Giustizia, la volta buona della riforma? Carriere e Csm, il governo apre al confronto con le toghe di Francesco Malfetano Il Messaggero, 5 maggio 2024 A Bettino Craxi piaceva, eccome. I Radicali l’hanno sottoposta agli italiani con un referendum. Per Silvio Berlusconi era l’eredità che avrebbe voluto lasciare al Paese. E pure la Bicamerale di Massimo D’Alema l’aveva tra i suoi punti qualificanti. Quella della riforma della giustizia, e in particolare della separazione delle carriere dei pm, è una storia lunga più di trent’anni. Una strada lastricata dalle promesse dei governi che - dal riordino del processo penale in Italia del 1989 - si è interrotta ben prima di riuscire a dividere per sempre il magistrato che accusa da quello che giudica. Un lungo e affannoso viaggio intrapreso anche dal governo di Giorgia Meloni che, forte di un accordo politico in maggioranza, di un ex giudice come Carlo Nordio a via XX Settembre e di una parte dell’opposizione più o meno sulla stessa linea d’onda (Azione e Iv), sembra considerare la riforma dell’ordinamento giudiziario realmente realizzabile. Tenendo fede al programma elettorale di Forza Italia e soprattutto all’ambizione azzurra di farne bandiera verso il voto europeo, entro maggio infatti giurano che il testo approderà in Consiglio dei ministri sotto forma di Ddl costituzionale. E lo farà - ma è ancora da scrivere - affiancando all’istituzione di due Csm quella di un’Alta Corte che, con membri sorteggiati, si occuperà di giudicare sia i magistrati giudicanti che requirenti. Non si esclude neppure che alla fine possa essere portata avanti anche una riflessione sull’esercizio dell’azione penale e della sua discrezionalità con l’obiettivo di riformare l’articolo 112 della Costituzione - in cui è prevista l’obbligatorietà - e attuare pienamente il sistema accusatorio. L’equilibrio è però difficile da centrare. E Nordio resta alla ricerca della formula più adatta per provare ad aggirare le sabbie mobili in cui in passato si è trasformato il dibattito sulle porte girevoli tra giudici e pm. D’altro canto è stato proprio l’attuale guardasigilli, nel libro scritto con Giuliano Pisapia (“In attesa di giustizia”) nel 2010, a dettare la necessità di “dialogare in punta di fioretto” piuttosto che “entrare con la clava nella cristalleria”. Un approccio che, almeno in parte, parrebbe funzionare a leggere l’altalena delle dichiarazioni del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. Accanto ai più tradizionali strali (“È la riforma di chi ha in antipatia un singolo pm”), venerdì il magistrato ha auspicato “un confronto con il ministro Nordio sulla riforma della giustizia, almeno prima che diventi legge, per un contributo tecnico. Scelga lui se prima o dopo il Cdm”. Una piccola apertura che, sulla carta, sa di “volta buona” ma che nei fatti potrebbe preannunciare l’ennesimo scontro. Nel governo il dialogo è considerato benefico, a patto che non si trasformi nel tentativo di impallinare la riforma. Per questo, complice la momentanea assenza da Roma di Nordio per presiedere il G7 a Venezia, la strategia è quella di non correre troppo. Anzi. Si guarda con interesse alla prossima settimana: dal 10 al 12 maggio l’Associazione nazionale magistrati si riunirà in congresso, se gli attacchi arriveranno con forza “sarà il segno che una collaborazione non è possibile” spiega una fonte di vicina al dossier. Presto quindi per cantare vittoria. A spiegarlo è ad esempio Gian Domenico Caiazza, capolista alle Europee per la lista Stati Uniti d’Europa ed ex presidente dell’Unione camere penali. “L’annuncio del varo della riforma costituzionale della separazione delle carriere sarà, ad occhio e croce, il quindicesimo dall’inizio della legislatura” ha sottolineato. “Due sole domande. La prima: come mai non c’è ancora un testo scritto?” Seconda domanda: “si tratta di una riforma costituzionale”, come il premierato, “quando pensate di farla? Prima, dopo, contemporaneamente?”. Dubbi a cui si accoda una grossa fetta dell’opposizione “dialogante” con il governo sul punto. “La riforma della giustizia non si farà mai con questo governo - ha tuonato il leader di Iv Matteo Renzi - Il ministro Nordio è una persona perbene ma dopo due anni continua a fare chiacchiericcio, non abbiamo visto niente”. E di “scopo evidentemente dilatorio” parla pure il deputato di Azione Enrico Costa, sottolineando come da un anno e mezzo sia “pendente” alla Camera un testo base su cui sono state svolte “ben 35 audizioni di esperti, 14 sedute”, e rimarcando come ora si “dovrà ripartire daccapo”: “È un espediente per rallentare e cedere il passo al premierato”. Certo, ora sembra lontanissimo quel “resistere, resistere, resistere, come sulla linea del Piave” scandito nel 2022 all’apertura dell’anno giudiziario dal procuratore generale Francesco Saverio Borrelli, capo del pool di Mani Pulite. Ma il sospetto che anche questo tentativo possa finire immolato sull’altare dell’opportunità politica è legato alla storia stessa della riforma. Chissà se Berlusconi che nel 2000 boicottò il referendum dei Radicali (al grido “Resta a casa per mandarli a casa”) abbia mai avuto modo di pentirsi di averlo fatto con l’obiettivo di realizzarla una volta al governo. Tralasciando le lunghe discussioni post Tangentopoli, da lì in poi i buchi nell’acqua sono diventati una lunga sequenza. La “riforma Castelli” del 2002 inizia l’iter parlamentare anche per la separazione delle carriere, ma dopo lo stop del presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che la rinvia alle Camere a causa alcuni profili di incostituzionalità, esce da Montecitorio nel 2004 senza centrare l’obiettivo. Tre anni più tardi è la volta del governo Prodi e del ministro Clemente Mastella che riesce però solo ad inserire un limite di non più di quattro passaggi in carriera (e solo dopo aver svolto le stesse funzioni per 5 anni). Poi ancora la raccolta firme finita nel vuoto dei radicali nel 2013, la proposta di un ddl costituzionale dell’Unione camere penali italiane paralizzatosi tra il 2017 e il 2020. Fino al referendum anti-porte girevoli del 2022 lanciato da Lega e Radicali finito seppellito sotto al mancato raggiungimento del quorum. Anche per questo però, oggi è presto. C’è un accordo, è vero, ma manca un testo capace di reggere quattro letture in Parlamento ed un eventuale referendum Riforma della giustizia, l’Anm firma la tregua armata di Angela Stella L’Unità, 5 maggio 2024 Alla conferenza stampa in vista del congresso della prossima settimana, la magistratura abbassa i toni: “Speriamo di collaborare con Nordio”. Per adesso sarà tregua con il Governo. Poi si vedrà, qualora l’esecutivo e il Ministero della giustizia decidessero di andare dritti per la loro strada, senza sentire ragioni altrui, su separazione delle carriere, riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, Alta Corte per il disciplinare. È quanto emerso ieri nella conferenza stampa tenuta dall’Associazione Nazionale Magistrati per presentare il loro congresso che si terrà la prossima settimana a Palermo dal titolo “Magistratura e legge tra imparzialità e interpretazione”. “Auspichiamo un confronto con il ministro Nordio sulla riforma della Giustizia, almeno prima che diventi legge, per un contributo tecnico. Scelga lui se prima o dopo il Cdm”, ha detto infatti il presidente Giuseppe Santalucia in merito al ddl costituzionale che sta per essere licenziato. Sul fatto che molto probabilmente il ministro Nordio non sarà presente all’assemblea, nessuna polemica: “ci dispiace se non sarà presente” visto il suo impegno al G7 della giustizia tuttavia “saremmo felici se potesse venire in uno dei tre giorni”, ha risposto Santalucia ad una domanda su questo. Tra gli esponenti politici che parteciperanno: Giuseppe Conte (M5s) e la segreteria dem Elly Schlein. La premier Meloni ha invece delegato il viceministro Sisto. Il leader dell’Anm ha poi proseguito: “Vorremmo dissipare l’idea di una magistratura antagonista e tornare a ragionare sui temi della correttezza istituzionale. Non possiamo essere sottoposti a denigrazioni solo perché ad esempio una norma non era negli intendimenti di chi l’aveva scritta”. Il riferimento è il caso dei giudici attaccati dalla maggioranza per aver disapplicato il decreto Cutro, anche se poi “le Sezioni Unite hanno fatto emergere come tutto rientra nella normale attività interpretativa”, ha chiarito Santalucia. “Vogliamo dipanare gli equivoci per evitare che sulla magistratura si annidino dubbi di imparzialità e scorrettezza istituzionale”. Per Santalucia, “ridurre la quota dei magistrati togati e separare le carriere è una ristrutturazione dell’ordine giudiziario, funzionale al ridimensionamento del potere giudiziario. Noi non crediamo che questo sia condivisibile”. Ha preso poi la parola il segretario generale dell’Anm. Salvatore Casciaro: “Il cuore del congresso sarà il tema dell’indipendenza, che è un presidio per assicurare l’imparzialità”. “L’associazionismo è trasparenza, confronto tra i vari punti di vista che esistono all’interno della magistratura. I nostri Cdc vengono trasmessi su Radio Radicale e non nelle segrete stanze dei luoghi di potere. Se negli anni ci sono state cadute dovete però dare atto che la magistratura ha preso le distanze e reagito a un ‘modo malato’ di fare associazionismo. Ricordo che in qualche episodio non virtuoso c’erano anche politici oltre che magistrati, ma in quel caso non mi pare ci sia stata una severa critica da parte della politica”: ha detto così Italo Federici, componente della giunta dell’Anm, quando gli è stato chiesto di commentare quanto dichiarato il 25 aprile dal vice premier Matteo Salvini: “finché non ci sarà una magistratura seria e libera da correnti politiche, nessun italiano può dirsi tranquillo a casa sua”. “L’indipendenza della magistratura è l’unica garanzia per i cittadini. Oggi la diamo scontata ma non è stato sempre così. Per questo va difesa, ogni giorno”, ha concluso la vicepresidente Alessandra Maddalena. Contemporaneamente alla conferenza AreaDg ha organizzato un convegno in linea con i temi del Congresso, dal titolo “Comunicazione giudiziaria e libertà di pensiero del magistrato”: “Nell’ultimo anno - ha detto l’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte - l’attacco ai magistrati che hanno reso decisioni sgradite alla maggioranza politica è diventato una costante. Spesso esso è stato condotto verso l’indipendenza di giudizio del magistrato, andando a cercare nella sua vita privata qualcosa che, mistificata e comunicata ad arte, abbia potuto dare all’opinione pubblica l’impressione di un suo pregiudizio, di una partigianeria che ne ha guidato la penna. Abbiamo contrastato e ogni giorno combattiamo contro questa deriva che rischia sia di inquinare definitivamente il dibattito pubblico intorno alla giustizia sia di generare sfiducia verso la magistratura”. Ha poi preso la parola il Segretario di Area Dg, Giovanni Zaccaro: “Più sono forti e numerose le maggioranze politiche, più devono essere garantite la libertà di stampa e la autonomia della magistratura”. Per questo oggi, a fronte di “una schiacciante maggioranza parlamentare e della riforma del premierato, siamo preoccupati degli attacchi alla libertà di stampa e della quotidiana delegittimazione del potere giudiziario”. Nordio snobba l’Anm e sulla giustizia incassa la sponda di Iv e Azione di Liana Milella La Repubblica, 5 maggio 2024 Il ministro non sarà all’assemblea dei magistrati a Palermo. Centristi favorevoli alla separazione delle carriere. Conte: “Ignobile scambio contro l’autonomia delle toghe”. Il Guardasigilli pm nella vita - “mi sento la toga addosso portata per 40 anni” - snobba le toghe. O forse ha paura dei fischi che potrebbero investirlo a Palermo. All’assemblea dell’Anm con un migliaio di giudici e pm che si sfogheranno contro un governo che li svilisce e li pesta. Ma Carlo Nordio - il “collega” - non ci va. Perché veste i panni del “carnefice” che firma la riforma più aborrita, la separazione delle carriere. Lui resta nella “sua” Venezia, dopo aver chiuso il G7 sulla giustizia. Un aereo di Stato potrebbe portarlo in Sicilia. “Farebbe in tempo”, dicono all’Anm con sorpresa. Lui è stato giù per il congresso di Area finito nel mirino di Crosetto perché “di sinistra”. Stavolta no. Non vuole sentire i “buuuhhh…” che il garbato presidente Giuseppe Santalucia di certo non solleciterebbe. Ci sarà Sergio Mattarella. Sicuro è che la riforma più odiosa per le toghe porterà la firma di Nordio. Anche se Matteo Renzi fa mostra di scetticismo. E lo sfiducia. “Siamo anche disposti a dare una mano se la faranno, ma non la fanno. Con Nordio purtroppo stiamo solo perdendo tempo e mi dispiace perché io continuo a sostenerlo ma da lui zero risultati”. Iv come Azione - per Enrico Costa è la battaglia della vita - voteranno sì. Come sempre la maggioranza si allarga sulla giustizia. Voteranno pure per cancellare l’abuso d’ufficio che sarà legge entro le Europee. Separazione delle carriere. Due Csm. Sorteggio “secco” per i togati. Alta corte di giustizia per punire le toghe. L’azione penale resta obbligatoria, niente discrezionalità. Come dice una buona fonte “Meloni è troppo furba per fare una riforma che mette in sospetto il suo popolo pronto a prendere le distanze da chi chiede di indagare sui poveracci ma mette in salvo i colletti bianchi”. Meglio non strafare. Visto che s’addensano le nubi fosche dell’opposizione. Come dice a Repubblica Giuseppe Conte, il leader di M5S, “l’intenzione nemmeno nascosta del centrodestra è scardinare autonomia e indipendenza della magistratura, in particolare dei pm, e portarla sotto l’influenza del governo. Non a caso, vogliono anche più membri laici di nomina politica nel Csm. Insieme a premierato e Autonomia, chiudono un ignobile scambio-ricatto tra le forze politiche di maggioranza, abbattendo i pilastri su cui poggia la nostra comunità nazionale”. E altrettanto dura è la responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani che esplode in un “basta” a una maggioranza che “per stare insieme fa il gioco delle tre carte con le riforme e stravolge l’impianto costituzionale”. Premierato ai FdI, autonomia alla Lega, separazione a FI. Di certo Antonio Tajani è entusiasta. E lo dice a Treviso accanto a Pierantonio Zanettin, l’avvocato capogruppo in Giustizia che s’è inventato il sorteggio “temperato” per il Csm, che però sarà tombale. Tajani giubila: “Sono molto contento che si sia deciso di presentare una nostra battaglia storica a dimostrazione che non la volevamo perché interessava a Berlusconi, ma per tutelare l’interesse dei cittadini italiani”. Elettoralmente la separazione giova ai meloniani? Non è mai stata un loro grido di guerra, ma non l’hanno neppure avversata. Per i referendum radical-leghisti dissero no a sopprimere la Severino e la custodia cautelare. Da responsabile Giustizia di FdI Andrea Delmastro propose il sorteggio secco “per eradicare la cancerogena mal pratica del potere correntizio e liberare i giudici che non si vogliono sottoporre al gioco delle correnti”. Sulla separazione non si spesero, ma non remarono contro. Giustizia, duello tra Anm e Forza Italia. L’idea: azione penale facoltativa di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 5 maggio 2024 Santalucia (Anm): a rischio l’indipendenza. Il viceministro Sisto: balle, è garantita dalla Carta. “Sono molto contento che si sia deciso di presentare la separazione delle carriere che è una battaglia storica di Forza Italia che continuiamo a combattere e vogliamo portare a casa”. All’indomani del l’accordo sulla riforma costituzionale della giustizia, che prevede anche due Csm con i togati eletti per sorteggio e un’Alta corte per giudicare i magistrati, il vicepremier Antonio Tajani rimarca il risultato