Le carceri minorili diventino il luogo della solidarietà di Franco Corleone L’Espresso, 3 maggio 2024 I fatti del “Beccaria” di Milano mostrano l’urgenza di trasformare questi istituti in Case d’accoglienza. La crisi del carcere è fuori controllo a causa del sovraffollamento, ai limiti di una nuova condanna della Cedu (Corte europea per i diritti dell’uomo) per trattamenti degradanti, e della catena inarrestabile di suicidi. Le violenze e le torture nel carcere minorile di Milano hanno provocato una indignazione all’altezza dello scandalo. Colpiscono, in questo episodio che ha coinvolto un terzo degli agenti in servizio, non solo la carica di odio razzista e i pestaggi, ma la contraddizione con una pratica di relazioni negli istituti minorili, che erano un fiore all’occhiello; basti pensare che gli agenti non indossavano la divisa. Per fortuna a Milano c’è un Garante dei diritti come Franco Maisto che ha visto, al contrario di molti che non capivano il disagio. Pietro Ingrao metteva in guardia sul fatto che l’indignazione non era sufficiente e poteva costituire un alibi. Si impone una svolta. Politica e culturale subito. Nel 1996, appena nominato sottosegretario alla Giustizia con il ministro Giovanni Maria Flick, ebbi la delega alla giustizia minorile e scrissi un breve articolo su Repubblica, il 16 novembre 1996, intitolato “Si trasformi in casa il carcere minorile”. Sostenevo che la cultura del Paese sicuramente non riconosceva come sensata una concezione della pena repressiva e retributiva contro i minori e condivideva una scelta per privilegiare misure alternative alla detenzione e per offrire una prospettiva di vita diversa. Gli Istituti penali minorili, al di là del nome, sono ancora, dal punto di vista delle strutture, delle vere e proprie carceri, mentre dovremmo immaginare delle strutture radicalmente diverse (senza sbarre e porte d’acciaio) che facciano pensare a una casa di accoglienza fondata sui valori della convivialità e della solidarietà e che si contrappongano ai miti del potere, della violenza e della ricchezza; insomma, dovremmo realizzare per i minori devianti un “dentro” che sia mille volte meglio di quel “fuori” di degrado e di emarginazione che è alla base di comportamenti di sopraffazione, verso i più deboli, i diversi, le donne. È un sogno o è una ipotesi praticabile? Certo il clima è cambiato e il decreto Caivano ha impresso una svolta repressiva che ha fatto innalzare i numeri degli arresti in maniera vorticosa. Il risultato sono 495 presenze negli Ipm (217 italiani, 268 stranieri). Per molti anni erano stabili sulle quattrocento unità, negli ultimi due anni sono aumentate di 100. Una quota rilevante è rappresentata da stranieri, ma in molti casi la detenzione non è legata a gravi reati, bensì alle leggi criminogene, come quella sulle droghe e sull’immigrazione clandestina, e alla mancanza di alternative esistenziali fuori dalla prigione. È l’ora di mettere in campo la chiusura delle 17 carceri minorili. I responsabili di gravi delitti (associazione criminale, violenza sessuale, omicidio) sono un numero limitato e per loro si potrebbe efficacemente esercitare la sfida dell’articolo 27 della Costituzione. Resta il problema dei giovani adulti, che sono 207 (153 tra ì diciotto e i venti anni e 54 tra i ventuno e i ventiquattro anni) e che invece di essere catapultati nelle carceri per adulti potrebbero rimanere in alcuni Ipm rivisitati. Non è un’impresa difficile. Più ardua era la chiusura dei manicomi criminali. Occorre investire nella prevenzione e scommettere sulla libertà, sulla responsabilità e sulla comunità. Con il Decreto Caivano troppi minori in carcere. Così crescerà la recidiva e non si aiuta nessuno di Andrea Orlando* Avvenire, 3 maggio 2024 Una normativa per garantire sicurezza e per contenere la violenza che è “violenta” già nella titolazione con cui viene comunemente indicata: Decreto Caivano. Come uno stigma a marchiare un territorio, come a sottolineare che certi eventi possono verificarsi solo lì. Tutta l’Italia, tutto il mondo non dimenticheranno Caivano come terra degli orrori. Più facilmente, ahimè, si dimenticherà come e perché è stato necessario intervenire. E ci sarà necessità di dedicare ad altri luoghi altri decreti, se gli interventi di rafforzamento ed incentivazione della socialità positiva non saranno estesi a tutte le zone che hanno già espresso difficoltà analoghe. Al momento, a dimostrazione che non vi è stata alcuna neppur superficiale valutazione di impatto della normativa che introduce un significativo inasprimento delle pene per alcuni reati commessi da minorenni, non solo non si è registrato alcun beneficio, ma di contro, gli effetti della applicazione hanno comportato un sovraffollamento, mai registrato in passato, nei 17 Istituti penali per i minorenni presenti in Italia. Il nostro sistema penitenziario minorile vantava, rispetto a quello degli adulti, un tasso sensibilmente più basso di recidiva. Questo dato è probabile che sia compromesso. Intanto sono aumentate le misure cautelari e non è diminuito il tasso di delinquenza minorile: sempre più adolescenti ristretti in strutture non pronte ad una accoglienza così massiccia. Appare quasi offensivo, tanto è evidente, rappresentare quanto il sovraffollamento vanifichi o comunque renda più complesso il corretto espletamento dei percorsi trattamentali da porre in essere, con danno anche di quelli in corso per i ragazzi già negli Istituti Penali per i Minorenni da qualche tempo. Del resto già esperienze del passato hanno dimostrato che l’innalzamento di pene edittali non solo non scoraggia, ma talvolta assume valore di ulteriore coraggio nell’accettare sfida e rischio. Sarà necessario valutare attentamente impatto di Daspo e Avviso orale del Questore per non trasformare anche questi strumenti in “credenziali” all’interno del gruppo dei pari. Ben strutturato, almeno sulla carta, è il dialogo tra le Istituzioni e l’autorità giudiziaria minorile e questa comunicazione deve essere sempre più intensa per diventare un reale punto di forza, che colleghi devianza con disagio e consenta una presa in carico, se necessario, dell’intero nucleo familiare. Ma anche questa previsione deve fare i conti con le difficoltà attraversate dai servizi sociali, in particolare proprio nelle aree del Paese nelle quali maggiormente si manifestano i tassi più alti di devianza. Un tratto certamente pregevole della normativa in esame è il tentativo di coinvolgimento dei genitori, la sollecitazione ad un esercizio consapevole della responsabilità genitoriale come cura adeguata, garanzia di tutela, attenzione ai percorsi di sviluppo e crescita. Ma la “stretta” per contrastare l’evasione scolastica appare priva di una reale ed immediata efficacia cogente, non essendo facile provare il dolo o anche solo la colpa del genitore, e residuando la sensazione che non vi sia alcuna promozione del valore dell’istruzione come reale imprescindibile “norma” di sicurezza sociale. *Deputato Pd, già Ministro della Giustizia Sos penitenziari. L’Ungheria è a casa nostra di Manuel Sarno* Il Giorno, 3 maggio 2024 Il letto di contenzione, simbolo di un sistema carcerario arretrato, viene ancora utilizzato in alcune strutture, violando i principi rieducativi della pena. Fenomeni inquietanti si verificano anche in istituti minorili, evidenziando gravi carenze e complicità. La necessità di riforme è urgente. C’era una volta il letto di contenzione, simbolo di un sistema che non funziona e che non dovrebbe più essere presente negli istituti penitenziari da decenni: uno - forse non sarà l’unico e ultimo - è stato trovato nella sesta sezione del carcere genovese di Marassi solo qualche anno fa: uno strumento anacronistico e drammatico, incompatibile con la normativa sul trattamento sanitario obbligatorio. Ma non veniva utilizzato solo in questi casi: vi venivano fatti giacere anche “ospiti” insubordinati sedandone le intemperanze anche assestando qualche manganellata. La nostra Costituzione canonizza la finalità rieducativa della pena, un principio risalente al pensiero illuministico di Cesare Beccaria che deve trovare applicazione prevedendo percorsi di studio, formazione e lavoro all’interno delle carceri: ma le risorse mancano e la violenza non può essere un gratuito ed intollerabile additivo della privazione della libertà, delle condizioni igieniche e della assistenza sanitaria carenti, del sovraffollamento. Eppure, evitando di generalizzare, inquietanti fenomeni ancora si verificano; l’ultimo di questi ha avuto come teatro il carcere minorile di Milano ed assume contorni ancora più gravi non solo per la rete di complicità, coperture e insabbiamenti ma proprio per la sede: la detenzione per i minorenni costituisce realmente scelta estrema. E dire che quell’istituto è intitolato proprio a Beccaria… un istituto che per circa vent’anni e fino a poco tempo fa ha avuto solo direttori e comandanti degli agenti precari. Ci sono voluti una ventina di anni dopo la “macelleria messicana” del G8 a Genova per approvare una legge sulla tortura da parte delle forze dell’ordine: detto sempre nel massimo rispetto per tutti coloro che rischiano e si sacrificano da servitori dello Stato, ma un po’ di Ungheria c’è anche a casa nostra. *Avvocato Se tutto è reato niente è reato di Riccardo Carlino L’Espresso, 3 maggio 2024 Ai fatti di cronaca il governo risponde con decreti che aumentano i delitti o le pene. Ma la deriva securitaria complica il nostro sistema giuridico. E disperde ogni effetto deterrente. C’è un rave party in un casale abbandonato? Il governo risponde con il decreto anti-rave, che innalza le pene detentive fino a sei anni e le multe da 1.000 a 10 mila euro. Un barcone pieno di persone affonda tragicamente a pochi metri dalla costa in Calabria? L’esecutivo risponde con il decreto Cutro, inasprendo le pene per il reato di immigrazione clandestina e aggiungendo quello di “morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, punito con la reclusione da venti a trent’anni. Due minorenni vengono violentate da un gruppo di adolescenti del Parco Verde di Caivano? Arriva il decreto Caivano che, per reprimere la criminalità giovanile e l’abbandono scolastico, inasprisce ulteriormente le sanzioni nei casi di spaccio e prevede fino a due anni di carcere per i genitori che non mandano a scuola i figli, con multe da 200 a mille euro per mancata sorveglianza di un minore colpevole di un reato. Dei ragazzi youtuber si schiantano con una supercar addosso a una macchina, uccidendo un bambino al suo interno? Il governo risponde con la riforma del Codice della strada. Aumenta le sanzioni per chi guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, ma anche per chi supera i limiti di velocità nei centri abitati. E sull’onda dell’indignazione per i cinque operai morti nel cantiere Esselunga di Firenze, la ministra del Lavoro, Marina Calderone, annuncia un nuovo pacchetto di norme per la sicurezza sul lavoro, contro il sommerso e il caporalato e per la trasparenza degli appalti. Da ottobre sarà introdotta una patente a punti nei cantieri con 30 crediti iniziali, che, scendendo a meno di 15 a seguito di inadempienze accertate dall’ispettorato del lavoro, comporteranno una sanzione da 6 a 12 mila euro. Un concentrato di promesse al grido di “più ispettori, più controlli, più sanzioni” che si scontra però con una realtà diversa. In un 2024 che solo nei primi due mesi conta già 119 denunce di incidenti mortali sul lavoro - il 20% in più rispetto allo stesso periodo del 2023, anno in cui l’Inail ha ricevuto complessivamente 1.041 segnalazioni di morti bianche - e mentre nel bacino di Suviana i sommozzatori recuperavano i lavoratori uccisi dall’esplosione nella centrale idroelettrica. È un continuo botta e risposta, una corrispondenza biunivoca perfetta tra una tragedia e un decreto (che puntualmente prende il nome della tragedia) nella quale un’iniezione di pene, multe e sanzioni inasprite cerca di convincere l’opinione pubblica che si sta realmente facendo qualcosa. Il nome tecnico è panpenalismo, conosciuto anche come populismo penale, ossia la tendenza ad aumentare le fattispecie delittuose o la quantificazione delle pene attraverso la legislazione d’emergenza. Un modo di fare che finisce per schiantarsi sul già intricato sistema giuridico italiano con nuovi commi e tecnicismi contorti, spesso, per la fretta di intervenire, per nulla coerenti con le norme esistenti. Il risultato? Un mostro che non fa paura a nessuno, anzi. Il massimo potere punitivo finisce per assuefare rapidamente le persone e dunque non sortisce alcun effetto deterrente. Tanto più che il sistema penale italiano, proprio per l’incoerenza delle nuove norme, permette spesso una scappatoia. Lo youtuber della vicenda di Casal Palocco ha potuto patteggiare una condanna a quattro anni e quattro mesi, con la detrazione del periodo passato agli arresti domiciliari che fa scendere la pena al di sotto dei quattro anni e permette l’accesso per il condannato alle misure alternative alla detenzione, come ad esempio l’affidamento in prova ai servizi sociali, con il fine di rieducare il condannato. Patteggiamento a un anno e quattro mesi con pena sospesa, come solitamente avviene quando la condanna non supera i due anni di reclusione, anche per la venticinquenne che nel Capodanno del 2023 finì fuori strada nel Veronese, causando la morte dell’amica seduta sul sedile anteriore. Scelte corrette dal punto di vista della legge che, però, rinfocolano l’indignazione dell’opinione pubblica e la richiesta di severità. Alimentando un circolo vizioso. Insomma, gli annunci funzionano per un titolo di giornale, ma l’indomani sono già superati. E a volte il panpenalismo conduce il legislatore a inventare il reato di sana pianta, col rischio (non calcolato) che non venga mai applicato, proprio perché la sua vaghezza può portare il giudice ad applicare una norma diversa, già esistente, più chiara e incentrata su analoga fattispecie. È il caso dell’articolo 415 bis del Codice penale previsto dal disegno di legge in materia di sicurezza, approvato lo scorso novembre dal Consiglio dei ministri, per introdurre il reato di “rivolta in istituto penitenziario. Una fattispecie che potrebbe benissimo essere coperta da reati come danneggiamento, lesioni o evasione. Ma il 415 bis anticiperebbe la soglia punitiva così da poter essere applicato, nelle intenzioni, anche a condotte non realmente offensive, come la resistenza passiva dei detenuti all’esecuzione di ordini. Non riordinare la camera o rinunciare alla doccia potrebbero essere atti sanzionati come una rivolta, che, nell’immaginario e anche nella realtà, è una sommossa violenta. Nello scenario prefigurato dall’applicazione della norma in discussione si potrebbe arrivare a trattare l’insubordinazione non più come un illecito disciplinare, ma come reato punito con g la reclusione da uno a cinque anni e, per gli organizzatori, fino a otto anni. Perché si scrive panpenalismo, ma si legge ossessione securitaria. I politici vogliono colpire sia i media sia i giudici Vitalba Azzollini* Il Domani, 3 maggio 2024 Due emendamenti al ddl cybersecurity prevedono il carcere per i giornalisti quando pubblicano notizie di provenienza illecita. Gli emendamenti limitano l’attività di quei giudici che hanno tutelato il diritto di cronaca. Quando il potere cerca di intaccare la libertà di stampa non è mai un buon segno, specie se lo fa mettendo mano al codice penale. Il segno è ancora peggiore quando l’interferenza con l’attività dei giornalisti è realizzata intervenendo anche su quella dei giudici, per impedire che con le proprie pronunce questi ultimi tutelino in modo troppo ampio l’esercizio del diritto di cronaca. Imprigionare i cronisti - Il riferimento è a due emendamenti al disegno di legge in materia di cybersecurity e reati informatici, attualmente all’esame