Suicidi e sovraffollamento: i drammi nelle carceri di Tonio Pillonca L’Unione Sarda, 6 maggio 2024 I penitenziari scoppiano, in carcere i detenuti si uccidono e le aggressioni al personale della polizia penitenziaria, anche in Sardegna, sono più o meno all’ordine del giorno. Molte prigioni italiane si rivelano autentiche polveriere e all’orizzonte non si vedono soluzioni per uscire dal tunnel di un’emergenza senza fine. L’ultimo rapporto di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale nata alla fine degli anni ottanta, è denso di numeri e riflessioni che fanno rabbrividire. Al 31 marzo di quest’anno le carceri ospitavano diecimila detenuti in più di quelli che in realtà possono accogliere. Erano 61.049 le persone recluse, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti. Le donne erano 2.619, il 4,3% dei presenti, e gli stranieri 19.108, il 31,3%. Ciò che accadde nel corso del 2020 - ovvero settemila reclusi in meno, calo in gran parte dovuto all’emergenza pandemia - si è rivelato un caso eccezionale. Le presenze nelle carceri italiane hanno ripreso a crescere. “Prima lentamente - si legge nel rapporto di Antigone - con un aumento di 770 unità nel 2021, a cui però è poi seguita una crescita di 2.062 nel 2022 e addirittura di 3.970 nel 2023. Nell’ultimo anno dunque la crescita delle presenze è stata in media di 331 unità al mese, un tasso allarmante, che se dovesse venire confermato anche nel 2024 ci porterebbe oltre le 65.000 presenze entro la fine dell’anno”. La situazione peggiora col tempo “Tanto per fare un confronto”, riflette Antigone, “si tenga presente che il Consiglio d’Europa ha chiuso la procedura di esecuzione della ormai famosa sentenza Torreggiani contro l’Italia, accogliendo con favore gli interventi realizzati dalle autorità italiane, il 9 marzo 2016. A fine febbraio 2016 erano presenti nelle carceri italiane 49.504 detenuti in 52.846 posti. Come detto sopra, a fine marzo 2024 i detenuti erano 61.049 in 51.178 posti. Crescono dunque le presenze e quindi cresce anche il tasso di affollamento ufficiale, che raggiunge a livello nazionale il 119,3%”. La maglia nera del sovraffollamento spetta alla Puglia (152,1%), seguita da Lombardia (143,9%) e Veneto (134,4%). Crescono le presenze in Friuli-Venezia Giulia (+14,9% nell’ultimo anno) e in Basilicata (+16,4%). Il sovraffollamento non è dunque un dramma solo delle carceri che sorgono nelle aree metropolitane ma si diffonde ovunque. La Sardegna, a leggere i dati diffusi da Antigone, sembrerebbe non essere tra le regioni più esposte, visto che nelle carceri dell’Isola ci sono attualmente 2.135 detenuti a fronte di una capienza di 2.614, con un tasso di affollamento ufficiale del 81,7 per cento. Ma le recenti vicende accadute in diversi penitenziari inducono ovviamente a non abbassare la guardia. Antigone lo scorso anno aveva puntato i riflettori proprio sui penitenziari e sulle colonie penali sarde. Il presidente Patrizio Gonnella e la coordinatrice Susanna Marietti le avevano visitate tutte. “La Sardegna - avevano concluso - sconta il suo essere isola. Nelle carceri della regione non ci vogliono andare i direttori, sono pochi i sottufficiali di polizia penitenziaria, scarseggiano gli educatori”. In Sardegna, secondo Gonnella e Marietti, l’isolamento carcerario vale triplo e costituisce “una delle parole chiave nella vita carceraria sarda. Era il 2014 - ricordano i dirigenti di Antigone - quando furono inaugurate alcune nuove carceri, tra cui Cagliari e Tempio Pausania. Fu deciso di ubicarle lontano dai centri storici e dagli abitati. Per chi ama la natura è affascinante ammirare i fenicotteri che circondano il carcere cagliaritano di Uta o perdere lo sguardo tra le colline di Nuchis vicino a Tempio. Ma la lontananza dalle città produce desertificazione sociale. Rende complesso costruire ponti tra dentro e fuori, immergere il carcere in un tessuto relazionale che possa dare qualche significato al periodo detentivo. Si sconta così un doppio isolamento: quello isolano e quello della pianificazione urbana. Ce n’è poi un terzo, quello classico usato da sempre nelle galere. Un isolamento tragico”. Come tragiche sono le vicende che sfociano in suicidi dietro le sbarre. “Dopo il 2022, l’anno da record con 85 suicidi accertati - rileva in un suo saggio Sofia Antonelli, dell’ufficio del Difensore civico di Antigone - il 2023 e il 2024 continuano a registrare numeri impressionanti. Nel 2023 sono state almeno 701 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un Istituto di pena. Nei primi mesi del 2024, almeno 30. “Almeno” perché numerosi sono i decessi con cause ancora da accertare, tra i quali potrebbero quindi celarsi altri casi di suicido. Seppur in calo rispetto all’anno precedente, i 70 suicidi del 2023 rappresentano un numero elevato rispetto al passato. Il più elevato dopo quello del 2022. Guardando agli ultimi trent’anni, solo una volta si è andati vicini a questa cifra con 69 suicidi nel 2001”. Suicidi in carcere nel 2024: ad oggi sono 35 i detenuti che si sono tolti la vita di Angela Stella L’Unità, 6 maggio 2024 Ancora un suicidio in carcere. Il 35esimo dall’inizio dell’anno se consideriamo il giovane che si è tolto la vita nel Cpr di Roma. Una mattanza di Stato che continua, senza fine. Una strage che prosegue nell’indifferenza della politica. Questa volta, si è tolto la vita - impiccandosi - un 32enne affetto da disturbi psichici. Si è impiccato in cella, gli restava poco tempo da scontare dietro le sbarre. Il dramma è avvenuto a Siracusa. A dare la triste notizia è stato il Garante per i diritti dei detenuti della città siciliana, Giovanni Villari. Riportiamo qui, per intero, il suo post scritto e pubblicato su Facebook. Quanti suicidi in carcere nel 2024 “Purtroppo stavolta è un giovane di 32 anni, affetto da disturbi psichiatrici colui che si è tolto la vita nella casa circondariale di Siracusa. La patologia documentata di quest’uomo, legata al suo insano gesto, non rappresenta ahimè, una rarità. Oggi pomeriggio alle ore 15.50 circa, P.G., nato a Lentini (SR), si è impiccato utilizzando il lenzuolo del suo letto mentre si trovava nella sua camera detentiva. Immediatamente soccorso da medici e infermieri che hanno tentato di rianimarlo per quasi un’ora, è stato successivamente trasportato al pronto soccorso tramite ambulanza. Sebbene mantenesse ancora una certa attività cardiaca, era già in uno stato comatoso. È angosciante sottolineare che, in ogni caso, questa giovane persona, stava per concludere il suo periodo detentivo, previsto per il prossimo mese di settembre. Questo fatto conferma una tragica statistica che indica come periodo di maggiore criticità per i suicidi in carcere quello dei primi 5-6 mesi dall’ingresso in istituto e gli ultimi sei mesi prima dalla data di fine pena. Suicidio nel carcere di Siracusa - Le autorità carcerarie stanno affrontando una sfida sempre più urgente nel prevenire i tragici atti di autolesionismo tra i detenuti. È essenziale implementare programmi di supporto psicologico e morale all’interno delle strutture detentive al fine di offrire un aiuto concreto a coloro che si trovano in situazioni di disagio estremo. Inoltre, è fondamentale sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di sostenere i detenuti in difficoltà e di promuovere una cultura di solidarietà e comprensione. Solo attraverso un impegno collettivo possiamo sperare di ridurre il numero di suicidi in carcere e garantire un ambiente più sicuro e umano per tutti. Dato che gli individui coinvolti, nonostante abbiano commesso errori che hanno arrecato disturbi e danni alla società, mantengono diritti fondamentali che devono essere protetti e rispettati, è essenziale concentrarsi sul recupero e sulla rieducazione al fine di non lasciare nessuno indietro. Il sistema penitenziario italiano presenta diverse criticità che ne compromettono il corretto funzionamento e mettono a rischio i diritti e le condizioni dei detenuti. Chi è il detenuto che si è tolto la vita nel carcere di Siracusa - Uno dei principali problemi (ma non l’unico) riguarda il sovraffollamento delle carceri, con una popolazione detenuta che supera spesso la capacità massima prevista dalle strutture. Attualmente l’aggiornamento al 31 marzo riporta una presenza totale di 61.050 detenuti, di cui 2.620 donne, per una capienza complessiva nei 189 istituti di pena, di 51.180 detenuti. Questo porta a una carenza di spazio, vitale per i detenuti, e crea tensioni all’interno degli istituti penitenziari. Inoltre, le condizioni igienico-sanitarie all’interno delle carceri sono spesso oggetto di forte critica, per problemi di pulizia e scarsa accessibilità a servizi sanitari adeguati. La mancanza di personale penitenziario sufficiente è un’altra criticità importante, che influisce sulla sicurezza e sul benessere dei detenuti. Il sistema penitenziario italiano si trova dunque di fronte a sfide significanti che richiedono interventi urgenti per migliorare al più presto la situazione. Perché tutti questi suicidi in carcere e cosa si può fare - L’impatto delle azioni dei garanti territoriali si è esteso oltre le mura delle carceri: sono state organizzate campagne di sensibilizzazione nella comunità locale in tanti comuni italiani per promuovere una maggiore comprensione e accettazione delle persone detenute e per contrastare lo stigma associato al carcere. Anche a Siracusa il 18 aprile u.s. presso l’Urban Center si è svolta una conferenza sul tema dei suicidi in carcere: “Diamo voce a chi non può farsi ascoltare”. L’evento, è stato organizzato dall’ufficio del Garante per la tutela dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale in collaborazione con l’Assessorato alle Politiche Sociali, con l’obiettivo di richiamare l’attenzione di tutto il mondo istituzionale presente sul territorio siracusano e sensibilizzarlo sull’impellenza d’interventi urgenti in merito alla gravità del fenomeno dell’aumento dei suicidi e del pericoloso sovraffollamento carcerario, di cui verosimilmente il dramma dei suicidi ne è in parte conseguenza. Le parole del Garante Villari - Tutti noi garanti territoriali stiamo tentando in vari modi di veicolare più informazioni possibili che riguardano le pericolose criticità che aggravano il traballante quadro generale del sistema penitenziario italiano già in crisi per il sovraffollamento che non accenna a diminuire e a cui la politica non dà ancora risposte certe. Parlano, cianciano di realtà che in fondo non conoscono e vogliono sembrare professionisti e risolutori di cause che non rientrano nelle loro mire politiche. Tanto quelli sono soltanto detenuti non persone e liberi cittadini”. Meloni ora teme lo scontro con i giudici: tempi lunghi per le carriere separate di Francesco Olivo La Stampa, 6 maggio 2024 Il ddl Nordio rimandato per aspettare il congresso dell’Anm. Difficile l’approvazione definitiva entro la fine della legislatura. Trovare un equilibrio è complicatissimo: accontentare Forza Italia e il ministro Carlo Nordio, ma senza aprire una guerra frontale con la magistratura. Giorgia Meloni lo ha ripetuto a tutti in questo anno e mezzo a Palazzo Chigi: non si deve riproporre la stagione berlusconiana dei conflitti con i giudici. Al tempo stesso, però, la separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti è un punto del programma del centrodestra e soprattutto una richiesta ferma di Forza Italia, nella logica spartitoria delle riforme (Autonomia per la Lega e premierato per Fratelli d’Italia). Come uscirne? La via trovata per il momento è l’estrema prudenza nell’affrontare la materia, cercando di scrivere una riforma complessiva che non fossilizzi il dibattito sull’aspetto più divisivo. La prova è che il disegno di legge sulla giustizia che contiene oltre alla separazione delle carriere, anche la riforma del Csm e l’istituzione di un’Alta Corte per la valutazione dei magistrati viene continuamente rinviato e, a meno di sorprese clamorose, non sarà portato nemmeno al Consiglio dei ministri in programma oggi. Da Palazzo Chigi l’ennesimo rinvio si spiega con ragioni di opportunità, visto che questa settimana si svolgono due appuntamenti importanti: il g7 della Giustizia di Venezia, presieduto da Nordio e il congresso dell’Associazione nazionale magistrati a Palermo, con la partecipazione dei leader dell’opposizione, Elly Schlein e Giuseppe Conte, mentre per il governo ci sarà il viceministro Francesco Paolo Sisto e per Azione il capofila dell’ala garantista Enrico Costa. Da quella tribuna, è già chiarissimo al governo, partiranno delle accuse pesanti contro i piani della destra. Ma l’intenzione di Meloni, attraverso il fedelissimo sottosegretario Andrea Delmastro, è di non forzare la mano e di mandare messaggi alla magistratura: procederemo con molta calma. Fratelli d’Italia frena l’ipotesi che il ddl contenga anche la modifica dell’articolo 112 della Costituzione che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale, introducendone invece la discrezionalità. Una questione molto complessa da un punto di vista giuridico, che merita, secondo Palazzo Chigi, un approfondimento più ampio. “L’autonomia della magistratura è sotto attacco”, protesta Conte. Ma la vera garanzia per gli avversari di queste leggi sono i tempi, che si preannunciano lunghissimi. Anzi, secondo i centristi, che appoggerebbero le riforme di Nordio, è proprio lo strumento del disegno di legge governativo ad affossare ogni possibilità di realizzare questa proposta. In Forza Italia c’è la consapevolezza che dopo aver sbandierato in campagna elettorale questo vessillo, la cosa potrebbe finire lì, almeno per questa legislatura, anche perché si rischierebbe di sovrapporre questo referendum costituzionale con quello dell’elezione diretta del premier, cosa che Meloni vuole assolutamente evitare. Costa si è fatto due calcoli: “Per l’approvazione serviranno, infatti, almeno due passaggi tra Camera e Senato, poi ci sono i tempi per richiedere il referendum, indirlo e infine votare. Poi le leggi