raggiunto. Dal quale, sembra dire agli alleati, indietro non si torna. La riforma “è una delle tre punte del cambiamento che vogliamo realizzare”, conclude il segretario azzurro. Anche per Maurizio Lupi si tratta di “uno dei pilastri del programma del centrodestra, indispensabile per modernizzare l’Italia, per garantire processi più equi e veloci”. Il leader di Noi moderati aggiunge: “È giusto e doveroso che si arrivi finalmente, dopo anni di dibattito, a una riforma e alla separazione delle carriere”. E tende la mano ai magistrati: “Le riforme vanno sempre fatte coinvolgendo le categorie interessate: si metta da parte ogni interesse corporativo e di parte per dare all’Italia un sistema migliore”. Ma secondo l’Anm non è così. Il presidente Giuseppe Santalucia ha messo in guardia dal fatto che con questa riforma “inevitabilmente i magistrati saranno attratti nella sfera d’influenza del potere esecutivo”. E toccando il sistema di pesi e contrappesi si mette in pericolo l’indipendenza della magistratura “si rischia di affondare un sistema che ha permesso di combattere la mafia e debellare il terrorismo”. “È una balla” taglia corto il viceministro della Giustizia forzista Francesco Paolo Sisto. “Nessuno intende assoggettare i pm, men che mai il giudice al potere esecutivo. L’articolo 104 della Costituzione rimane inscalfito” assicura, convinto che sia importante il contributo di idee di tutti “però quando poi si arriva in Parlamento, nessuno disturbi la magistratura e nessuno disturbi il Parlamento”. Più tranchant Maurizio Gasparri (FI): “Se non piace all’Anm la riforma è buona”. La riforma, comunque, deve ancora arrivare a Palazzo Chigi. Non figura all’ordine del giorno del pre-consiglio di lunedì mattina, in vista del Cdm del pomeriggio. C’è ancora da discutere e limare un provvedimento che oltre alla separazione delle carriere prevede due concorsi diversi per giudici e pm. Non è ancora ben delineata l’Alta corte cui sarebbero deferiti i magistrati che sbagliano, esterna ai due Csm. Si discute anche, ma non in questo provvedimento, di riformare l’articolo 112 della Carta che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale, introducendo la discrezionalità (ma stabilendo per legge le priorità). Scettico il leader Iv, Matteo Renzi: “La riforma della giustizia non si farà mai con questo governo. Noi siamo anche disposti a dare una mano se la fanno, ma quando la fanno?”. Separazione delle carriere: la road-map verso il referendum confermativo di Luca Fazzo Il Giornale, 5 maggio 2024 La legge di rango costituzionale avrà un iter lungo circa un anno. Ma l’Anm è già pronta a scendere in campo, Santalucia: “Affonda il sistema che ha combattuto mafia e terrorismo”. É la mossa del cavallo, la trovata che scavalca gli ostacoli che finora avevano impedito un intervento in profondità sul “sistema Giustizia”. Ogni volta che si era ipotizzata una separazione per legge delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, con la istituzione di due Consigli superiori della magistratura, la reazione delle toghe era stata perentoria: non si può, non lo consente la Costituzione. La decisione del governo Meloni, assunta nel vertice di venerdì, di intervenire con una legge di riforma costituzionale azzera il problema. Se ci sono articoli della Costituzione che impediscono la separazione delle carriere, basta cambiare questi articoli: è questo, nella sostanza, l’uovo di Colombo partorito dal ministro Carlo Nordio e dal suo viceministro Francesco Paolo Sisto. Sia Nordio che Sisto sanno perfettamente che lo svantaggio dell’operazione è costituito dai tempi e dalla complessità dell’iter per l’approvazione definitiva di un testo che, per come è stato anticipato, appare destinato a riscrivere quasi per intero gli articoli 104 e 105 della Costituzione, e forse qualche passaggio di quelli successivi. L’obiettivo del governo è di presentare in Parlamento la versione del testo prima del voto per le Europee del mese prossimo. Ma la maggioranza sa che si tratterà solo del primo passaggio di un cammino lungo e difficile, e con l’esito finale affidato quasi certamente al referendum. É proprio il referendum confermativo lo strumento cui in queste ore stanno già pensando le toghe organizzate, di fronte al nuovo scenario aperto dall’iniziativa di Nordio e Sisto. L’intervista al Corriere di Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ha già dato la linea: la riforma costituzionale rischia di “affondare un sistema che ha combattuto la mafia e debellato il terrorismo”. Di fronte a questo pericolo, l’Anm si prepara a essere parte attiva del referendum (anche se l’ultima volta che ci ha provato, contro la responsabilità civile dei giudici, non le è andata benissimo). Prima di parlare di referendum bisogna però che si compia un iter parlamentare che, nella migliore delle ipotesi, non potrà durare meno di un anno. Il provvedimento del governo avrà come primo approdo la commissione Affari costituzionali del ramo del Parlamento scelto dal governo: verosimilmente il Senato, perché la Camera è ancora in lista d’attesa per ricevere l’altra riforma costituzionale, l’introduzione del premierato, che affronta da mercoledì prossimo l’aula di Palazzo Madama (relatore Alberto Balboni di Fratelli d’Italia). La riforma costituzionale richiede due passaggi in aula per ogni ramo del Parlamento, a tre mesi di distanza l’uno dall’altro: ma se il testo viene modificato, come su un tema così delicato è probabile (anche all’interno della maggioranza ci sono sensibilità diverse), si ritorna nell’altro ramo: ne sa qualcosa Matteo Renzi, che per la sua riforma dovette passare per sei voti delle Camere. E a meno che il testo non ottenga i due terzi dei voti - scenario praticamente impossibile - la riforma della Giustizia on entrerà in vigore fino all’esito del referendum che potrà venire chiesto da parlamentari, cittadini e consigli regionali. Portare lo scontro pluridecennale sul tema giustizia, la lunga guerra tra giustizialisti e garantisti, davanti al giudizio degli elettori è una sfida delicata per entrambi i fronti in lizza: per l’Anm che da una sconfitta uscirebbe ridimensionata in eterno nel suo potere di interdizione, ma anche per il governo Meloni che nelle urne del “referendum Giustizia” si giocherà una parte importante della sua credibilità. “Con la separazione delle carriere indipendenza delle toghe a rischio”. Parla Santalucia (Anm) di Ermes Antonucci Il Foglio, 5 maggio 2024 Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati presenta il congresso in programma a Palermo dal 10 al 12 maggio. “Sono molto contento per la presenza di Schlein e Conte, ma parimenti scontento della mancata partecipazione di altri”, dichiara al Foglio Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, terminando la frase accennando un sorriso. Il riferimento è al congresso che l’Anm terrà a Palermo dal 10 al 12 maggio e l’accenno di sorriso riguarda l’assenza di Matteo Salvini. “Al congresso abbiamo invitato tutti i leader di partito, incluso il ministro Salvini, in quanto leader della Lega - spiega Santalucia -. Avremmo gradito che venisse a Palermo, perché magari avrebbe potuto rivedere qualche suo giudizio ingeneroso nei confronti della magistratura”. Durante la conferenza stampa di presentazione del congresso, il presidente dell’Anm ha anche confermato la notizia, già nell’aria da giorni, dell’assenza anche del Guardasigilli Carlo Nordio, impegnato con il G7 Giustizia a Venezia. Il dato politico più rilevante, comunque, è certamente l’adesione all’iniziativa dell’Anm dei due leader dell’opposizione, Schlein e Conte, che si ritroveranno di nuovo insieme dopo l’incontro al corteo di Portella della Ginestra del primo maggio. Il congresso dell’Anm si terrà pochi giorni prima (pare) della tanto attesa presentazione da parte di Nordio del progetto di riforma costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati e sul Csm. Uno scenario che agita le toghe. “Abbiamo già una separazione funzionale tra magistrato giudicante e magistrato inquirente che ha raggiunto il massimo della sua espansione con la riforma Cartabia - afferma Santalucia -. La riforma costituzionale punta a separare e isolare il pubblico ministero dall’ordine giudiziario. Allora noi chiediamo: cosa sarà il pubblico ministero del domani? La nostra preoccupazione è che sarà un organo che, progressivamente, sarà attratto nella sfera di influenza del potere esecutivo”. “In tutti gli stati in cui esiste un pm estromesso dall’ordine giudiziario questi è collocato sotto l’influenza dell’esecutivo. Qual è la nostra prospettiva?”, si chiede il leader dell’Associazione magistrati. Il ministro Nordio, però, ha sempre promesso che non ci sarà mai una soggezione del pm al potere esecutivo. “Non ho motivo di dubitare della buona fede della maggioranza che oggi mette mano alla riforma - replica Santalucia -, ma avremo un pubblico ministero che occuperà uno spazio che ancora nessuno conosce, tra l’esecutivo e il giudiziario. Che cosa sarà? Poi per carità, leggeremo il progetto del ministro, di cui non abbiamo neanche ancora una bozza. Per ora abbiamo solo i disegni di legge depositati in parlamento”. Il congresso dei magistrati sarà incentrato sul tema dell’interpretazione della legge. Un argomento a prima vista tecnico ma che, sottolineano gli stessi vertici dell’Anm, “ha una forte valenza politica”. Il riferimento è all’ispezione disposta dal ministro Nordio alla corte d’appello di Milano per il caso della fuga di Artem Uss, e alle polemiche seguite alla decisione della giudice catanese Apostolico di non convalidare il trattenimento di alcuni migranti. “La legge dice che l’interpretazione e la valutazione della prova non possono essere oggetto di sindacato disciplinare. Se un ministro intende sindacare disciplinarmente un provvedimento che sostituisce una misura custodiale carceraria con un arresto domiciliare con braccialetto ci preoccupiamo. Quello è il giardino proibito dove il governo non può entrare, perché altrimenti è di fatto una sottomissione dell’indipendenza alle azioni dell’esecutivo”, dice Santalucia. Poi c’è stato “il secondo segnale”, quello sulla decisione della giudice Apostolico: “Un provvedimento giudiziario che non è piaciuto al governo ha scatenato una polemica incentrata non sui contenuti del provvedimento, ma sul magistrato che sarebbe stato condizionato da un forte pregiudizio ideologico. Ma così si smantella l’istituzione della giustizia, perché viene messo in dubbio il princìpio secondo cui la magistratura agisce in nome della legge e della Costituzione”, conclude il presidente dell’Anm. “Separazione delle carriere? Uno slogan che sottomette le toghe, frutto del populismo” di Liana Milella La Repubblica, 5 maggio 2024 L’ex procuratore: “Questa legge voluta dalla destra è rancorosa, una colossale impostura che distrugge un modello che tutto il mondo ci invidia”. La separazione delle carriere? “Una colossale impostura”. “Un gigantesco slogan pubblicitario che nasce da un ormai diffuso populismo”. Contro l’Europa che “auspica il passaggio da pm a giudice e viceversa”. Vantaggi? “Assolutamente inesistenti”. Il sorteggio per il Csm? “Sarebbe una vergogna non solo e non tanto per i magistrati, ma per l’intero Paese”. L’ex procuratore di Torino Armando Spataro boccia la riforma, senza se e senza ma. In tempo d’elezioni la premier si gioca pure la separazione delle carriere. Una toga di lungo corso come lei la giudica un acchiappavoti? “Lo hanno scritto alcuni commentatori. Ma sono interessato solo ai danni che questa proposta produrrebbe, se approvata, al nostro sistema democratico e giudiziario e, soprattutto, alla tutela delle garanzie dei cittadini”. Nordio, il ministro magistrato, nega il suo passato e si mette contro gli ex colleghi? “A dire il vero, non lo ricordo, in passato, attestato su posizioni oggetto di campagne dell’Anm a tutela dell’indipendenza della magistratura. Posso forse ricordare male, ma il problema è l’oggi e il domani, non il passato”. È un fatto che sulla separazione non ci sono distinzioni di destra e sinistra tra i giudici, sono tutti contro. “La ragione è una sola: stiamo parlando di una colossale impostura, una scelta priva di qualsiasi fondamento serio perché basata su argomenti falsi ed errati. L’omogeneità della risposta della magistratura si fonda non sulla difesa di privilegi e di potere, come qualcuno strumentalmente teorizza, ma sulla fedeltà a un modello costituzionale invidiato all’estero e che, grazie alla conseguente indipendenza dei pm, ha consentito eccezionali risultati nel contrasto di terrorismo, mafie, corruzione e ogni altro tipo di grave reato. Perciò servono identiche modalità di accesso al lavoro di giudici e pm, e un’unica formazione che includa l’avvocatura”. Che effetto le fa l’idea di una riforma come vessillo per un partito del governo, cioè Forza Italia, con il criterio dell’uno a me, uno a te, uno a lui” tra premierato per FdI, carriere per Fi, Autonomia per la Lega? “Potrei solo dire che, se fosse vero, saremmo di fronte alla riproduzione in peggio, sul versante politico, della logica del tanto giustamente vituperato correntismo dell’Anm”. Se è solo una bandierina non svilisce 10mila toghe italiane? “In effetti è solo una sorta di gigantesco slogan pubblicitario che nasce da un ormai diffuso populismo, alimentato da modalità informative spesso criticabili. Ognuna dica quello che crede ma voglio rammentare le parole di Francesco Saverio Borrelli che, a proposito della tesi secondo cui il giudice sarebbe portato a simpatizzare per le tesi dell’accusatore, parlava di “diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni” auspicando il non “abbandono di una tradizione più che secolare di unità che ha prodotto indiscutibili frutti quali la condivisione della cultura della giurisdizione e la possibilità, transitando da una funzione all’altra, di utilizzare esperienze eterogenee”. L’Anm europea boccia questa riforma. Andiamo anche contro la Ue? “Non solo i colleghi europei sono contro la separazione delle carriere ma lo sono anche le più importanti istituzioni. Sorprende, per ignoranza o perché non conviene, che nessuno tra coloro che la sostiene, peraltro parlando a vanvera di altri ordinamenti, ricorda che già in una Raccomandazione del 2000 sul “Ruolo del pm nell’ordinamento penale”, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa affermava che “gli Stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire a una stessa persona di svolgere le funzioni di pm e quelle di giudice, o viceversa…”. Era già un no alla separazione? “Certo. Perché dicevano che “la possibilità di “passerelle” tra le due funzioni si basa sulla constatazione della complementarità dei mandati degli uni e degli altri, ma anche sulla similitudine delle garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza, di statuto”. E adesso - non dimentichiamolo - anche chi svolge funzioni di giudice può chiedere di far parte di Eppo, la neo Procura europea. Mentre l’Europa auspica “passerelle”, in Italia governo e parte dell’avvocatura penale vogliono distruggerle”. A divisione avvenuta che svantaggi si avrebbero? “Per i pm, inevitabilmente, si arriverebbe alla sottoposizione alle direttive dell’Esecutivo che, tranne in Portogallo, è la situazione di tutti gli Stati europei dove c’è la separazione delle carriere, nei quali esiste però il giudice Istruttore indipendente, figura in Italia ormai inesistente. Ma la separazione finirebbe con il condizionare il giudice, in quanto al suo esame sarebbero sottoposti unicamente gli affari trattati da un pm che dovrebbe attenersi alle direttive ministeriali o parlamentari. Oggi, per esempio, potrebbe essere prevalente il contrasto dell’immigrazione irregolare o le esigenze dell’economia e del mondo