delle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera, che introducono nuove ipotesi di reato per i giornalisti. Come esposto su Valigia blu, l’uno - a prima firma di Enrico Costa, deputato di Azione - propone una norma che punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni chi “diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazioni” che sa provenire, tra l’altro, dall’accesso abusivo a un sistema informatico o telematico. L’altro - a prima firma di Tommaso Calderone, deputato di Forza Italia - prevede che le norme in tema di ricettazione, riciclaggio, impiego di denaro o altro di provenienza illecita si applichino a chi utilizzi, riproduca, diffonda o divulghi con qualsiasi mezzo “dati o programmi contenuti in un sistema informatico telematico sottratti illecitamente”. La pena è la reclusione fino a tre anni. In sintesi, entrambi gli emendamenti dispongono il carcere per il giornalista che pubblichi notizie con la consapevolezza che provengono da reato. Il fine è quello di evitare che il diritto di cronaca possa funzionare da “scusante” per le eventuali condotte illecite poste in essere dal giornalista stesso per acquisire le notizie. E il diritto di cronaca? La libertà di stampa è uno dei cardini degli ordinamenti democratici, come contrappeso all’esercizio del potere. Perciò il diritto di cronaca può costituire una causa di giustificazione (“scriminante”) per gli eventuali reati commessi dal giornalista con la pubblicazione della notizia, escludendone la punibilità quando ricorrano tre condizioni: che la notizia stessa sia vera o verosimile, di interesse pubblico e presentata in modo continente, cioè misurato. Da tempo la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu) ha cominciato ad applicare la causa di giustificazione a eventuali illeciti commessi non solo con la pubblicazione della notizia, ma anche mediante attività tese a procurarsela. La fase del procacciamento delle informazioni costituisce il presupposto di quella della loro divulgazione - affermano i giudici - e pertanto la liberta? di stampa può essere effettivamente garantita solo tutelando entrambe. Negli ultimi anni, anche la Corte di cassazione, sulla scia della Corte Edu, ha esteso la non punibilità del giornalista a talune condotte delittuose poste in essere per acquisire le informazioni da pubblicare. Pur non essendoci un orientamento consolidato, la Cassazione ha aperto un varco all’applicazione della scriminante in ipotesi di ricettazione, reputando che il diritto di cronaca pesi più dei diritti lesi da tale illecito, mentre l’ha esclusa per reati più gravi. Cosa accadrebbe se l’uno o l’altro dei due emendamenti fossero approvati? Ai giornalisti sarebbe richiesto di valutare preventivamente l’eventuale provenienza illecita delle informazioni ottenute dalla loro fonte. Valutazione per la quale in altre circostanze servono tre gradi di giudizio. Ma soprattutto, e di certo, ai giudici sarebbe preclusa la possibilità di affermare - in conformità alle citate pronunce della Cassazione - che la scriminante del diritto di cronaca può estendersi anche alla fase precedente rispetto alla pubblicazione della notizia, bilanciando il diritto all’informazione e altri diritti. Il bilanciamento, infatti, verrebbe operato preventivamente, in modo generale e astratto, da parte del legislatore, il quale cristallizzerebbe per via normativa che, nelle ipotesi previste, la libertà di stampa va sacrificata anche se le notizie sono vere e di interesse pubblico. In altre parole, la stretta sui giornalisti viene realizzata anche restringendo i margini decisionali dei giudici, e cioè impedendo a questi ultimi di tutelare il diritto di cronaca attraverso la tutela dell’attività necessaria a procurarsi le notizie. Costa se lo è lasciato sfuggire in una recente intervista, quando ha detto che il suo emendamento si è reso necessario “dopo la bizzarra posizione della Cassazione che invece ha considerato il diritto di cronaca come un’immunità anche di fronte a informazioni acquisite attraverso condotte delittuose”. Se gli emendamenti diventeranno legge, le relative disposizioni andranno valutate alla luce dello European Media Freedom Act. Al momento, essi restano un pessimo segnale, sotto ogni punto di vista. *Giurista La psichiatria per controllare i magistrati di Ugo Mattei L’Espresso, 3 maggio 2024 L’idea dei test si inserisce nella tendenza di voler normalizzare e prevedere tutti i comportamenti, dai consumatori fino ai giudici. Un altro modo per rafforzare il potere. M i sono interrogato in queste settimane circa la posizione che ritengo corretta sulla questione dei test psicologici per entrare in magistratura. Ovviamente, il dibattito in Italia è caratterizzato dalle opposte tifoserie. Una curva Nord, garantista, si contrappone ad una Sud, giustizialista. I tifosi della curva Nord, non di rado per ragioni pelose, protettive di potenti corrotti, cercano di delegittimare l’intera categoria dei magistrati, facendo di ogni erba un fascio e maramaldeggiando sui casi clamorosi à la Palamara. Per questi tifosi, prima di entrare in magistratura, i candidati dovrebbero esser sottoposti ad un test psicologico-attitudinale, visto come una specie di Tso. Sull’opposta curva Sud, si arroccano coloro che, da Tangentopoli in poi, considerano i magistrati come una fonte politica di progresso “a prescindere”, ed esultano ad ogni tintinnio di manette, soprattutto quando i destinatari politici sono quelli del fronte opposto. Per questi tifosi chiedere ad un magistrato di sottoporsi a un test psicologico è tanto offensivo quanto chiedere il certificato di laurea ad un esimio chirurgo che sta per operare. Non ho immaginato le tifoserie come di destra o sinistra perché i due schieramenti non sono necessariamente contrapposti su quella linea. Tuttavia, tendenzialmente il centro-destra, insieme ad una maggioranza della avvocatura, invoca i test, mentre il centrosinistra è più giustizialista e li rifiuta (ovviamente insieme alla maggioranza corporativa dei magistrati). Per prendere una posizione ragionata è bene porsi alcuni interrogativi preliminari. Servono i test per comprendere se un giovane futuro magistrato sarà sufficientemente equilibrato? Quali controindicazioni, oltre alla potenziale inutilità, possono avere i test? Occorre dunque interrogarsi sul potenziale delle scienze cognitive, su cui gli investimenti nel cybercapitalismo (così Emanuela Fornari chiama l’attuale fase storica che muove guerra ai legami sociali e individualizza per sorvegliare) sono ingentissimi, nel prevedere o condizionare i comportamenti della magistratura, magari al fine di renderla sostituibile dall’Ia. Varrà la pena di tener presente che la psichiatria e la psicologia sono strumenti molto invasivi nelle mani del potere (per questo molti psicologi sono indignati dal nuovo codice deontologico), perché strutturano quali comportamenti siano normali e quali patologici o devianti, standardizzandoli. Si tratta di un enorme potere di disciplina che in era neoliberale è penetrata progressivamente nei meccanismi della giustizia (civile e perfino penale) dando sempre crescente spazio a psicologi e cognitivisti, in procedure formalizzate di mediazione. Il conflitto giudiziario si sostituisce con un ambiente artificiale, falsamente cooperativo, permeato di “ideologia dell’armonia”, che premia i comportamenti standard volti a un ragionevole compromesso, a scapito del dissidente, magari infuriato, che insiste sulle proprie ragioni. Si è aperta così la strada nel diritto al giudizio predittivo sulla persona, fondato sulla sua devianza dallo standard. Il diritto, a differenza delle scienze cognitive, dovrebbe occuparsi di fatti storici effettivamente accaduti nei rapporti fra persone, senza cercare di penetrare le menti. Le persone ai suoi occhi devono essere maschere (il significato latino di persona) nel cui intimo non è lecito né rilevante addentrarsi. La dea giustizia è bendata e oggi di fronte all’esplosione dell’Ia (che esaspera la logica predittiva) qualche critico parla di privacy cognitiva. Per il diritto deve rilevare cosa sia dimostrabilmente successo, non chi siano nel loro intimo le persone. Al contrario il cybercapitalismo della sorveglianza è molto più interessato a conoscer l’intimo dietro la maschera, per prevedere e condizionarne i comportamenti del consumatore o del cittadino, standardizzandolo. Di qui i massicci investimenti in scienze cognitive nei principali dipartimenti di marketing statunitensi ed i premi Nobel per l’economia e la medicina dati a queste frontiere del bio-potere. Di qui la fede nelle possibilità predittive dei test attitudinali o psicologici, che già da molti anni sono divenuti una fiorente industria con fatturati miliardari per multinazionali come Parson, in quanto imposti per accedere a ogni programma universitario. Gli studenti si preparano per superare i test psicologici proprio come qualsiasi altra prova. Tali test potrebbero benissimo esser superati, se ben addestrati da appositi corsi online a pagamento, anche da magistrati psicopatici. Dubito che l’alternativa di un colloquio con un professionista, o peggio una psicoterapia preventiva obbligatoria, possa servire a capire chi sia davvero la persona che vuole fare il magistrato. Sicché i test mi paiono inutili, anche se in vita mia ho conosciuto più di un magistrato disturbato. Possono esser dannosi? Sappiamo che diritto e psichiatria, pur provenendo da tradizioni molto diverse, vissero una stagione fortemente integrata, sulle orme del grande Bogdanov, nell’Unione Sovietica stalinista, dove i dissidenti politici furono oggetto tanto di processi farsa quanto di internamenti in istituzioni psichiatriche. I tempi recenti hanno mostrato come, anche senza test, il conformismo politico sia fin troppo diffuso in magistratura. Immaginare che esso possa essere amplificato in nuove leve dì magistrati programmati come l’Ia per essere forti coi deboli e deboli coi forti fa venire i brividi. Studierei invece forme serie di controllo ex post, iniziando da una responsabilità civile dei magistrati che non sia, come oggi, una farsa. Spunta il Manifesto garantista di Costa: “Mi appello a tutti i candidati alle Europee” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 maggio 2024 Il responsabile Giustizia di Azione lancia un decalogo affinché gli eletti a Strasburgo si impegnino per la presunzione d’innocenza e il rispetto dello Stato di diritto in Ue. “Se siete davvero garantisti dovete aderire, anche firmando, questo Manifesto”: è questo l’appello trasversale lanciato ieri dal deputato e responsabile giustizia di Azione, Enrico Costa, a tutti i candidati delle forze politiche in vista delle prossime elezioni Europee dell’8 e 9 giugno. Non poteva essere che lui a lanciare questa iniziativa, considerate le battaglie che sta portando avanti da anni in Commissione Giustizia e in Parlamento sul filone garantista della giustizia, molto spesso isolato e con la magistratura a criticarlo aspramente. Ma in cosa consiste il Manifesto? Vediamolo nel dettaglio. Si tratta di una sorta di decalogo con il quale l’aspirante parlamentare europeo assicura l’elettorato sul voler assumere i seguenti impegni: 1) “sostenere la piena affermazione della presunzione di innocenza e sollecitare le procedure d’infrazione nei confronti dei Paesi che non si adeguano alle disposizioni della direttiva 343/2016”; 2) “rafforzare le norme a tutela del giusto processo, della parità tra accusa e difesa, delle garanzie dell’indagato e dell’imputato, vigilando per la piena attuazione delle garanzie procedurali”; 3) “Respingere ogni forma di indebolimento del diritto di difesa e del diritto all’assistenza legale”; 4) “Operare perché l’Unione europea consideri la restrizione della libertà personale prima della sentenza definitiva come extrema ratio e ne sanzioni l’abuso”; 5) “Puntare alla piena affermazione del principio di riservatezza delle comunicazioni come diritto essenziale della persona, sacrificabile esclusivamente in caso di gravi reati e con procedure rigorose”; 6) “Operare per la piena affermazione della finalità rieducativa della pena, sanzionando i Paesi che presentano condizioni disumane delle carceri e della detenzione”; 7) “Prevedere sanzioni verso i responsabili di ingiuste detenzioni o errori giudiziari”; 8) “Garantire agli assolti e ai prosciolti l’oblio delle notizie relative alle indagini che li hanno interessati”; 9) “Operare per la piena affermazione della responsabilità civile dei magistrati”; 10) “Non utilizzare mai la scorciatoia giudiziaria per colpire l’avversario politico”. Il Manifesto sarà pubblicato sul sito “presuntoinnocente.com” e sarà inviato alle segreterie e ai responsabili di lista di tutti i partiti. “Sono tanti a professarsi “garantisti” in astratto, sono pochi, pochissimi ad esserlo in concreto. L’Unione Europea svolge un ruolo sempre più importante in tema di giustizia e di affermazione dei diritti, con interventi normativi e procedure d’infrazione. È giusto che gli elettori conoscano gli impegni dei singoli candidati su questi temi”: così ha poi commentato il parlamentare nel presentare il suo Manifesto che deve “assicurare l’elettore” sul fatto che chi andrà a rappresentarlo in Europa “sarà rispettoso di principi fondamentali come la presunzione di innocenza”. “Il tasso di liberalismo di un politico - ha aggiunto l’onorevole - si misura dall’assunzione e dalla capacità di mantenere impegni concreti. Questi dieci punti sono il minimo sindacale per potersi definire garantisti”. Per Costa “l’essere garantisti in tema di giustizia è una questione che va affrontata in modo trasversale, non in chiave di singolo partito. Non esiste il partito garantista per eccellenza: tutti hanno al loro interno diverse personalità e sensibilità, spesso tentazioni giustizialiste, cedono per ragioni di quieto vivere o di convenienza a posizioni forcaiole. Abbiamo visto molte volte esponenti della maggioranza tapparsi il naso rispetto ad alcuni provvedimenti, anche se comunque autenticamente garantisti”. Sull’ipotesi di quanti possano aderire al Manifesto ci ha risposto: “temo saranno in pochi a sottoscriverlo, in pochissimi a rispettarlo, visto anche come è iniziata la campagna elettorale. È impopolare essere e mostrarsi convintamente garantisti. Occorre essere coraggiosi: ogni giorno c’è il rischio di essere accusati di collusione, di complicità, di indebolire la lotta alla criminalità. Questa è la sorte del garantista”. L’impegno richiesto da Costa è molto coerente con il lavoro svolto a livello nazionale con l’intergruppo dei Garantisti in Parlamento, un’altra iniziativa nata proprio per suo volere nel 2023: “potremmo essere molti di più nell’intergruppo. Se tu ti impegni a prendere una posizione, lo fai anche contro il tuo partito. Io, pur essendo responsabile giustizia del mio partito, quando quest’ultimo ha votato la mozione di sfiducia alla Ministra Santanché, benché tutto mi divida politicamente da lei, io ho preso le distanze”. Concludiamo la chiacchierata sulla lista degli impresentabili alle elezioni regionali resa nota dalla Commissione bicamerale antimafia: “sarebbe quella lista di persone che non ha una condanna definitiva?” ironizza ma non troppo il deputato che conclude: “è una azione abusiva del Parlamento, siamo al deliro illiberale”. Un appello all’Europa: no alla logica efficientista, salviamo il giusto processo di Oliviero Mazza Il Dubbio, 3 maggio 2024 È possibile avviare un dibattito pubblico sullo stato della giustizia penale in vista delle elezioni del Parlamento europeo? Se volessimo dare credito agli autori della peggior riforma dell’intera storia repubblicana, i quali per mesi ci hanno spiegato che il processo penale efficientista e il diritto penale etico sono stati imposti dall’Europa e dal Pnrr, il tema dovrebbe essere assolutamente centrale nella discussione politica. Ma se anche, con maggior realismo, ritenessimo