ordinarie di attuazione”. Lo strumento sarebbe quello di una legge delega, come è stato per la riforma Cartabia. “Se il Governo avesse lasciato lavorare il Parlamento - conclude il deputato di Azione - avremmo già approvato il testo in aula alla Camera, invece nella migliore delle ipotesi in aula ci andrà quest’inverno”. Davide Faraone di Italia Viva aggiunge: “I “manettari” non siano allarmisti, il progetto di Nordio allunga i tempi”. Molto più spedita marcia invece la riforma del premierato, che questa settimana arriva in Aula. La discussione generale in Senato è prevista per mercoledì, a Palazzo Chigi non sono ancora certi se ci siano i tempi per l’approvazione in prima lettura entro le elezioni europee. Molto, secondo fonti di governo, dipenderà dall’atteggiamento delle opposizioni. Meloni ha chiesto di arrivare al primo via libera della “madre di tutte le riforme” prima delle Europee. Ma al tempo stesso la premier non vuole forzature particolari: se dai banchi del centrosinistra si scegliesse la strada dell’ostruzionismo a quel punto l’idea di un rinvio a dopo le elezioni non sarebbe vissuta come una sconfitta o un passo indietro. “Abbiamo la volontà di moltiplicare gli interventi per denunciare le distorsioni del premierato”, annuncia Alessandro Alfieri, responsabile riforme del Pd. Per il momento da FdI si tende a escludere il ricorso a tagliole e strumenti per ridurre i tempi del dibattito. In piena campagna elettorale, è il ragionamento del partito della premier, non è il caso di alzare polveroni Toghe allo scontro con Nordio: “I politici controlleranno i pm” di Giulia Merlo Il Domani, 6 maggio 2024 Accordo con palazzo Chigi. Tra le ipotesi, anche la riforma costituzionale di rendere facoltativa l’azione penale. L’Anm è sul piede di guerra. Il segretario Salvatore Casciaro: “Il ministro vuole ammansire il potere giudiziario”. È stata annunciata talmente tante volte da lasciare ormai freddi anche i diretti interessati della maggioranza, invece ora è davvero tutto pronto, con separazione delle carriere, due Csm e forse anche la facoltatività dell’azione penale. Il ddl costituzionale del ministro della Giustizia Carlo Nordio arriverà a palazzo Chigi per il via libera del Consiglio dei ministri intorno alla metà di maggio. Tutto è stato messo a punto in una riunione a palazzo Chigi, alla presenza della premier Giorgia Meloni, alla quale hanno partecipato il sottosegretario Alfredo Mantovano, il ministro, il vice ministro Paolo Sisto, i sottosegretari Andrea Ostellari e Andrea Delmastro, i presidenti della Commissioni Giustizia di Camera e Senato Ciro Maschio e Giulia Bongiorno e i responsabili Giustizia dei partiti del centrodestra. Un blitz inatteso, che però ha voluto assumere i crismi di un patto ormai stretto. Nordio dunque ha finalmente convinto al grande passo Palazzo Chigi, forte anche della solida sponda di Forza Italia. Tanto che l’arrivo in Cdm del ddl costituzionale entro maggio sembra frutto di una peculiare ma coerente ripartizione: via libera definitivo all’autonomia differenziata per la Lega, il premierato in aula come da desiderio di Fratelli d’Italia, e passaggio in Consiglio dei ministri della separazione delle carriere per accontentare Forza Italia. Così da poterli spendere in campagna elettorale alle europee. La data entro cui far arrivare il testo che dividerà i percorsi di magistratura requirente e giudicante è significativa: prima delle europee certo, ma anche a ridosso del congresso dell’Anm di Palermo, a cui il ministro non andrà perché - ufficialmente - impegnato al G7 della Giustizia a Venezia nei giorni precedenti. Entro maggio, poi, la Camera dovrebbe approvare in via definitiva il cosiddetto “pacchetto Nordio”, passato in Cdm nel giugno scorso e che prevede in particolare l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, la modifica del reato di traffico d’influenze e dell’appello del pm; correttivi alle intercettazioni e introduzione di un giudizio collegiale in caso di misure cautelari in carcere. Anche in questo caso, secondo fonti di maggioranza, il passo tutt’altro che svelto sarebbe dovuto alla “legittima cautela”, visti i dubbi del Quirinale sul testo e i rischi di contrasto con le norme europee (sempre rigettati dal ministro). Due Csm e sorteggio - La riforma che scuoterà davvero la magistratura riguarda la separazione delle carriere e l’ordinamento giudiziario, che è già è stato oggetto di modifica con la riforma Cartabia legata al Pnrr, ma su cui Nordio punta a ritornare in modo significativo. Del resto, quelle per la separazione delle carriere e per la riforma del Csm sono battaglie storiche dell’ex pm ben prima che diventasse ministro, e per cui era considerato eretico anche dai colleghi. Le sue certezze, però, hanno incontrato i molti dubbi della maggioranza, vista l’aperta ostilità dimostrata immediatamente dalla magistratura associata e il rischio di accentuare lo scontro tra poteri. Nonostante la riunione a palazzo Chigi, il testo definito nelle linee generali è ancora allo studio, per limature e correzioni. Le ipotesi sul tavolo parlano di due concorsi in magistratura separati per giudici e pm, e di conseguenza due Csm separati. Inoltre, si sta valutando anche di modificare di nuovo l’assetto del Csm dopo la riforma Cartabia, aumentando ulteriormente il numero dei membri laici fino a farli diventare la metà (ora sono un terzo) e modificando di nuovo la legge elettorale con l’introduzione del sorteggio temperato per i consiglieri togati. Al vaglio ci sarebbe anche il sorteggio “secco”, ma è considerato tecnicamente rischioso: la Costituzione prevede che i togati siano “eletti”, quindi il sorteggio dei 20 consiglieri tra i 10mila magistrati non sarebbe possibile senza una modifica. Il sorteggio temperato - contenuto in una proposta di legge ordinaria di FI nella passata legislatura - invece prevede che si sorteggi una rosa di candidati, tra i quali le toghe potranno votare. La creazione di due Consigli separati potrebbe aprire infinite possibilità per riformare dalle fondamenta l’organo di rilevanza costituzionale, in particolare rispetto alla presidenza. Oggi il Csm è presieduto dal capo dello Stato, ma secondo indiscrezioni post vertice non si può escludere che questo cambi. Tra le suggestioni, infatti, c’è quello di fare presiedere i due nuovi Consigli rispettivamente al primo presidente della Corte di cassazione per quello dei giudici e al procuratore generale presso la Cassazione per quello dei pm. Con una ulteriore novità: scorporare la funzione disciplinare dai due Csm e assegnarla a un’Alta Corte composta da 9 membri, ovvero un organismo che giudicherà tutti i magistrati, la cui intuizione risale alla bicamerale D’Alema. Infine, come annunciato anche all’apertura dell’anno giudiziario forense del Cnf, Nordio ha auspicato anche l’inserimento in Costituzione “del ruolo fondamentale che hanno gli avvocati”. L’azione penale - Al vaglio del governo c’è anche un ulteriore elemento: la possibilità di introdurre la discrezionalità dell’azione penale riformando l’articolo 112 della Costituzione, altro storico cavallo di battaglia di Nordio nell’ottica di rendere il sistema penale italiano pienamente accusatorio. In questo caso, l’ipotesi è quella di prevedere che le priorità per l’azione penale vengano stabilite dalla legge. Una previsione che va in questa direzione - ferma obbligatorietà dell’azione penale- è nella riforma Cartabia, che ha introdotto che il legislatore delegato articoli una disciplina dei criteri di priorità dell’azione penale. Cancellare l’obbligatorietà dell’azione penale e stabilire che sia il parlamento con la sua maggioranza a stabilire le priorità, però, sarebbe un passo molto oltre, nella direzione di assoggettare l’azione penale agli orientamenti della politica. Per ora da palazzo Chigi trapela estrema prudenza su questo punto, con la consapevolezza che anche solo la riforma radicale del Csm non sarà facile da approvare. Inoltre un pacchetto così corposo di riforma costituzionale dovrà necessariamente prevedere un ampio respiro per la sua approvazione. Lo scontro - La direzione, dunque, è quella di un inevitabile scontro, a cui andrà a sommarsi anche il dibattito sui test psicoattitudinali per gli aspiranti magistrati, già approvato in Cdm ma di cui non ci sono ancora indicazioni chiare. L’Anm, che il prossimo fine settimana si riunirà a congresso in assenza del ministro, si è già espressa in modo chiaro e il clima dei prossimi mesi sarà infuocato. “Da quanto leggo sulla stampa”, ha detto a Domani il segretario dell’Anm, Salvatore Casciaro, “quello del ministro Nordio sarà un intervento radicale che stravolgerà l’assetto della giurisdizione, con modifiche che incideranno sull’equilibrio tra i poteri dello Stato”. Casciaro è netto nel bocciare la riforma: “Con l’’Alta Corte si esautora il Csm, svilendone il ruolo; con la separazione delle carriere si immiserisce la funzione del pm attraendolo fatalmente nell’orbita di influenza dell’esecutivo”. Se passasse l’ipotesi della discrezionalità dell’azione penale, invece, “verrà meno l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: il pm perseguirà in futuro solo i reati che gli indicherà la politica che ne controllerà anche l’operato”. La sintesi è tranciante: “Non vedo una riforma liberale, ma il desiderio di ammansire il potere giudiziario”. Del resto, questa è stata da subito la linea dell’Anm, che pure aveva sperato che il ministero cercasse un dialogo prima di arrivare a un testo da presentare in cdm. “Auspichiamo un confronto con il ministro sulla riforma della giustizia, almeno prima che diventi legge”, aveva detto il presidente Giuseppe Santalucia durante presentazione del congresso di Palermo. Invece il guardasigilli ha scelto di tirare dritto: prima la sua riforma passerà in cdm, poi eventualmente si confronterà con la magistratura associata. In questa stagione caldissima è passata in sordina, ma via Arenula ha tentato di tendere la mano alle toghe, annunciando anche un reclutamento straordinario, per cui a gennaio 2026 si arriverà alla saturazione della pianta organica, con 1.500 nuovi magistrati. Servirà la prova dei fatti - toghe e avvocati sono contrari a un reclutamento di giudici onorari da trasformare in togati - ma questa sarebbe la prima vera risposta del ministero a uno dei maggiori allarmi lanciati da tutti gli uffici giudiziari. Impossibile, però, che basti a stemperare il clima. L’Alta corte spaventa i magistrati ma è stata proposta anche dal Pd di Luca Fazzo Il Giornale, 6 maggio 2024 L’organismo destinato a sostituire il Csm nei procedimenti disciplinari è previsto pure in un progetto dei dem. E una possibile convergenza destra-sinistra farebbe saltare il referendum. Pochi giorni: due, forse tre. Uno sprint finale per mettere a punto il testo finale del disegno di legge costituzionale sulla Giustizia deciso venerdì scorso dal governo, e poi da lì affrontare “a schiacciasassi” il lungo percorso per la sua approvazione, compreso il probabile referendum. È questo il cronoprogramma imposto da Giorgia Meloni anche per mettere fine alle voci incontrollate e spesso imprecise sui punti chiave del provvedimento: dalla separazione delle carriere tra giudici e pm, alla obbligatorietà dell’azione penale, per finire con la sottrazione al Consiglio superiore della magistratura delle funzioni disciplinare a carico delle toghe, esercitate in questi anni in modo che un ex Csm come Antonio Leone, nell’intervista qua sotto, non esita a definire “ridicolo”. Proprio il tema delle sanzioni ai magistrati che sbagliano è destinato (più ancora della separazione delle carriere, questione-feticcio già depotenziata in sostanza dalla riforma Cartabia) a segnare lo scontro con l’Associazione nazionale magistrati. E proprio su questo punto il governo sembra avere le idee particolarmente chiare: non solo sul trasferimento delle competenze ad una Alta corte esterna al Csm ma anche sulle modalità di composizione di tale Corte. Il progetto prevedrebbe (il condizionale è d’obbligo) il sorteggio dei suoi componenti all’interno di “panieri” predefiniti, composti da magistrati anche a riposo, docenti universitari di materie giuridiche e avvocati con decenni di professione alle spalle; il criterio del sorteggio toglierebbe all’Anm qualunque potere di controllo e di lottizzazione della componente togata della Corte. Lo scambio di favori tra correnti per salvare i colleghi nei guai finirebbe in soffitta. Comprensibile, dunque, che l’Anm affili le armi. Il problema, per il sindacato delle toghe, è che su questo versante non dovrà misurarsi solo con il governo Meloni e con le forze centriste - Italia Viva e Azione! - che hanno già manifestato il loro appoggio all’idea. Anche il Partito democratico, che si è già dichiarato risolutamente contrario al resto del disegno di legge governativo (in particolare per quanto riguarda separazione delle carriere e sdoppiamento del Csm) ha invece aperto la porta alla creazione dell’Alta corte disciplinare per giudicare i magistrati. Anzi, ieri il Pd rivendica addirittura la primogenitura del progetto, contenuto in un disegno di legge della senatrice Anna Rossomando, depositato in Parlamento nell’ottobre 2021 e ripresentato nell’ottobre 2022. É il testo che prevede esplicitamente la norma invisa ai magistrati: a giudicare i giudici che sbagliano non deve più essere il Csm ma l’Alta corte. Infatti poco dopo il suo deposito il progetto venne attaccato frontalmente sulla rivista di Magistratura democratica, con un articolo in cui (pur dando atto che “il giudizio disciplinare sia svolto da colleghi degli incolpati ammanta quel giudizio di una patina di opacità”) accusava la Rossomando di voler “amputare una funzione essenziale” del Csm. Certo, il progetto dem e quello del governo Meloni divergono - se le voci risulteranno corrette - su un tema rilevante, le modalità di elezione della nuova Alta corte. Nel progetto Rossomando non si parla di sorteggio, i quindici giudici verrebbero scelti (un terzo a testa) dal Presidente della Repubblica, dal Parlamento e dalle “supreme magistrature”. É possibile una convergenza col progetto governativo? “Al sorteggio noi siamo assolutamente contrari”, fa sapere ieri la senatrice dem. Ma resta il fatto che sull’obiettivo finale, la creazione dell’Alta Corte, la maggioranza e il principale partito di opposizione sono d’accordo. Se si superasse lo scoglio delle modalità di elezione, un’intesa bipartisan farebbe approvare la riforma con oltre i due terzi del Parlamento. “Oggi sanzioni ridicole o tenute nascoste. Un organismo serio tenga fuori le toghe” di Luca Fazzo Il Giornale, 6 maggio 2024 Parla l’ex consigliere, per anni alla sezione Disciplinare, e smaschera le ipocrisie dell’attuale sistema di controllo delle toghe: “Buffetti e segreti, la prassi è l’indulgenza”. “Se si fa un’Alta corte per giudicare i magistrati - dice Antonio Leone - la si faccia bene, con un intervento alla radice, lasciando fuori i magistrati medesimi: se no si continuerà come sempre a fare le cose in famiglia, e a decidere le sorti di chi ha fatto una porcheria continuerà a essere il collega della porta accanto. L’immagine che si continuerà a mandare al Paese sarà quello di una categoria che non vuole rendere conto che a se stessa, e che utilizza lo schermo dell’indipendenza per garantirsi l’immunità e l’impunità”. Leone la faccenda la conosce bene perché per quattro anni, dal 2014 al 2018, ha fatto parte del Consiglio superiore della magistratura come membro laico. Faceva parte anche della sezione disciplinare, e spesso - in assenza del vicepresidente Legnini - ne dirigeva le sedute: “L’ottanta per cento del totale, a occhio”. Nei quattro anni gliene sono passate davanti di i tutti i colori, ha “processato” magistrati lazzaroni, arroganti, mezzi matti, toccando con mano come il Csm svolge la funzione disciplinare che gli assegna la Costituzione. L’associazione nazionale magistrati dice che la sezione disciplinare lavora benissimo, e che l’Alta Corte è inutile e pericolosa... “Credo che il primo a parlare di Alta Corte sia stato Luciano Violante, che è un ex magistrato... Comunque vuole sapere come funziona la disciplinare? Ci sono sei componenti, quattro sono magistrati, due sono laici eletti dal Parlamento: quindi i magistrati hanno sempre la maggioranza assoluta”. La conseguenza qual è? “Un eccesso di buonismo verso le violazioni di ogni genere commesse sia sul lavoro che nella vita privata. Io penso che un magistrato, per la veste e la funzione che ricopre, debba essere giudicato più severamente di un qualunque cittadino, perché ha doveri di probità maggiori. Invece lì accade il contrario, la prassi costante è l’indulgenza. Quando arrivano le sanzioni sono ridicole, la punizione non ha nulla a che fare con la violazione, arrivano buffetti come la censura che non incidono né sulla carriera né sulla considerazione, perché non vengono resi noti. Se lei prova a chiedere al Csm il nome di un magistrato punito perché trovato nei bagni pubblici a fare cose strane va a sbattere contro una specie di segreto di Stato”. Spostare la competenza disciplinare a un’Alta Corte cambierebbe le cose? “Dipende da come si nomina questa Corte, da che competenze ha... Le notizie circolate in questi giorni sono assai vaghe, si parla di un carrozzone che avrebbe competenza su tutte le magistrature, che si occuperebbe anche dei ricorsi contro le nomine dei capi degli uffici giudiziari. Invece servirebbe una Alta Corte snella, composta da avvocati e docenti universitari che si dedicano unicamente alla valutazione disciplinare dei magistrati. E servirebbe una nuova legge che indichi in modo efficace gli illeciti disciplinari di cui un magistrato può essere chiamato a rispondere. Oggi un magistrato se ne combina qualcuna che è chiaramente una colpa grave ma non è indicata per filo e per segno nell’elenco riesce a farla franca”. “Difendere giustizia e informazione dall’assalto del governo. Indipendenza a rischio” di Liana Milella La Repubblica, 6 maggio 2024 Intervista al presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Presidente Santalucia ha avuto news da Nordio? “Finora ho ricevuto solo il preannuncio di una chiamata”. Insisterà per sentirlo? “Abbiamo sempre detto che chiediamo di essere ascoltati per un confronto. Mai necessario come quando in ballo c’è una riforma costituzionale”. Come si spiega il suo no per Palermo? “Il nostro invito resta fermo perché il congresso è la sede ottimale per il confronto che vorremmo”. Lui ha paura dei fischi? “Il dissenso dei magistrati deve darlo per scontato. Perché conosce bene la contrarietà storica e unanime di tutta l’Anm alla separazione delle carriere e alla complessiva revisione costituzionale annunciata”. Gli hanno ordinato dall’alto di non esserci per delegittimare l’Anm? “Non penso, anche perché la premier, da noi invitata, ha delegato il vice ministro della Giustizia Sisto”. Sisto non vale Meloni e Nordio. “Per noi è il delegato del governo”. Ci saranno Schlein e Conte. Finirà come con Crosetto che accusò Area di essere un covo di comunisti? “È impossibile. L’Anm ha invitato tutti i segretari e responsabili Giustizia dei partiti”. E che adesioni ha avuto? “Enrico Costa di Azione ha detto che verrà”. Solo lui finora? Proprio il padre del “bavaglio ai giornalisti”? State facendo anche voi la fine della stampa a cui questo governo cerca in ogni modo di chiudere la bocca? “Il malessere e la protesta dei giornalisti italiani meritano grande considerazione perché sono la spia del disagio che oggi avvertono gli organi di garanzia. C’è il pericolo di uno squilibrio che va a tutti i costi evitato ritornando a riflettere con maggiore forza sull’attuale assetto costituzionale”. La Carta è garante della libertà d’informazione e del pari della vostra indipendenza. Sarà per questo che stiamo rischiando di perderla sia noi che voi? “Libertà di stampa e indipendenza della magistratura fanno parte dell’architrave che sorregge la nostra Repubblica e quindi devono essere considerati da tutti un bene prezioso”. Ma proprio parlando di Costituzione è vero che c’è una fronda “separazionista” di Magistratura indipendente? “Lo escludo nettamente perché la nostra posizione su questi temi è davvero unanime”. Esclude pure un richiamo da Chigi del potente Mantovano, ex toga di Mi? “Certo che sì, lo escludo”. Mattarella c’è. Parlerà? “Il presidente ci onorerà della sua presenza, ma com’è sempre avvenuto si limiterà ad ascoltare la relazione introduttiva. Va da sé che il suo è un segno di grande attenzione di cui siamo riconoscenti”. Perché giusto ora il ddl costituzionale? “Sapevamo già che prima o poi il governo lo avrebbe presentato. Io stesso, con il segretario Salvatore Casciaro e la vicepresidente Alessandra Maddalena, sentiti dalla commissione Affari costituzionali della Camera abbiamo espresso la nostra netta contrarietà. Ragioni, sia chiaro, tutt’altro che corporative”. La riforma serve per il voto europeo visto che il vostro gradimento nel Paese è sotto il 40%? “Un dato tutto da dimostrare, ma al netto di questo non so cosa ci sia dietro l’agenda del governo. Per certo una riforma costituzionale di tale portata non può mai dipendere da percentuali di gradimento”. Ai tempi del “resistere resistere resistere” di Borrelli queste stesse riforme erano solo annunciate. Ora sono alle viste. Allora fu sciopero. Adesso? “La magistratura parlerà nel suo congresso, e sono certo che lo farà con un’unica voce. Non esiste ancora un testo. Solo su quello valuteremo gli ulteriori passi da fare”. Avete ingoiato senza urla anche i test ai magistrati. “Non siamo affatto inerti. Con l’università Statale di Milano stiamo organizzando una giornata di studio con la presenza di psicologi e costituzionalisti per fare il lavoro istruttorio che né il governo, né le commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno ritenuto di fare. Manderemo il resoconto a Nordio e al Parlamento”. Carriere separate. Che ci guadagna il cittadino italiano? “Nulla. Perderà la garanzia di effettiva indipendenza della magistratura nel suo complesso”. Nel testo discusso a palazzo Chigi venerdì scorso non c’era la discrezionalità dell’azione penale. Meloni teme che gli italiani ci vedrebbero una misura proteggi casta? “Non ho bozze, ma già la separazione delle carriere è un passo che va in quella direzione. Se poi, come dice Sisto, il pm manterrà la sua indipendenza, mi chiedo quale sia allora il senso della riforma se tutto resterà come oggi? Non basta lasciare la Costituzione com’è?”. Ci sono le due future vite di pm e giudici, e il Csm ridotto in pezzi. “Purtroppo è così. Se il progetto è questo ridimensionerà il potere giudiziario”. È quello che vogliono. “Spero che alla fine la riforma sarà valutata con freddezza, serenità e razionalità, come tutti gli italiani, e non soltanto i magistrati, meritano”. Nordio cita sempre Vassalli “eroe della Resistenza”. Ma allora lui che ci fa in questo governo? “Proprio pensando ai tanti eroi della Resistenza io, come tutti i magistrati, manteniamo un radicato conservatorismo costituzionale”. Campania. Il Garante dei detenuti Ciambriello presenta la relazione annuale 2023 ottopagine.it, 6 maggio 2024 “Fotografia impietosa: questi numeri devono spingere a rendere il carcere più umano”. L’8 maggio 2024, ore 10.30, presso il Consiglio regionale della Campania - Isola F13 del Centro direzionale di Napoli (Aula “G. Siani”), si terrà la presentazione della “Relazione annuale 2023”, elaborata dal Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello, in collaborazione con l’Osservatorio regionale sulla vita detentiva. Interverranno il Presidente del Consiglio regionale della Campania on. Gennaro Oliviero, la Presidente del Tribunale di Sorveglianza dott.ssa Patrizia Mirra e il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà Prof. Felice Maurizio D’Ettore. Così il Garante Ciambriello: “Il carcere oggi in Italia è una fotografia impietosa: sovraffollamento, presenza di detenuti con doppia diagnosi, assenza di psichiatri e psicologi, tasso di suicidi 20 volte superiore a quello delle persone libere. Le incertezze e le resistenze al cambiamento inducono il nostro sistema penitenziario a dover affrontare diverse e forti criticità. I numeri sul carcere devono servire non solo a prendere consapevolezza delle condizioni in cui versano questi luoghi di privazione della libertà personale, ma anche ad aiutarci a renderlo più umano, dignitoso e costituzionale”. Milano. Violenze al Beccaria, la denuncia di una dottoressa ha fatto partire le indagini di Sandro De Riccardis e Rosario Di Raimondo La Repubblica, 6 maggio 2024 “Il ragazzo picchiato da più agenti”. La segnalazione fatta nel novembre 2022. La procura va avanti con le indagini: saranno sentiti altri 8 detenuti. La “segnalazione” è del 22 novembre 2022. Poche righe che aprono uno squarcio. Le firma una dottoressa in servizio al Beccaria che il giorno prima ha visitato un detenuto minorenne. “Il minore presentava un vistoso ematoma sulla spalla destra, ecchimosi sul lato destro del collo e riferiva che era stato aggredito da più agenti di polizia penitenziaria - scrive -. Il paziente mi ha poi mostrato la mano destra livida riferendo che gli era stata ripetutamente pestata”. La lettera viene inviata alla procura ordinaria e a quella per i minorenni, oltre che ai vertici dell’azienda sanitaria Santi Paolo e Carlo. Meno di due anni dopo, la storia di quel ragazzo finisce tra le pagine dell’ordinanza sul “sistema” di violenze ipotizzato dalle indagini sul carcere, così come quella segnalazione è agli atti dell’inchiesta. Dopo gli arresti e le sospensioni di 23 agenti, il Dipartimento per la giustizia minorile, guidato dal magistrato Antonio Sangermano, manderà già questa settimana un rinforzo di 47 nuovi agenti per “ripristinare legalità e dignità umana”. E oggi si insedierà anche il nuovo comandante della penitenziaria, Daniele Alborghetti, finora vicecomandante a Bollate. Sulla situazione al carcere minorile, la segnalazione della dottoressa non è stata l’unica. Perché molti mesi prima degli arresti e delle sospensioni dei poliziotti, accusati a vario titolo di lesioni, maltrattamenti, tortura e falso (oltre a un caso di violenza sessuale sul quale la gip ha chiesto ai pm di chiarire dubbi sulla ricostruzione dei fatti), un’altra segnalazione smuove le acque dell’istituto penitenziario. È quella che l’ex consigliere comunale David Gentili invia il 22 febbraio 2023 al garante dei detenuti del Comune di Milano, Francesco Maisto. Si parla di episodi “che testimoniano l’emergere di un clima di forte intimidazione e violenza all’interno delle mura dell’IPM”. Nella mail vengono elencati cinque casi: quello del detenuto minorenne già segnalato dalla dottoressa; la storia di un detenuto che ha subito un “pestaggio” degli agenti e quella di un altro ragazzo che dopo le botte ha denunciato le divise (entrambe le vittime sono citate nell’ordinanza). E ancora, si parla di un giovane che ha subito “vessazioni e torture dai compagni di cella”, e di un altro che è stato violentato sempre dagli altri detenuti. Tasselli che compongono un mosaico di violenze e soprusi sui quali hanno indagato le pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena, con la procuratrice aggiunta Letizia Mannella. L’inchiesta non è finita. Comincia anzi una settimana importante. Da un lato, a partire da questi giorni verranno sentiti almeno otto giovani detenuti del Beccaria: le loro storie verranno ascoltate per ricostruire altri presunti episodi di violenza. Domani, invece, davanti al Tribunale del Riesame si terranno due udienze per altrettanti agenti finiti in carcere. Diversi poliziotti che si sono difesi davanti alla giudice Stefania Donadeo hanno parlato di interventi “contenitivi”, della necessità di difendersi dalla reazione dei detenuti, del clima lavorativo difficile in carcere tra mancanza di formazione e buchi di organico. Uno di loro - tra quelli che hanno ottenuto gli