imprenditoriale... Insomma, anche la funzione giurisdizionale in senso stretto ne risulterebbe gravemente vulnerata”. E i vantaggi? “Assolutamente inesistenti, nonostante le imposture circolanti”. I tempi della giustizia sarebbero più rapidi? “Non c’è nesso alcuno tra tempi della giustizia e separazione delle carriere. Per una giustizia più veloce, che tutti chiedono, contano, al di là dell’ovvio impegno dei magistrati, la competenza del ministro in ordine a “organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, come chiede l’articolo 110 della Costituzione, e lo stop di una bulimia legislativa panpenalistica, spesso alimentata da inaccettabili logiche securitarie”. Ai garantisti il governo promette processi più “giusti”… “Il dovere di rispettare le garanzie è proprio di tutti i protagonisti della giustizia, ma evocare il contenuto dell’articolo 111 della Carta e affermare che impone la separazione delle carriere è una delle più gravi suggestioni in circolazione. La terzietà del giudice è già assicurata dall’attuale ordinamento e dal contraddittorio delle parti, in condizione di parità, ed è frutto soprattutto di eguale preparazione delle parti stesse, nell’ambito del processo che deve mirare ad accertare la verità dei fatti”. Il sorteggio “secco” per eleggere i futuri togati dei due Csm è uno sfregio alle toghe? “Nel nostro ordinamento la dea bendata si limita a mantenere in alto e allo stesso livello i due piatti che rappresentano il contraddittorio processuale: non le interessa estrarre da uno scatolone tagliandini con i nomi di futuri magistrati. Il Csm dev’essere e rimanere uno solo per l’omogeneità e il tipo di competenze che amministra. Ma va ribadito che, comunque paludato, il sorteggio sarebbe una vergogna non solo e non tanto per i magistrati, ma per l’intero Paese, perché una sua fondamentale istituzione verrebbe composta da membri estratti a sorte”. L’Alta corte per punire i giudici che sbagliano. Un schiaffo al Csm che oggi li giudica? “Su questo è ancor più necessario sapere a cosa pensa il governo, a partire dalla designazione dei suoi componenti. Già nel 2022 alcuni senatori del Pd hanno presentato una proposta di legge costituzionale. Si poteva discuterne alcuni passaggi, ma non conteneva certo scelte offensive verso il Csm, viste le previsioni sulle competenze in tema di controllo di suoi atti e provvedimenti disciplinari, nonché di quelli degli organi di autogoverno della magistratura militare, contabile e tributaria. Vi erano poi norme sulla composizione dell’Alta Corte, sulle procedure, sulle controversie in sede di impugnazione. Quella proposta potrebbe forse essere un punto di partenza, ma certo il Csm non può essere in alcun modo ridotto a un organo meramente burocratico”. Pur in molti anni di governo Berlusconi non era riuscito a far nulla di tutto questo, test psicoanalitici compresi. Oggi accade. Frutto di un Paese contro le toghe? “Certamente non il Paese, ma solo chi pensa che la magistratura, anziché essere uno dei tre poteri indipendenti su cui si fonda ogni democrazia, sia un ordine sottoposto agli altri due. Certe proposte di legge, come quelle già pendenti in Parlamento in tema di separazione delle carriere, scritte con la tecnica del copia e incolla anche nelle motivazioni, finiscono persino con il far rimpiangere l’era berlusconiana visto che quelle riforme finirono su un binario morto. Ma comunque è ora di dire basta alle riforme rancorose”. La giudice Silvia Albano: “Governo insofferente ai controlli” di Mario Di Vito Il Manifesto, 5 maggio 2024 Intervista alla presidente di Magistratura democratica. Verso il congresso dell’Anm: “Rischiamo che venga snaturato il sistema democratico. L’indipendenza non è un problema che riguarda i giudici, ma soprattutto i cittadini e i loro diritti. Il pluralismo è sempre stato una ricchezza e ha fatto evolvere la giurisdizione”. Silvia Albano, giudice del tribunale di Roma e presidente di Magistratura democratica, venerdì a Palermo si aprirà il congresso dell’Anm. Il titolo, “Magistratura e legge e tra imparzialità e interpretazione”, dice molto di quello che sarà. Partiamo da qui: da cosa si deduce che un magistrato è imparziale? Dai suoi provvedimenti. Cioè, non dal fatto che questi possano essere graditi o sgraditi a una parte, ma dal fatto che non si debbano mai usare due pesi e due misure. È bene che il tema dell’imparzialità sia all’ordine del giorno di questo congresso, perché è il caso di smascherare alcune ipocrisie. Faccio un esempio personale: i giornali di destra mi hanno descritta come una giudice “comunista e pro migranti” per la questione delle riammissioni informali dei migranti in Slovenia. Gli stessi giornali, poi, mi hanno indicato come esempio di imparzialità quando ho rigettato la domanda di risarcimento di un mio collega, l’ex giudice Antonio Esposito, contro Daniela Santanchè. Non credo che dichiarare che il proprio codice di valori si fonda sulla costituzione e sulle carte sovranazionali e sulla necessità di farle vivere nella giurisdizione significhi essere parziali. Sullo sfondo del congresso sembra esserci il caso della giudice Iolanda Apostolico… Le sezioni unite della Cassazione mi pare abbiano messo un punto su quella vicenda: nella sua attività interpretativa, insomma, è venuto fuori che Apostolico non avesse poi tutti i torti. Le sezioni unite hanno rilevato un contrasto tra le norme interne e la direttiva europea e hanno sollevato la questione pregiudiziale: sono giudici di ultima istanza e non potevano fare altro, mentre Apostolico, in quanto giudice di merito, aveva la facoltà, anzi il dovere, di disapplicare la norma interna. Apostolico fu anche oggetto di una campagna di denigrazione perché partecipò a una manifestazione davanti alla nave Diciotti al porto di Catania... I giudici, come chiunque, hanno le loro idee, i loro valori, i loro orientamenti culturali… C’è una certa dose di ipocrisia nel dire che per apparire imparziale un giudice non dovrebbe manifestare le sue idee: non è che non manifestare le proprie opinioni significa non averne. Ecco, i cittadini preferiscono sapere o non sapere come la pensa un giudice? Poi, ripeto, l’imparzialità di un giudice si valuta dai suoi provvedimenti, quando esercita la giurisdizione il giudice deve fondare la propria decisione sulle norme dell’ordinamento che è fatto non solo dalla legge ordinaria, ma anche dalle carte costituzionali. Pare, ma la prudenza è d’obbligo visti i mille annunci e i mille rinvii sul punto, che il governo si appresti a varare la sua riforma della giustizia. Come la vede? Non c’è ancora un testo con il quale fare i conti, ma mi sembra che sia stia prendendo le mosse dai disegni di legge costituzionale sulla separazione delle carriere. Con la riforma Cartabia, di fatto la possibilità di passare da una carriera ad un’altra si è molto ridotta e la percentuale di chi sceglie di farlo è pressoché irrilevante. La parte più preoccupante di queste proposte di legge costituzionale non è questa, ma come ad esempio si ridisegna il Csm, l’organo di garanzia dell’indipendenza della magistratura, aumentando tra l’altro il numero di componenti di nomina politica, che diventano la metà. Diciamo che questo tema si inserisce in un quadro più generale e molto preoccupante. Che quadro? Un quadro in cui i contropoteri previsti dalla Costituzione vengono visti con sempre maggiore sofferenza. Penso alla libertà di stampa, per esempio. Penso all’abolizione dell’abuso d’ufficio, anche. C’è una profonda insofferenza verso i controlli e questo rischia di snaturare il sistema democratico. Non è solo l’attacco all’indipendenza della magistratura, che c’è e resta grave. Prendiamo il premierato, che porta con sé anche una riforma della legge elettorale in senso maggioritario da inserire direttamente in Costituzione. Questo significa che i quorum previsti per la nomina dei componenti del Csm e della Corte costituzionale non sarebbero più in grado di garantire il pluralismo dei componenti di nomina politica, perché sono stati pensati quando c’era una legge elettorale proporzionale. Il rischio concreto è che si arrivi a uno strapotere della maggioranza di turno, senza più limiti, proprio quello che i costituenti, usciti dall’esperienza del fascismo, volevano evitare. Questo governo sostiene di essere garantista. Però ogni volta che si parla di amnistia o di indulto respinge queste ipotesi quasi con sdegno. C’è una situazione nelle carceri che non è più tollerabile, per i suicidi e i per i tentativi di suicidio, ma anche perché spesso sono luoghi in cui è impossibile realizzare il fine costituzionale della pena. Quindi vedo bene amnistia e indulto. Non risolvono tutti i problemi e il tema del carcere va affrontato in maniera strutturale, pensando anche a un modello di espiazione delle pene non più “carcerocentrico”, ma siamo di fronte a un’emergenza, alla necessità di garantire la dignità della persona durante l’espiazione della pena. Chiudiamo tornando sul congresso dell’Anm. Com’è il rapporto di Magistratura democratica con Area democratica per la giustizia? Direi che è un rapporto “risolto”, non è un tema all’ordine del giorno. Area resta un gruppo con cui abbiamo una affinità culturale e siamo alleati in molte battaglie. Speriamo poi che tutta la magistratura si renda conto della situazione che stiamo vivendo. E secondo lei la magistratura se ne sta rendendo conto? Sono convinta che il corpo della magistratura sia consapevole della gravità del momento. Anche Magistratura indipendente non potrà sottrarsi dal prendere posizione. Questo anche se al Csm spesso è alleata con i laici dell’area di governo, con la creazione di maggioranze che sembrano voler pregiudizialmente precludere che magistrati di un orientamento culturale ritenuto non omogeneo possano accedere a incarichi dirigenziali. Penso però che anche Magistratura indipendente dovrà prima o poi fare i conti con la propria base. Che sa bene qual è la posta in gioco: la difesa dell’indipendenza della magistratura non riguarda i magistrati, ma i cittadini e i loro diritti. E il pluralismo anche dentro la magistratura è sempre stata una ricchezza che ha permesso alla giurisdizione di evolversi. Pecorella: “C’è un testo scritto 20 anni fa, forse ora il Paese è pronto” di Francesco Malfetano Il Messaggero, 5 maggio 2024 L’ex presidente della Commissione giustizia (FI): “Spero che FdI e Lega non stiano solo tranquillizzando Forza Italia”. “Quando ero presidente della commissione Giustizia e parlavamo di separazione delle carriere la prima domanda era sempre: “Quanti voti ci fa prendere e quanti ce ne fa perdere?” Anche oggi è così, i tempi sono maturi ma prevarrà la logica politica. Spero solo che FdI e Lega non giochino solo a tranquillizzare Forza Italia”. Gaetano Pecorella, classe 1938, ex deputato di FI e a lungo tra gli avvocati del Cavaliere, c’era quando Silvio Berlusconi contava di riuscire davvero a separare le carriere dei magistrati. E c’era pure quando, da presidente dell’Unione delle Camere Penali a fine anni 90, pensavano di riuscirci gli avvocati. “Ne parlammo già quando si discuteva della nascita dell’Ucpi a Bari. Se in 50 anni non si è riusciti a farla è perché i magistrati hanno un fortissimo potere di controllo del potere politico. Non credo sia tanto diverso”. Professor Pecorella, è la volta buona? “Credo ci siano gli ingredienti giusti. Mi pare che il Paese abbia capito che chi fa il giudice non deve fare l’accusatore e chi fa l’accusatore non può fare il giudice. L’ha fatto a caro prezzo però, soprattutto per quelli che hanno avuto la disgrazia di trovarsi coinvolti in un processo. Detto ciò l’entusiasmo che leggo in giro è prematuro”. Perché? “È una riforma costituzionale, ha un iter lungo, e ancora non c’è un testo base su cui discutere. Eppure sarebbe bastato riprendere quello che avevamo scritto con Berlusconi e su cui c’era l’accordo di Alleanza Nazionale. Invece si è ripartiti da meno di zero, dal punto di dire facciamo due Csm. Ma sa questo lo propose, già prima di me, l’ex presidente della Camera Luciano Violante molti anni fa. Al momento siamo allo stesso punto delle altre volte”. Teme boicottaggi? “Ho letto l’intervista di un magistrato che ha rappresentato delle idee a dir poco provinciali sostenendo che “É la riforma di chi ha in antipatia un singolo pm” (il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ndr). Come si fa a non temerne quando tutti dimenticano che la separazione delle carriere è un principio costituzionale? Non lo dice nessuno ma quando fu approvato il nuovo articolo 111 della Costituzione si disse che i giudici dovevano essere non solo imparziali ma terzi. Questo inevitabilmente vuole dire che il giudice appartiene ad un sistema che è distinto sia dal pubblico ministero che dal difensore”. Impresa criminale, l’abuso in Italia del reato associativo nei confronti delle società di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 5 maggio 2024 Affrontiamo questa settimana un tema che - ne siamo consapevoli - non è di facile divulgazione. PQM è nato proprio per realizzare una idea non semplice, ma inedita nel panorama editoriale nazionale: parlare di giustizia penale coniugando il rigore scientifico delle informazioni con lo sforzo divulgativo, cioè con l’ambizione di farsi comprendere anche dai non addetti ai lavori. Il tema che affrontiamo oggi è di vivissima attualità e rilevanza sociale, e riguarda un peculiare accanimento della nostra giurisprudenza nei confronti delle attività di impresa. Nessuno ovviamente invoca - ci mancherebbe altro - aree di impunità per le condotte illecite poste in essere nell’esercizio delle attività di impresa. Tuttavia la peculiarità tutta italiana sta nel sempre più diffuso accostamento, ai reati commessi nell’esercizio dell’attività di impresa, del micidiale reato di associazione per delinquere, che ovviamente precipita l’impresa in un quadro di gravità criminale troppo spesso del tutto arbitrario, con conseguenze però devastanti. Se il lettore vorrà capire subito le problematiche alle quali abbiamo voluto dedicare questo numero, suggerisco di partire dalla nostra Quarta Pagina. Il caso giudiziario che lì raccontiamo è esemplare: si contestano ad una impresa italiana reati di violazione delle leggi sui dazi doganali, e connessi reati di falso ideologico e corruzione. Ma ecco il valore aggiunto criminale che ormai quasi abitualmente si addebita alle aziende: il reato di associazione per delinquere. La contestazione di questo reato è esiziale per l’impresa indagata, perché apre la strada (come spieghiamo in questo numero) a strumenti preventivi e punitivi ben superiori a quelli che sarebbero consentiti per la semplice contestazione dei reati - chiamiamoli così - ordinari in contestazione. Perché avviene questo abuso nell’esercizio dell’azione penale? Perché si utilizza la struttura organizzata dell’impresa (un amministratore al vertice, la attenta strutturazione di funzioni apicali e funzioni esecutive, quindi la distribuzione dei compiti e la attenta ripartizione degli stessi) per sostenere la esistenza di una associazione criminale idonea a contestare il famoso art. 416 del codice penale. Per contestare il quale, peraltro, la giurisprudenza richiede molto meno che una struttura così sofisticata e strutturata come quella aziendale. Ma il punto è che quella struttura organizzativa aziendale preesiste alla commissione dei reati, ed è connaturata all’attività di impresa, con la conseguenza devastante che se una Procura e poi i giudici non operano questa decisiva distinzione, ogni impresa che commette reati sarà una associazione per delinquere. E poiché contestare quel reato ormai consente alle Procure di accedere ad uno strumentario investigativo formidabile, che spesso i singoli reati societari non