastato tutto buttando giù blindi e spaccato finestre. Al Beccaria erano presenti solo 4 unità di Polizia Penitenziaria e sono stati richiamati in servizio alcuni agenti per ripristinare l’ordine e la sicurezza dell’istituto minorile. Sono intervenuti i pompieri e altre forze di polizia”. Non ci sono feriti né tra i minori, né tra il personale di polizia penitenziaria. Grimaldi ricorda alcune delle scene riprese dei maltrattamenti ai ragazzi detenuti da parte delle guardie penitenziarie arrestate. C’è ad esempio un ragazzino che viene trascinato fuori dalla sua cella e viene preso a calci. Una scena, immortalata dagli occhi elettronici, descritta come “cruenta” in un’annotazione redatta lo scorso 15 marzo dal Nucleo Investigativo regionale della Polizia penitenziaria. Secondo quanto emerge dall’inchiesta, quattro agenti lo avrebbero portato fuori dalla cella e trascinato giù per le scale, mentre uno di loro lo tirava “anche dal braccio sanguinante”. A quel punto, il ragazzo sarebbe stato “spinto contro il muro” e colpito “ripetutamente alla testa e al torace” fino a cadere a terra. Due degli agenti, sotto gli occhi dei colleghi, lo avrebbero quindi preso a calci. Altre “quattro persone, probabilmente sanitari”, dopo avere sentito “il trambusto” si sarebbero spostate nell’infermeria, dove nel frattempo era entrato il 15enne. Una volta riportato in cella con il braccio fasciato, il ragazzo sarebbe stato “nuovamente prelevato” da due agenti e portato “in un ufficio al piano terra”, dove è rimasto “per circa otto minuti”, durante i quali, però, si legge che non vi sarebbero state ulteriori condotte violente. “Torture sudamericane”, taglia corto il regista. Aurelio Grimaldi anni fa insegnava al carcere Malaspina, il carcere minorile palermitano. Da quella esperienza nacque, appunto, il libro ‘Meri per sempre’ che divenne un film diretto da Marco Risi e interpretato da Michele Placido. “Ricordo che i ragazzi, che avevano una età media di 16 anni, avevano al massimo la quarta elementare, chi anche meno. E i genitori erano spesso analfabeti”, dice. Quello di poter lavorare in un carcere era una sorta di “desiderio adolescenziale” di Aurelio Grimaldi. Che da bambino aveva vissuto “l’esperienza negativa di quelle colonie estive organizzate per figli di ferrovieri” come lui. Al primo anno di insegnamento quando andò a scegliere la sede dei neo-assunti, vincitori di concorso, c’era un posto nel carcere minorile, che oltre tutto non voleva nessuno: “Realizzai immediatamente il mio antichissimo sogno”, dice oggi. Una esperienza “che mi ha salvato la vita da tutti i punti di vista”, aggiunge. “Io stamattina sono stato al carcere di Termini Imerese, dove stiamo girando delle scene del mio nuovo film - racconta - e ho detto alla direttrice del carcere che Enzo Tortora, quando uscì dal carcere, disse ‘Ho capito che il mondo si divide tra chi ha messo piede in carcere echi non lo ha fatto’. Io ho avuto la fortuna di averlo fatto. Un’esperienza fondamentale”. “Un’esperienza molto più forte del previsto perché io immaginavo che dovesse essere costruita sul rapporto tra insegnanti e alunni, invece ho trovato una struttura disumanizzata, Ma mi ha permesso di diventare autore e regista”. Il libro ‘Meri per sempre’ era “autobiografico al cento per cento” in cui erano contenuti “anche i temi dei ragazzi che raccontavano le loro storie in prima persona, seguiti da un mio resoconto del primo anno scolastico”. Così il libro venne tradotto in film. Ma lui non se ne andò “con le sue gambe”, come dice, perché “subii delle minacce e mi allontanarono provvisoriamente”. Ma quel provvisorio diventò definitivo. “Ero troppo ingombrante per la nuova direzione...”. Di quella esperienza cosa è rimasto ad Aurelio Grimaldi? “Io sognavo di fare lo scrittore ma insegnare mi piaceva moltissimo. Don Milani è stato importante nella mia vita ma già da bambino, provengo da una famiglia piccolo-borghese, il senso della ingiustizia sociale, pur stando a Luino, lo sentivo forte. Io mi sentivo privilegiato. La mia convinzione era che ci fossero ingiustizie e la scuola può fare tantissimo”. “Negli anni trascorsi al Malaspina mi sono reso conto che i ragazzi venivano tutti dai quartieri popolari- dice - Il mio sogno da ex insegnante la scuola come centro sociale, con attività di gioco”. Perché i ragazzi dei quartieri popolari “sono doppiamente colpiti dalla vita”, intanto “perché hanno vissuto in quartieri e situazioni familiari difficili” e poi perché “finiscono in carcere”. Aurelio Grimaldi non ha mai interrotto i contatti con molti dei suoi ex alunni detenuti. “Certo alcuni sono tornati in carcere- dice - ma molti mi hanno ritrovato anche grazie a Facebook. Mi capita di incontrarmi con alcuni di loro, che adesso sono sposati e con figli”. Milano. “I