arresti domiciliari - ha detto di aver lavorato al Beccaria dal 16 agosto del 2021 all’8 luglio del 2023, e che da quest’ultima data “faccio l’autista presso la presidenza del Consiglio dei ministri”. Parlando di un episodio di violenza nei confronti di un detenuto, ha messo a verbale: “Abbiamo fumato, l’ho rimproverato e ho alzato la voce. Lui è venuto faccia a faccia dicendomi come mi permetto, d’istinto l’ho allontanato con la mano, lui ha cominciato a inveirmi contro. Tre colleghi si sono messi davanti a me a bloccarlo, io l’ho preso per il collo, l’ho messo a terra e l’ho immobilizzato. L’ho solo bloccato con la forza ma non l’ho picchiato”. Milano. Carcere Beccaria, arrivano 47 nuovi agenti. Concorsi per assumere educatori di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 6 maggio 2024 Il provvedimento del Dipartimento per la Giustizia Minorile guidato da Antonio Sangermano. Obiettivo potenziare anche la presenza anche di mediatori sociali e funzionari specializzati. I 47 agenti della polizia penitenziaria che da questa settimana arriveranno al Beccaria saranno solo uno degli interventi previsti dopo l’arresto di 13 guardie e la sospensione dal servizio di altre 8 per le presunte violenze sui minorenni ospiti del carcere. Nei progetti del Dipartimento per la Giustizia Minorile ci sono anche altre iniziative. La funzione del carcere è quella di recuperare i detenuti aiutandoli a reinserirsi nella società una volta scontata la pena, come impone la Costituzione. Per rilanciare questa finalità rieducativa, estremamente delicata e complessa per i minorenni, da tempo il dipartimento guidato da Antonio Sangermano segue la strada del potenziamento della presenza di educatori, mediatori sociali e funzionari specializzati, per assumere i quali sono già in svolgimento i concorsi. Negli ultimi anni il mondo delle carceri minorili è profondamente cambiato, principalmente per l’aumento costante della presenza di ragazzi che hanno commesso delitti dopo essere arrivati illegalmente in Italia dalle coste del Mediterraneo senza una famiglia. Al Beccaria raggiungono addirittura il 90 per cento dei detenuti contro una media nazionale che si attesta al 44. Come hanno dimostrato le indagini sul Beccaria, questo crea enormi problemi di relazione tra i ragazzi, che spesso hanno anche pesanti problemi di dipendenza, ed un personale penitenziario che sconta un grave deficit di preparazione specifica da quanto, nel 2018, sono stati aboliti i corsi di formazione professionale. Per superare il gap, il Dipartimento per la Giustizia Minorile studia corsi mirati su ciascun carcere. Non avendo una famiglia, i minorenni non accompagnati più difficilmente scontano la pena all’esterno. Un’opportunità in più potranno averla dalle tre comunità socio educative che saranno realizzate dalla Regione in collaborazione con il Dipartimento. Con l’arrivo dei 47 nuovi agenti (25 dall’ Uepe, il resto in applicazione) lasceranno il Beccaria i 15 inviati dal Dipartimento per tamponare la situazione dopo gli arresti. Alessandria. Il progetto in carcere e a scuola sugli ex boss che ora sono i collaboratori di giustizia di Teresa Cioffi Corriere della Sera, 6 maggio 2024 Il lavoro dell’associazione che segue diversi progetti nella Casa Circondariale di Alessandria. L’appuntamento al Salone del Libro con Barbara Stefanelli. “Io li chiamo Caini. Vivono una doppia reclusione. Si trovano dietro le sbarre e, allo stesso tempo, vengono emarginati dagli altri detenuti. Sono etichettati come infami. Ma i miei Caini ci tengono al fatto che i giovani non scelgano la via dell’illegalità. Tengono al fatto che certi errori non si ripetano”. I Caini di cui parla Giovanni Mercurio sono i collaboratori di giustizia. Ex capi mafia di ‘ndrangheta, cosa nostra, camorra che scontano la loro pena al San Michele di Alessandria. E che Giovanni Mercurio ha imparato a osservare, conoscere, ascoltare. “La prima volta che sono entrato nella sezione di massima sicurezza, dieci anni fa, mi sono reso conto che si trattava di persone che avevano bisogno di raccontare, di essere ascoltate. Per provare a dare un significato alla loro esperienza, dopo il male che avevano commesso”. Così sono iniziate le lezioni in carcere. Studio, arte, teatro. “Un collaboratore di giustizia ha imparato la Divina Commedia a memoria” dice Mercurio, che oggi è vicepresidente di ICS Ets. L’associazione segue diversi progetti nella Casa Circondariale di Alessandria, tra i quali si conta anche Almeno Uno, punta ad approfondire il tema sociale tramite una serie di lezioni, che ad aprile si sono svolte parallelamente in carcere e nelle classi dell’iis Eco di Alessandria. Infine, studenti e detenuti si sono incontrati al San Michele. Con loro anche Barbara Stefanelli, vicedirettrice del Corriere della Sera, direttrice di 7 e scrittrice, quest’anno “adottata” dall’associazione nell’ambito delle iniziative del Salone del Libro di Torino per il suo ultimo saggio “Love Harder: le ragazze iraniane camminano davanti a noi”. “Un momento di scambio che ha significato molto per tutti - dice Mercurio -. I collaboratori di giustizia sono in grado di raccontare le dinamiche reali della mafia. Quindi la ricorrenza, il contesto familiare, la questione dell’appartenenza e del potere. Possono spiegare ai ragazzi che le persone uccise sono baratri incolmabili. Tutto ciò è estremamente formativo per gli studenti. E per i detenuti, che possono fare del loro passato un mattone su cui costruire un futuro migliore per altri”. Se tutto ciò fa bene almeno ad una persona, studente o detenuto che sia, l’associazione ICS Ets ha raggiunto il suo obiettivo. Che, alla fine, è creare ricchezza, tramite uno sguardo che supera stereotipi e distanze. E il 13 maggio, la classe incontrerà nuovamente Barbara Stefanelli proprio al Salone, con la lettura di alcuni scritti dei collaboratori di giustizia. Uno scambio umano che appartiene a ogni iniziativa sul territorio (e non solo). Dal carcere all’accoglienza di minori non accompagnati, per i quali è stato aperto un centro a Molare, che ospita 22 ragazzi. L’associazione si occupa anche di accompagnare le donne che hanno subito violenza domestica in un cammino di ricostruzione della persona, dal supporto familiare alla ricerca del lavoro. Senza contare i progetti nel mondo: a maggio verrà inaugurata una scuola a Mitava, in Mozambico. Un istituto che accoglierà circa 800 ragazzi, tra elementari e medie. In Marocco è in corso la costruzione di un dormitorio per studenti, dopo la devastazione del terremoto di settembre. In Senegal è stato costruito un pozzo e due mulini, che oggi forniscono 4 villaggi. Tutto ciò è stato reso possibile grazie a enti finanziatori, ma anche ai fondi raccolti durante nelle edizioni di Stralessandria. La corsa benefica torna in città nel weekend di sabato 11 e domenica 12 maggio. “Anche quest’anno abbiamo un progetto da lanciare - conclude Giovanni Mercurio -. A dir la verità più locale. Vorremmo riqualificare 4 aree di Alessandria, zone che rappresentano luoghi di socialità. Anche in questo caso, il nostro focus è sempre lo stesso. Per ogni progetto si parte dalle persone, e dalle loro necessità”. Torino. Il carcere al Salone del Libro La Voce e il Tempo, 6 maggio 2024 La cultura, arte, lettura, studio sono una delle armi più “potenti” per abbattere la recidiva che nelle carceri della penisola sfiora il 70% perché i detenuti hanno scarse possibilità di formazione e avviamento al lavoro dietro le sbarre. Per questo motivo Papa Francesco - che in tutte le sue visite apostoliche dedica particolare attenzione ai ristretti - ha voluto che la sede del Padiglione della Santa Sede per la 60ª edizione della Biennale d’Arte di Venezia fosse allestita nel carcere femminile della Giudecca, prima tappa della sua visita in Laguna, domenica scorsa tra la commozione e la soddisfazione delle recluse che hanno contribuito alla realizzazione di alcune opere. Così al Salone del Libro di Torino, su iniziativa dei Garanti dei detenuti del Comune di Torino Monica Cristina Gallo e della Regione Bruno Mellano sono numerosi gli appuntamenti dedicati ai temi della detenzione perché, come è stato evidenziato giovedì 18 aprile nella giornata voluta dal Presidente Mattarella per fermare lo “stillicidio” dei suicidi in cella, è urgente che di carcere si parli nelle scuole, nei circoli letterali, nelle manifestazioni culturali per abbattere il pregiudizio e favorire il contatto “fuori e dentro” tra due umanità lontane ma che quando si incontrano possono arricchirsi reciprocamente. Ed ecco alcuni appuntamenti dedicati alla reclusione nei giorni del Salone. Nello spazio della Città di Torino e della città Metropolitana (Padiglione 1) giovedì 9 maggio dalle 10.30 alle 11.30 “L’altra libertà, voci dal carcere” con Davide Casalini e Gianni Oliva, presidente della Commissione legalità della Città di Torino. Alle 12 “La scuola come principale strumento di vita e di legalità” a partire dal libro “E-mail a una professoressa” di Giuseppe Giunti e Marina Lomunno (ed. Effatà): intervengono con gli autori Giuseppe Carro, direttore dell’Istituto penale minorile “Ferrante Aporti”, Monica Cristina Gallo, Franco Prina, referente del Polo Universitario per i detenuti del carcere Torinese “Lorusso e Cutugno”. Venerdì 10 alle 18, Sala Gialla Padiglione 4, don Claudio Burgio, cappellano del Carcere minorile Beccaria di Milano - dove nelle scorse settimane sono avvenuti incresciosi episodi di violenza di alcune guardie penitenziarie sui giovani ristretti - presenta il suo libro “Non vi guardo perché rischio di fidarmi: storie di cadute e di resurrezione in collaborazione” (ed. San Paolo). Sabato 11 alle 18.15 in Sala Rossa Daria Bignardi presenta il libro “Ogni prigione è un’isola” (Mondadori); alle 19.30 in sala Avorio “I miei condannati a morte” (Edizioni Messaggero): le vicende tragiche di giovani condannati a morte nel carcere Le Nuove di Torino durante l’occupazione nazista. Le lettere dei ragazzi si intrecciano al racconto del loro cappellano, il francescano Ruggero Cipolla. Lanciano (Ch). “Lettere d’amore dal carcere”, oggi la premiazione del concorso chietitoday.it, 6 maggio 2024 I lavori sono stati valutati da una commissione di professionisti e i risultati verranno resi noti durante lo spettacolo al teatro “Fenaroli”. Questa mattina (lunedì 6 maggio) alle 10 è in programma la cerimonia di premiazione della “XI” edizione del concorso nazionale Lettere d’Amore dal carcere, organizzato dalla direzione della casa circondariale di Lanciano e dall’associazione culturale “Nuova Gutemberg”, con il patrocinio del Comune di Lanciano. Il concorso è riservato ai detenuti negli istituti di pena italiani, ideato nel 2013, l’anno successivo è stato insignito dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di “Medaglia per alto valore sociale dell’iniziativa”. I lavori sono stati valutati da una commissione sinergica di professionisti e i risultati verranno resi noti durante lo spettacolo al teatro “Fenaroli” di Lanciano presentato da Carmine Marino. La manifestazione è stata ideata da Tonino Di Toro (ideatore e divulgatore del Concorso), con il supporto del direttore della casa circondariale di Lanciano Mario Silla, gli educatori e gli operatori della casa editrice. Durante la premiazione è previsto uno spaccato “Nuovi uomini liberi si raccontano” durante il quale verranno raccolte le testimonianze di tre ex detenuti che si sono reinseriti in società a vari livelli. Uno di loro, oggi, è un dirigente dell’associazione nazionale “Sbarre di Zucchero” e da detenuto aveva partecipato al concorso. Baby Gang, la parabola del “cattivo ragazzo” di Luigi Bolognini La Repubblica, 6 maggio 2024 La giustizia lo riporta in carcere ma le sue rime conquistano i fan. Il nuovo disco “L’angelo del male” debutta direttamente in vetta alle classifiche mentre lui rientra in cella per aver violato i domiciliari. Linus: “Ormai in certi mondi esisti solo se sei sopra le righe, così nessuno presta più attenzione alla qualità artistica”. Doveva essere il giorno del trionfo per Baby Gang: stasera gli spettatori avrebbero riempito fino al tutto esaurito il Forum di Assago, e ci sarebbero arrivati avendo ancora nelle orecchie il suo album “L’angelo del male”, che venerdì scorso è entrato in hit parade direttamente al primo posto. E invece ci si è messa di mezzo la magistratura e il trapper (vero nome Zaccaria Mohuib, italiano di genitori marocchini, residente prima a Lecco e poi a Sondrio) esattamente sette giorni fa si è visto annullare la detenzione ai domiciliari, col conseguente obbligo di tornare in carcere, a Busto Arsizio (e di rinviare al 14 dicembre il concerto al Forum). Motivo? Aver violato le prescrizioni a cui era sottoposto, facendo post sui social con foto con una pistola in pugno puntata verso l’obiettivo e il braccialetto elettronico in bella vista. Perché a neppure 23 anni ha già alle spalle un discreto elenco di incontri tempestosi con la giustizia, come tanti altri italiani di seconda generazione, alle prese con un’integrazione difficile. Da bambino, a Casablanca, si trova a vivere in un bilocale con sei tra fratelli e sorelle, a 11 anni scappa di casa, inizia ad assumere ansiolitici e hashish, a dedicarsi a furti e furtarelli. Così tanti che i giornalisti locali scrivono di una baby gang, due parole che diventano il suo soprannome prima di vita e poi di musica. Tornato in Italia, entra ed esce da prigioni minorili e case comunità, incontrando don Claudio Burgio - da qualche mese nuovo cappellano del carcere per giovani di Milano, il Cesare Beccaria, che lo instrada verso la musica. Di lì in poi trap e problemi giudiziari vanno di pari passo. Nel 2021 il disco d’esordio Delinquente, nel 2023 Innocente, e adesso L’Angelo del male, zeppo di collaborazioni illustri come Marracash, Guè, Fibra, Geolier, Gemitaiz e Madman, Jake La Furia, Sfera Ebbasta e Rocco Hunt. Un disco riuscito subito in due imprese, oltre a quella dell’esordio direttamente in vetta all’hit