consentirebbero di utilizzare, l’abuso di quella contestazione sta diventando abituale; poi i giudici, negli anni, faranno giustizia, ma intanto il danno è fatto. Ecco di cosa parliamo in questo numero: di una realtà quotidiana con la quale il mondo delle imprese è chiamata a misurarsi: vi pare poco? Forse allora vale la pena premiare il nostro sforzo nel far comprendere un tema difficile, ma che rappresenta una deriva purtroppo ormai abituale nella ordinaria quotidianità della giustizia penale in Italia. Associazione per delinquere: un’insolita vedette del diritto penale di Tommaso Guerini* Il Riformista, 5 maggio 2024 È sotto gli occhi di tutti gli operatori del diritto penale che l’ambito applicativo del reato di associazione per delinquere si è esteso in maniera irragionevole, finendo per lambire settori dell’economia lecita che non dovrebbero riguardarlo. Se il penalista contemporaneo non fosse ormai mitridatizzato nei confronti di quell’insidioso veleno che va sotto il nome di interpretazione estensiva, la cui somministrazione in dosi massicce produce spasmi violenti sulle fattispecie incriminatrici alle quali viene somministrato, tanto da deformarne irrimediabilmente il volto, verrebbe da chiedersi com’è stato possibile che un reato che nasce con il nome di “associazione di malfattori” e al quale il Codice Rocco aveva affidato un ruolo ben definito nell’ambito della tutela dell’ordine pubblico sia diventato una vedette del diritto penale dell’economia e dell’impresa. Lasciandosi andare a suggestioni letterarie, verrebbe da dire che si è imposta la nota tesi brechtiana, per vero limitata al solo settore del credito, secondo cui il vero criminale è chi fonda una banca e non chi la rapina, basata sull’assunto che l’esercizio dell’attività di impresa deve essere considerato, per ciò solo, una attività illecita. Sia come sia, è sotto gli occhi di tutti gli operatori del diritto penale che l’ambito applicativo del reato di associazione per delinquere si è esteso in maniera irragionevole, finendo per lambire settori dell’economia lecita che non dovrebbero riguardarlo, se non in casi estremi. Invece, nonostante l’art. 41 della Costituzione continui timidamente a enunciare il principio per cui l’economia privata è libera, da oltre un decennio è ormai scontato trovare contestato, in processi che abbiano ad oggetto vicende mediamente complesse di criminalità economica, il reato associativo. Del resto, quale azienda, a partire da quelle di dimensioni medio-piccole, non conta almeno tre persone impegnate nell’esercizio dell’attività d’impresa? E se è vero che il requisito essenziale di una associazione per delinquere è costituito dalla presenza di una “organizzazione”, seppur rudimentale, come non ha mancato di sottolineare la giurisprudenza per degradare ulteriormente gli elementi strutturali di una fattispecie già caratterizzata da una tipicità debole, non è altrettanto vero che l’impresa è, per definizione, una attività economica organizzata ai fini della produzione o dello scambio di beni o di servizi? Dunque, nulla osta, nel caso in cui la Governance di un ente decida di addentrarsi nelle vie del crimine, alla sistematica contestazione del reato associativo, con buona pace della distinzione - per noi ancora valida - tra “reati di associazione” e “reati dell’associazione”, che contrappone sul piano teorico l’ente criminale ai crimini dell’ente strutturalmente lecito. Eppure, a noi qualcosa non torna. Questa “sovrapposizione” tra ente lecito ed ente illecito non si traduce soltanto in una inaccettabile compressione della libertà d’impresa, ma produce effetti nefasti fin dalla fase delle indagini preliminari. Dobbiamo infatti considerare, che mentre la fattispecie associativa ha espanso i propri confini, invadendo il terreno della criminalità d’impresa e relegando nel dimenticatoio istituti con illustri trascorsi dogmatici, come il concorso di persone nel reato continuato, essa stessa è stata attratta in un’altra - e problematica - area di influenza: quella della criminalità organizzata. È ormai un dato acquisito: il reato associativo “comune” viene fatto pacificamente rientrare nella più ampia nozione di criminalità organizzata e consente l’utilizzo di tutto l’armamentario sostanziale e processuale ad esso connesso. Non solo: alla luce della novella del 2017, nel caso in cui l’associazione sia diretta a commettere reati contro la pubblica amministrazione - e non è difficile che ciò possa essere ipotizzato, ad esempio se l’impresa si occupa di appalti - anche in caso di proscioglimento saranno applicabili misure di prevenzione personali e patrimoniali. Un ordigno perverso, che in numerosi casi ha già prodotto effetti nefasti. Preso atto dell’inarrestabile fortuna del reato associativo nell’ambito della criminalità d’impresa, viene da chiedersi quali possano essere i rimedi. Difficile puntare sull’ermeneutica giurisprudenziale, soprattutto alla luce del fatto che si tratta dello stesso formante che ha determinato lo stato di cose che abbiamo provato a descrivere nelle poche righe che precedono. Ci pare però rischioso anche scommettere sull’intervento salvifico di un legislatore quanto mai timido, soprattutto quando si tratta di andare a toccare una disciplina che va sotto la proteiforme etichetta di criminalità organizzata. Più verosimile e realistico ritenere che, salvo improbabili interventi salvifici, la fortuna del reato associativo comune nel contesto dell’attività d’impresa sia destinata a perdurare nel tempo. *Professore associato di Diritto penale Il cantiere sempre aperto della prevenzione antimafia di Vincenzo Maiello* Il Riformista, 5 maggio 2024 Nel cantiere, compulsivo e sempre aperto, della prevenzione praeter delictum, capita che anche istituti introdotti per “favorire” le imprese finiscano per creare effetti nefasti. È il caso del controllo giudiziario dell’impresa “occasionalmente” contaminata da rapporti con la criminalità organizzata, introdotto nel 2017 all’art. 34 bis del Codice Antimafia, sulla scia delle preziose considerazioni svolte dalla Commissione Fiandaca, con lo scopo di rendere più proporzionata e flessibile la reazione dell’ordinamento innanzi a forme di agevolazione sfumate, quando non addirittura legate a condotte maturate nel clima di assoggettamento indotto dall’intimidazione associativa. Misura di prevenzione sui generis - si tratta infatti della sola attivabile su richiesta della parte privata - il controllo su domanda dovrebbe perseguire uno scopo di mitigazione degli effetti esiziali prodotti da interdittive prefettizie ancorate a indizi esangui, rivolgendosi, così, a imprese magari “sospette”, ma non per questo illecite; per le quali, dunque, è innegabile l’interesse sociale a scongiurarne, se possibile, il dissolvimento, per gli effetti disastrosi non solo sul diritto d’impresa, ma anche per i livelli occupazionali, i fornitori e gli stakeholders in generale. Tuttavia, è proprio nel rapporto tra interdittiva antimafia e controllo su domanda, che si annida un possibile effetto perverso, paradossalmente destinato ad operare nei confronti delle imprese più virtuose o, comunque, scarsissimamente “contaminate”. A mente del sesto comma dell’art. 34 bis, le imprese destinatarie di interdittiva prefettizia, che abbiano impugnato il provvedimento, possono richiedere al Tribunale competente per le misure di prevenzione l’applicazione del controllo giudiziario. La norma richiede quindi la ricorrenza di due presupposti: un’interdittiva antimafia e la sua impugnazione innanzi alla giustizia amministrativa. Questo “doppio binario”, non previsto dalla Commissione Fiandaca, che saggiamente aveva previsto quale requisito legittimante la domanda l’esistenza della sola interdittiva antimafia, apre taluni scenari, singolari e, per certi versi, sconcertanti. L’obbligo di impugnare l’interdittiva prefettizia, infatti, genera da un lato un’incoerenza di sistema, dall’altro espone paradossalmente al rischio di diniego della domanda di controllo giudiziario proprio le imprese nelle quali la contaminazione risulti non solo occasionale bensì anche di lieve portata. Se l’informazione interdittiva si basa su tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese, l’impugnazione del provvedimento davanti al TAR dovrà logicamente basarsi sulla prospettazione di inesistenza della contaminazione tra l’ente e i soggetti portatori di pericolosità. Viceversa, la domanda rivolta al giudice della prevenzione per ottenere il controllo giudiziario, alla luce di quanto stabilito dalle Sezioni Unite Ricchiuto del 2019, dovrà sostenere l’esistenza del pericolo di infiltrazione mafiosa, con agevolazione meramente occasionale dell’attività dell’organizzazione, tale da consentire di formulare quella prognosi favorevole di riallineamento dell’impresa ai protocolli di legalità, anche attraverso interventi sulla compliance. Siamo di fronte a un vero e proprio corto circuito logico: la stessa impresa dovrà negare i presupposti dell’interdittiva, ma allo stesso tempo dovrà fondare la domanda di controllo giudiziario proprio sulla loro esistenza. Un raro caso di schizofrenia della persona giuridica. Ma vi è di più. Pensiamo al caso di una impresa fondamentalmente sana, colpita da una interdittiva fondata su indizi evanescenti, magari relativi a fattoidi risalenti nel tempo, purtuttavia sufficienti a motivare un provvedimento amministrativo fondato sulla regola del “più probabile che non” e riguardo al quale il Consiglio di Stato reputa che non è configurabile colpa e responsabilità dell’amministrazione, con sorprendente riconoscimento del beneficio dell’errore scusabile, in ragione dell’ampia discrezionalità di cui essa gode per la totale indeterminatezza della norma d’azione. Uno scenario che legittima senz’altro la domanda di controllo giudiziario, che tuttavia potrebbe essere respinta in quanto il Tribunale avrebbe ottime ragioni per ritenere insussistenti i presupposti del provvedimento interdittivo, nel frattempo impugnato dinnanzi a una Autorità amministrativa che, nella pressoché totalità dei casi, lo confermerà. Si viene così a creare un vero e proprio effetto tenaglia a carico dell’impresa lambita da un diafano sospetto di contaminazione, esposta a forme sostanzialmente insindacabili di esercizio potestativo di una prerogativa incidente su diritti e beni sganciata da fatti e, il più delle volte, neppure basato su indizi. Col paradosso che, in questo vero e proprio corto circuito logico, l’impresa effettivamente contaminata rischia di avere maggiori benefici di una impresa sana, destinata a morire sotto i colpi della prevenzione amministrativa. *Professore ordinario di Diritto penale Insolera: il problema è svalutare il “perciò solo…” di Lorenzo Zilletti* Il Riformista, 5 maggio 2024 Ci parla di “irresistibili fortune dell’art. 416 c.p., nella giustizia in action”, Gaetano Insolera, che a quel reato ha dedicato tanta parte delle sue ricerche di professore di diritto penale; nonché innumerevoli e appassionate difese nelle aule giudiziarie, in veste di avvocato. “Fortune” - riprende - “dovute alla natura davvero esangue dei caratteri che lo definiscono. E che si espandono dal sistema repressivo a quello preventivo, processuale e penitenziario. Il vero problema risiede nell’intenzionale svalutazione di tre parole contemplate nel testo della norma: la punibilità “per ciò solo”, che dovrebbe essere la chiave di lettura per tracciare il confine tra l’autonomo delitto associativo e il semplice concorso di persone nei cd. reati scopo. Quel confine, purtroppo, piace incerto e flessibile, per lucrare al massimo le straordinarie prestazioni che l’accusa di associazione per delinquere offre agli inquirenti durante le indagini preliminari. Sapendo che gli aspetti processuali saranno trattati in altra parte del giornale, cito soltanto la possibilità di utilizzare il captatore informatico, altrimenti non impiegabile per ricercare la prova di reati meno gravi”. In effetti, nei processi che vedono imputate di una pluralità di delitti tre o più persone, è frequentissima la contestazione anche del reato di associazione per delinquere. La conseguenza è che si è tacitamente cancellato il concorso di persone nel reato continuato, il cui trattamento sanzionatorio sarebbe più mite e soprattutto non garantirebbe le stesse potenzialità investigative… “Tra le spiegazioni di quelle fortune, evidenzierei un altro fattore determinante: lo scenario di diritto penale mass-mediatico nel quale siamo immersi da decenni. Che cosa esiste di meglio, nel perseguire i nuovi tipi criminali incarnati da politici, amministratori pubblici, imprenditori, liberi professionisti, docenti universitari, ecc. di una bella contestazione di appartenenza ad un’associazione per delinquere, sbandierata dai media con tanto di libera divulgazione di intercettazioni e atti processuali? Per il grande pubblico, specie in presenza di imputazioni per illeciti astrusi o di elevato tecnicismo, la notizia di un semplice concorso di persone in quei reati non ha alcuna appetibilità. Quella di un procedimento per 416 c.p., invece, assegna all’accusa uno stigma speciale, anche se i fatti sono ancora lontani dal loro accertamento giudiziale”. Hai appena accennato ai nuovi tipi criminali, quelli che Filippo Sgubbi definirebbe gli “impuri”, macchiati dal peccato originale insito nel ruolo sociale da loro ricoperto. Non ti sembra che proprio l’esperienza dell’associazione per delinquere sia paradigmatica di una trasformazione dei caratteri del diritto penale classico? Resiste sì l’accanimento carcerario contro la criminalità di soggetti marginali -penso agli stranieri irregolari, ai tossicodipendenti microspacciatori, ecc. - ma il bersaglio ambito è diventato il white collar… “È la sostituzione della tipologia d’autore, con cui si realizza una radicale metamorfosi del paradigma ottocentesco della societas sceleris come aggregato di chi esercita il mestiere di delinquente e appartiene alle classi pericolose. Il terreno esemplare di utilizzo della struttura indeterminata del reato associativo è quello della repressione della criminalità d’impresa: sono in voga imputazioni in cui l’organizzazione rilevante ex art. 416 c.p. viene fatta coincidere a ricalco con l’organigramma dell’impresa lecita; a partire dall’individuazione totalitaria degli indagati rispetto agli organi sociali, tuttalpiù distinti in base ai commi 1 e 2: promotori, costitutori, organizzatori o semplici partecipi. Così si elude qualsiasi onere dimostrativo della sussistenza di elementi idonei a giustificare l’autonoma incriminazione per 416 c.p., affiancata a quella di una pluralità di reati in continuazione, occasionati nell’ambito di un’effettiva e lecita attività imprenditoriale”. Scorciatoie giudiziarie, verrebbe da definirle, perché nessuno nega l’eventualità della commissione di illeciti nel più generale esercizio di un’attività imprenditoriale che conserva comunque tratti fondativi “puliti”… “Esistono devianze delittuose comunque funzionali a far perdurare l’impresa. La casistica è variegata: reati tributari e doganali; violazioni previdenziali; illeciti societari e bancari, fi no ai più tradizionali delitti contro il patrimonio, possono originare dalla necessità di superare fasi critiche della vita di un’impresa, come quando ci si muova in un contesto di mercato in cui la concorrenza è particolarmente agguerrita. Fatti sanzionabili, certamente; ma giuridicamente inidonei a trasformare in associazione per delinquere un’impresa lecita. La giurisprudenza, tuttavia, salvo rare e meritevoli eccezioni, si impunta in una lettura che dalla reiterazione dei cd. reati scopo desume la sussistenza del delitto associativo, identificando il requisito dell’organizzazione nella struttura operativa dell’impresa”. Riprendo