detenuti hanno bisogno di ascolto e di relazioni” di Annamaria Braccini chiesadimilano.it, 7 maggio 2024 Don Francesco Palumbo, cappellano a Opera, parla delle urgenze dopo il recente grave fatto di cronaca. “Parliamo del carcere come se fosse una realtà compatta, omogenea, ma in realtà, dentro un penitenziario, proprio come avviene in una città, la popolazione è fatta di persone ed esperienze diversissime. Credo che solo una cosa valga per tutti: il desiderio di essere ascoltati e di ascoltare, di creare relazioni, per le quali, però, coloro che sono detenuti devono essere aiutati”. Don Francesco Palumbo, sacerdote ambrosiano, cappellano della Casa di reclusione di Opera da quasi 13 anni, racconta così, in estrema sintesi, quale sia la maggiore urgenza del penitenziario in cui svolge il suo ministero unitamente a un secondo cappellano, don Marco Manenti. Quali sono i “numeri” di Opera? Si oscilla tra i 1300 e i 1400 reclusi. È difficile avere un numero preciso, perché vi è un ricambio continuo della popolazione presente, nel senso che registriamo entrate e uscite costanti ogni giorno. Opera è un carcere maschile, che presenta circuiti diversi di detenzione, con livelli di sicurezza differenziati. E, come è noto, qui c’è anche chi - in questo momento tra le 80 e le 100 unità - si trova ristretto in regime di 41 bis. Questa ultima forma di detenzione è un mondo a parte, una sorta di cittadella interna. Un grave fatto di cronaca recentissimo ha scosso l’intera comunità carceraria. Qual è il clima che si respira oggi? Vorrei precisare che non è un fatto, per quanto gravissimo come un omicidio (un detenuto è stato ucciso dal suo compagno di cella per motivi banali, forse relativi alla condivisione degli spazi, ndr), che cambia il clima che si respira da mesi, anzi da anni. Semmai, la cronaca porta alla ribalta la realtà carceraria, dipingendola a tinte forti, ma non muta l’assetto complessivo di un penitenziario e non aiuta a riflettere in profondità. Credo che invece la città - non solo Milano, ma intesa come comunità - dovrebbe considerare il carcere una sua parte integrante, qualcuno dice addirittura un quartiere come altri. L’attuale alta mobilità, molto più frequente rispetto ad altri anni perché ormai qui non si scontano solo pene definitive di lunga durata, non aiuta a conoscersi, ad avere un minimo di relazione. Soprattutto, costruire progetti che mettano al centro le persone diventa molto più difficile. Questo aumenta il rischio che le carceri si chiudano su se stesse, come secondo molti sta accadendo? Quella del chiudersi è una tentazione molto forte che, naturalmente, comporta forme di controllo maggiore. È un vento, diciamo così, che ogni tanto soffia e ora mi sembra che stia ritornando. C’è collaborazione tra chi rappresenta lo Stato all’interno del penitenziario, voi cappellani, gli agenti, le figure di supporto? A Opera il clima di collaborazione c’è - e questo è un fatto certo - sia con la polizia penitenziaria, sia con l’intera area educativa. Lo rilevo anche confrontandomi con altre realtà, ad esempio nei convegni nazionali con tutti gli operatori carcerari, come quello della settimana scorsa, o negli incontri regionali tra cappellani e persone consacrate che si svolgono mensilmente. È chiaro che questa collaborazione implica due aspetti. Primo, la consapevolezza che ognuno di noi ha un ruolo, un lavoro, obiettivi diversi. Dall’altra parte, però, il dialogo in questi anni ci ha fatto scoprire che ciascuno può svolgere meglio il suo compito facendo rete. La questione decisiva che penso di dover segnalare è che le persone detenute hanno bisogno di stimoli che possono venire soltanto dall’esterno. C’è tutta una frangia di persone recluse, che non sono una piccola percentuale del totale, che avrebbero bisogno di motivazioni per essere provocati a vedere che la vita può conoscere prospettive differenti. Per esempio? Molti di loro, per tante ragioni, non hanno esperienze belle di vita vissuta, mentre occorre dimostrare che esistono. Già lo si fa con qualche mostra organizzata all’interno, con i quadri realizzati dai reclusi, la costruzione di violini e altro. L’aspetto artistico è interessante e importante, ma penso che la questione fondamentale sia la relazione personale, perché i detenuti hanno bisogno di essere ascoltati e di entrare in racconti di vita diversi da quelli che conoscono. Trascorro molto tempo nei colloqui e mi accorgo che a volte, soprattutto quelli che sono più ristretti, chiedono di raccontare anche piccoli particolari di vita quotidiana che a noi possono sembrare insignificanti. Ci sono scenari esistenziali, di relazioni familiari, di modi di stare insieme, di comunità, di impegno gratuito, di volontariato, che effettivamente li colpiscono molto. Sarebbe necessaria, insomma, una