Più carcere non significa più sicurezza di Edmondo Bruti Liberati Corriere della Sera, 4 maggio 2024 I detenuti sono oltre 61.000, diecimila in più rispetto alla capienza ufficiale. Il tragico bollettino dei suicidi ci riporta 70 morti l’anno scorso e già 30 nel 2024. Le gravissime sistematiche violenze nei confronti dei detenuti minori del Carcere Beccaria di Milano sono l’ultima spia di una situazione di crisi nella gestione degli istituti penitenziari italiani. Il numero dei detenuti ha raggiunto la cifra record di oltre 61.000, diecimila in più rispetto alla capienza ufficiale. Il tragico bollettino dei suicidi ci riporta 70 morti lo scorso anno e 30 nei primi mesi di questo anno. La situazione ha raggiunto un livello non più tollerabile anche a fronte delle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Le pene (e tanto più le detenzioni cautelari) ammonisce la Costituzione “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Il ricorso al carcere è purtroppo una necessità, ma ogni sforzo deve essere fatto per limitarlo. La crisi viene da lontano, ma il messaggio che ora lancia la politica è, all’opposto: carcere, carcere, carcere. Le sbandierate iniziative sulla costruzione di nuove carceri, non solo non risolvono il problema immediato, ma lanciano un segnale sbagliato: non sostituzione di penitenziari obsoleti con altri che consentano un trattamento più umano, ma aumento complessivo della popolazione penitenziaria. In nessun paese e in nessun tempo più carcere ha portato più sicurezza. Nulla giustifica le violenze dei confronti dei detenuti (tanto più se minori) da parte degli agenti penitenziari, ma il sovraffollamento produce tensioni e rischi di eccessi. Nessuna generalizzata sfiducia nel corpo della polizia penitenziaria, ma a quattro anni dalle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere diverse sono state le vicende intollerabili e preoccupanti. Quanto è accaduto nel Carcere minorile di Milano, al di là delle singole responsabilità che saranno accertate con le garanzie dovute, indica una situazione fuori controllo. A pochi chilometri dal Beccaria sta il Carcere di San Vittore, ora intitolato al maresciallo vice comandante degli agenti di custodia Francesco Di Cataldo. Nel 1977, dopo due giorni di rivolta, il ripristino dell’ordine viene attuato in un clima di particolare tensione con gli agenti di custodia in servizio ininterrotto, senza turni e riposo. I caporioni della rivolta sono portati nel seminterrato per essere consegnati ai Carabinieri per il trasferimento ad altri carceri. È il momento di maggiore rischio di atti di ritorsione; per questo sono presenti sul posto il vice comandante di San Vittore e io stesso, magistrato di sorveglianza di Milano. L’uso legittimo della forza è stato mantenuto nei limiti della necessità e della proporzione, le ritorsioni sono state prevenute. Nella perversa logica dei terroristi Francesco De Cataldo, l’uomo del rispetto della legalità, viene assassinato l’anno dopo dalle Brigate Rosse. L’onore degli agenti penitenziari sta nel rispetto dei principi della Costituzione e dei principi di umanità, nell’omaggio alla memoria di colleghi come il Maresciallo De Cataldo. Ma sta alla politica cessare di invocare sempre più carcere e comunque e subito adottare misure atte ad attenuare almeno la intollerabile situazione dei nostri penitenziari. Ovunque nel mondo sono previste misure di riduzione di pena per buona condotta. È depositata in Parlamento una proposta di legge che amplia i limiti delle riduzioni di pena consentite, per ogni semestre di pena scontata, dal nostro istituto della “liberazione anticipata”. Non è automatismo, non basta la sola buona condotta (cioè mancanza di sanzioni disciplinari) ma si richiede la “partecipazione all’opera di rieducazione”. Il ministro Nordio si è affrettato a bollare la “liberazione anticipata speciale” come “una resa dello Stato”. Ma una resa dello Stato è proprio la attuale situazione delle nostre carceri. La proposta di legge, con alcune indispensabili correzioni della procedura e casi di esclusione, potrebbe essere approvata rapidamente e consentirebbe per lo meno subito una attenuazione della tensione. Il Ministro della Giustizia, responsabile della gestione delle carceri, e ministro “tecnico” dovrebbe essere il primo a sostenerla, bypassando la demagogia repressiva diffusa nelle forze politiche. O aspettiamo le elezioni europee per fare ciò che sarà ineluttabile… Viste le pene, ridurre la pena. La condizione disumana delle carceri di Glauco Giostra Avvenire, 4 maggio 2024 Se affidassimo all’Enpa, l’Ente nazionale protezione animali, il compito di redigere un rapporto sullo stato delle nostre carceri ci consegnerebbe un referto di severissima censura (salvo che per rare e lodevoli eccezioni): in questa sorta di stabulario di Stato sono ristretti, in condizioni spesso inaccettabili anche per animali in cattività, detenuti frequentemente imbottiti di psicofarmaci, che ricorrono sovente all’autolesionismo per richiamare l’attenzione sull’insostenibilità della loro condizione, rassegnandosi non di rado al suicidio quando non riescono ad accettarla. Una situazione che il Capo dello Stato definiva, già all’inizio di questo suo ultimo mandato, lesiva della dignità del Paese e che da allora si è ulteriormente aggravata. Nel tentativo di renderla meno indecente è stato proposto di portare la detrazione di pena di 45 giorni - attualmente prevista per ogni semestre in cui il condannato abbia partecipato all’opera rieducativa - a 60 giorni per coloro che già ne siano stati giudicati o che ne risulteranno meritevoli. Secondo un’altra proposta, la riduzione potrebbe elevarsi in via transitoria a 75 giorni per i soggetti che l’abbiano già meritata in passato o che la meritino nei prossimi due anni. In sostanza, si propone di incrementare la premialità per i ristretti che se ne siano o se ne dimostreranno meritevoli. Speravamo che le uniche reazioni di dissenso consistessero nel fatto che si tratta sì di un rimedio necessario e urgente, ma del tutto insufficiente, in mancanza di una profonda riforma dell’esecuzione penale. Abbiamo invece assistito - sconcertati ma non sorpresi - a reazioni di diverso segno. A cominciare da quella, istituzionalmente autorevole, del ministro Nordio, secondo cui ridurre ulteriormente la durata della pena a chi dimostra che questa sta raggiungendo il suo obbiettivo costituzionale, sarebbe “una resa per lo Stato”. Ci rifiutiamo di credere che per il Ministro, uomo di fede liberale sino all’impegno governativo, uno Stato che non si arrende sia quello che umilia i suoi cittadini, cui ha legittimamente ristretto la libertà, con trattamenti inumani e degradanti, come sta facendo almeno da inizio secolo e come ci ha dovuto ricordare e presto ci ricorderà di nuovo la Corte europea dei diritti dell’uomo con ustionante verdetto. Ci rifiutiamo di crederlo, ma proprio per questo ci suona incomprensibile la sua contrarietà al primo tentativo di dar seguito concreto a quelle che sono le sue stesse parole: “Il sovraffollamento carcerario è una priorità assoluta”. Forse faremmo bene a considerare che il proposto incremento di riduzione di pena non sarebbe una regalia, ma un “indennizzo”, poiché il coefficiente di afflittività della detenzione nelle condizioni date è incomparabilmente superiore a quello che il legislatore penale ha previsto, presumendo condizioni detentive costituzionalmente e convenzionalmente ortodosse. Secondo l’italico more, si paventa che migliaia di criminali saranno riversati dalla notte alla mattina nella buona e sana società. L’attuale proposta si limita in realtà ad anticipare di qualche mese il fine pena solo a coloro che hanno dimostrato per un lungo periodo di essersi incamminati nella direzione che porta presumibilmente ad un proficuo reinserimento sociale. Senza dire che il deflusso non potrà che essere graduale, obbedendo alle variabili del conseguimento della libertà anticipata a seguito delle pur accresciute detrazioni e del pronunciamento dell’organo competente a disporla. Forse dovremmo tener presente che nell’allarmismo dei giorni scorsi c’è un messaggio subliminale impresentabile, che suona più o meno così: “questo provvedimento ci fa correre un rischio che ben potremmo evita - Vien fatto di chiedersi: ma qualcuno vuol farci seriamente credere che questi condannati, ove venissero dimessi qualche mese più tardi, si convertirebbero da pericolosi devianti in cittadini irreprensibili? Forse faremmo bene a non dimenticare, al contrario, che il massimo livello di recidiva è proprio dei soggetti che hanno trascorso sino all’ultimo giorno di pena in galera. Forse bisognerebbe ricordare a coloro che paventano qualche migliaio di condannati restituiti per merito alla libertà con qualche mese di anticipo, che ne abbiamo più di centomila in libertà, in attesa di sapere se per loro è necessaria la prigione (cosiddetti liberi sospesi). Non credo che simili argomenti siano destinati a far breccia nelle coscienze di coloro che sanno soltanto ostentare un inerme rincrescimento di circostanza per le condizioni, indegne di un uomo, che imponiamo a nostri simili. Tanto meno in questo periodo, essendo quello del carcere argomento elettoralmente poco redditizio. Forse un’attenzione in più, con i tempi che corrono, riuscirebbe a suscitare la prosaica considerazione del non irrilevante risparmio che comporterebbe avere qualche migliaio di condannati in meno nelle patrie galere. Tanto più se si considera che molti di questi potrebbero chiedere ed ottenere risarcimento per le condizioni di degradante disumanità nelle quali vi sarebbero trattenuti. Di certo, qualunque sia la motivazione, bisogna porre fine con urgenza a questo incubo umanitario che accusa e umilia tutti noi. Paola Severino: garantire la connessione fra carcere e società di Claudio Bottan vocididentro.it, 4 maggio 2024 Con la sentenza Torreggiani del 8 gennaio 2013 la Corte europea per i diritti dell’uomo condannava l’Italia per le condizioni inumane e degradanti delle carceri. Non era difficile immaginarlo, mi dicevo mentre stavo appollaiato al terzo piano del letto a castello in una cella del carcere di Busto Arsizio. Per starsene in piedi, o seduti, era necessario organizzare i turni: lo spazio non consentiva ai tre “concellini” di poterlo fare contemporaneamente. La ministra della Giustizia dell’epoca, Paola Severino, si disse “profondamente avvilita, ma non stupita” per la condanna di Strasburgo. Cosa è cambiato da allora? Quando sono in dirittura d’arrivo e manca ormai una manciata di giorni al “fine pena”, ho avuto l’opportunità di dialogare con la professoressa Severino di sovraffollamento, suicidi, diritto all’affettività e reinserimento sociale. Potevano essere solo questi i temi di una lunga chiacchierata che, per quanto mi riguarda, chiude idealmente il cerchio di un percorso lungo e doloroso ma arricchente sotto l’aspetto umano. “L’affollamento carcerario - dice l’ex ministra - si propone purtroppo come una costante emergenza, che, a volte, come evidenziato dalla sentenza pilota Torreggiani, emerge in tutta la sua complessità e drammaticità. Salvo una breve parentesi fra gli anni 2015-2016, il numero delle persone detenute torna di nuovo ad aumentare, raggiungendo i numeri esistenti proprio alla vigilia della pronuncia della Corte Edu e del messaggio alle Camere dell’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. In quel momento storico, l’esigenza di cambiare rotta, di voltare pagina, permeava il tessuto istituzionale e l’opinione pubblica, tant’è vero che il Legislatore si adoperò non solo con dei provvedimenti emergenziali, i c.d. “svuota-carceri”, ma mise in moto un progetto riformatore finalizzato a superare il modello “carcerocentrico” e a introdurre sanzioni penali alternative alla reclusione in carcere per la criminalità medio-bassa”. Il carcere non deve essere solo punizione. Cultura, formazione e lavoro per prevenire l’affollamento abbattendo la recidiva. “È indubbio che tanto ancora bisogna realizzare per implementare un sistema di giustizia penale che possa rispondere non solo alle esigenze punitive, ma anche, se non soprattutto, a quelle rieducative, che caratterizzano l’individualità di ciascun percorso trattamentale o sanzionatorio e che meritano maggiori attenzione e investimenti. Soltanto attraverso un processo di risocializzazione autentico, di tutela della dignità e di promozione dell’integrità morale del detenuto e della detenuta, che abbia al centro cultura, formazione e lavoro, è possibile affrontare il problema dell’affollamento carcerario in chiave preventiva ed abbattere il tasso di recidiva, assicurare maggiore coesione sociale e promuovere anche l’accesso al lavoro per queste persone che hanno molte difficoltà ad emanciparsi e a collocarsi autenticamente all’interno della società”. Per far fronte al sovraffollamento delle carceri restituendo dignità alle persone recluse, la professoressa Severino indica la strada “verso un sistema punitivo pluriforme, in cui la pena della reclusione sia prevista per i reati più gravi e per i casi di maggiore pericolo per la società, mi sembra, dal punto di vista della politica criminale e sanzionatoria, la più adatta, nel lungo termine, a riformare in modo strutturale il sistema e a consentire una diminuzione degli accessi negli istituti di pena. Al pari, sicuramente è necessario investire nella predisposizione di un modello, basato su forme di cooperazione pubblico-privata fra amministrazione penitenziaria, istituti di pena, comuni e territori, imprese, cooperative e associazioni”. Nessun imbarazzo se le dicessi che il giornalista è un ex detenuto? “Al di là del fatto che è stato molto interessante poter dialogare con lei e la ringrazio ancora molto per questa intervista, non può essere di certo un pregresso stato di detenzione a creare un disagio fra le persone, qualunque sia la loro esperienza”. Ho visto il carcere in tutta la sua oscenità: come possono i detenuti tornare fuori migliori? di Francesco Lo Piccolo* L’Unità, 4 maggio 2024 Il 23 aprile ho partecipato alle visite di Nessuno tocchi Caino e delle Camere Penali alle Case