quel tuo passaggio sulla significatività dell’espressione normativa “per ciò solo”, contenuta nell’art. 416 c.p.: trattandosi di un reato contro l’ordine pubblico, per rispettare il principio di offensività quell’associarsi dovrebbe essere qualcosa di molto diverso da una convergenza di volontà programmatiche delittuose. Dovrebbe essere connotato da un maggior disvalore rispetto al concorso di persone nel reato continuato… “Per spiegare al non giurista in che cosa dovrebbe consistere la pericolosità di condotte inquadrabili sotto la cornice dell’art. 416 c.p., può tornare utile ricordare la concezione classica secondo cui l’associazione per delinquere è quella costituita non da chi ha scelto di delinquere, bensì quella costituita da chi ha scelto di vivere come delinquente. Un contratto illecito a tempo indeterminato e perciò punibile “per ciò solo”. *Avvocato penalista Una comfort zone per il processo penale di Fabrizio Siracusano* Il Riformista, 5 maggio 2024 Gli inquirenti non incorrono nei limiti imposti dalla più stringente legalità processuale ordinaria godendo così di tempi più dilatati per svolgere le indagini. Il processo, nato per verificare fatti isolati, si deve misurare con la struttura del reato che trascende l’individuo per collocarlo nella dimensione associativa. Questa dimensione si ritiene debba invocare più stringenti presidi di accertamento per dotare gli organi giudiziari di strumenti più evoluti per verificare comportamenti che proprio la struttura organizzata che li sorregge rende, al contempo, più preoccupanti e di più ardua decifrazione. A tale esigenza - avallata dall’idea secondo la quale “i procedimenti relativi al crimine organizzato presentano peculiarità soggettive e oggettive, alle quali non è sempre possibile dare adeguate risposte seguendo le norme ordinarie” - si associa la convinzione che la repressione di condotte delittuose capaci di destare un maggiore allarme sociale imponga non solo di ricorrere alla leva del diritto penale sostanziale - per il tramite dei tradizionali rimedi dell’inasprimento delle pene e della creazione di nuove ipotesi criminose (o di aggravamento circostanziato di quelle esistenti) - ma anche di rimodulare le forme attraverso le quali si snoda il processo, spostandone il target dall’accertamento del reato al contrasto del fenomeno criminale. Viene così alterato il fisiologico rapporto tra criminalità e giustizia penale attraverso il conio di un “doppio binario” processuale: un itinerario disseminato di semplificazioni procedimentali, che finiscono con l’eludere i tradizionali canoni di accertamento; costellato da vistose deroghe rispetto al modello processuale ordinario; epurato da garanzie ritenute “ingombranti” per una efficace strategia di contrasto alla criminalità più insidiosa. Questa progressiva attenuazione delle garanzie processuali dell’imputato, tra l’altro, è accentuata dallo spostamento del baricentro del processo nella fase delle indagini preliminari e da un progressivo rafforzamento del ruolo della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, spesso non adeguatamente bilanciato da un significativo potere di controllo e di garanzia del giudice. Un’emergenza criminale dai contorni temporali indefiniti - quasi a suggellarne l’endemicità - e sempre evocabile con l’emersione di un qualche fenomeno di particolare allarme, ha favorito il graduale e diffuso innesto di queste vigorose “eccezioni” processuali nella trama del codice di procedura penale: partendo dalle indagini preliminari (estendendone la durata e consentendo l’impiego di più penetranti strumenti di ricerca della prova), passando per la fase del giudizio (incidendo sul terreno della formazione e della valutazione della prova), sino ad approdare alla fase esecutiva e del trattamento penitenziario del condannato. Esse, sospinte da un’inarrestabile torsione finalistica del processo, dall’originario alveo del contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso e terroristico hanno gradualmente tracimato in altri ambiti; hanno progressivamente contaminato ampi settori della fenomenologia criminale, in una dimensione non rispettosa del principio di proporzionalità, attraverso una indiscriminata selezione di “tipi di autore” da trattare - processualmente parlando - più severamente, sino ad invadere ogni vicenda giudiziaria in cui il fatto criminale declina verso la forma associativa. È proprio questo il punto. Grazie alla sua spiccata duttilità, il delitto di associazione per delinquere ha nel tempo assunto i connotati di incriminazione “sussidiaria”; fattispecie abusata dai pubblici ministeri perché capace di fagocitare al suo interno le condotte probatoriamente più sfuggenti e idonea a conferire alle inchieste una ribalta mediatica e un’attenzione dell’opinione pubblica altrimenti negata. Il costante proliferare di imputazioni per il delitto di associazione a delinquere - spesso attraverso una forzata rubricazione di mere condotte concorsuali, magari articolatesi nel tempo e anche in contesti assai remoti rispetto al consueto paradigma della criminalità organizzata - ha generato un costante disallineamento dalle forme ordinarie del procedere. Il processo alla societas sceleris finisce con il costituire una comfort zone in cui gli organi inquirenti trovano maggior agio per sviluppare strategie investigative altrimenti inibite al di fuori di tale circuito e senza dover incorrere nei limiti imposti dalla più stringente legalità processuale ordinaria. Di qui la possibilità di godere di tempi più dilatati per svolgere le indagini (e di assicurarne, così, più a lungo la segretezza) e l’opportunità di ricorrere a strumenti di ricerca della prova di più invasiva incidenza sulle libertà costituzionalmente tutelate (ad esempio favorendo l’uso delle intercettazioni, anche tramite l’impiego del captatore informatico). Se evidenti sono i vantaggi per la magistratura inquirente, che innesca la verifica processuale muovendo da una premessa imputativa - quella per “associazione” - idonea ad amplificarne le potenzialità investigative, in un contesto deprivato delle maggiori garanzie ordinariamente riconosciute al soggetto nei confronti del quale si procede, resta affidato all’esito del giudizio la risoluzione del discrimen fra reato associativo e il concorso di persone nel reato, con un vulnus per l’imputato ormai non più rimediabile. *Professore ordinario di Procedura penale Il caso Bibbiano è una Waterloo. Gli errori dei pm e della politica di Gino Mazzoli Il Domani, 5 maggio 2024 L’assoluzione di Claudio Foti in Cassazione ha mostrato che questa vicenda è stato un disastro giudiziario. Che però offre degli spunti di riflessione sul ruolo delle istituzioni e sull’alleanza tra servizi sociali e famiglie. L’assoluzione di Claudio Foti in Cassazione comincia a mostrare il caso Bibbiano per quello che realmente è: una sorta di Waterloo giudiziaria. Oltre all’assoluzione nel secondo e terzo grado di giudizio dell’imputato maggiormente preso di mira mediaticamente, che aveva scelto il rito abbreviato, c’è un dibattimento ordinario con gli altri imputati che procede a Reggio Emilia (nell’indifferenza di tutti, visto che il processo è già stato “celebrato” mediaticamente cinque anni fa) dove in un anno di interrogatori Procura non sembra stia percorrendo precisamente una marcia trionfale. Bibbiano è un epicentro multistrato dove si sono incrociati diversi livelli di problemi, tutti estremamente rilevanti, oscurati da un sensazionalismo mediatico che li ha coperti e mescolati. Uscendo da questo labirinto è possibile trarre alcune lezioni molto utili per la politica. I diritti dei bambini - La prima lezione riguarda l’inquadramento preciso della posta in gioco: i bambini sono proprietà delle famiglie o sono titolari di diritti? e chi si deve far carico di difendere questi diritti se non le istituzioni? Le contrapposizioni ideologiche non aiutano. Nemmeno le scuse formali senza entrare nel merito di cos’è successo (come quelle di Mentana a Foti al Tg La7) servono per comprendere, anche se sono un segno di civiltà. C’è un’ulteriore posta in gioco che consiste nella descrizione puntuale e meticolosa di ciò che è accaduto concretamente nel distretto della Val d’Enza. Se le accuse riguardavano bimbi sottratti alle loro legittime famiglie e soldi mal gestiti in quello che è stato definito “un giro d’affari”, la gente deve sapere al riparo da facili teoremi precostituiti contro e pro, prescritti o meno gli imputati, se c’erano gli estremi per questi allontanamenti (peraltro chiesti dal Tribunale dei minori), se le famiglie affidatarie hanno speso i soldi ricevuti per gestire in modo congruo i minori a loro affidati (pezze giustificative alla mano), se la retribuzione dei professionisti esterni è stata superiore agli standard previsti (contratti e tabellari alla mano). Dopo tanto impegno per tenere “emozionata” l’opinione pubblica è tempo di altrettanto impegno per informarla sui dettagli. Riconoscere l’imperfezione - La seconda lezione riguarda la costruzione di ipotesi sul silenzio delle forze politiche che più si sono battute nel Novecento per la tutela dei diritti e per la costruzione del welfare che è il prodotto più prezioso della democrazia: sancendo che i più fragili devono essere tutelati e non abbandonati a loro stessi, la nostra civiltà ha compiuto il più importante salto di qualità, diminuendo il suo tasso di sadismo. Cosa ha impedito l’emergere di qualsiasi reazione garantista su questa vicenda? Azzardo un’ipotesi. In questo tempo dove alle persone vengono chieste sempre più “prestazioni” in ogni campo della vita, la paura di essere inadeguati porta sempre più genitori a scaricare attese e pretese esagerate su se stessi, sui figli e sulla scuola. Il nodo, profondo e ineludibile, non liquidabile con qualche richiamo ai diritti è: “Potrebbe succedere anche a me”. È una materia scivolosa e incandescente, triangolata da smisurate dimensioni simboliche e dunque politicamente molto manipolabili, affidata a persone come gli assistenti sociali che hanno un appeal assai minore di quello di magistrati e medici. Cinque anni di silenzio sono troppi per venire spiegati solo con la tattica politica o con il persistente patriarcato della cultura italica. “Da vicino nessuno è normale”, diceva saggiamente Franco Basaglia. Nessuno di noi è un cittadino perfetto, un lavoratore perfetto, un genitore perfetto. È il riconoscimento dell’imperfezione che rende le nostre umanità vicine e che deve stare alla base di un sistema di mutuo aiuto dove famiglie naturali, famiglie affidatarie, volontari, servizi, professionisti, consulenti, si vivono come parti di una comunità che ha tutta insieme la responsabilità di ascoltare, crescere, proteggere i minori. Il sistema - La terza lezione, la più importante, che possiamo trarre da Bibbiano riguarda il modo di fare politica oggi e nasce da una piccola esperienza nata a Reggio Emilia (15 km da Bibbiano) da un gruppo di persone impegnati dal 2019 raccogliere e diffondere notizie sulla vicenda della Val d’Enza; avendo constatato che: a) bussare alle porte di partiti e istituzioni sembrava inutile, b) contrapporsi pubblicamente finiva per favorire chi attendeva solo l’occasione per riproporre la narrazione che aveva asfaltato l’immaginario, c) raccontare tutta la verità finiva per spaventare troppo le persone, ha cercato di collocare la discussione intorno a Bibbiano togliendo di mezzo il tema del processo, degli imputati e di Bibbiano stessa, spostando le argomentazioni su un dato di realtà: gli effetti collaterali della vicenda Bibbiano. Questo gruppo di persone ha scritto un manifesto denominato Abusi zero, basato su un assunto inconfutabile e condivisibile anche da una cerchia più larga di persone, incluse quelle che sospendono il giudizio sul processo: l’indebolimento del sistema di protezione dei bambini, porta a un più fragile sistema di protezione delle stesse famiglie naturali, che in molti casi raccontano storie di formidabile collaborazione tra famiglie affidatarie, servizi e comunità. Il sistema degli affidi nel 90 per cento dei casi si basa sulla consensualità della famiglia naturale, perché parte da condizioni di difficoltà riconosciute dai genitori di bambini affidati per problemi economici, culturali o per sovraccarichi lavorativi (ad esempio famiglie con un solo genitore che lavora di notte, altre che richiedono un sostegno solo per il fine settimana o per il pomeriggio per fare i compiti: gli affidi sono raramente per tutti i giorni della settimana). Nel dibattito infernale seguito al lancio dell’inchiesta sulla Val d’Enza, che ha definito le famiglie affidatarie in generale in Italia come approfittatrici, si è smarrito il dato che gli affidi a seguito di allontanamenti stabiliti dal tribunale riguardano un’esigua minoranza. Gli affidi si basano su un’alleanza tra famiglie naturali e famiglie affidatarie, favorita e garantita dei servizi sociali; non ingaggiano battaglie all’arma bianca tra buoni e cattivi; sono un incontro tra persone orientate a cercare la soluzione migliore per prendersi cura dei minori. Lo schema binario “allontanamenti sì/allontanamenti no” è perverso perché oscura un modello di presa in carico dei minori basato sull’assunto “tutti insieme per proteggere i bambini”. La genesi di questa modalità di mobilitazione mite e riservata nasce dal fatto che il gruppo di persone che si è preoccupato fin dal 2019 della gravità della vicenda Val d’Enza è stato costretto a incontrarsi al riparo da riflettori mediatici. L’esercizio di questi incontri catacombali (resi ancor più necessari dalla pandemia) ha prodotto l’intuizione che si stava costruendo uno spazio pubblico nuovo: in presenza, senza l’ossessione della visibilità su social e media. Un nuovo patto - Questi cinque anni di rimozione della sostanza della vicenda Bibbiano sono stati anche anni di un’imponente e veloce trasformazione dell’immaginario collettivo. Per questo viene da pensare che le scelte compiute dal gruppo di Abusi zero per tenere viva in un numero il più ampio possibile di persone la comprensione della posta in gioco costituiscano un sentiero per provare ad attraversare questo tempo in modo democratico. Può sembrare molto impolitico. Ma le altre vie stanno accatastando naufragi. Serve un nuovo patto tra famiglie, istituzioni, servizi, agenzie educative, professionisti. Una nuova alleanza che in questi anni è stata fortemente indebolita. Si può costruirla solo incontrando fisicamente le persone in gruppi a volte piccoli a volte ampi, lasciando che sia l’evoluzione delle consapevolezze a chiamare in causa di volta in volta, con diverse modalità, diverse tipologie di attori. La diffusione attraverso i social è molto utile se c’è un piede d’appoggio di incontri tra corpi. Non ci sono ladri o derubati di bambini, perché i minori non sono una refurtiva o una merce di scambio. Milano. Caso Beccaria, il Garante dei detenuti: “Avevano paura, non parlavano” di Raffaella Di Rosa tg.la7.it, 5 maggio 2024 Francesco Maisto: “Tutte le volte che andavo stavano appiccicati al muro, segnale di malessere. Io ho fatto segnalazione alla procura dopo la segnalazione di un consigliere comunicale sollecitato da genitori di ragazzi che avevano subito violenze in carcere”. È il 18 novembre 2022, sette agenti della polizia penitenziaria del carcere minorile Beccaria chiudono il detenuto minorenne Said (il nome è di fantasia) nella stanza senza telecamere del capoposto e lo aggrediscono brutalmente: “mi è uscita la spalla e gli dicevo per favore toglietemi queste manette che mi sta uscendo la spalla. E mi era già uscita”. I referti medici - Nei due referti medici si parla di ecchimosi multiple alla spalla alla scapola destra al collo e agli arti superiori. È uno dei cinque episodi di violenza sui detenuti nel carcere milanese Beccaria di Milano segnalati alla procura di Milano dal Garante dei detenuti del comune di Milano Francesco Maisto, l’inchiesta che ha portato all’arresto di 13 agenti della polizia penitenziaria e alla sospensione di altri otto parte da qui. Ed è destinata ad allargarsi. Al momento sono 12 le vittime ma potrebbero essere molte di più. Le telecamere - L’otto marzo 2024 c’è un detenuto di 15 anni che ha tagli all’avambraccio sinistro, se li è fatti da solo con un pezzo di piastrella. Viene portato fuori dalla cella da 4 agenti non in divisa, trascinato per le scale, tirato per un braccio: è tutto documentato nei frames delle telecamere di sorveglianza del carcere. Il giovane viene sbattuto contro il muro e picchiato, poi portato in un’area della infermeria senza telecamere ma la scena “cruenta” -si legge nella informativa del nucleo investigativo della polizia - si intravede dal corridoio: il detenuto è su un materasso si copre il viso con le braccia. Dopo pochi istanti “sentito il trambusto” quattro persone probabilmente i sanitari entrano nella infermeria dove si trova il ragazzo. Il 7 novembre 2023 avviene un tentativo di violenza sessuale su un detenuto da parte di un agente. I ragazzi reagiscono e la ritorsione è un pestaggio violento. 