parade: sfrattare da lì la diva mondiale Taylor Swift e il suo The tortured poets department e fare 32 milioni di ascolti in streaming in una settimana. La discografia, molto compatta e omogenea nei suoni e nei temi, racconta una vita difficile, dura, anche violenta. Quanto al Codice Penale, a parte altri procedimenti ancora in corso al momento ha due condanne di primo grado sulle spalle: 4 anni e 10 mesi per rapina e 5 anni e 2 mesi per sparatoria. Per questi due processi era stato messo in carcere a Busto Arsizio a ottobre 2022 per restarci fino a febbraio 2023, poi era stato trasferito in una comunità di recupero e infine, da gennaio a lunedì scorso, ai domiciliari. In questi mesi da casa Baby Gang aveva però chiesto e ottenuto permessi dai giudici per terminare la lavorazione del disco e girare i videoclip, di cui l’immagine con la pistola era un fotogramma. “Ma ci sono due dettagli che cambiano tutto - dice il suo avvocato Niccolò Vecchioni - anzitutto sia l’arma che la marijuana che compaiono nell’immagine sono finte. Secondo, non è stato Zaccaria a fare quei post su Instagram, ma un collaboratore del suo staff, che aveva l’autorizzazione di parlargli. Quindi non c’è il reato e non c’è il reo”. Col paradosso, tra l’altro, che ad annunciare il ritorno in carcere è stato il suo profilo ufficiale di Instagram, gestito dal suo team. Baby Gang nell’ultimo periodo si era detto cambiato coi giudici della sezione autonoma misure di prevenzione: “Non ho mai sgarrato una prescrizione, ho fatto volontariato e non ho sbagliato nulla, solo le persone che ho frequentato in passato. Pesa il mio nome, Baby Gang. La vittima sono io, arrivo da una situazione non facile”. Aggiunge l’avvocato Vecchioni: “Il problema è l’eccessiva attenzione dei magistrati verso Zaccaria, che nasconde l’ostilità per i messaggi che lancia. Nessuno è obbligato, ovviamente, a concordare su quel che racconta e come lo racconta, ma questo non deve fare parte del giudizio su eventuali reati”. Qui forse si arriva al punto, che è poi un vecchio problema, quello del cattivo maestro. Accusa piombata sugli intellettuali, la tv, Internet, adesso la musica. La coincidenza tra la nuova detenzione e il primo posto in classifica è troppo ghiotta per non chiederselo: “Il problema - dice Linus, direttore di Radio Deejay - è che la musica è sia cattiva maestra che vittima, i ragazzi sono vittime di un cortocircuito mediatico figlio dei social, senza i quali Baby Gang non esisterebbe. Ormai in certi mondi esisti solo se sei sopra le righe, così nessuno presta più attenzione alla sua qualità artistica”. “E questo è un peccato - aggiunge Albertino, che nella radio del gruppo Gedi segue parecchio rap e trap - perché questo è un bel disco che stiamo passando molto. Nelle sue vicende non entro, però un personaggio pubblico spesso non si rende conto che i fan tendono a emularne i comportamenti”. “Non è la moneta a renderci cittadini europei: ora serve una vera e propria Unione dei diritti” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 6 maggio 2024 Il presidente Cnf Francesco Greco: “Lo sforzo che dobbiamo chiedere ai parlamentari UE è di agevolare una legislazione comunitaria il più uniforme possibile, nel rispetto dei singoli ordinamenti”. Il manifesto del Consiglio degli Ordini Forensi d’Europa (Ccbe) è una piattaforma per programmare gli interventi, in ambito comunitario, anche nella giustizia. “Questo documento offre un’occasione di confronto che va colta senza esitazioni”, evidenzia Francesco Greco, presidente del Consiglio nazionale forense. Presidente Greco, il “Manifesto del CCBE” è uno sprone per aprire in Europa una nuova fase nella giustizia? I cinque punti del manifesto sono condivisibili. Sarebbe opportuno che il Parlamento europeo li prenda in considerazione, impegnando gli eurodeputati e la prossima Commissione europea. L’Europa non può continuare ad essere solo un’unione monetaria. Io credo che l’Unione Europea debba diventare un’unione dei diritti. Diventeremo veramente cittadini europei quando si realizzerà un’unione dei diritti. Occorre senza dubbio che ci sia una presa di posizione del Parlamento europeo, mi ricollego al secondo punto del manifesto del CCBE, per fare in modo che il processo legislativo dell’Unione Europea sia guidato da standard che abbiano un impatto positivo sull’amministrazione e sulla giustizia. Rispetto agli altri punti del manifesto, aggiungo che hanno un valore importante in quanto possono aiutarci ad avvicinarci all’Europa al di là dell’euro. Dunque, europei a partire dai principi di diritto condivisi? L’unione dei diritti alla quale facevo cenno poco fa dovrebbe indurci ad ipotizzare principi comuni di diritto civile, ma anche di diritto penale. I principi di diritto penale, bene o male, sono più omogenei, perché la violazione della norma penale è sempre sanzionata. Ci può essere lo Stato che sanziona la violazione in una misura maggiore, che concede attenuanti rispetto ad un’altra realtà giuridica, ma alla fine c’è sempre la reazione dello Stato verso il cittadino che viola la legge penale. Nel diritto civile, il diritto che riguarda la gestione quotidiana delle nostre azioni, il nostro agire, i rapporti tra i cittadini, sono indispensabili alcuni interventi. In passato si è tentato di pensare a un diritto civile europeo, promosso dalle università. Un tentativo, che, però, non ha sortito esiti positivi. Credo che i tempi siano maturi per intervenire. Lo sforzo che dobbiamo chiedere ai parlamentari europei è quello di agevolare una legislazione comunitaria il più uniforme possibile, nel rispetto dei singoli ordinamenti, anche se il principio di sovranità, quando viene fatto un regolamento europeo, viene compresso. Lo stesso avviene da parte delle Corti sovranazionali. Oggi, rispetto a venti anni fa, quando si cominciava a parlare di diritto civile europeo, i tempi sono cambiati. Credo che il CCBE avrà la sensibilità per attivarsi in tal senso. In questo contesto di cambiamenti o cambiamenti auspicati occorre fare i conti con la presenza sempre maggiore dell’Intelligenza artificiale. Cosa ne pensa? Come ho ribadito in occasione del G7 delle avvocature, svoltosi a Roma a metà aprile, l’Intelligenza artificiale darà grandi benefici al genere umano, aumenterà sicuramente la qualità della vita di tutti noi. Nei campi tecnici e scientifici, e più in generale nel sapere, l’IA aprirà delle prospettive immense e nuove, che, forse, oggi non sono ancora del tutto immaginabili. Nel campo dei diritti, occorre prudenza. I diritti fanno parte del patrimonio di ogni cittadino. Non può essere una macchina, per quanto intelligente, per quanto sofisticata, per quanto evoluta, a stabilire se ad un cittadino si possa attribuire o meno un diritto. Parliamo appunto di una forma di intelligenza artificiale, che replica il precedente. Sotto certi versi questa forma di intelligenza potrebbe rivelarsi la tomba del diritto. Oltre a questo, occorre fare un’altra riflessione. A cosa si riferisce? Esiste la giurisprudenza con interpretazione analogica, con interpretazione estensiva. Esistono il diritto vivente e la giurisprudenza creativa. Si tratta di un patrimonio sul quale si basa il nostro lavoro, che consiste nel portare al giudice una serie di conoscenze tali da tracciare la strada per arrivare alla soluzione di un caso. Quando interviene una macchina che produce la fotocopia del caso precedente, a cosa servirà il diritto vivente? L’Italia ha fatto grandissimi passi in avanti proprio grazie al diritto vivente, grazie all’esperienza creativa in ambito giurisprudenziale. Pensiamo alla materia del danno biologico che non esisteva. Gli avvocati difendono i diritti delle persone e con essi le aspettative, i bisogni e, perché no, i sogni. Non possiamo dire che dentro un computer c’è la risposta ad ogni domanda di giustizia. In materia di IA c’è stato pure il recente intervento da palazzo Chigi. Nel disegno di legge deliberato dal governo l’articolo 14 prevede che l’Intelligenza artificiale possa essere utilizzata soltanto per organizzare e semplificare l’attività giudiziaria. Spetta al giudice scrivere le sentenze, che devono essere frutto del suo intelletto. Si tratta di un tema rilevante che apre sfide altrettanto rilevanti. La professione forense, ma, soprattutto, la formazione dei futuri giuristi andrebbe adeguata per stare al passo con i tempi? Oggi la carriera universitaria, ma anche l’attività di formazione dei tirocinanti è modellata su una replica dell’attuale cultura giuridica dei professionisti. Credo che occorra rimodellare la formazione universitaria, pensando a materie nuove. È assurdo che non ci sia nella nostra formazione la conoscenza delle lingue straniere. I corsi di laurea in giurisprudenza sono quasi identici a quelli che io e i miei coetanei abbiamo sostenuto quarant’anni fa. Occorre formare i giuristi pensando alla società del futuro. Su questo punto il Consiglio nazionale forense è molto attento, dato che lavoriamo sull’accesso alla professione e sulla formazione. Non si può più formare un giovane ancorati ad un modello ormai superato. Non ha senso. Occorre che ci siano delle discipline che prevedano lo scritto all’università e lo studio delle lingue. L’informatica giuridica non può limitarsi a fornire qualche nozione, a maggior ragione in questo momento in cui l’Intelligenza artificiale sta entrando nelle nostre vite e nel nostro lavoro. Ma badiamo bene, gli atti dobbiamo continuare a scriverli noi, così come i magistrati devono continuare a scrivere le sentenze e gli altri provvedimenti. Il Manifesto del CCBE sottolinea l’importanza della difesa dello Stato di diritto. Un tema che sta molto a cuore al Cnf... Proprio così. Il Consiglio nazionale forense è presente in tutti gli organismi internazionali per la verifica del rispetto dei diritti umani. Inviamo alcuni osservatori in giro per l’Europa e non solo per verificare che i colleghi avvocati non vedano compresse o negate le loro prerogative di difensori. I nostri osservatori verificano che siano rispettate le norme internazionali. Quello dei diritti umani è un tema sempre più importante, considerato che il mondo sta cambiando verso una direzione che comprime i diritti fondamentali della persona e noi avvocati non possiamo tollerare una situazione del genere. “Vigiliamo su democrazia diritti e libertà. Ecco il nostro Manifesto Ue” di Davide Varì Il Dubbio, 6 maggio 2024 Il Consiglio degli Ordini Forensi d’Europa (Ccbe) è la più grande organizzazione che raggruppa gli avvocati del “vecchio continente”. Rappresenta gli Ordini forensi di 46 Paesi e, attraverso di essi, oltre 1 milione di avvocati europei. Ha sede in Belgio, a Bruxelles, e il presidente è l’avvocato svizzero Pierre-Dominque Schupp. Lo abbiamo intervistato. L’Europa è la culla del diritto e dei diritti. Tuttavia, spesso assistiamo a crepe che possono mettere a rischio ciò che forse diamo per scontato: un sistema giudiziario equo, accessibile e indipendente. È questa la ragione del manifesto-appello che il CCBE ha rivolto alla politica alla vigilia delle elezioni europee? Ci sono molte ragioni per il Manifesto. Una di queste è certamente quella di sottolineare l’importanza di un sistema giudiziario equo, accessibile e indipendente, elementi spesso dati per scontati. Come evidenziato nel Manifesto del CCBE, dobbiamo lavorare con grande fermezza per preservare quanto è stato raggiunto in tutta l’Unione Europea. Il CCBE monitora costantemente e evidenzia i rischi che possono minare il sistema giudiziario e lo Stato di diritto. Ad esempio, nel suo contributo alla Relazione sullo Stato di diritto della Commissione europea per il 2024, il CCBE ha fornito una panoramica degli eventi che hanno avuto un impatto sulla tematica. Il contributo del CCBE è composto anche dai rapporti ricevuti dagli Ordini degli Avvocati nazionali e dalle Law Societies riguardanti sviluppi a livello di Stati membri, con un particolare focus su quelli che rappresentano un rischio e potenzialmente minano l’indipendenza degli avvocati, degli Ordini e l’accesso alla giustizia. Nel suo contributo, il CCBE evidenzia anche le preoccupazioni e le prassi che in differenti contesti rappresentano un attacco ai valori della professione legale e al funzionamento del sistema di giustizia stesso, tra cui la riservatezza delle comunicazioni avvocato-cliente, minacce o molestie fisiche agli avvocati, online o anche per vie giudiziarie, come anche normative e azioni politiche che hanno la possibilità di influenzare negativamente l’indipendenza degli Ordini e degli avvocati. Il CCBE continuerà a monitorare e a evidenziare questi rischi le loro potenziali conseguenze, e per questo motivo il nostro Manifesto richiama l’attenzione sulla necessità di essere vigili contro le minacce allo Stato di diritto. Desidero aggiungere che queste minacce non sono sempre immediatamente classificabili, ma spesso possono avere conseguenze pratiche di vasta portata, sia a livello dell’UE che nazionale. Inoltre, per sottolineare quanto sia importante il tema dello Stato di diritto per la nostra organizzazione, il CCBE ha recentemente creato una rete di punti di contatto nazionali responsabili del monitoraggio e della segnalazione di questioni interne rilevanti la tutela dello Stato di diritto, nonché di facilitare e rafforzare il coordinamento degli Ordini degli Avvocati nazionali e delle Law Societies per il contributo del CCBE alla Relazione annuale della Commissione sullo Stato di diritto. Crediamo che tale rete fornirà alle istituzioni dell’UE preziose informazioni sulle diverse situazioni nazionali che stanno accadendo sul piano interno. A livello europeo continueremo ad impegnarci con le istituzioni dell’Unione per tenere alta la guardia su questi problemi, e siamo molto grati alle istituzioni dell’UE per il loro impegno, supporto e comprensione di quanto accade in questo ambito. Anche in Europa, specialmente in alcuni Paesi, si ha l’impressione che la difesa dello Stato di diritto e delle tutele