continuità più coerente delle proposte, al di là di pur lodevoli iniziative… A volte mi pare che alcune siano proposte che definirei “palliative”, parziali, senza i requisiti di un’organicità che aprirebbe a una relazione più ampia. In questo senso, si può inserire anche il significato della presenza dei cappellani. A Opera siamo in due, ma l’aspetto decisivo, per quanto mi riguarda e su cui si gioca, secondo me, il futuro stesso della Chiesa in carcere, è lavorare in équipe. Qui, oltre a noi, svolgono servizio due frati, due suore e 5-6 laici che varcano i cancelli almeno due volte alla settimana. Credo che un gruppo di questo genere rappresenti bene il domani anche perché i laici diventano sempre più fondamentali. Voi ascoltate molto, ma siete, a vostra volta e non solo dai detenuti, ascoltati come cappellani? Dai reclusi riceviamo sempre riscontri incoraggianti e positivi e questo mi stupisce sempre. Tuttavia, devo dire che in questi anni abbiamo costruito relazioni buone con l’area educativa, con il direttore e la polizia penitenziaria. Da questo punto di vista il clima è davvero felice, naturalmente, facendo ognuno la sua parte ed esercitando il proprio ruolo e responsabilità. Bologna. “E state alla Dozza!”: rassegna teatrale aperta al pubblico nella Casa circondariale bolognatoday.it, 7 maggio 2024 Seconda edizione per la rassegna “E state alla Dozza! Quattro giorni di teatro e musica”, che si articola in quattro spettacoli all’aperto dal 10 al 13 luglio, a cura di Teatro del Pratello e Teatro dell’Argine, in un cortile del carcere della Dozza proposti a detenuti e a un pubblico esterno, nell’ambito di Bologna Estate 2024, il cartellone di attività promosso e coordinato dal Comune e dalla Città metropolitana di Bologna. Il progetto è nato in stretta collaborazione con la direzione della Casa Circondariale di Bologna “Rocco D’Amato” ed è a cura del Teatro del Pratello e del Teatro dell’Argine, le due realtà che operano con progetti teatrali alla Dozza, e si avvale anche della collaborazione con Fondazione Bologna in Musica - Bologna Jazz Festival per la serata dedicata alla musica. Dopo il riscontro della passata edizione, questa seconda annualità della rassegna vuole rinnovare la possibilità di offrire alle persone detenute una offerta culturale di qualità e, allo stesso tempo aprire le porte del carcere alla città, rendendolo uno dei numerosi luoghi che ospitano gli eventi dell’estate bolognese. Programma - La rassegna si apre lunedì 10 giugno con La pena non sia mai carcerogena, spettacolo di e con Alessandro Bergonzoni che affronta proprio la tematica della detenzione e della pena. Una riflessione sulla convivenza tra città, arte, poesia e persone: un ponte sullo stretto necessario e giusto. Per il diritto, sacro, di cercare un’anima nuova tra colpevoli e vittime. Perché “carcere” anagrammato significa “cercare”. Martedì 11 giugno, in collaborazione con la Fondazione Bologna in Musica, organizzatrice del Bologna Jazz Festival, la rassegna prosegue con D’amore e d’orgoglio, concerto di Indaco Trio dedicato a Billie Holiday e Nina Simone. Due grandi artiste a confronto, due personalità? forti e sensibili che hanno segnato la storia del jazz con il loro canto e la loro musica. Mercoledì 12 giugno, in scena Annagaia Marchioro con Fame mia - quasi una biografia, uno spettacolo comico e poetico che racconta la storia di una donna che ha tanta fame, così tanta fame da smettere di mangiare. Liberamente ispirato ad un romanzo di Amélie Nothomb, a cui deve la più profonda ispirazione e l’ironia tagliente, lo spettacolo ne sfoca i contorni, fino a trasformarlo in una storia molto italiana, la storia dell’attrice che la interpreta. Giovedì 13 giugno, chiude la rassegna Oblivion Collection, spettacolo in cui gli Oblivion, cinque voci e una chitarra, propongono i pezzi più divertenti della loro collezione, il trionfo della parodia. A meta? tra un concerto e una chiacchierata, gli Oblivion diventeranno davanti ai vostri occhi i cinque dei Promessi Sposi in 10 minuti, i cinque gradi di separazione tra i Queen e Gianni Morandi, i cinque delle parodie sanremesi e i cinque dell’Ave Maria Remix. “Seconda edizione della rassegna E state alla Dozza! che passa da tre a quattro appuntamenti, con tre spettacoli teatrali di genere diverso e un concerto, tutti dedicati a un pubblico di detenuti e spettatori esterni. Crescono contemporaneamente, nel 2024, le attività del Teatro del Pratello con i detenuti della Casa Circondariale D’Amato di Bologna; ricordo l’avvio di una nuova importante progettazione “Tradimenti e oblii” (progetto di cultura riparativa finanziato da Cassa Ammende in partenariato con UNIBO); la partecipazione delle detenute a spettacoli esterni, uno dei quali sul palco ERT di Piazza San Francesco; il