72 detenuti, 26 italiani gli altri sono stranieri, 32 minori non accompagnati. Solo 11 hanno una condanna definitiva. In venti anni al Beccaria ci sono stati almeno 15 direttori, reggenti, facente funzioni. Solo a gennaio è arrivato a tempo pieno un nuovo direttore. La sua volontà di rimettere ordine nel caos, anche inviando in procura le immagini delle telecamere agita gli agenti per anni “padroni del carcere”. L’ex comandante della penitenziaria Ferone, sospeso per aver falsificato le relazioni di servizio sulle violenze, è stato riammesso in servizio ma non in carcere. Quasi tutti gli agenti della polizia penitenziaria nelle loro difese parlano di interventi contenitivi, turni massacranti e carenza di organizzazione e formazione. “Schiaffi educativi” li chiamavano parlando con i ragazzi. Maisto: gli agenti della penitenziaria provavano fastidio quando è arrivata la comandante e dei nuovi agenti mandati dal Dap. Dicevano: chi sono questi? Nel vuoto di potere Si sentivano i padroni della struttura. Il GIP ha deciso che tre dei 13 agenti arrestati andranno ai domiciliari. Il poliziotto accusato di tentata violenza sessuale ha dichiarato che si trovava in un’altra cella. Potrà tornare in servizio ma non al Beccaria. Così come altri 4 agenti. La prossima settimana verranno sentiti altri detenuti ma anche personale sanitario. E esaminate le cartelle cliniche. L’inchiesta sulle violenze al Beccaria va avanti. Milano. Chi sono i detenuti nel carcere minorile Beccaria di Mourad Balti Touati ilpost.it, 5 maggio 2024 Si è parlato molto degli agenti accusati di violenze, e poco dei ragazzini che le hanno subite, molti dei quali sono in attesa di processo. Le indagini sugli abusi e i maltrattamenti nel carcere minorile Beccaria di Milano hanno generato una forte impressione nell’opinione pubblica. Negli ultimi anni si è saputo con una certa frequenza di storie simili sugli istituti di detenzioni per adulti, e la questione è tornata periodicamente al centro del dibattito, ma è invece molto più raro che violenze e pestaggi riguardino ragazzini, o almeno lo era stato finora. Le indagini sul Beccaria per il momento hanno portato all’arresto di 13 agenti di polizia penitenziaria accusati delle violenze, e alla sospensione di altri 8. Le discussioni si sono molto concentrate sul loro ruolo, e sul loro rapporto con i ragazzi detenuti. Ma in un modo forse un po’ meno evidente questa inchiesta giudiziaria sta facendo emergere molti altri problemi legati al carcere minorile Beccaria, più di sistema. Per esempio la facilità con cui per molti ragazzi minorenni è stata decisa la detenzione, nella maggior parte dei casi senza ancora aver subìto un processo. Le cause di questi problemi sono in parte legate alla città di Milano, dove c’è mancanza di strutture per ospitare i minorenni in attesa di processo in posti diversi da un carcere, per esempio le comunità per minorenni; dall’altra, soprattutto, rendono molto evidenti gli effetti negativi del cosiddetto decreto “Caivano” approvato l’anno scorso dal governo di Giorgia Meloni per riformare alcuni aspetti della giustizia minorile italiana, che pure è generalmente considerata un modello a livello europeo. Al momento nel carcere minorile Beccaria, che è solo maschile, sono detenuti 82 ragazzi, a fronte di 70 posti teoricamente disponibili dopo il recente ampliamento della struttura. Solo 11 dei ragazzi detenuti hanno ricevuto una condanna definitiva; tutti gli altri sono in attesa di un processo e sono quindi in custodia cautelare, cioè la detenzione che viene ordinata dal giudice prima del processo o prima della fine delle indagini, se si teme che la persona indagata possa commettere altri reati, scappare o “inquinare” le prove. La questione è rilevante perché la custodia cautelare è uno degli aspetti modificati dal governo con il decreto Caivano: prima poteva essere decisa solo per reati che prevedessero pene di almeno 9 anni, ora gli anni necessari sono stati ridotti a 6. A questo proposito bisogna considerare che il decreto Caivano ha anche aumentato le pene per diversi reati compiuti da minori e ampliato la lista di reati per cui è possibile l’arresto in flagranza (è possibile, per esempio, anche per lo spaccio di stupefacenti di lieve entità). Con questo decreto è insomma molto più facile che una persona minorenne finisca in carcere, e d’altra parte era un obiettivo che il governo voleva ottenere con questa misura. Già da un paio di mesi molti giuristi e chi si occupa stabilmente di carceri, come l’associazione Antigone, hanno notato una corrispondenza diretta tra l’introduzione del decreto Caivano e l’aumento di minorenni in carcere: all’inizio dell’anno secondo Antigone erano circa 500, il numero più alto degli ultimi 10 anni in Italia. È plausibile che da allora siano ancora aumentati: al Beccaria per esempio è successo, visto che all’inizio dell’anno i ragazzi detenuti erano una settantina. I reati più frequenti di cui sono accusati i detenuti al Beccaria sono detenzione di sostanze stupefacenti in quantità sufficiente per lo spaccio e rapina. Nel 2022 per esempio un 14enne poi detenuto al Beccaria fu accusato di rapina per essersi impossessato “di un cappellino nero marca Nike e di una scarpa” indossati da un altro ragazzo minorenne, dopo avergli dato “pugni e calci”. Aveva anche tentato di “impossessarsi del cellulare e del borsello” di un altro ragazzo, senza riuscirci. Un altro, di 16 anni, fu accusato sempre di rapina per aver rubato a un quindicenne “mediante violenza” la “somma di 10 euro” e “un telefono Redmi” dopo averlo spinto al muro e dopo avergli dato dei pugni insieme a un altro ragazzo. La giustizia minorile italiana ha generalmente un approccio basato sull’obiettivo di recuperare e reinserire i minori che hanno commesso reati, prima che punirli. La giustizia minorile si occupa di ragazzi fra i 14 e i 18 anni, mentre sotto i 14 non si è imputabili (anche se prima del decreto Caivano una delle proposte del vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini, era stata di abbassare quest’età a 12 anni). Il codice di giustizia minorile risale al 1988 ed è considerato molto all’avanguardia per come applica le direttive europee sulla materia, che insistono soprattutto sull’importanza di trovare per i giovani soluzioni alternative al carcere, che tutelino lo sviluppo della persona e che prevedano la partecipazione attiva del minore. Il carcere insomma dovrebbe essere previsto solo in casi estremi e in mancanza di alternative, ma a guardare i detenuti del Beccaria sembra invece essere stato usato in modo sistematico, anche in casi in cui c’erano ulteriori ragioni molto valide per evitarlo, per esempio mediche. Uno dei ragazzi che hanno subìto pestaggi e violenze dagli agenti del Beccaria, per esempio, è entrato nel carcere nel 2023, quando aveva 15 anni, dopo essere stato arrestato perché trovato con 2,81 grammi di hashish. Nel condominio in cui abitava erano poi stati trovati nascosti in una scatola di scarpe altri 120,81 grammi di hashish, 335 euro e un bilancino, oltre ad altri 170 euro nella sua camera da letto: da qui era derivata l’accusa di detenzione per spaccio di stupefacenti, e una richiesta di condanna da parte della procura a 1 anno e 8 mesi, più una multa di 5mila euro. Il ragazzo era stato poi condannato a 10 mesi di reclusione e 2mila euro di multa: nella sentenza veniva anche riferita una valutazione neuro-psichiatrica secondo cui il ragazzo soffriva di un disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Adhd). Nello specifico, un “disturbo dell’adattamento con ansia e umore deflesso con rischio evolutivo verso il disturbo di personalità, con tratti patologici che orientano verso disturbo antisociale prevalente”. Questa condizione non ha fatto in modo che la sua condanna fosse decisa in una comunità invece che in carcere. Circa la metà degli 82 detenuti del Beccaria, poi, è composta da minori stranieri non accompagnati, cioè persone provenienti da paesi extraeuropei che hanno meno di 18 anni e che sono arrivate in Italia da sole. La maggior parte è arrivata in Italia con viaggi che hanno causato loro disagi psicologici. Per i minori stranieri non accompagnati è ancora più difficile evitare il carcere, perché quando vengono arrestati e sono in attesa di un processo non hanno una casa in cui risiedono abitualmente in cui poter scontare la detenzione agli arresti domiciliari. L’unica alternativa per loro è scontare gli arresti in una comunità, ma a Milano e dintorni ce ne sono troppo poche rispetto alle effettive necessità, e anche quando vengono riconosciuti i requisiti per la detenzione domiciliare spesso i ragazzi in attesa di giudizio finiscono al Beccaria. Diversi ragazzi in questa condizione sono ospitati nelle comunità di don Gino Rigoldi e don Claudio Burgio, rispettivamente ex e attuale parroco del carcere Beccaria. Ma anche loro non hanno posto per tutti. Uno dei minori stranieri non accompagnati attualmente al Beccaria per esempio è arrivato in Italia a 16 anni dopo essere stato in Spagna, Francia, Paesi Bassi e Austria. Era partito a 7 anni dal Marocco e da lì in poi si è sempre mosso insieme a un amico che ha più o meno la stessa età, anche lui detenuto al Beccaria. Dal Marocco erano partiti in quattro amici, ha raccontato, ma due erano morti nel viaggio. È stato incarcerato lo scorso settembre dopo aver rubato una catenina a un passante a Milano: è ancora in attesa di giudizio, ma da allora è stato tra i molti ragazzi del Beccaria che hanno subìto violenze di vario genere da parte degli agenti. Le difficoltà dei ragazzi detenuti al Beccaria nell’ottenere condizioni detentive migliori sono aggravate dal fatto che la maggior parte di loro non ha un avvocato difensore, di fatto: gliene vengono assegnati d’ufficio, ma nella stragrande maggioranza dei casi non si occupano direttamente dei loro casi. I pochi avvocati che difendono attivamente i ragazzi detenuti al Beccaria raccontano di essere stati costantemente ostacolati nel loro lavoro all’interno del carcere, per esempio con lunghe attese (anche di alcune ore) prima dei colloqui. Dall’apertura dell’inchiesta giudiziaria sono cambiati gli agenti che ci lavorano e la situazione è nettamente migliorata, raccontano, sia nel rapporto con gli avvocati sia soprattutto in quello con i ragazzi detenuti. Teramo. Castrogno, nuova protesta. “Ora la verità sulla morte di Patrick” di Maurizio Di Biagio Il Messaggero, 5 maggio 2024 La situazione all’interno del carcere di Castrogno si fa sempre più drammatica: sott’organico (solo 140 agenti contro i 218 previste) con 400 detenuti presenti invece di 200, mettono a rischio i servizi e la sicurezza. L’ultimo allarme giunge dal segretario regionale Sappe, Giuseppe Ninu: “I nostri istituti penitenziari sono navi alla deriva e, in alcuni casi, l’assenza di direttori o comandanti ha fatto implodere l’organizzazione, con il rischio della sicurezza non solo interna. S’impone un’azione efficace e profonda perché il pianeta carcere possa orbitare in ossequio al dettato costituzionale, disponendo soprattutto di un numero adeguato di poliziotti penitenziari, di operatori e professionisti del settore, in strutture moderne ed efficienti, in grado di ridurre il sovraffollamento dei detenuti, in particolare di coloro che, affetti da varie e gravi patologie, non siano costretti ad espiare la pena detentiva da reclusi, ma siano ricoverati in sedi preposte, non certamente le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), un altro grande fallimento”. Ed è proprio in quest’ultimo passaggio di Ninu che s’inquadra la vicenda del ragazzo di 20 anni, Patrick Guarnieri, trovato impiccato nella sua cella di Castrogno il 13 marzo scorso, nel giorno del suo compleanno. Ieri mattina, davanti al carcere, è stato ricordato da un presidio di 200-300 persone (molti di etnia rom cone Patrick) tra organizzazioni, partititi politici (Radicali e Casa del Popolo), familiari (tra cui anche sua madre) e amici, presenti anche alcuni ultrà. Issati striscioni con la scritta: “Verità e giustizia per Patrick”. “Lui non era compatibile col carcere - dice Adele Di Rocco, coordinatrice di Codice Rosso, che vuole fare luce sui fatti - Il ragazzo era autistico, con un ritardo cognitivo, non doveva stare lì”. “Non doveva essere portato in isolamento - aggiunge Marco Costantini, presidente di Sbarre di zucchero - tra l’altro Patrick non era in grado nemmeno di urlare”. Toccante è stato il ricordo di Diletta, autistica come Patrick: “Lo Stato è forte coi deboli e deboli coi forti, sento che le persone con fragilità sono odiate”. Questo quando dal presidio parte il coro “dimissioni subito”, rivolto alla direttrice del carcere. A pochi passi nella rete sono ordinatamente disposte rose bianche e post-it con le dichiarazioni di affetto di amici e parenti di Patrick (“voglio ricordarti dolce com’eri”): la sorella Anastasia riempie il foglio di attimi di vita vissuti assieme come “quando mi portavi le caramelle a scuola”. Ariberto Grifoni, storico radicale teramano, una vita a denunciare lo stato delle carceri italiane “assieme a Marco Pannella”, invoca la riforma della giustizia “che parta dal basso, dalle carceri: i legislatori facciano le leggi che sono indifferibili, il problema è dei detenuti come dei detenenti. Oltretutto la pena, come da articolo 27 della Costituzione, deve tendere alla rieducazione”. Adele Di Rocco dice di “non credere al suicidio: era entrato da vivo e ne uscito morto. Abbiamo nominato un medico di parte che farà luce sull’evento: tra qualche giorno avremo la risposta. Vaglieremo anche i video”. Il 16 maggio, Di Rocco, assieme agli altri, sarà a Roma per chiedere un incontro con il ministro della giustizia. Cuneo. Radicali in visita al carcere: “Condizioni inumane e drammatica carenza di personale” La Stampa, 5 maggio 2024 Il tesoriere di Radicali Italiani Filippo Blengino ha visitato questa mattina (4 maggio), con una delegazione di Radicali Cuneo, il carcere di Cuneo. “Come in gran parte dei nostri istituti penitenziari - dichiara in una nota Blengino - la situazione è fuori controllo. Come Radicali Italiani denunciamo da anni la totale assenza di programmazione, le condizioni inumane a cui sono sottoposti i detenuti, la drammatica carenza di personale. Anche il carcere di Cuneo si configura come una polveriera, con un disagio psichico allarmante e fuori controllo, continue aggressioni al personale sanitario, denunce da parte dei detenuti sulle enormi