circondariali di Chieti e Pescara. Conosco bene i due istituti perché è dal 2008 che vi entro come volontario di “Voci di dentro”. Ma questa volta è stato diverso perché non ho incontrato le persone detenute nelle stanze allestite per i laboratori di scrittura o teatro. Questa volta li ho incontrati nel loro habitat, nelle celle e nelle sezioni. Ed è stato un pugno allo stomaco. Ho visto il carcere in tutta la sua oscenità, in tutto il suo orrore. Lo dicono i numeri: 130 detenuti a fronte di 70 posti a Chieti e 400 detenuti a fronte di 276 posti a Pescara; ma soprattutto lo svelano le grate alle finestre ai piani terra per evitare che entrino i topi, le muffe al soffitto nei gabinetti e in molte camere, i secchi sotto i lavandini per raccogliere l’acqua che fuoriesce dalle tubature, la mancanza di luce e di areazione. Per la prima volta ho visto il contenitore, il luogo dove sono costretti a passare il loro tempo centinaia di giovani e vecchi, poveri e malati, in stampelle, ciabatte e accappatoio. Molti li conoscevo già, ma era da molto tempo che non venivano più nei laboratori di “Voci di dentro”: li ho ritrovati ingrassati, gonfi, stanchi, sofferenti. Nel reparto psichiatrico di Pescara ho trovato un uomo che era rinchiuso da una ventina d’anni. Avrà avuto 40-45 anni. Ci ha raccontato che prende “la terapia” al mattino presto, a mezzogiorno, nel primo pomeriggio e poi la sera, prima della chiusura delle celle. Ci ha detto che ha girato tante carceri, che a Pescara si trova bene, che gli agenti sono gentili: “io non vedo le divise blu, io dentro quelle divise vedo persone”. Lui che è definito “psichiatrico”, imbottito di non so quanti psicofarmaci, vede le persone non il ruolo, il contrario di tanti fuori che vedono solo il reato. Psichiatrico da quando aveva vent’anni? Davvero sicuri che non sia diventato psichiatrico proprio in questo luogo che non ha senso e non ha vita? E allora mentre giravo per quelle celle e quei grandi e lunghi corridoi mi sono sentito sopraffare da una specie di nausea. Che cosa è questo luogo? Che cosa fa questa istituzione? Cosa è questo rimbombo di voci, porte che sbattono, urla? Ho visto ragazzi che credevo fuori e liberi; ho visto un giovane con la barba e con l’occhio spento che non ho saputo riconoscere da quanto era cambiato: “Sono Marco, ti ricordi, cinque anni fa ero in misura alternativa”. Che cosa era successo? Che cosa aveva fatto? Soprattutto, che cosa non aveva fatto questa società per aiutarlo ed evitare che tornasse dentro? Dove erano i servizi sociali? Ho visto decine di persone che dormivano. Alle due del pomeriggio, in stanze con tende alle finestre per non far entrare la luce, una lurida coperta sopra la testa. E ho visto cameroni con 6 letti e 4 sgabelli e camere con 4 letti e due sgabelli: “mangiamo a turno”. Ho visto le famose bombolette per cucinare e che servono anche a sballarsi o farla finita e i tegami in teflon senza più teflon, e sulle mensole di cartone batterie per le radioline e che alle volte finiscono in quelle pance scolpite o gonfie per protesta, perché è saltato un colloquio, per urlare sofferenza e chiedere ascolto. Ho visto le stanze per l’isolamento: celle nude, alle pareti le tracce di tante povere vite. Ecco davanti ai miei occhi il contenitore con mura sporche, intonaco scrostato, finestre dove non passa l’aria, arredi da terzo mondo, pochi e rotti, ed ecco il suo contenuto: uomini sofferenti e persi, scartati. Nel vuoto: poca scuola, medici insufficienti, nessun lavoro. A Pescara la calzoleria gestita da una ditta esterna e che impiegava per 4-5 ore al giorno una trentina di persone è chiusa da tempo per manutenzione. Quale trucco ci fa dire che questi uomini e donne sono rinchiusi per tornare fuori migliori? Come possiamo credere possibile un cambiamento se sono lasciati per mesi e anni a parlare tra loro, a confrontarsi con altri identici a sé? Gimmi mi ha detto che è dentro da dieci anni, che la sua famiglia è a Roma. Che gli restano da scontare 5 mesi e che non lo mandano a casa. E poi mi ha fatto conoscere un ragazzo col barbone che poco tempo fa aveva tentato di impiccarsi alla sbarra della doccia e che lo hanno tirato giù appena in tempo: gli ha detto di mostrami i tagli alla pancia e alle braccia… Luogo osceno e orribile, ecco quello che ho visto e quello che mi ha trasmesso questa visita. E ho immaginato la vita degli agenti in questo posto che non ha nessuna dignità e dove ragazzi che spesso hanno l’età delle persone detenute sono costretti a diventare coloro che detengono, “guardie” ma anche psicologi ed educatori e che alla fine del turno, il doppio o triplo turno, anche 18 ore di seguito, si tolgono la divisa e si infilano la tuta e si mettono a correre… chilometri e chilometri per tornare a respirare. Lontano da quel posto. *Giornalista, direttore di Voci di dentro Dietro le violenze al Beccaria c’è uno Stato che ha rinunciato alla sua funzione di Sara Manfuso La Notizia, 4 maggio 2024 Dinanzi ai soprusi e alla violenza la sete di giustizia diventa così forte da potersi tramutare beffardamente nel suo opposto, diventando così essa stessa ingiustizia. Questa elementare verità dovrebbe orientare i giudizi e le analisi nei giorni in cui - dopo i drammatici fatti consumatisi nelle mura dell’Istituto per minori (Ipm) Beccaria - ritorna prepotente sulla scena nazionale il tema delle carceri minorili e della difficile condizione in cui versano i detenuti ma anche, ed è questo il punto, gli agenti della Polizia penitenziaria che vi operano. Assumere questo punto di vista non equivale ad empatizzare con gli eventuali colpevoli, ovvero gli agenti di polizia penitenziaria al centro dell’indagine che vede torture e pestaggi a danno di detenuti di 15, 16 e 17 anni. Le violenze subite da un detenuto quindicenne che sono state riprese dalle telecamere interne di video sorveglianza e agli atti dell’inchiesta della Procura di Milano ha del resto già visto finire in carcere 13 agenti portando alla sospensione di altri colleghi. Tenendo ferma la specificità dei fatti, occorre non generalizzare e aprire una riflessione che non divida in “buoni” o “cattivi” chi cerca di fare il proprio lavoro in condizioni spesso avverse e chi, avendo commesso un reato, viene consegnato a delle pene il cui valore rieducativo deve essere posto al centro proprio come Beccaria - il cui nome porta proprio il carcere delle violenze - ci ha insegnato. Nei giorni scorsi, in un lungo colloquio con Giuseppe Moretti, Presidente dell’Uspp - Unione sindacati della Polizia Penitenziaria - ho voluto parlare proprio di questo. In riferimento ai fatti del Beccaria, con l’atteggiamento di chi chiede sostegno e resta inascoltato, il Presidente racconta come: “Un elemento non trascurabile sia la grave carenza d’organico che si registra tra le file della polizia penitenziaria che è causa di una sovraesposizione nei compiti che gli sono assegnati dalla costituzione e fonte di stress. Di fatto l’orario di lavoro (che dovrebbe essere di sei ore per turno) è spesso prolungato e il personale interessato deve svolgere più compiti e coprire letteralmente più posti di servizio durante il turno di lavoro che dura anche 12/16 ore. Sicuramente questi fatti amplificati dalla gogna mediatica che si attiva rispetto ad una deriva della dignità della persona che va sempre tutelata, oscurano tutto quello che di buono fa ogni giorno la polizia penitenziaria anche salvando vite e sostituendosi spesso e volentieri a figure professionali che dovrebbero invece intervenire per compensare il disagio vissuto da chi in carcere ci si trova anche per reati connessi alle proprie condizioni personali, come nel caso dei tossicodipendenti ho dei detenuti con problematiche psichiatriche che non dovrebbero permanere nelle carceri. Riteniamo che la Polizia penitenziaria sia un corpo dello Stato sano che deve avere le risorse adeguate per funzionare correttamente adempiendo al proprio mandato istituzionale, pagando per l’inerzia dello Stato nel mettere in sicurezza il sistema penitenziario”. Uno Stato del quale reclamano la presenza anche le famiglie dei detenuti e non solo in una chiave repressiva, ma di prevenzione culturale e sociale. Il decreto Caivano ha introdotto una serie di misure che hanno avuto un impatto non indifferente sulla giustizia minorile determinando un’impennata di accessi anche in fase cautelare negli Ipm. Ma mandare in carcere i ragazzi se non esistono strutture idonee ad accoglierli, personale adeguatamente formato, percorsi rieducativi e un progetto di vita da costruire proprio a partire da quella detenzione vuol dire fallire clamorosamente. Il rischio è quello di una maggiore emarginazione sociale, di vite abbrutite e definitivamente segnate senza possibilità di recupero con il rischio che anche chi è custode della legalità si trasformi nel suo opposto. Meloni vede Nordio per rilanciare la separazione delle carriere di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 4 maggio 2024 Obiettivo: licenziare entro le europee la riforma voluta da Forza Italia, aprendo un canale di comunicazione con la magistratura. Un’ora di colloquio con la presidente del Consiglio, a Palazzo Chigi, assieme al suo vice Francesco Paolo Sisto, ai sottosegretari Delmastro e Ostellari e alla presenza dei presidenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Per Carlo Nordio e per la più volte annunciata riforma della giustizia, nella sua parte più sostanziosa riservata alla separazione delle carriere dei magistrati, sembra avvicinarsi la fatidica “Ora x”. Le indiscrezioni circolate dopo l’incontro hanno confermato che il ddl costituzionale dovrebbe essere licenziato da uno dei Consigli dei ministri che si svolgeranno da qui alle elezioni europee (come chiesto da Forza Italia) e, quanto ai contenuti, la novità più sostanziosa, oltre naturalmente alla separazione delle carriere (con tanto di concorsi di accesso separati per giudicanti e requirenti), sembra essere l’istituzione di un’Alta Corte, organismo cui sarà delegato il compito di giudicare sia i magistrati giudicanti che requirenti, in modo da sottrarre il giudizio dell’operato delle toghe alla sezione disciplinare del Csm, nota per la sua indulgenza. Fonti della presidenza del Consiglio, quando il Guardasigilli ha varcato la soglia della sede dell’esecutivo, si erano affrettate a specificare che quella di ricevere i propri ministri nei venerdì in cui è nella Capitale è una consuetudine, dettata dall’esigenza di fare il punto sui dossier più rilevanti di ogni dicastero, ma è apparso evidente, una volta reso noto il parterre de roi presente attorno alla premier, che si trattava di qualcosa di più importante di un “caminetto” del venerdì. Ne è consapevole per prima la stessa Meloni, che ha già sperimentato nelle precedenti esperienze di governo all’ombra della leadership berlusconiana come la giustizia e in genere i provvedimenti che impattano sullo status quo e sulle rendite di posizione cinquantennali delle toghe siano un terreno minato. Tornando al merito del ddl, si confermerebbe la previsione di un doppio Csm, mentre restano varie ipotesi sul metodo di elezione, se cioè ci sarà sorteggio totale o mediato, mentre sarebbe stata esclusa l’ipotesi della nomina governativa di metà dei componenti. Vi sarebbe poi l’aumento del numero dei membri laici dei Consigli, con almeno un quarto nominati dal Parlamento. Nei giorni scorsi, quando da via Arenula è filtrato che il ddl era a buon punto, ovviamente le antenne dell’Anm si sono levate per cercare di intercettarne i contenuti ed eventualmente partire con la levata di scudi. Ma una serie di segnali delle ultime ore lasciano pensare che la storia potrebbe essere differente e che vi sia già stata una qualche forma di interlocuzione tra governo e toghe. Da Palazzo Chigi, tanto per cominciare, ci tengono che si sappia che Giorgia Meloni ha più volte detto ai suoi interlocutori che non ha nessuna voglia di innescare una guerra dei magistrati sulla falsariga di quelle condotte da Silvio Berlusconi a partire dalla metà degli anni 90. Il messaggio sarebbe stato ribadito forte e chiaro anche ieri a Palazzo Chigi, ed è difficile pensare che non vi sia un nesso tra questo intento della premier e le parole del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia il quale, a margine della presentazione del congresso di Palermo, ha mostrato un inedito spirito conciliante nei confronti dell’esecutivo, parlando di “confronto”, e negando “l’idea di un potere della magistratura che si fa antagonista rispetto al governo”. E’ probabile dunque che, mentre inizialmente si pensava che Nordio rendesse pubblici i contenuti della riforma dopo il congresso delle toghe (che si terrà dal 10 al 12 maggio) per non irritare oltremodo la magistratura, il palco palermitano possa essere il luogo dove il governo sottoporrà al giudizio dei magistrati i punti salienti del ddl nell’ottica di un confronto costruttivo, anche se il ministro non potrà essere presente a causa della concomitanza del G7 della Giustizia. Ancor prima potrebbe esserci un incontro tra Nordio e l’Anm a via Arenula, ma l’ipotesi è da confermare. Il metodo della “concertazione” che la presidente del Consiglio vuole perseguire per la riforma non potrà non incidere sul merito della stessa, e non è un mistero che è allo studio più di una formula buona per far “digerire” ai magistrati la separazione delle carriere: una di queste potrebbe essere quella di sacrificare sull’altare della trattativa l’introduzione di qualsiasi ipotesi di sorteggio, misura da sempre proposta da chi ritiene giusto contrastare lo strapotere delle correnti nell’organo di autogoverno della magistratura. Per avere delle conferme, però, bisognerà ancora attendere anche se c’è chi, come il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, manifesta scetticismo. “La riforma, il governo non la vuole fare”, afferma Costa. “Per mesi non fanno nulla”, prosegue, poi se ne escono con un ddl costituzionale, che ci costringe in Parlamento a ricominciare tutto da capo, dopo aver già fatto 35 audizioni, invece di fare un emendamento”. Che Meloni, sui temi della giustizia, voglia muoversi nel solco di una sorta