Festival “Trasparenze di Teatro Carcere” (festival regionale, con il sostegno del MIC) a dicembre con un maggior numero di repliche aperte al pubblico. Tutte azioni che vanno nella direzione di una sempre maggiore offerta teatrale e culturale di qualità dedicata ai detenuti, e di un teatro che sia un reale ponte tra il carcere e la città” (Paolo Billi, Teatro del Pratello). “La rassegna E state alla Dozza! giunge alla sua seconda edizione portando con sé la bellezza della prima, bellezza che appartiene non solo agli spettacoli e ai concerti, ma alla meraviglia dell’incontro e dell’apertura che si è con essa realizzata. Nella Casa Circondariale Rocco D’Amato di Bologna, la tradizione del teatro è antica; da qualche anno coinvolge anche il Teatro dell’Argine, con il progetto che, passando dal corso di formazione professionale nei mestieri del teatro, ogni anno porta in scena un gruppo di persone ristrette nella libertà. Corsi, prove, spettacoli, e ora una rassegna: percorsi agiti in prima persona come allievi, come spettatori, ma anche come cittadini e cittadine, nella convinzione che ogni luogo della città possa essere condiviso e che il diritto all’arte e alla bellezza appartenga a tutti e tutte, chiunque siano e in qualunque contesto vivano” (Micaela Casalboni, Teatro dell’Argine). Bologna. Musica e parole entrano nel carcere della Dozza di Benedetta Cucci Il Resto del Carlino, 7 maggio 2024 A giugno torna la rassegna che avrà nel pubblico anche i detenuti. Apre le danze Bergonzoni, poi Indaco Trio, Marchioro e Oblivion. “Lo spazio è all’aperto, ma circondato da mura. Il palco è minimale, essenziale, senza luci né quinte, c’è solo un impianto audio”. Nelle parole di Rosa Alba Casella, direttrice della Casa Circondariale di Bologna ‘Rocco D’Amato’, c’è tutto il racconto fondamentale del tipo di teatro che dal 10 al 13 giugno entrerà in via del Gomito 2, grazie a Estate alla Dozza!, la rassegna che per il secondo anno arriva in questa location molto particolare, tra i detenuti e il pubblico libero, con la curatela del Teatro del Pratello e del Teatro dell’Argine e la collaborazione di Fondazione Bologna in Musica-Bologna Jazz Festival. Come suggerisce Elena Di Gioia, delegata alla cultura della nostra città, “questa è la forza delle istituzioni di uscire fuori, andare verso, creare un ponte tra dentro e fuori”. Ed è in sé una manifestazione talmente potente, da coinvolgere un autore e attore come Alessandro Bergonzoni e portarlo - ma per lui è la regola- a creare un neologismo per La pena che non sia mai cancerogena, come recita il titolo del monologo che sta scrivendo proprio in questi giorni e che aprirà il 10 giugno le serate che hanno inizio alle 18,30. Poi l’11 giugno ci sarà la musica dedicata a Billie Holiday e Nina Simone, con D’Amore e d’Orgoglio dell’Indaco Trio, Silvia Donati alla voce, Camilla Missio al contrabbasso e Francesco Bertazzo Hart alla chitarra e il 12 Fame mia-Quasi una biografia, spettacolo comico e poetico di e con Annagaia Marchioro, che si ispira liberamente a Biografia della Fame di Amélie Nothomb. Infine giovedì 13 giugno Oblivion Collection, di e con gli Oblivion, cinque voci e una chitarra, il trionfo della parodia, i pezzi più divertenti della produzione, a metà tra concerto e una chiacchierata. Una rassegna per un pubblico ristretto, 80 detenuti e 50 cittadini che devono fare richiesta di partecipazione entro lunedì 27 maggio compilando un modulo completo di allegati al link, disponibile alla pagina ‘agenda/eventi’ sul sito teatropratello.it (info: 33311739550). E per dare un’idea delle sensazioni che si provano davanti a uno spettacolo in un luogo così fuori dagli schemi, parla ancora la direttrice Casella: “Il brusio prima dello spettacolo - racconta - è stato come quello di tutte le piazze di Bologna Estate, quando inizia una cosa, poi però ecco un silenzio che è stato l’indice del successo dell’iniziativa. Alla fine sempre un grazie da parte dei detenuti, per aver vissuto un tempo altro”. Verona. Preparativi in corso per il pranzo di Papa Francesco in carcere di Laura Perina L’Arena, 7 maggio 2024 Sarà un menù sobrio, ma al tempo stesso gustoso, all’insegna della tradizione veronese e delle sue eccellenze. Questa la filosofia delle portate che verranno servite il 18 maggio nella casa circondariale di Montorio, dove Papa Francesco incontrerà i detenuti e il personale e pranzerà in compagnia di un centinaio di ospiti, prima di recarsi allo stadio Bentegodi per celebrare la messa di Pentecoste. Per l’occasione è stata studiata una “carta” semplice e rispettosa delle esigenze alimentari di tutti i convitati, buona parte dei quali sono di fede musulmana. La preparazione del primo piatto sarà curata da una delegazione di quattro mastri risottari di Isola della Scala