vengano vissute come una sorta di fastidio, un ostacolo al raggiungimento della verità processuale; allo stesso tempo l’avvocato viene spesso dipinto dai media come colui che lavora per frenare questo desiderio di verità, mentre sta solo difendendo i diritti di una parte. Questa narrazione rischia di indebolire il diritto alla difesa e la figura stessa dell’avvocato. Come si può arginare questa deriva? Il CCBE è fiducioso che la maggior parte delle persone comprenda il ruolo importante che svolge un avvocato. Ogni giorno, gli avvocati assistono i loro clienti in molte situazioni diverse e difficili, sia nella consulenza che nella rappresentanza in giudizio. Gli avvocati hanno il dovere di assistere i clienti anche in questioni che possono essere viste come impopolari. Indipendentemente dalle circostanze, un avvocato deve garantire che un cliente sia adeguatamente assistito, correttamente rappresentato e assicurargli che possa avere un processo equo. Tuttavia, ciò non è sempre apprezzato o compreso da tutti, poiché possono sorgere certe percezioni - che provengono dai media o da altre fonti - che presentano una visione erronea di ciò che fa un avvocato, del suo ruolo e, in definitiva, della sua funzione. Lo Stato di diritto e le tutele che concede la legge non dovrebbero mai essere visti come un fastidio o un ostacolo al raggiungimento della verità. Al contrario, è grazie a queste tutele che possiamo fare affidamento sul nostro sistema giudiziario e credere nei risultati che esso produce. Gli avvocati sono parte integrante di qualsiasi sistema giudiziario e sono attori chiave nell’amministrazione della giustizia. Abbiamo notato in vari contesti un aumento della mancanza di comprensione della necessità della difesa dei principi che derivano dallo Stato di diritto e siamo consapevoli che ci saranno pressioni da svariate fonti o reazioni a certi atteggiamenti. Tuttavia, ciò che rimarrà costante è l’impegno a consolidare il nostro ruolo nel difendere i diritti. È anche per questo motivo che, nell’ambito del diritto penale, ad esempio, abbiamo contribuito in modo molto attivo allo sviluppo di garanzie procedurali per persone indagate o anche solo sospettate nei diversi procedimenti, al fine di raggiungere standard minimi di tutela dei diritti in tutti gli Stati membri dell’UE su questioni quali, ad esempio, la presunzione di innocenza. A tal proposito, il nostro Manifesto fa espresso riferimento anche alla necessità di garantire che le tutele esistenti siano attuate in modo efficace, al fine di assicurare la protezione effettiva dei diritti fondamentali, come il diritto ad un processo equo, alla rappresentanza legale e alla stessa presunzione d’innocenza. Il CCBE continuerà ad impegnarsi per garantire che il ruolo e la funzione di un avvocato siano compresi; ma c’è la necessità che questa responsabilità sia assunta in modo più ampio e a diversi livelli della società, proprio per promuovere il ruolo e la funzione di un avvocato, contrastando qualsiasi rappresentazione distorta della professione. L’indipendenza della professione legale, l’accesso alla giustizia, l’equità del sistema giudiziario sono alcuni dei punti che caratterizzano il Manifesto del CCBE. La politica ascolterà le vostre richieste? Il CCBE ritiene che i politici, in larga parte, condividano l’importanza di una professione legale indipendente, dell’accesso alla giustizia e della necessità di un sistema giudiziario equo. Sarebbe una prospettiva preoccupante se si presumesse che questi principi non siano ritenuti importati dal livello politico. Tuttavia, il CCBE riconosce anche quanto facilmente questi principi possano subire interferenze qualora siano percepiti come una minaccia alle posizioni di alcuni politici o di determinate agende politiche. È per questo motivo che è necessaria un’applicazione coerente dello Stato di diritto, un’applicazione che non fluttui a seconda dei cambiamenti politici. Abbiamo notato anche che c’è una maggiore attenzione, comprensione e difesa della necessità di tutelare l’accesso alla giustizia e l’equità del sistema giudiziario quando si osservano sviluppi che in altri Paesi che minacciano o interferiscono con lo Stato di diritto. Nel Manifesto chiedete anche un sostegno per il patrocinio a spese dello Stato e l’assistenza legale alle persone che si trovano in posizione svantaggiata. Desidera parlarne? Certamente. Il CCBE ritiene che sia importante dedicare una parte specifica del nostro Manifesto a sottolineare che gli individui, compresi coloro con limitate risorse finanziarie, devono avere accesso facilitato e diretto alla giustizia. Senza un’assistenza legale adeguata e un accesso garantito dallo Stato a tale assistenza ci saranno individui svantaggiati nel navigare nel sistema legale. E sono spesso proprio coloro che sono più svantaggiati a necessitare di maggior protezione. Tuttavia, desidero aggiungere che il patrocinio a spese dello Stato non è sufficiente di per sé, ed è per questo che facciamo anche presente che il sistema giudiziario stesso ha bisogno di maggiori risorse a livello di strutture e di personale. Queste risorse sono necessarie per avere - e aspettarsi - il funzionamento efficiente dei tribunali, la risoluzione tempestiva delle controversie e l’amministrazione della giustizia nel complesso. Fondamentalmente, è necessario sia un sistema di patrocinio a spese dello Stato efficace e adeguatamente sostenuto, sia un sistema giudiziario dotato di risorse adeguate. Il futuro della professione legale, come molte altre professioni, dovrà confrontarsi inevitabilmente con l’intelligenza artificiale che può essere vista come un pericolo, ma anche come un’opportunità. Pensa che l’Europa debba promuovere la formazione degli avvocati per affrontare le sfide del sistema giudiziario del futuro? Il CCBE ritiene che la formazione in tutti gli ambiti del diritto sia essenziale, e la formazione in materia di intelligenza artificiale (IA) non rappresenta un’eccezione. La formazione sull’IA richiede, tuttavia, una riflessione attenta e la conoscenza dei potenziali rischi e benefici dei diversi strumenti e sistemi di IA, nonché una comprensione approfondita dei principi etici che sottendono al sistema giudiziario. Ritengo che sia d’interesse comune sapere che nel 2022 il CCBE ha prodotto una Guida sull’uso degli strumenti basati sull’intelligenza artificiale da parte degli avvocati e degli studi legali nell’UE (“Guide on the use of Artificial Intelligence-based tools by lawyers and law firms in the EU”). Questa guida mira a fornire informazioni su come gli avvocati potranno utilizzare le opportunità fornite dagli strumenti IA e come essi potrebbero aiutare i processi organizzativi anche dei piccoli studi. L’obiettivo è fornire agli avvocati un base per capire cosa possono e cosa non possono realisticamente aspettarsi da questi sistemi. Inoltre, due anni prima, nel 2020, il CCBE ha prodotto un documento dal titolo “Considerations on the legal aspects of Artificial Intelligence” (Considerazioni sugli aspetti legali dell’Intelligenza Artificiale). Questo documento ha indicato che con la crescita dell’IA e l’arrivo della legal tech, l’attività legale è diventata sempre più complessa proprio in ragione delle nuove problematiche legali sollevate dall’IA e dallo sviluppo di strumenti digitali altamente sofisticati, che gli avvocati devono capire e padroneggiare. Il documento ha anche evidenziato che l’impatto dell’IA sulla formazione degli avvocati non si limita alle competenze tecnologiche necessarie, poiché è molto importante sviluppare anche le pertinenti capacità soft e di performance strategica, come anche lo sviluppo delle capacità per comprendere meglio le esigenze dei clienti nell’uso di questi sistemi. Pertanto, la formazione dovrebbe essere utilizzata per estendere la competenza generale degli avvocati nella comprensione dell’ambiente tecnologico in cui probabilmente lavoreranno, mantenendo il focus sui principi legati all’etica degli avvocati e alla protezione dei diritti umani. Più in dettaglio, il documento si riferisce all’auspicio a che siano adottati programmi e offerte di corsi di formazione che forniscano conoscenze e competenze pratiche e teoriche. Ciò al fine di consentire agli avvocati di comprendere ed essere in grado di utilizzare le tecnologie legali, tra cui l’IA, la blockchain, gli smart contracts (cd contratti intelligenti), i big data, gli strumenti di risoluzione delle controversie online (ODR), l’automazione, ecc. Pertanto, il CCBE è molto impegnato a contribuire a che la formazione sia sviluppata al livello appropriato e sulle tematiche più rilevanti e, in effetti, l’Unione Europea dovrebbe promuovere e sostenere lo sviluppo di uno strumento per la formazione degli avvocati al fine di affrontare il sistema giudiziario del futuro. Vorrei aggiungere che il CCBE è lieto di vedere che c’è anche una maggiore comprensione a livello di istituzioni europee del fatto che i giudici, i pubblici ministeri, il personale giudiziario e gli altri operatori della giustizia siano sufficientemente formati per essere in grado di cogliere i vantaggi dell’uso delle tecnologie digitali, compresa l’intelligenza artificiale, e anche per affrontare i rischi associati al loro uso e i requisiti etici in termini di comportamento. “Senza giustizia non c’è democrazia. L’Eurocamera ascolti la voce unita dell’avvocatura” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 6 maggio 2024 Daniela Giraudo è capodelegazione presso il Ccbe. La consigliera del Cnf ricorda la funzione sociale del difensore, quale “presidio indefettibile dello stato di diritto”. La recente iniziativa del CCBE ha un obiettivo molto preciso: porre all’attenzione dell’opinione pubblica dunque, non solo degli addetti ai lavori, ai giuristi - un tema fondamentale: il lavoro degli avvocati ha una rilevanza sociale. La difesa dei diritti si pone, soprattutto in questo periodo storico, come un baluardo della democrazia. Ne abbiamo parlato con l’avvocata Daniela Giraudo, consigliere Cnf e capo delegazione per l’avvocatura italiana presso il Consiglio degli Ordini Forensi d’Europa. “Credo - dice al Dubbio Daniela Giraudo - sia importante che il Manifesto trasmetta chiaramente l’immagine di un’avvocatura europea unita nel considerare il ruolo fondamentale della giustizia e dello Stato di diritto e, nondimeno, abbia fatto compiutamente propria quella posizione per cui il difensore non è caratterizzato da riflessi solo privati e personali, ma da una funzione sociale che lo pone quale primo ed indefettibile presidio di giustizia. Proveniamo da Paesi diversi, sistemi giuridici diversi, storie diverse e lingue diverse, ma siamo avvocati e vogliamo rammentare a tutti che i nostri principi sono e restano incrollabilmente gli stessi, speriamo quindi che siano condivisi e soprattutto ascoltati per le tante sfide, anche inedite, che questa Europa dovrà affrontare”. Avvocata Giraudo, il CCBE in occasione delle elezioni europee ha preparato un Manifesto per promuovere un sistema giudiziario equo in una Europa giusta. Una iniziativa che intende dare una scossa alla politica? Un’iniziativa che ho condiviso totalmente. Viviamo un’epoca di grandi chiaroscuri, di inenarrabili discrasie. Abbiamo avuto progressi scientifici eccezionali che potrebbero davvero migliorare il benessere su scala importante ma proseguiamo a doverci confrontare con dinamiche antiche, di guerra, discriminazione, gravi ingiustizie sociali. L’avvocatura, intesa come funzione di chi difende i diritti della persona e lo Stato di diritto, è stata da sempre protagonista in ogni epoca storica, pensiamo a Cicerone che difende le province siciliane dalle ruberie di Verre, pensiamo al Mahatma Gandhi, forse non tutti sanno che era un avvocato, per citare solo due esempi lontani nel tempo e geograficamente. L’avvocatura quindi deve continuare a vivere da protagonista e a tutelare con la sensibilità unica che la contraddistingue ogni cambiamento. Quindi che si unisca in una voce unica per ricordare a tutti coloro che competeranno nelle ormai prossime elezioni europee l’importanza di alcuni caposaldi per porre un focus su questi argomenti mi è parsa davvero una iniziativa importante per fare un robusto richiamo alla politica. Un’Europa giusta con sempre maggiore rilievo e dignità per gli avvocati? Non per gli avvocati, per la giustizia. Gli avvocati, i magistrati, ma anche i funzionari dell’amministrazione giudiziaria che svolgono un importante e indispensabile lavoro di backstage, gli ufficiali giudiziari, siamo tutti ingranaggi indispensabili per lo Stato di diritto, per un’adeguata amministrazione della giustizia. Senza giustizia non esiste democrazia, non esiste Stato di diritto. Senza un’avvocatura libera e indipendente non esiste un processo equo e dunque non esiste giustizia. Il Parlamento europeo non può non tenere conto del buon funzionamento della giustizia che implica positive ricadute anche in altri ambiti. Cosa ne pensa? Assolutamente sì, è una funzione essenziale perché ha ricadute quotidiane nella vita dei cittadini europei. Come persone, come famiglie, come settore produttivo. L’esistenza di un settore giustizia efficiente e performante è ritenuto da tutti uno degli snodi chiave per misurare l’efficienza di un Paese, lo abbiamo visto anche recentemente con il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ma per far funzionare in modo efficiente il settore occorre avere chiaro il concetto che è indispensabile investire: nelle persone e nella loro formazione, nell’edilizia - che siano tribunali o penitenziari. Giusto quindi ricordarlo sottolineandolo con vigore come è stato fatto nel Manifesto che lo pone in evidenza chiaramente chiedendo la previsione di risorse adeguate per il buon funzionamento del sistema giudiziario e del sistema di assistenza legale, oltre ad una formazione completa per gli operatori del diritto. Secondo lei, in riferimento anche al particolare periodo storico che stiamo vivendo, si discute abbastanza della