difficoltà ad accedere ai servizi e sulle risposte in tempi ragionevoli. Un degrado che si porta dietro riforme mai fatte, una continua violazione del fine rieducativo della pena, l’assenza di misure alternative”. A Cuneo, “come in tutte le carceri italiane - si legge ancora nella nota - mancano sovrintendenti e ispettori, è previsto un preoccupante aumento della popolazione carceraria, a giorni arriveranno dal carcere di Torino altri 40 detenuti. La politica, anche locale, chiude gli occhi di fronte a una situazione drammatica. Anche qui l’emergenza suicidi si è fatta sentire, con un detenuto venticinquenne che si è tolto la vita ad inizio anno”. Per questo, conclude Blengino, assieme a Lorenzo Roggia (segretario Radicali Cuneo), Emanuele Gallo (tesoriere Rad Cuneo) e Alice Depetro (direzione RI), “chiediamo nuovamente di approvare la proposta Giachetti per ridurre il sovraffollamento, provvedimenti di depenalizzazione di alcuni reati e misure per incrementare l’assistenza psichiatrica. Serve una proposta di riforma complessiva del carcere: non possiamo perdere altro tempo”. Vicenza. In cella a 7 anni dal reato: “Ho pagato il mio debito, ma le carceri vanno cambiate” di Claudia Milani Vicenzi Giornale di Vicenza, 5 maggio 2024 Un quarantenne ha raccontato la sua storia: “Il sistema non funziona: non riabilita e toglie la dignità”. Paure, emozioni, ansie e anche speranze. È uscito dal carcere da poco più di 24 ore, vuole raccontare la sua storia, far capire cosa si prova ad essere rinchiusi, spiegare cosa c’è che non va nel sistema penitenziario italiano. N.L., 40 anni, (alla redazione ha detto nome e cognome, ma abbiamo scelto di non pubblicarli per tutelare le sue figlie ancora minorenni) è un fiume in piena e la sua voce a volte s’incrina per la commozione: alcune ferite non si sono ancora rimarginate. Sei mesi di carcere a 7 anni dal reato - Ha appena finito di scontare sei mesi al carcere di San Pio X per truffa. “Un reato che avevo commesso più di sette anni fa - spiega -. È giusto pagare quando si sbaglia, ma sette anni sono tanti. In un tempo così lungo le persone cambiano, la loro vita va avanti e di colpo, quando meno se lo aspettano, viene presentato il conto”. È andata così anche a lui. “Ero al lavoro, in cantiere - racconta - quando sono arrivate le forze dell’ordine e mi hanno portato in prigione. Non ho potuto avvisare mia moglie o abbracciare le mie figlie. Con me non avevo soldi né abiti”. L’aiuto degli altri detenuti del carcere - “Per fortuna i primi giorni - racconta ancora - sono stato aiutato da altri detenuti. Mi hanno prestato della biancheria, dato un po’ di soldi”. “Appena varchi le porte di un istituto di detenzione - dice ancora - è come se tu entrassi in un mondo parallelo. Ti senti completamente sfasato: non sai cosa fare e nessuno ti dà informazioni se non i tuoi compagni di cella, sempre che parlino la tua lingua”. “Anche le cose più semplici, come poter fare una telefonata o ricevere visite all’inizio sembrano complesse. E infatti io ho atteso giorni e giorni prima di poter sentire mia moglie - spiega -. Ovviamente si ha diritto a telefonare: si utilizza una tessera che deve essere ricaricata. Ma appena entrati bisogna presentare richiesta, comunicare il numero che intendi chiamare, devono effettuare controlli sull’intestatario e intanto il tempo passa”. “ Rivede la famiglia dopo 50 giorni - Anche per le visite all’inizio la trafila è lunga, tanto lunga - dice ancora, con frequenti interruzioni perché la voce è rotta dall’emozione -. Ho rivisto la mia famiglia dopo 50 giorni e la minore delle mie figlie, che era ancora molto piccola, non mi ha riconosciuto. Piangeva perché non voleva essere presa in braccio da me. Credo che quello sia stato il momento peggiore di tutta la detenzione. Un incubo”. N.L. ha potuto godere della semi-libertà nel mese di gennaio: ogni giorno andava al lavoro e poi alla sera tornava in carcere. “Inoltre ho avuto uno sconto di pena per buona condotta - spiega -. In prigione il personale è in genere disponibile, io ho avuto modo anche di parlare con gli psicologi. Ma ci sono tante, troppe cose che non vanno. A volte non c’è il riscaldamento, se si brucia una lampadina trascorrono settimane prima che venga cambiata, i bagni hanno un sacco di problemi, ci sono vetri rotti e per non far entrare il freddo si attaccano sacchi delle immondizie con lo scotch. Ci sono più di trecento persone che trascorrono gran parte della giornata senza fare nulla, molte di loro sono in grado di svolgere un lavoro: perché non impiegarle per migliorare la situazione all’interno?”. Le accuse contro il sistema carcerario - “In carcere - conclude - ho avuto modo di pensare molto. Ho cercato di usare tutto il tempo che avevo a disposizione per riflettere sulla mia vita, sugli errori passati. Però ritengo che il sistema carcerario, così com’è attualmente, non vada bene. Dovrebbe rieducare e riabilitare ma non è in grado di farlo”. Quando N.L. è uscito, dopo aver varcato per l’ultima volta i cancelli, racconta di essere scoppiato in un pianto liberatorio e di aver rivisto come in un lampo, davanti agli occhi, quei sei mesi trascorsi dietro le sbarre. Ora il suo sogno è quello di fondare un’associazione che possa aiutare chi entra in carcere e che, com’è accaduto a lui, si sente crollare il mondo addosso. “Perché è giusto pagare, ma non perdere la propria dignità”. Ancona. Detenuto-badante non viene pagato: causa vinta, ministero condannato di Federica Serfilippi Corriere Adriatico, 5 maggio 2024 Recluso nel carcere di Montacuto, lavora come badante per un altro detenuto. Gli viene riconosciuta una paga inferiore rispetto al servizio prestato, fa causa al Ministero e vince: riceverà 12.636 euro. Il giudizio è stato promosso, attraverso l’avvocato Giorgio Marchetti, da un 38enne di origine dominicana, da tempo in Italia e all’epoca dei fatti ristretto a Montacuto. Nel giugno 2021, lo straniero ha avviato un rapporto di lavoro con l’amministrazione penitenziaria, con mansioni di assistenza alla persona. In particolare, gli era stata assegnata la cura di un altro detenuto, non autosufficiente perché disabile al 100%. L’attività è stata portata avanti tra giugno e luglio 2021 e dal dicembre dello stesso anno fino a gennaio 2023. Il 38enne è ricorso al tribunale di Roma, sezione lavoro, per rivendicare il diritto al pagamento delle differenze retributive per le effettive ore di lavoro svolto. Stando a quanto contestato, infatti, al detenuto-badante gli era stato riconosciuto lo stipendio pari a una media di tre ore lavorative al giorno. Invece avrebbe coperto il turno anche per dieci ore. A dirlo è stato il disabile che il 38enne assisteva, a volte pure nel corso della notte. “Pertanto, è stato dimostrato che il ricorrente ha lavorato con mansioni di addetto alla persona nei mesi giugno-luglio 2021 e dal mese di dicembre 2021 al mese di gennaio 2023, prestando l’attività lavorativa per l’intera giornata di lavoro di otto ore, a differenza di quanto riconosciuto dall’amministrazione penitenziaria nei cedolini paga dai quali risulta una prestazione di lavoro con orario giornaliero inferiore (sulle 2/3 ore giornaliere” ha scritto nella sentenza il giudice il giudice Maria De Renzis. In definitiva, “va riconosciuto il diritto del ricorrente al pagamento delle differenze retributive per le ore effettivamente lavorate, secondo il conteggio contenuto nel corpo del ricorso”. Il Ministero della Giustizia dovrà così versare al detenuto 12.636 euro oltre agli interessi legali. Ma non è tutto: dovrà anche riconoscere al ricorrente le ferie maturate e non godute. Attualmente, il 38enne si trova recluso, per un residuo di pena, nel carcere di Terni. Per il giudice “va posto in rilievo che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo, ma va remunerato secondo quanto previsto dalla legge”. Nella riforma dell’ordinamento penitenziario, per l’avvocato Marchetti, “l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale, ciò anche in ossequio all’art. 1 della Costituzione; la remunerazione è quella prevista dagli ordinari contratti collettivi ed accordi sindacali sebbene ridotta di un terzo”. Terni. Gli studenti dell’Ipsia ristretti a Sabbione protagonisti del cortometraggio “Vie di fuga” di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 5 maggio 2024 Il cortometraggio si intitola “Vie” di fuga e gli attori sono i detenuti, i docenti dell’Ipsia Pertini che tengono le lezioni a Sabbione, gli agenti della penitenziaria e gli operatori del carcere. Ambientato nelle aule scolastiche, nel laboratorio del pane, negli spazi dedicati all’apicoltura, in biblioteca, nel teatro del penitenziario, il corto è una testimonianza autentica delle attività trattamentali svolte dai detenuti e finalizzate al loro reinserimento nella società. Interpretato e vissuto da detenuti, professori e agenti della polizia penitenziaria e da tutti coloro che abitano i luoghi didattici e comunitari della casa circondariale, il corto è una sorta di cinema verità in cui passato, paure e speranza si trasformano in sofferte ma umane e percorribili vie d’uscita. Vie di fuga anche da tutto ciò che relega all’invisibilità e all’appiattimento di un mondo, quello dei circuiti detentivi, che potrebbe invece diventare una fucina di ricostruzione esperta e speranza umanizzante. “La realizzazione del progetto è stata possibile grazie alla direzione della casa circondariale e alla preziosa disponibilità del comandante, Fabio Gallo - dice Michela Carobelli, che si è occupata della direzione del corto le cui immagini sono state girate e montate da Francesco Scatolini. Il prodotto finale assume un particolare rilievo per la documentazione spontanea, lieve, non volgare di frammenti di vita della comunità penitenziaria nei suoi intenti costruttivi, solidali e fortemente risocializzanti contro la più banale cultura dello strillato e del va tutto male”. Il progetto Cer-car-e è stato finanziato dal programma nazionale innovazione sociale dei servizi di reinserimento delle persone in esecuzione penale: cultura, sviluppo e coesione sociale-cassa delle ammende in sinergia con la direzione del carcere. Vie di fuga racconta l’arrivo in carcere di una nuova professoressa che deve insegnare ai detenuti. È spaventata, non conosce la realtà dietro le sbarre, non sa cosa aspettarsi da questa esperienza. L’incontro con un agente e con i suoi studenti le fa conoscere una realtà viva e propositiva, molto diversa dai pregiudizi e dalle paure che aveva prima di varcare il grosso cancello. La gran parte degli attori sono studenti dell’Ipsia ristretti, che hanno partecipato al laboratorio del corso di audiovisivo e di montaggio e che hanno collaborato con Michela Carobelli nella fase della scrittura della sceneggiatura e poi assistito alle fasi della ripresa. “Alcuni detenuti sono usciti dal carcere per il fine pena durante la realizzazione del corto e questo ci porta a sperare che abbiano una prospettiva di futuro” dice. Vie di fuga sarà presentato martedì, alle 16, al Caffè letterario della Bct da Fabio Gallo, comandante della Polizia penitenziaria, dal preside dell’Ipsia-Cpia Fabrizio Canolla, dalle docenti Michela Carobelli, Vincenza Depretis coordinatrice del cpia, centro scuola per adulti e Claudia Cianca coordinatrice della secondaria dell’Ipsia di Sabbione. Lecco. Oltre il carcere: a Missaglia l’incontro con gli attori di Mare Fuori e don Burgio di Noemi D’Angelo lecconotizie.com, 5 maggio 2024 Grande successo per l’incontro promosso sabato pomeriggio da Costruiamo il futuro. “Tu non sei quello che produci o i voti che prendi: sei molto di più. E il mare fuori è molto altro da scoprire, insieme”. Sono le parole, profonde e dirette, con cui don Claudio Burgio ha voluto chiudere il bell’incontro organizzato nel pomeriggio di oggi, sabato, dalla Fondazione Costruiamo il futuro. Ospite sul palco dell’oratorio di Missaglia insieme agli applauditissimi attori della famosa serie televisiva Mare Fuori Giacomo Giorgi (che interpreta Ciro Ricci, giovane detenuto che muore nel corso di una rivolta da lui stesso innescata) e Vincenzo Ferrera (Beppe Romano, un educatore dell’istituto), don Burgio ha condiviso con il numeroso pubblico presente in sala, circa mille persone, la sua esperienza di cappellano al carcere minorile di Milano e fondatore dell’associazione milanese Kayròs. “Le lacrime che vediamo nella serie televisiva sono pianti reali al Beccaria. Quello che mi sta sconvolgendo sempre di più, soprattutto in questi giorni difficili per il carcere milanese, è che il male sta diventando normale e l’omertà sembra essere un codice universale”. Un riferimento che ha portato prepotentemente alla ribalta del dibattito, moderato dalla giornalista del Corriere della Sera Elisabetta Soglio, il ruolo degli adulti, intesi sia come genitori che come educatori. “Se trasmessi degli intessi concreti, se sai muovere le loro passioni, i ragazzi ce la fanno: c’è sempre una speranza di poter cambiare vita” ha ribadito Ferrara, vestendo anche nella realtà i panni dell’educatore che deve confrontarsi anche con il rischio di sbagliare, arrivando anche a sentirsi un fallito, come è successo nella fiction a Beppe dopo la morte di Ciro. “Penso che lo Stato abbia delle grosse responsabilità quando non sa dare un futuro e una speranza a questi ragazzi, che si sentono più protetti e garantiti dalla malavita organizzata” ha aggiunto Ferrara, evidenziando come sarebbe necessario migliorare anche la vita di chi lavora in carcere, trovandosi ogni giorno di fronte a sofferenze e limiti. “Il pregio di Mare Fuori è stato anche quello di mettere in risalto una figura sempre trascurata ovvero quella degli educatori”. Un ruolo importante riconosciuto anche da Giacomo Giorgi che ha posto l’accento sulla necessità di coinvolgere tutti, dalle famiglie alle istituzioni, intorno al tema della responsabilità educativa. “Ai ragazzi dico che non è possibile tornare indietro, ma è sempre possibile però migliorare. Certo, non possiamo pensare di cambiare tutto e subito. Ma sono stufo di adulti che non fanno gli adulti” ha detto con schiettezza don Burgio ribadendo a gran voce un’altra sua convinzione: “I ragazzi non sono cattivi, ma captivi, schiavi di una realtà che li sommerge e di una cultura della prestazione continua. In questo contesto è fondamentale trovare figure adulte capaci di far aprire le mente ed allargare lo sguardo facendo intuire che c’è sempre un’altra possibilità”. Oltre le sbarre, oltre i propri sbagli, oltre i propri limiti: “Penso che il mare fuori è il bene che possiamo fare e che pochi, come l’educatore Beppe, ci insegnano” ha sottolineato il parroco don Andrea Scaltritti, confessando di essere un appassionato fan della fiction televisiva. “Non l’avevo mai vista” ha invece ammesso, al termine dell’incontro, l’onorevole Maurizio Lupi, presidente della Fondazione Costruiamo il futuro, riconoscendo di essere stato catturato dai brevi spezzoni della serie trasmessi durante il pomeriggio. “In questa società abbiamo bisogno di bellezza, di maestri e di testimoni. Non solo, dovremmo anche finalmente smettere di parlare di giovani, ma iniziare a parlare con loro”. L’incontro odierno, intitolato “Mare Fuori - Tra Fiction e realtà”, ha rappresentato il primo appuntamento di “Costruiamo Cultura”, il ciclo d’incontri organizzato dalla Fondazione Costruiamo il Futuro sul territorio della Brianza per il 2024. La prossima data da segnarsi in calendario sarà il 27 maggio, quando l’auditorium del Comune di Merate ospiterà la presentazione del libro “Una battuta, Presidente” (edito da Marlin), scritto a quattro mani da Vittorio Amato, giornalista dell’AdnKronos, e Giovanni Lamberti, collega dell’Agi, che in questa sorta di diario hanno raccolto vent’anni di “inseguimenti” e