di ostpolitik lo dimostra anche lo stop agli emendamenti di parlamentari della maggioranza che prevedono l’eventualità del carcere per i giornalisti. In un vertice tenutosi giorni fa a Palazzo Chigi, il sottosegretario Alfredo Mantovano aveva illustrato ad alcuni parlamentari della maggioranza il contenuto del ddl sulla cybersecurity. Tra questi, il deputato azzurro Tommaso Calderone aveva fatto presente che occorreva punire, oltre agli “spioni” e ai giornalisti che pubblicano dati riservati ottenuti violando i sistemi informatici, anche coloro che ottengono i dati sensibili e pur non pubblicandoli li utilizzano per ricattare o per averne dei vantaggi economici. Sulle prime Mantovano ha acconsentito alla richiesta di Calderone, ma dopo la formulazione dell’emendamento, che poteva ingenerare confusione su pene detentive molto severe per i giornalisti, da Palazzo Chigi è arrivato l’input di fare dietro-front. Carriere separate per i magistrati: il governo vuole il ddl prima del voto di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 4 maggio 2024 Vertice Meloni-Nordio: previsti due Csm e un’Alta corte esterna che valuti l’operato dei giudici. Carriere separate per i magistrati, con due concorsi diversi per diventare giudice o pm. Due Csm distinti, per essere valutati, entrambi presieduti dal presidente della Repubblica, ma con i togati scelti per sorteggio. Più un’Alta Corte esterna al Csm per sanzionare chi ha sbagliato. Il via libera politico alla riforma costituzionale della Giustizia ora c’è. Riuniti a palazzo Chigi, in un vertice presieduto dalla premier Giorgia Meloni, il sottosegretario di Stato, Alfredo Mantovano, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il viceministro Francesco Paolo Sisto, i sottosegretari Andrea Delmastro e Andrea Ostellari, la presidente della commissione giustizia del Senato, Giulia Bongiorno e l’omologo alla Camera, Ciro Maschio e i responsabili giustizia di tutto il centrodestra, hanno dato l’ok a un disegno di legge costituzionale che cambia volto al nostro sistema giudiziario. È stata una discussione soprattutto tecnica, alla quale la premier ha dato il suggello politico. Il provvedimento nelle intenzioni del governo deve essere presentato prima delle elezioni europee di giugno. Così da poter rivendicare all’interno e all’esterno della maggioranza di aver portato a compimento l’impegno di separare definitivamente le carriere dei giudici da quelle dei pm (attualmente è consentito un unico passaggio tra le due funzioni”. Il ddl costituzionale non ha ancora un testo, neppure in bozza, ma già allarma l’Anm che auspica un incontro tecnico con il ministro Nordio prima che diventi legge e concretizzi i “timori di un totale stravolgimento dell’assetto costituzionale”, giacché, “viste nell’insieme, le riforme preoccupano”. Anche l’Associazione europea dei giudici, paventa un “grave attacco all’indipendenza della magistratura”, poiché si mina “l’attuale equilibrio di poteri esistenti”, in contrasto “con gli standard europei”. Ma quali sono le novità di un provvedimento già discusso in varie riunioni come quella di ieri nella quale, secondo chi c’era, non si è parlato nè di togati dei Csm nominati dal governo, nè di abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale? Prima di tutto l’Alta Corte. Non sarà più la sezione disciplinare interna al Csm a valutare i magistrati che sbagliano e a sanzionarli, ma un organismo esterno. Si rispolvera l’ipotesi tratteggiata durante la Bicamerale dalla “bozza Boato” nella quale nove giudici prendevano provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati ed erano anche l’organo di impugnazione contro provvedimenti amministrativi presi nei loro confronti. In quella bozza, poi accantonata, però i nove giudici erano scelti all’interno del Csm. In questo caso invece si parla di giudici esterni all’organo di autogoverno della magistratura, presieduto dal capo dello Stato. Non è ancora chiaro dunque se il loro giudizio sarà totalmente svincolato da quello del presidente della Repubblica o meno. Nuova è anche l’indicazione del sorteggio per scegliere i togati del Csm. In commissione giustizia al Senato si era parlato di un sorteggio temperato, vale a dire successivo all’elezione dei rappresentati dei magistrati, perché più oltre non ci si poteva spingere per limiti imposti dalla Costituzione. Ma visto che il ddl la modifica ora si inzia a parlare di un sorteggio secco tra candidati. Sull’Alta Corte non è contrario il Pd. La vicepresidente dem del Senato, Anna Rossomando evidenzia: “Non sappiamo quale sia il contenuto della proposta ma suggeriamo di dare un’occhiata a quella che abbiamo depositato che affronta il tema seriamente. Varrebbe la pena discutere di questo invece che utilizzare la giustizia a suggello di patti interni alla maggioranza”. “Disponibili al confronto con Nordio sulla riforma prima che diventi legge” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 maggio 2024 Il sindacato delle toghe cambia postura e apre al dialogo con il guardasigilli in vista del prossimo congresso di Palermo. Dialogare senza contrapposizioni sterili ma tenendo fermo il diritto di esprimere il proprio punto di vista in merito alle riforme: è questa la linea che per adesso l’Anm intende mantenere nei confronti del governo. È quanto emerso ieri durante la conferenza stampa di presentazione da parte del “sindacato” delle toghe del Congresso che si terrà la prossima settimana a Palermo. “Auspichiamo un confronto con il ministro Nordio sulla riforma della Giustizia, almeno prima che diventi legge, per un contributo tecnico. Scelga lui se prima o dopo il Cdm” ha detto infatti il presidente Giuseppe Santalucia in merito al ddl costituzionale che l’Esecutivo sta per licenziare. Sul fatto che molto probabilmente il ministro Nordio non sarà presente all’assemblea, nessuna polemica: “ci dispiace se non sarà presente” visto il suo impegno al G7 della giustizia, tuttavia “saremmo felici se potesse venire in uno dei tre giorni” ha risposto Santalucia alla nostra sollecitazione su questo. Ad intervenire, tra gli altri, alla tre giorni palermitana, ci saranno, tra tutti gli esponenti politici e istituzionali invitati, Giuseppe Conte (M5S) e la segreteria dem Elly Schlein. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha invece delegato il viceministro Sisto. Il leader dell’Anm ha poi proseguito: “Vorremmo dissipare l’idea di una magistratura antagonista e tornare a ragionare sui temi della correttezza istituzionale. Il congresso sarà un’occasione per ragionare su come far intendere che siamo imparziali. Non possiamo essere sottoposti a denigrazioni solo perché ad esempio una norma non era negli intendimenti di chi l’aveva scritta”. Il riferimento è al caso dei giudici attaccati dalla maggioranza per aver disapplicato il decreto Cutro, anche se poi “le Sezioni Unite hanno fatto emergere come tutto rientra nella normale attività interpretativa”, ha chiarito Santalucia. “Vogliamo dipanare gli equivoci per evitare che sulla magistratura si annidino dubbi di imparzialità e scorrettezza istituzionale”. Per Santalucia, che è intervenuto anche nel merito di alcune anticipazioni sulla prossima riforma della Giustizia, “ridurre la quota dei magistrati togati e separare le carriere è una ristrutturazione dell’ordine giudiziario, funzionale al ridimensionamento del potere giudiziario. Noi non crediamo che questo sia condivisibile”. Ha preso poi la parola il segretario generale dell’Anm Salvatore Casciaro: “Il cuore del congresso sarà il tema dell’indipendenza, che è un presidio per assicurare l’imparzialità”. “L’associazionismo è trasparenza, confronto tra i vari punti di vista che esistono all’interno della magistratura. I nostri Cdc vengono trasmessi su Radio Radicale e non nelle segrete stanze dei luoghi di potere. Se negli anni ci sono state cadute dovete però dare atto che la magistratura ha preso le distanze e reagito a un “modo malato” di fare associazionismo. Ricordo che in qualche episodio non virtuoso c’erano anche politici oltre che magistrati, ma in quel caso non mi pare ci sia stata una severa critica da parte della politica”. Così Italo Federici, componente della giunta dell’Anm, ha risposto alla nostra richiesta di commentare quanto detto il 25 aprile da Matteo Salvini: “finché non ci sarà una magistratura seria e libera da correnti politiche, nessun italiano può dirsi tranquillo a casa sua”. “L’indipendenza della magistratura è l’unica garanzia per i cittadini. Oggi la diamo scontata ma non è stato sempre così. Per questo va difesa ogni giorno”, ha concluso la vicepresidente Alessandra Maddalena. Contemporaneamente alla conferenza, AreaDg ha organizzato un convegno in linea con i temi del Congresso, dal titolo “Comunicazione giudiziaria e libertà di pensiero del magistrato”: “nell’ultimo anno - ha detto l’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte - l’attacco ai magistrati che hanno preso decisioni sgradite alla maggioranza politica è diventato una costante. Spesso esso è stato condotto verso l’indipendenza di giudizio del magistrato, andando a cercare nella sua vita privata qualcosa che, mistificata e comunicata ad arte, abbia potuto dare all’opinione pubblica l’impressione di un suo pregiudizio, di una partigianeria che ne ha guidato la penna. Abbiamo contrastato e ogni giorno combattiamo contro questa deriva che rischia sia di inquinare definitivamente il dibattito pubblico intorno alla giustizia sia di generare sfiducia verso la magistratura”. Ha concluso il segretario di Area Dg, Giovanni Zaccaro: “Più sono forti e numerose le maggioranze politiche, più devono essere garantite la libertà di stampa e l’autonomia della magistratura”. Per questo oggi, a fronte di “una schiacciante maggioranza parlamentare e della riforma del premierato, siamo preoccupati degli attacchi alla libertà di stampa e della quotidiana delegittimazione del potere giudiziario”. Riforma in arrivo mentre l’Anm va a congresso di Mario Di Vito Il Manifesto, 4 maggio 2024 Le toghe a Palermo dal 10 al 12 maggio, sarà presente anche Mattarella. Nordio, intanto, va a Palazzo Chigi. “La magistratura non è antagonista del governo”. Così Giuseppe Santalucia presenta il congresso dell’organizzazione che presiede, l’Associazione nazionale magistrati, in programma da venerdì prossimo a Palermo, con Mattarella che sarà presente il giorno dell’inaugurazione, mentre il ministro Nordio potrebbe dare forait, impegnato a Venezia per il G7 della giustizia. Il titolo del 36° congresso dell’Anm è tutto un programma: “Magistratura e legge tra imparzialità e interpretazione”. Sullo sfondo si sentono gli echi del caso Apostolico e di quello di Artem Uss, con tanto di ispezione ministeriale alla procura di Milano. “Dobbiamo capire come prevenire il pericolo di non apparire imparziali - ha detto ancora Santalucia -. Il mestiere di magistrato è un lavoro complesso e va data fiducia alla magistratura”. E ancora: “Ci si muove sulla linea di ridurre la quota di magistrati togati e di separare le carriere: noi siamo rispettosi degli altri poteri”. Ieri pomeriggio il ministro Nordio si è intrattenuto per oltre un’ora a Palazzo Chigi. All’uscita ha detto una sola frase ai cronisti: “Work in progress”. Con ogni probabilità il riferimento è alla riforma della giustizia, che dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri a metà maggio. O forse addirittura prima, anche se presentarlo la settimana prossima (cioè a pochi giorni dal congresso dell’Anm) suonerebbe come una vera e propria dichiarazione di guerra alle toghe. Anche perché i magistrati vorrebbero essere consultati sul punto. Se prima o dopo il passaggio in Consiglio dei ministri è indifferente. “A volte abbiamo chiesto di essere ascoltati prima e ci è stato detto che era troppo presto - il commento sarcastico di Santalucia -, altre volte dopo e ci hanno detto che era troppo tardi. A noi va bene sempre, l’importante è che sia prima della pubblicazione in gazzetta ufficiale”. Sempre ieri, a Roma, durante il convegno intitolato “Comunicazione giudiziaria e libertà di pensiero del magistrato”, l’ex presidente dell’Anm ed esponente di Area democratica per la giustizia ha offerto qualche coordinata su quello che sarà il congresso della settimana prossima. “Nell’ultimo anno l’attacco ai magistrati che hanno reso decisioni sgradite alla maggioranza politica è diventato una costante - ha spiegato in apertura dei lavori -. Spesso esso è stato condotto verso l’indipendenza di giudizio del magistrato, andando a cercare nella sua vita privata qualcosa che, mistificata e comunicata ad arte, abbia potuto dare all’opinione pubblica l’impressione di un suo pregiudizio, di una partigianeria che ne ha guidato la penna”. E infine: “Abbiamo contrastato e ogni giorno combattiamo contro questa deriva che rischia sia di inquinare definitivamente il dibattito pubblico intorno alla giustizia sia di generare sfiducia verso la magistratura. un gruppo come Area non può non interrogarsi sul fondamento ed i limiti della libertà di manifestazione del pensiero dei magistrati”. Un’Alta corte per giudicare i magistrati: cosa può cambiare per la giustizia di Lorenzo Grossi Il Giornale, 4 maggio 2024 Entro un mese il ministro Nordio presenterà in Consiglio dei ministri il ddl costituzionale che modificherà l’ordinamento della magistratura: tra i vari provvedimenti, potrebbe essere inserita. Sta ormai per prendere sempre più corpo la riforma complessiva della giustizia che vedrà una modifica della Costituzione. Come giù più volte annunciato da lui stesso nelle ultime settimane, Carlo Nordio presenterà a breve un disegno di legge costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati. Il termine previsto per il licenziamento di questo ddl è la scadenza delle elezioni europee: il Consiglio dei ministri apposito verrà quindi convocato prima del prossimo 8 giugno. Le riunioni della maggioranza su questo capitolo sono diventate più frequenti e, stando a quanto sarebbe emerso in quella odierna avvenuta nel tardo pomeriggio a Palazzo Chigi - alla presenza della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e del sottosegretario Alfredo