piena realizzazione dello Stato di diritto? Domanda difficile. Veniamo, come ho detto, da millenni di pensiero filosofico e parrebbe che non ci sia più niente da indagare o dissertare ma solo da farne tesoro. Nei secoli siamo stati testimoni di tutte le forme di gestione dello Stato, anche le più distanti dalla democrazia: monarchie, dittature, rivoluzioni accompagnate da un’amministrazione della giustizia non particolarmente rispettosa del diritto di difesa. Si assiste però, quotidianamente, a pericolosi scivolamenti anche agevolati da nuove tecnologie rispetto alle quali puntiamo l’indice sui giovani quando, in realtà, i primi a doversi fare un esame di coscienza sarebbero proprio coloro i quali dovrebbero dare l’esempio. E a questo punto si impone un’altra riflessione. Dica pure... I tempi ormai frenetici e senza filtri con cui un pensiero, positivo o negativo che sia, oggi può essere veicolato, hanno, a mio parere, fatto perdere di vista la capacità di riflettere, anche sulle conseguenze che tali iniziative comportano e che possono comportare anche sui diritti e sulla giustizia, spesso divenendo pericolose generalizzazioni di casi particolari o peggio, banalizzazioni estreme. Se lo Stato di diritto deve essere inteso come quello che salvaguarda il rispetto dei diritti e delle libertà dei cittadini, in astratto, credo che esistano situazioni, a livello mondiale, in cui proseguono a verificarsi quotidianamente molte e gravissime violazioni di diritti fondamentali ad oggi irrisolte, ma anche nei Paesi in cui questo non accade esiste una quotidianità che porta alla amara riflessione che nulla è mai definitivamente raggiunto, pacificamente acquisito. La sensazione è che non se ne discuta mai abbastanza, talvolta forse rassegnati ad una certa impotenza, per questo è importante che il principio che il Manifesto pone per primo - “un’Europa che difenda lo stato di diritto, i diritti fondamentali e la democrazia, e che salvaguardi il ruolo di una professione legale indipendente nella difesa di questi valori” - venga ricordato a chi si candida per le elezioni europee. L’Europa con la sua storia può e deve essere protagonista in ogni scenario e lo deve fare ricordandosi che la nostra attuale situazione nasce da un percorso millenario di chi in questi principi ha creduto, combattuto e anche perso la vita. Stati Uniti. Studente italiano “torturato” dalla polizia. Le accuse della famiglia e le proteste di Tajani di Giulia Merlo Il Domani, 6 maggio 2024 Il giovane era in Florida come studente. È stato arrestato per resistenza a pubblico ufficiale. La madre: “Gli hanno tolto il sorriso e distrutto i sogni portandolo addirittura a tentare di togliersi la vita. È stato torturato”. Prima sbattuto con la faccia sull’asfalto e arrestato, poi portato in caserma e ammanettato a mani e piedi mentre viene tenuto schiacciato a terra per 13 minuti da quattro poliziotti. Il video dell’arresto a Miami dello studente italiano Matteo Falcinelli, 25 anni di Spoleto, è diventato un caso diplomatico. I fatti, resi noti solo in questi giorni con la pubblicazione del filmato ripreso con la bodycam da uno degli agenti, risalgono alla notte tra il 24 e il 25 febbraio scorso. Si vede il ragazzo fuori da una discoteca di Miami Beach che parla in modo concitato con gli agenti. È stato fatto uscire dal locale ma è agitato perché si è accorto di non avere con sè i due cellulari ma di averli lasciati all’interno e teme che qualcuno potesse rubarglieli o li utilizzasse per pagare. Il diverbio con gli agenti che gli dicono di allontanarsi degenera, Matteo viene ammanettato e un agente lo tiene fermo a terra premendogli un ginocchio sul collo. In quel momento il buttafuori del locale riconsegna i cellulari, ma il ragazzo italiano viene comunque portato alla stazione di polizia, incaprettato e tenuto a terra a faccia in giù per 13 minuti dagli agenti. Si sente mentre grida “Please” e dice che ha solo chiesto che i suoi diritti vengano rispettati. Il ragazzo, che frequenta un master alla Florida International University, ha passato due giorni chiuso in cella, fino a quando i compagni di università non riescono a pagare la cauzione di 2800 dollari e adesso il ragazzo non esce dal campus universitario. Le immagini dell’arresto sono state pubblicate in esclusiva su Quotidiano Nazionale e a divulgarle è stata la madre del giovane, Vlasta Studenicova. La famiglia, infatti, ha annunciato di voler procedere per le vie legali contro lo stato della Florida: “Quello che ha subìto mio figlio non dovrà succedere mai più, tantomeno a un ragazzo di 25 anni, studente all’estero. A Matteo, solare e pieno di vita, hanno tolto il sorriso e distrutto i sogni portandolo addirittura a tentare di togliersi la vita. È stato torturato”, ha detto la donna, spiegando che Matteo sta ancora molto male, è seguito da uno psichiatra. Dai fatti è passato più di un mese, ma la denuncia è stata fatta pubblicamente solo ora perché ora il processo è terminato, con l’ammissione del giovane ad un programma rieducativo in modo da far decadere i quattro capi di imputazione a suo carico: resistenza a pubblico ufficiale, opposizione all’arresto senza violenza e violazione di domicilio. Le reazioni diplomatiche - Una nota della Farnesina ha parlato di “trattamento detentivo particolarmente violento” e fatto sapere di “seguire il caso” e aver prestato “assistenza alla famiglia per gli aspetti legali”, inoltre “il console generale a Miami ha sottolineato con le autorità locali l’inaccettabilità dei trattamenti che il giovane ha subito. Oltre a intervenire con le autorità locali, ha prestato la necessaria assistenza al connazionale e ai familiari, anche fornendo contatti dell’ufficio legale, poi scelto dalla famiglia”. La Farnesina ha anche informato del caso l’ambasciatore Usa in Italia Jack Markell e lo stesso ministro degli Esteri, Antonio Tajani, gli ha sollecitato la massima attenzione. Madre e figlio rientreranno in Italia entro metà maggio per incontrare i magistrati italiani e scegliere come procedere. Poi rientreranno a Miami a inizio giugno, per portare avanti la loro battaglia, la donna infatti ha detto che il figlio “è stato torturato” e poteva morire e ha fatto sapere che non si fermerà “fino a quando non otterrò giustizia”. L’avvocato Francesco Maresca ha fatto sapere che la famiglia si rivolgerà alla procura di Roma, perché si occupi del caso e inviti i colleghi americani ad aprire un’inchiesta. Per ora la reazione dell’ambasciata americana è stata laconica: “Abbiamo visto i report, rimandiamo alle autorità italiane”, fanno sapere fonti diplomatiche. Secondo il difensore della famiglia, nel report che la polizia di Miami ha rilasciato, “non c’è una sola parola che corrisponda a quanto si vede nelle riprese”, di cui la vittima è entrata in possesso solo a metà aprile durante il processo. Il caso Forti - Tajani ha fatto sapere ieri che il governo segue la vicenda da ben due mesi e che sta garantendo assistenza alla famiglia del ragazzo. L’esecutivo di Giorgia Meloni e la premier hanno già incrociato lo stato della Florida per un’altra vicenda: quella del trentino Chico Forti, detenuto da 24 anni negli Stati Uniti per omicidio, di cui da poco è stata concessa l’estradizione proprio dal governatore della Florida. Proprio 11 marzo, Meloni ha pubblicato un video in cui ringrazia per la collaborazione lo stato della Florida. In quel momento di ringraziamento pubblico i fatti che hanno riguardato Matteo Falcinelli erano accaduti e la Farnesina, secondo le indicazioni di Tajani, era già al corrente. Intanto, l’opposizione con il Movimento 5 Stelle e il Pd ha chiesto che il ministro riferisca in aula sui fatti. Gran Bretagna. “Il Ruanda è un paese sicuro”: così verrà punito chi rifiuta di attuare la deportazione di Ines Tabusso Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2024 Nel novembre 2023 una sentenza della Corte Suprema del Regno Unito aveva ritenuto illegale il piano del governo di deportare in Ruanda i richiedenti asilo, di qualsiasi nazionalità, arrivati illegalmente in Gran Bretagna. La sentenza si concentrava sul principio giuridico di non respingimento, conosciuto a livello internazionale come non-refoulement: si tratta di un principio fondamentale del diritto internazionale che vieta al paese che riceve richiedenti asilo di rimandarli in un paese in cui sarebbero in probabile pericolo di essere perseguitati per “razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinione politica”. La sentenza stabiliva che, a questo riguardo, il Ruanda non si poteva considerare un “paese terzo sicuro” in cui inviare i richiedenti asilo. La Corte Suprema citava le prove che erano state presentate dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, prove che dimostravano che non esistevano basi solide per essere certi che il governo del Ruanda avrebbe rispettato i suoi obblighi internazionali. A parere della Corte non era sufficiente che il governo del Ruanda affermasse di volerli rispettare a fronte di tante prove che dimostravano il contrario. Il governo del primo ministro Rishi Sunak, ossessionato dalle barche dei trafficanti che scaricano immigrati irregolari sulle coste inglesi - quando non affondano prima di raggiungerle - preso atto della sentenza, si era immediatamente attivato per trovare una soluzione in vista delle imminenti elezioni e, dopo aver concluso un trattato con il governo ruandese, ha promosso una legge che è stata infine approvata dal Parlamento il 25 aprile scorso, nonostante fosse stata inutilmente criticata ed emendata dalla Camera dei Lord che, essendo nominati a vita, non si sentono minacciati dalle elezioni e possono ragionare in base a criteri diversi da quelli che guidano i membri della Camera dei Comuni. Si tratta del Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Act 2024, che impone di trattare in modo definitivo la Repubblica del Ruanda come un paese sicuro per i richiedenti asilo. È una legge che rende esecutivo il giudizio del Parlamento secondo cui la Repubblica del Ruanda è un paese sicuro, indipendentemente dal fatto che il Ruanda sia davvero un paese sicuro: (1 (1) (b) this Act gives effect to the judgement of Parliament that the Republic of Rwanda is a safe country). Da ciò deriva l’obbligo, per chi debba prendere decisioni correlate, di considerare la Repubblica del Ruanda come un paese sicuro: (2 (1) Every decision-maker must conclusively treat the Republic of Rwanda as a safe country). Per esempio, anche in presenza di prove inequivocabili che le persone deportate in Ruanda corrono un rischio di respingimento, i funzionari dell’immigrazione, nel decidere se trasferire un individuo in Ruanda, dovranno comunque considerare il Ruanda come un paese sicuro e i tribunali, a dispetto dei fatti, non saranno più in grado di fermare le deportazioni in base al fondato convincimento che il Ruanda non è un paese sicuro. Ora, sebbene il Parlamento sia sovrano e abbia il diritto di rispondere alla sentenza di un tribunale approvando una legge volta a modificare un punto del diritto interno, com’è possibile che possa utilizzare una legge per alterare la realtà adattandola ai propri fini? Sarebbe come se il Parlamento approvasse un provvedimento in cui si stabilisse che la Terra è ferma e il Sole le gira attorno e tutti dovessero adeguarsi. Un altro punto della legge, il punto 5, riguarda le “Interim measures” della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Rule 39 - interim measures - of the Rules of Court), cioè le misure urgenti e vincolanti adottate dalla Corte nell’ambito di procedimenti pendenti innanzi ad essa, allo scopo di evitare o prevenire il rischio imminente di un irreparabile danno ai diritti dell’individuo. Al comma 2 si afferma che solo ad un ministro della Corona spetta decidere se il Regno Unito dovrà rispettare la misura provvisoria (It is for a Minister of the Crown (and only a Minister of the Crown) to decide whether the United Kingdom will comply with the interim measure). Nel caso in cui il ministro decida di non rispettare un’indicazione contenuta nella misura urgente, non bloccando per esempio la deportazione di un immigrato irregolare in Ruanda; è però responsabilità dei dipendenti pubblici - che operano ai sensi del Codice della funzione pubblica - attuare quella decisione e il Codice della funzione pubblica afferma che i funzionari devono rispettare la legge, che include il diritto internazionale (tanto è vero che lo stesso Codice prevedeva che un funzionario, cui fosse stata notificata un’indicazione secondo la regola 39, dovesse senza indugi bloccare e rinviare una deportazione). Una qualsiasi istruzione ministeriale di ignorare un provvedimento della Corte Europea costituirebbe una violazione dei termini di servizio dei funzionari pubblici e il loro sindacato, la FDA, ha fatto notare che i dipendenti pubblici potrebbero potenzialmente essere perseguibili, se dessero seguito alla richiesta di un ministro di ignorare un’ingiunzione urgente della Corte di Strasburgo che vieta un’espulsione. La FDA ha già inviato una lettera di diffida a James Cleverly, il ministro degli Interni, esponendo le sue preoccupazioni in merito. Esiste poi anche un’altra difficoltà che riguarda gli aerei che dovrebbero trasportare in Ruanda i richiedenti asilo. Sunak dice di avere già prenotato aerei charter commerciali proprio a questo scopo, ma gli esperti delle Nazioni Unite hanno già avvertito le compagnie aeree che il trasporto di persone in Ruanda potrebbe renderle complici di violazioni dei diritti umani. In una dichiarazione congiunta, Siobhán Mullall, relatore speciale delle Nazioni Unite contro il traffico di esseri umani, Gehad Madi, relatore speciale per la tutela dei diritti dei migranti, Alice Jill Edwards, relatrice speciale sulla tortura, hanno ricordato che anche “le aziende sono obbligate a rispettare i diritti umani”. Arabia Saudita. La condanna a 11 anni di Manahel al-Otaibi segna il picco della repressione di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2024 