capitanati da Luca Brutti, con la partecipazione del presidente del Consorzio di tutela Riso Vialone Nano Veronese Igp, Renato Leoni. Tra le portate che assaggerà il Santo Padre ci sarà, così, il risotto all’isolana, pietanza tipica del territorio veronese, seguita da un classico della primavera, il risotto con gli asparagi. “Cuoceremo 70 chili di riso per 700 commensali”, anticipa Brutti, che non è nuovo a questo tipo di esperienze. In due occasioni ha cucinato il risotto per Francesco, l’ultima lo scorso settembre in Vaticano, mentre nel 2006 lo ha preparato per tutti i partecipanti al Convegno ecclesiale nazionale che ha fatto da sfondo alla visita di Benedetto XVI a Verona. E questo senza contare il G8 del 2009 a L’Aquila e altri eventi con i grandi della Terra dove il suo risotto ha sbancato. “Ma questa volta sarà diverso, molto più coinvolgente anche per il contesto particolare in cui ci troveremo, dove la cucina diventa uno strumento di riscatto sociale”, sottolinea. Pane e spezzatino delle cooperative - Verrà servito anche un secondo piatto sempre all’insegna della semplicità, uno spezzatino preparato dalla cucina del carcere con la carne messa a disposizione dalla Cooperativa dei produttori veneti Azove. Il pane, così come le sfiziosità di sfoglia per l’aperitivo, sarà invece sfornato nel forno della casa circondariale gestito dalla cooperativa Panta Rei. “Abbiamo messo a punto la ricetta per delle piccole pagnotte con l’olio d’oliva extra vergine e il lievito madre. Sono venute bene. Oggi (ieri per chi legge) abbiamo fatto l’ultimo test”, racconta Matteo Peraro di Panta Rei, che cucinerà affiancato da cinque detenuti. Di lievito madre, fra l’altro, Peraro se ne intende: è stato lui a tenere vivo il lievito madre centenario della Melegatti anche nel difficile periodo di chiusura dell’azienda, alternandosi con alcuni colleghi. “In carcere lo abbiamo generato nel 2022 e un detenuto si occupa di alimentarlo tutti i giorni”, spiega. Un dessert... d’Elite - Per concludere, le Pasticcerie d’Elite di Verona doneranno il dessert. “Prepareremo una torta di pan di spagna con crema di vaniglia e cioccolato. Sulla sommità ci sarà la riproduzione tridimensionale dello stemma di Papa Francesco, fatta a mano con pasta di zucchero. Serviremo anche bignè alla vaniglia e cioccolato”, svela Michele Marcazzan, pasticcere dell’associazione. “È un onore per noi essere stati coinvolti. Alla realizzazione”, precisa, “partecipano tutte le nove Pasticcerie d’Elite e saremo presenti in carcere per testimoniare al Papa la vicinanza dell’artigianato veronese”. Del servizio di sala nella cappella della casa circondariale, dove Bergoglio pranzerà, si occuperanno i detenuti che frequentano la scuola alberghiera del carcere che fa capo all’istituto Berti di Chievo, assieme ad altri studenti e al personale della scuola. Violenti in nome della legge di Luigi Manconi La Repubblica, 7 maggio 2024 Quanto accaduto a Miami e gli altri casi simili sollevano una questione irrisolta: quella della formazione dei corpi di polizia. Nel corso di un breve arco di tempo tre serie di immagini, crudeli e potenti, hanno rivelato quel male che non vogliamo riconoscere. Non è il male escatologico e metafisico, bensì quello cupamente ordinario che gli esseri umani infliggono ad altri esseri umani nei luoghi della Legge (caserme, carceri, tribunali). A collegare Matteo Falcinelli, costretto come un animale, a Ilaria Salis, tenuta al guinzaglio e portata al processo in ceppi, e ai minorenni seviziati nelle celle dell’istituto Beccaria di Milano è una affermazione, precisa e inesorabile, che già si trova nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e che recita così: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a (trattamenti) inumani o degradanti”. Si consideri quel degradante. Stiamo parlando di atti che perseguono e ottengono l’effetto di sfregiare la dignità dell’individuo, di umiliare il nucleo più profondo del suo essere e di mortificarne la personalità. E, infatti, in tutte quelle diverse forme di maltrattamenti emerge l’intento di annichilire l’identità del soggetto che le subisce e di annullarne la volontà. Di reificarlo: ovvero di ridurlo a cosa, sopraffatto e subalterno. Non deve stupire che questo possa accadere in sistemi democratici come gli Stati Uniti e l’Italia e in altri illiberali, come l’Ungheria, e tanto più nei regimi totalitari. Si deve partire da un assunto: per loro natura e struttura, tutti i sistemi penitenziari sono tendenzialmente inumani e tutti gli apparati di polizia sono tendenzialmente autoritari. Il tasso di inumanità e di autoritarismo varia in relazione al variare dei parametri di solidità e ampiezza delle libertà individuali e collettive in quel determinato sistema e della sua natura più o meno