appostamenti. Canzoni violente contro le donne, c’è chi ipotizza l’apologia di reato di Marianna Peluso Corriere del Veneto, 5 maggio 2024 Emergenza sociale tra i giovani, ma c’è chi dice no alla censura. “Cantare testi violenti non equivale al femminicidio, ma insieme vogliamo capire se queste canzoni possano contribuire a creare un clima che alimenta ostilità nei confronti delle donne e come fare per frenare questo fenomeno”. È il sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi a spiegare lo spirito dell’incontro dal titolo “Canzoni violente contro le donne: che fare?” organizzato dal ministero della Cultura con Siae e Fondazione di Verona che si è tenuto ieri a Verona. Dalle case discografiche sono uscite e continuano a essere pubblicate varie canzoni che mercificano la donna (“La comando con un joystick” per citare un testo e non fra i più violenti), che descrivono atti sessuali non consenzienti fino a violenze, abusi e femminicidi. “Noi raccogliamo una denuncia di varie associazioni su queste tematiche, ma senza demonizzare un genere musicale piuttosto che un altro - precisa Mazzi -. Mi sto impegnando in questa battaglia perché la musica ha un’enorme rilevanza sociale: è il primo contatto con la cultura, fin da quando siamo piccoli. Più aumenta la rilevanza sociale e più deve crescere la responsabilità sociale”. La causa di testi brutali e privi di qualsivoglia forma di rispetto nei confronti delle donne, che tanto si trovano nel trap e nel rap (ma non solo), secondo la sovrintendente della Fondazione Arena di Verona, Cecilia Gasdia, sarebbe da attribuire a un generale impoverimento culturale dei giovani “cresciuti in un mondo veloce che ha indicato più scorciatoie che vie, parcheggiati di fronte allo schermo di un mondo fittizio”. La letteratura, dalla tragedia greca in avanti, passando dall’opera lirica, è piena di “piccoli uomini ossessivi, insicuri e possessivi” come li delinea Gasdia, “ma noi stiamo assistendo a un proliferare di canzoni dove non c’è uno straccio di poesia - chiosa Enrico Ruggeri. Anche Bob Dylane, Lou Reed hanno cantato temi scomodi, ma facendo letteratura. Questi brani sono ripugnanti scorciatoie di persone che non sono in grado di esprimere i sentimenti: per farlo bisogna leggere e studiare”. A mettere l’accento sulla differenza tra amore e possesso è lo scrittore Davide Rondoni, che ricorda quanto se ne dibattesse già tra le pagine dei trovatori fino ai poeti maledetti, “mai testi di queste canzoni ormai sono standard. Esprimono un disagio, senza nulla di artistico”. Gli unici a spezzare una lancia nei confronti di questi autori senza poesia sono il rapper Luca Caiazzo, in arte Lucariello, che mette in guardia “non bisogna confondere il campanello d’allarme (rappresentato dalle canzoni, ndr) con l’incendio stesso (cioè i casi di cronaca)” e don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, che contestualizza “lo svantaggio con cui nascono alcuni ragazzi, come Baby Gang o Simba La Rue, all’interno di contesti degradati”. “L’abbassamento culturale dipende dal fatto che il denaro vale più di tutto - dice Morgan senza mezzi termini -. Se noi aumentassimo la qualità dell’offerta e smettessimo di parlare di profitto, potremmo cominciare a parlare di merito”. Mogol, che oltre essere autore di brani che hanno scritto la storia della musica italiana, sull’argomento è molto chiaro: “ Chi scrive queste canzoni è un cretino, ma chi le diffonde è doppiamente cretino”. “Chiedere di non pubblicare è censura” controbatte Enzo Mazza, presidente Fimi (Federazione Industria Musicale Italiana), appellandosi alla libertà d’espressione garantita dalla Costituzione. Eppure, non tutto ciò che viene scritto, viene prodotto e divulgato, ed è qui che si concentra Cristiana Capotondi, avanzando la prima proposta per un cambio di rotta. “Ci sono “n” motivi per cui vari artisti non hanno visto pubblicare le loro opere: le frasi incitanti violenza non potrebbero essere evitate come criterio di selezione, visto che viviamo un’emergenza sociale?”. Proprio di emergenza sociale parla anche il magistrato Valerio De Gioia, consulente giuridico della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, che apre il capitolo di istigazione e apologia a delinquere, punibile penalmente con la reclusione. “Dobbiamo intervenire affinché venga restituita dignità alla donna - spiega -, perché oltre a essere fuorviante per le giovani generazioni di uomini, è altrettanto pericolosa riferita alle donne, che possono crescere percependo normale quel comportamento su di sé”. Tra le misure concrete che si potrebbero prendere, secondo il Ministero del Cultura, c’è l’inserimento nel codice dello spettacolo di un comma che escluda da fondi pubblici chi veicola contributi violenti verso le donne, “non si tratta di censura ma di limitare i rischi di un certo linguaggio”. Migranti. In Tunisia la nostra indifferenza uccide di don Mattia Ferrari La Stampa, 5 maggio 2024 “Io ho ancora un sogno. Ho il sogno che un giorno gli uomini si alzeranno in piedi e si renderanno conto che sono stati creati per vivere insieme come fratelli”: così proclamava nel 1963 Martin Luther King, al termine di una grande manifestazione per i diritti civili. Questo sogno continua oggi nella lotta di tante persone che ancora subiscono violenza e discriminazione. Una forma particolare di questa violenza è quella che viene perpetrata alle frontiere contro le persone migranti, che cercano vita degna e fraternità. L’Europa, dopo aver chiuso i canali legali di accesso, ha deciso di siglare accordi con i Paesi che si trovano sull’altra sponda del mare, perché siano loro a contenere il flusso migratorio, sacrificando i diritti umani. La storia recente segna una spirale di cinismo e di violenza. Nel 2017 l’Italia sigla gli accordi con la Libia, coinvolgendo figure come il superboss della mafia libica Bija: a causa di quegli accordi, sempre rinnovati, ogni settimana centinaia di persone migranti vengono catturate in mare e deportate nei lager libici. Nel luglio 2023 l’Europa, su spinta dell’Italia, replica lo stesso modello con la Tunisia: a causa di quegli accordi ogni settimana decine di migliaia di persone vengono intercettate in mare e, una volta respinte, sottoposte a trattamenti disumani. Dall’entrata in vigore di quegli accordi, le forze militari tunisine iniziano a deportare le persone migranti ai confini con l’Algeria e con la Libia, dove le abbandonano nel deserto o le consegnano alla mafia libica. Le vittime più note di queste deportazioni sono Fati Dosso e Marie, la donna e la bambina, uccise dalla sete, la cui foto ha fatto il giro del mondo l’estate scorsa. La pratica di quelle deportazioni continua e le ultime sono avvenute nei giorni scorsi. In mezzo a questa spirale di violenza la storia recente ha però registrato un fatto nuovo: ispirate dallo stesso sogno di Martin Luther King, molte persone migranti hanno iniziato a organizzarsi in movimenti popolari, a sostenersi le une le altre e a lottare insieme. Così nell’ottobre 2021 nasce Refugees in Libya e pochi mesi dopo nasce Refugees in Tunisia. Nel febbraio di quest’anno alcune di queste persone a Tunisi si accampano davanti alla sede dell’UNHCR, appellandosi alla comunità internazionale, perché le metta in salvo dai trattamenti disumani e le riconosca come soggetti, veri fratelli e sorelle. La risposta è stata il silenzio. Grazie all’indifferenza oltremare, il potere militare capisce che può reprimere la mobilitazione con violenza: giovedì intorno alle 3 del mattino diverse forze di polizia fanno irruzione, smantellano il campo di protesta e catturano molte persone presenti. Centinaia di rifugiati e richiedenti asilo, tra cui donne e bambini, provenienti dall’Africa subsahariana, vengono arrestati, caricati con la forza su autobus e deportati al confine con l’Algeria: ancora non si sa che ne sarà di loro. Davanti al grido delle persone migranti che chiedono vita degna e fraternità, la risposta dell’Europa continua ad essere quella di finanziare per il loro respingimento forze militari estere che le reprimono con violenza. Non possiamo però ignorare anche la responsabilità della nostra indifferenza. Nonostante questo, la speranza dei movimenti popolari non viene meno: essi, al pari di Martin Luther King, continuano a sperare in tutti noi. Così dichiara David Yambio, portavoce di Refugees in Libya: “Noi crediamo ancora in tutte le persone comuni: crediamo che esse presto si sveglieranno e sfideranno la disumanità perpetrata con soldi e risorse europee, capendo finalmente che solo se diventeremmo veramente, nei fatti e non solo a parole, fratelli e sorelle, ci salveremo, insieme”. Stati Uniti. Arresto choc a Miami: studente italiano incaprettato in cella di Erika Pontini e Sara Minciaroni La Nazione, 5 maggio 2024 Il calvario di Matteo Falcinelli, 25 anni, in Florida per frequentare un Master. Le violenze riprese dalle bodycam degli stessi agenti. Prima l’hanno sbattuto a terra premendogli il volto contro l’asfalto con il ginocchio dell’agente premuto contro il collo, la stessa manovra che in Minnesota uccise l’afroamericano George Floyd, e l’hanno arrestato. Poi, una volta in una cella di transito alla stazione di polizia di North Miami Beach, in quattro lo hanno incaprettato sottoponendolo all’Hogtie restraint. Con una cinghia hanno legato i piedi alle manette dietro la schiena e tirato, tirato tra urla strazianti e sovrumane fino a quando Matteo Falcinelli, studente italiano di 25 anni, li ha supplicati di smettere perché si sentiva letteralmente spezzare. “Please, please, please” parole pronunciate con un filo di voce tra lacrime e strazi indicibili. E cosi, con il rischio di morire, lo hanno lasciato per più di tredici minuti, quando qualcuno in quella posizione smette di respirare appena dopo 150 secondi. È il calvario difficile da raccontare, impossibile da comprendere, a cui è stato sottoposto un ragazzo originario di Spoleto, negli Stati Uniti per frequentare il master alla Florida International University (al Biscayne Bay Campus), da parte della polizia americana. Da sempre nell’occhio del ciclone per abusi ripetuti che spesso si sono rivelati vere e proprie tragedie e hanno incendiato l’opinione pubblica di tutto il mondo. Le scene di violenza che raccontiamo sono tutte riprese nella sua drammatica crudezza dalle bodycam indossate dagli agenti, anche quella all’interno della stazione di polizia, che il legale americano di Falcinelli è riuscito ad ottenere dalla procura solo il 12 aprile nell’ambito del processo, di fatto terminato con l’ammissione al Pti (Pre trail intervention), una sorta di programma rieducativo. Una storia amara che inizia la notte tra il 24 e il 25 febbraio scorso ma che la famiglia di Matteo ha voluto denunciare solo ora che il giovane ha accettato il programma disposto dal giudice che farà decadere i quattro capi di imputazione per resistenza a pubblico ufficiale, opposizione all’arresto senza violenza e violazione di domicilio. Accuse per le quali il 25enne era stato arrestato nel corso di un intervento notturno in un locale da agenti fuori servizio, emergerà dal verbale. Prima i Falcinelli avevano paura di ritorsioni. Cosa sia accaduto esattamente quella notte sarà materia di indagine: la famiglia vuole sporgere formale denuncia per gli abusi, le dichiarazioni non corrispondenti alla verità e rese sotto giuramento, l’arresto illegittimo e le torture subite dal giovane e appellarsi al Quarto emendamento. Dalla prima ricostruzione della famiglia emerge che Matteo entra nel locale intorno alle 22:15: è solo, giù di corda dopo un brutto incidente del novembre precedente e non esce con gli amici per lo Spring break, l’inizio delle vacanze di primavera. Ordina un drink, rum e coca, ma ben presto si rende conto che è uno strip bar, racconterà poi. Alcune ragazze gli offrono sesso: 500 euro mezz’ora, mille un’ora ma lui rifiuta. E in effetti a guardare il sito del locale a nord di Miami si pubblicizza un bar per intrattenimento di uomini con le più belle donne della Florida del sud. Il ragazzo resta al bancone e prima di allontanarsi per andare in bagno ordina un altro drink per lui e per una ragazza conosciuta sul posto. In bagno si accorge che gli mancano i due cellulari. Inizia a cercarli, chiede dove siano, e dopo una agitata ricerca la stessa ragazza gli riferisce che i suoi cellulari sono stati ritrovati all’ingresso del bar. Matteo li va a ritirare, e solamente dopo ritorna al bar per prendere i drink ordinati precedentemente. I drink erano già pronti sul bancone, li beve insieme alla ragazza e da qui in poi i ricordi si fanno offuscati. Non ricorda come arriverà all’uscita ma lì c’è già una pattuglia della polizia con due agenti, come emerge dal rapporto ufficiale, altri quattro ne arriveranno solo dopo. I poliziotti scriveranno di essere intervenuti perché il ragazzo ha creato problemi nel locale tanto da essere sbattuto fuori e di essersi opposto all’arresto, facendo resistenza agli agenti perché rivoleva indietro i 500 dollari spesi ma Matteo sostiene di non aver mai pagato quella cifra. Quello che accade all’esterno è ripreso in parte dalle bodycam. Matteo è agitato, inveisce contro i poliziotti: ripete che non ha fatto niente, chiede di riavere i suoi telefoni. Chiede i nomi degli agenti perché li vuole denunciare ma quando punta il dito - questa la sua ricostruzione - contro la targhetta con il nominativo stampato sulla divisa, viene sbattuto a terra. “Non ci toccare sennò sono guai” lo minacciano. È a quel punto che Falcinelli finisce a terra con le mani dietro la schiena e il ginocchio del poliziotto a premere sul collo. Poco dopo le stesse immagini rimandano l’arrivo di uno dei buttafuori che riporta i due cellulari agli agenti. Verranno appoggiati accanto al ragazzo costretto a terra: proprio quelli che Matteo rivoleva indietro. Sono ormai le 3 e 38 del mattino. Falcinelli viene portato alla stazione di polizia. È lì che avviene la tortura. La body cam di un poliziotto mostra lo studente dentro una cella con le vetrate: urla chiedendo che vengano rispettati i suoi diritti. “Io non ho diritti?”, grida. Subito dopo avviene l’irruzione prima di tre poliziotti, poi del quarto con indosso la telecamera che si infila un paio di guanti neri di lattice. Matteo viene buttato a terra, con una cinghia gli legano le caviglie, gli stringono le manette con le chiavi e collegano la cinghia strettamente alle mani. Lo tirano con forza e poi lo lasciano su un fianco ma il ragazzo finisce nuovamente pancia a terra mentre gli agenti richiudono la cella. Nel corso della giornata viene portato in carcere, prima in ospedale. Saranno gli amici del college a trovarlo nelle ore successive. Quando non lo vedono chiamano gli ospedali e infine cercano nel sito online dove negli States vengono registrati tutti gli arresti. C’è la sua foto segnaletica: il volto sanguinante del ragazzo, i dati anagrafici e l’indicazione della razza: white. Per due dei quattro reati di cui è accusato è già riportata la cauzione: 500 dollari ciascuno. Gli amici pagheranno 3-4 mila dollari e martedì 27 febbraio Matteo è libero ma sotto choc. Poche ore dopo viene ricoverato per due giorni in un ospedale a causa delle ferite riportate. Successivamente, il 29 febbraio viene trasferito in un ospedale psichiatrico per cinque giorni dopo molteplici tentativi di suicidio avvenuti in seguito alla tortura. I compagni del college riusciranno ad avvertire la madre trovando il suo numero nel computer di Matteo. Vlasta Studenicova, la mamma italo-slovacca dello studente si precipita a Miami appena possibile dove si trova tuttora per assistere il figlio e preparare la denuncia contro la polizia americana. “Sono pronta a incatenarmi, quello che hanno fatto a Matteo non deve succedere mai più”.