che il rapporto con l’Europa è stato solo l’astuto pretesto nostrano per portare a termine il disegno risalente di controriforma del processo accusatorio entrato in vigore nel 1989, il risultato non cambierebbe. Comunque siano andate le cose, l’improprio legame istituito dal governo Draghi fra giustizia penale e fondi europei ci costringerà, almeno per i prossimi anni, a negoziare con Bruxelles qualunque intervento sul sistema penale. Del resto, ogni serio tentativo di “riformare la riforma” è stato finora bloccato sul nascere, invocando il totem inscalfibile del Pnrr. In realtà, il piano nazionale di recovery è stato largamente rimaneggiato e alla fine del 2023 la Commissione europea ha accettato le modifiche proposte dal governo italiano. Sono stati emendati molti aspetti qualificanti, ma non il capitolo sulla giustizia che, evidentemente, e a dispetto dei proclami, risulta condiviso anche dall’attuale maggioranza in linea di continuità con la riforma Cartabia. Appare quindi decisivo sapere quale sarà l’atteggiamento dell’Italia nei prossimi anni. Rimarremo vincolati alla trasformazione ideologica della giustizia penale sul modello assiologico-aziendalista applicato all’imputato oeconomicus oppure proporremo una svolta garantista ispirata a quei valori che sono iscritti anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione? È difficile credere che una campagna elettorale asfittica e contenutisticamente vuota possa spontaneamente porre al centro del dibattito la giustizia penale. E bisogna anche ammettere che l’imperativo “riformare la riforma”, proclamato dall’avvocatura quale condizione irrinunciabile, si è progressivamente rarefatto, lasciando spazio ad atteggiamenti contrastanti. Dopo un anno e mezzo di vigenza - tempus fugit - siamo passati dall’astensione dalle udienze alla rassegnata assuefazione. L’efficienza fine a sé stessa, sganciata da valori, forme e garanzie, è infatti una sostanza tossica i cui effetti diminuiscono in seguito a ripetute assunzioni. L’assuefazione per tolleranza appresa è un fenomeno ben noto in farmacologia e spiega perfettamente l’attuale stato di cose: il bersaglio, la difesa con i suoi residui diritti, ha sviluppato meccanismi di compensazione che vanno da comportamenti particolarmente conservativi e prudenti, alla rinuncia all’esercizio di facoltà rese troppo complesse fino alla resa incondizionata e premiata, che era poi l’obiettivo politico- ideologico del riformatore. Non mancano nemmeno casi, invero sempre più frequenti, in cui dall’assuefazione si è passati a sviluppare la sindrome di Stoccolma, stato psicologico tipico di chi ha subito abusi ripetuti, come è accaduto ai difensori negli ultimi trentacinque anni. Alcuni penalisti, vittime predestinate dell’efficienza processuale, cominciano a nutrire sentimenti positivi verso i principali artefici del processo neo- inquisitorio. Quei giuristi osservanti del dogma del processo breve e purchessia, spesso magistrati ortodossi, sono oggi invitati d’onore in convegni smaccatamente rivolti al proselitismo. Nel frattempo, il nuovo corso di Ucpi si è dedicato principalmente all’emergenza carcere determinata dalla degenerazione indegna dell’esecuzione penale in un sistema di trattamenti inumani e degradanti, lasciando però in un cono d’ombra la ferma opposizione inizialmente dichiarata alla riforma del processo penale. Il carcere inumano è una situazione endemica in Italia, come dimostrano gli oltre dieci anni trascorsi dalla sentenza Torreggiani senza che il problema sia stato avviato a soluzione. Un’emergenza endemica che non deve mettere in secondo piano il problema del perché si entra in carcere. L’ingiusta pena, l’ingiusta detenzione sono il portato logico e giuridico dell’ingiusto processo e del crepuscolo delle garanzie che si registra nella stagione dell’efficientismo. Appare innegabile, ad esempio, il rapporto diretto che sussiste fra i capziosi limiti imposti alle impugnazioni dei difensori d’ufficio, il passaggio in giudicato di condanne ingiuste e l’esecuzione carceraria di pene, di conseguenza, ingiuste. Dunque, l’emergenza carcere merita risposte adeguate e immediate, che peraltro la politica difficilmente è disposta a dare nei periodi di campagna elettorale, ma la battaglia a monte deve essere per i valori scolpiti nel Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo. Dalla tutela di questi ideali non possiamo mai deflettere, nemmeno nei rapporti con l’Europa. Rileggete quel libretto arancione e comparatelo alle proposizioni che reggono l’impalcatura ideologica del processo penale efficientista e del diritto penale etico. Nei due testi, da un lato troverete gli ideali di libertà e giustizia che nascono con l’Illuminismo, dall’altro una distorta visione penitenziale, degna erede del processo canonico per eresia, che traccia le linee di un sistema di procedure sommarie ad alto tasso di inquisitorietà, caratterizzato da un puro decisionismo in cui la residua efficienza repressiva, al netto della premialità, è il portato di un sostanzialismo etico enfatizzato dal sistema di giustizia riparativa. Stanca assuefazione e strisciante sindrome di Stoccolma non possono trasformarsi nello stato di generalizzata rassegnazione al cinico baratto fra fondi europei e garanzie interne. L’accertamento è oggi ridotto alla fase investigativa nelle mani dell’accusa e sottratta alla partecipazione difensiva. Il dibattimento è stato costruito come una scelta onerosa in termini sia di rinuncia alle lusinghe dei ponti d’oro concessi al nemico che fugge, sia di accettazione di un rischio penale la cui concretezza è direttamente proporzionale alle limitazioni imposte all’oralità, al contraddittorio, all’immediatezza dal peso contestualmente attribuito agli atti di indagine. Una manovra a tenaglia che comprime ogni facoltà difensiva e pone l’imputato dinanzi al dilemma fra la desistenza premiata o la resistenza punita. La fuga dal processo, inteso quale luogo di cognizione, è anche, se non soprattutto la fuga dalle impugnazioni di cui si coglie solo la durata e non il profondo significato epistemico di garanzie autocorrettive del sistema. La deprocessualizzazione viene perseguita in parallelo alla incentivata privatizzazione della giustizia penale. Il processo degrada a luogo di negoziazione e di composizione del conflitto interindividuale, ponendo fuori gioco anche l’avvocatura penalistica italiana alla quale viene progressivamente sottratto l’humus processuale di cui si nutre da sempre. La deriva è accentuata dalle venature morali di un sistema processuale che, sia pure per linee interne, è arrivato a far prevalere l’interesse della vittima su quello dell’imputato, in patente violazione della presunzione d’innocenza, e a postulare una riparazione che è ben diversa dalla rieducazione. Ebbene, chi ancora professa i valori laici del giusto processo, penso a Ucpi e Cnf, deve farsi al più presto portavoce di una ferma denuncia che scuota il torpore della campagna elettorale per la prossima legislatura europea. Abrogare, con effetto immediato, le più evidenti distorsioni della riforma Cartabia è un dovere di civiltà e di democrazia. Ricordare all’Europa che i diritti dei suoi cittadini non possono essere sacrificati sull’altare dell’efficienza repressiva è un vincolo morale. Spiegare che il processo di durata ragionevole deve essere anzitutto giusto è disvelare una grande ipocrisia. Lavoro e carcere. Naspi ai detenuti, altre due sentenze favorevoli redattoresociale.it, 3 maggio 2024 Dopo le sentenze del Tribunale di Milano del novembre 2021 e di dicembre 2023 e quella di Busto Arsizio del luglio 2023, due nuovi recenti pronunciamenti del Tribunale di Milano hanno accolto i ricorsi di due lavoratori detenuti assistiti dalla Cgil Milano, riconoscendo che l’indennità Naspi spetta anche ai detenuti che hanno prestato attività lavorativa per l’amministrazione penitenziaria. In una nota la Camera del Lavoro di Milano e il patronato Inca sottolineano: “Senza entrare nel dettaglio delle posizioni individuali, è interessante evidenziare come le motivazioni delle due sentenze vadano, da un lato, a smontare sotto l’aspetto normativo, punto per punto, le obiezioni avanzate dall’Inps per respingere le domande, mentre da un altro, confermino una linea di giudizio in materia che ormai possiamo definire solida e costantemente favorevole ai richiedenti”. “Le parole dei due pronunciamenti sono infatti per l’ennesima volta molto chiare nel riconoscere che non esistono specifiche previsioni, nella norma istitutiva della Naspi, che escludano il riconoscimento della indennità ai detenuti. Anzi: è proprio la posizione assunta dall’Inps, secondo il quale il lavoro prestato per l’amministrazione penitenziaria ha carattere del tutto peculiare e non può determinare l’accesso all’indennità di disoccupazione, a non avere alcun fondamento”. Sotto questo aspetto, le pronunce sono praticamente sovrapponibili, ne citiamo una a titolo esemplificativo: “Alla luce della normativa citata, il lavoro penitenziario alle dipendenze del Ministero della Giustizia e quello ‘libero’ subordinato sono assimilabili: pertanto non possono sussistere ragioni per escludere il diritto alla Naspi qualora ricorrano tutti i presupposti previsti dalla normativa specifica. Peraltro non vi sono differenze tra lavoro penitenziario svolto all’interno alle dipendenze del Ministero e quello reso all’esterno in favore di un soggetto terzo (artt. 15, 2°, 25 bis della legge 354/1975 e artt. da 47 a 53 del DPR 230/2000).” “Citiamo ancora testualmente da una delle due sentenze: ‘Va osservato che la peculiarità del lavoro penitenziario non può consentire l’introduzione di un trattamento differenziato tra i detenuti e gli altri cittadini in materia di assicurazione contro la disoccupazione’, andando addirittura a fondare tale decisione richiamando la Costituzione: ‘Gli articoli 35, comma 1, 38, comma 2 e 27, comma 3 della Costituzione sanciscono la tutela del lavoro ‘in tutte le sue forme e applicazioni’ da parte della Repubblica; il diritto a che siano previsti e assicurati ai lavoratori ‘mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia… disoccupazione involontaria’; che ‘le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato’”. “Queste parole sono tanto più importanti, quindi, perché oltre al riconoscimento individuale per i due richiedenti, rappresentano una nuova vittoria per la dignità del lavoro e per la nostra Costituzione, che attribuisce alla pena una funzione di rieducazione e di reinserimento sociale. Addirittura: ‘Può ben affermarsi, anzi, che il lavoro carcerario è tanto più rieducativo quanto più è uguale a quello dei liberi’ - affermano Cgil e Inca -. Un’ennesima vittoria contro una discriminazione insopportabile e ingiustificata, alla quale la nostra organizzazione si è opposta, si oppone e continuerà ad opporsi, con ancora maggiore forza e convinzione alla luce dei tanti pronunciamenti favorevoli che stiamo collezionando in tribunale”. “Chiediamo con forza - dicono Cgil e Inca - che Inps riveda le sue posizioni e riconosca la NASpI ai detenuti che hanno lavorato alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, senza la necessità di cause che, ricordiamolo, rappresentano un aggravio di lavoro e di tempo, oltre che di costi per la pubblica amministrazione, e stanno vedendo sempre l’Istituto soccombente. Naturalmente, finché questo non avverrà, noi proseguiremo la nostra battaglia, continuando a raccogliere le domande di NASpi tra i detenuti degli istituti penitenziari milanesi e presentando ricorsi a fronte di respinte ingiuste e immotivate”. Sicilia. Rinnovato l’accordo per i Poli Universitari Penitenziari: 118 detenuti iscritti palermotoday.it, 3 maggio 2024 Si rafforza l’impegno istituzionale per garantire e promuovere la formazione universitaria dei detenuti in Sicilia. È stato firmato, infatti, stamattina, a Palazzo d’Orleans, il rinnovo dell’accordo quadro per la realizzazione dei poli universitari penitenziari nell’Isola per il triennio 2024-2027. Istituiti negli atenei regionali già nel 2021, questi centri hanno l’obiettivo di garantire un percorso di istruzione e formazione ai detenuti e agli internati che vogliono conseguire un titolo universitario, favorendone la riabilitazione psico-sociale, con ricadute positive nell’affrontare il percorso di recupero. A sottoscrivere l’intesa, il presidente della Regione, l’assessore all’Istruzione e alla formazione professionale, il Garante regionale dei diritti dei detenuti, il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria in Sicilia, i rettori delle Università di Palermo, Catania, Messina. Sarà perfezionata successivamente l’adesione all’accordo anche da parte della Kore di Enna. Una conferma da parte degli enti coinvolti dell’importanza delle attività svolte dai poli che, come documentato dalle relazioni prodotte dalle Università a conclusione del primo triennio, ha permesso a numerosi detenuti in espiazione di pena in Sicilia di intraprendere un percorso di studi universitari: per l’anno accademico 2023-2024 risultano 118 gli iscritti ai corsi di laurea. I sottoscrittori dell’intesa si impegnano a favorire accordi con altri enti e istituzioni presenti sul territorio, comprese le associazioni di volontariato e del terzo settore che già operano negli istituti penitenziari, ma anche a favorire l’adesione all’accordo di altri enti universitari per gli studi superiori che operano nel territorio regionale. I destinatari delle attività formative sono i detenuti, gli internati e i soggetti in esecuzione penale in Sicilia che, in possesso dei requisiti previsti dalla legge, intendano immatricolarsi o siano iscritti a corsi universitari. Le attività avranno prioritariamente luogo nelle sedi individuate dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, d’intesa con gli atenei, con il fine di coordinare le attività didattiche e di dare riconoscimento all’impegno profuso dai singoli operatori, ossia docenti, tecnici, personale amministrativo, tutor e studenti. Le università garantiranno la didattica nei singoli istituti penitenziari. Si impegnano anche a prevedere: la messa a disposizione di strumentazioni tecnologiche, materiale librario e didattico o banche dati ai detenuti iscritti; un sevizio di sostegno allo studio attraverso attività di tutorato e mediante tecniche di insegnamento a distanza; misure economiche che favoriscano l’iscrizione e la frequenza dei corsi da parte dei detenuti indigenti; convenzioni che stabiliscano “tirocini curriculari” degli studenti universitari nelle strutture penitenziarie, soprattutto negli ultimi anni del corso di studi, anche per la stesura della propria tesi di laurea. Le università trasmetteranno alla Regione una relazione annuale sulle attività e sull’andamento dei poli. Il Garante regionale dei diritti dei detenuti, anche in rappresentanza della Regione, potrà sottoscrivere gli specifici atti di collaborazione tra le singole università e il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria. La Regione Siciliana si impegna a contribuire alle spese necessarie al perseguimento delle finalità dell’accordo. Milano. Ipm Beccaria, secondo don Rigoldi bisogna fare i corsi di formazione con gli imam di Massimiliano Melley milanotoday.it, 3 maggio 2024 La proposta dell’ex cappellano del carcere minorile Beccaria: “I ragazzi sono arabi e spesso analfabeti, far entrare gli imam nei corsi di formazione per poliziotti”. Da lunedì 6 maggio gli inquirenti ascolteranno altri ragazzi del carcere minorile Beccaria, oltre a medici ed educatori, per capire se vi sono altri episodi oltre a quelli già venuti alla luce, che hanno portato all’arresto di 13 agenti di polizia penitenziaria e alla sospensione dal servizio per altri 8, per le violenze e le torture ai detenuti all’interno delle mura di via Calchi Taeggi. Intanto, per martedì 7 maggio sono state fissate