Quando vengono sottoscritti accordi con governi autoritari, c’è sempre qualcuno che sostiene che saranno un’importante occasione per favorire sviluppi, riforme e cambiamenti nel campo dei diritti umani. Implacabilmente, le autorità dell’Arabia Saudita continuano a smentire questa tesi. Così, pochi giorni dopo aver concluso il negoziato per la sponsorizzazione, da parte della Aramco (l’ente nazionale per gli idrocarburi), dei mondiali di calcio maschili del 2026 e di quelli femminili del 2027, da Riad è arrivata una terribile notizia. Manahel al-Otaibi, istruttrice di fitness di 29 anni, è stata condannata a 11 anni di carcere per aver postato contenuti a sostegno dei diritti delle donne e aver pubblicato foto in cui era vestita “male”. La condanna è stata emessa, dal tribunale che tratta casi di terrorismo, il 9 gennaio ma è stata resa nota solo pochi giorni fa, in risposta a una richiesta di informazioni da parte delle Nazioni Unite. L’attivista è stata accusata di aver pubblicato online un appello per l’annullamento delle oppressive leggi sul tutore maschile e un video in cui indossava “abiti indecenti” e “andava in giro per negozi senza l’abaya” (l’abito tradizionale saudita). Anche sua sorella Fawzia è stata accusata di reati simili, ma è fuggita dall’Arabia Saudita per timore di essere arrestata dopo che, nel 2022, era stata convocata per un interrogatorio. La Rappresentanza permanente dell’Arabia Saudita a Ginevra ha cercato di raccontare un’altra storia: Manahel al-Otaibi sarebbe stata giudicata colpevole di “reati di terrorismo” ai sensi degli articoli 43 e 44 della legge antiterrorismo, che criminalizza “ogni persona che crea, avvia o utilizza un sito web o un programma su un computer o su un dispositivo elettronico (…) o pubblica informazioni sulla fabbricazione di ordigni incendiari, esplosivi o di qualsiasi altro dispositivo utilizzato per crimini terroristici”, nonché “ogni persona che, con qualsiasi mezzo, diffonde o pubblica notizie, dichiarazioni false, calunnie o simili per commettere crimini terroristici”. Ironicamente, Manahel al-Otaibi era stata una delle prime a credere nelle riforme strombazzate dal principe della Corona Mohammed bin Salman. In un’intervista tv del 2019 all’emittente tedesca Deutsche Welle aveva descritto i “cambiamenti radicali” in corso nel regno saudita, come le riforme del codice di abbigliamento, aggiungendo che si sentiva libera di esprimere le sue opinioni e di vestirsi come desiderava. Il suo arresto, il 16 novembre 2022, ha dimostrato come quelle riforme fossero mera propaganda. Dopo l’arresto, Manahel al-Otaibi ha subito violenze fisiche e psicologiche nel carcere di Malaz, nella capitale Riad, ed è stata vittima di sparizione forzata per cinque mesi, dal 5 novembre 2023 fino al mese scorso. Il 14 aprile, quando è finalmente riuscita a contattare di nuovo la sua famiglia, ha raccontato di trovarsi isolamento e di avere una gamba fratturata a causa delle violenze subite. Ha anche detto di non ricevere cure mediche. La condanna di al-Otaibi segna il picco di una campagna repressiva nei confronti della libertà di espressione in Arabia Saudita, sia online che offline. Negli ultimi due anni, i tribunali locali hanno condannato a lunghe pene detentive molte persone per aver espresso le loro opinioni sui social media, comprese diverse donne, fra le quali Salma al-Shehab (27 anni di carcere), Fatima al-Shawarbi (30 anni), Sukaynah al-Aithan (40 anni) e Nourah al-Qahtani (45 anni). *Portavoce di Amnesty International Italia La vera storia di Haiti, cavia e vittima degli esperimenti iper-liberisti occidentali e ora allo stremo di Mauro Del Corno Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2024 Haiti, 11 milioni di abitanti, occupa circa la metà d Hispaniola, isola che divide con Santo Domingo. Oggi è un paese in preda ad una rovinosa crisi ma è anche qualcosa di più. Incarna la storia paradigmatica di un piccolo stato che ha pagato a carissimo prezzo il tentativo di emanciparsi dalle grandi potenze. Prima nazione al mondo ad essere sorta dalla rivolta degli schiavi contro gli sfruttatori francesi, nel 1804. La Francia “punirà” l’affronto per decenni, poi subentreranno gli Usa. Dall’estero sono stati finanziati e sostenuti spregiudicati dittatori, in cambio di una sottomissione di Haiti agli interessi delle aziende occidentale. L’amministrazione Nixon appoggiò il dittatore Baby Doc (fuggì dal paese su un aereo Usa nel 1986 con un bottino di 500 milioni di dollari), in cambio dell’apertura del paese agli investimenti americani, il mantenimento dei salari su livelli tra i più bassi al mondo e la violenta repressione di qualsiasi attività sindacale. L’amministrazione Clinton pretese l’eliminazione delle tariffe sull’import di riso, aprendo il mercato ai produttori statunitensi. Giusto per citare due casi. Ora, anche per i postumi del terribile terremoto del 2010, il paese è nel baratro. A questa storia e a rendere giustizia al popolo di Haiti è dedicato il libro “Aid State”, scritto dal ricercatore del Center for Economic and Policy Research, Jake Johnson, che abbiamo intervistato. Nel titolo del tuo libro ci sono i termini “Stato di aiuti” e “capitalismo dei disastri”, perché usi queste due espressioni? “Aid State” si oppone alla narrazione di Haiti come uno “stato fallito”, che vediamo ripetuta più e più volte. Quel termine ha delle profonde connotazioni negative, in particolare crea l’impressione che ciò che sta accadendo sia tutta colpa di Haiti e che il Paese non sia in grado di governarsi da solo. La realtà, tuttavia, è molto più complessa. In effetti, potenti paesi stranieri, in particolare gli Stati Uniti, hanno svolto un ruolo enorme nel destabilizzare il paese. Lo stato haitiano di oggi, e il suo fallimento, hanno più a che fare con l’intervento straniero che con le azioni del popolo haitiano. Ciò a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni è una totale esternalizzazione dello Stato, in cui quasi l’80% dei servizi pubblici tradizionali come la sanità e l’istruzione sono nelle mani di attori non statali e dipendono fortemente da finanziamenti esterni. Non solo questo è stato inefficiente, ma ha anche spezzato il legame tra la popolazione e il suo governo: coloro che prendono decisioni per conto degli haitiani non sono in realtà responsabili nei confronti degli haitiani. Inoltre, insieme a tutti quegli aiuti, arrivarono riforme economiche che svuotarono ulteriormente lo stato e decimarono la produzione locale - e qui entriamo nella parte del titolo relativa al capitalismo dei disastri. In tempi di crisi, gli attori potenti la useranno come un’opportunità per spingere verso i cambiamenti che desideravano da sempre. E lo abbiamo visto più volte all’indomani del terremoto. Il progetto faro di ricostruzione, ad esempio, riguardava un parco industriale progettato da anni e costruito lontano dalla zona colpita dal terremoto. Ma non sono stati esternalizzati solo i servizi pubblici e lo sviluppo economico, ma anche il cuore stesso della democrazia: le elezioni. I voti ad Haiti sono finanziati dai donatori, i funzionari elettorali sono formati dai donatori, e poi quegli stessi donatori si girano e determinano la legittimità del voto. Insieme a molteplici colpi di stato e risultati elettorali ribaltati, tutto ciò alimenta la percezione che siano gli stranieri e i loro alleati nell’élite locale a scegliere i vincitori e i perdenti politici, non la popolazione. Non sorprende quindi che alle ultime elezioni l’affluenza alle urne sia stata pari solo al 18%. E poi ci sorprendiamo che un’elezione a cui la stragrande maggioranza non partecipa o non può partecipare non porti alla stabilità politica! Il ciclo deve finire. I paesi ricchi e potenti hanno spesso questo approccio nei confronti di quelli più deboli e poveri: chiedono un’apertura totale delle frontiere per favorire flussi di fattori produttivi utili e redditizi per le aziende con sede negli stati forti, mentre resistono alle richieste di reporità. Il caso di Haiti è emblematico in questo senso, quella che racconti è anche la storia di un Paese che ha subito grandi e ripetuti torti da parte di nazioni molto potenti. Ma perché questa accanimento verso una nazione che in fin dei conti è piccola e povera? Non possiamo iniziare a comprendere il presente se non guardiamo a cosa è accaduto nel passato. Quella di Haiti è nata da una rivolta vittoriosa degli schiavi, la prima repubblica nera indipendente, la prima ad abolire costituzionalmente la schiavitù. Haiti era vista come una minaccia dalle potenze imperiali del mondo, che facevano ancora affidamento sulla tratta degli schiavi per la loro ricchezza. Gli Stati Uniti hanno impiegato 60 anni per riconoscere Haiti. Tutto questo per dire che Haiti ha pagato a caro prezzo la sua indipendenza e la speranza che ha dato ai popoli oppressi di tutto il mondo. Naturalmente non si tratta solo di una rivoluzione avvenuta 220 anni fa. Gli Stati Uniti occuparono Haiti per 19 anni all’inizio del XX secolo non semplicemente per punire Haiti per la sua rivoluzione, ma a causa delle ambizioni imperiali degli Stati Uniti nell’emisfero. Gli Stati Uniti poi appoggiarono la brutale dittatura di Duvalier durante la Guerra Fredda come baluardo regionale contro il comunismo e Cuba. Tutto per dire che gli interessi e gli obiettivi delle potenze straniere sono cambiati nel tempo, ma alla fine, la politica nei confronti di Haiti raramente, se non mai, ha riguardato ciò che è nel migliore interesse di Haiti. Riguarda il controllo e gli interessi delle potenze imperiali. Un altro fattore importante è la connessione tra le potenze straniere e l’élite locale. È questa relazione che spiega la continuazione di una politica estera dannosa nei confronti di Haiti - che in definitiva risponde agli interessi di quella élite e non del popolo haitiano. Sebbene tutti conoscano Haiti come il paese più povero dell’emisfero occidentale, è anche il più disuguale. Tra le grandi aziende americane un ruolo importante lo ha avuto la Monsanto, può spiegarci il perché? La Monsanto ha donato sementi ibride all’indomani del terremoto, nell’ambito di un grande programma USAID per promuovere lo sviluppo agricolo. Ma è un caso che mostra i veri obiettivi finali che guidano l’assistenza estera degli Stati Uniti, ovvero l’apertura dei mercati per le merci statunitensi. Questa non è una cospirazione; ancora oggi si afferma apertamente sul loro sito web: “Promuoviamo la prosperità americana attraverso investimenti che espandono i mercati per le esportazioni statunitensi”. Nel 2021, il presidente Jovenel Moïse è stato assassinato. Oggi Haiti è in preda all’anarchia, il potere è nelle mani di bande criminali rivali. Quali sono le possibili vie d’uscita, se ce ne sono? Si aspetta un imminente intervento militare statunitense? L’assassinio non fu l’inizio della crisi di Haiti. Anche prima, il parlamento era diventato del tutto disfunzionale e Moïse governava per decreto senza controlli ed equilibri. Gruppi armati esistevano già e diffondevano il terrore da anni. È anche importante capire che l’anarchia, o la mancanza di presenza statale, non è anormale. In effetti, per la stragrande maggioranza degli haitiani, lo Stato è stato totalmente assente durante tutta la loro vita. Haiti rurale, i quartieri poveri della capitale… in queste zone praticamente non c’è mai stata una vera presenza statale nemmeno nei periodi migliori dell’isola. E questo aiuta a spiegare la situazione odierna. Questi gruppi armati si sono formati in assenza dello Stato. Detto ciò, come può fare Haiti ad uscire da questa situazione? Non sarà facile e non accadrà dall’oggi al domani. Fondamentalmente Haiti deve stabilire un contratto sociale tra lo Stato e la popolazione. L’unico modo per riuscirci è attraverso il dialogo nazionale, ascoltando coloro che sono stati a lungo esclusi dallo Stato. In molti modi, la rivoluzione del 1804 rimane incompiuta, in corso… ma finché i leader locali non saranno all’altezza degli ideali rivoluzionari che fondarono la nazione, questi cicli di instabilità continueranno sicuramente. La realtà è che lo status quo è intrinsecamente insostenibile e può essere mantenuto solo attraverso la forza - sia paramilitare, sotto forma di gruppi armati, sia attraverso l’intervento militare straniero. Questo è ciò che abbiamo ripetutamente visto in passato, un intervento militare straniero che finisce per consolidare lo status quo. È improbabile che gli Stati Uniti schierino le proprie truppe sul terreno su larga scala. Dal 2004 al 2017, migliaia di soldati stranieri sono stati di stanza ad Haiti nell’ambito di un’operazione di mantenimento della pace sotto l’egida delle Nazioni Unite. In particolare, furono le truppe statunitensi ad arrivare per prime ad Haiti nel 2004 per garantire il successo del colpo di stato… ma gli Stati Uniti volevano cedere rapidamente il potere a qualcun altro in modo che non fossero il volto dell’occupazione. Una dinamica simile si sta verificando ora, gli Stati Uniti hanno convinto il Kenya a guidare un possibile intervento di sicurezza - ma dietro il volto del Kenya ci saranno i finanziamenti e la logistica statunitensi. Gli Stati Uniti preferirebbero, se possibile, riuscire a mantenere il distanziamento pubblico pur rimanendo estremamente influenti dietro le quinte. Pensi che, come paese, Haiti avrebbe la capacità di reggersi con le proprie gambe? Gli sarà mai permesso di farlo? Il popolo haitiano ha già sorpreso il mondo in passato e non ho dubbi che potrà farlo ancora, con o senza il sostegno di potenze straniere. In definitiva, un Haiti indipendente e di successo dovrebbe essere nell’interesse di tutti, non solo degli haitiani. Ma, come abbiamo visto, le politiche nei confronti di Haiti raramente riguardano i migliori interessi di Haiti. Se si vuole che le potenze straniere siano parte della soluzione e non una barriera costante, saranno necessarie riforme serie a Washington, Bruxelles, Ottawa e altrove.