liberale o più o meno dispotica. Per questa ragione, non so se sia più risibile o sciagurato, il riflesso condizionato della destra politico-mediatica italiana, che adotta il seguente schema dialettico (si fa per dire): 1. Non si può criticare (troppo) il trattamento riservato a Ilaria Salis perché nelle carceri italiane le cose vanno addirittura peggio; 2. Non si possono criticare (troppo) gli Stati Uniti perché sono una grande democrazia e perché nelle carceri italiane le cose vanno addirittura peggio. Intanto va detto che, nel complesso, il sistema penitenziario italiano è probabilmente meno iniquo di quello ungherese, anche se il catalogo degli orrori che vi accadono risulta scandaloso. Ma in Italia, ecco la più significativa differenza, all’interno delle carceri operano educatori e volontari, magistrati di sorveglianza e garanti dei diritti, che hanno saputo, negli ultimi tempi, segnalare abusi e violenze. Certo, si tratta solo di una parte di quanto di illegale vi si consuma, ma l’impermeabilità delle carceri è stata incrinata. Dunque, il punto di vista va completamente rovesciato: è possibile, e giusto, denunciare le torture e i trattamenti inumani e degradanti ovunque avvengano. E la frase “l’Italia non può dare lezioni a nessuno” è una sciocchezza sesquipedale. L’Italia può dare lezioni a chiunque esattamente nella misura in cui è capace, e deve, dare lezioni severissime a sé stessa. Ma quanto è accaduto a Matteo Falcinelli e mille altri casi simili sollevano una questione non solo irrisolta, ma generalmente ignorata. Ovvero quella della formazione degli appartenenti ai corpi di polizia. Appare evidente che l’apprendistato di funzionari dello Stato, titolari del monopolio dell’uso legittimo della forza, sia carente sotto due profili: quello dell’educazione democratica e, dunque, del rispetto incondizionato dei diritti e delle garanzie del cittadino; e quello della capacità tecnica di mettere nelle condizioni di non nuocere chi costituisca una minaccia, ricorrendo alla minima quantità possibile di violenza. Esattamente quanto non è accaduto al nostro connazionale a Miami. D’altra parte, una ricerca, di cui già si è parlato su queste pagine, dell’Institute for Criminal Justice Training Reform (Istituto per la riforma della giustizia penale), con sede in California, ha dimostrato come il tempo dedicato all’addestramento dei membri delle forze di polizia, calcolato in ore, varia in misura rilevantissima da Paese a Paese: si va dalle 652 ore negli Stati Uniti alle 2.250 nel Regno Unito, fino alle 4.050 in Germania. E sarebbe assai interessante conoscere quante ore sono dedicate alla formazione degli appartenenti ai corpi di polizia nel nostro Paese. In ogni caso, la questione appare davvero cruciale. Chi, come me, non crede affatto che gli abusi e le violenze degli agenti siano l’espressione patologica di una tendenza sadica individuale ma derivino in gran parte da problemi strutturali e, appunto, dalla mancata preparazione e da uno stato di grave insicurezza, è convinto che solo un tirocinio democratico e altamente professionale possa salvare le forze di polizia da loro stesse e dalla loro stessa involuzione. P.S. va notato che le violenze subite da Matteo Falcinelli sono state rese note grazie al fatto che fossero state riprese dalle bodycam installate sulle divise dei poliziotti, dove sono riportati anche i loro nomi. Misura adottata in un numero assai rilevante di Paesi democratici e che può contribuire all’accertamento dei fatti, a tutela dei cittadini e degli stessi agenti. In Italia, persino un dibattito serio e informato sulla questione risulta interdetto da anni. L’orecchio che non ascolta di Gabriele Di Luca Corriere dell’Alto Adige, 7 maggio 2024 In genere chi pensa al carcere lo mette esclusivamente in relazione al concetto di “perdita della libertà”. Ci si immagina, insomma, che la punizione consista solo in questo, senza farci supporre l’esistenza di ulteriori “torture”. Si tratta, purtroppo, di una credenza assai ingenua, dato che condizioni equiparabili a vari tipi di tortura sono tutt’ora presenti all’interno delle carceri (non solo italiane, anche se l’Italia figura sempre agli ultimi posti nelle valutazioni internazionali dedicate). Quando parliamo di tortura, allora, dobbiamo intenderci bene. Se gravissimi sono gli episodi di violenza perpetrati da pubblici ufficiali nei confronti dei detenuti, con altrettanta decisione bisognerebbe individuare e condannare l’esistenza di fattori “ambientali” miserabili, in grado di esacerbare la pratica restrittiva mediante afflizioni normativamente non pattuite e incontrollabili. E qui non si tratta soltanto di affermare l’elementare principio secondo il quale qualsiasi patimento che oltrepassi la privazione della libertà non ha senso, scopo e