due delle tre udienze richieste da altrettanti agenti al Tribunale del Riesame, per chiedere che la rispettiva posizione sia rivista. La procura di Milano ha già dato parere negativo alla concessione degli arresti domiciliari, sia per l’ipotesi di inquinamento delle prove e per la gravità delle accuse, sia perché la procura ritiene di non avere ancora terminato la sua inchiesta. E giovedì 2 maggio si è recata in visita al Beccaria la senatrice milanese Licia Ronzulli (Forza Italia), accompagnata da don Gino Rigoldi, storico ex cappellano della struttura. Al termine della visita, Ronzulli ha commentato che “il Beccaria è stato ferito da questo evento traumatico e serve in qualche modo rimetterlo in piedi. I ragazzi arrivano da contesti difficili e il percorso di rieducazione deve essere un vero percorso, non può essere soltanto una pena afflittiva”. Agenti a volte coetanei dei detenuti - Don Rigoldi, dal suo canto, ha affermato che gli stessi magistrati “erano sorpresi” per quanto scoperto, e che lui stesso non aveva avuto “segnali di particolare disagio” da parte dei ragazzi. Il sacerdote ha poi riferito di avere segnalato ai magistrati che gli agenti del Beccaria “è trent’anni che non hanno un comandante, e li mandano qui giovani e senza formazione. Questo non giustifica l’accaduto, ma in ogni reato ci sono sempre delle premesse”. E poi ha specificato: “I magistrati faranno la loro parte, il Ministero deve fare un’altra parte perché, se avessimo finalmente un comandante e non ci arrivassero ragazzi con un’età magari inferiore ai detenuti, forse certi incidenti non capiterebbero”. Una questione di autorità e guida. “A volte vedo gli agenti che hanno 40-50 anni”, ha aggiunto don Rigoldi, “e parlano coi ragazzi, ma hanno un altro tipo di autorità, mentre se quello che presiede alla gestione del gruppo ha 24 anni è un’altra storia”. Importante anche, secondo l’ex cappellano, una certa continuità di lavoro, mentre spesso arrivano agenti da lontano che, una volta formati, dopo un breve periodo chiedono di essere riavvicinati al luogo d’origine. Infine, don Rigoldi ha proposto corsi di formazione, dedicati alla polizia penitenziaria, che coinvolgano anche gli imam. I ragazzi del Beccaria, ha spiegato l’ex cappellano, “sono quasi tutti arabi, la maggior parte è analfabeta e questo vuol dire che anche il linguaggio da utilizzare e come contattarli dovrà specializzarsi”. E ha ricordato che, a Milano, arrivano ogni anno circa 1.400 minori stranieri non accompagnati. “Il Comune - ha detto - ne ospita la metà, l’altra metà è in giro. Siamo pieni di ragazzini che commettono reati di sopravvivenza. Un po’ li teniamo qui, un po’ ci chiacchieriamo, un po’, con depressione forte, loro e nostra, li rimettiamo in strada”. Modena. “Torture in carcere, serve un giudizio certo” rainews.it, 3 maggio 2024 L’udienza preliminare sulle accuse di tortura che 11 detenuti denunciano di aver subito durante la sommossa in carcere nel marzo 2020. I difensori degli agenti: “Giusto archiviare”. Arriverà probabilmente in estate la decisione del tribunale di Modena sulle torture denunciate da 11 detenuti nel corso della rivolta carceraria del marzo 2020. Dopo due udienze con le parti, ora sarà la Giudice per le indagini preliminari Carolina Clò a stabilire se archiviare il fascicolo, come chiesto dalla procura, che non ha ritenuto attendibili i racconti dei detenuti. Oppure invece disporre un supplemento di indagini, come vorrebbero avvocati di chi che ha denunciato le percosse, in alcuni casi documentandole con referti medici. Su una vicenda di questa gravità - spiegano - è indispensabile arrivare a un processo. Di avviso opposto i difensori dei 120 Agenti indagati: si operi correttamente - dicono - giusto archiviare. Molti dei denuncianti - aggiungono - sono indagati come attivi partecipanti alla rivolta (fascicolo quest’ultimo ancora aperto dopo 4 anni). Nella sommossa - la più violenta tra quelle scoppiate in quei giorni in Italia - morirono 9 detenuti. Per la giustizia italiana a ucciderli fu -da sola - l’overdose di metadone che rubarono all’infermeria: tutti i fascicoli sulle vittime sono stati infatti archiviati senza arrivare a processo. Fuori dal tribunale un piccolo presidio di attivisti a chiedere verità e giustizia. Prato. La denuncia della Garante: “Nel carcere della Dogaia c’è una disorganizzazione totale” di Giacomo Cocchi tvprato.it, 3 maggio 2024 Margherita Michelini, in carica da circa due anni, descrive i problemi della casa circondariale: sovraffollamento (587 detenuti su una capienza massima di 400) e mancanza di figure apicali nel personale. “Non era nemmeno previsto un menù diversificato per i diabetici”. Sovraffollamento, carenza di funzionari con conseguente mancanza di coordinamento del personale, poche opportunità di reinserimento attraverso progetti formativi e lavorativi, cattiva organizzazione degli spazi. Il carcere della Dogaia appare come un malato molto grave e bisognoso di interventi urgenti da parte del Ministero di Giustizia, altrimenti “si rischia il collasso”, come hanno denunciato più volte i sindacati di polizia penitenziaria negli ultimi mesi. La conferma che la situazione sia critica arriva anche da Margherita Michelini, da circa due anni garante per i detenuti della casa circondariale di Prato, intervistata sulle pagine pratesi del settimanale Toscana Oggi. “All’interno c’è una disorganizzazione totale”, dice senza mezzi termini. Michelini, fiorentina, ha una esperienza importante alle spalle, è stata direttrice del Gozzini a Firenze e del carcere femminile di Empoli, nella metà degli anni Novanta è passata anche da Prato come vice direttrice alla Dogaia e prima era stata a San Vittore, sempre nello stesso ruolo. Oggi ha 68 anni, è in pensione e ha deciso di proseguire il proprio impegno a favore dei detenuti e di farlo “pro bono”, perché il garante è un incarico volontario, compiuto in puro spirito di servizio. In questi diciotto mesi di servizio che realtà ha avuto modo di conoscere? “Ho toccato con mano la complessità del carcere di Prato. Tra le tante cose che non vanno, la più grave a mio avviso è la mancanza di coordinamento tra le persone che ci lavorano. Quello che funziona è merito di pochi volenterosi che prendono iniziativa. Questa situazione nasce dal fatto che a mancare sono le figure apicali, non ci sono i coordinatori dei vari reparti, da oltre due anni manca il commissario comandante di reparto, mancano funzionari, scoperti per l’80 per cento. Anche il direttore è facente funzione, si tratta dell’attuale direttore del Gozzini a Firenze”. Non mancano invece gli agenti semplici, che lamentano di essere stati abbandonati dalle istituzioni... “Il personale di base c’è. Sono agenti molto giovani, i quali, se posso dirlo, hanno una formazione molto burocratica e non mi sembrano sensibili al disagio. Mancando le figure di sovrintendenti, non possono prendere iniziative per proprio conto. Sanno che anche il direttore è reggente e questa situazione crea parecchia tensione nel personale”. Quanti detenuti ci sono attualmente alla Dogaia? “L’istituto è pensato per 400 detenuti, invece sono molti di più. Lo scorso 3 aprile ce n’erano 587. Di questi, 357 stanno scontando una pena definitiva, 52 sono appellanti, 38 ricorrenti in Cassazione e ben 95, un numero molto alto, sono in custodia cautelare, quindi ancora in attesa del primo giudizio. Gli stranieri sono il 49,92 per cento del totale”. Da quando è arrivata quanti detenuti ha incontrato? “Circa 150 persone, ma le richieste sarebbero molte di più, almeno il doppio. Vado in carcere una volta ogni dieci giorni e in quella occasione riesco a parlare con non più di cinque detenuti”. Cosa le chiedono? “Di tutto. Mi chiedono di fare anche cose che non rientrano nelle mie possibilità. Di recente un detenuto pretendeva che lo aiutassi nell’avere il riconoscimento del figlio. Ho spiegato che non potevo e mi ha quasi aggredita, per fortuna sono riuscita a calmarlo. La carenza di organico fa sì che spesso durante i colloqui io sia sola”. Quali richieste riesce a esaudire? “Diverse. Le dico una delle ultime. Un detenuto insulino-dipendente mi ha detto che in carcere non è previsto un menù per diabetici. Ho parlato con il medico e ho scoperto che alla Dogaia i diabetici sono trenta e non hanno alcuna agevolazione. Così ho messo in contatto l’area sanitaria con chi si occupa della mensa e ho fatto in modo che i diabetici avessero un trattamento adatto alla loro situazione”. Da un punto di vista strutturale come è messo il carcere della Dogaia? “Strutturalmente non va male, ma ci sono tante tare. Nella media sicurezza le celle sono sempre piene e viene meno la regola prevista dalla legge dei tre metri quadri a persona, escluso lo spazio occupato dal letto. I bagni sono senza bidè e senza finestre, con gli aspiratori che non funzionano, non ci sono le docce nelle celle e manca l’acqua calda”. Perché i cittadini dovrebbero interessarsi ai problemi del carcere? “I detenuti sono persone che hanno commesso reati, stanno scontando una pena e al termine della reclusione torneranno nella società. Farli reinserire, evitare la recidiva, dargli una nuova possibilità, è nell’interesse di tutti”. Ha avuto modo di conoscere le realtà sociali presenti in carcere? “Ho conosciuto il cappellano don Enzo Pacini e mi è sembrata una persona molto in gamba. Ho visitato la casa Jacques Fesch per i detenuti in permesso o a fine pena, è un servizio importantissimo. Ho incontrato le volontarie del Gruppo Barnaba, sono determinate e fanno davvero tanto”. Torino. “All’Ipm Ferranti Aporti degrado e fatiscenza, i privati aiutino” di Stefania Aoi La Repubblica, 3 maggio 2024 Appello di Alleanza Verdi e Sinistra dopo il sopralluogo nel carcere. Carenze sanitarie con uno psichiatra disponibile solo su chiamata. “All’istituto minorile Ferrante Aporti mancano armadietti, mobili per sostituire oggetti ormai usurati dal tempo. Chiedo alle istituzioni ma anche a società come Mondo Convenienza e Ikea di dare un contributo”. È questo l’appello lanciato ieri mattina dal deputato di Alleanza Verdi e Sinistra Marco Grimaldi subito dopo il sopralluogo nella struttura carceraria torinese, carente su tanti fronti ma soprattutto su quello sanitario. Il parlamentare si rivolge così anche alle cliniche private che potrebbero aiutare a loro volta, “restituendo parte dei loro profitti per offrire nella struttura, anche solo una volta a settimana, visite specialistiche, soprattutto dentistiche e dermatologiche, di cui c’è un vitale bisogno”. Insieme a lui davanti all’imponente portone dell’istituto ci sono anche due compagni di partito: la consigliera comunale Alice Ravinale, candidata alla Regione per il centrosinistra, e Andrea John Dejanaz, candidato alle europee. “La destra ha sdoganato il concetto di baby gang e inasprito le pene per i giovanissimi - attacca Ravinale - ma poco viene fatto per sostenere e includere invece che reprimere ed escludere. Preoccupa, per esempio, la mancanza di collegamento continuativo tra la struttura e il Serd. Eppure, ce ne sarebbe un gran bisogno, perché i casi di dipendenza da sostanza sono purtroppo frequenti”. Secondo Grimaldi servono “misure alternative al carcere e ogni distretto dovrebbe avere a disposizione almeno una comunità pubblica che accolga i ragazzi senza selezione all’ingresso. Troppo spesso si trovano in carcere giovani a cui il giudice ha già assegnato l’accoglienza in comunità ma quelle private sono sature”. Già la garante dei detenuti Monica Gallo aveva denunciato nella sua relazione annuale un’assistenza sanitaria povera riservata ai giovani ospiti del Ferrante Aporti. Tra le trecento pagine dedicate al sistema carcerario quelle dedicate all’istituto minorile parlano di “assenza di test tossicologici delle urine ai ragazzini che arrivano” per verificare che facciano o meno “utilizzo di sostanze stupefacenti” o che siano dediti “all’abuso di alcool” e di appena due psicologi che si dividono con il Cpa (il centro di prima accoglienza) “per complessive 50 ore settimanali di intervento”. Lo psichiatra interviene solo su chiamata e “la neuropsichiatra lo fa due volte a settimana per sei ore complessive”. Il Serd, - proseguiva la garante - viene attivato invece a chiamata. Eppure, nel 2023 sono passati dalla struttura 161 minorenni e giovanissimi per lo più per reati di furto e rapina, ma anche spaccio di sostanze stupefacenti. Tutto ciò per una media di ospiti di circa 43 persone ogni mese, tra cui tanti minori stranieri non accompagnati, spesso vittime di tratta, con una necessità di assistenza sanitaria psicologica prolungata. Per Grimaldi è necessario che il ministro Nordio dia risposte in merito alla scarsità di risorse umane nel personale penitenziario, a causa dei distaccamenti: “Bisogna uscire dalla logica della fotografia della pianta organica, dopo un anno di distacco è necessario compensare quella carenza”. Bolzano. Scabbia nel carcere, la Camera penale: “Condizioni vergognose e non più tollerabili” di Marco Passarello rainews.it, 3 maggio 2024 Su invito della Camera penale, oggi le autorità hanno visitato il penitenziario del capoluogo altoatesino, dove è in corso un’epidemia di scabbia. La situazione è cosi compromessa che serve constatare di persona per rendersene conto. È per questo che la Camera penale di Bolzano ha invitato tutte le autorità politiche e giudiziarie a una visita alla casa circondariale, dove è in corso un’epidemia di scabbia. I detenuti più gravi sono stati trasferiti in altre sedi per poter essere convenientemente isolati, e la protezione civile ha installato tende dove effettuare la profilassi, ma il problema resta. Alla visita hanno partecipato, tra gli altri, l’assessore regionale Angelo Gennaccaro e l’assessore comunale alle politiche sociali Juri Andriollo. Diversi coloro che, pur non riuscendo a partecipare, hanno fatto pervenire il loro appoggio all’iniziativa. Quello della scabbia è comunque solo un sintomo di una situazione compromessa a livello generale. La situazione, ha fatto notare è quella che è stata più volte denunciata in passato: edificio fatiscente, grave carenza di personale. Gli operatori fanno quello che possono in condizioni di estrema difficoltà. Anche se venisse sbloccata la costruzione del nuovo carcere, serviranno comunque interventi d’urgenza per tamponare la situazione. L’assessore Andriollo promette interventi per quanto riguarda la parte di competenza del comune, quella degli spazi educativi, mentre l’assessore Gennaccaro assicura che la Provincia farà sentire la sua influenza per quanto riguarda la costruzione del nuovo carcere, ma potrebbe anche attivarsi per alleviare la situazione contingente. Unanime l’apprezzamento per gli operatori carcerari, che fanno quello che possono in condizioni di estremo disagio. Nel servizio sono intervistati il presidente della camera penale di Bolzano, avvocato Carlo Bertacchi, e l’assessore regionale e vicepresidente del consiglio provinciale Angelo Gennaccaro. Bologna. Il Pd denuncia le condizioni dei giovani detenuti al Pratello di Giacomo Puletti Il Dubbio, 3 maggio 2024 Dopo i fatti del carcere minorile Beccaria di Milano, il Pd denuncia altre gravi carenze in un latro istituto di pena per minori, quello del Pratello a Bologna. “La visita che abbiamo appena svolto al carcere minorile del Pratello, conferma le nostre preoccupazioni sia sugli effetti del decreto Caivano che sull’attuale impronta assegnata alla giustizia minorile a cui viene reso sempre più difficile il raggiungimento della sua essenziale finalità, la riabilitazione dei giovani adolescenti e il loro reinserimento nella società”. È quanto hanno dichiarato al termine di una visita al carcere del Pratello, Sandra Zampa e Virginio Merola, senatrice e deputato del Pd, quest’ultimo già sindaco del capoluogo felsineo. Con loro - si legge in una nota - la consigliera comunale Meri De