Mantovano, tra il ministro Nordio, i sottosegretari di Via Arenula, i presidenti delle Commissioni di Camera e Senato e i responsabili Giustizia dei partiti di maggioranza -, si sarebbe stabilito anche di accelerare al massimo sul provvedimento per l’eliminazione dell’abuso d’ufficio. Come funzionerebbe l’Alta Corte - Tuttavia, tra le tante proposte sull’ampia revisione della giustizia nella Carta, è spuntata anche l’ipotesi dell’istituzione di un’Alta Corte che giudichi gli eventuali illeciti commessi da tutti i magistrati (sia giudicanti sia requirenti) e le controversie sulle nomine. Un tema che viene ripreso dalla cosiddetta “bozza Boato” che era stata messa a punto dall’allora deputato Marco Boato (Verdi) durante la Bicamerale per le riforme di Massimo D’Alema (1997-1998). Secondo questo progetto, “la Corte di giustizia della magistratura” si sarebbe dovuta occupare dei “provvedimenti disciplinari nei riguardi dei giudici ordinari e amministrativi e dei magistrati del Pubblico ministero”. “La Corte - si leggeva ancora nella bozza - è altresì organo di tutela giurisdizionale in unico grado contro i provvedimenti amministrativi assunti dai Consigli superiori della magistratura ordinaria e amministrativa”. La “Corte è formata da nove membri, eletti tra i propri componenti dai Consigli superiori della magistratura ordinaria e amministrativa”. Nelle prossime settimane si capirà se ci potrà essere un qualche tipo di variazione da questo punto di vista. Resta comunque il fatto che il governo Meloni, tramite l’operato del Guardasigilli Nordio, è davvero in procinto di porre dei cambiamenti significativi relativi sia al funzionamento della giustizia sia all’operato di tutti i magistrati, con annessi giudizi e valutazioni specifici. Gli altri provvedimenti della riforma - Il ministro Nordio ha anche illustrato la separazione delle carriere dei magistrati (distinti tra giudicanti e requirenti e dunque con diversi concorsi di accesso) e l’istituzione di due Csm. Sarebbe invece ancora in corso un dibattito sul metodo di elezione dei togati, per stabilire se sarà a sorteggio “secco” o “mediato”. In quest’ultimo caso, per la componente togata, i magistrati candidabili al Consiglio superiore della Magistratura che verranno sorteggiati sarebbero poi sottoposti a successiva selezione. Si escluderebbe invece l’ipotesi della nomina di metà dei componenti del Csm da parte del governo. Sempre secondo le valutazioni in campo, vi è l’aumento del numero dei membri laici dei Consigli, almeno un quarto nominati dal Parlamento. Dibattito aperto anche sulla presidenza dei due Csm: prevale l’ipotesi che resti il Presidente della Repubblica a presiederli, ma non si può ancora escludere l’eventualità che la scelta ricada sul primo presidente della Corte di Cassazione e sul procuratore generale presso la Corte, entrambi rispettivamente per i due distinti Consigli. Tra i temi ancora aperti l’esercizio dell’azione penale e la sua discrezionalità. Il proposito potrebbe essere quello di riformare l’articolo 112 della Costituzione, in cui è attualmente prevista l’obbligatorietà dell’azione penale, introducendone invece la discrezionalità. Incidente probatorio, il Gip può respingere la richiesta del Pm per l’ascolto del minore vittima di maltrattamenti di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2024 Il rigetto della richiesta non è atto abnorme perché né determina la stasi del processo né si pone al di fuori delle regole che lo governano. L’ascolto anticipato non esclude in sé la vittimizzazione secondaria. Non sussiste alcun obbligo del giudice per le indagini preliminari di accordare sempre e comunque l’incidente probatorio richiesto dal pubblico ministero al fine di anticipare l’escussione del minore vittima di maltrattamenti o reati sessuali. E l’atto di rigetto della richiesta non è un atto abnorme rispetto al processo sia perché non ne determina la stasi sia perché non si pone al di fuori delle regole che governano il processo. Inoltre, il diniego di anticipare la testimonianza non costituisce automaticamente - come asserito nel ricorso deella procura - un’esposizione della giovane vittima al rischio di vittimizzazione secondaria. Quindi - come afferma la sentenza n. 17521/2024 della Corte di cassazione penale - il giudice, che stabilisce sulla richiesta di incidente probatorio legata alla vulnerabilità della vittima e non al rischio della dispersione della prova, possiede piena discrezionalità sull’ammissione o meno di una cristalizzazione anticipata della testimonianza della persona vulnerabile attraverso l’esecuzione dell’incidente probatorio domandato dal pubblico ministero. Sulla soluzione della questione emerge nella sentenza di legittimità la presenza di due orientamenti contrapposti in ordine alla sussistenza o meno della facoltà del giudice di negare l’incidente probatorio, domandato per anticipare alla fase delle indagini la testimonianza della vittima in stato di vulnerabilità, invece di assumerla in sede di dibattimento. In primis la Cassazione - escludendo la necessità di un rinvio alle sezioni Unite - precisa di dover aderire all’orientamento che riconosce che, a seguito dell’istanza del Pm, il giudice decide discrezionalmente. Egli cioè decide con i pieni poteri di giudizio che gli sono affidati dall’articolo 398 del Codice di procedura penale. E quindi il suo esame non si arresta solo alla verifica dei presupposti richiesti dall’articolo 392, comma 1 bis, del Codice di procedura penale sull’incidente probatorio, ma esso si estende anche al merito della richiesta. Infatti, secondo quanto afferma la decisione di legittimità, non è scontato che l’incidente probatorio sia lo strumento sicuramente più idoneo a evitare la cosiddetta vittimizzazione secondaria del minore vittima di violenza. Il vaglio - entrando nel merito - potrebbe anzi approdare a conclusioni opposte, dimostrando che magari in un caso concreto l’escussione ravvicinata ai fatti illeciti subiti possa non risultare la scelta più idonea a tutela del soggetto vulnerabile. Le stesse fonti sovranazionali che tutelano i minori vittime di violenza dal rischio di vittimizzazione secondaria non impongono, infatti, l’immediata audizione del soggetto, ma piuttosto precludono la reiterazione di esami e testimonianze per non gravare il minore di un’ingiusta esposizione al processo. Inoltre, la Cassazione pone un’affermazione tetragona sull’impugnabiltà della decisione di rigetto del Gip eslcudendola in radice in nome della tassatività dei casi di impugnazione degli atti del processo. Milano. Violenze al Beccaria, cinque agenti tornano in servizio in altre carceri di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 4 maggio 2024 Un accusato era intervenuto a difesa di un detenuto. Il poliziotto sospettato di tentata violenza sessuale giura che quel giorno non era in servizio in quell’ala, presente una relazione che certifica il suo intervento in un’altra cella. Era l’episodio che aveva fatto più impressione tra le tante prevaricazioni ricostruite (e molte anche documentate) nell’inchiesta della Procura di Milano su quasi metà della polizia penitenziaria al lavoro nel carcere minorile milanese Beccaria: cioè la tentata violenza sessuale attribuita a un agente che secondo due giovani detenuti era entrato di notte nella cella e aveva messo le mani sul sedere a uno dei due, invitandolo a non spaventarsi perché voleva fare sesso con lui, e scatenandone la reazione. Ma l’agente, di cui la Procura aveva chiesto l’arresto e che 10 giorni fa la gip Stefania Donadeo aveva invece solo sospeso del servizio, con il difensore Vittorio Fucci non soltanto nell’interrogatorio di garanzia ha giurato che non era proprio in servizio in quell’ala del Beccaria la notte del 7 novembre 2023 preludio della tentata violenza dell’8 mattina, ma a riprova ha prodotto una relazione di servizio di quella notte firmata da un altro agente, che dalle carte parrebbe essere intervenuto a rilevare una colluttazione tra i due detenuti nella cella. Delle due l’una, ragiona dunque ora la gip, o va scagionato l’agente dalla tentata violenza sessuale o vanno trovati e perseguiti altri agenti potenziali falsari di attestazioni: “Reputa il gip che il pm debba necessariamente chiarire un elemento che potrebbe insinuare ragionevoli dubbi”, o in alternativa debba “verificare se la relazione integri il reato di falso a carico dei suoi autori”, e nel frattempo decide che l’agente indagato possa tornare in servizio in qualunque altro posto di lavoro penitenziario tranne appunto solo il Beccaria per il tempo necessario ai riscontri. Ancora più favorevole la decisione cautelare che ha riguardato un altro agente sospeso, per la quale la gip dopo l’interrogatorio ha revocato del tutto la misura interdittiva della sospensione dal servizio inizialmente impostagli. Anche questo è un caso molto interessante perché mostra come spesso alla rara documentazione video delle telecamere interne, pur fondamentale per fissare elementi di responsabilità (tanto da aver indotto alcuni degli agenti ripresivi ad ammettere di avere quantomeno esagerato nelle tecniche di “contenimento” delle asserite aggressioni dei detenuti), possa tuttavia sfuggire il contesto del prima e del dopo di quanto sta fuori dalla scena inquadrata. Nell’episodio in questione, e cioè il trascinamento violento l’8 marzo 2024 di un 15enne in corridoio ad opera di alcuni uomini non in divisa, tra i quali uno lo scaraventa contro un muro e lo prende anche a calci, un altro poliziotto (non ripreso) era stato sospeso nel presupposto avesse assistito al pestaggio. Ma l’agente, con l’avvocato Sonia Petito, ha dimostrato che, in un successivo momento della scena e in un punto non ripreso dalle telecamere, proprio lui era invece intervenuto a difendere il giovane detenuto. In tutto sono 5 su 8 gli agenti la cui totale interdizione dal servizio è stata ora circoscritta dalla gip al non poter lavorare solo dentro il Beccaria, e tra essi a poter tornare a lavorare in qualunque altro ufficio penitenziario c’è anche l’ex comandante Francesco Ferone, che con l’avvocato Paolo Tanda nell’interrogatorio aveva giurato di non essersi mai accorto di violenze nell’istituto e aveva negato di aver mai coperto reati dei suoi agenti (che in alcune intercettazioni lo rimpiangevano a confronto della nuova dirigente, invece avversata per i ripetuti rapporti inviati in Procura). Fra i 13 arrestati 10 restano in carcere, mentre a 3 la gip ha concesso gli arresti domiciliari a presidio di “esigenze cautelari” che “permangono” come “i gravi indizi di colpevolezza”. Modena. Accuse di tortura al Sant’Anna. La difesa: “Detenuti poco attendibili” di Manuel Marinelli Gazzetta di Modena, 4 maggio 2024 Il giudice si è riservato e la decisione arriverà nei prossimi mesi sull’opposizione all’archiviazione del caso che vede indagati 120 agenti della Polizia penitenziaria accusati di tortura dopo la rivolta al carcere di Sant’Anna nel marzo del 2020. Una rivolta in cui avevano perso la vita nove detenuti. Giovedì mattina in tribunale si è tenuta un’udienza in cui hanno discusso gli avvocati difensori degli indagati. La difesa ha messo sul piatto diverse questioni. “Abbiamo evidenziato - così Cosimo Zaccaria, che assiste alcuni degli agenti indagati - che buona parte delle persone denuncianti, quindi ritenute persone offese, sono indagate nel procedimento gemello: sono persone sulla cui attendibilità si dubita notevolmente”. Un altro punto su cui batte la difesa ha al centro le lesioni riportate da alcuni detenuti: “È emerso come potessero essere riconducibili ad aggressioni compiute da detenuti su detenuti”. La difesa parla delle decine di deposizioni di detenuti che a loro volta si sarebbero sentiti minacciati gravemente da quelli che avevano organizzato la sommossa. “Tra l’altro - prosegue Zaccaria - abbiamo appreso anche come tutto questo abbia causato oltre due milioni di euro di danni a tutto il carcere”. Occorrerà capire che forme di contenimento ci siano state. Secondo la difesa le indagini sono state svolte accuratamente: è emerso come i vari agenti della polizia penitenziaria indagati prima di essere interrogati o ascoltati come testimoni siano stati intercettati per verificare se stessero riferendo il vero. L’avvocato Luca Sebastiani di Bologna, che assiste diversi detenuti, commenta: “Il cospicuo numero delle parti processuali non deve condurre a generalizzazioni di massa ed a conclusioni sommarie sulle attendibilità di tutti o di nessuno. Come in ogni processo, possono esserci soggetti più attendibili ed altri meno e sarà compito del giudice vagliare l’attendibilità di ognuno. Riteniamo che questa vicenda meriti che la verità sia accertata con il metodo che la storia giuridica internazionale ha acclarato come il più affidabile: un processo dove la prova si formi nel contraddittorio tra le parti. Sarebbe inaccettabile, che anche questa vicenda si chiuda con un’archiviazione nella fase delle indagini preliminari”. Foggia. “Istituire anche un Garante comunale dei diritti dei detenuti” foggiatoday.it, 4 maggio 2024 La proposta dell’assessore alla Legalità del Comune di Foggia, Giulio De Santis. “Parlare dei figli e delle famiglie dei genitori detenuti non è soltanto un segno di civiltà e umanità, è un atto di responsabilità e un dovere verso la collettività. Abbiamo avuto ieri l’opportunità di farlo nell’aula consiliare del Comune di Foggia, e i relatori d’eccezione, che ringrazio per il contributo apportato, hanno fornito elementi di riflessione molto significativi”. Così l’assessore alla Legalità del Comune di Foggia, Giulio De Santis, che aggiunge: “Il regime carcerario compromette inevitabilmente la genitorialità e ha profonde ripercussioni nelle relazioni interpersonali; la situazione generale di sovraffollamento (a livello nazionale la percentuale va dal 140 al picco del 200 per cento), la scarsa incidenza delle misure alternative (il 20 per cento appena rispetto alla detenzione), i numeri in crescita esponenziale dei suicidi, dei tentati suicidi e degli atti di autolesionismo, le aggressioni alla polizia e al personale penitenziario, l’inefficacia del sistema complessivo, come evidenziato dal procuratore Ludovico Vaccaro, deve comportare un cambio di prospettiva”. “Le parole del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Felice D’Ettore, e di quello regionale Piero Rossi, hanno confermato la necessità - ribadita anche dalla sindaca Episcopo - sentita come prioritaria dalla nostra amministrazione di istituire anche a livello locale un Garante. Una tappa importante del nostro percorso per sensibilizzare la comunità, in particolare i più giovani, sull’imprescindibilità della legalità e per combattere ogni fenomeno di devianza alla radice”. Senza però dimenticare “l’importanza del recupero e del reinserimento sociale per chi sbaglia, e delle persone a lui affettivamente vicine, legami che vanno adeguatamente considerati e preservati e non ignorati: per questo, nell’ambito dei ‘100 giorni per la legalità e la lotta alle mafie’, insieme alla Camera Minorile di Capitanata (“Sui diritti dei minori, da anni stiamo facendo un lavoro importante, confrontandoci e collaborando con tutta Italia. Foggia può e deve diventare un modello, un laboratorio, perché da questo dipende buona parte del suo futuro”, ha ricordato la presidente Anna Lucia Celentano) e all’Unicef, abbiamo organizzato un convegno che ha riscosso una partecipazione altamente sentita e qualificata, e lanciato un messaggio inequivocabile, riassunto nell’intervento di Maria Emilia De Martinis, settore psicosociale pedagogico Unione Nazionale Camere Minorili: “Investire sul benessere e la fruizione concreta dei diritti dei bambini significa formare i cittadini che costruiranno un domani migliore, per se stessi e per la loro Comunità”. Cuneo. “Voltapagina” porta il regista in carcere a Saluzzo di Giulia Poetto La Stampa, 4 maggio 2024 Dal 2007 con “Voltapagina” il Salone Internazionale del Libro di Torino porta autrici e autori della narrativa italiana nelle carceri durante i giorni della festa del libro torinese. Un progetto di impegno sociale cresciuto negli anni per apprezzamento e partecipazione di scrittori, penitenziari e pubblico esterno, organizzato in collaborazione con il Ministero della Giustizia. Nelle settimane che precedono gli incontri con gli autori negli istituti carcerari, le detenute e i detenuti che hanno liberamente scelto di partecipare a “Voltapagina” vengono guidati alla lettura e all’approfondimento dei libri da un gruppo di assistenti sociali, educatori e volontari dei penitenziari. Il momento del vis-à-vis con l’autore è così un’occasione di discussione e dialogo sui temi trattati nell’opera e sull’esperienza della scrittura. Sono due gli appuntamenti di “Voltapagina” in programma nelle carceri della provincia di Cuneo nell’ambito della 36ª edizione del Salone del Libro (9-13 maggio). Venerdì 10 il regista e sceneggiatore Marco Ponti, curatore insieme a Pierdomenico Baccalario de “Le cose importanti” di Gianluca Vialli (Mondadori), incontrerà alle 14,30 i detenuti della casa di reclusione Rodolfo Morandi di Saluzzo, mentre sabato 11 alle 10,30 lo scrittore Eraldo Affinati si confronterà con i detenuti della casa circondariale di Cuneo sul suo ultimo romanzo “Le città del mondo”, in uscita per Feltrinelli Gramma martedì 7. Per partecipare è necessario inviare una mail all’indirizzo cr.saluzzo@giustizia.it (per l’incontro di venerdì 10) e all’indirizzo cc.cuneo@giustizia.it (per l’incontro di sabato 11) entro sabato 4 specificando nell’oggetto “Incontro Voltapagina - Salone del Libro” e indicando nome, cognome, anno e luogo di nascita e codice fiscale. Per accedere alle strutture sarà necessario presentarsi all’ingresso mezz’ora prima dell’evento muniti di documento d’identità. Fossombrone (Pu). Studenti a scuola in carcere, ergastolani in cattedra: “Non fate mai come noi” di Marina Verdenelli Il Resto del Carlino, 4 maggio 2024 Il carcere che fa pagare con la libertà gli sbagli fatti ma anche il carcere che dà un riscatto di vita a chi ha sbagliato. Doppia lezione ieri per due scolaresche che hanno avuto il privilegio di visitare il carcere di massima sicurezza di Fossombrone, quello dove sono detenute anche persone che devono scontare l’ergastolo. La struttura, blindatissima, ha aperto le sue porte per la prima volta alla scuola, accogliendo due classi quinte dell’istituto Enrico Mattei di Urbino e anche ai giornalisti. Per tre ore è stato possibile ascoltare le storie di chi è recluso e visitare i laboratori dove i detenuti imparano un mestiere e studiano per prendere il diploma e la laurea. Un carcere ritenuto modello perché proprio lì dentro, grazie alle attività proposte, avviene il cambiamento di chi si è visto privare il bene più prezioso, la libertà personale. A volere l’incontro è stato il procuratore generale della Corte di Appello di Ancona Roberto Rossi. Ha dato lui il benvenuto ai ragazzi, privati per tutta la durata dell’iniziativa dello strumento che più di tutti li fa sentire liberi, il cellulare. “Ho voluto farvi conoscere questa realtà - ha detto il magistrato - perché se vi dico la parola ‘carcere’ sapete tutti cos’è ma cosa si fa dentro nessuno lo sa. Quando si finisce qui non ci sono più passeggiate con la fidanzata, niente gite al mare, niente aperitivi né telefonini. Per anni c’è una vita dura e il concetto ‘tanto non mi succede niente’ non esiste perché gli errori si pagano. Il carcere ha uno scopo che non è solo quello dovete soffrire perché avete fatto del male se no sarebbe una vendetta di Stato. È lo scopo di riscattarsi, avere la possibilità di una nuova vita, dare un’opportunità”. La scelta di Fossombrone, che conta 84 detenuti di cui solo tre stranieri e 20 all’ergastolo, è stata perché sono poche le carceri che possono far fare attività ai detenuti “perché purtroppo mancano gli spazi e non si investe nelle strutture - ha sottolineato il procuratore - eppure da qui escono persone migliori, a volte anche migliori di tante altre persone libere”. Un merito è stato riconosciuto anche alla polizia penitenziaria, dove la comandante è una donna, Marta Bianco, con agenti che operano all’interno e devono gestire la sicurezza con impegno e sacrifici quotidiani. Accompagnati dalla direttrice del carcere, anche lei una donna, Daniela Minelli, gli studenti hanno potuto toccare con mano l’ala dei laboratori, ricavati da una ex sala operatoria di cui la struttura (costruita nel 1870) disponeva in passato. Lì dipingono, realizzano iconografie, fanno origami, cuciono, ricamano, realizzano cesti fatti a mano, intagliano il legno, imparano un lavoro, studiano, appendono i diplomi e le lauree. “Il nostro è un istituto virtuoso - ha detto la direttrice Minelli - non perfetto. Tutti facciamo qualcosa per questa crescita e non è facile né scontato il risultato”. “Un delitto in cerca d’autore”. Storia della nascita di un mostro di Davide Varì Il Dubbio, 4 maggio 2024 Pubblichiamo di seguito un estratto del libro “Il lupo di Bibbiano”, di Luca Bauccio. Nell’atto di appello contro l’assoluzione di Foti dal reato di frode processuale, la pubblica accusa agita una diceria che già circolava su alcuni giornali che tanto si erano dedicati al lupo di Bibbiano. Si tratta di una vera e propria teoria complottista che è utile conoscere per capire come si possa essere arrivati fino al punto di scambiare un uomo per un lupo. Secondo questa teoria, Foti avrebbe avuto un preciso piano criminale: creare falsi abusi, rubare i figli alle famiglie, far condannare gli innocenti. Foti è un delinquente per tendenza, il suo è un delitto d’autore. Il crimine è tutt’uno con la sua persona, persino con i suoi matrimoni. Lui, la sua cerchia, la sua ex moglie, la sua Onlus, i suoi collaboratori, sono sempre stati impegnati in questo piano malvagio. Ideologia no vax allo stato giudiziario. Scrive il pm nel suo atto di appello: “È circostanza nota quella per cui tale illecita metodologia abbia avuto un ruolo determinante in molte delle vicende giudiziarie in cui Foti è stato coinvolto in qualità di consulente tecnico (della Procura o del- la persona offesa) e di perito. Ogni vicenda giudiziaria che ha “incontrato” Foti nel suo iter, infatti, è risultata caratterizzata da indicibili abusi satanici seriali, occultati nella mente dei bambini ed emersi a seguito delle psicoterapie di Foti, della moglie e, prima di quest’ultima, della prima moglie di Foti”. Il pm tratteggia un vero e proprio manifesto ideologico contro Claudio Foti e a supporto chiama le voci correnti, le “circostanze note”. Note a chi? Ai lettori, agli ascoltatori, ai follower. Sono i frutti avvelenati del processo mediatico applicato al ragionamento giudiziario: la gogna, la diffamazione, le fake news diventano il testo giuridico e investigativo dell’inquisito- re. Nel processo agli untori di Bibbiano la calunnia orchestrata dalla corte dei miracoli di giornali e influencer è diventata prova. Quello dell’accusa è un giudizio universale che culmina in una aberrazione sessista: le mogli di Foti. L’imputato agiva attraverso le mogli. Non c’è moglie di Foti che non abbia il marito a guidarla. Il tema del sesso, dell’identità, del ruolo di genere ricorre in modo ossessivo e opprimente in questa vicenda. Più volte mi è sembrato che tutta la narrazione mediatico- giudiziaria avesse un rapporto alterato, qualcosa che non andava nella categorizzazione, nella lettura del mondo e delle persone, qualcosa che si inceppava nel tema del ruolo di genere, una non accettazione, una rimozione, una auto demonizzazione individuale e collettiva. Il 7 giugno 2023, all’indomani dell’assoluzione in appello di Foti, Selvaggia Lucarelli scriverà su X: “E quindi no, il caso Bibbiano non si è sgonfiato: Foti è stato assolto in secondo grado, ma il processo va avanti con un numero spaventoso di imputati e capi di imputazione. E tra quegli imputati c’è chi come Nadia Bolognini era sua moglie e psicologa del suo centro”. Mistica dell’ex. Quando si ammette il delitto d’autore non serve dimostrare il delitto, basta che esista il delinquente. Se c’è l’autore, allora c’è anche il quadro. Se c’è il delinquente, c’è anche il delitto. Se c’è il male allora c’è il cospiratore, l’untore. Se c’è la moglie, c’è anche il marito. Come si è voluto provare il delitto di Bibbiano? Con i metodi che oggi vediamo applicare alle teorie complottiste. Agitando verità occulte, pratiche magiche, ritualità abnormi. Scandagliando la vita dell’untore con constatazioni tanto scandalizzate quanto insensate. Il normale diventa anormale, eccezionale. uomo: quello che emerge è lo strazio della giustizia, che sposta il proprio palcoscenico nella pubblica piazza, lasciando decidere al pubblico, col televoto da casa, chi è colpevole e chi è innocente. Nella lapidazione ancora in corso dell’imputato prima e dell’assolto poi, Bauccio fotografa anche l’agonia di una giustizia mediaticizzata, che non si rassegna alla verità, ma ne inventa una a uso e consumo delle masse, che non si confronta con le prove, con i fatti, con gli atti, tirati in ballo a destra e manca ma solo come vuota espressione verbale. Una verità di cartapesta, ma resistente, da contrapporre al dubbio, mai invocato in questa vicenda. L’unica cosa che conta è il colpevole, che appare sulla scena sin da subito. Un “tipico autore per convinzione”, come dice lo stesso gip (pagina 259 dell’ordinanza di custodia cautelare), un identikit che “si desume dalla saccente presunzione, priva di qualsiasi deviazione dal dubbio incrollabile di essere dalla parte della ragione, con la quale commenta durissimamente la inchiesta giornalistica nota con il titolo di Veleno; addirittura... fu organizzato una pubblica raccolta firme... sugli approcci negazionisti dell’inchiesta giornalistica”. Insomma, la sua colpa sarebbe quella di aver criticato un podcast. E di avere idee, forse non condivise da tutti, forse discutibili, da discutere, ma pur sempre semplici idee. “Il “Lupo di Bibbiano” è la ricerca di una risposta alla domanda elementare che viene da farsi sempre quando un presunto innocente, lapidato per anni come colpevole, viene infine assolto: perché? - scrive Bauccio - Come è stato possibile? Cosa è accaduto realmente? Quali errori, quali intenzioni, quanta fede e quanta malafede hanno costruito l’ingiustizia? Perché è nata la leggenda di Bibbiano? Qual è il siero malefico che ha sovvertito ogni parametro di civiltà, che ha messo a tacere persone libere, che ha umiliato innocenti e ha negato la realtà?”. E la risposta sta nello spettacolo che mette piede nella giustizia, per cercare qualcosa di “bello” da raccontare. Qualcosa che fa presa sul pubblico, perché può colpire tutti e colpisce tutti: il rischio di ritrovarsi, un giorno, i mostri in casa. La fabbrica dei mostri sta lì, a Bibbiano, epicentro del male assoluto, un buco nero che non distingue tra buoni e cattivi ed inghiotte tutti. Con la sua scrittura leggera, ma al tempo stesso pungente, Bauccio racconta dall’interno le storture della giustizia, che però ha anche gli anticorpi per autocorreggersi. Meccanismi che non appartengono, ancora, al versante mediatico, dove improvvisati investigatori e tuttologi straziano i corpi catturati dalle maglie dei processi, restituendoli al mondo con sembianze nuove. Per cosa? “Per l’ego famelico di un accusatore - risponde Bauccio - per l’odio di un professionista rivale, per il narcisismo di aspiranti divinità da social network, per l’intraprendenza di sbrigativi segugi e giustizieri”. Rita Bernardini, l’anticlericale che cerca Cristo nelle carceri di Francesca Spasiano Il Dubbio, 4 maggio 2024 Ritratto della leader di Nessuno tocchi Caino. Il suo centro sono le sue battaglie. Anche se preferisce vivere “in bilico”: “Con Pannella non c’era mai niente di consolidato, perché da un momento all’altro ti proponeva di rivoltare tutto. Capito?”. Nel giorno dell’anno in cui il lavoro si ferma, Rita Bernardini si concede un’intervista. Negli altri ha troppo da fare. Se non sta digiunando sta visitando un carcere. Oppure è in piedi a un sit-in o seduta su un autobus diretto chissà dove. Il suo centro sono le sue battaglie. Anche se la politica Radicale preferisce vivere “in bilico”: “Con Pannella non c’era mai niente di consolidato, perché da un momento all’altro ti proponeva di rivoltare tutto. Capito?”. È così che Rita Bernardini vede la sua vita, “sempre”. Con un piede dentro la prossima causa mentre smaltisce le bagatelle giudiziarie di questa o quell’altra disobbedienza civile. Ne ha collezionate talmente tante che ora le deve mettere insieme, tutto un pacchetto con le vicende registrate nel casellario giudiziale pubblicato dall’ex segretaria dei Radicali in vista delle Europee. È in corsa nella circoscrizione Isole come capolista per Stati Uniti d’Europa. Da quelle parti ha l’amico di vecchia data che le fa sponda in Parlamento, Roberto Giachetti di Italia Viva. E come vuoi che sia un amico di Rita Bernardini? Radicale, che è un modo di essere. Tanto che l’ex deputata si distingue perché si siede a parlare con tutti, ti va pure a parlare nel palazzo di Casapound. Però nel cuore e sul divano c’è posto soltanto per i compagni di lotta. Insomma, Rita ha amato solo certi uomini che capivano cosa le bruciava dentro. Uomini che sanno stare in rivolta. Sposata? Mai, per principio. E non ha figli suoi, ma i suoi figli sono tutti. Marco Pannella? Certo, ma baciarlo sulla bocca per affetto era un atto politico. Lui la folgora con la campagna sul divorzio. Poi Bernardini sente alla radio che servono i soldi e i tavoli per i referendum. “Portai il mio contributo di 5.000 lire, cioè un cazzo”. Porterebbe anche i banchi della scuola in cui lavora, ma a questo punto è Marco a dire “cazzo”: gli servono quelli pieghevoli. È la storia del primo incontro, alla quale però Rita Bernardini arriva mano nella mano con un altro uomo: Bruno Tescari. “Posso dirti anche come mi sono innamorata di lui”. Lui insegnante, lei alunna, “anche se tutto è cominciato dopo la scuola”. Rita e Bruno sono soprattutto compagni di lotta, neanche a dirlo, contro le barriere architettoniche. Tescari ha problemi di disabilità, è divorziato, ha già una bambina che Rita frequenta ancora. Insieme fondano il Fronte Radicali Invalidi e costruiscono gli scivoli di cemento davanti agli uffici pubblici. Si mettono a impastare nel cemento e fanno dei “casini bestiali”. Che giorni, a disseminare focolai per “attivare la democrazia”, come si diceva di Pannella. Ma che strada li aveva portati a quei tavoli in piazza? Per Bernardini c’è soprattutto l’aborto praticato in Inghilterra appena 20enne, perché in Italia non si poteva. Anche lì il medico le fa la paternale ma nel nostro sottobosco della clandestinità si stava anche peggio. Quindi Bernardini si mette a militare con le associazioni impegnate nella prevenzione dell’Igv e non ha mai smesso di militare. Per cinque anni in Parlamento, nella sede dei radicali a largo Argentina 76, al telefono coi parenti dei carcerati. Bernardini, che si aggira come un felino nella giungla urbana di Roma e ti fulmina con due occhi di ghiaccio. E poi ti dice: “Ma tu te lo ricordi il divieto Cossiga di manifestare?”. Ecco un’altra storia, di quella ragazza che caccia via i blindati della polizia agitando la Costituzione. Poi c’è lo sciopero della fame finito con un clamoroso nudo collettivo al teatro Flaiano di Roma. Sergio Stanzani non ne voleva sapere, voleva mettersi un fiore proprio lì. Ma alla fine Pannella li convince tutti, e neanche a Rita scoccia essere l’unica donna. “Mia mamma mi vide alla tv e disse: ma almeno adesso ricominci a mangiare?”. Sua madre Dc convertita ai radicali. E suo padre barbiere Msi. “Proprio missino”, non che la cosa la turbasse, “io lo adoravo”. E infatti non c’è traccia di ribellione all’autorità nell’infanzia di Bernardini. Cerchiamo di cogliere la cifra della sua protesta, ma in verità non c’è troppo da ricamare. Se una legge si ignora o si applica male o nega un diritto, va sistemata: tutto qua. Possibilmente tutti insieme, coi dibattiti aperti, il partito aperto, le teste aperte. Il metodo radicale: “Che poi ti pare facile autenticare le firme?”. Rita Bernardini è quella che studia le regole e si presenta in Cassazione col patema d’animo per la consegna. Anticlericale con saldi principi cristiani, del passato “catechista” conserva solo i valori. Si occupa dei malati che hanno bisogno della terapia con la cannabis, ma non li aiuta per modo di dire, si fa le piantine sul bancone per cederle a chi gli serve. Quelle che le sono valse un sequestro, ma non un arresto, perché quando sentono il nome di Rita lasciano perdere. “Perché la legge non è uguale per tutti”. Non nella battaglia antiproibizionista. E neanche in quella per le carceri umane. Le due cause che forse la rappresentano di più insieme a quella contro la fame nel mondo. “Io conosco centinaia, se non migliaia di storie di detenuti. L’ultima in ordine di tempo? La moglie di un detenuto che gli hanno fatto morire in carcere nonostante segnalassero che stava male, stava male, fino a che è morto in cella”. Perciò Rita Bernardini non ha tempo da perdere. “Preferisco ascoltare fino all’ultima storia”. Non servono giri di parole, per una che si presenta sotto casa di Berlusconi vestita da coniglietto rosa per ricordare al Cavaliere il “debito” stipulato sulla giustizia. Le battaglie dei radicali, si sa, si intrecciano con chi le abbraccia. A destra e a sinistra, finché Pannella non rivoltava tutto e magari si metteva all’ultimo con D’Alema. Una mossa che li portò prima alla rottura e poi alla riconciliazione tra le lacrime di lei e le risate di lui. Ancora uno sciopero della fame, ancora un viaggio in Ape car, Porta portese nel ‘95 per la cessione di droghe leggere, avanti e indietro nel tempo, fino all’arresto in piazza San Pietro per la legge 194, la scena immortalata in quella foto da ragazzina con gli agenti che la tirano per le braccia. Poi c’è la legge 180, c’è Enzo Tortora. E “quella volta sdraiati davanti a Palazzo Chigi contro i “rimborseggi elettorali”, con D’Alema incazzato nero”. Ecco, “queste erano le disobbedienze civili che poi furono fatte in continuità con Porta Portese, disobbedienze per cui mi fu dato anche l’alto valore morale”. Fino a che le cose si guastano. Arriva una condanna a due mesi e 25 giorni che la mette alla porta alla fondazione Pannella. “Né per statuto, né per legge. Per “orientamenti della prefettura di Roma”. È una storia che fa male, questa, e a Rita Bernardini non va neanche tanto di parlarne. Alcune cose non se le spiega, come ancora non si spiega la nomina mancata nel collegio del Garante nazionale dei detenuti. Panni che la presidente di Nessuno Tocchi Caino veste comunque ogni giorno. “Non è che uno può aspettare che costruiscano nuove carceri e tutte le cose buone che ci raccontano, no? Bisogna subito rimuovere le cause che generano trattamenti inumani e degradanti”. E via con l’ennesimo digiuno per fermare i suicidi in cella, con la legge sulla liberazione anticipata speciale firmata Bernardini-Giachetti. Certo, ogni sciopero il corpo soffre, ma il corpo sta dentro la politica. Fino a che punto? Cioè: ha paura? “No, nemmeno quando sono finita in terapia intensiva”. Rita Bernardini, lo abbiamo detto, sta sempre in bilico. Anche se non balla più in quel crocevia di umanità che è sempre stata la sede dei radicali. “Il fatto che io non possa mettere più piede in quella via di Torre Argentina 76 dove ho vissuto con Marco Pannella decenni della mia vita, beh... Ora chi bussa alla porta non trova nessuno”. Ancora un caffè e una sigaretta. “Sali a casa? Casa è aperta”. Rinforzare i diritti civili e riformare la giustizia per chiudere finalmente l’era del populismo di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 4 maggio 2024 Dagli anni 90, da quando i partiti italiani si sono disgregati per complessi motivi politici e culturali nazionali e internazionali, per una ostile azione giudiziaria, ma soprattutto a seguito della modifica della legge elettorale da proporzionale con una non coerente con la nostra Costituzione, abbiamo avuto tante occasioni per ricostruire un centro politico riferito a un partito organizzato democraticamente ma nessun politico ha saputo cogliere il momento favorevole. In questo periodo a me pare, vi siano, più delle altre volte, tutte le condizioni per il rilancio di una politica centrista, quella che per Aldo Moro era legata a una cultura di governo e delle istituzioni. Siamo alla vigilia di elezioni europee che si svolgono col sistema elettorale proporzionale, il quale presuppone e incentiva le identità e quindi i riferimenti culturali e sociali che vi sono nel Paese. Mauro Calise, un politologo molto avveduto, ha rilevato che le “estreme” da un po’ di anni hanno il consenso ma non hanno cultura di governo e il “centro” pur avendo cultura di governo è in netta minoranza. La crisi della cultura ha messo in crisi i partiti, e la destra e la sinistra allontanandosi entrambe dalla democrazia liberale hanno avuto entrambi tentazioni marcate di populismo e assecondato una deriva pericolosa cui assistiamo. Per queste ragioni, insieme alle tante che sarebbe lungo elencare, è in crisi il sistema politico, che avrebbe bisogno di identità e di riferimenti culturali forti. Sostengo da mesi forse con un ottimismo irrazionale, che una destra anomala estranea ai valori della nostra Costituzione ha vinto nelle elezioni del 2022 perché si è presentata agli elettori con la sua identità. Che è stata premiata in assenza di altre “identità” un continuo “indistinto” ha caratterizzato tutti i movimenti che si sono avvicendati negli ultimi 30 anni. Ritenevo quindi che fosse inevitabile la formazione da un lato di una sinistra presente in Italia nella sua tradizione comunista e socialista e dall’altra di un centro politico, con una forte tradizione, riportando la situazione politica alla sua fisiologia. Debbo dire che è una sinistra un po’ radicale un po’ populista si è formata in questi mesi, invece il centro continua il suo cammino tra incertezze e convulsioni: l’onorevole Renzi poteva essere in grado di aggregare una vasta area omogenea che a riferimenti culturali e politici molto diffusi nell’opinione pubblica a preferito una intesa solo elettorale per raggiungere il quorum del 4% alle elezioni europei con l’Europa che non può configurare una politica di centro. I radicali hanno una filosofia di vita e un costume politico ben lontano come lo stesso Renzi sa. Il giornale Economist lo scorso anno ha pubblicato un saggio nel quale analizza la crisi dei valori occidentali in particolare dell’Europa che è sotto attacco non solo dai paesi non democratici estranei alla nostra cultura, ma anche dei paesi dell’Occidente come l’America nella versione trumpiana. È il modello occidentale sotto tiro perché nel mondo vi è uno scontro tra democrazie autocrazia a netto vantaggio della seconda. Per questo ritenevo, ritengo che vi siano condizioni particolari oggi, in vista di un appuntamento europeo particolarmente importante verso il quale deve essere finalizzata l’attenzione e la funzione dei movimenti politici delle liste che si confronteranno nella campagna elettorale con precisa identità e una conseguente visione politica. E questo confronto può finalmente dare contenuto culturale a movimenti che vogliono diventare partiti, che vogliono ricreare una identità per preparare una nuova fase per l’Europa dopo quella dei nostri padri costituenti. Unire gli Stati europei in un disegno strategico nei confronti degli altri continenti e del mondo intero e dare a essi un contenuto politico unificante. Ritengo quindi che, finita la lunga fase di transizione politica sociale che dura dagli anni 90, il confronto con l’Europa può essere caratterizzato da una politica di centro che come diceva Aldo Moro nel lontano 1944 “non è immobile ma dinamica e capace di rappresentare il complesso della società civile”. Se finora la crisi della cultura è il populismo dilagante, che ha aggravato la crisi dei partiti, oggi possiamo avere precisi indirizzi politici e valori istituzionali per dare valore di nuovo a una cultura politica e possono essere ben individuati nel: 1) perfezionare la sopranazionalità che esalta la nazionalità in un contesto più ampio giuridico e istituzionale; 2) rafforzare la democrazia rappresentativa propria della nostra Repubblica parlamentare senza pericolose fughe in avanti non coerenti con l’architettura costituzionale. Il diritto europeo se pur giovane ha questo vasto orizzonte. 3) armonizzare le libertà civili in un contesto europeo che va dalla sicurezza alla concorrenza con gli altri partner mondiali 4) modificare l’attuale legge elettorale considerata non rispettosa della volontà degli elettori con una che giustifichi il loro voto e la loro partecipazione: è il presupposto per attribuire al Parlamento una rappresentanza adeguata al Paese e ai territori; 5) dare contenuto democratico ai movimenti politici e dunque applicare finalmente l’articolo 49 della Costituzione con una legge adeguata che faccia superare il personalismo senza limiti che snatura qualunque politica. 6) riformare la giustizia e la magistratura per porre un argine alla prevalenza costituiscono i contenuti per dirigenti politici con una visione strategica del nostro Paese nel contesto europeo e costituiscono finalmente il programma di un partito non più personale ma politico e pluralistico del giudiziario sul legislativo e sulla politica. Libertà di stampa, l’Italia scivola verso l’orbanizzazione di Daniele Nalbone Il Manifesto, 4 maggio 2024 Reporter Senza Frontiere ci colloca al 46esimo posto, in discesa di 5 punti. E critica l’acquisizione dell’Agi da parte di Angelucci. “Orbanisation”: orbanizzazione. Nell’analisi di Reporter Senza Frontiere sulla libertà di stampa nel mondo, pubblicata ieri, l’Unione europea è chiamata a confrontarsi con il tentativo della classe politica di ridurre sempre di più lo spazio di azione per il giornalismo indipendente. E il metro di paragone preso dall’ong per l’Europa è l’Ungheria di Viktor Orbán, dove “la radiodiffusione pubblica è stata trasformata in una macchina di propaganda” e “diversi media privati sono stati messi a tacere”. Risultato: “Grazie all’acquisizione dei media da parte degli oligarchi con stretti legami con Fidesz, il partito al potere, quest’ultimo controlla ora l’80% dei media del paese”. L’Ungheria, che occupa il 67esimo posto (su 180) nella classifica guidata da tre paesi europei (Norvegia, Danimarca e Svezia), vede avvicinarsi proprio l’Italia, che scende di ben cinque posizioni, dal 41esimo al 46esimo posto, diventando così il peggior paese dell’Europa “occidentale” per libertà di stampa, finendo in piena “zona Orbán”. In occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa, Rsf ha sottolineato come “alcuni gruppi politici alimentano l’odio e la sfiducia nei confronti dei giornalisti insultandoli, screditandoli e minacciandoli” mentre altri “stanno orchestrando un’acquisizione dell’ecosistema mediatico, sia tramite mezzi di informazione di proprietà statale sotto il loro controllo, sia attraverso media di proprietà privata acquistati da parte di uomini d’affari alleati”. Questo è il caso, citato espressamente nel report, dell’Italia di Giorgia Meloni, “dove un membro della coalizione parlamentare al potere sta cercando di acquisire l’Agi”. Il riferimento è al tentativo di Antonio Angelucci, imprenditore della sanità, proprietario già di Libero, Il Giornale e Il Tempo e, soprattutto, deputato della Lega di rilevare dall’Eni - di cui lo stato è principale azionista tramite il Mef (4,7%) e Cassa Depositi e Prestiti (28,5%) - “la seconda più grande agenzia di stampa”. In questo scenario, anche se “la maggior parte dei giornalisti italiani gode di un clima di libertà”, a volte “cedono all’autocensura, sia per conformarsi alla linea editoriale della loro testata giornalistica, sia per evitare una causa per diffamazione o altre forme di azione legale”. Il tutto aggravato, per i giornalisti di cronaca nera e giudiziaria, “dalla “legge bavaglio” sostenuta dalla coalizione di governo del primo ministro Meloni, che vieta la pubblicazione di un ordine di custodia cautelare fino alla fine dell’udienza preliminare”. L’Italia così è passata dal giallo all’arancione, da paese in cui la situazione per i giornalisti è “piuttosto buona” a “problematica”, ed è in compagnia di Ungheria (67), Malta (73) e Grecia (88), i tre stati peggiori d’Europa. Ed è proprio il caso greco a dover ulteriormente preoccupare l’Ue. Qui “pochi imprenditori gestiscono la stragrande maggioranza dei media, pur essendo coinvolti in altri settori aziendali altamente regolamentati” e alcuni di loro “hanno stretti legami con l’élite politica del paese”. Inoltre il portavoce del governo “è responsabile della supervisione dei media pubblici, il che mette in pericolo la loro indipendenza editoriale”. Infine Rsf sottolinea come il Servizio di intelligence greco (EYP), guidato dal primo ministro, “è stato coinvolto nella sorveglianza dei giornalisti, molti dei quali sono stati presi di mira da “Predator”“, un programma spyware altamente invasivo che una volta infiltrato in un dispositivo ha accesso al microfono, alla fotocamera e a tutti i dati all’insaputa dell’utente. Il rischio per l’Europa “orientale” (più l’Italia) è scivolare sempre di più verso la zona rossa dell’indice di Rsf, occupata stabilmente dalla maggior parte dei paesi asiatici, da alcuni dell’America Latina (Venezuela, Honduras, Nicaragua e Cuba) e dagli stati del Golfo Persico e del Mar Rosso. Soprattutto, il vero pericolo è quello di vedere un’Europa sempre più sotto quella che viene definita “l’influenza tossica del Cremlino”, in un lento processo di orbanizzazione. Come ha denunciato Anne Bocandé, direttrice editoriale di Rsf, “mentre più della metà della popolazione mondiale si recherà alle urne nel 2024, gli stati e le forze politiche stanno svolgendo un ruolo sempre minore nella protezione della libertà di stampa, minando il ruolo dei giornalisti o addirittura strumentalizzano i media attraverso campagne di disinformazione”. Libertà di stampa. “Il pericolo di una deriva illiberale che allontana dall’Europa” di Anais Ginori La Repubblica, 4 maggio 2024 L’intervista al responsabile del rapporto di Reporters Sans Frontières: “La legge bavaglio è chiaramente liberticida. Rischia di avere un impatto fortemente negativo sul lavoro dei cronisti giudiziari”. “Abbiamo l’impressione che Giorgia Meloni voglia ispirarsi a Viktor Orbán” osserva Pavol Szalai, responsabile del desk Europa per Reporters Sans Frontières. “Certo, i due leader hanno posizioni diverse sulla guerra in Ucraina, ma per quanto riguarda la libertà di stampa l’Italia si sta pericolosamente avvicinando all’Ungheria” spiega Szalai che per Rsf ha curato la parte del rapporto annuale che riguarda l’Italia. Come si spiega la retrocessione di cinque posizioni nella vostra classifica? “Ci sono un insieme di fattori che hanno pesato nel 2023. Intanto le pressioni politiche sulla Rai e il sistema dell’audiovisivo pubblico, combinate a pericoli per l’indipendenza dei stampa come il progetto di acquisto di un’agenzia di stampa da parte di un senatore della maggioranza, che ha già diversi media con una linea editoriale di chiaro sostegno al governo di destra”. Si riferisce a Antonio Angelucci. È un caso che non esiste in altri paesi europei? “Tra le grandi democrazie dei paesi fondatori dell’Ue, l’Italia sta diventando è un caso a parte, con un distacco importante rispetto a Francia, Germania o Spagna. Ci sono alcune ragioni legate alla storia recente, ma purtroppo la situazione peggiora, con nuove allerte come la vendita dell’Agi. Ricordo che l’indipendenza dei media è ormai tutelata dall’European Freedom Act, adottato qualche settimana fa, che permette alla Commissione europea di vigilare e intervenire”. Pensa che ci sia davvero una deriva “ungherese” sui media? “Ci sono per fortuna in Italia grandi media indipendenti, la vostra democrazia ha dei contropoteri e la società civile è resiliente. Ma l’Italia viene già da un livello alto di vigilanza. C’è stata l’esperienza di Silvio Berlusconi che si è servito dei suoi media in un evidente conflitto d’interessi. Nel caso dell’Agi il timore non è solo che un uomo politico acquisti un media, già di per sé problematico, ma anche che imponga una linea editoriale e interferisca per controllare i contenuti”. Altri motivi di preoccupazione? “La legge bavaglio è chiaramente liberticida. Rischia di avere un impatto fortemente negativo sul lavoro dei cronisti giudiziari, con effetti intimidatori e dissuasivi. C’è poi la proposta di legge sulla diffamazione, con il tentativo di introdurre pene di carcere nonostante una sentenza contraria della Corte Costituzionale, e la volontà di impedire ai giornalisti che sono stati condannati di esercitare il loro mestiere. Infine ci sono le minacce della mafia e della criminalità organizzata, con timori per la sicurezza di molti cronisti. Questo era un problema che pre-esisteva ma su cui la nuova maggioranza politica non ha portato soluzioni”. Come avete condotto la vostra indagine sull’Italia? “Abbiamo consultato un panel di giornalisti ed esperti a vario titolo di cui manteniamo l’identità confidenziale per ovvie ragioni di sicurezza: vogliamo che possano rispondere liberamente ai nostri questionari che sono articolati e complessi. Inoltre abbiamo fonti locali in Italia e diversi contatti anche con alcune istituzioni”. Violenza tra pari e cyberbullismo: come gestirli? L’intervista al commissario della Polizia di Giulia Cimpanelli La Stampa, 4 maggio 2024 Marco Luciani, Ufficiale della Polizia Locale di Milano, da anni lavora con le scuole e le famiglie: “Gli adolescenti sono consapevoli di tutti i rischi, ma la velocità del web spesso dà loro l’idea di non potersi fermare a riflettere sull’impatto di un’azione. Così nascono i pasticci”. Secondo uno studio di inizio 2024 di Save The Children e Ipsos, che ha coinvolto 800 minori tra i 14 e i 18 anni, il 28 per cento dei ragazzi e delle ragazze dichiara di aver scambiato almeno una volta video o foto intime con il proprio partner o con persone verso le quali aveva un interesse, nonostante più della metà pensi che chi invia foto intime accetti sempre i rischi che corre, compreso quello che le foto possano essere condivise con altri. Un adolescente su dieci, inoltre, ha ammesso di aver condiviso almeno una volta, foto o video intimi della persona con cui aveva una relazione senza il suo consenso esplicito. Inoltre il sondaggio dimostra l’esistenza di una percentuale considerevole di giovani che tende a normalizzare gli stereotipi di genere e i comportamenti abusivi. “Gli adolescenti sono consapevoli ma non preparati, nel senso che sanno cosa sia la violenza di genere, ma lì per lì non saprebbero riconoscerla, come gestire le situazioni e che strumenti usare. In più non si fermano a riflettere: dai 12-14 anni, con il web entrano in un mondo per loro fantastico dove le loro relazioni umane (anche se digitali, ndr) si moltiplicano, tutto va velocissimo e dove la sensazione è che non ci sia tempo per fermarsi e pensare prima di compiere un’azione. Questo rende sia il bullismo che la condivisione di qualsiasi tipo di foto o contenuto, facile e immediata”, commenta Marco Luciani, ufficiale della Polizia Locale di Milano specializzato in crimini informatici e violenza tra pari. E aggiunge: “Pensiamo a ciò che è successo qualche anno fa a Manduria: quasi 20 ragazzi avevano preso di mira un pensionato con problemi psichici, indifeso. Da un anno lo bullizzavano sui social e nessuno si era accorto di nulla. Il tutto è trapelato solo quando la vittima è stata uccisa. Tutti parlano di studenti tranquilli, che provenivano da famiglie normali”. Ma, appunto, nessuno si era accorto di niente. “Ecco perché il dialogo in famiglia è fondamentale. Ecco perché i genitori devono stare al passo, seguire i figli sui social network invece di esercitare un iper controllo nella vita reale”, aggiunge il commissario. Dialogo e studio - “Un giorno una madre mi ha chiesto: ho trovato mia figlia minorenne che si filmava mentre si masturbava e mandava il video a un coetaneo di Palermo, che faceva la stessa cosa, cosa faccio? - racconta ancora Luciani -. Fatti come questo sono all’ordine del giorno. Anche la loro sessualità passa dal web. Il punto è che spesso, poi, questi video vengono usati per ricattare una volta che i due litigano o si lasciano. Anche di questo bisogna parlare, far capire ai ragazzi che il corpo non va mercificato, indurli a riflettere prima di condividere, che sia un insulto a qualcuno o che sia una propria foto o video intimi”. Altro imperativo è restare aggiornati: “Usare gli stessi social che usano i nostri figli e seguirli, dicendoglielo. Se un ragazzo non posta nulla farsi delle domande: sappiamo che ci sono modi per non far vedere i post ad altri utenti”. E se succede qualcosa? “In caso di episodi di cyberbullismo è importante segnalarlo, anche solo al dirigente scolastico: contrariamente a ciò che si pensa in Italia le scuole e i dirigenti sono molto attenti e preparati su questi argomenti e possono supportare e consigliare le famiglie - dice ancora il commissario - inoltre è importante non farne un dramma e ricordare che molti episodi come sono accaduti, passano velocemente. Continuare a parlarne a volte non fa che dare maggiore risonanza. Ovviamente, se parliamo di reati, denunciare è d’obbligo”. Triste è bello - Un’altra tendenza che l’esperto segnala è quella della diffusione di “fake news” su se stessi per sembrare - paradossalmente - problematici. “Sono costantemente esposto ai device degli adolescenti e raramente trovo qualcosa di allegro, positivo - conclude l’esperto - ; una madre un giorno mi ha raccontato che il figlio adolescente scriveva nelle chat che i suoi genitori erano degli alcolisti, ma non era vero. I ragazzi crescono giocando a videogames violenti già da piccoli (Call of Duty, per esempio, sarebbe vietato ai minori, ndr) guardando serie come Mare Fuori, dove in 18 puntate non vedi mai un ragazzo sorridere, è tutto un dramma. Viviamo in un mondo in cui per i giovani essere sfigati fa quasi figo, un mondo superficiale in cui il sogno è diventare influencer senza doversi impegnare. Un mondo in cui i musicisti sono i trapper che non devono studiare musica per diventare famosi. Anche su tutto questo le famiglie giocano un ruolo fondamentale: parliamogli e facciamoli riflettere”. Gran Bretagna. Così Londra dimentica la protezione dei migranti di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 4 maggio 2024 Pressato dalle incombenti elezioni generali, con i sondaggi negativi per il partito del primo ministro Sunak, il governo britannico ha lasciato circolare i video dei furgoni della polizia, con i migranti irregolari presi dalle loro abitazioni per essere trasferiti in Rwanda. Appena ottenuto il Royal Assent del re Carlo, dopo la faticosa gestazione di apposita legge, il governo ha così voluto far vedere che faceva sul serio. Il messaggio all’opinione pubblica è stato lanciato sperando che porti frutti. Il seguito concreto potrà forse essere misero per la gestione dei flussi di persone che attraversano la Manica sui gommoni in cerca di asilo, ma potrebbe essere deflagrante per la posizione del Regno Unito nei confronti dell’Europa e del diritto internazionale. Il diritto europeo e quello internazionale in materia di stranieri migranti obbligano gli Stati a dare asilo o comunque protezione alle persone che nei Paesi da cui provengono patirebbero persecuzioni sia individuali, che per i gruppi etnici, religiosi, ecc. a cui appartengono. Ciò riguarda prima di tutto, ma non solo, i casi in cui nel Paese di rinvio vi sia rischio per la vita o di torture e trattamenti inumani o degradanti. In Europa (quella del Consiglio d’Europa, 46 Stati membri, da non confondere con Unione europea con i suoi 27 membri, da cui il Regno Unito è uscito con la Brexit), la protezione dei migranti, in quanto persone titolari di diritti, è assicurata soprattutto dalla Convenzione europea dei diritti umani. Essa ha un organo giudiziario, la Corte, che giudica l’osservanza degli obblighi assunti dagli Stati che hanno ratificato la Convenzione. I modi in cui gli Stati assicurano che il loro diritto interno non contrasti con la Convenzione e con la giurisprudenza della relativa Corte, sono vari. In Italia è la stessa Costituzione a garantirlo. Nel Regno Unito è - o era - lo Human Rights Act del 1998 e i suoi meccanismi, con i quali i giudici britannici si adeguano alle norme della Convenzione. La Corte europea interviene a seguito dei ricorsi presentati da persone o dagli Stati membri. Prima di decidere sul fondamento dei ricorsi, la Corte europea può indicare allo Stato di sospendere i suoi provvedimenti nei confronti del ricorrente, per non pregiudicare l’efficacia del successivo giudizio. È ciò che è già avvenuto una volta, prima della approvazione della nuova legge, per le espulsioni dal Regno Unito al Rwanda. Ed è ciò che probabilmente accadrebbe se, come consentito dalla nuova legge britannica, quel governo desse effettivamente corso ai trasferimenti dei migranti. La nuova legge è mossa dall’espressa intenzione di sottrarre i migranti irregolari alla applicazione della Convenzione europea e alla relativa responsabilità britannica. Infatti, contro quanto già giudicato dalla Suprema Corte, la legge stabilisce che il Rwanda è uno Stato sicuro ai fini delle espulsioni e dichiara inapplicabili alcuni aspetti dello Human Rights Act, per impedire ai giudici britannici di ritenere diversamente, salvo che, sul piano dei rischi, vi siano specifici motivi relativi a specifiche persone. La nuova legge poi rimette al solo governo la decisione se adeguarsi o meno ad eventuali disposizioni di sospensione delle espulsioni che vengano dalla Corte europea dei diritti umani. In sostanza, nella applicazione del trattato con il Rwanda, nel Regno Unito sarà il governo e non più i giudici a valutare la sicurezza dei Paesi di rinvio, come finora hanno fatto, trattandosi di giudicare in materia di diritti fondamentali. Una volta effettuata la espulsione, la valutazione del diritto di asilo sarà effettuata dalle autorità del Rwanda, le quali sono fuori dell’ambito di applicazione del diritto europeo dei diritti umani. Va segnalato che, per questi aspetti, l’accordo tra Italia e Albania, almeno sulla carta, è diverso. Simile, se si vuole, è il messaggio politico, ma lo strumento non soffre dei gravi vizi della soluzione britannica con il Rwanda. Già Theresa May, quando era ministro degli Interni, prima di divenire Primo Ministro, aveva preconizzato l’uscita del Regno Unito dalla Convenzione europea dei diritti umani e dalla giurisdizione della Corte europea. La sua polemica era prima di tutto nei confronti dei giudici interni che si adeguavano alla giurisprudenza della Corte europea, tramite l’applicazione dello Human Rights Act. Il Regno Unito, uscito dall’Unione Europea, è rimasto membro del sistema della Convenzione europea dei diritti umani. Ma ora se, come è possibile, la Corte europea dei diritti umani dovesse ordinare la sospensione di espulsioni in Rwanda, il governo potrebbe abbandonare la Convenzione europea. In clima elettorale la tentazione potrebbe essere forte. Dopo l’espulsione della Russia e la frequente insofferenza manifestata da diversi Stati membri, il progetto europeo riceverebbe un colpo molto grave e si avvierebbe al tramonto: il progetto degli anni 50 dopo la guerra, quello di creare un’ampia zona del mondo in cui vengono tutelati i diritti e la sicurezza delle persone - tutte le persone, cittadini e non -, dove ai giudici e non ai governi spetta decidere le controversie sui diritti, dove dei diritti e delle libertà fondamentali è responsabile la Comunità internazionale, cioè, qui da noi, l’Europa, con i giudici nazionali e la Corte europea dei diritti umani. Medio Oriente. La Corte penale: “Basta intimidazioni”. Ultimatum di Israele ad Hamas di Chiara Cruciati Il Manifesto, 4 maggio 2024 Telefonate ai giudici in privato, poco velate intimidazione in pubblico, palesi pressioni dai paesi occidentali: la Corte penale internazionale sa quanto irrimediabile sarebbe una perdita pubblica di legittimità. A dar voce allo sdegno per come il tribunale è stato ridotto, mero compendio di interessi di parte, è stata ieri la procura generale, che dal 2021 indaga sui crimini di guerra e contro l’umanità commessi nei Territori palestinesi occupati. “L’indipendenza e l’imparzialità (dell’Icc) - si legge nel comunicato - è minata quando individui minacciano di rappresaglia la Corte o il suo personale”. Non nomina mai Israele né gli Stati Uniti che da giorni provano a impedire l’emissione di un mandato di cattura per crimini di guerra del primo ministro israeliano Netanyahu. Ma il riferimento è sotto gli occhi di tutti: “L’ufficio insiste: ogni tentativo di impedire, delegittimare o influenzare in modo improprio devono cessare subito”. Sono, aggiunge, “una violazione dello Statuto di Roma”. La reprimenda giunge mentre al Cairo il negoziato prosegue, senza reali orizzonti. Secondo il Wall Street Journal, Israele avrebbe fatto sapere ad Hamas che o accetta l’accordo entro una settimana o partirà l’offensiva terrestre contro Rafah. Una delegazione del movimento islamico sarà al Cairo domani, ma al momento non pare aver reagito all’ultimatum. All’Afp uno dei funzionari di più alto grado del gruppo, Husam Badran, ha detto che Hamas sta conducendo un dibattito interno in merito e poi ha puntato il dito contro Netanyahu: “È stato lui a ostacolare tutti i precedenti round di negoziati, ed è chiaro che lo fa ancora”. Perché, spiega, i ripetuti annunci di attaccare Rafah “bloccano ogni possibilità di accordo”. Infine insiste sul punto che per Hamas è dirimente: cessate il fuoco permanente e non temporaneo e ritiro dell’esercito israeliano da Gaza. Tel Aviv non la vede allo stesso modo, non intende ritirarsi e pensa già al futuro: secondo il New York Times, il governo israeliano starebbe premendo per “un piano post-guerra per Gaza in cui Israele offrirebbe di condividere la supervisione del territorio con un’alleanza di paesi arabi, compresi Egitto, Arabia saudita ed Emirati, e con gli Stati uniti”. In cambio, aggiunge il Nyt, della normalizzazione dei rapporti con Riyadh. Ancora una volta, palestinesi fuori dal quadro e dal proprio futuro di autodeterminazione: “Dopo un periodo di sette-dieci anni - continua il quotidiano - l’alleanza permetterebbe ai gazawi di votare se essere assorbiti dentro un’amministrazione palestinese che governerebbe sia a Gaza che in Cisgiordania”. In attesa di un dopoguerra che è una chimera, Rafah rimane la minaccia già agita. Ieri l’Onu ha ribadito che un’eventuale offensiva israeliana via terra si tradurrebbe in un “bagno di sangue di civili e in un incredibile colpo all’operazione umanitaria nell’intera striscia”. Perché è dalla città-rifugio degli sfollati che le Nazioni unite e le ong gestiscono la distribuzione degli aiuti e cliniche mobili. Il piano israeliano di evacuazione, ha aggiunto l’Organizzazione mondiale della sanità, è “un cerotto”: “Non preverrà in alcun modo - ha detto Rik Peeperkorn, responsabile Oms per i Territori palestinesi occupati - l’attesa sostanziale mortalità dovuta a un’operazione militare”. Mentre l’ONU parlava, a Rafah si moriva. Nei raid notturni sono stati ammazzati quattro bambini. E si moriva nel campo di Nuseirat, ridotto a un cumulo di macerie: “Sette persone - una donna e i suoi figli - sono stati uccisi oggi. Abbiamo visto i corpi all’ospedale. I cadaveri dei bambini sono arrivati nei sacchi di plastica, a pezzi”, riporta il corrispondente di al-Jazeera Hani Mahmoud. Dal 7 ottobre sono 34.622 i palestinesi uccisi a Gaza, due terzi sono donne e bambini. Iraq. I nemici impiccati in segreto nella pancia della balena di Nassiriya di Sergio D’Elia L’Unità, 4 maggio 2024 Ciò che resta del famigerato Stato Islamico continua a compiere attacchi mortali e imboscate da aree remote e nascondigli nel deserto ai confini tra Siria e Iraq. Il grosso di quel che era il Califfato islamico più temuto al mondo è rinchiuso in un buco a Nassiriya, il carcere che gli abitanti del luogo chiamano “al hout”, la balena, perché inghiotte le persone e non le sputa più fuori. La prigione di Nassiriya è l’unica in Iraq dove c’è il braccio della morte. Si contano circa ottomila prigionieri, accusati per lo più di appartenere all’Isis. La regola irachena dell’occhio per occhio non contempla il limite di un occhio alla volta; quando è il momento, l’accecamento è di massa. La vendetta dei vincitori dello Stato islamico iracheno ufficiale si abbatte ogni volta su decine di vinti dello Stato Islamico inufficiale. L’appuntamento con la forca è prefissato nelle sentenze dei tribunali speciali ma i decreti di esecuzione devono essere firmati dal capo dello stato. In pratica, l’incidente mortale può accadere all’improvviso, a capriccio del Presidente Abdul Latif Rashid, in un giorno imprevedibile di un anno qualsiasi dei tanti di attesa nel braccio della morte. L’anno scorso, alla vigilia di Natale, l’altoparlante della prigione ha annunciato i nomi dei 13 uomini che sarebbero stati impiccati l’indomani. Le guardie carcerarie li hanno poi prelevati a forza dalle celle e portati in isolamento. Sono stati uccisi all’alba della mattina dopo, senza avere neanche la possibilità di chiamare i propri cari per un ultimo saluto o gli avvocati per un estremo tentativo di appello alle istanze superiori di un infimo sistema giudiziario viziato da difetti più volte documentati, che negano agli imputati un giusto processo. Quella di Natale 2023 era stata la prima esecuzione di massa dal 2020, quando 21 uomini furono uccisi il 16 novembre. Gli ultimi inghiottiti nella pancia della “balena” sono stati 13 uomini, spariti nel nulla, impiccati in segreto e senza preavviso il 22 aprile scorso. In base a una fonte anonima della sicurezza nella provincia meridionale di Dhi Qar, si sa solo che 11 “terroristi dello Stato Islamico” sono stati giustiziati nella prigione di Nassiriya, “sotto la supervisione di un team del ministero della Giustizia”. Una fonte medica locale ha confermato che il dipartimento sanitario ha ricevuto i corpi di 11 persone giustiziate. Tutti e 11 provenivano dalla provincia di Salahaddin e i corpi di sette sono stati restituiti alle rispettive famiglie. Secondo altre fonti, nel mucchio della ultima impiccagione sarebbero capitati altri due uomini condannati per accuse legate al terrorismo formulate in termini eccessivamente ampi e vaghi. La prigione di Nassiriya è nota per la sua camera della morte, ma anche per le terribili condizioni di detenzione. Secondo Human Rights Watch oltre 100 persone sono decedute dal 2021 a oggi. Molti di questi decessi sono accaduti in circostanze sospette, con i corpi degli uomini che presentavano evidenti segni di tortura e con le famiglie a cui è stato negato l’accesso ai referti dell’autopsia. Il diritto dell’imputato a incontrare un giudice entro 24 ore dal proprio arresto, è una norma sacra universale, ma in Iraq è considerato un lusso che non può essere concesso ai “nemici dello Stato”. Il diritto a essere assistito da un avvocato durante gli interrogatori e il diritto a comunicare con i propri parenti durante la detenzione, sono diritti umani fondamentali che in Iraq sono stati violati sin dalle prime luci dell’alba del nuovo mondo dopo il tramonto dell’era delle tenebre della dittatura. Le esecuzioni segrete di massa avvenute fino a oggi nell’Iraq liberato, rispecchiano esattamente quelle dell’epoca di Saddam Hussein. I giudici di oggi continuano secondo le vecchie abitudini a condannare a morte con l’accusa generica di mera “appartenenza a un’organizzazione terroristica”, senza fare riferimento né all’organizzazione né al fatto specifico effettivamente commesso. I processi sono generalmente fatti in fretta e furia e basati su confessioni estorte con la tortura. “È impossibile per me impedire l’esecuzione delle vittime che difendo”, ha raccontato un avvocato che difende alcuni detenuti nel carcere di Nassiriya. “Non ho nemmeno accesso ai fascicoli che riguardano i miei clienti. Non so chi sarà il prossimo, non so per quale motivo sarà giustiziato, né quando.” Ecuador. Diana Salazar, la nemica dei narcos di Paolo Lepri Corriere della Sera, 4 maggio 2024 Procuratrice generale dell’Ecuador, giurista di origini afro-ecuadoriane, cresciuta da una madre single nella città di Ibarra, ai piedi del vulcano Imbabura. È una donna che Don Winslow, lo scrittore americano autore di “Il cartello” e altri indimenticabili thriller, potrebbe raccontare bene, ispirandosi a lei in uno dei suoi romanzi. Diana Salazar Méndez, procuratrice generale dell’Ecuador, è stata indicata da Time tra le cento personalità più influenti del 2024 e Samantha Power - già rappresentante permanente degli Stati Uniti all’Onu durante la presidenza Obama - parla così di questa giurista di origini afro-ecuadoriane, cresciuta da una madre single nella città di Ibarra, ai piedi del vulcano Imbabura: “Il suo è uno dei più duri e pericolosi lavori in tutto l’emisfero occidentale”. Qual è questo lavoro? Impedire che le potenti organizzazioni di narcotrafficanti, utilizzando spietatamente violenza e corruzione, distruggano un Paese diventato il principale snodo della cocaina proveniente da Colombia e Perù (che poi entra negli Stati Uniti e in Europa), dove nel 2023 sono state uccise 8.000 persone, cioè 45 omicidi ogni 100mila abitanti. I trafficanti, come ha scritto Roberto Saviano sul Corriere, “sono arrivati a essere la prima azienda dell’Ecuador che infiltra la politica, decide i sindaci, compra i voti, sposta ministri e vertici di polizia e ammazza politici quando si frappongono tra loro e i loro obiettivi”. Il grande interrogativo di questa drammatica situazione riguarda le possibilità di successo della linea di massimo rigore voluta presidente Daniel Noboa (figlio dell’uomo più ricco del Paese) che ha dichiarato lo stato di emergenza e indetto in aprile un referendum sul rafforzamento dell’uso dei militari nella lotta alla violenza che è stato premiato dal consenso degli elettori. Bocciato, invece, il quesito riguardante una ulteriore flessibilità del mercato del lavoro. Intanto Salazar Méndez va avanti, non contenta del successo dell’operazione “Metastasi” che ha portato l’anno scorso a decine di arresti eccellenti. È diventata un personaggio popolare, che ha guadagnato il rispetto dei cittadini. Il suo motto è dimostrare a tutti, nonostante le terribili minacce ricevute, che “la giustizia non si inginocchia”. Sicuramente non le manca il coraggio.