giustificazione, ma di capire come tali vessazioni rappresentino esattamente il trionfo dell’illegalità imposto sulla carne di persone recluse proprio perché ritenute responsabili di essersi opposte alla legge. Ora, non ci scosteremmo molto dal vero se ascrivessimo i numerosi casi di scabbia certificati nel carcere di Bolzano a un sistema vessatorio parallelo e quindi illegale. Ma non possiamo neppure accontentarci di attribuire ogni volta la causa di una tale illegalità a circostanze del tutto fortuite, o asserendo che esistono livelli di responsabilità impossibili da ricostruire. Come ha messo in luce Massimiliano Boschi in un articolo pubblicato sul portale online “Alto Adige Innovazione”, il problema sanitario all’interno delle mura carcerarie era noto da tempo, eppure - nonostante le segnalazioni - non ha per così dire trovato le “orecchie giuste” per essere inteso. E quali avrebbero potuto essere, queste orecchie giuste, perché non sono riuscite a drizzarsi e ascoltare? In teoria le orecchie sono rappresentate da un’istituzione nazionale, presente su tutto il territorio, preposta alla “prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene, crudeli, inumani o degradanti”. Un’istituzione però è fatta anche di persone, non solo di dispositivi burocratici, e infatti ecco la figura del “garante”, con nome e cognome. A Trento, per esempio, si chiama Antonia Menghini. E a Bolzano? A Bolzano c’era, si chiamava Elena Dondio, però il sindaco Renzo Caramaschi (titolare della nomina) l’avrebbe rimossa discrezionalmente senza che si pervenisse a una sua sostituzione. Desolante deduzione logica: senza garante nessun orecchio capace di accorgersi tempestivamente di ciò che stava avvenendo e grave ritardo nel contenimento di una malattia - la scabbia - perfettamente in grado di diffondersi in un luogo sovraffollato e malsano per definizione. In uno studio dedicato a indagare la salute in carcere (“La santé incarcerée: médicine et conditions de vie en détention”), Daniel Gonin ha già messo ampiamente in luce come “la privazione della libertà in carcere è una sorta di pena corporale, che dà dolore fisico e psichico e produce malattia”, contribuendo così allo sviluppo di patologie “digestive, respiratorie, dentarie e dermatologiche, oltre al rischio, dieci volte più elevato rispetto all’uomo libero, di contagio di malattie infettive” (cit. in Stefano Anastasia, “Le pene e il carcere”, Mondadori 2022). Magari la presenza di un garante come quello descritto in precedenza rappresenterebbe forse solo un palliativo, a fronte di problematiche così strutturali e cronicizzate (chi scrive, parafrasando Franco Basaglia, è convinto che il carcere non sia da “riformare” o da costruire in modo “migliore”, quanto piuttosto da distruggere). Ma è certo che la sua assenza è un motivo di ulteriore, assurda crudeltà, come cercare di “asciugare” con un idrante un uomo già bagnato. Dal caso Falcinelli a Salis e Hjorth, così le polizie del mondo umiliano i fermati di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 7 maggio 2024 Le immagini dell’arresto di Matteo Falcinelli, avvenuto a Miami nello scorso di mese di febbraio, non lasciamo dubbi sui metodi brutali della polizia statunitense. Il giovane, originario di Spoleto, è stato arrestato all’esterno di uno street club, dopo aver avuto una discussione con i gestori del locale in merito ad un conto eccessivamente salato, contestato da Falcinelli. Allontanato dal locale, il Dean’s Gold, il nostro connazionale ha cercato di informare la polizia su quanto successo e di avere spiegazioni anche in merito alla sparizione temporanea dei suoi due smartphone. A nulla, a quanto pare, è servito il tentativo di chiarimento. Le bodycam in dotazione ai poliziotti registrano il momento in cui Falcinelli viene ammanettato all’esterno del club. Si nota subito l’uso immotivato e sproporzionato della forza: il giovane viene sbattuto a terra violentemente con il volto premuto sull’asfalto. Una posizione che gli provoca le prime escoriazioni. Nei verbali della polizia si sostiene che Falcinelli abbia spinto e toccato i poliziotti. La prima di una serie di incongruenze che le indagini dovranno chiarire. Le registrazioni non documentano nessun contatto fisico. Inoltre, le bodycam vengono tenute accese anche quando il giovane, iscritto ad un master della Florida International University, viene condotto nella stazione di polizia di North Miami Beach. Qui le scene si fanno ancora più violente tanto da indurre la madre di Falcinelli a parlare di tortura. Matteo viene di nuovo messo a terra, manette ai polsi, con una tecnica simile all’incaprettamento, già proibita da diverso tempo in alcuni Stati, compresa la California, perché può provocare la morte della persona arrestata. Mani e piedi sono legate dietro