Martino. “Ciò che ci preoccupa di più è la grave carenza di organico della polizia penitenziaria e degli educatori aggravata dagli effetti di un decreto che determina un aumento di ingressi nelle carceri minorili e persino dalla insufficiente azione di prevenzione della devianza minorile in particolare sulla categoria più esposta, i minori stranieri non accompagnati - aggiungono i dem - In questo momento sono gli operatori a pagare il prezzo di una carenza più volte denunciata di personale e risorse ma anche gli stessi ragazzi che si vedono privati di alcune attività ricreative e formative. Ci sembra persino grottesco dovere ricordare che se non si investe in una vera azione di recupero di giovani in difficoltà a farne le spese ci sono prima di tutto loro - lo spreco delle loro vite è un rischio concreto che andrebbe scongiurato ma anche l’intera società. Per queste ragioni presenteremo una interrogazione al ministro Nordio e chiederemo un incontro urgente al sottosegretario Ostellari che, per altro, in occasione di una sua visita, un anno fa circa, prese impegni per risolvere la situazione che invece è peggiorata ulteriormente”. Sondrio. Garante dei detenuti, avviato l’iter per la nomina di Giuseppe Maiorana laprovinciaunicatv.it, 3 maggio 2024 Il carcere di Sondrio è privo della figura del Garante dei diritti dei detenuti dallo scorso autunno quando chi ricopriva questo importante e delicato incarico, cioè la dottoressa Orit Liss, si è dimessa per l’impossibilità di svolgere i suoi compiti in pieno e con la massima libertà. Ora, in base a quanto riferito nel corso della seduta del consiglio comunale di lunedì a Palazzo Pretorio da Maurizio Piasini, assessore ai servizi sociali del capoluogo, chiamato in causa da un’interrogazione che ha avuto come primo firmatario Donatella Di Zinno, consigliere di Sondrio Democratica, questa carenza dovrebbe essere colmata nel giro di poche settimane. “L’iter è stato avviato la scorsa settimana - ha sottolineato Piasini - nella prossima giunta approveremo il bando per la ricezione e la presentazione delle candidature e così, se arriveranno proprio delle candidature, la selezione del nuovo garante dei detenuti potrà avvenire nella seduta del consiglio comunale di giugno”. Il rappresentante della giunta Scaramellini ha inoltre spiegato di aver preso contatti con la nuova direttrice del carcere del capoluogo, con la cooperativa Forme, che si occupa dei progetti dedicati ai detenuti, e ha sottolineato come sia stata anche nominata una nuova educatrice che lavora in carcere. Le novità sono state accolte con moderata soddisfazione proprio il consigliere Di Zinno che ha ricordato come, al di là di tutti i confronti attivati, l’aspetto più importante e che è mancato alla dottoressa Liss rimane quello di garantire al garante dei diritti dei detenuti di poter svolgere appieno il proprio ruolo, altrimenti ogni altra cosa perderà di efficacia. Latina. “Scritti Dentro”, poesie e racconti dal carcere di Serena Nagarotto radiondablu.it, 3 maggio 2024 Prosegue fino a domenica 5 maggio presso lo Spazio Culturale Nicolosi, in Via Filippo Corridoni a Latina, la mostra collettiva “Fiori dal Muro” delle donne del Laboratorio d’Arte Solidale della Casa Circondariale di Latina. L’iniziativa, che ha coinvolto 26 donne detenute, offre un percorso artistico e artigianale unico nel suo genere. Il progetto, nato grazie alla collaborazione tra l’associazione Spazio Culturale Nicolosi, l’associazione Terzo Lotto e la Direzione della Casa Circondariale di Latina, rappresenta un importante momento di espressione per le partecipanti che attraverso bozzetti e idee trasformate in opere di arte e artigianato, hanno dato vita al proprio “fiore”, testimoniando così il proprio percorso di cambiamento e crescita personale. Il Laboratorio è parte integrante di un percorso rieducativo avviato nel 2013 con l’associazione Solidarte che, attraverso la cultura e l’espressione autobiografica, ha voluto offrire nuove e diverse opportunità per il cambiamento e l’emancipazione. L’iniziativa coordinata dall’artista Giuliana Bocconcello, ha contribuito a consolidare la collaborazione tra la Casa Circondariale e l’associazione di promozione sociale Cocci e Coriandoli, presieduta da Claudia Piccoli. Questa partnership continuerà a sostenere progetti artistici e formativi all’interno e al di fuori del carcere, promuovendo l’inclusione sociale e culturale. In occasione della mostra, venerdì 3 maggio alle ore 18, si terrà la lettura di poesie e racconti intitolata “Scritti Dentro”, poesie e racconti raccolti dalle insegnanti del Cpia che si sono succedute e presenti nei periodi scolastici, nella Casa Circondariale di Latina, a dare lezioni per il conseguimento di diploma ai detenuti e detenute. La presentazione del reading è curata da Maria Corsetti, mentre i racconti saranno introdotti da Vincenza Sanseverino e Anna Rita Mancini. Le voci narranti saranno di Adriana Marucco e Serena Marangoni. Le opere esposte sono disponibili per la raccolta fondi che permetterà di raccogliere materiali e attrezzature per i laboratori di arte e artigianato del carcere. Durante la mostra è possibile richiedere il catalogo, che include testimonianze e descrizioni delle opere realizzate dalle 26 autrici, insieme al progetto fotografico a cura di Marianna Lanza. La verità sulle stragi è un’utopia? Falso... di Benedetta Tobagi La Repubblica, 3 maggio 2024 L’autrice pubblica un saggio-fact checking che smonta i luoghi comuni sulla stagione più buia dell’Italia repubblicana. Ne pubblichiamo qui un estratto che elenca alcune verità certe su quegli anni. Conosceremo mai tutta la verità sulle stragi? E i mandanti? Non sapremo mai chi è stato! Quando si parla di stragi, frasi del genere sono all’ordine del giorno, le ho ascoltate mille volte, agli incontri, alle presentazioni, ai dibattiti, alla radio, quando si dà la parola al pubblico. Sono tutt’uno col sentimento diffuso che “le stragi sono tutte un mistero”, germogliano dallo stesso terreno, ovvero un dato oggettivo molto grave, su cui ho già insistito nell’introduzione: le stragi, al termine di lunghe e ingarbugliatissime vicende giudiziarie, sono rimaste del tutto o in larga parte impunite. La mancata identificazione di molti degli esecutori e della quasi totalità dei mandanti ha generato amari giochi di parole, fioriti in particolare attorno alla strage del 12 dicembre, da “chi è Stato?” a “nessuno è Stato”, come nel titolo del volume autobiografico di Fortunato Zinni, un bancario e sindacalista sopravvissuto alla bomba, che ha speso anni nelle aule di tribunale in qualità di parte civile. Il cammino della giustizia è stato a tal punto accidentato che ci sono procedimenti giudiziari ancora aperti, sia per la strage di Brescia, sia per quella di Bologna, per cui queste vicende restano forzatamente sospese nel limbo tra cronaca e storia. Inoltre, gli iter processuali sono così lunghi e complicati che è molto facile perdere il filo. Per questo, anche quando sono ormai conclusi, molte persone non si ricordano come è andata a finire, oppure non l’hanno proprio capito - complice il fatto che il gergo tecnico del diritto e le sottigliezze della procedura penale sono scarsamente comprensibili anche ai più volenterosi tra i non addetti ai lavori (…). Marco Toffaloni. Per la procura è uno degli esecutori materiali della strage di Piazza della Loggia a Brescia. Il 28 marzo 1974 non aveva ancora 17 anni. Marco Toffaloni. Per la procura è uno degli esecutori materiali della strage di Piazza della Loggia a Brescia. Il 28 marzo 1974 non aveva ancora 17 anni. Da tutti gli elementi che conosciamo, si ricavano alcuni dati fondamentali per intendere la stagione stragista. Primo, i depistaggi sono stati sistematici e sono alla radice delle vaste sacche d’impunità; i terroristi, che di solito attaccano lo Stato, nel caso dello stragismo avevano evidentemente addentellati dentro lo Stato, che fornirono loro protezione dalle indagini. Questo stragismo con coperture istituzionali è una tragica specificità italiana, nulla del genere si è dato nelle altre democrazie occidentali. Secondo, i depistaggi sistematici ci dicono che questi delitti rientrano con ogni evidenza in un disegno più grande. Le protezioni si spiegano col fatto che le bombe - anche a prescindere dalle intenzioni e dagli obiettivi degli attentatori, come vedremo - si prestano a essere strumentalizzate a fini politici. Il terrore genera confusione e paura, spinge le persone a stringersi intorno al governo in carica e, in generale, è particolarmente adatto a produrre un contraccolpo in senso conservatore: le persone spaventate chiedono innanzitutto ordine e sicurezza, lasciando da parte le altre battaglie e rivendicazioni politiche. In Italia, in particolare, lo stragismo s’iscrive nel quadro della Guerra fredda: fu uno degli strumenti usati per arginare lo scivolamento a sinistra dell’asse politico e sociale del Paese. Terzo, per quanto profonda sia la ferita dell’impunità, in questo quadro acquistano un’evidenza e un valore ancora più grande le condanne ai depistatori e, più in generale, tutti i pezzi di verità strappati al caos delle pervicaci coperture istituzionali, frutto di decenni di sforzi di moltissimi fedeli servitori dello Stato. L’altra costante che balza agli occhi è la matrice “nera”, acclarata per tutti gli attentati. Tranne il sedicente anarchico Bertoli, tutti gli altri condannati hanno sempre rivendicato la propria appartenenza all’estrema destra. A parte Vinciguerra e il collaboratore di giustizia Digilio, però, nessuno di loro ha mai ammesso la propria responsabilità. La strage, come vedremo, è un reato che non si confessa, e il più delle volte nemmeno si rivendica. Le poche condanne passate in giudicato infatti sono tutte più o meno aspramente contestate, sia dai diretti interessati, sia dai loro ambienti politici e culturali di riferimento. All’interno della galassia eversiva di estrema destra, Ordine Nuovo si configura come attore protagonista nelle vicende stragiste: appartengono a quest’organizzazione i responsabili accertati di piazza Fontana, Peteano, piazza Loggia; a Ordine Nuovo è ascritta la regia della bomba alla Questura di Milano. Il processo a carico di Cavallini per la strage di Bologna, inoltre, ha contribuito a rendere più evidente il lungo filo nero che collega la vecchia guardia degli ordinovisti veneti alle nuove leve dei Nar. Cavallini era stato “forgiato militarmente” - come si diceva in quell’ambiente - da Massimiliano Fachini (stretto collaboratore di Franco Freda, a lungo indagato e poi assolto sia per piazza Fontana, sia per la strage del 2 agosto); inoltre aveva comprato molte volte armi da Digilio. Ordine Nuovo, dunque, dovrebbe essere ormai un nome indissolubilmente associato allo stragismo, nella memoria collettiva, e avere una trista fama paragonabile a quella delle Brigate Rosse, ma non è così. Provare per credere. Davanti a una sala piena di persone che non siano specialiste di questi argomenti, ragazzi o adulti, provate a chiedere, per alzata di mano, chi abbia mai sentito parlare di Ordine Nuovo (Ordine chi? No, non la rivista di Gramsci!). Il deserto o quasi. Ancora meno sanno cosa abbia a che vedere con le stragi (qualcuno potrebbe pure arrabbiarsi, a sentir tracciare il collegamento, ma su questo ci torniamo). Se domandate invece chi abbia almeno sentito nominare le Brigate Rosse, selva di braccia che si sollevano. Un’asimmetria che genera una durevole, pericolosa confusione. Il libro. “Le stragi sono tutte un mistero”, di Benedetta Tobagi, Laterza, pag. 288, euro 18 Cosa ci insegnano i reati degli adolescenti? di Dorella Cianci Avvenire, 3 maggio 2024 Lo psicologo Mauro Grimoldi: inutile stupirsi di fronte ai crimini dei teenager. Meglio valutare caso per caso e rivedere i percorsi educativi allo scopo di rendere possibile un recupero coerente. Il male è un concetto filosofico estremamente complesso da analizzare e definire. Che cosa notiamo, però, quando questo termine viene accostato a tematiche psico-pedagogiche? Com’è possibile che lo si ritrovi in argomenti e fatti collegati al mondo dell’adolescenza? A questa domanda prova a rispondere un utilissimo saggio, scritto da Mauro Grimoldi, psicologo giuridico e consulente per il Tribunale di Milano, dal titolo “Dieci lezioni sul male. I crimini degli adolescenti”, uscito, in questi giorni, per l’editore Cortina. Scrive Grimoldi: “I minori autori di reato sono così, ti rimangono appiccicati alla pelle, profondamente radicati nella mente, ci si ripensa, inevitabilmente si cercano soluzioni praticabili e coerenti con quello che prevede la legge italiana”. Con questa profonda considerazione ci avviciniamo a un libro estremamente delicato, difficile, che ci mette davanti una serie di casi, in cui le relazioni familiari e amicali vanno in crisi, divenendo il motore di comportamenti antisociali, innescati da disagi silenziosi e invisibili. “Questi ragazzi - scrive l’autore - sono comunque capaci di insegnare qualcosa”. Possibile? Possiamo davvero apprendere da reati spesso terribili? Evidentemente sì, possiamo e dobbiamo farlo mettendoci non nell’ottica del giudizio, della pena, della condanna, ma in quella che più ci è familiare, come la chiave educativa, che prende le mosse dallo stupore dinanzi alle loro vicende. I primi tre capitoli del libro riguardano aspetti generali della criminalità minorile; il primo presenta la dimensione della responsabilità, denunciando la condizione di incredibile estraneità del vissuto di molti adolescenti rispetto a quanto avvenuto, o meglio dinanzi a ciò che hanno fatto nella realtà. Nel secondo capitolo, invece, grazie ad alcuni casi guida, si riflette capillarmente sul senso del male. Il terzo, poi, dal titolo provocatorio ed estremamente smagato, Odia il prossimo tuo come te stesso, ruota la narrazione del gruppo, dello sguardo dell’altro, del diverso, per esempio dell’omosessuale. In questo caso, come spesso accade, lo sguardo altrui è il canale privilegiato attraverso cui si manifesta l’odio per l’éteros, per l’altro, in quanto portatore di una diversità. E dove si radica il male e l’odio, in queste situazioni patologiche, se non in quella discrepanza in cui l’eterogeneità è troppo distante e incomprensibile per il nostro sé? Da questo punto in poi, che peraltro si coglie perfettamente, nella sua drammaticità, in particolare nel passaggio in cui un adolescente guarda il profilo Instagram del suo amico omosessuale e scrive: “Guardavo quelle foto e mi schifavo, immaginandolo intento nella sua vita sessuale. Mi sembrava di vedere tutti gli omosessuali in modo diverso da prima, come stupratori pericolosi. Mi ripetevo: è il momento di stare lontano da questa gente schifosa”. Quali riflessioni suggerisce questa tremenda considerazione? Innanzitutto, come precisa Grimoldi, viene fuori un ribaltamento del dispositivo etico della colpa e della punizione. Chi agisce in maniera violenta, in alcuni casi, crede di avere ottime ragioni per agire così. L’atto violento, come si legge anche nei successivi capitoli di queste testimonianze di adolescenti, avviene in virtù del meccanismo psicologico della proiezione, grazie alla quale diventa plausibile intravedere la presenza di una presunta “colpa” dell’altro. L’agire criminale di un minorenne ci mette davanti a una dimensione paranoica ubiqua, dove si va dal comune furto, allo spaccio, ai reati intra-familiari, ai reati sessuali di gruppo fino all’omicidio minorile e all’aggressione di un genitore. La tesi centrale di tutto il saggio è chiara, forte e incisiva: i ragazzi autori di reato vanno recuperati. Il cerchio va interrotto. È urgente, in queste situazioni, al di là della pena, ridare centralità ai ruoli educativi per interrompere l’eterno ritorno dell’inconscio, nella sana speranza di ristabilire il patto sociale fra il ragazzo criminale e la società disumana, che