La doppia violenza su quei ragazzi di Fabio Fazio Oggi, 2 maggio 2024 Al Beccaria, alla pena si sommavano le angherie. E la rieducazione? Zero. Al carcere minorile Beccaria di Milano accadevano cose atroci. Molti ragazzi detenuti hanno subito violenze inaudite: calci, pugni, frustate, botte, tentativi di stupro da parte delle guardie penitenziarie con la incomprensibile copertura di tanti, compreso qualcuno del personale sanitario e degli educatori. Altre volte pare che gruppi di detenuti abusassero dei più fragili mentre chi avrebbe dovuto sorvegliare si voltava dall’altra parte. Venticinque circa gli agenti coinvolti, alcuni dei quali arrestati e altri sospesi. Aspettiamo indagini e processi prima di trarre conclusioni, ma quel che già sappiamo sembra più che sufficiente. Il giudice per le indagini preliminari, Stefania Bonadeo, ha descritto un sistema consolidato di violenze reiterate, vessazioni, pestaggi di gruppo. Quelli più presi di mira sono stati gli stranieri: per lo più minori non accompagnati, che non avevano a chi raccontare quel che stavano subendo. L’età di chi finisce in un carcere minorile è compresa fra i 14 e i 18 anni. Al Beccaria i detenuti sono una settantina. Problemi di sovraffollamento, più del 50% stranieri, reato più diffuso, il furto. Dei 500 minori detenuti in Italia, quasi il 70% è senza una condanna definitiva. Moltissimi anni fa, quasi all’inizio della mia carriera, mi chiesero di andare a fare uno spettacolo al Beccaria. Nel cortile centrale fu montato un palco e un microfono con delle casse acustiche. Facevo delle imitazioni: attori, volti televisivi, cantanti. Le guardie accompagnarono una ventina di ragazzini. Feci del mio meglio ma non fu un granché. Si animavano solo durante i pezzi musicali: Vasco Rossi, Celentano. Ma i monologhi cadevano nel vuoto. Qualche timidissimo applauso e faticosamente arrivai alla fine. A quel punto l’atmosfera si sciolse, si avvicinarono sorridenti e, seppur tardivamente, mi resi conto della situazione. Me la spiegò uno di loro: i suoi compagni erano quasi tutti stranieri e non avevano capito niente di quel che avevo detto ma che erano comunque contenti. Fu un attimo in cui percepii tutta l’assurdità della situazione: la mia ma soprattutto la loro. Quei ragazzi non dovevano stare lì. Il carcere non è un posto per dei ragazzi. