Perché è importante consentire le telefonate dal carcere di Stefano Ferrio Corriere della Sera, 31 maggio 2024 Attualmente introdurre o detenere cellulari costituisce reato. Giovanni Russo, Capo del dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ascoltato in audizione dalla Commissione Giustizia della Camera, caldeggia una pronta e massiccia liberalizzazione. A proposito di “desertificazioni affettive” chi trascorre mezz’ora al giorno spettegolando di amorazzi e sconti da outlet sui jeans firmati, oppure giocando a Penalty Shooters fino a inebetirsi, destinerebbe dieci centesimi del proprio abbonamento mensile a chi vorrebbe telefonare ai propri cari dal carcere? La provocazione nasce al termine di un percorso iniziato appurando che solo dentro un carcere aperto al mondo esterno come il Due Palazzi di Padova chi non è detenuto può “liberarsi”, anche per un’intera giornata, del proprio telefonino. Il quale, qui consegnato all’ingresso per ragioni di sicurezza, non è certissimo che nuoccia alla salute, anche se da decenni è oggetto di allarmi precauzionali lanciati da istituzioni come l’Organizzazione Mondiale della Sanità circa l’effetto delle sue radiazioni. Ma di sicuro ruba quantità esorbitanti di tempo alla nostra capacità di coltivare relazioni più sane e utili di quelle virtuali. Ironia della sorte, a causa della tipologia di rete che ne consente l’uso, lo stesso telefonino è chiamato come il mezzo blindato a bordo del quale vengono trasportati i detenuti, i quali però desiderano comprensibilmente ben altri “cellulari”, che sono proprio quelli elettronici, grazie a cui comunicare con i propri cari, ovvero con chi all’esterno del carcere dà senso alla propria esistenza. Si parla di un uso “vitale” del mezzo, lontano anni luce dai giochini elettronici e dai chiacchiericci social che intasano la stragrande maggioranza del tempo trascorso al telefonino in regime di libertà. Questo intreccio di paradossali contraddizioni è solo uno dei deformanti giochi di specchi generati da un’iniziativa come “Io non so parlar d’amore”, giornata nazionale di studi promossa dall’associazione Granello di Senape e dal periodico Ristretti Orizzonti. Un’iniziativa che per una giornata intera ha ospitato centinaia tra operatori, giornalisti e volontari all’interno del carcere Due Palazzi di Padova, trasformato nell’occasione in agorà dove fare il punto dopo la sentenza con cui, il 6 dicembre scorso, la Corte Costituzionale, dichiara l’illegittimità dell’articolo 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). Il passo preso in esame come illegittimo è quello in cui alla persona detenuta viene vietata una libera e non sorvegliata intimità con un proprio partner. Si profila dunque anche per l’Italia una liberalizzazione del sesso in carcere sulla scia di quanto da tempo avviene in Paesi come la Germania, la Svizzera, l’Albania, la Spagna, l’Olanda e la Romania. Il merito è anche di un magistrato di sorveglianza di stanza a Spoleto, Fabio Gianfilippi che, con un’ordinanza promulgata nel gennaio del 2023, ha sollevato il tema giuridico su cui si è espressa la Consulta. La portata di questa sentenza è sicuramente “storica” perché, come rilevato durante i lavori coordinati da Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, ora non si tratta di redigere un’apposita legge in materia, ma semplicemente di applicare nei fatti quello che i giudici ritengono un diritto inalienabile. A proposito del quale, nel dibattito di Padova, promosso da un’istituzione carceraria all’avanguardia, il cui direttore si chiama Claudio Mazzeo, non è mancato chi ha rilevato come esso trovi posto in una Costituzione scritta da molti che di carcere se ne intendevano, essendo stati detenuti durante la dittatura fascista. I “tempi” ci stanno tutti. Se applicare il dettato costituzionale del 1948 ha comportato più di vent’anni per lo Statuto dei Lavoratori approvato nel 1970, e oltre trenta per il Sistema Sanitario Nazionale entrato in vigore nel 1978, per il diritto all’intimità dei carcerati è comprensibile un lasso temporale di tre quarti di secolo, il “minimo” che ci si possa aspettare da un Paese bigotto e burocraticamente insano come l’Italia. Problema toccato con mano quando da più parti è stato commentato come foriero di nulla l’ennesimo “tavolo di lavoro” annunciato da fonte governativa quale compensazione al no secco opposto dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari all’ipotesi di sperimentare, proprio al Due Palazzi, le “stanze dell’amore” destinate ai detenuti. L’urgenza del tema è accuratamente sottolineata dalla Corte Costituzionale che descrive come “desertificazione affettiva” quanto si contempla nel “paesaggio del carcere italiano”, alludendo a una brulla e aspra quotidianità estesa a familiari, partner di oggi e di ieri, compagni di strada, amici per sempre, avvocati per la vita. Gli stessi soggetti a Padova portati al centro di dolenti narrazioni su figlie di ergastolani sofferenti di epilessia, studenti ritrovati in carcere poco prima del suicidio, genitori ingombranti proprio perché assenti. In attesa che tavoli di lavoro si riuniscano e concertino decisioni, addetti ai lavori come Giovanni Russo, Capo del dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ascoltato in audizione dalla Commissione Giustizia della Camera, caldeggia una pronta e massiccia liberalizzazione delle telefonate nelle carceri italiane, dove attualmente introdurre o detenere cellulari costituisce reato. Perché chiamare a casa, o chi si ama, aiuta a vivere anche dietro le sbarre. Può fare bene rammentarlo anche dove le desertificazioni affettive riguardano noi che stando “fuori”, parliamo al vuoto mascherato da un nome scritto nell’agenda, o spendiamo fortune di tempo giocando a League of Legends assieme ad altri 180 milioni di fans. E se solo ognuno di questi ultimi destinasse non dieci, ma un centesimo al mese, alle chiamate dei detenuti, l’”affare” sarebbe sotto gli occhi di tutti. Ecco il G.I.O., una milizia per la repressione in carcere di Angela Stella L’Unità, 31 maggio 2024 Un reparto di rapida reazione operativa, specializzato nella protezione e tutela della sicurezza delle strutture penitenziarie e delle persone in caso di rivolta in carcere: è il Gruppo di intervento operativo (Gio) della Polizia Penitenziaria, presentato ieri, nel corso di una conferenza stampa da Andrea Delmastro delle Vedove, sottosegretario di Stato alla Giustizia con delega alla polizia penitenziaria, Giovanni Russo, capo del Dap, Lina Di Domenico, vicecapo Dap e Linda De Maio, primo dirigente di Polizia penitenziaria, direttore del Gio. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha portato il suo saluto a inizio dell’incontro. “Il gruppo d’intervento operativo - ha detto Delmastro - sarà un nucleo altamente specializzato che garantirà l’intervento entro massimo un’ora” da quando il direttore ne chiederà l’ausilio in caso di criticità o rivolte nelle carceri. “Avrà tra le sue figure un negoziatore, quindi le criticità verranno affrontate prima negoziando. Dopo di che ci sarà l’impiego del minore gradiente di forza per risolvere le criticità”. “Il modello - ha specificato - è quello dell’Eris francese. In Francia si sono abbattuti del 90% i fenomeni di criticità. Abbiamo un trattato di cooperazione con la Francia che ci garantisce di avvalerci dei loro esperti”. “Il Gio sarà dotato obbligatoriamente di body cam per certificare e garantire l’uso corretto delle tecniche operative”, ha spiegato ancora Delmastro chiarendo, visto anche le polemiche sorte in questi giorni da parte, ad esempio, dei penalisti italiani, come la volontà sia quella di garantire non solo “ordine e sicurezza” ma anche la tutela “dei detenuti che vogliono espiare loro pena serenamente all’interno dei penitenziari”. L’esponente di Fratelli d’Italia si è poi soffermato su quanto avvenuto nell’Ipm Beccaria di Milano: “Non conosco le motivazioni più profonde della rivolta di ieri al Beccaria onestamente perché le stiamo ancora analizzando. È pur certo ed è pur vero che appena gli uomini e le donne della polizia penitenziaria hanno indossato il casco operativo la rivolta è cessata questo vuole dire che lo stato nell’impiego legittimo della forza è più forte dell’anti Stato e che in ogni caso sia scongiurato che potesse accadere di peggio”. Sulla vicenda del Beccaria ieri è intervenuta anche l’associazione Antigone, tramite il presidente Patrizio Gonnella: “Nel carcere minorile molti dei ragazzi detenuti hanno inscenato una protesta, che è consistita prima nel mancato rientro in cella e poi nella battitura delle sbarre, rientrata dopo poche ore senza violenza e senza che nessuno, sia tra i ragazzi che tra gli agenti, sia risultato ferito”. “Si è parlato di rivolta - ha aggiunto - come troppo spesso si fa in casi analoghi, e crediamo che innanzitutto vada ripristinato il corretto uso dei termini, riconoscendo la differenza tra rivolte e proteste. Quella del Beccaria di ieri rientra perfettamente in quest’ultima fattispecie e bisogna cercare di capire cosa sta accadendo in quell’istituto dove, un mese fa, la metà degli agenti in servizio sono stati indagati per torture e altri reati connessi ai casi di torture. Il quadro che esce fuori dalle carte della procura parla di un clima di violenze e sopraffazione generalizzato”. Secondo Gonnella, il problema del Beccaria oggi “è un problema di, comprensibile, mancanza di fiducia verso l’istituzione. Le proteste, quella di ieri (due giorni fa, ndr) non è il primo episodio critico avvenuto nell’ultimo mese, vanno dunque affrontate con il dialogo, lavorando per ripristinare proprio quella fiducia, fondamentale tra custodi e custoditi. Un dialogo che devono favorire anche le istituzioni non carcerarie, come il Comune di Milano, la Regione Lombardia, la magistratura, l’avvocatura e la società civile, in un accompagnamento civico fondamentale per questo pezzo di città”. Invece, ha concluso il presidente di Antigone, “parlare di rivolta non aiuta ad andare verso questo dialogo. Ancor meno aiuterebbe se dovesse essere approvato il ddl sicurezza, che per le rivolte, anche non violente, prevede pene sproporzionate: se fosse stato in vigore questo testo di legge i ragazzi del Beccaria avrebbero potuto subire una condanna fino a 8 anni, con l’esclusione dai benefici penitenziari previsto dal regime 4-bis che, nato per i reati di mafia e terrorismo, oggi si applica a diverse fattispecie penali e si applicherà anche al reato di rivolta penitenziaria”. Un reparto speciale per sedare le rivolte in carcere. Ovvero agire sull’effetto, ma non sulla causa di Federica Olivo huffingtonpost.it, 31 maggio 2024 Il governo lancia Gio, gruppo di intervento operativo della Polizia penitenziaria, all’indomani delle tensioni al Beccaria di Milano. Le rivolte, più o meno pesanti, in carcere aumentano principalmente per colpa del sovraffollamento. E il governo trova la soluzione: un reparto speciale per sedare le rivolte medesime. È tutto qui il corto circuito che spiega la nascita del Gio, il gruppo di intervento operativo della Polizia penitenziaria, presentato ieri durante una conferenza stampa al ministero della Giustizia dal sottosegretario Andrea Delmastro e dai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Questo gruppo viene illustrato, per pura coincidenza temporale, all’indomani di una rivolta al Beccaria di Milano. Si tratta del carcere minorile poche settimane fa è stato protagonista di una maxi inchiesta per tortura nei confronti di alcuni agenti penitenziari. “Non ne conosco le motivazioni più profonde perché le stiamo ancora analizzando, ma è pur vero che appena uomini e donne della polizia penitenziaria hanno indossato il casco la rivolta è cessata: questo vuol dire che lo Stato è più forte dell’anti-Stato e che in ogni caso si è scongiurato che potesse accadere di peggio”, ha dichiarato Delmastro. La nascita di questo reparto, ha spiegato Lina Di Domenico, vicecapo del Dap, è dovuta anche al fatto che “le criticità in carcere, che non necessariamente diventano rivolte, sono aumentate”. Ma perché questo aumento di disordini? Il governo se lo è chiesto. E la risposta, che viene data ad HuffPost da Delmastro, è un’ammissione: “Le ragioni sono tante, lo so che la principale sia il sovraffollamento, ma non è colpa mia se quando sono arrivato ho trovato bloccati 155 milioni per l’edilizia penitenziaria”. Dunque, l’esecutivo è perfettamente consapevole del fatto che le carceri scoppiano (anche) perché i detenuti presenti sono troppi - tanto per citare dei dati al 30 aprile i reclusi erano 61.297, diecimila in più della capienza regolamentare - e che questo sovraffollamento può portare a disperazione e disordini. Ma come pensa di risolverlo? Con un nucleo speciale, mutuato dall’esperienza francese, per sedare le rivolte, e con l’annuncio di nuove carceri: “Ho sbloccato i fondi - annuncia trionfante Delmastro - per la costruzione di nuove strutture che porteranno a un’aggiunta di 7mila posti”. Nessun riferimento alle misure alternative, dunque, nessun cenno al fatto che migliaia detenuti sono in attesa di giudizio o reclusi per reati minori. Il sovraffollamento, peraltro, viene associato sempre alle carceri per adulti, ma le politiche del governo sono riuscite nella mirabolante impresa di riempire oltre la capienza anche le carceri minorili: ad oggi i giovanissimi reclusi sono più di 500, numeri che non si vedevano dal 2009, perché l’indirizzo negli ultimi anni era quello di trovare una soluzione alternativa per i minori autori di reato. Soluzioni che, tendenzialmente, funzionavano. Ma, per l’esecutivo, evidentemente la galera resta la punizione più utile per chi ha commesso un reato. Giovanissimo o adulto che sia. Qualcosa si è mosso sul fronte delle assunzioni degli educatori e dei dirigenti mancanti: “Abbiamo saturato la pianta dei funzionari giuridico pedagogico”, sottolinea il sottosegretario durante la conferenza stampa. A margine dell’evento Delmastro trova anche il tempo per una battuta sarcastica, ad alta voce, nei confronti di HuffPost e, implicitamente, della sensibilità di questo giornale nei confronti dei diritti dei detenuti: “Mi raccomando - ci ha detto - distruggetemi perché più parlate male di me, più io prendo voti”. Il Gio, in ogni caso, sarà composto inizialmente da 150-200 persone, che a regime diventeranno 270. Saranno selezionate con un concorso interno. Nessuna assunzione aggiuntiva ci sarà per compensare le risorse che dalle carceri passeranno a questi reparti speciali. “Sono già ampiamente compensate dalle assunzioni di quest’anno”, sostiene Delmastro. Ma i conti, ci spiega Gennarino De Fazio della Uilpa, non tornano: “L’organico previsto per legge è di 43mila persone, ma il fabbisogno, calcolato anche dal Dap, è di 54mila. Al momento in servizio siamo meno di 36mila. E ogni anno vanno in pensione più agenti di quanti ne vengono assunti. Un esempio? Per il 2024 sono previste le assunzioni di 2004 agenti, mentre in pensione ne andranno 2500. Pensano di risolvere il problema riducendo i corsi di formazione, ma in questo modo entra in carcere gente impreparata”. Pur volendo fare una stima a ribasso attenendoci alla pianta stabilita dalla legge, gli uomini e le donne in divisa che mancano nelle carceri sono quasi 8mila. Ma, operativamente, cosa dovranno fare questi agenti speciali? “Entrano in campo - ha spiegato il vice capo del Dap, Lina Di Domenico - quando la criticità viene ritenuta non fronteggiabile, dal direttore, con le risorse già presenti nel carcere”. Oltre alla struttura centrale ci saranno delle microcellule, i Gir, per ogni provveditorato, composte da 24 agenti. L’esperienza è stata mutuata dall’Eris francese, un reparto speciale che in Francia “ha fatto ridurre gli eventi critici del 90%”: “Abbiamo appreso da quel modello e lo abbiamo migliorato”, evidenzia il capo del Dap, Giovanni Russo, che ha insistito affinché gli agenti del Gio fossero dotati di bodycam. Le immagini che saranno registrate - e che dovrebbero tutelare detenuti e agenti - finiranno direttamente su un database nazionale e non potranno essere manipolate. Dopo il concorso, ipotizzato per luglio, questi agenti speciali che saranno diretti da Linda De Maio, saranno formati. “Puntiamo a rendere il reparto operativo entro la fine dell’anno”, ha detto Delmastro. Nella formazione si punterà alla tenuta psicologica degli agenti, per evitare un uso eccessivo della violenza. “Al primo errore, chi sbaglia sarà fuori dal reparto”, evidenziano fonti del Dap. Sarà prevista, infine, la figura di un mediatore, che dovrà interloquire con i detenuti, per mettere fine ai disordini prima dell’irruzione degli agenti. Per la direttrice del Gio il nuovo reparto “è una svolta epocale”. Per gli agenti comuni, che vivono la situazione delle carceri quotidianamente è “la tipica misura da campagna elettorale”. Che non servirà a riportare la legalità nelle carceri. Sempre che per legalità si intenda il rispetto dei diritti costituzionali dei detenuti e non qualcosa che somigli alla formula “più punizione, meno rieducazione”. Salute mentale e carceri. Gli psicologi: “Siamo pochi, dobbiamo scegliere su chi intervenire” di Lorenzo Proia quotidianosanita.it, 31 maggio 2024 “Pochi minuti di attenzione e intervento. L’esiguo numero di psicologi costringerebbe “a selezionare i soggetti sui quali intervenire”, spiega Sellini (Aupi). Che sulla riforma Cartabia dice: “Difficoltà sui compiti e in qualche caso le prescrizioni dei Tribunali. Conflitti con norme sul consenso informato”. Al via il Gruppo di lavoro Aupi, convegno oggi a Napoli. Nel 2022 il Protocollo Cnop/Dap. La psicologia penitenziaria al centro del Gruppo di Lavoro istituito dall’Aupi. Associazione Unitaria Psicologi Italiani, secondo cui la salute mentale dei detenuti all’interno delle carceri italiane non sarebbe sufficientemente tutelata. L’Aupi non descrive un quadro roseo negli istituti penitenziari italiani. E Mario Sellini, del sindacato degli psicologi, ascoltato da QS, interviene sulla riforma Cartabia: “Sta creando difficoltà per quanto riguarda i compiti ed in qualche caso, le prescrizioni dei Tribunali. Difficoltà e conflitti con le norme che regolano il consenso informato, le prescrizioni di interventi sanitari che richiedono, obbligatoriamente, il consenso formale ma non solo”. Su questo tema, la Società scientifica Form-Aupi ha costituito un gruppo di lavoro interdisciplinare (Magistrati, Avvocati, esperti, Psicologi ecc.) incaricato di fornire ai professionisti psicologi, strumenti applicativi coerenti con le norme e con le regole intrinseche della professione di psicologo. Se ne discute oggi a Napoli. Nel convegno si fa anche riferimento alle problematiche correlate all’intervento degli psicologi nel sistema penitenziario. Gli psicologi sono nelle carceri dal 1987, ci spiega Sellini, con l’istituzione del “Servizio nuovi giunti”, per contrastare i tentativi di suicidio e gli atti di autolesionismo di chi entrava nel sistema penitenziario per la prima volta. Per andare oltre le potenzialità criticità si è arrivati successivamente alla “presa in carico di questi soggetti”. Quindi il DAP (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) istituisce un servizio più allargato “che deve garantire l’attivazione degli interventi dello psicologo entro e non oltre le 36 ore dall’ingresso nel carcere. Nel 2008 la ‘sanità penitenziaria’ passa al Servizio Sanitario e ne diventa parte integrante”. “È cambiato il contesto, ma i problemi sono rimasti uguali se non addirittura ingigantiti”, dice Sellini. “L’esiguo numero di professionisti fa sì che lo psicologo è costretto a selezionare i soggetti sui quali intervenire visto che il rapporto professionista detenuti garantisce a ciascun detenuto solo pochi muniti di attenzione e di intervento. A ciò si aggiunge il contesto di una istituzione obbligatoriamente totalizzante”. E sul rapporto con gli agenti della Polizia penitenziaria il sindacato tiene a segnalare “problematiche di forte disagio e sofferenza psicologia sempre più evidenti”. Il Cnop (Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi) ha siglato nel 2022 con il Dap un protocollo d’intesa: “In questi anni di confronto - spiega a Quotidiano Sanità Ilaria Garosi, del Cnop - sono stati affrontati molteplici temi come ad esempio l’emergenza dei suicidi in carcere (che vede esperti delegati dal Cnop partecipare a un gruppo di lavoro tematico istituito dal Dap), la detenzione femminile che presenta specificità tale da ritenere necessario un confronto sui bisogni e su come riorganizzare spazi detentivi e risposte trattamentali coerenti e diversificate da quelle per la popolazione maschile e il tema complesso dell’affettività in carcere in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale che ha ritenuto incostituzionale l’obbligo del controllo visivo delle visite al coniuge che impedisce una maggiore intimità per le persone detenute”. “Tutti questi temi - aggiunge Garosi - non hanno un rilievo solo rispetto alla salute mentale, alla prevenzione di condizioni di disagio psichico ma hanno anche un rilievo di tipo pratico-organizzativo dove le conoscenze psicologiche vengono valorizzate nella loro funzione di comprensione dei contesti complessi. Negli ultimi anni, attraverso propri delegati esperti, il Cnop ha rappresentato uno stabile interlocutore per il Dap dando come risultato anche quello di stanziamenti di risorse utili ad integrare la presenza di psicologi negli istituti penitenziari”. Il permesso concesso a Chico Forti e quello negato a tanti altri detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 maggio 2024 Numerosi i casi di reclusi che non hanno potuto incontrare parenti gravemente malati, magari per l’ultimo saluto. Ha ragione l’associazione “Sbarre di Zucchero” nel dire, con una dura lettera rivolta al ministro della Giustizia, che i permessi di necessità non vengono concessi con la stessa celerità avuta nei confronti di Chico Forti? La risposta è sì, e vedremo il perché. Il suo ritorno in Italia, dopo quasi 25 anni di detenzione negli Stati Uniti per l’omicidio, per cui si è sempre professato innocente, è stato accolto con giubilo. Eppure, le modalità della sua accoglienza al carcere di Verona hanno sollevato non poche polemiche, riaprendo il dibattito sulle disparità di trattamento tra detenuti. Il “tour” della prigione e le foto ricordo con la matricola hanno fatto storcere il naso a molti, vista l’eccezionalità di simili “privilegi” per un detenuto appena giunto. A puntare il dito, come detto, è l’associazione “Sbarre di Zucchero” che, in una lettera aperta al Ministro Nordio, sottolinea: “Crediamo di poter dire con certezza praticamente assoluta che non rientra nella prassi fare al detenuto nuovo giunto il tour dell’istituto, come fosse un ospite istituzionale”. Il punto cruciale - L’associazione plaude al permesso di necessità concesso immediatamente a Forti per far visita alla madre anziana, organizzato con celerità dal carcere veronese. Una prontezza che stride con le decine di testimonianze ricevute di detenuti “anonimi” a cui sono stati negati analoghi permessi, anche per tragici eventi come la morte di un genitore. “Rigetti motivati dall’impossibilità di organizzare la traduzione in tempi brevi, nonostante mesi di osservazione e relazioni impeccabili”, denuncia l’associazione, aggiungendo: “La territorialità della pena pare utopia per una gran fetta di detenuti”. Un trattamento privilegiato per Forti che rischia di alimentare l’idea di “detenuti di serie A e di serie B”, come recita la lettera a Nordio. Un’accusa di disparità che l’associazione estende anche alla concessione di benefici come la liberazione anticipata, che potrebbe deflazionare in modo consistente il sovraffollamento carcerario se gestita con maggiore celerità per tutti i detenuti meritevoli. Il caso Forti riaccende così i riflettori sulla necessità di un’applicazione davvero universale dei diritti e dei benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, senza distinzioni di sorta tra “detenuti anonimi” e “detenuti celebri”. Un monito affinché le carceri italiane si avvicinino davvero ai dettami costituzionali, superando prassi e burocrazia che finiscono per creare cittadini di serie A e di serie B anche dietro le sbarre. Un’occasione, per il ministro Nordio, di riaffermare con i fatti l’equità e l’universalità del sistema penitenziario, dando ascolto alle istanze di associazioni come “Sbarre di Zucchero” che chiedono maggiore uniformità, celerità e trasparenza nell’applicazione di norme e benefici per tutti i detenuti, senza alcuna discriminazione. Ecco perché è fondata la denuncia - Ciò che denuncia “Sbarre di Zucchero” è fondato. Tanti sono i casi in cui i detenuti si sono ritrovati negati i cosiddetti “permessi di necessità”. A essere colpiti sono soprattutto gli ergastolani. Possiamo fare un esempio. L’anno scorso, la Cassazione, con la sentenza numero 40923/2023, ha annullato il diniego della magistratura di sorveglianza nei confronti di un detenuto che ha chiesto il permesso di poter incontrare la madre affetta da Alzheimer. Il detenuto ha dovuto aspettare mesi per sentirsi dire che in realtà è possibile concedere il permesso per uscire temporaneamente dal carcere e incontrare l’anziana madre, gravemente malata e, soprattutto, colpita dall’irreversibile morbo di Alzheimer. Proprio quest’ultima patologia, destinata inevitabilmente ad annullare la capacità della donna di relazionarsi col figlio, può rendere eccezionalmente drammatica la situazione familiare del detenuto e legittimare quindi la sua richiesta di incontrare di persona - e non tramite una videochiamata - la madre. Ma se si fa una ricerca tramite le sentenze della Cassazione, emerge che casi del genere sono tantissimi. Detenuti che devono aspettare mesi e non è detto che gli vada bene. Poi, per chi è al 41 bis, diventa un’utopia nonostante sia un diritto. Su Il Dubbio, sempre per fare un esempio, nel 2021 è stata resa nota la vicenda del recluso Salvatore Cappello. A segnalarla è stata l’associazione Yairaiha Onlus. Era al 41 bis da 29 anni e aveva richiesto un permesso di necessità per poter abbracciare l’ultima volta la madre morente. Rigettata, perché - così scrissero i giudici - non era in pericolo di vita. Dopo una settimana, la madre muore. Stessa situazione con il padre: gli rigettarono il permesso di necessità per poterlo abbracciare e dopo un po’ muore. Non sempre poi la Cassazione accoglie i ricorsi. Ad esempio, nel 2020, un detenuto si è visto definitivamente respinta la richiesta di poter assistere all’esumazione della salma della madre. Per i Giudici supremi, con la sentenza numero 10541/20, non ci si trova di fronte a un evento familiare di particolare gravità, poiché la domanda presentata dall’uomo è poggiata su un suo mero interesse personale, non riconducibile ad “esigenze fondamentali sul piano morale e materiale”. Ma se uno pensa che sono problemi che riguardano i detenuti per reati gravi come l’associazione mafiosa, si sbaglia. Nel 2019, sempre su queste pagine, è stata resa nota la vicenda di Salvatore Proietto, all’epoca condannato a due anni per il possesso di 72 grammi di marijuana. Si tratta di una storia drammatica, ma non unica. Salvatore riesce a ottenere la detenzione domiciliare per vivere insieme alla moglie. Lei però, nel frattempo, si è ammalata gravemente. La portano in ospedale e finisce in terapia intensiva. Salvatore, essendo ai domiciliari, non può andarla a trovare. Fa istanza al magistrato di sorveglianza, ma non ha nessuna risposta e la moglie muore, senza che lui sia mai andato a trovarla e la possa vedere. Ma ancora prima, ha vissuto un altro dramma. Salvatore, nei primi mesi del luglio del 2018, quando era ristretto in quel carcere catanese, ha ricevuto una notizia del tutto inaspettata. La madre, affetta da demenza senile, muore improvvisamente. Il suo avvocato difensore ha subito fatto istanza al giudice e quest’ultimo prontamente ha emesso l’autorizzazione. Ma anche quando ti concedono il permesso, qualcosa può andare ugualmente storto. Tre i permessi, con tanto di scorta. Il primo per recarsi a casa il giorno stesso della morte della madre, il secondo per il funerale, il terzo per andare al cimitero nel luogo dove avveniva la tumulazione. Salvatore era quindi in attesa per essere scortato in paese, per poter vedere la madre, poterla piangere e guardarla per l’ultima volta. Ma nulla da fare. I giorni passavano e ha perso ogni speranza. Solo dopo giorni finalmente l’hanno preso e portato al cimitero, quando ormai la madre era stata già tumulata. E solo per mezz’ora. Quindi l’associazione “Sbarre di Zucchero”, con la lettera inviata al ministro Nordio, ha ragione nel dire che “in Italia ci sono migliaia di detenuti che, se ricevessero con celerità risposte alle istanze proposte al magistrato di Sorveglianza per ottenere la liberazione anticipata, potrebbero accedere ai benefici previsti dall’Ordinamento Penitenziario, deflazionando in modo consistente le presenze e avvicinando il sistema penitenziario al dettato costituzionale. In uno Stato che si definisce civile non è ammesso che ci siano detenuti di serie A e detenuti di serie B”. Nordio e la giustizia che mina la democrazia di Donatella Stasio La Stampa, 31 maggio 2024 Quando sono usciti dal Quirinale, la sera del 28 maggio, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano avevano in tasca un testo sulla separazione delle carriere tra giudici e pm con numerose correzioni a matita blu. Nessuno dei due magistrati passati alla politica - il primo pm ormai in pensione; il secondo giudice fuori ruolo, con una lunga carriera politica alle spalle cominciata nel 1996 nelle file di An, Casa delle libertà, Nuova Italia e Fratelli d’Italia - era stato presente, la mattina dello stesso giorno, al cinquantesimo anniversario della strage fascista di piazza della Loggia a Brescia. Lì, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva elogiato lo Stato democratico per aver fatto argine contro lo stragismo nero e aveva sottolineato l’importanza di aver avuto giudici e pm indipendenti, capaci di accertare i fatti “con precisione e responsabilità”, nonostante depistaggi e complicità istituzionali. Un altolà a futura memoria su riforme che mettano a rischio quell’indipendenza, uno dei frutti migliori della Costituzione nata dall’antifascismo. Ma Nordio e Mantovano non c’erano, né hanno ascoltato, altrimenti, forse, sarebbero stati più cauti nel cercare dal Colle un qualche via libera - ad uso e consumo mediatico - a un testo che, per esigenze di propaganda elettorale, era diventato una vera e propria mina vagante per l’indipendenza della magistratura e, dunque, una provocazione dopo le parole di Mattarella a Brescia. Ricapitoliamo i fatti: a fine aprile, tra le numerose bozze in circolazione, quella che sembrava destinata al Consiglio dei ministri era una versione soft della separazione, con un unico Csm diviso in due sezioni, una per i pm e l’altra per i giudici, e con il sorteggio temperato per la scelta dei membri togati, per cui dopo l’estrazione a sorte si sarebbe passati all’elezione dei sorteggiati. Il 3 maggio, però, dopo un vertice politico a palazzo Chigi, si decide di usare la riforma in chiave elettorale e, dunque, “O la va o la spacca”, per dirla con una delle celebri frasi della premier Giorgia Meloni, sia pure con il retropensiero di ammorbidirla in Parlamento. E allora ecco che i Csm diventano due e che giudici e pm vengono scelti con un sorteggio secco, mentre i laici continuano ad essere eletti dal Parlamento. Ed è questa la bozza che Mantovano e Nordio portano al Quirinale. Come spesso è accaduto, l’assoluta mancanza di senso del “limite” di questo governo, lo costringe poi a fare marcia indietro, almeno parzialmente. Così è accaduto dopo quel breve passaggio al Quirinale. Impossibile chiudere gli occhi su più punti. Uno per tutte: la bizzarra disomogeneità genetica dei due Csm e dell’Alta Corte, che avrebbero avuto una parte rappresentativa (quella dei laici) e un’altra (quella dei togati) affidata invece al caso, cioè a un sorteggio secco, giusto per sancire una maggiore influenza politica sull’Organo di autogoverno della componente laica su quella togata, ferme restando le attuali proporzioni numeriche. Che fare, allora? Governo e maggioranza non vogliono assolutamente rinunciare al sorteggio perché lo considerano l’antidoto (se non la “punizione”) contro le correnti - “gli ultimi partiti sopravvissuti”, dice Mantovano, cavalcando il sentimento populista antipartitico. Perciò, pur di mantenerlo in vita, nella notte del 28 maggio preferiscono estenderlo anche alla componente laica, ma in una versione temperata: in quel caso, infatti, il sorteggio avverrà all’interno di un elenco di persone precedentemente elette dagli stessi partiti. Ma se il governo di turno rivendicherà - come fa ora il centrodestra - la sua “prerogativa di dare le carte”, in quella lista ci saranno soprattutto nomi imposti dalla maggioranza. Dunque, resta lo sbilanciamento politico nei due Csm e nell’alta Corte disciplinare. Lo spot elettorale prevedeva poi che la separazione di giudici e pm viaggiasse insieme all’inserimento dell’avvocatura in Costituzione. Anche qui, marcia indietro del governo: quella promessa fatta agli avvocati sapeva troppo di misura elettorale più che di necessità diretta a garantire la parità delle parti nel processo, visto il rilievo che ha già, in Costituzione, il diritto di difesa e, dunque, il ruolo dell’avvocato. Pur con le correzioni introdotte, il testo uscito da Palazzo Chigi resta preoccupante per i suoi possibili sviluppi sull’indipendenza della magistratura. Non si può escludere, infatti, che nel tempo si verifichi uno slittamento di fatto del pm nell’orbita della polizia perché, con la netta separazione delle carriere, il pm, sempre più legato alla polizia, sarà animato da una “logica di risultato” più che di giustizia. Oggi il pm, parte pubblica imparziale, non è vincolata al risultato ma alla ricerca della verità processuale e perciò è tenuto a cercare anche le prove in favore dell’indagato/imputato e a chiederne il proscioglimento quando le prove non ci sono. Così non sarà più con un pm parte del processo che cercherà a tutti il risultato della colpevolezza. Questo è un rovesciamento dell’attuale assetto costituzionale del pubblico ministero e soprattutto della cultura sottostante, che non è quella della polizia ma delle garanzie. Perciò sarebbe molto più proficuo puntare su una formazione continua dei magistrati, comune a quella degli avvocati, per irrobustire la cultura delle garanzie. Quanto al sorteggio secco per scegliere i togati, è evidente che ha un significato soprattutto simbolico perché mortifica le toghe ritenendole inadatte a scelte responsabili dei componenti di un organo costituzionale. E non avrà alcun effetto sulle correnti, vista l’alta adesione dei magistrati (99%) all’Anm. Anche qui, come nel caso dei pariti politici, si butta via il bambino con l’acqua sporca, demonizzando e annientando il pluralismo culturale per l’incapacità di correggere le derive correntizie. Con questa riforma, il governo manda soprattutto un messaggio di delegittimazione della magistratura, in particolare del pm, e di sfiducia verso la giustizia. Le toghe indipendenti sono “colpevoli” perché esercitano la loro naturale funzione “contromaggioritaria” di limite all’esondazione dei poteri dei governi di turno. Meloni e altri alti esponenti del governo non accettano questa funzione costituzionale della magistratura, tant’è che hanno spesso brandito la separazione delle carriere proprio come una punizione di fronte a sentenze sgradite. Purtroppo, è attraverso messaggi delegittimanti come questi che in tanti paesi del mondo le democrazie sono regredite, come ha ricordato lo stesso Mattarella a Brescia. In quei paesi, i primi a finire nel mirino sono stati, insieme alle Corti costituzionali, i giudici indipendenti, anche attraverso la loro sistematica delegittimazione diretta ad alimentare la sfiducia dei cittadini nella giustizia. Ce lo hanno raccontato giudici ma anche avvocati ungheresi e polacchi. Perciò la carica simbolica di questa riforma è forse più grave delle sue singole norme, proprio perché punta ad erodere una cultura che è invece essenziale per arginare i tentativi di regressioni democratiche e che, da Brescia, Mattarella ci ha invitato a coltivare in difesa delle libertà e della democrazia. Ecco perché la riforma della giustizia non si farà mai di Piero Sansonetti L’Unità, 31 maggio 2024 Non si capisce perché sia fermo nei cassetti del Parlamento un disegno di riforma praticamente identico a quello presentato ieri al Consiglio dei ministri. È fermo da due anni. Il Consiglio dei ministri ha varato una riforma molto importante. Riguarda la giustizia. È una riforma radicale. Da anni, anzi da sempre, non succedeva una cosa del genere. Nessun consiglio dei ministri era mai riuscito a votare una riforma radicale, anche se parziale, della giustizia. I governi che ci si erano avvicinati a questo traguardo erano rapidamente caduti. Di solito abbattuti da una raffica di avvisi di garanzia sparata ad altezza d’uomo. Stavolta il governo ha detto sì a una riforma che prevede la separazione delle carriere dei magistrati - cioè la separazione tra chi accusa e chi giudica, in applicazione, finalmente, dell’articolo 111 della Costituzione - e prevede anche il sorteggio per la nomina dei consiglieri del Csm (che, in virtù della separazione, diventano due: uno per i Pm, uno diverso per i giudici), e infine istituisce un nuovo organismo, almeno in parte indipendente, che dovrà giudicare i magistrati. Qual è il limite più importante di questa riforma? Che è una finta. Già: non c’è nessuna possibilità che proceda ed entri in vigore. È una splendida promessa che probabilmente avrà un peso sui risultati elettorali. Perché oggi - se dio vuole - a differenza di qualche anno fa, nell’opinione pubblica è abbastanza diffusa l’idea che la magistratura goda di un potere esagerato e incontrollato, che danneggia la convivenza, minaccia i cittadini e riduce il grado di libertà del nostro paese. Perciò, soprattutto l’annuncio della separazione delle carriere - osteggiatissima dalle Procure - probabilmente porterà voti. Naturalmente la reazione dell’Anm (cioè del sindacato dei magistrati) a questo annuncio è stata feroce e sbigottita. Devo dire la verità: io ho la sensazione che sia in atto un vero gioco delle parti. Il governo annuncia una riforma che spezza la catena del potere delle Procure - o almeno attutisce questo potere - le Procure protestano, scioperano, gridano, invadono i talk show e scatenano i loro giornali (non solo “Il Fatto”, anche i fiancheggiatori), e a quel punto il governo frena, media, tratta, e alla fine non se ne fa niente. Scommettete che andrà così? Del resto Giorgia Meloni ha già annunciato le priorità. Prima - ha detto - si fa la riforma del premierato, poi l’autonomia differenziata e poi la riforma della giustizia. Ora voi capite che la riforma del premierato, se si farà, richiede un tempo molto lungo. E il superamento di molti contrasti anche all’interno della maggioranza, e dell’ostilità del Presidente della Repubblica. E a quel punto si dovrà entrare nel campo minato dell’autonomia differenziata, che in sostanza è una riforma che piace solo a Salvini, e in una situazione di probabile turbolenza politica, e forse di sfilacciamento della maggioranza, ha poche poche possibilità di passare. Solo allora, forse negli ultimi mesi della legislatura, potrà andare all’ordine del giorno la separazione delle carriere dei magistrati. Che comunque è una riforma costituzionale e quindi richiede tempi molto lunghi, e che deve navigare tra i colpi di cannone delle Procure e dei loro giornali. Secondo voi, da uno a cento, quante possibilità ci sono che questa riforma sia approvata? Voi dite Uno? Io dico zero. Del resto non si capisce perché sia fermo nei cassetti del Parlamento un disegno di riforma praticamente identico a quello presentato ieri al Consiglio dei ministri. È fermo da due anni. Il governo avrebbe potuto prendere quel disegno di legge appena si è insediato e portarlo avanti. Non lo ha fatto. Così come ha lasciato cadere tutti gli altri progetti di riforma, dall’abuso d’ufficio, al traffico di influenze, alle intercettazioni. Le uniche leggi che ha saputo fare davvero, questo governo, consistono nell’aumento delle pene per qualche reato minore. Giustizia, una “riforma epocale” aspettando il prossimo decennio di Mario Di Vito Il Manifesto, 31 maggio 2024 Separazione delle carriere. Il percorso del ddl costituzionale sarà lungo e irto di ostacoli. Se passerà, i suoi effetti potrebbero vedersi soltanto nel 2032. Un simbolo in nome (e in memoria) di Silvio Berlusconi. Al momento la riforma della giustizia, passata come disegno di legge costituzionale mercoledì scorso in consiglio dei ministri, non è molto di più. Anche perché, al di là del piano simbolico e delle pur estremamente chiare intenzioni del governo, il percorso che porterebbe allo stravolgimento della giurisdizione, cioè alla separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente, appare ancora piuttosto lungo. E incerto. Il Sottosegretario Alfredo Mantovano ha detto subito in maniera esplicita che “il testo non è blindato” e che dunque sarà suscettibile di modifiche in parlamento. L’obiettivo, difficile ma in astratto non impossibile, è di arrivare alla maggioranza di due terzi che eviterebbe il referendum costituzionale sul punto. Non è un dettaglio secondario, anche perché il popolo italiano sarà chiamato a esprimere il suo parere anche su un altro cambiamento della Costituzione, “la madre di tutte le riforme” per dirla con Giorgia Meloni: il premierato elettivo. L’intenzione più o meno esplicita della premier è di far arrivare questo piatto alla fine della legislatura, perché, al di là dei proclami (“Chi se ne importa se non passa”), è chiaro che il suo futuro politico passa quasi tutto per il successo o l’insuccesso di questa riforma. Considerando poi che, sempre per esplicita ammissione della maggioranza, la riforma della giustizia verrà affrontata dopo il premierato, ecco che arriviamo alla prossima legislatura. E questo vorrà dire ricominciare da capo, perché, come quelle ordinarie, al rinnovo del parlamento anche le leggi costituzionali devono affrontare di nuovo tutti i vari passaggi formali, in commissione e in aula. A voler essere ancora più pragmatici questa scansione delle tempistiche - ammesso e non concesso che la riforma Nordio riuscirà ad andare avanti - porta l’orizzonte degli eventi a un punto lontanissimo: il 2032. Già, perché questo Csm andrà in scadenza nel 2027 e a quel punto dovrà necessariamente rinnovarsi con il mandato che scadrà cinque anni dopo. Ecco di cosa parliamo quando parliamo di riforma della giustizia: un qualcosa che a voler essere molto ottimisti sul suo successo vedremo soltanto nel prossimo decennio. Per il resto, lo scontro tra politica e giustizia prosegue sui binari di sempre, quelli delle inchieste. Una nota assai critica diffusa da Magistratura democratica sull’insolito attivismo della Commissione parlamentare antimafia in merito all’inchiesta sulle tangenti a Genova ha mandato su tutte le furie il presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri. La storia è quella dell’audizione (secretata) in commissione del procuratore di Genova Nicola Piacente, con tanto di richiesta della commissione di consegna di tutti gli atti del procedimento in corso. Un clamoroso caso di ingerenza della politica sull’attività giudiziaria, sarebbe a dire l’esatto contrario di ciò che di solito lamenta la destra. “Certi che il rispetto reciproco tra le istituzioni coinvolte sarà la cifra che caratterizzerà lo scambio di informazioni - si legge nella nota di Magistratura democratica -, non è inutile rammentare che il compito delle commissioni parlamentari d’inchiesta non è quello di giudicare, né di sostituirsi alla magistratura, nell’attività di accertamento dei fatti”. Gasparri a questo punto decide di fare la voce grossa contro le toghe rosse: “Ho deciso di scrivere una lettera al presidente del Csm, ovvero al presidente della Repubblica, su questa nota di Magistratura democratica, che definirò nella lettera a Mattarella come merita di essere definita: intollerabile”. E ancora, sempre più duro: “Chiederò una riunione dell’Antimafia su questa nota e mi riservo di valutare se rendere noti i contenuti dell’audizione, perché siamo di fronte ad un atteggiamento incredibile. Magistratura democratica si duole perché evidentemente non sono stati raggiunti gli scopi prefissati. Evidentemente qualcuno ha rivelato i contenuti dell’audizione. E allora il segreto è una buffonata? È ora di finirla con questa dittatura della magistratura che dice anche al Parlamento cosa deve fare. È un’aggressione”. Alta Corte, la musica sta cambiando. Ma a mancare è ancora una valutazione seria dei magistrati di Francesca Sabella Il Riformista, 31 maggio 2024 Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu… o meglio non solo tu. Siamo ancora lontani dalla sognata valutazione dei magistrati, ma un piccolo passo è stato fatto: gli illeciti disciplinari commessi dai magistrati non saranno giudicati solo dai colleghi e da una componente laica (decisi a tavolino e non sorteggiati come prevede ora la nuova normativa). La radio all’Anm suona bassa. La musica sta cambiando. Anzi, ci piace pensare che cambierà anche se questa “svolta epocale” richiederà tempo, troppo tempo, e probabilmente non ne vedremo la realizzazione. Ma resta una svolta culturale, questo sì. L’Alta Corte - Oltre alla separazione, sacrosanta separazione, delle carriere che imporrà al magistrato di scegliere all’inizio la funzione che intende svolgere, avviando il fondamentale processo di separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti, tra i punti della Riforma voluta da Carlo Nordio c’è la costituzione di un Alta Corte. Con le nuove norme, infatti, la giurisdizione disciplinare nei riguardi dei magistrati ordinari, giudicanti e requirenti, è attribuita alla neo-istituita “Alta Corte disciplinare”. La composizione - L’Alta Corte è composta, si legge nel disegno di legge, da quindici giudici, tre dei quali nominati dal Presidente della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di esercizio e tre estratti a sorte da un elenco di soggetti in possesso dei medesimi requisiti che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione nonché da sei magistrati giudicanti e tre requirenti estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie, con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità. Qual è la novità di questa norma che la separazione delle carriere ha un po’ offuscato? Si riduce il numero di magistrati che dovranno giudicare un collega e soprattutto si interrompe quel circolo vizioso e i componenti dell’Alta Corte verranno sorteggiati. Le differenze - Oggi l’Organo competente a giudicare è la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, composta di sei membri: un Presidente (di regola, il Vice presidente del C.S.M.) e cinque giudici (un membro laico e quattro membri togati, di cui uno proveniente dalla magistratura di legittimità, due dalla magistratura giudicante di merito ed uno dalla magistratura requirente di merito). La nuova norma, invece, riduce il vantaggio numerico dei magistrati rispetto ai laci e introduce sicuramente una garanzia: il sorteggio. Ricordiamo i numeri quando si parla della responsabilità disciplinare dei magistrati: ogni anno delle circa 1.500 segnalazioni che pervengono, oltre il 90%sono archiviate de plano dal procuratore generale della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare, senza che nessuno possa fare alcuna verifica. Sono archiviazioni che non hanno alcun vaglio. L’unico che può chiedere le copie dei provvedimenti è il ministro della Giustizia (ma non lo fa mai). Un piccolo passo - Nel 2023 sono stati 15 i magistrati condannati in sede disciplinare dal Csm. Sì, solo 15. E nel dicembre del 2022 il vicesegretario di Azione Enrico Costa denunciava che: nell’ultima legislatura i ministri della Giustizia Alfonso Bonafede e Marta Cartabia hanno verificato meno di 10 casi sugli oltre 5.000 di archiviazione disposti dal procuratore generale della Cassazione. Insomma, finora abbiamo dato i numeri. L’Alta Corte è un piccolo passo, poi però facciamone un altro: la valutazione dei magistrati. Seria, si intende. Le barricate sono pronte, ça va sans dire. Sisto: “Basta fake news: finalmente avremo un giudice terzo” di Simona Musco Il Dubbio, 31 maggio 2024 Parla il viceministro della Giustizia: con la riforma nessuno rischio di controllo politico sui pm. “L’avvocato in Costituzione tra i temi oggetto di confronto parlamentare”. “È una vittoria di Forza Italia e della coalizione. E finalmente il cittadino saprà di avere davanti a sé un giudice realmente terzo, che non ha alcuna forma di parentela con le altre parti”. Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia, è a dir poco raggiante. La neonata riforma dell’ordinamento giudiziario, che porta anche la firma del fondatore di Forza Italia Silvio Berlusconi, è “elegante ed equilibrata”, spiega, e non intaccherà per niente l’indipendenza della magistratura. L’allarmismo delle toghe, dunque, è frutto di “fake news”, aggiunge il numero due di via Arenula, convinto che un eventuale referendum non farà che rendere la conquista “ancora più bella”. L’ok del Consiglio dei ministri alla separazione delle carriere segna un primo punto per la realizzazione di un vecchio sogno di Berlusconi. Crede che si riuscirà ad evitare il referendum e a portare a casa la riforma nel più breve tempo possibile, visti i tempi necessari per una riforma costituzionale? Con il ministro Nordio abbiamo costruito il trampolino e ora, partendo da qui, bisogna fare un salto, di qualità e quantità, che consenta alla riforma di diventare Costituzione. I tempi sono, ovviamente, nelle mani del Parlamento, ma siamo abituati ad affrontare queste sfide, belle perché nello stretto interesse dei consociati. Abbiamo ovviamente l’obbligo di dare il massimo. E qualora si arrivasse al referendum sono convinto che si rafforzerà il convincimento della bontà della nostra scelta. Se questa ratifica dovesse arrivare dai cittadini sarebbe ancora più bello, davvero meraviglioso. L’Anm lamenta, tra le altre cose, il rischio di trasformare il pm in un super-poliziotto. È verosimile che con due Csm si finisca per dare troppo potere ai pubblici ministeri? Non c’è nessun rischio. Con la riforma si rafforza tantissimo il ruolo del giudice, la sua strutturale terzietà, garanzia della possibilità concreta di essere imparziale nelle sue decisioni. Con questa riforma a regime, invece, il cittadino, entrando in un’aula di giustizia, sarà sicuro e rassicurato, avrà di fronte un giudice veramente terzo, diverso dalle parti, che saranno finalmente e davvero sullo stesso piano. Inoltre, sia chiaro, anche a chi non vuole ascoltare: la riforma non intacca minimamente l’indipendenza della magistratura inquirente, anzi, il testo afferma esattamente il contrario, ribadendo perentoriamente all’articolo 104 che “la magistratura è un ordine autonomo e indipendente”. Il sorteggio è davvero il rimedio per ridurre il potere delle correnti? Siete disposti a pensare, nel corso dell’iter parlamentare, ad un ammorbidimento della proposta, passando al sorteggio temperato? Il percorso parlamentare sarà sovrano, quindi è chiaro che il contributo dell’Aula sarà accolto con il necessario rispetto. Però un merito almeno ci va riconosciuto: è una riforma scritta in punta di fioretto, anche se qualcuno magari si aspettava fendenti di scimitarra: per esempio, abbiamo voluto mantenere le proporzioni attuali del Csm, parificando altresì i criteri di reclutamento dei magistrati a quelli dei laici, strutturando poi l’Alta Corte con criteri di assoluta eccellenza. Il provvedimento è ovviamente aperto, perché è giusto che sia il Parlamento il luogo privilegiato per discutere e deciderne sorti e dettagli. Mi piace rammentare che un importante elemento di questa riforma, che è l’Alta Corte, nasce da un’idea di Luciano Violante, intelligenza che di certo non può essere di certo accostata al centrodestra, a riprova dello spirito laico dell’intervento riformatore. Anche questa innovazione servirà a migliorare il tasso valoriale di indipendenza e autonomia della magistratura. È verosimile che nel corso della discussione in Parlamento venga reinserito il punto relativo all’avvocato in Costituzione, dato che la proposta convince anche Pd e M5S? Per il momento abbiamo voluto concentrarci su una riforma che riguarda l’ordinamento giudiziario; ma l’avvocato in Costituzione è uno di quei temi che saranno oggetto di discussione in ambito parlamentare. Qual è il messaggio politico con cui pensate di far valere, con gli elettori, una conquista che riguarda una materia di difficile comprensione per il cittadino comune? Il messaggio è molto chiaro: se c’è un impegno che è stato assunto nel programma condiviso con gli elettori va mantenuto, soprattutto in un settore, quale la giustizia, che Forza Italia ritiene nevralgico: un messaggio chiaro e forte. Questo è un governo che se assume un impegno fa di tutto per mantenerlo. E noi siamo convinti, ribadisco, che la giustizia sia un settore decisivo per garantire la democrazia del Paese e la tutela del cittadino, in linea con la storia di Forza Italia, da Silvio Berlusconi fino ad Antonio Tajani. Una giustizia giusta significa un Paese più giusto. E anche migliore. Ora che Forza Italia ha ottenuto questo risultato, cambia qualcosa nel rapporto tra i partiti? L’esatto contrario. Penso che ogni conquista nel rispetto del programma proposto per acquisire il consenso rafforza tutta la coalizione. Significa che insieme siamo capaci di garantire il raggiungimento degli obiettivi. È proprio questo che caratterizza la coalizione: una diversità che è capace sempre di maggiore unità. E questo, ovviamente, rafforza la capacità di governare. “La riforma Nordio? Importante ma non epocale. Non vedo ostacoli all’approvazione” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 31 maggio 2024 Il giurista Sabino Cassese, candidato al Quirinale per un giorno, dà una valutazione positiva delle misure del Guardasigilli. Sui tempi dell’iter di approvazione è possibilista: “Una maggioranza in Parlamento ci sarebbe”. Ed è urgente “contrastare la trasformazione dei magistrati delle procure in giudici della virtù e della morale” e della moralità: ora va sciolto il grumo di potere costituito dal sistema correntizio”. Il tentativo di riformare tramite annunci elettorali a presa rapida quel ginepraio di poteri che è il sistema-giustizia suscita qualche legittima perplessità, Mettere mano alla giustizia in modo serio e profondo richiede passaggi che, avendo la magistratura associata già preannunciato battaglia, si prevedono lunghi. Professore, è davvero “una riforma epocale”, il pacchetto delle tre riforme Nordio? “Una riforma importante, ma non epocale. Adegua l’assetto della magistratura alla riforma Vassalli, ponendo le condizioni per assicurare la terzietà del magistrato giudicante rispetto alle altre due parti, l’accusato e l’accusatore. È quindi importante per perché rende coerente l’assetto organizzativo con quello funzionale, ma non epocale perché il problema più importante è quello dei tempi della giustizia e quindi dell’enorme arretrato, al quale bisogna provvedere, innanzitutto da parte degli attuali circa 10 mila magistrati, assicurando che facciano davvero i magistrati e non gli amministratori, e aumentandone il tasso di produttività”. L’iter in Parlamento non è scontato, i tempi saranno lunghi. Le incertezze tante. Sarà solo un annuncio o ne vedremo l’approvazione? “Lei mi chiede di fare l’indovino, un mestiere per il quale non sono preparato. Posso solo dirle che non vedo ostacoli gravi all’approvazione e che auspico non solo che venga approvato, ma che venga approvato con una maggioranza di 2/3 del Parlamento, in modo da non avere i tempi supplementari del referendum”. La separazione delle carriere è un caposaldo di civiltà giuridica. Perché qualcuno, come Anm, parla di “scopo punitivo” e fa muro contro la riforma? “Ripercorriamone brevemente i capisaldi. Previsione di due Consigli superiori della magistratura con lo stesso tasso di indipendenza. Previsione di un’Alta Corte disciplinare nella quale prevalgono nettamente i 9 rappresentanti dei magistrati. Possibilità di impugnare le decisioni dell’Alta Corte disciplinare alla stessa Corte, evitando così il Consiglio di Stato e aumentando la giurisdizione domestica. Introduzione del sorteggio per scegliere i 2/3 dei magistrati che fanno parte dei due Consigli superiori della magistratura e i 9 magistrati che faranno parte dell’Alta Corte disciplinare. Il vero effetto di questa riforma è quello riassunto a pagina 4 di un libro di una studiosa dell’Università di Roma, Astrid Zei, intitolato “Il diritto e il caso. Una riflessione sull’uso del sorteggio nel diritto pubblico” (Jovene 2023), che esamina i motivi dell’introduzione del sorteggio nel diritto pubblico in generale, concludendo che questo “lungi dal rappresentare una rinuncia alla razionalità, esprime una peculiare razionalità che si contrappone alla forza del numero al fine di scongiurare l’occupazione delle cariche da parte di maggioranze precostituite”. Questo libro illustra molto chiaramente l’uso del sorteggio che è stato fatto nell’antica Grecia, il dibattito che nell’Atene di Pericle si è svolto su questo tema, le riflessioni di Aristotele, fino a illustrare il modo in cui il sorteggio è stato adoperato in epoca più recente, moderna, per la scelta dei coscritti o per l’accesso alle facoltà a numero chiuso. Il sorteggio è ancora oggi adoperato ampiamente in molte circostanze, specialmente nell’ordinamento universitario, ed ha una sua spiegazione proprio quando si vuole evitare che maggioranze precostituite possano fare blocco ed esercitare la forza del numero”. Sarebbe auspicabile un ruolo costruttivo da parte dei magistrati, non è venuto il momento per deporre l’ascia di guerra, da parte di Anm, ogni qualvolta si mette mano a un riordino della giurisdizione? “Purtroppo siamo abituati da tempo a questa guerriglia interna allo Stato, di corpi dello Stato che si comportano come gruppi di interesse nei confronti di quello stesso Stato di cui debbono attuare le leggi. Tutto questo avviene non solo per l’aggressività dei magistrati combattenti, raccolti al vertice delle correnti, ma anche perché altri corpi dello Stato non hanno esercitato tutti i loro poteri, applicando il principio del mercato, il “laisser faire”, anche allo Stato”. I due CSM, uno per ciascuna delle due magistrature, sono una conseguenza logica della separazione delle carriere? “Certamente due Consigli superiori della magistratura, ambedue con lo stesso tasso di indipendenza, tengono conto della preoccupazione, che non è solo dei magistrati, di assicurare la più completa indipendenza dei magistrati. Aggiungo che questa stessa indipendenza è purtroppo messa in dubbio dai troppi magistrati che lavorano al servizio del governo, nel ministero della giustizia e in quasi tutte le strutture pubbliche, nonché in organi rappresentativi”. L’Alta corte che giudica i magistrati, sostituendo la sezione disciplinare del CSM, può servire a dare del loro operato un giudizio terzo? “L’Alta Corte rappresenta un grosso progresso perché, composta di una maggioranza di magistrati, sei giudicanti e tre requirenti, estratti a sorte, è un organo che può svolgere anche la funzione di appello e quindi rafforza il carattere domestico della giustizia disciplinare, così mettendo nelle mani degli stessi magistrati ordinari un compito che oggi è svolto dal Consiglio di Stato. Questo, come è noto, è più volte intervenuto modificando decisioni prese dal Consiglio superiore della magistratura. Mi sembra un passaggio importante, forse non sufficientemente apprezzato dai magistrati combattenti”. Certo ci sarebbe poi da mettere mano al fascicolo di valutazione dei magistrati … “È un capitolo importante, nel quale le prassi seguite dal Consiglio superiore della magistratura non sono purtroppo molto diverse dalle prassi seguite in tutto il settore pubblico: non c’è una valutazione. Se quasi il 100 per cento ottiene una valutazione positiva, è come se un professore promuovesse tutti i suoi allievi, per di più dando quasi sempre il massimo dei voti”. Il ministro Nordio questa volta fa sul serio, la politica secondo lei coglierà l’occasione? “Mi chiede una seconda volta di fare l’indovino. Posso auspicarlo, non affermarlo, anche perché la situazione che si è venuta a creare in questi decenni, prodotta dalla riduzione delle immunità previste dalla Costituzione, dalla creazione del circuito mediatico e dalla trasformazione dei magistrati delle procure in giudici della virtù e della moralità farà sorgere molti dubbi nello stesso corpo politico che si trova davanti al compito di sciogliere il grumo di potere costituito dal sistema correntizio, togliendo ad esso il peso che oggi ha, compreso quello di parlare a nome di tutti i magistrati”. Stefano Musolino: “Così il governo ci umilia, ma lo sciopero non serve” di Valentina Stella Il Dubbio, 31 maggio 2024 “L’auspicio è che, passata la tornata elettorale, la politica torni ad ascoltare i nostri argomenti e riveda questo duro colpo all’assetto della magistratura. sarei favorevole a una norma che richiami l’avvocato in costituzione”. Approvazione del ddl costituzionale su separazione delle carriere e Alta Corte. Ne parliamo con Stefano Musolino, segretario di Magistratura democratica. Meloni dice che non è una riforma punitiva... Invece lo è. Umilia la magistratura perché, introducendo il sorteggio per selezionare i componenti togati del Csm, presuppone che i magistrati siano amorfi, che non ci siano differenze di sensibilità professionale, culturale, di attitudini. E finisce per svilire anche il ruolo dello stesso Csm, considerandolo alla stregua di un organo burocratico, indifferente alla sua composizione fisica anziché un organo di rilievo costituzionale i cui componenti sono chiamati a esercitare complesse scelte di politica giudiziaria, molto incidenti sulla giurisdizione e sui diritti dei cittadini che con questa si confrontano. Il sottosegretario Mantovano ha detto che l’obiettivo della riforma è anche “ridimensionare il ruolo delle correnti, unici veri partiti rimasti sul campo”... I gruppi associativi sono uno strumento di condivisione e confronto tra i diversi modi di interpretare il ruolo di magistrato e sono essenziali per un migliore e più consapevole svolgimento della professione. Non è un caso che, irritato dalla presenza di un dibattito associativo nella magistratura, il regime fascista sciolse l’Anm. Però bisognava in ogni caso individuare un rimedio al sistema correntizio delle nomine... Le riforme in materia di selezione dei direttivi e semi- direttivi hanno introiettato nella magistratura il carrierismo: un pericoloso veleno capace di inquinarne, sostanzialmente, il volto costituzionale. Per questa ragione, in vista della imminente riscrittura del Testo unico su questa materia, Md ha proposto nuove modalità di selezione volte a rendere le nomine più trasparenti, comprensibili e prevedibili. È una proposta che tutela l’autorevolezza costituzionale del Csm e impedisce che l’associazionismo dei magistrati, da momento di indispensabile confronto culturale, si trasformi in strumento di gruppi affamati di potere, per come drammaticamente registrato dalla nota indagine perugina. Chi ha pensato al sorteggio, anche temperato, ritiene che così il potere delle correnti svanirebbe... La logica dell’uno vale uno che fonda tutte le ipotesi di sorteggio ha avuto una sperimentazione recente nella politica parlamentare, e mi pare che ne abbia registrato il fallimento. Non si capisce perché si vorrebbe che questo fallimento venisse esteso anche alla magistratura. Secondo lei si andrà verso lo sciopero dell’Anm? Credo che questo sia solo l’inizio di un lungo confronto che animerà il dibattito parlamentare e quello pubblico. A me pare che lo sciopero sarebbe un’iniziativa affrettata. Noi auspichiamo che anche la magistratura sia chiamata a partecipare al dibattito per mettere in evidenza le molte deficienze e problematiche della riforma. Il viceministro Sisto avverte: “Tutti devono rispettare il Parlamento e le sue decisioni”... Che sia il Parlamento a promuovere le norme e le riforme ne siamo consapevoli, tanto è vero che chiediamo un confronto affinché tutti gli attori istituzionali e soprattutto i cittadini siano consapevoli di quali sarebbero le conseguenze di queste scelte riformatrici. Ma confronto vuol dire quindi che c’è uno spazio di negoziazione? No, non c’è. L’augurio è che, passata la tornata elettorale, la politica torni ad ascoltare i nostri argomenti e possa così rivedere queste scelte che incidono sull’assetto costituzionale della magistratura. Intaccarne l’attuale equilibrio significa pregiudicare la possibilità dei magistrati di tutelare i diritti dei cittadini. Però Tajani dice che finalmente i cittadini potranno avere un giusto processo... Prima di fare simili dichiarazioni dovrebbe confrontarsi con i numeri. Il processo giusto già c’è: i tassi di assoluzione nel nostro Paese sono molto alti, a dimostrazione di un mancato appiattimento del giudice alle richieste del pm. Inoltre il numero di passaggi tra una funzione e l’altra è minimo. Non capiamo dunque su cosa si basino certe affermazioni. Credo che alla base ci sia una mancata conoscenza reale della magistratura e dei suoi problemi. La politica è rimasta legata a una narrazione vecchia, smentita dai numeri, e perde di vista i reali problemi che affliggono la giustizia e che riguardano, prima di tutto, l’efficacia delle strutture amministrative, la mancanza di risorse, l’avvio di una seria depenalizzazione. Potrebbe non essere rassicurante, d’altronde, l’idea che i pm, separati dai giudici, si trasformino in un’armata di superpoliziotti... L’introduzione di nuove norme non regola solo una specifica fattispecie, ma ha anche un potere conformante dei comportamenti e delle scelte. Per esempio, l’introduzione nelle valutazioni di professionalità della verifica sulle percentuali di conferma dei provvedimenti ha subito generato una giurisprudenza difensiva e conservativa. La separazione delle carriere genererà un risultato analogo: escluso dal dialogo con i giudici, limitato nella sua responsabilità riguardo all’esito giurisdizionale, il pm sarà sempre più schiacciato nel ruolo di avvocato della polizia giudiziaria, piuttosto che di suo controllore a tutela dei diritti degli indagati. E mi dispiace dirlo, ma sono sorpreso che questa eclatante evidenza non sia colta dagli avvocati, che dovrebbero essere i primi tutori dei diritti delle persone coinvolte nel processo. Avvocato in Costituzione. Sareste stati favorevoli? Io riconosco il ruolo essenziale dell’avvocato nella giurisdizione, sebbene egli sia pur sempre il legittimo tutore dell’interesse di una parte privata. Se si ritenesse utile che questo ruolo dell’avvocato abbia anche un riconoscimento costituzionale, sarei favorevole. Antonio Di Pietro: “Bene le carriere separate, meglio il sorteggio delle correnti” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 31 maggio 2024 L’ex pm: critiche ipocrite. Anche la Carta prevede un giudice terzo. Non è la riforma della giustizia per la quale basterebbero più uomini, più mezzi e più strutture. Non c’azzecca niente. È la riforma della magistratura. Ciò detto, vedo tanta ipocrisia in chi la critica. Perché? “Una volta imboccata la strada del sistema accusatorio con il nuovo codice di procedura penale non c’è dubbio che debba esserci un giudice terzo che non ha nulla a che spartire né con il pm né con i difensori. È previsto dell’articolo 111 della Costituzione e bisogna rispettarlo senza lagnarsi in continuazione”. Ma la separazione delle carriere non è già nei fatti? “Il tema non è questo. Ma il principio per cui accusa e difesa debbano confrontarsi alla pari con gli stessi strumenti a disposizione di fronte a un giudice terzo. E ciò deve non solo essere ma apparire così”. Ma il pm non trova anche prove a favore della difesa? “Così dovrebbe essere ma spesso non è così. Ed è ipocrita non volerlo ammettere. Le indagini, per definizione, si fanno per trovare i colpevoli perché c’è stato un reato. Piaccia o non piaccia (e a me non piace), spesso invece assistiamo a indagini a strascico su questo o quel personaggio per cercare qualcosa di cui incolparlo mentre si dovrebbe procedere solo dopo che si ha la certezza che un reato è stato commesso”. Ma lo dice proprio lei che è stato accusato di farlo? “Mi accusavano di averne arrestati troppi. Ma io li ho presi sempre con le mani nel sacco e non ho mai fatto retate a strascico sperando di prendere qualche pesce nella rete. Ora spesso vediamo retate con decine se non centinaia di inquisiti e alla fine rimangono nella rete solo pochi pesci e gli altri, accusati ingiustamente, intanto sono morti asfissiati civilmente. È successo anche a me. Certo poi sono stato prosciolto e chi mi accusava è stato condannato ma nel frattempo mi sono dovuto dimettere prima da magistrato e poi da ministro”. L’Alta corte disciplinare? “Mi sembra il minimo sindacale. Ben venga”. Perché? “La giustizia domestica non dà garanzie. Un giorno io favorisco te e un altro tu favorisci me. Anche se non sempre accade resta il dubbio che tra compari ci si accasa. E viene meno la fiducia dei cittadini nella giustizia. Vale non solo per i magistrati ma anche per i parlamentari, i i giornalisti e ogni categoria ove i conti si regolano all’interno del proprio organismo invece che da parte di un giudice terzo”. Le piace anche il sorteggio? “Certo. Meglio il sorteggio che il voto di scambio! Cosa avveniva al Csm ce l’ha spiegato l’ex presidente Anm Palamara. Semplicemente perché lui è stato intercettato. Ma chissà quanti altra Palamara ci sono stati che si scambiavano nomine: alla tua corrente va il posto di procuratore capo in quella città e all’altra corrente va quello di presidente del Tribunale nell’altra. L’idea stessa che vi siano delle “correnti” nella magistratura fa a cazzotti con l’immagine di terzietà e indipendenza che la Costituzione ha assegnato ai magistrati”. E il sorteggio va fatto tra tutti i magistrati? “Sì, perché si pone un freno al correntismo che pervade la magistratura da decenni. Se, poi,un sorteggiato non vuole l’incarico può sempre rinunciarvi. Ma se uno ha vinto un concorso da magistrato e può decidere della vita di una persona perché non può stare all’interno di un organo collegiale composto da una decina di persone, quale è il Csm? Perché deve avere il preventivo viatico di una delle correnti della magistratura?”. La vede come Berlusconi? “Basta prendere a pretesto Berlusconi per impedire di affrontare i problemi. Berlusconi è morto. Pace all’anima sua. Criticare i provvedimenti utilizzando sempre lui o Craxi, pro o contro, mi sembra antistorico e anche un po’ auto-assolutorio. Si può andare avanti guardando in faccia la realtà di oggi o dobbiamo ancora far finta che il tempo si sia fermato?”. “Correnti spacciate, con il sorteggio del ddl Nordio”. Parola di Palamara di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 31 maggio 2024 A sopravvivere, secondo l’autore de “Il Sistema”, saranno “i gruppi associativi più ideologizzati, ma i cartelli nati solo per distribuire nomine finiranno nel nulla”. Invece di riforma “Nordio”, quella sulla separazione delle carriere avrebbe potuto chiamarsi tranquillamente riforma “Palamara”. Senza il procedimento giudiziario che nella tarda primavera del 2019 travolse l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, disvelando il sistema delle nomine al Csm, molto difficilmente questa settimana il ddl che separa le carriere di pm e giudici e introduce il sorteggio per i togati di Palazzo Bachelet sarebbe stato varato dal governo. Aver intercettato il telefonino di Palamara non puntellò minimamente l’impianto accusatorio della Procura di Perugia (l’iniziale ipotesi di corruzione è stata poi derubricata nel quanto mai evanescente reato di traffico d’influenze, ndr), ma permise agli italiani - con la pubblicazione delle chat dei magistrati che, direttamente o tramite un collega, gli chiedevano una nomina o un incarico - di conoscere come avveniva realmente la selezione dei capi degli uffici giudiziari. “Fai come al solito, scegli chi deve andare e poi bandiamo il posto”, scriveva un magistrato a Palamara, allora potente presidente della Commissione Csm per gli incarichi direttivi. Si trattò della cosiddetta “autopromozione”, sdoganata dal procuratore generale della Cassazione, che se perseguita disciplinarmente avrebbe rischiato di azzerare i vertici di almeno 2- 300 uffici giudiziari. La riforma Cartabia, nata allora per stoppare il “mercato” delle nomine al Csm e togliere potere alle correnti che il mercato lo alimentavano, alla prova dei fatti ha prodotto l’effetto contrario, rafforzando ancora di più i gruppi associativi. Infatti, con l’eccezione dell’indipendente Andrea Mirenda, tutti gli attuali componenti togati sono esponenti delle varie correnti dell’Anm. Ma, si badi bene, la responsabilità di ciò non è dei diretti interessati. Con i macro collegi previsti dalla riforma Cartabia, senza una corrente di riferimento alle spalle, era praticamente impossibile per un candidato privo di “casacca” farsi conoscere dai colleghi e chiedergli il voto. Su queste dinamiche Palamara, rimosso dalla magistratura dopo un turbo- processo disciplinare che andrebbe preso a modello quando si discute delle lungaggini della giustizia, ha scritto due libri di grande successo con il direttore del Giornale Alessandro Sallusti. “Il mio non è stato e non sarà mai un racconto contro la magistratura ma un modo per squarciare il velo di ipocrisia che spesso caratterizza il palazzo del potere”, ricorda Palamara, che ha voluto “sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della giustizia, che interessa la vita dei cittadini e per il quale occorreva individuare uno schema di rottura”. E adesso? Adesso, ammette Palamara, “la strada è segnata: il sorteggio è la fine della correntocrazia, e permetterà di far nascere una nuova classe dirigente di magistrati”. Sarebbe questo dunque l’effetto della rottura totale prevista dal ddl costituzionale di Nordio con il sorteggio integrale dei togati al Csm. Ma cosa accadrà alle correnti? “Il loro spazio - risponde - si ridurrà inevitabilmente, e rimarranno solo quelle più ideologizzate o strutturate: i cartelli elettorali che abbiamo visto in questi anni, nati solo per ottenere incarichi, cesseranno la loro funzione. Ovviamente il percorso sarà accidentato e tortuoso”, spiega l’ex presidente dell’Anm, “e solo dopo le elezioni europee saremo in grado di verificare il grado di accelerazione che la politica vorrà dare per realizzare la riforma. Ma invito alla cautela: è già accaduto nel 2011 che una riforma costituzionale non abbia sortito alcun effetto”, ricorda Palamara. La reazione durissima dall’Anm alla riforma nasconde anche il timore, conclude Palamara, che “l’organo inquirente possa perdere il suo ascendente su chi è chiamato a giudicare e poi a emettere la sentenza. Una situazione che, dal ‘ 92, in qualche modo ha condizionato la vita politica e giudiziaria, e che ha alimentato la sinistra giustizialista”. Riguardo al sorteggio, su Questione Giustizia, la rivista di Magistratura democratica, è apparso ieri un articolo del direttore Nello Rossi. Molto critico con la riforma, Rossi argomento: “Le delicate funzioni istituzionali saranno affidate a magistrati che, per essere stati selezionati dalla mera sorte, non avranno alcun punto di riferimento se non la cerchia delle persone direttamente conosciute o il territorio in cui operano, e non si sentiranno direttamente responsabili nei confronti della generalità degli amministrati”. A sostegno della propria tesi, Rossi cita un’altra autorevole toga di Md, Valerio Savio, secondo il quale il consigliere estratto a sorte “sarebbe una monade svincolata da ogni responsabilità politica e di gruppo, senza retroterra e senza punti di riferimento pubblici, e potrebbe rapidamente, e stavolta non più patologicamente ma fisiologicamente, diventare il terminale di una lobby personale, di una rete di relazioni che non fa capo in chiaro a un riconoscibile e visibile gruppo associativo”. Un giudizio non proprio lusinghiero nei confronti dei colleghi. Un magistrato, da solo, può dare 30 anni di prigione e non può in un organo collegiale decidere chi dovrà essere il presidente del Tribunale di Pozzolo Formigaro? Il compito del togato Csm, sulla carta, dovrebbe essere ontologicamente assai meno importante di quello di chi pronuncia una sentenza. A meno di non voler affermare che non tutti i magistrati siano in grado di esercitare le importanti funzioni assegnategli per legge. Ma questo è un altro discorso. Milano. Quindici detenuti trasferiti dal Beccaria: celle inagibili dopo la notte di protesta di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 31 maggio 2024 Sala chiede l’intervento del governo, i sindacati insistono sulle croniche carenze di personale. Una quindicina di detenuti del carcere Beccaria di Milano saranno trasferiti dopo le proteste scoppiate mercoledì pomeriggio e andate avanti fino all’una di notte. Un provvedimento simile a quello deciso a inizio maggio dopo un incendio all’interno dell’istituto, che difficilmente - a giudicare dalle voci che emergono dall’interno del minorile - servirà a rendere il clima più sereno. I sindacati di polizia denunciano la carenza cronica di personale. E la politica litiga, con il sindaco Beppe Sala che chiama in causa il governo mentre l’esecutivo rivendica le azioni già messe in atto per migliorare la situazione. La dinamica del pomeriggio di tensione andato in scena l’altro ieri è confermata: la protesta sarebbe scoppiata dopo dei controlli antidroga con i cani effettuati all’interno delle celle. A complicare la situazione, il provvedimento di isolamento nei confronti di un detenuto che aveva provocato un agente. I trasferimenti sarebbero necessari non solo per motivi disciplinari ma anche perché alcune celle sono inagibili. Sullo sfondo, il clima avvelenato dall’inchiesta sulle torture in carcere che a fine aprile ha portato all’arresto di 13 poliziotti e alla sospensione di altri 8. Per le fonti più vicine alla penitenziaria, l’indagine avrebbe instillato una sorta di “senso di impunità” nei detenuti, forti del fatto che le divise sono più restie a intervenire per evitare problemi. A sentire i pareri diametralmente opposti, l’esasperazione di ogni evento complicato al Beccaria sarebbe funzionale a dimostrare che il problema sono loro, i detenuti. Del resto, oltre a invitare a parlare di “protesta” e non di “rivolta”, il presidente dell’associazione Antigone Patrizio Gonnella arriva al punto: “C’è un problema di comprensibile mancanza di fiducia verso l’istituzione. Le proteste vanno affrontate con il dialogo, lavorando per ripristinare quella fiducia, fondamentale tra custodi e custoditi”. Ma chi deve ripristinarla? “Abbiamo bisogno di personale in pianta stabile”, scandisce più volte Alfonso Greco del Sappe. Tra chi non vuol andare al Beccaria, e chi fa domanda per andarsene, il problema sembra essere, se possibile, ancora più serio. C’è chi parla di un “fuggi fuggi” e snocciola cifre informali: su una cinquantina di agenti presenti (su settanta previsti), venti sono in servizio grazie ai rinforzi temporanei mandati da Roma. Il governo deve intervenire “necessariamente”, avverte il sindaco Sala. “In poco meno di 18 mesi, questo governo ha fatto per il Beccaria più di quelli che lo hanno preceduto negli ultimi 10 anni”, ribatte il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, “soffiare sul fuoco non aiuta né gli agenti, né gli educatori, né i detenuti”. Il problema è chi, e come, è può spegnere l’incendio. Brescia. Per Canton Mombello è stato un altro anno da dimenticare di Antonio Borrelli Giornale di Brescia, 31 maggio 2024 I detenuti hanno parlato di celle più chiuse e meno telefonate davanti a una commissione comunale. “Tutti i detenuti vengono formati per le mansioni più richieste dal mercato del lavoro”, “qui ci sentiamo sicuri e condividiamo con tutti le risorse che abbiamo a disposizione”, “sto facendo un percorso in un ambiente che mi rende fiducioso e disponibile”. Le voci dei detenuti di Canton Mombello - che disegnano uno scenario distopico e ideale, il carcere desiderato da chi tra quelle mura e quelle sbarre ci trascorre pezzi di esistenza - sono rotte ma dignitose. Fatte di sofferenza e di solitudine ma anche di consapevolezza che i propri diritti contano, che contano essi stessi, che la pena deve essere scontata ma in un’ottica riabilitativa. Davanti a una platea d’eccezione (composta dai consiglieri della Commissione Servizi alla persona della Loggia e dalla sindaca Laura Castelletti, da operatori e mediatori), nel teatro della casa circondariale di Brescia i detenuti hanno voluto rivendicare i propri diritti, che sono poi quelli universali, immaginando un carcere diverso da quello di Canton Mombello, ma diverso da qualunque carcere italiano. Nel quale le persone recluse possano lavorare e occupare il proprio tempo, essere assistite anche psicologicamente e mantenere quel legame fondamentale con la società e la comunità di riferimento. L’occasione è stata la celebrazione della Giornata internazionale dei diritti dell’uomo, nella quale la garante dei detenuti Luisa Ravagnani ha presentato il bilancio dell’anno tra qualche luce e tante ombre: “In un anno sono cambiate tante cose - spiega Ravagnani sintetizzando la propria relazione, dedicata alle due vittime di morte naturale a Canton Mombello nel 2023 -. Siamo tornati al vecchio regime delle telefonate, molto più svantaggioso rispetto a quello attivato durante l’emergenza Coronavirus, e al regime di celle chiuse per la media sicurezza, con la possibilità di essere aperte otto ore al giorno”. Cambiamenti peggiorativi (se si considera che buona parte della giornata viene gestita in celle chiuse, sovraffollate e strutturalmente inidonee), “che sono stati comunque vissuti in maniera dignitosa e costruttiva da parte dei detenuti, i quali stanno tentando di utilizzare il tempo al meglio”. E lo dimostra il progetto sui diritti umani che ieri si è trasformato in uno spettacolo di musica e parole. “Hanno lavorato a lungo in queste settimane, riflettendo su cosa vuol dire pensare ai diritti umani qua dentro e cercando di capire cosa si può fare da qui”. Il progetto assume ancor più valore proprio perché nasce e si sviluppa entro le vecchie e anguste mura del “Nerio Fischione”, una delle Case circondariali peggiori d’Italia. “Il sovraffollamento della popolazione penitenziaria in questo istituto strutturalmente inadeguato incide sulla vita dei ristretti, su chi ci lavora e su tutti coloro sono costretti ad interagirvi - continua Ravagnani -. Qui, come altrove in Italia, non si vuole prendere in considerazione il fatto che non si possa gestire questi numeri. Oggi in Italia abbiamo superato quota 60mila detenuti, non c’è altro da aggiungere”. La speranza passa tutta dal maxi-progetto del nuovo penitenziario bresciano, atteso da tempo. Dal teatro di Canton Mombello la promessa di un nuovo passo viene ribadita dalla sindaca Castelletti: molto presto tutte le istituzioni civili, giudiziarie e sociali interessate si siederanno intorno a un tavolo per sviluppare il progetto. La Spezia. Allarme sovraffollamento: “A Villa Andreino due piani chiusi dal 2022” di Claudio Masseglia La Nazione, 31 maggio 2024 Ufficialmente i posti sono 152, in realtà 90 ospitano gli attuali 155 detenuti. “Il problema c’è, ma meno grave che in altri istituti”. La sinergia fra varie realtà istituzionali e professionali per migliorare la situazione. “Più attività ricreative e di reinserimento”. È una piccola città nella città, dove troppo spesso la vita è tutt’altro che facile, sia per chi ci finisce dentro causa errori commessi lungo il suo percorso di vita, sia per chi ci lavora. L’allarme sulla situazione delle carceri italiane è stato lanciato nel marzo scorso dal presidente della Repubblica Mattarella, a fronte del numero di suicidi nelle case penitenziarie di un po’ tutta Italia. Persone di tutte le età e nazionalità, uomini e donne, che non hanno retto all’urto della detenzione. A questi si aggiungono anche i quattro agenti della polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Da qui il richiamo al rispetto della Costituzione “e di chi negli istituti carcerari è detenuto o vi lavora” le parole del Capo dello Stato. Allarme recepito in tutta Italia con un fermo richiamo a muoversi per contrastare il problema: nelle scorse settimane l’amministrazione spezzina ha nominato il garante comunale delle persone private della libertà affidando l’incarico a Agostino Codisposti, per 40 anni operatore all’interno del carcere. Un primo passo insieme alla richiesta di interventi urgenti per migliorare le condizioni detentive, istanze avanzate insieme alla Conferenza dei garanti, magistrati di sorveglianza, camera penale e Associazione italiana giovani avvocati, unite sotto l’egida del motto ‘Indignarsi non basta più’. Punto primo, mettere fine al dramma dei suicidi in carcere: sono già 36 dai primi mesi dell’anno (nessuno a Spezia), quasi tutti da parte di chi era ormai vicino alla fine pena. Questo perché “non si sentivano pronti - spiega il presidente della Camera penale di Spezia Fabio Sommovigo - ad affrontare cosa li avrebbe attesi fuori dalle mura”. Da qui la necessità di organizzare attività all’interno del carcere, la possibilità di lavorare o frequentare corsi professionali. “Chi accede a un lavoro in carcere - sottolinea Gaetano Brusa presidente del tribunale di Sorveglianza di Genova - ha una possibilità di recidività di reati ridotta al 2%”. Di grande importanza anche i corsi professionali “accolti dai detenuti - aggiunge Doriano Saracino, garante regionale della Liguria per i diritti delle persone sottoposte a misure restrittive - come un importante strumento in più per quando torneranno in libertà”. La proposta da parte della Conferenza dei garanti è di mettere a disposizione dei detenuti “progetti di inclusione socio-lavorativa, attività culturali, ricreative e relazionali”. Altro tema spinoso sul tema carceri è il sovraffollamento, argomento che tocca anche Villa Andreino seppure con problematiche meno gravi rispetto ad altre realtà italiane. Ufficialmente la struttura di via Fontevivo ha a disposizione 152 posti, i detenuti presenti sono 155 “ma in realtà - sottolinea Saracino - i posti a disposizione sono solo 90 in quanto due piani sono chiusi dall’estate 2022. Una ‘situazione provvisoria’ che però va avanti da un bel po’”. Inevitabile così qualche “episodio di sovraffollamento in alcune celle, seppur con un numero limitato di detenuti: non abbiamo casi di maxi-celle da 8 persone, i numeri sono inferiori”. Di sovraffollamento negli ultimi tempi hanno parlato a più riprese anche le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria. “Il problema c’è - dice Saracino - ma in misura minore rispetto ad altri istituti”. “Servono un impegno - le parole del sindaco Pierluigi Peracchini e dell’assessore Manuela Gagliardi - per andare incontro anche chi in carcere ci lavora”. “Alle istituzioni - la chiosa di Saracino - chiediamo più tutele per i detenuti soprattutto ora con l’arrivo dell’estate, del caldo e il calo delle attività”. Pozzuoli (Na). Carcere evacuato, l’odissea delle famiglie delle detenute trasferite fuori regione di Gaia Martignetti fanpage.it, 31 maggio 2024 Dopo le scosse ai Campi Flegrei, il carcere di Pozzuoli è stato evacuato. Alcune delle detenute sono state trasferite fuori regione. Una delle famiglie a Fanpage.it: “Vogliamo torni a Napoli. “Del terremoto ho saputo dalla televisione. Ho pensato che mia figlia poteva pure morire”. A parlare è la madre di una delle detenute che il 20 maggio 2024 erano recluse nel carcere di Pozzuoli, mentre si registrava la scossa più forte degli ultimi 40 anni. Tutta la popolazione puteolana quella sera fuggiva in strada, queste donne altro non hanno potuto fare che attendere, fuori dalle celle, in uno spazio comune, che tutto finisse. Con loro c’era il personale che le assiste ogni giorno. Le famiglie in parte sono state avvisate, altre, come quella che ha parlato con Fanpage.it nei momenti successivi, ha chiamato il carcere per accertarsi stessero bene. La casa circondariale di Pozzuoli è una delle quattro realtà in Italia dedicate a una platea completamente femminile. Ecco perché quando il giorno dopo le scosse è stato deciso di evacuarlo totalmente, sono partite le prime proteste, seppur silenziose. Alcune detenute sono state destinate in altri istituti della Campania. Secondigliano, Lauro, Santa Maria Capua Vetere, Benevento e Belizzi Irpino. Un disagio non previsto dalle famiglie che è sentito con maggiore forza da quelle trasferite fuori regione: a Perugia, Milano e Venezia. La situazione bradisismica dei Campi Flegrei è nota da tempo, non settimane, mesi, ma anni. A sottolinearlo a Fanpage.it è il Garante dei Detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello. “In quell’area ci sono stati vari incontri anche nel carcere, quindi un’organizzazione, un’idea progettuale in caso di evacuazione, doveva essere collocare le detenute in un solo carcere, in un solo posto. Insisto per dire che bisognava prevenire piuttosto che vivere l’emergenza”. Le detenute trasferite fuori regione sono diverse. Una ragazza che si trova in un carcere del nord ha sentito la famiglia con difficoltà. La sorella continua il suo racconto a Fanpage.it. Spiega di aver chiamato tutte le carceri che poteva chiamare per capire dove fosse, preoccupata per la sua congiunta. “Deve scontare la sua pena, ma gli avvocati costano, vogliamo torni a Napoli”. Trasferire le detenute fuori la Campania significa, prosegue la famiglia, non solo privarle del supporto del territorio, ma anche aggiungere spese di trasferimento per la difesa e gli incontri con gli avvocati. La famiglia di una delle detenute che ha parlato con Fanpage.it spiega di aver accompagno la giovane a costituirsi all’epoca, per poter affrontare un percorso di recupero e reinserimento. “Erano in programma permessi, licenze, possibilità di affidamento in prova e queste detenute dipendevano da un unico magistrato, il Dottor Eboli. Come c’è anche la continuità del magistrato di sorveglianza?”, spiega Ciambriello. Il Garante ha anche scritto al capo del Dap per spiegare la situazione che stanno vivendo non solo le detenute e le loro famiglie, ma la polizia penitenziaria, gli educatori e tutto il personale che era coinvolto nella gestione del carcere di Pozzuoli. “Ho chiesto una risposta unica”. Quello che invece chiede la mamma di una delle detenute, è una cosa semplice: “Voglio che mia figlia torni a Napoli, voglio vedere mia figlia come sta tutte le settimane”. Un appello a vedere le conseguenze umane e non solo quelle burocratiche arriva anche dal garante: “Se nell’emergenza vediamo le persone dietro le carte e non i reati, allora probabilmente diminuiranno le persone in carcere”. Massa Marittima (Gr). Detenuti, lavoro in diocesi per andare oltre la pena di Andrea Bimbi toscanaoggi.it, 31 maggio 2024 La convenzione stipulata tra la Casa Circondariale di Massa Marittima, nella persona del direttore Maria Cristina Morrone, e il seminario vescovile - Casa per ferie “Mater Ecclesiae”, firmata lo scorso 15 maggio, “è frutto di un lavoro di tanti anni, nei quali, insieme al vescovo della diocesi mons. Ciattini, abbiamo incessantemente intessuto relazioni sia con l’amministrazione del carcere che con gli stessi detenuti”. È don Filippo Balducci, legale rappresentante del seminario vescovile, a raccontare il percorso che ha portato a formalizzare la collaborazione e la condivisione di comuni intenti in ordine a percorsi di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. L’accordo prevede percorsi di volontariato e lavoro in favore dei detenuti, sia presso la casa per ferie di via San Francesco a Massa Marittima, sia nelle altre strutture della Curia vescovile. “La convenzione è frutto di un processo legato alla relazione con le persone, sia nei momenti più istituzionali ma anche nelle occasioni meno convenzionali: questo ha contribuito a far emergere una serie di idee sulla base dell’idea e dell’obiettivo ultimo, che è sempre quello di servire l’essere umano. In questo caso le persone da servire sono i detenuti che stanno scontando una pena e che sono spesso sfregiati della propria dignità”, aggiunge don Balducci. Un piccolo passo nella direzione tracciata dal Vangelo e dal magistero della Chiesa: “Attraverso l’azione di reinserimento e di riqualificazione della persona, possiamo contribuire, insieme alle altre istituzioni, a ridare loro quella dignità che è andata perduta”. I detenuti avranno infatti la possibilità di reinserirsi socialmente e professionalmente attraverso lo svolgimento di diverse mansioni presso le strutture della diocesi e del seminario. “Il luogo principale dove si svolgeranno le attività saranno il Seminario vescovile e il centro di accoglienza spirituale della Casa per ferie Mater Ecclesiae. Altri luoghi saranno importanti, come per esempio gli spazi della Caritas parrocchiale al centro pastorale Donegani e della Curia vescovile” racconta Balducci. “Individueremo una serie di piccoli interventi - continua -, alcuni più puntuali altri più diluiti nel tempo, nei quali, attraverso la collaborazione tra personale e ospiti della Casa, gli ospiti potranno realizzare alcuni progetti, dal semplice intervento di manutenzione ordinaria o straordinaria, allo svolgimento di ruoli di custodia e sorveglianza dei beni che abbiamo a livello artistico, nella cattedrale, nella chiesa di Sant’Agostino o nella chiesa di San Francesco al seminario stesso. Allo stesso tempo è desiderio di favorire anche una sorta di formazione artistica che possa permettere loro di entrare in una conoscenza diretta di quella arte che ci circonda e perché no, magari qualcuno potrà in futuro diventare una guida in un percorso di fede, di culturale e di arte. Un’altra idea è quella di realizzare dei percorsi legati alle attività culinarie, sappiamo già che alcuni di loro sono davvero dei bravi cuochi: potremmo coinvolgerli nelle varie iniziative parrocchiali e diocesane per far emergere al meglio i loro talenti”. Un progetto veramente interessante, non solo per i detenuti, ma anche per la collaborazione tra diversi enti e istituzioni che si è creata sul territorio: “Siamo convinti che questo possa essere un progetto pilota per altre realtà simili alla nostra” spiega Balducci. “Nel processo che ci ha portato alla firma di questa convenzione, è molto importante evidenziare i crismi della sinodalità, questo protocollo è il frutto di un camminare insieme, di un lavoro di sinergia e soprattutto del rispetto di ogni sensibilità: il ministero della Giustizia, la diocesi nella persona del vescovo e del vicario generale, del seminario vescovile, delle parrocchie di Massa Marittima e della Caritas parrocchiale. Abbiamo camminato insieme nel rispetto dei diversi ruoli per la garanzia di un lavoro unitario, come spesso ricorda papa Francesco invitandoci sempre di più a camminare insieme, rispettando il passo e l’autorevolezza di tutti”. Il Papa stesso, infatti, mette al centro della sua azione pastorale l’attenzione verso i detenuti. “Papa Francesco - racconta il sacerdote - disse una volta a un gruppo di detenuti giunto in visita a Santa Marta: “Si sbaglia ma non si deve rimanere sbagliati”. Il desiderio da parte della diocesi e del Seminario è di non creare situazioni che pregiudicano il cambiamento, ma che lo favoriscano. Possiamo affermare che la convenzione ci permette di definire la meta dell’umano e non rimanere nel degrado, effetto dell’errore. Il magistero sottolinea sempre di distinguere l’errore dall’errante: tutti dobbiamo mettere in campo strumenti che ridiano fiducia al cuore dell’uomo che non può mai essere lasciato in una sorta di sconfitta perenne. Il cuore che si sente sbagliato deve riacquistare la misura dell’amore”. Uno degli obiettivi è quindi che il carcere e soprattutto i carcerati vengano visti in maniera diversa da parte della popolazione locale. La stessa Costituzione italiana ricorda, in uno dei suoi articoli più belli - numero 27 comma 3 - la funzione educativa delle carceri. “È una realtà - evidenzia don Balducci - che viene vista con una particolare attenzione, spesso legata alla paura, ma anche dalla volontà di voler contribuire a lenire le ferite causate dalla vita. A Massa Marittima, grazie anche al lavoro svolto dalla direttrice Morrone, il carcere è inquadrato positivamente nelle dinamiche quotidiane della città. Ma rimane sempre un carcere, c’è sempre un pregiudizio da parte delle persone. Con questa convenzione vorremmo anche far comprendere alla cittadinanza che dietro le sbarre ci sono persone che hanno sicuramente sbagliato e che per questo stanno scontando la loro pena, ma che un giorno saranno (ri)chiamate a vivere dentro la società e per questo devono essere preparati. Ritengo che questo possa essere un forte strumento di evangelizzazione”. Castelfranco (Mo). Il ristorante in carcere, cuochi e camerieri detenuti: “La nostra nuova vita” di Giorgia Decupertinis Il Resto del Carlino, 31 maggio 2024 “A cena dentro”, buona la prima nella casa di reclusione di Castelfranco. Menù dai tortellini al galletto. E le richieste superano i posti disponibili. “È l’alba di un nuovo giorno”. Mercoledì sera, nella casa di reclusione di Castelfranco (in provincia di Modena), i raggi del sole stavano in realtà tramontando, cullati dal suono dell’arpa, quando i calici si sono riempiti e la tavola è stata minuziosamente allestita, dalle tovaglie bianche fino ai più piccoli dettagli. Ma queste parole, nonostante il sole calasse alle spalle del carcere, rappresentavano in tutto e per tutto la verità: “Questa è l’alba di un nuovo giorno”. È l’alba di un riscatto, per tutti i detenuti che hanno indossato il grembiule e si sono messi ai fornelli, hanno presentato e servito i piatti, accarezzando il palato di settanta ospiti, in una speciale e tiepida serata di maggio nella quale il carcere di Castelfranco si è ‘aperto’ alla città. Un progetto, non a caso, chiamato “A cena dentro”: dentro le mura del carcere sì, ma che a primo impatto - dal servizio al menù - non ha nulla da invidiare a una “cena fuori”. Un progetto voluto, studiato, iniziato con dei corsi di preparazione nei mesi scorsi grazie al coordinamento del consorzio Modena a Tavola (e al supporto di altre realtà del territorio): diversi chef modenesi hanno così trasmesso know-how ai detenuti, utili anche per il loro futuro durante la fase di reinserimento nella società, e guidandoli anche nel corso della serata d’esordio. Competenze ora raggiunte, tanto da garantire una cena all’altezza delle aspettative (“le richieste di prenotazione da parte dei cittadini hanno superato i posti disponibili, ma recupereremo nelle prossime serate”) fino a superare, brillantemente, il primo esperimento. “Frequentando questo corso spero di dare il mio contributo - si legge tra i messaggi dei detenuti, impressi nero su bianco al fianco del menù -, con la speranza che questa nuova attività possa confermarsi nel progetto, in maniera concreta, con risultati e successi”. Anche gli stessi piatti serviti in tavola hanno voluto testimoniare un forte legame con il territorio: dal tradizionale tortellino, fino al petto di galletto, le ciliegie e i vini provenienti dai vigneti coltivati all’interno del carcere. “Il carcere deve essere una possibilità per scontare il passato sì, ma guardando al futuro - queste le parole del cardinale Matteo Zuppi, presente alla cena -. Un progetto come questo fa bene al territorio, fa bene a chi vive qui dentro. A questi ragazzi posso solo dire ‘bravi’ e di impegnarsi”. Qualcuno è visibilmente emozionato, e non lo nasconde. “Oggi non c’è un noi e un voi - dice un detenuto -. Siamo qui tutti insieme, emozionati, a vivere questa esperienza: ho la pelle d’oca”. “I detenuti hanno sbagliato sì, ma devono essere messi nelle condizioni di poter migliorare la loro posizione attraverso strumenti di crescita e di arricchimento - ha spiegato la direttrice della casa di reclusione, Maria Martone -, più rieducazione significa anche più prevenzione”. Le porte del ristorante rimarranno aperte anche nei prossimi mesi, ma solo in alcune sere prestabilite. Treviso. “Portiamo ai detenuti la forma mentale degli artigiani per le scelte future” di Elena Dal Forno Corriere del Veneto, 31 maggio 2024 Costruiscono chitarre elettriche, danno nuova vita alle vecchie biciclette e rimettono sul mercato mobili vecchi che qualcuno ha buttato via. Ma questi non sono semplici lavori. Per i detenuti del carce e di Santa Bona che hanno aderito ai progetti di Alternativa Ambiente queste attività rappresentano un nuovo senso del tempo e le basi per il reinserimento sociale e professionale. “I nostri progetti si chiamano “Claustrofobico” e “Officina del Tempo” e richiamano le due dimensioni importanti nella vita dei detenuti - spiega il presidente di Alternativa Ambiente, Marco Toffoli. L’obiettivo è quello di portare ai detenuti la forma mentale dell’artigiano per affrontare le scelte che faranno da uomini liberi”. Per rafforzare questo senso del futuro, Alternativa Ambiente ha anche deciso di aprire da domani uno spazio a Vascon di Carbonera che si chiamerà El Magazen. Qui saranno visibili i primi frutti del lavoro dei detenuti tra cui gli strumenti musicali del progetto “Calustrofobico” e le biciclette del progetto “Officina del Tempo”. Lo spazio farà anche da luogo di raccolta per chi vorrà donare strumenti dismessi, bici inutilizzate o mobili da far rivivere. “Calustrofobico” è il primo progetto del genere in Italia. Ce n’è solo un altro di simile, di strumenti musicali realizzati nel carcere di Opera con i maestri liutai di Cremona. Alternativa Ambiente ha finanziato la partenza e farà il possibile perché il “business chitarre” diventi sostenibile. Al momento i detenuti che hanno raccolto la sfida hanno già realizzato alcune chitarre e bassi di pregio che sono stati presentati in anteprima al Guitar Show di Padova accanto a quelli di 300 produttori da tutto il mondo. “Siamo interessati alle persone e alle loro capacità, sospendiamo il giudizio e ci auguriamo di poter essere il seme delle loro scelte future” aggiunge Alberto Benedetti, filosofo, musicista e responsabile del polo occupazionale dei carcerati. I detenuti che hanno aderito ai diversi progetti sono tutti regolarmente assunti, con contratti di 35 ore settimanali, 7 ore al giorno per 5 giorni. Bologna. Il recupero dei detenuti più giovani ora si fa a cavallo di Dario Amighetti Corriere di Bologna, 31 maggio 2024 Per il reinserimento sociale dei minori del Pratello ha preso in via “Slegami”: “Progetto pioneristico”. Lo sport e la cura degli animali al centro del progetto “Slegami” per il recupero e il reinserimento sociale dei ragazzi in carico al centro di Giustizia minorile del Pratello. Otto i minori detenuti o che rientrano nei percorsi di messa in prova che attualmente hanno la possibilità di partecipare un giorno a settimana, per un’ora e mezza, ad attività con i cavalli. Un percorso, questo, della durata di quattro mesi, volto a potenziare le capacità relazionali, di autoanalisi e le abilità sportive dei ragazzi con l’obiettivo di instradarli in un percorso sportivo-educativo che possa formarli e favorirne il reinserimento sociale. Il progetto - presentato ieri nella sede di Confcommercio Ascom Bologna e promosso dal gruppo sportivo dilettantistico e culturale Il Centauro, con Csi, il centro sportivo italiano comitato di Bologna e l’associazione di riabilitazione equestre il Paddock - rientra nell’alveo dell’iniziativa “Sport di tutti-Carceri” del Ministero per lo sport e i giovani. Ad oggi due ragazzi hanno già completato il primo modulo iniziato a novembre 2023 e due stanno per terminare. Gli altri quattro avranno a breve l’opportunità di intraprendere questo percorso nei prossimi mesi. “I primi risultati sono molto positivi”, ha dichiarato Maria Grassi, vicepresidente dell’associazione Il Paddock e responsabile di questo progetto della durata di diciotto mesi, partito a novembre 2023 e che terminerà a marzo 2025. “Pioneristico” l’ha definito, invece, Angela Ravaioli, presidente dell’associazione Il Centauro che ha ricordato le prime attività di recupero coi cavalli per giovani in carico alla giustizia minorile risalenti al 1996. Una volta completato il percorso i ragazzi potranno conseguire il titolo di “assistente istruttore”, così da agevolarne l’ingresso nel mondo del lavoro. In questo periodo l’attività si svolge al centro sportivo Barca, ma a fine estate si sposterà a Minerbio, dove ci saranno spazi più ampi. “La presenza del cavallo come mediatore è fondamentale per favorire una maggiore apertura nella relazione - ha aggiunto Grassi - e nell’attività diretta con gli animali riusciamo a capire molto i ragazzi, spesso di più che attraverso le parole”. Roma. Un ponte di libri dal Mediterraneo a Regina Coeli di Antonella Barone gnewsonline.it, 31 maggio 2024 “Kutub Hurra - Un ponte di libri attraverso il Mediterraneo” nasce per favorire il dialogo interculturale in carcere attraverso opportunità di lettura ai detenuti arabofoni e l’utilizzo dei libri come strumento di emancipazione culturale. Più che un progetto una sfida se le due realtà che lo hanno ideato “l’Ong Upp - Un ponte per… e l’associazione tunisina “Lina Ben Mhenni” hanno anche l’obiettivo di rendere il mare Mediterraneo da “muro orizzontale che aumenta le distanze tra una parte del mondo e l’altra” a “un mare di umanità, un ponte tra occidente e oriente, tra nord e sud”. Il ‘ponte’ raggiunge oggi la casa circondariale di Roma Regina Coeli, ma ha già toccato le carceri di Livorno, Gorgona, Pisa, Firenze Sollicciano e Padova Due Palazzi oltre al minorile di Roma Casal Del Marmo. Un bilancio attuale di circa 300 libri in lingua araba donati alle biblioteche e il coinvolgimento di circa 1000 detenuti arabofoni in laboratori interni, reading e in 10 incontri di condivisione di buone pratiche organizzati insieme ad altre 8 associazioni attive nelle varie realtà e a 4 garanti dei diritti dei detenuti. Sono stati proprio gli operatori dell’area trattamentale di Regina Coeli, dove mancano libri in lingua araba benché i detenuti potenziali fruitori siano 200, a contattare UPP per attivare il progetto. Le donazioni arrivano dall’associazione Lina Ben Mhenni e da una libreria libanese mentre, per rifornire la biblioteca dell’IPM di Casal del Marmo, è stato promosso il progetto “Libro sospeso”. “Siamo entrati lo scorso anno a Casal del Marmo con FuoriRiga, associazione che opera nel minorile di Roma e che, tra le altre cose, ne gestisce la biblioteca dal 2014- racconta Giovanna Gagliardi di Un ponte per… - Abbiamo portato una cinquantina di titoli, organizzato delle letture e fatto una chiacchierata con dei ragazzi italiani e arabofoni. Durante l’evento ci è stato illustrato il valore della lettura nel percorso di detenzione. Poi sono iniziate le donazioni anche ad altri istituti d’Italia e abbiamo creato una rete di nazionale di scambio di buone pratiche”. Una rete che continua ad allargarsi: a breve il progetto raggiungerà anche gli istituti penitenziari di Viterbo, Genova Marassi, Milano San Vittore, Napoli Poggioreale e la Casa circondariale di Padova. Cresce la casa comune del Terzo settore: 120mila iscrizioni al Registro unico di Luca Liverani Avvenire, 31 maggio 2024 Un universo che continua a crescere. Nonostante la fatica nel reperire fondi e volontari. Nonostante la mole di adempimenti burocratici. Sono oltre 120 mila gli Enti del Terzo Settore che, a dicembre 2023, si erano iscritti al Registro unico del Terzo settore (Runts). Ed è un numero ancora in crescita, se ad aprile erano arrivati già a 126 mila. Perché iscriversi è conveniente, come dimostra l’indagine campionaria su 25mila enti non trasmigrati da altri registri, ma nati negli ultimi due anni. Conviene perché apre a opportunità economiche - a partire dall’accesso al 5x1000 - migliora i rapporti con la Pubblica amministrazione e consente un maggiore accesso a fondi. A realizzare l’analisi è stato l’Osservatorio del Runts, promosso dal ministero del Lavoro e da Unioncamere sulla base di un accordo istituzionale. Il Registro unico del Terzo settore è stato istituito nel 2021 dal ministero del Lavoro con il supporto tecnico di InfoCamere, società di informatica del sistema camerale. La ricerca tratteggia anche gli identikit degli Enti del Terzo settore (Ets). Al 31 dicembre 2023, dunque, tra i 120 mila registrati nel Runts, prevalgono le associazioni di promozione sociale (oltre 52mila, pari cioè al 43,7%), seguite dalle organizzazioni di volontariato (circa 37mila, pari al 30,7%) e dalle imprese sociali (quasi 24 mila, pari al 19,9%). Complessivamente tre tipologie di Ets che rappresentano il 94,3% del totale degli enti registrati. Inferiori le le quote relative agli altri Ets (5,4%). Ma si scopre anche che la più alta concentrazione di Ets è nel Mezzogiorno (31,6%), seguito dal Nord-Ovest (23,3%), dal Centro (23,2%) e dal Nord-Est (21,9%). I dati rapportati alla popolazione residente evidenziano però una presenza relativa più significativa nell’Italia orientale (237,6 Ets per 100 mila abitanti) e in quella centrale (227,6), con il Mezzogiorno a seguire (190) e infine il Nord-Ovest (176,4). La classifica per province vede invece al primo posto Bolzano (433,6 enti ogni 100 mila abitanti), seguita da Rieti (362,9) e poi da Trento (350,6). Subito dopo Firenze, Terni e Biella (con valori compresi tra i 309,5 e i 301 enti ogni 100 mila abitanti). Solo una provincia del Sud è presente tra i primi 10: Isernia, con 295,3 enti ogni 100 mila abitanti. Oltre un quarto degli enti opera nelle Attività ricreative e di socializzazione (26,5%). Rappresentativi sono l’Assistenza sociale e la protezione civile (23,2%), le Attività culturali e artistiche (19,8%) e la Sanità (13,1%). Tra le imprese sociali, i principali settori sono Assistenza sociale e protezione civile (48,7%), Sviluppo economico e coesione sociale (30,7%) e Istruzione e ricerca (10,1%). E il 5x1000? Senza dubbio è una grande opportunità di finanziamento. Il 40,4% degli Ets (al netto delle imprese sociali) dichiara di essere accreditato al 5x1000, soprattutto Enti filantropici (73,3%), Reti associative (71,4%), Altri enti del terzo settore (61,0%) e Organizzazioni di volontariato (48,3%). Tra gli aspetti problematici degli Enti di Terzo settore al primo posto quelli di reperimento fondo (per il 45,8%), con l’autofinanziamento come scelta obbligata (per il 63,6%). Complesso anche trovare volontari (per il 34,7% degli Ets, che sale al 57,1% per gli Organismi di volontariato). E non manca la complessità degli adempimenti burocratici (per il 34,4% del totale). “Questo primo rapporto restituisce un importante patrimonio informativo su un settore rilevante della nostra struttura economica e sociale”, dice Maria Teresa Bellucci, viceministro del Lavoro e delle Politiche sociali. “La trasparenza degli enti è centrale per rafforzare il legame fiduciario che il settore deve avere con cittadini, decisori politici e istituzioni”. La democrazia muore perché non si occupa più dei lavoratori di Francesco Sinopoli* L’Unità, 31 maggio 2024 La politica lo ha cancellato dalla sua agenda. Il conflitto sociale, non esercitato dalle forze democratiche, finisce per essere conquistato dalla destra nazionalista. Per una fortunata e stimolante coincidenza, l’Unità del 23 maggio propone due articoli tra loro correlati e contigui, per le questioni evidenziate e per le analisi che vengono proposte. Mi riferisco all’intervista di Marcelle Padovani e all’articolo di Michele Prospero. Vorrei, se possibile, entrare in dialogo con loro, dal momento che temi e problemi sono analoghi a quelli di cui ci occupiamo, soprattutto in questo periodo, nella Fondazione Di Vittorio. Dove risiede la prima naturale contiguità pur avendo per oggetto due storie nazionali apparentemente differenti? Marcelle sostiene che l’Italia resta in Europa un grande laboratorio politico. Michele, analizzando l’affermazione e l’identità dell’Afd tedesca, come pericolo reale e come fascinazione collettiva dell’antipolitica di matrice neonazista, resta convinto che si tratti di un “partito popolare capitalista”, acefalo quanto si vuole, ma di certo guidato da forti interessi padronali. In realtà la riflessione sull’Europa sollecitata da Marcelle Padovani e l’analisi di Michele Prospero dal mio punto di vista conducono allo stesso esito: senza una forte spinta democratica, senza rimettere al centro della politica il lavoro e i diritti di cittadinanza sociale, le destre, anche quelle estreme, inevitabilmente finiscono per occupare tutti gli spazi possibili di governo come di opposizione. Accade nella Germania dell’Afd che punta perfino a legittimare le SS, e accade nell’Italia del 9 ottobre 2021 quando un “manipolo di camerati” (poi condannati) assalta la sede nazionale della Cgil in Corso d’Italia a Roma, e pochi mesi dopo vincono le elezioni gli eredi di Almirante. Questa deriva non avviene all’improvviso. La gabbia democratica costruita intorno al capitalismo dopo la Seconda guerra mondiale è stata scardinata anno dopo anno, utilizzando ogni crisi come un pretesto, affermando un senso comune precostituzionale, ovvero, ciò che il mercato decide è giusto di per sé. Parola d’ordine: rimercificare ciò che si era demercificato, cioè il lavoro in quanto parte della vita umana. Le rinnovate regole austeritarie della governance economica dell’Unione europea alimenteranno questo scenario. Che Europa vogliamo, se essa spinge ai margini il lavoro e le persone che lavorano, intese ormai come merce tra merci? Se spinge ai margini la conoscenza e la formazione come strumenti fondamentali per comprendere la complessità ed esercitare la cittadinanza democratica? L’alternativa alla deriva neoliberale, che Trentin vedeva chiaramente già in atto negli anni Novanta, era un paradigma produttivo fondato sulla qualità del lavoro, la centralità dell’ambiente e sull’estensione dei diritti di cittadinanza. Il suo europeismo era quello di Delors e della Strategia di Lisbona ma quell’idea si è chiaramente scontrata con l’ideologia economica mainstream a cavallo tra monetarismo e ordoliberismo. Una ideologia che distruggendo intere comunità ha preparato l’avvento delle destre nazionaliste e post fasciste. Tuttavia, è solo nella ripresa di una diffusa partecipazione democratica che l’alternativa sarà possibile. Occorre quindi restituire al lavoro la sua dignità e la sua dimensione politica, la sua voce, ma la chiave è quella della democrazia. I nostri referendum hanno questo significato. Se non hai voce ascoltata nel lavoro, se i diritti diventano progressivamente privilegi, smetti di credere che dalla politica, poi dallo Stato e da ultimo dalla partecipazione democratica possano arrivare risposte. La crisi dell’Europa oggi è la crisi della democrazia sociale, ed è una crisi di fiducia che riguarda chi dalla democrazia sociale dovrebbe sentirsi protetto ma invece si sente tradito. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: se la vera crisi della democrazia è la crisi della partecipazione, ciò dipende dalla progressiva perdita di valore del lavoro. La politica ha cancellato il lavoro dalla sua agenda da molti anni assecondando la deriva di un modello sociale plasmato sull’idea che tutto può essere ridotto a merce, a partire dalla vita che si esprime nel lavoro, passando per l’istruzione, la salute e l’ambiente. In questo, la sinistra politica ha una responsabilità specifica, avendo scelto di allontanarsi dalle vicende del lavoro salariato da molto tempo, quando prevalse l’idea che il vero obiettivo risiedesse nella conquista del governo a prescindere dai programmi. Ciò che nelle prime pagine di quella che è l’apice della sua raffinata riflessione politica, La città del lavoro, Trentin aveva definito come il trasformismo della sinistra. Sulla base di queste considerazioni mi pare chiaro che il conflitto sociale, non esercitato dalle forze democratiche, finisce per essere conquistato dalla destra nazionalista, ovunque in Europa. Insomma, il conflitto sociale democratico e costituzionale deve sfidare l’egemonia delle destre in Italia e in tutta Europa. Conflitto sociale e partecipazione democratica diffusa a sostegno di una diversa politica dello sviluppo umano, basata sulla giustizia sociale e ambientale, praticabile se si riducono le disuguaglianze e se ci battiamo tutti per rendere concreto l’esercizio dei diritti di libertà, per la conoscenza critica, per il lavoro liberato. *Presidente Fondazione Di Vittorio Migranti. Il decreto flussi è un flop: solo uno su cinque ce la fa di Giansandro Merli Il Manifesto, 31 maggio 2024 Presentato il nuovo dossier della rete “ero straniero”: il meccanismo non funziona e crea irregolarità. I cittadini stranieri hanno una sola strada per venire a lavorare in Italia in modo regolare: il decreto flussi. Ma il meccanismo alla base non funziona e la procedura ha una serie di blocchi. I posti disponibili sono inferiori alle domande, solo una piccola parte di chi vince la lotteria dei click day perfeziona la pratica, chi resta bloccato nei meandri della burocrazia non ottiene il permesso per attesa occupazione. Il risultato è che le richieste del mercato del lavoro italiano restano insoddisfatte e migliaia di lavoratori non riescono a entrare in Italia o finiscono nell’irregolarità. Lo mostra il nuovo dossier della rete Ero Straniero presentato ieri al Senato. I “veri numeri del decreto flussi: un sistema che continua a creare irregolarità” affina i dati contenuti in “La lotteria dell’ingresso per lavoro in Italia: i veri numeri del decreto flussi”, analisi pubblicata dalle stesse associazioni lo scorso dicembre. Il risultato dei numeri definitivi, ottenuti attraverso accessi civici presso la pubblica amministrazione, è ancora più allarmante. A marzo 2024 nei click day, le finestre di tempo per presentare le domande di assunzione dei lavoratori stranieri, sono arrivate 690mila richieste a fronte di 151mila posti. Nel dicembre precedente erano state 580mila contro 131mila. Nel resto del 2023, invece, 462mila istanze per 82mila quote disponibili. Ovvero sei a uno, percentuale raddoppiata dall’anno precedente. Non solo c’è molta più richiesta di lavoratori stranieri rispetto a quelli che il governo autorizza a entrare, ma chi poi vince la lotteria del click day ha grosse difficoltà a concludere la pratica. “Per l’anno 2023 solo il 23,52% delle quote si è trasformato in permessi di soggiorno. Quanto al 2022, il tasso di successo della procedura per l’ingresso rispetto al rapporto contratti/quote disponibili è pari al 35,32%”, si legge nello studio. Significa che i contratti effettivamente stipulati sono una piccola parte di quelli possibili a livello teorico. I lavoratori non riescono a entrare in Italia, mentre per molti di quelli che ce la fanno senza poter perfezionare l’iter si apre la strada della clandestinità. Sulle migliaia che non hanno firmato il contratto e ottenuto il titolo di soggiorno per lavoro, infatti, i permessi per attesa occupazione rilasciati tra il 2022 e il 2023 sono stati soltanto 230. Per questo Ero Straniero torna a chiedere al governo di superare il decreto flussi, che non funziona perché si basa su un presupposto fallace: l’incontro da remoto tra domanda e offerta di lavoro, in cui le persone da un lato e dall’altro dello schema non si conoscono (nella realtà i decreti flussi si risolvono spesso in sanatorie, mascherate, di soggetti già presenti sul territorio, ma questa è un’altra storia). Tra le possibilità per risolvere il problema Ero Straniero propone: l’introduzione della figura dello sponsor, l’istituzione di un permesso per ricerca lavoro e la possibilità di emersione individuale dalle occupazioni in nero. L’ultimo strumento potrebbe contribuire a ridurre la ricattabilità dei lavoratori stranieri. Anche per questo è fuori dall’orizzonte politico del governo in carica, come di quelli precedenti. Migranti. Poliziotti italiani verso l’Albania: sorveglieranno un hotspot vuoto di Sarita Fratini L’Unità, 31 maggio 2024 Il nostro Paese potrebbe non trasferire mai i migranti sul territorio albanese, ma intanto 20 poliziotti sono già in partenza per vigilare su un centro deserto. Partono i primi 20 agenti italiani per l’Albania: sorveglieranno un hotspot vuoto. Non si capisce ancora come l’Italia potrà trasferire cittadini stranieri in Albania senza violare le sue stesse leggi ma sono già in partenza i primi 20 agenti italiani per vigilare sull’hotspot (vuoto) costruito dall’Italia nel porto di Shengjjn, cittadina turistica a nord di Tirana. Lo annuncia il S.I.A.P. (Sindacato Italiano Appartenenti Polizia) con un comunicato stampa che fornisce diversi dettagli dell’operazione: reclutati su base volontaria tra i reparti mobili di Napoli e Roma, 20 agenti partiranno il 2 giugno; verranno alloggiati in hotel con pensione completa; indosseranno la divisa solo all’interno del centro e abiti civili all’esterno; riceveranno, oltre lo stipendio, anche la diaria standard delle missioni internazionali, che è di 100 euro al giorno. Nell’hotspot del porto di Shengjjn il governo Meloni prevede di sbarcare e identificare persone migranti salvate in mare da navi militari italiane. Ma, assicura, verranno scelti per il trasferimento in Albania solo i maschi non vulnerabili provenienti dai 22 cosiddetti Paesi sicuri. Non è chiaro come sia possibile fare questa scelta a priori se l’identificazione avverrà a posteriori, dopo lo sbarco in Albania. Forse con una macchina del tempo. Dal centro di Shengjjn, secondo i piani del governo italiano, le persone verranno velocemente trasferite nel centro di prima accoglienza di Gjader, paesino nell’interno, che avrà 880 posti. Il centro è ancora in costruzione. Quando saranno terminati i lavori - si prevede entro fine luglio - entrerà qui in servizio un contingente italiano di 300 unità: 176 agenti della Polizia di Stato, 47 della Guardia di Finanza, 77 carabinieri. Tutti percepiranno lo stipendio, la diaria delle missioni internazionali e i benefit (vitto, alloggio, viaggi, assicurazione sanitaria). E poi ci sarà la polizia penitenziaria per il nuovo carcere da massimo 20 posti che nascerà a Gjader: 46 agenti penitenziari il cui stipendio, diaria compresa, sarà di circa 6000 euro al mese più del triplo di quanto guadagna un agente penitenziario italiano - più ovviamente vitto, alloggio, assicurazione e i trasporti per tornare in Italia una volta al mese. Il solo costo del personale italiano si aggira sui 50 milioni di euro l’anno. Non è chiaro se tutti questi agenti entreranno in servizio prima o dopo l’arrivo in Albania del primo cittadino straniero da sorvegliare e punire. L’Italia potrebbe non trasferire mai persone in Albania. L’avvocato Salvatore Fachile (progetto Sciabaca e Oruka di ASGI) ricorda che in questo momento non è possibile effettuare questo tipo di procedure di frontiera perché siamo in attesa della sentenza della Corte di giustizia europea sulla legittimità della garanzia di 5 mila euro richiesta ai migranti irregolari come alternativa al trattenimento alla frontiera presente nel decreto Cutro. Ci fa notare che, comunque, un sistema del genere sarebbe illegale perché l’articolo 10 comma 3 della nostra Costituzione garantisce l’ingresso di richiedenti asilo nel territorio italiano. L’intera operazione in Albania potrebbe essere soltanto un sogno del governo Meloni e del suo elettorato. In realtà un incubo distopico in cui persone in fuga dai loro paesi, sopravvissute al deserto e al mare, vengono ripescate dalle navi militari di un paese che credevano civile, selezionate frettolosamente in base alla razza e alla provenienza, deportate in un altro stato famoso per mafia e corruzione, rinchiuse dentro un hotspot extraterritoriale, giudicate con uno sbrigativo processo in webcam. Di reale ci sono solo le leggi italiane ed europee che vietano i respingimenti collettivi di stranieri alla frontiera e il conto, salatissimo, che i cittadini italiani sono costretti a pagare. Se il ministro Salvini vuole cancellare la foglia di canapa, pure disegnata di Nadia Ferrigo La Stampa, 31 maggio 2024 La Lega propone un sub-emendamento per vietare la riproduzione della pianta su manifesti e qualsiasi altro mezzo di pubblicità. Al leader della Lega Matteo Salvini non basta vietare la cannabis light, vuole proprio cancellare la foglia a cinque punte. Non la vuole più vedere, neanche disegnata. Non è una metafora, va inteso in senso letterale. Con un sub emendamento all’emendamento del ddl Sicurezza che bandisce la cannabis con una percentuale di Thc più basso dello 0,2 per cento, propone di vietare anche “l’utilizzo di immagini o disegni, anche in forma stilizzata, che riproducano l’intera pianta di canapa o sue parti su insegne, cartelli, manifesti e qualsiasi altro mezzo di pubblicità per la promozione di attività commerciali”. La pena? “Reclusione da sei mesi a due anni e la multa fino a 20mila euro”. Alla sua furia proibizionista d’altri tempi poco importa che i campi di canapa coltivati in Italia non abbiano nulla a che fare con la droga, ma con la bonifica dei terreni inquinati, come in Puglia e in Sardegna, la produzione di tessuti, prodotti alimentari, infiorescenze e oli, dal Piemonte alla Sicilia. Di cannabis terapeutica, nell’istituto farmaceutico militare di Firenze. Il governo Meloni, con un emendamento al disegno di legge sulla sicurezza all’esame della Camera, vuole cambiare la legge a sostegno della filiera della canapa a uso industriale, cioè con quantità di Thc, il principio attivo che dà l’effetto stupefacente, inferiore allo 0,2 per cento. La proposta di modifica vieterà la coltivazione e la vendita dei fiori di canapa “ad eccezione di alcuni usi industriali”. Se l’emendamento passerà, e non sembrano esserci particolari ostacoli, il commercio e la cessione verranno punite con le norme del Testo Unico sulle sostanze stupefacenti, in sostanza parificando la cannabis light a quella non light. Cancellare un comparto produttivo e commerciale, che conta circa 10mila persone e ottime prospettive di sviluppo, ancora non basta. Il ministro Salvini ha così deciso di rilanciare con un vigore mai più rilevato sulla scena internazionale dalla campagna Just Say No di Nancy e Ronald Reagan: l’erba va cancellata, punto e basta. Quarant’anni sono passati, ma noi non ce ne siamo nemmeno accorti. La maggior parte della popolazione degli Stati Uniti vive in uno stato dove la cannabis a uso ricreativo, quella con il Thc, per intenderci, è legale. Pazienza se ora è regolamentata pure in Germania, pazienza se l’Oms da tempo ha consigliato agli stati la rimozione della lista degli stupefacenti, pazienza se scienza e società raccontano un’altra storia, molto lontana dai tempi di Reagan. Matteo Salvini non pare curarsi molto di questa storia, di sicuro non vuole ascoltare e va avanti con la guerriglia di perquisizioni e carte bollate contro i negozi di cannabis light iniziata da ministro degli Interni. Ora di battaglia ne inizia un’altra, vedremo se, col buon senso finito sulla luna, la spuntano lui oppure i disegnini a cinque punte. “Mattei”, un nome coloniale e un piano contro l’Africa di Alex Zanotelli Il Manifesto, 31 maggio 2024 L’interesse del governo italiano e della premier Meloni è solo quello di mettere le mani sui giacimenti di gas e di petrolio per la nostra autonomia energetica. Il “Piano Mattei” non è altro che puro neocolonialismo in salsa meloniana. È singolare che la presidente del Consiglio utilizzi il nome di Enrico Mattei, partigiano, mentre lei non riesce neanche a definirsi antifascista. Non solo, ma Mattei ha avuto il coraggio di schierarsi dalla parte degli algerini che lottavano contro la Francia per l’indipendenza del loro paese. Infatti, un serio Piano per l’Africa avrebbe dovuto portare il nome di un noto africano come Nelson Mandela o Stephen Biko, non di Mattei, poco conosciuto in Africa, Tant’è che i capi di Stato africani, venuti a Roma per il summit Italia-Africa dello scorso gennaio, alla spiegazione del piano hanno subito ribattuto che Mattei è un nome “coloniale”. I membri del governo italiano hanno ben poca sensibilità per l’Africa e per i popoli africani perché non si sono forse mai confrontati con i disastri causati dal colonialismo in Africa, ma in particolare dal colonialismo fascista, soprattutto in Libia ed Etiopia. Secondo lo storico Angelo Del Boca le truppe fasciste in Libia hanno impiccato e fucilato almeno centomila libici e in Etiopia hanno usato il gas nervino sulle truppe sconfitte del Negus, compiendo orribili massacri. Nei suoi viaggi sia a Tripoli che ad Addis Abeba, la presidente del Consiglio italiana non ha mai chiesto perdono per questi crimini. Non solo, ma anche oggi tutte le ex-colonie italiane come Libia, Etiopia, Eritrea, Somalia sono dilaniate da spaventose guerre interne. È proprio a queste nazioni che il governo italiano dovrebbe dare una mano, far partire un piano serio di aiuto. Sarebbe questa la maniera migliore per riparare le malefatte del nostro colonialismo mai affrontato da nessun governo italiano né tantomeno dall’attuale, che non ammetterebbe mai i crimini dell’occupazione fascista in Africa. L’interesse del governo italiano è quello di mettere le mani sui giacimenti di gas e di petrolio per la propria autonomia energetica, soprattutto per diventare l’hub europeo del gas. Per questo il piano dovrebbe correttamente chiamarsi il “Piano Meloni-Descalzi”. Non solo, Meloni vuole con questo piano creare hotspot nei paesi nordafricani per bloccare l’arrivo dei migranti in Italia. È quanto hanno già fatto tristemente in questi anni sia il governo italiano sia la Ue, senza ottenere nulla, se non migliaia e migliaia di morti nel Mediterraneo. Questa è la politica del Suprematismo bianco, così ben rappresentato nell’attuale governo italiano di ultradestra. Queste politiche sono già state percepite dai “popoli dell’Africa” come puro razzismo. Come può ora il governo Meloni presentarsi ai governi africani per salvare l’Africa? E ancora più grave è che i soldi per il piano vengano dal Fondo per il Clima e della Cooperazione internazionale che è ormai ridotto al lumicino (0,2%) del Pil. Si tratta di 4,2 miliardi tolti in 4 anni dal Fondo per il Clima e 2,5 miliardi dal Fondo Cooperazione. Il Piano Mattei si attiverà per i paesi africani che hanno petrolio e gas, mentre non sono neanche considerati i paesi del Sahel che soffrono fame e sete, come ha sottolineato Tonino Perna sul manifesto del 22 maggio scorso. Questo vuol dire che il “Piano Mattei” è roba da big business, mentre restano tagliati fuori le Ong e i tanti Comuni impegnati a sostenere gli sforzi delle comunità locali in Africa. Quand’è che i nostri governi la finiranno di sfruttare questo continente? Nel suo viaggio in Congo, Papa Francesco ha ammonito tutti con quel suo “Giù le mani dall’Africa!”. Siria. Da una Corte di Parigi, storica sentenza contro il regime di Assad di Giulio Terzi di Sant’Agata* Il Dubbio, 31 maggio 2024 La sentenza della Corte d’Assise di Parigi: commessi crimini di guerra e contro l’umanità. La Corte d’Assise di Parigi ha condannato pochi giorni fa all’ergastolo tre alti esponenti del regime siriano - sotto mandato d’arresto internazionale dal 2018 - giudicati colpevoli di complicità in crimini contro l’umanità e di guerra, tra questi le barbarie subite da Mazzen e Patrick Dabbagh, padre e figlio di nazionalità franco-siriana. Come decine di migliaia di siriani, Mazzen e Patrick furono arrestati senza motivo, detenuti senza alcuna notifica né processo, torturati e uccisi. A tredici anni di distanza le efferatezze che il regime di Assad ha commesso - grazie al determinante sostegno militare di Putin, con le armi chimiche lanciate dagli aerei russi, e alla massiccia presenza sul territorio di forze sciite inquadrate e rifornite dai Pasdaran di Teheran - sono ancora l’ordinarietà dei fatti. Tali atrocità continuano ad essere denunciate dalla Commissione d’inchiesta ONU sulla Siria, organo che allora nacque sotto la spinta di uno dei più grandi giuristi internazionali, il Prof. Bassiouni. Di fatti, i tre condannati sono tuttora anelli essenziali del sistema sanguinario di Assad - uno è addirittura il consigliere speciale del presidente. È stata realmente fatta giustizia? Al termine dell’udienza, la sala gremita di rifugiati e attivisti siriani si è congedata con un lungo applauso. Il banco degli imputati era, però, vuoto e i tre continuano a macchiarsi di crimini nel loro Paese. Eppure, sì, quello di Parigi è stato un verdetto storico. Innanzitutto, perché mai prima d’ora erano stati processati membri così importanti del sistema repressivo siriano. Secondo, perché è un verdetto che imprime un nuovo impulso, un’apertura all’applicazione concreta delle norme internazionali sancite dalle Nazioni Unite. Le giurisdizioni nazionali, così come quelle sovranazionali, non possono lasciare impunito chi compie crimini atroci, contrari ad ogni diritto nel senso più viscerale del termine, contro l’umanità stessa. Ecco che allora, quel principio di giurisdizione universale emerge dirompente nel nostro presente anzi, è un principio che risulta essere sempre più utilizzato. Penso anche al sempre più intenso lavoro, negli ultimi anni, della Corte Penale Inter-nazionale. Si può criticare, ritenere sia talvolta politicizzata, ma il fatto che la CPI rappresenti uno strumento a cui sempre più Stati parte ricorrono quale punto di riferimento giuridico è assolutamente un traguardo positivo. Non è ammissibile che avvengano crimini di gravità inaudita come non è ammissibile lasciarli impuniti perché non perseguibili. Giurisdizione universale significa proprio questo: indipendentemente dal luogo in cui si commettono, dalla nazionalità delle vittime e dei sospettati, le norme del diritto internazionale sono così rilevanti che le loro violazioni devono esser perseguite in tutti i tribunali del mondo. Universalmente. Nel solco dello Statuto di Roma, il passo da compiere ora è l’armonizzazione dell’ordinamento nazionale al diritto internazionale, col fine di prevenire e, puntualmente, punire chi commette crimini indicibili. In una conquista di civiltà così importante gli Stati devono collaborare e assistersi vicendevolmente nei casi che riguardano crimini internazionali così gravi. Con questo spirito è stata promossa la recente Convenzione di Lubiana - L’Aia che obbliga gli Stati firmatari a reprimere penalmente in modo esplicito il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra e a prestarsi mutua assistenza giudiziaria per la punizione di questi crimini. “Se cerchi la pace devi lottare per la giustizia” diceva Papa Giovanni Paolo II. Sottoscrivo e aggiungo. Di fronte alle atrocità che ogni giorno leggiamo sui quotidiani, servono risposte concrete e soprattutto andare oltre semplici, seppur fondamentali, appelli alla giustizia. La giurisdizione universale sia il passo in avanti pragmatico nell’attuazione concreta dei valori che guidano la comunità internazionale. *Presidente Commissione Politiche UE Medio Oriente. Gaza è sempre più isolata: gli aiuti ci sono, ma non arrivano di Federico Bosco Il Domani, 31 maggio 2024 Da aprile nessun camion umanitario ha raggiunto la zona centrale della Striscia, piena di profughi. È l’effetto della strategia dell’Idf, che controlla gli accessi e ha spinto gli abitanti di Rafah a nord. I carri armati israeliani continuano l’accerchiamento di Rafah, nella zona sud della Striscia di Gaza, tre settimane dopo l’inizio di un’operazione che, secondo l’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa), ha costretto nuovamente alla fuga più di un milione di persone, le stesse che erano state sfollate dalla zona nord nella prima fase del conflitto. L’esercito israeliano (Idf) ha detto di aver preso il controllo anche dell’intera zona cuscinetto lungo il confine dell’enclave palestinese con l’Egitto, il cosiddetto “Corridoio Philadelphia”, consegnando a Israele la piena autorità su tutti i punti di accesso a Gaza. Nel frattempo continuano i combattimenti a Jabalia e Gaza City, a nord, dove l’Idf si era ritirato lo scorso febbraio dopo aver annunciato la fine delle operazioni, ma dove ora sono riemersi i miliziani di Hamas e degli altri gruppi armati. Gli stravolgimenti delle ultime settimane hanno modificato completamente la geografia della popolazione dell’enclave palestinese, compromettendo la già fragile logistica degli aiuti umanitari. I valichi - La Striscia di Gaza in teoria ha sette punti di ingresso, ma quelli realmente funzionanti (anche prima della guerra) erano solo tre: i valichi di Rafah e Kerem Shalom a sud, e il valico di Erez a nord. L’unico accesso non controllato direttamente da Israele era quello a Rafah, al confine con l’Egitto. Di recente è stato aperto un nuovo valico a nord (Erez West), mentre gli Stati Uniti hanno costruito un molo galleggiante nella parte centro-settentrionale (nei pressi del “Corridoio di Netzarim” controllato dall’Idf), che tuttavia si è danneggiato a causa del mare mosso ed è stato smantellato all’inizio di questa settimana, con la speranza di poterlo ripristinare in tempi brevi. Come illustrato dal New York Times, prima dell’operazione di Rafah la maggior parte delle persone aveva trovato rifugio nella parte meridionale dell’enclave, dove attraverso i valichi di Rafah e Kerem Shalom entravano anche la maggior parte degli aiuti. Fino a inizio maggio circa 1,3 milioni di palestinesi erano ammassati vicino al confine meridionale, altri 500mila si trovavano nella zona centrale (al momento la più sicura), mentre 400-500mila persone erano rimaste nella parte nord. Durante le operazioni di accerchiamento e avanzamento su Rafah però le persone si sono spostate per cercare riparo (anche su ordine dell’Idf), e ora 1,5 milioni di persone su 2,3 milioni circa dell’intera popolazione di Gaza si sono trasferite nella zona centrale dell’enclave, lontana e sostanzialmente isolata dai valichi della zona meridionale e settentrionale. In base ai dati dell’Onu elaborati dal New York Times, dal 23 aprile al 6 maggio sono entrati 94 camion dai valichi a nord e 2636 dai valichi a sud. Dal 7 al 20 maggio, dopo l’inizio dell’invasione di Rafah, sono entrati 465 camion a nord, appena 40 dal molo galleggiante statunitense, e solo 143 dai valichi a sud. Nessuno di questi aiuti ha avuto accesso diretto alla zona centrale per raggiungere quel milione e mezzo di palestinesi che, fino a poco tempo prima, si trovava negli accampamenti a Rafah. L’unico miglioramento si è verificato nella parte settentrionale grazie al nuovo valico di Erez West, che ha permesso di far arrivare aiuti a persone che da mesi sono maggiormente a rischio carestia. Ma gli ultimi stravolgimenti rendono ancora più precaria la situazione già critica del grosso della popolazione, poiché l’intensificarsi dei combattimenti e il prolungarsi del conflitto impediscono all’Onu e alle ong di pianificare il trasferimento e la distribuzione degli aiuti. Magazzini irraggiungibili - La sentenza emessa venerdì scorso dalla Corte internazionale di giustizia (Icj), che ha intimato a Israele di fermare l’offensiva su vasta scala a Rafah (secondo alcuni giudici le operazioni limitate sono consentite), si riferiva esattamente a questo. Il documento prende esplicitamente atto della “diffusione della carestia e della fame” a Gaza, sottolineando la necessità che tutte le parti interessate “garantiscano una fornitura senza ostacoli e in grande quantità dei servizi di base e dell’assistenza urgentemente necessari”. Anche distribuire i pochi aiuti che riescono a entrare è diventato molto più difficile e pericoloso. I recenti ordini di evacuazione di Israele in alcune parti sud e a nord della Striscia di Gaza hanno reso irraggiungibili i magazzini di molte agenzie umanitarie, la settimana scorsa l’Unrwa ha annunciato di aver sospeso la distribuzione a Rafah citando problemi di sicurezza, carenza di forniture e l’impossibilità di accedere al proprio magazzino. Inoltre, senza la possibilità di pianificare consegne di aiuti ricorrenti e prevedibili i pochi camion che riescono a entrare vengono presi d’assalto dalle folle di persone disperate, o sequestrati dai gruppi armati. La nuova realtà dell’enclave palestinese aggrava tutte le criticità esistenti, accelerando il rischio di carestia e crisi sanitaria, e di conseguenza la pressione internazionale su Tel Aviv e sui governi occidentali che devono affrontare l’indignazione e le proteste delle opinioni pubbliche. A inizio aprile Israele si era impegnato ad aumentare gli aiuti concessi a Gaza dopo che un attacco con droni delle Idf aveva ucciso sette operatori della World Central Kitchen (Wck) a causa di un’errata identificazione degli obiettivi. Quattro settimane dopo Wck ha ripreso le attività “con la stessa energia e attenzione nel nutrire quante più persone possibile”, fino a ieri, quando la ong ha annunciato la sospensione delle attività a Rafah. Ecuador. L’unione che dà forza alle madri dei detenuti di Carolina Mella Internazionale, 31 maggio 2024 Da quando il governo dell’Ecuador ha affidato il controllo delle carceri ai militari, un gruppo di donne vive davanti a un penitenziario di Guayaquil per avere notizie dei figli. Anche Lucía si sente prigioniera da quando il figlio è stato arrestato, più di tre anni fa. I detenuti sono stipati in cella con il petto nudo e coperto di sudore per l’umidità di Guayaquil, mentre lei sconta la pena fuori, davanti all’entrata del carcere più pericoloso dell’Ecuador, la Penitenciaría del Litoral, dove si trovano due dei suoi sei figli. È l’ennesima serata calda in questa città di mare. Lucía e altre nove donne si fanno luce con le torce dei cellulari. Dalle borse tirano fuori lenzuola colorate e le stendono sul marciapiede, dove poche ore prima i venditori ambulanti offrivano dolci, pane, acqua di cocco e bibite. Le donne sono accomunate dagli errori dei loro familiari e dal fatto di non vederli da quasi sei mesi. Questa notte sorvegliano l’ingresso della prigione: hanno saputo che i militari, che da gennaio controllano le carceri per ordine del presidente Daniel Noboa, autorizzano la consegna dei medicinali ai detenuti. “Molti soffrono di tubercolosi e di malattie della pelle”, dice Lucía. Insieme alle altre madri, ha comprato vitamine di ogni tipo per rafforzare le difese immunitarie. Ha messo in valigia anche disinfettante e pasticche per le infezioni intestinali, la febbre e qualche antidolorifico. I militari hanno dato istruzioni precise: i farmaci vanno sistemati in una custodia di plastica trasparente con una foto del detenuto, il nome e il numero del documento d’identità scritto sul retro. Nessuna delle donne presenti è sicura che i familiari riceveranno davvero i medicinali. Per comprarli hanno chiesto prestiti a parenti, vicini e in qualche caso anche a usurai. Hanno venduto da mangiare nel quartiere e organizzato tombole per raccogliere un po’ di soldi. Questa sera condividono quello che hanno cucinato, si raccontano storie e a volte ridono, con quell’affiatamento che nasce tra persone che passano tanto tempo insieme. “Le prime volte che ci siamo incontrate era per protestare contro le torture nel carcere”, dice Lucía. “E siamo ancora qui, sempre più unite”, aggiunge. Sono diventate amiche nella disgrazia. A volte ricevono informazioni da qualche detenuto rilasciato. Un mese fa un ragazzo che era nello stesso settore del marito di María, un’altra donna seduta davanti all’entrata della Penitenciaría del Litoral, le ha portato un messaggio: “Devi fare qualcosa, è malato, ha la febbre e pustole sul corpo”. Il marito di María è stato condannato a vent’anni per omicidio. “Stavamo ballando a una festa e un ragazzo ha cercato di mettere le mani addosso a nostra figlia di quindici anni”, racconta. “Mio marito ha reagito, il ragazzo ha preso un coltello e ha cercato di colpirlo. A quel punto mio marito lo ha accoltellato”. L’uomo ha già scontato più di tre anni di pena ed è sopravvissuto ai sei massacri avvenuti nel carcere a causa degli scontri tra bande criminali. L’ultima volta che María gli ha parlato, dalla voce ha percepito che non avrebbe resistito a lungo ai maltrattamenti quotidiani. “Mi ha detto di prendermi cura dei bambini e di essere forte”. Quest’ultima raccomandazione le ha spezzato il cuore. Debiti e prestiti - “Siamo morte viventi. Quello che succede dentro, noi lo subiamo fuori”, dice Lucía. Anche lei ha una storia da raccontare. Il suo primogenito è stato condannato tre anni fa per il furto di un cellulare. Il secondo figlio è in prigione da pochi mesi. Dopo aver insistito davanti alla porta del carcere per avere qualche notizia, un giorno l’hanno fatta entrare nell’ufficio informazioni e ha visto il secondo figlio. “Ho fatto fatica a riconoscerlo, era magrissimo”, spiega. Oggi è la normalità che siano le donne a occuparsi dei detenuti. Secondo una ricerca sul sistema penitenziario in Ecuador realizzata nel 2021 da Kaleidos, l’85 per cento dei familiari che si prendono cura dei detenuti sono donne, madri, mogli e compagne. Solo nel 4 per cento dei casi è il padre a occuparsi dei figli detenuti. Questa situazione rende la vita delle donne e delle loro famiglie ancora più precaria. In media, prima che il governo militarizzasse le carceri, le donne pagavano fino a 250 dollari al mese per la sicurezza dei detenuti, le telefonate, i prodotti per l’igiene personale. Ora non pagano più per la sicurezza, ma continuano a farlo per tutto il resto. Si sorprendono di come riescano a trovare i soldi per coprire tutte le spese, perché il reddito medio che dichiarano è di 282 dollari. Nella maggioranza dei casi si indebitano. Poi c’è la salute emotiva. Le famiglie, che non si fidano della versione ufficiale dell’ente governativo responsabile delle carceri (Servicio nacional de atención integral a personas adultas privadas de la libertad y a adolescentes infractores), sono allarmate dalle informazioni che circolano sui social network. La sensazione di essere abbandonate dallo stato le ha spinte a organizzarsi. Rocío, per esempio, passerà la notte con un apparecchio per controllare l’ipertensione. La donna accanto a lei ha il braccio sinistro immobilizzato a causa di una frattura. Ma non sembrano preoccuparsi più di tanto di questi problemi, vogliono solo consegnare i medicinali. È una notte tranquilla, considerando il luogo in cui si trovano. Sanno che i militari hanno il controllo delle carceri. “Quello che non capiamo è perché maltrattano i detenuti”, dice Lucía. “Non li lascerò soli, rimarrò qui fuori a combattere per loro”.