si è costruito (e in alcuni casi, autocostruito) intorno. Prevenzione contro le morti sul lavoro: via Arenula ci prova di Errico Novi Il Dubbio, 3 maggio 2024 Sicurezza sul lavoro. Obiettivo che chiama in causa diversi campi d’intervento, ma certamente anche l’ambito legale. È per questo che lo scorso 24 aprile a via Arenula si è insediata e riunita per la prima volta una commissione ministeriale che avrà il compito di proporre misure in materia di “prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro”. La logica del progetto che il dicastero di Carlo Nordio intende portare in Consiglio dei ministri è in una più strutturata griglia di incentivi, con la possibilità di una minore esposizione a sanzioni penali per quelle imprese e in generale per quei datori di lavoro che assolveranno determinati “adempimenti premianti”. È interessante anche il fatto che l’attività di questo nuovo gruppo di studio si aggiunge a quella già avviata nello scorso mese di febbraio da un altro tavolo tecnico istituito sempre a via Arenula, e che ha un compito più specificamente orientato alla semplificazione normativa, in particolare del decreto 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa di enti e imprese privati. Nel caso del gruppo di studio “inaugurato” a fine aprile, invece, lo spettro delle proposte dovrà essere più largo e rivolto soprattutto all’innovazione degli strumenti tecnico- giuridici di matrice preventiva. Ne ha parlato ieri il presidente di quest’ultima commissione, il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto: “La creazione di nuove occasioni occupazionali e l’individuazione delle migliori soluzioni affinché il luogo di lavoro sia sempre più sicuro sono questioni in cima alle priorità del governo: questo significa mettere le aziende in condizione di assumere e, nel contempo, tutelare il dipendente nella sua dignità e incolumità. Il ministero della Giustizia è sul pezzo, con una commissione che ha già avviato i suoi lavori”, ha ricordato appunto il numero due di via Arenula, “con il compito di rivedere la legislazione in materia di sicurezza, in piena sinergia con il ministero del Lavoro”. Il viceministro della Giustizia e senatore di Forza Italia ricorda anche che nella commissione sono state coinvolte “tutte le competenze del settore, dai medici del lavoro ai docenti di diritto penale, fino a scienziati di chiara fama, con l’obiettivo di responsabilizzare l’impresa e imprimere una svolta all’insegna della prevenzione”. E appunto, spiega Sisto, si dovrà valutare come integrare il “necessario percorso sanzionatorio” con “la possibilità di adempimenti premianti, valorizzando i modelli gestionali della 231, l’utilizzazione dei dispositivi di protezione individuale migliori, la qualità della formazione”. Che lungo questa strada si possa arrivare a una almeno parziale depenalizzazione, quanto meno per i datori di lavoro che dessero seguito agli interventi di prevenzione oggetto degli incentivi, sarà da verificare, ma è certamente tra gli obiettivi del ministero. La commissione presieduta da Sisto è composta, tra gli altri, dall’attuale vertice dell’Inail Francesco D’Ascenzo e da accademici come i professori Matteo Caputo (della Cattolica), Cristiano Cupelli (Tor Vergata), Giuseppe Nano (Politecnico di Milano) e Luigi Vimercati (Università di Bari). Meno folta del solito la delegazione di avvocati (che annovera l’ex presidente dei penalisti salernitani Michele Sarno) e magistrati (ci sarà il consigliere di Cassazione Antonio Corbo). Nella riunione d’insediamento, Sisto ha spiegato che ci si impegnerà a “verificare l’aggiornamento delle misure sanzionatorie di tipo penale e amministrativo”. Allo scopo, ha aggiunto il numero due di via Arenula, “sarà fondamentale avere un contributo da parte dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia, qui autorevolmente rappresentato dal professor Nicola Selvaggi, che ne è il vice capo”. Il confronto tecnico vedrà coinvolti anche i sottosegretari Andrea Delmastro e Andrea Ostellari, l’Ufficio di Gabinetto di Nordio con il nuovo vicecapo Francesco Comparone e i dipartimenti dell’Organizzazione giudiziaria e degli Affari di giustizia. Minori stranieri non accompagnati, così l’Astigiano è diventato un modello per l’accoglienza di Massimiliano Peggio La Stampa, 3 maggio 2024 In tutto il Piemonte sono poco più di 900 i minori migranti accolti dalla rete solidale regionale e Asti è la provincia più solidale e accogliente in rapporto ai residenti. “Maestra, mamma, fratello”. L’accoglienza per i ragazzi minorenni arrivati dal mare, dalle coste dell’Africa, inizia con parole semplici. Ziyed, egiziano, le ha scritte in stampatello su un foglio a quadretti. Le legge e le ripete producendo un suono aspirato. “Sto imparando la lingua”. Sorride mostrando il ciondolo portafortuna che ha al collo. Sogna di diventare un cuoco. “Ho avuto paura là, in mezzo al mare, tra le onde, su una barca instabile. Ora sento di poter fare qualcosa di buono nella mia vita” dice. L’ultimo arrivato ha 16 anni, dal Gambia. Parla solo inglese. Ha viaggiato per undici giorni su una barca con 250 persone, attraverso la rotta atlantica, sfidando l’oceano. “Sono arrivato in Spagna - racconta - Da lì ho raggiunto l’Italia. Ho dormito alcuni giorni in stazione prima di arrivare qui”. Qui, nel suo racconto, è una casa a due piani di Castagnole Monferrato, in provincia di Asti. Pavimenti bianchi, un cortile con in mezzo un tavolo da Ping pong, vetrate luminose. Castagnole è un paese minuscolo, incastonato tra le colline patrimonio Unesco. Vigne, dimore antiche, strade strette. Anziani a passeggio che si lamentano dello spopolamento e delle case decrepite, abbandonate dai giovani. Da alcuni mesi, questo angolo di Monferrato, è diventato anche rifugio per “minorenni stranieri non accompagnati”. Così vengono definiti con lessico ministeriale i migranti adolescenti che approdano sul territorio nazionale. Sono ragazzi che partono dal Senegal, dal Mali, dall’Egitto, dal Marocco. C’è chi parte all’insaputa delle famiglie e chi è spinto dai genitori ad abbracciare il sogno europeo con un pugno di soldi in tasca. Un sogno che è tale solo al di qua del mare, perché l’approdo è tutt’altra cosa. Così, pieni di fiducia, si mettono in coda sulle spiagge e finiscono, in genere, per essere stipati sulle barche senza dover sborsare denaro agli scafisti. L’unico vantaggio di essere minorenni. Asti, nel primo centro per i minori migranti: i nostri sogni dopo il lungo viaggio Questa casa affacciata sulle colline è uno dei fiori all’occhiello del “modello Asti”, la provincia più solidale e accogliente del Piemonte, in rapporto ai residenti. Lo dice, sottolineando con forza il risultato, il prefetto Claudio Ventrice mentre snocciola i dati dei migranti ospiti nelle strutture accreditate. “In questo momento sono oltre novecento le persone accolte in tutta la provincia. Quattro cooperative gestiscono i minori. Dallo scorso dicembre, la maggior parte dei giovani è ospite nel centro che si trova a Castagnole Monferrato, il primo Cas per minori dell’Astigiano”. In Tutto il Piemonte sono poco più di 900 i minori migranti accolti dalla rete solidale regionale. “All’inizio l’amministrazione comunale di Castagnole ha fatto un po’ di ostruzionismo - aggiunge il prefetto - Poi però ha cambiato idea, si è resa conto che questi ragazzi non sono una minaccia per la comunità, sono giovani per bene. In più ha potuto constatare che la struttura funziona bene e che si possono realizzare dei progetti di collaborazione”. A gestire il centro di Castagnole, interamente riservato ai ragazzi adolescenti, è la cooperativa Fenice di Asti. “Il nostro progetto di accoglienza - spiega il presidente, Stefano Rigoli - si basa su un percorso educativo: offriamo dei corsi di base per insegnare la lingua italiana, così da permettere loro di muovere i primi passi nel solco dell’integrazione”. Ai ragazzi vengono consegnate tute, magliette, scarpe. Ognuno ha un posto dove dormire, uno spazio tutto per sé. Le stanze sono suddivise per aree di provenienza. Ci sono ambienti comuni. Un servizio di ristorazione che cucina menu in base alle esigenze religiose. Alcuni educatori seguono gli ospiti sia all’interno, sia nelle attività all’esterno. Tra gli operatori c’è Osawaru. Lui è cresciuto in Nigeria, ma in realtà è nato in Italia. Strana la sua storia di naufrago, costretto a solcare il mare clandestinamente pur essendo cittadino italiano. Nessuno voleva credere al suo racconto. “Non è una storia, ma è la mia vita” dice. Oggi fa l’educatore, insegna agli altri ragazzi migranti ad avere fiducia in questa strana Italia. “Questo è un buon posto, si sta bene perché quando i ragazzi hanno un problema possono condividerlo con gli operatori o con il direttore della strutta. C’è qualcuno che li aiuta”. Il cuore del progetto è l’istruzione. Grazie ad un accordo con il polo scolastico provinciale per adulti, i giovani migranti possono frequentare lezioni giornaliere nel complesso di aule e laboratori che si trova a ridosso del centro di Asti. I ragazzi fanno la spola tra Castagnole e la città. Sempre accompagnati dal personale della cooperativa. “Conquistiamo la loro fiducia - aggiunge Rigoli - e a tutti cerchiamo di offrire un’opportunità per scommettere sulle proprie capacità individuali”. Una volta alla settimana si ritrovano tutti insieme attorno al tavolo della cucina e giocano con le carte dei bisogni. Una sorta di confessionale collettivo, per aiutarli a trovare il coraggio di guardare dentro sé stessi e raccontarsi. E anche per creare legami tra una comunità tanto eterogenea, per provenienze e culture. “I bisogni cambiano, ci sono differenze profonde tra i ragazzi - spiega Mara Gilli, psicologa - C’è chi punta su bisogni relazionali e chi ha necessità di qualcosa di fondamentale per la sopravvivenza. Con questo gioco semplice li aiutiamo a comprendersi meglio e a facilitare il loro percorso di integrazione”. Ora questo “modello Asti” potrebbe raggiungere un livello superiore. Sebbene ambizioso e non privo di difficoltà. Da pochi giorni la cooperativa Fenice ha ottenuto dalla prefettura il via libera ad aprire un secondo Cas in provincia, nel territorio di Asti, a pochi minuti d’auto dal centro. Un rifugio per 25 posti. L’iniziativa prevede l’acquisto e il recupero di un complesso turistico, Cascina Lissona, un ex agriturismo. Una bella casa in mezzo al verde con un porticato e una piscina. Anche qui ci saranno letti a castello, scrivanie, una cucina comune. Nel cassetto un progetto, legato a quella proprietà di sette ettari con terreni, un capannone che un tempo veniva utilizzato per lavorare carni e verdure, e un piccolo ristorante. “Questi ragazzi, se affrontano il giusto cammino - spiega Rigoli - possono diventare un’opportunità per le aziende del territorio, sempre alla ricerca di manodopera qualificata. Ecco perché in questo luogo vorremmo creare non solo una struttura di accoglienza ma anche un polo di formazione, con laboratori professionali e artigianali, per insegnare a coltivare la terra, fare i panettieri, a lavorare in officina”. Il caso Assange è diventato uno spettro nella coscienza delle democrazie di Philip Di Salvo Il Domani, 3 maggio 2024 Nella distrazione ed evidentemente per la felicità di molti, siamo arrivati a un passo dal vedere il “caso Assange” giungere alla conclusione che quattordici anni fa sembrava inimmaginabile. Parte delle principali battaglie di oltre un decennio fa sui diritti digitali e la rete libera sono state perse, ora rischiamo di perdere quella che aveva inaugurato anche le altre. Ricordo perfettamente la prima volta in cui ho sentito parlare di Julian Assange. Era la primavera di quattordici anni fa, sedevo tra i banchi di una lezione di giornalismo all’università mentre sullo schermo leggevo della pubblicazione di “Collateral Murder”, un video che mostrava un bombardamento nella periferia di Baghdad immortalato direttamente dalle telecamere dell’elicottero Apache che lo stava perpetuando. In quella storia c’era tutto uno Zeitgeist: un oscuro sito Internet, WikiLeaks, responsabile della pubblicazione del video e di molto altro, la cultura hacker e le lotte per la libertà di Internet, il risentimento verso uno dei conflitti bellici più amorali della storia, e il giornalismo nella sua accezione più semplice. Nei quattordici anni seguenti ho intervistato Julian Assange due volte e Chelsea Manning, la fonte di quel video. Dopo la sua liberazione ho pubblicato due libri sul tema e scritto infinite pagine sulla continua attualità di quella questione. Lo dico non per parlare del mio lavoro, ovviamente, ma per sottolineare come il “caso Assange” abbia occupato buona parte della mia vita adulta, senza andarsene mai, complicandosi progressivamente e in direzioni sempre più fosche. Julian Assange ha trascorso la sostanziale totalità dei quattordici anni privato della sua libertà e della sua salute e non è mai stato così vicino dall’essere estradato negli Stati Uniti dove, da giornalista, è accusato di spionaggio proprio a causa delle pubblicazioni di WikiLeaks del 2010. L’orologio del “caso Assange” è infatti fermo e cristallizzato nel 2010, mentre quello del pianeta e della politica è avanzato di corsa e in mille direzioni. Nel frattempo, il “caso Assange” è diventato uno spettro nella coscienza delle democrazie che riappare con sempre meno visibilità e attenzione e spesso solo in seguito alla notifica di sviluppi giudiziari sempre più kafkiani che emergono dai tribunali di Londra, dove si sta giocando una delle partite più cruciali sul futuro della libertà di stampa. Una partita che si gioca da anni sul corpo di Assange e che determinerà se sia ritenibile accettabile, in Europa e negli Usa, che un giornalista possa essere detenuto per anni e poi estradato all’estero per affrontare un processo la cui sentenza - già scritta secondo tutti gli osservatori - non potrà che essere una punizione draconiana per aver pubblicato prove di crimini di guerra. Per aver, in sostanza, condotto degli atti di giornalismo. Il “caso Assange” ha però progressivamente perso centralità nelle priorità di molte agende e si è chiuso nel cono d’ombra dei cavilli di una vicenda giudiziaria internazionale sempre più grottesca e complessa, smettendo di essere “spettacolare” e quindi notiziabile. Allo stesso tempo, però, il “caso Assange” ha anche evidentemente perso appeal come occasione di posizionamento per molti e ha un po’ alla volta smesso di essere una questione di puro principio nell’immaginario collettivo, diventando una causa “difficile” da inquadrare nei riflessi automatici delle guerre culturali algoritmiche post-2016 e di conseguenza una causa meno urgente per molte e molti. Il risultato è che un giornalista continua a morire in silenzio in un carcere di una capitale europea per via del suo giornalismo, e per di più del suo giornalismo meno controverso, quello che quattordici anni fa mise allo stesso tavolo le direzioni di alcuni delle più prestigiose testate giornalistiche occidentali, ben disposte a collaborare a quelle pubblicazioni che incastravano le guerre in Iraq e Afghanistan e i loro crimini. Difendere il giornalismo - Ogni organizzazione per i diritti umani e per la liberà di stampa lo ripete da più di un decennio: il “caso Assange” è un attacco al giornalismo, le cui conseguenze sono palesi. Quell’allarme sta suonando da che è iniziata la mia vita adulta ma lo spettro dell’estradizione di Assange negli Usa sta per materializzarsi nella forma più concreta, ora che le strade percorribili per evitare quello scenario, da sempre il più preoccupante ed estremo, sono ormai microscopiche. In questo eterno 2010, nella distrazione e nel disinteresse ed evidentemente per la felicità di molti, siamo arrivati a un passo dal vedere il “caso Assange” giungere alla conclusione che quattordici anni fa sembrava inimmaginabile. Buona parte delle principali battaglie di oltre un decennio fa sui diritti digitali e la rete libera sono state perse, ora siamo di fronte alla possibilità di perdere anche quella che aveva inaugurato anche le altre. Il territorio che si apre oltre il “caso Assange” è totalmente inesplorato, ma certamente infestato di spettri. Stati Uniti. Proteste per Gaza nelle università, 2.000 arresti. Biden: “C’è il diritto di protesta, ma questo è il caos” di Viviana Mazza Corriere della Sera, 3 maggio 2024 Dopo le occupazioni degli studenti filo-palestinesi, l’intervento delle forze di polizia: scontri e arresti in numerosi campus, dal City College di New York, alla Fordham University, dall’Università della California a Los Angeles alla Columbia. Nuove tensioni anche in Francia. “Il vandalismo, l’occupazione di proprietà privata, rompere le finestre, chiudere i campus, costringere a cancellare lezioni e lauree non è protesta pacifica... gli americani hanno il diritto di protestare ma non di causare il caos. Le persone hanno il diritto di ottenere un’istruzione, di camminare nel campus liberamente senza paura di essere attaccati”. Il presidente Joe Biden ha parlato ieri in tv, mentre le proteste per Gaza e gli arresti per contenerle si diffondono in metà degli Stati americani. Biden ha condannato l’antisemitismo come pure l’islamofobia. Ha detto che non ritiene opportuno l’intervento della Guardia Nazionale. Ha aggiunto che le proteste non hanno cambiato la sua visione della situazione a Israele e nei territori palestinesi. Il presidente interviene su un tema politicamente rischiosissimo. È consapevole della frustrazione degli elettori più giovani nei confronti del governo di Netanyahu, ma anche del fatto che i repubblicani lo accusano di debolezza nel difendere la legge e l’ordine. Il suo rivale Donald Trump ha scritto sui social: “Questa è una rivoluzione della sinistra radical... Il pericolo non viene dalla destra ma dalla sinistra”. E ha aggiunto: “Dov’è Biden il Corrotto?”. La direttrice dell’Intelligence Nazionale Avril Haines, interrogata dai repubblicani al Congresso, ha detto che non ci sono prove che le proteste siano dirette da Hamas. Ma Russia, Cina e Iran - scrive il New York Times - hanno lanciato campagne online per “amplificare il conflitto sociale e politico” in America. Sono circa 2000 gli arresti nei campus dal 17 aprile. Il 30 aprile la polizia ha posto fine all’occupazione e all’accampamento alla Columbia, con un blitz che ha coinvolto un mezzo speciale blindato con cui gli agenti sono penetrati nella Hamilton Hall da una finestra: gli arresti sono stati 109 (una quarantina nell’edificio); altri 173 al City College di New York, 15 alla Fordham University, 200 all’Università della California a Los Angeles, 12 a Portland. Altri atenei, come Brown University a Rhode Island, Northwestern University in Illinois e l’Università del Minnesota hanno invece raggiunto accordi che hanno portato i manifestanti a smobilitare da soli gli accampamenti (trasparenza sugli investimenti e la possibilità di argomentare con il consiglio di amministrazione per un disinvestimento da Israele): compromessi elogiati dai professori della Columbia, ma criticati da alcuni leader della comunità ebraica. A Washington la sindaca ha rifiutato l’intervento della polizia nei college, non ritenendolo opportuno. Le pressioni non riguardano solo gli Stati Uniti: la ministra dell’Insegnamento Superiore francese, Sylvie Retailleau, ha chiesto ieri ai presidi delle università di vigilare sul “mantenimento dell’ordine” utilizzando “tutti i poteri” a loro disposizione. La polizia di New York ha pubblicato un video del blitz alla Columbia accompagnato con musica da film d’azione. Il sindaco Adams ha difeso la decisione degli agenti di rimuovere la bandiera palestinese e issare quella americana al City College. I ragazzi di una confraternita sono stati immortalati in North Carolina mentre difendono la bandiera a stelle e strisce. Le divisioni sono fortissime in ogni ateneo. A Fordham una petizione in difesa dei manifestanti è stata firmata da più di 100 professori, molti dei quali ebrei. Una delle ragioni citate dalla preside della Columbia Minouche Shafik per l’intervento della polizia è che il gruppo che ha occupato la Hamilton Hall “pur includendo studenti, era guidato da individui non affiliati con l’università”; “agitatori professionisti”, li definisce il sindaco Adams. La sua amministrazione ha citato come esempio “la moglie di un noto terrorista”, ma un reporter dell’Associated Press afferma che si tratta di una insegnante 63enne originaria di Gaza che aveva fatto visita alle figlie nel campus ma non ha partecipato all’occupazione (il marito, attivista palestinese fu deportato anche se mai condannato per appoggio alla Jihad Islamica). Un’altra donna 60enne, Lisa Fithian, autrice di un libro sulla disobbedienza civile, è stata ripresa davanti alla Hamilton Hill, ma non era all’interno nella notte del blitz. Un gruppo di professori e staff, tra cui la docente di Barnard Shayoni Mitra ha fatto visita agli studenti arrestati, lamentando che diversi avevano lividi. L’associazione dei professori della Columbia si oppone alle dichiarazioni sugli “agitatori” e considera Shafik responsabile per l’escalation e per aver chiuso il campus impedendo l’accesso a professori e studenti “per la prima volta nella storia”. Medio Oriente. L’Occidente vuole una tregua a Gaza, ma non ha un piano per il dopo di Carlo Panella linkiesta.it, 3 maggio 2024 C’è una falla nella diplomazia americana: nessuno, in primis il presidente, ha la minima proposta o idea sul che fare di Yaha Sinwar e dei suoi feroci quattromila miliziani di Hamas armati di tutto punto barricati nei tunnel di Rafah. È massiccio e unanime il consenso internazionale che stringe Israele per impedire che dia il via all’assedio dell’ultima ridotta dei macellai del pogrom del 7 ottobre. La tela intessuta da Joe Biden e dall’ottimo Anthony Blinken è stata completata con l’accordo di tre giorni fa a Ryad che impegna Mohammed Bin Salman a un rapido riconoscimento di Israele da parte dell’Arabia Saudita. Riconoscimento che modificherà l’aspetto dell’intero Medio Oriente. Di fatto, mai come oggi dai tempi della guerra del Vietnam, la pressione della campagna elettorale imminente condiziona la politica estera del presidente americano che deve fronteggiare larghi settori del suo partito e soprattutto del suo elettorato sconvolti dalle migliaia di morti civili di Gaza. Si vedrà se questa massiccia pressione internazionale avrà effetto, così come si vedrà se la reiterata minaccia di Benjamin Netanyahu di un intervento devastante a Rafah piegherà Hamas al rilascio di trentatré ostaggi in cambio di una tregua di sessanta giorni e della liberazione da parte di Israele di migliaia di detenuti palestinesi. Se l’accordo di tregua e liberazione di detenuti palestinesi in cambio di trentatré ostaggi andrà in porto resterà però il problema centrale: dopo i sessanta giorni di cessate il fuoco che cosa accadrà? Israele lascerà che Jaha Sinwar esca da vincitore dai tunnel di Rafah, pronto a dettare di nuovo legge su Gaza? Dopo il pogrom del 7 ottobre, non è pensabile che Israele, chiunque sia alla guida del governo, accetti questa umiliazione. Non è pensabile che Israele, chiunque sia il premier, incluso Benny Ganz, accetti di convivere con un governo dello Stato palestinese in cui emissari di Jaha Sinwar, magari camuffati da tecnici, abbiano un ruolo. Il punto, la falla nel disegno della amministrazione Usa è l’analisi errata della natura di Hamas. Una grande, enorme, cortina fumogena è costituita dal credito che viene dato dalla diplomazia occidentale - e dai media - alla dirigenza di Hamas all’estero. Esperta nell’arte islamica della dissimulazione, la taqiyya in arabo, che permette e incita a pronunciare colossali e raffinate menzogne per coprire i propri e reali obiettivi strategici: il gruppo dirigente di Hamas all’estero è infatti abilissimo nell’accreditare sulla scena diplomatica un volto affidabile, disponibile alla trattativa politica, alla mediazione. Ma questo gruppo dirigente, composto da Khaled Meshaal, Ismail Haniyeh, Abu Marzuq e Khalil al Hayya e altri, in realtà è stato totalmente sconfitto ed emarginato già nel 2017 perché aveva portato alla rottura con l’Iran per aver appoggiato la ribellione fallita dei Fratelli Musulmani in Siria contro il regime di un Beshar al Assad, indispensabile alleato dei Pasdaran e degli ayatollah iraniani. Da allora, da sette anni, la direzione di Hamas, il potere decisionale vero, è nelle mani di Jaha Sinwar e di Mohammed Deif. I documenti politici, le mediazioni, le aperture della direzione estera comodamente alloggiata negli hotel di lusso del Qatar sono aria fritta, sfrontati specchi per le allodole che attirano solo i media e i leader occidentali che non vogliono prendere atto della realtà. E la realtà è che la strategia e la tattica di Hamas null’altro sono se non quelli dispiegati nel pogrom del 7 ottobre. Efferate crudeltà incluse. Presa degli ostaggi inclusa. Utilizzo cinico della popolazione di Gaza come scudo umano incluso. La realtà è che l’unico leader di Hamas che decide, che ha il potere vero di decidere, è Jaha Sinwar, uno che combatte e massacra gli ebrei perché ebrei. Che vuole imporre un Califfato tragicamente simile a quello dell’Isis su tutta la Palestina, “dal fiume al mare”. L’ignoranza dei leader occidentali, americani ed europei, della tradizione politico-militare islamica è sconcertante. In essa, un ruolo centrale gioca il riferimento strategico forte alla “tregua di al Hudaybyya”. Questo fu un accordo di mediazione siglato nel 628 d.C. da Maometto, alla testa del suo esercito di fedeli in armi, con gli avversari altrettanto in armi delle tribù della Mecca. Accordo che permise a Maometto di accumulare forze, di confondere, di dividere e di indebolire gli avversari e quindi di entrare trionfalmente alla Mecca manu militari due anni dopo, nel 630 d.C. Dunque, nella tradizione politico militare islamica, la trattativa non è finalizzata alla mediazione, al compromesso, al cedere su parte dei propri obiettivi pur di ottenere soddisfazione su una parte consistente. Al contrario, la mediazione è finalizzata unicamente a confondere l’avversario per poi ottenere il cento per cento degli obiettivi. Non a caso, Yasser Arafat, definiva - in arabo, non in inglese - gli Accordi di Oslo del 1993 una “Hudaybyya”, una tregua per confondere Israele e poi tentare di imporgli la sconfitta lanciando nel 2000 la Intifada delle Stragi, dopo aver rifiutato la restituzione del novantatré per cento dei Territori occupati offerta dal premier israeliano Ehud Barak. Questo il senso delle mediazioni, inclusa l’accettazione temporanea della logica dei due Stati, che vengono oggi dalla Hamas del Qatar. Una presa in giro, un gioco delle tre carte, che serve a coprire il gioco vero. Quello condotto con ferocia da Jaha Sinwar. Sia come sia, è dunque evidente che né Joe Biden né nessuno dei leader europei che si accingono a riconoscere lo Stato palestinese ha la minima idea di come sia possibile dare vita a due Stati che - se non verranno spazzate via le milizie di Hamas di Rafah - saranno sempre minacciati dalla terribile falange di morte di Jaha Sinwar. Se Hamas non viene schiacciata ed eliminata militarmente - questo è l’obiettivo della operazione bellica di Israele su Rafah - e se Jaha Sinwar uscirà da sette mesi di guerra di Gaza come un sostanziale vincitore perché ha sì perso dodicimila e più miliziani, ma ha mantenuto intatto il nucleo d’acciaio e il quartier generale del suo esercito, Hamas sarà in grado di dettare legge in futuro, sia sul piano militare che su quello politico. Non solo potrà minacciare dei nuovi pogrom alla 7 ottobre. Non solo costituirà l’incubo permanente per la sicurezza degli israeliani, ma sarà anche in grado di dettare legge - la sua legge di sangue e di morte - sulla dirigenza palestinese nazionalista del nuovo Stato che prenderà il posto dello screditato Abu Mazen. Il tutto, con un prestigio politico accresciuto non tanto sulla popolazione martoriata di Gaza, quanto su quella della Cisgiordania in cui Hamas ha un solido impianto. Questa enorme pecca nella diplomazia americana e internazionale - come contenere la forza politico-militare di un Jaha Sinwar non sconfitto, anzi sostanziale vincitore, per resilienza, della guerra di Gaza - incombe su tutto il futuro del Medio Oriente. Se Hamas non verrà sconfitta in via definitiva e potrà uscire sostanzialmente indenne dai tunnel di Rafah, il Fronte della Resistenza e il suo padrino iraniano potranno cantare vittoria. Lo Stato palestinese che la comunità internazionale vuole fondare avrà in Jaha Sinwar il suo incubo permanente. Nessuna forza araba multinazionale o nessuna altra struttura di controllo potrà mai garantire non solo la sicurezza di Israele, ma neanche quella della dirigenza politica palestinese del nuovo Stato. A meno che non sia implicito un non detto: che tutta la platea internazionale, Stati Uniti in testa, sia disponibile a trattare alla pari con Jaha Sinwar, forte della sua milizia di carnefici e di torturatori di ostaggi. Uno scenario che Israele, chiunque sia al governo, non può subire. Medio Oriente. L’ipotesi di mandato di arresto internazionale per Netanyahu è “molto seria” di Massimiliano Di Pace Il Dubbio, 3 maggio 2024 Il parere è stato dato da alcune fonti del National Security Council israeliano sentire dal quotidiano Haaretz. Pare che soffi un brutto vento dall’Aia per il Primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, dove, secondo notizie di stampa, la International Criminal Court (Icc) starebbe valutando un’incriminazione per il contestato leader israeliano, come anticipato in queste pagine il 29 aprile. In effetti, entrando nel sito della Icc, si scopre che tra le 12 investigazioni in corso (a cui se ne aggiungono altre 3 preliminari), ve ne è una che riguarda la Palestina (ossia Gaza e la West Bank, ovvero la Cisgiordania, che include Gerusalemme est), ufficializzata il 3 marzo 2021, per fatti accaduti fin dal 13 giugno 2014. Leggendo la sintesi della investigazione si scopre che a partire dal 2015 la Palestina, pur non essendo formalmente uno Stato sovrano (ha il ruolo di osservatore presso l’Onu), ha aderito allo Statuto di Roma, che ha creato la Corte Penale Internazionale (cioè la Icc), e dopo 5 anni di indagini preliminari, il Tribunale dell’Aia ha avviato l’indagine, visto che c’erano le condizioni, ed è così cominciata presso la Chamber I la procedura di Pre-Trial, ossia quella che precede il processo vero e proprio. Questa procedura, cominciata nel 2020, ha avuto un’accelerazione il 17 novembre 2023, quando Sudafrica, Bangladesh, Bolivia, Comoros, e Djibouti hanno inviato al procuratore Karim A.A. Khan un “referral”, in cui hanno segnalato una serie di ipotesi di reati che hanno avuto luogo a Gaza e Cisgiordania all’indomani dell’attacco di Israele, che vanno dall’appropriazione e distruzione di proprietà private e pubbliche, al trasferimento forzoso di massa dei Palestinesi, sottoposti a condizioni di vita disumane, passando per omicidi, uso eccessivo della forza, e perfino tortura e trattamenti disumani dei civili, per concludere con la violazione sistematica dei diritti umani, con forme di apartheid in Cisgiordania, per effetto del comportamento dei coloni israeliani. A questa denuncia si è aggiunta quella di Cile e Messico, presentata il 18 gennaio 2024, a cui si aggiungerà con probabilità quella della Turchia, come riferisce una nota di Bloomberg del 1° maggio. Insomma c’è aria pesante dalle parti di Gerusalemme, e non costituisce quindi una sorpresa che il giornale israeliano Haaretz abbia pubblicato il primo maggio un articolo, a firma di Anshel Pfeffer, in cui si conferma l’ipotesi di un mandato di arresto internazionale (lo stesso tipo emesso per Putin) nei confronti di Netanyahu, del Ministro della Difesa, Yoav Gallant, e del Capo delle Forze armate, il generale Herzl Halevi, che viene giudicata da alcune fonti del National Security Council israeliano, secondo quanto scrive il giornalista, “molto seria”. Sebbene sia noto che Israele non abbia sottoscritto lo Statuto di Roma, con la conseguenza che si può astenere dal dar seguito al mandato di arresto (così come è avvenuto in Russia con Putin), non c’è dubbio che l’agilità politica a livello internazionale del leader del governo israeliano verrebbe fortemente menomata, non potendo recarsi in quasi tutta Europa, America latina, Africa, e in qualche paese asiatico, come il Giappone, in quanto sarebbe arrestato (ma potrebbe andare negli Usa, che non ha firmato l’accordo). Il giornalista di Haaretz accenna addirittura a “un’atmosfera di panico” presso il Ministero degli esteri di Tel Aviv, per non parlare dell’agitazione che si percepisce presso l’ufficio del Primo ministro, dove, secondo le fonti del quotidiano israeliano, questa vicenda ha costituito la priorità assoluta negli ultimi giorni, perfino più dell’operazione conclusiva della guerra, ossia l’invasione di Rafah, e dell’accordo per la liberazione degli ostaggi. Che l’ipotesi di richiesta di arresto sia credibile lo ha confermato lo stesso Netanyahu, che è intervenuto prima il 26 aprile per affermare che “Israele non accetterà mai il tentativo dell’Icc di minare il diritto fondamentale del suo paese di difendersi”, e poi il 30 aprile, con un videomessaggio, in cui ha dichiarato che “l’Icc sta contemplando di emanare mandati di arresto contro le principali figure del governo israeliano e delle sue forze armate, come criminali di guerra, [circostanza che] sarebbe un oltraggio di proporzioni storiche”. Secondo il giornalista Pfeffer, al di là dell’effettiva emanazione (o meno) del mandato di arresto, non c’è dubbio che questa ipotesi costituisca per il capo del governo israeliano e il suo entourage un motivo per essere più cauti nei prossimi tempi, circostanza utile soprattutto all’Amministrazione Biden, che ben presto ha iniziato con le autorità israeliane una sorta di gioco della carota (gli aiuti militari) e del bastone (l’ipotesi di sanzioni contro i militari e i poliziotti israeliani che risultassero colpevoli di violazione dei diritti umani, come prevede la legge americana Leahy Law), con le quali i rapporti hanno iniziato a deteriorarsi, prima per l’accusa di “reazione eccessiva”, e poi per la condanna dovuta all’uccisione di 7 cooperanti della Ong World Central Kitchen. In conclusione, tra opposizione interna, e crescenti problematiche esterne, anche di natura legale, il Primo ministro israeliano si muoverà nei prossimi tempi in un terreno minato. Medio Oriente. La mafia degli aiuti che affama la Striscia di Nello Del Gatto La Stampa, 3 maggio 2024 Hamas si è indebolita, i clan locali hanno messo le mani sulla distribuzione di cibo e medicine. Il 60% viene rivenduto sul mercato nero a prezzi esorbitanti e la fame dilaga nella Striscia. Sono sempre più discordanti tra esercito israeliano e Nazioni Unite i numeri sugli aiuti trasportati a Gaza e distribuiti nella Striscia, e sullo sfondo, i camion bloccati all’esterno della Striscia e quelli che invece all’interno vengono rubati per alimentare il mercato nero. Da più parti si fa pressione su Israele affinché aumenti l’afflusso di aiuti alla popolazione civile di Gaza che vive in condizioni molto disperate. Soprattutto al nord della Striscia, dove sono cominciate ad arrivare migliaia di persone che hanno lasciato i campi profughi del sud e del centro, manca tutto. Far arrivare i camion di aiuti al nord è un’impresa. Il processo è alquanto complicato: i mezzi entrano nella Striscia o dal valico di Rafah a sud o da quello di Kerem Shalom, a sud est, dopo profonde ispezioni da parte delle autorità israeliane, che spesso rimandano indietro contenuti ritenuti non adeguati. Da qui i mezzi raggiungono centri di raccolta gestiti principalmente dalle Nazioni Unite, che dovrebbero favorire la distribuzione. Fino al mese di febbraio, i mezzi erano scortati dalla polizia di Hamas. Con l’andare avanti della guerra e l’uccisione di molti di questi agenti, le Nazioni Unite si rifiutarono di distribuire gli aiuti in quanto non c’era sicurezza. Si è pensato pertanto di armare delle famiglie di gazawi legate ai maggiori clan della città, ma questo non è stato visto da molti come positivo. Soprattutto Hamas, ha cominciato una guerra interna con questi clan, ci sono stati degli omicidi tra i gazawi. Ciò ha comportato che solo una piccolissima parte degli aiuti riuscisse ad arrivare a nord. Per questo sono cominciati i lanci di aiuti dagli aerei, ad opera soprattutto di americani e giordani, che hanno paracadutato migliaia di casse provenienti da diversi Paesi. Ma anche questo sistema si è scoperto essere non perfetto, perché molte casse finivano in mare, altre erano difficili da raggiungere per dove arrivavano. E, comunque, erano sempre preda di ladri che se ne sono approfittati. Le pressioni internazionali hanno così spinto Israele a riaprire, per la prima volta dal 7 ottobre, il valico di Erez, a nord. Questo da sempre è l’accesso principale per entrare nella Striscia arrivando da Israele, ma è stato distrutto. Permette l’ingresso direttamente nella parte settentrionale di Gaza e non è lontano dal porto di Ashdod, dove arrivano i cargo con gli aiuti dall’estero. È una goccia nel mare, ma anche questo sta aiutando almeno, come riconosce anche l’Onu, gli abitanti che si sono ritrasferiti al nord, a patire meno la fame. I problemi, però, restano, soprattutto per distribuzione e furti. Secondo i dati pubblicati quotidianamente dal Cogat, il coordinamento delle attività governative nei territori, unità del ministero della difesa israeliano che gestisce gli aiuti a Gaza, il primo maggio sono stati ispezionati e trasferiti nella Striscia 406 camion di aiuti umanitari, dei quali 335 sono stati consegnati alle Nazioni unite che ne avrebbero distribuiti 196, 121 dei quali contenevano cibo. La differenza tra i numeri dei camion controllati e distribuiti è notevole. Sempre il primo maggio, 88 camion di aiuti sono stati coordinati al nord di Gaza (56 del settore privato, 2 dell’Oms e 30 attraverso il nuovo valico settentrionale). Le Nazioni unite, invece, parlano di un totale di 253 camion nello stesso giorno. A questo vanno aggiunti gli aiuti paracadutati, che il primo maggio, in due lanci, ammontano a 173 pallet contenenti decine di migliaia di pacchi di aiuti alimentari. Dall’inizio della distribuzione di aiuti, oltre 26 mila camion sono entrati nella Striscia secondo il Cogat, duemila in meno secondo le Nazioni Unite. Il problema resta la distribuzione. Anche perché come dicevamo, molti camion vengono bloccati nel loro cammino verso il nord di Gaza. Hamas dice che sono i clan locali che se ne appropriano, i clan locali accusano Hamas di prenderli per favorire i propri miliziani. Sta di fatto che molti dei prodotti poi si trovano nei mercati, alimentando il mercato nero. L’intelligence israeliana ritiene che almeno il 60% degli aiuti venga rubato e rivenduto al mercato nero. L’aumento delle forniture nelle ultime settimane, ha favorito la presenza nei mercati di più cibo, per cui i prezzi sono scesi rispetto al passato. Sono sempre più alti del normale, ma in maniera più lieve. Nei giorni scorsi, non solo a Gaza ma anche fuori, i camion sono stati bloccati. Nei mesi scorsi, attivisti di destra hanno tentato di bloccare l’ingresso di camion a Kerem Shalom, ci sono stati scontri con polizia ed esercito che hanno rimosso i blocchi. Pochi giorni fa, invece, dei camion di farina provenienti dalla Giordania, sono stati bloccati da alcuni coloni nei pressi di Maale Adumim a est di Gerusalemme, e la farina è stata dispersa. In molti, soprattutto a destra, chiedono a Netanyahu che blocchi gli aiuti a Gaza fino a quando non saranno liberati gli ostaggi. Russia. La lettera dal carcere del dissidente Yashin: “Questa guerra valeva così tante vite?” di Raffaella Chiodo Karpinsky Avvenire, 3 maggio 2024 Il politico russo condannato a 8 anni per aver parlato di Bucha continua a far sentire la sua voce cercando di parlare ai suoi concittadini. “Quando parlo con persone che giustificano l’invasione dell’Ucraina, di solito sento gli stessi argomenti. La Nato è ai confini, i russi erano oppressi nel Donbass, Putin non aveva scelta. La propaganda ha piantato queste tesi nel cervello come chiodi, ed è abbastanza difficile tirarle fuori. Ma a volte gli argomenti opposti aiutano. Prova a farlo con i tuoi amici. Immaginiamo cosa non sarebbe successo se Putin non avesse dato l’ordine di attaccare il 24 febbraio”. A parlare così è Ilya Yashin il politico russo rimasto nel Paese continuando a opporsi al regime di Putin e all’invasione dell’Ucraina. A giugno del 2022 l’arresto e a dicembre dello stesso anno la condanna a 8 anni e mezzo di carcere per avere denunciato il massacro di Bucha sui suoi account social. Yashin da giovanissimo collaborava con il leader dell’opposizione Boris Nemtsov (ucciso nel 2015). Alla morte di Alexeij Navalny con coraggio e il suo tradizionale tono di sfida continua a far sentire la sua voce promettendo di resistere a nome dei suoi amici e colleghi già caduti, consapevole del pericolo che corre. Scrive costantemente lettere dal carcere che vengono diffuse tramite il suo account Instagram e Telegram. Questa che riportiamo è stata pubblicata il 22 aprile scorso. Anche lui come Oleg Orlov o Vladimir Kara Murza e altri prigionieri politici cerca di rivolgersi ai cittadini russi in primo luogo. “Pur consapevole dell’inasprirsi della minaccia del regime nei confronti di chi osa continuare a esprimere il dissenso e tanto più diffonderlo pubblicamente”, Yashin continua a farlo e forse anche con un senso ancora più deciso di sfida. Le voci dell’opposizione non si spengono nonostante tutto. In primo luogo, decine di migliaia di persone da entrambe le parti non sarebbero morte. “I padri ­- scrive ­- porterebbero i figli a scuola invece di marcire sottoterra. I mariti non sarebbero stati separati dalle loro mogli. Le madri preparavano bliny (crêpes ndr) per i loro figli per la Maslenitsa (festa di addio all’inverno) e non piangerebbero sulle loro bare. Ditelo ad alta voce: le persone sarebbero ancora vive. In secondo luogo, le città con popolazione di lingua russa non sarebbero state distrutte. Sul lungomare di Mariupol, continuerebbero a camminare le madri coi passeggini invece dei carri armati. Nei caffè di Bakhmut sarebbe ancora un luogo per incontrarsi e non per allestire nidi di mitragliatrici. Queste sarebbero città vive, non rovine intrise di sangue. Belgorod, Shebekino, Grayvoron e altre non avrebbero sofferto i bombardamenti e le loro popolazioni non sarebbero morte o evacuate. Sarebbero territori sicuri, i cui abitanti conoscerebbero la guerra dai film o dai libri. In terzo luogo, il nostro Paese risparmierebbe trilioni di rubli, che oggi vengono spesi per bruciare attrezzature e esplodere proiettili. Questo denaro potrebbe migliorare la vita e la situazione sociale letteralmente di ogni russo invece di diffondere morte in tutta l’Ucraina. Infine, migliaia di nostri compatrioti non sarebbero ora in prigione per essersi rifiutati di andare in un Paese straniero e di ucciderne chi si difende. Pensate: niente di tutto questo sarebbe successo. Tutta l’oscurità degli ultimi due anni sarebbe solo una storia dell’orrore per allarmisti o incubi notturni delle persone comuni. Questa guerra valeva così tante vite e distruzione? E vale la pena continuare con questa follia?”. In un clima di arresti, condanne e morte di prigionieri politici come nel caso di Alexander Demidenko, la sua come altre voci dell’opposizione non si spegne. Nonostante tutto. Cina. 107 scrittori e giornalisti in carcere per le critiche al governo e le accuse sui diritti negati di Gianluca Modolo La Repubblica, 3 maggio 2024 L’ultimo report di Freedom to Write: sfondata quota cento. Segue l’Iran con 49 intellettuali dietro le sbarre. Primo posto per il quinto anno consecutivo. Soltanto che ora, per la prima volta, il numero arriva in tripla cifra. Non è un Paese per scrittori, la Cina: a confermarlo è il report Freedom to Write Index 2023 di Pen America appena pubblicato. In 107 si trovano in carcere, diciassette in più rispetto ai 90 segnalati nel report dell’anno precedente. “La maggior parte è stata incarcerata per aver espresso online critiche alle politiche ufficiali o opinioni a favore della democrazia”, spiegano gli autori del rapporto. “Sovversione del potere statale” o “provocare disordini”: le accuse che vanno per la maggiore. Dei 107 casi documentati dall’organizzazione per la libertà di espressione, 50 si riferiscono a commentatori online: “Scrittori che usano regolarmente le piattaforme dei social media per pubblicare le loro opinioni e i loro commenti su una serie di argomenti politici, economici e sociali”. Rientrano nella più ampia categoria di scrittori anche blogger, editorialisti, poeti, cantautori, artisti, editori, traduttori. “In genere arrestati e imprigionati con l’accusa vaga di ‘aver provocato disordini’, ciò indica il continuo aumento del potere dei social media in Cina come mezzo legittimo e di ampia portata per la scrittura politica nell’era digitale”, si legge nel report. Molti dei commentatori online sono stati presi di mira per aver scritto sulle controverse politiche Covid del governo, come Sun Qing, Xiaolong Ji e Yu Qian. Altri hanno criticato il leader Xi Jinping o il Partito comunista cinese, hanno discusso di democrazia o si sono espressi su una serie di questioni relative ai diritti umani. Nella regione a maggioranza uigura del Xinjiang gli imprigionati sono 35. Il report cita il caso della poetessa Gulnisa Imin: scomparsa nel marzo 2018, durante la 345esima notte del suo progetto “Mille e una notte”, tre anni più tardi si è saputo che era stata arrestata e condannata a 17 anni e mezzo di carcere per aver diffuso il “pensiero separatista” attraverso le sue poesie. Sette incarcerati a Hong Kong (tra cui Jimmy Lai, l’editore dell’ormai defunto Apple Daily, giornale simbolo della resistenza democratica nell’ex colonia britannica all’abbraccio sempre più stretto di Pechino: il processo è iniziato lo scorso 18 dicembre e se condannato rischia l’ergastolo). Dodici i casi in Tibet. Tra i casi più recenti nella Cina continentale, invece, spicca quello di Yang Hengjun, scrittore e attivista pro-democrazia condannato a morte da un tribunale di Pechino il 5 febbraio di quest’anno (con sentenza sospesa per due anni: il che vuol dire che, se verrà provata la buona condotta nei prossimi 24 mesi, la pena si tramuterà in ergastolo) per “spionaggio”. Autore di spy stories ambientate nei circoli della diplomazia internazionale e articoli critici contro il Partito comunista, il 58enne Yang, ex funzionario del Ministero degli Esteri cinese, nel 2000 si era trasferito in Australia. Rientrato in Cina nel 2019, venne subito arrestato all’aeroporto di Canton e il suo processo si aprì in gran segreto nel maggio 2021. In una lettera ai suoi due figli dello scorso agosto Yang scrisse che erano più di quattro anni che non vedeva la luce diretta del sole e che temeva di morire in cella dopo che gli era stata diagnosticata una cisti ai reni. “L’incarcerazione di uno scrittore, la cui voce può offrire una prospettiva indipendente o una narrazione di speranza, va oltre il silenziamento di voci individuali e rappresenta un attacco più ampio alla libertà di tutti i cittadini di un Paese”, si legge ancora nel report. In totale sono 339 gli scrittori incarcerati in tutto il mondo. A seguire la Cina ci sono Iran (49), Arabia Saudita e Vietnam (19), Israele (17), Bielorussia e Russia (16), Turchia (14), Myanmar (12) ed Eritrea (7).