la schiena. Nelle immagini Matteo Falcinelli si lamenta per il dolore e chiede di essere liberato. Saranno le indagini richieste dalla famiglia del 25enne a chiarire tutti i contorni della vicenda, che, comunque, non può giustificare il trattamento riservato allo studente umbro e che continua a gettare ombre sui comportanti violenti della polizia. Negli Stati Uniti, “culla delle libertà”, si registrano spesso episodi di persone maltrattate durante i controlli e gli arresti da parte della polizia con la violazione dei più elementari diritti riconosciuti ad ogni persona e che si rinvengono a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha assicurato l’impegno dell’Italia e ha chiesto la collaborazione delle autorità statunitensi. “Le immagini che abbiamo visto - ha commentato il responsabile della Farnesina - non ci sono piaciute, mi hanno toccato profondamente. Anche io sono un padre e immagino quello che hanno provato i genitori di Matteo Falcinelli. Il nostro consolato continuerà a seguire minuto per minuto la vicenda, come ha fatto fin da febbraio. Così come facciamo in tutto il mondo seguendo le vicende dei nostri connazionali, continueremo a dare tutta l’assistenza necessaria a Mattero Falcinelli e alla sua famiglia per quanto riguarda l’attività processuale e tutto il sostegno di cui avrà bisogno anche in Italia qualora fosse necessario”. La violenza fisica da parte delle forze dell’ordine e il mancato rispetto della dignità della persona in caso di arresto o fermo sono due elementi che rinveniamo anche in altri casi, nel civile e liberale Occidente. Una stonatura con i principi dello Stato di diritto. Anche l’Italia non è stata esente. Il cittadino americano Gabriel Natale Hjorth venne arrestato nel luglio del 2019 assieme a Finnegan Lee Elder con l’accusa di aver ucciso il vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega. Una foto di Hjorth, ammanettato e bendato all’interno della caserma dei carabinieri di via dei Selci a Roma fece il giro del mondo e indignò - non senza dosi di ipocrisia - anche i media d’oltreoceano. Il carabiniere che scattò e condivise con i colleghi la foto, facendola diventare virale, è stato condannato dal Tribunale di Roma nello scorso novembre a un anno di reclusione con pena sospesa, sentenza ribaltata il 26 aprile scorso con l’assoluzione. Inoltre, come non ricordare il trattamento riservato ad Ilaria Salis, in carcere da oltre un anno in Ungheria? Il tribunale di Budapest si è rifiutato di concedere gli arresti domiciliari. Le immagini della nostra connazionale con le manette ai polsi e alle caviglie fanno rabbrividire. Durante le udienze, l’attivista milanese viene sempre condotta in aula da una poliziotta. Oltre alle manette, Salis ha una specie guinzaglio che serve alla solerte poliziotta per accompagnarla durante gli spostamenti. “Legge e ordine”, scimmiottando qualche serie televisiva, è il credo del primo ministro ungherese Viktor Orbán, che piace tanto ad alcuni nostri politici, con buona pace per i trattamenti in grado di rispettare la dignità della persona. Secondo Marinella Oliva, penalista del Foro di Bologna, le immagini della polizia di Miami inducono ad una profonda riflessione. “Quello che è accaduto a Matteo Falcinelli - dice al Dubbio l’avvocata Oliva - richiede un intervento immediato da parte degli organi preposti, affinché vengano accertati i fatti ed individuati i responsabili di queste pratiche ignobili. Seppur l’evoluzione legislativa, in termini di tutela dei diritti dell’uomo abbia raggiunto i massimi livelli in termini di garanzie, siamo costretti ancor oggi ad assistere a scenari di tale portata che, ahimè, rievocano pratiche lontane da tutte quelle garanzie volute conquistate nel tempo. Il trattamento al quale è stato sottoposto Falcinelli è inaccettabile. Reputo i comportamenti della polizia statunitense particolarmente umilianti. Mi riportano alla mente la vicenda di Gabriele Natale Hjorth, arrestato dopo l’omicidio del carabiniere Cerciello Rega, i fatti legati al G8 di Genova e l’irruzione alla scuola Diaz, oltre che alle torture di Bolzaneto. Tant’è che questi ultimi fatti imposero un intervento normativo e l’introduzione delle nuove fattispecie di “Tortura” e “Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura” ex art. 613- bis e 613- ter del Codice penale, introdotte dalla legge n. 110 del 2017. Nonostante le opinioni divergenti sul testo normativo, l’inserimento nel nostro codice di queste norme ha colmato un vuoto normativo a tutela di chi subisce tortura. Il divieto assoluto della tortura o di qualsiasi altro trattamento inumano o degradante rientra in quella tipologia di norme di jus cogens di diritto internazionale che non tollera nessuna esclusione e non può essere ignorata da nessun Paese al mondo”.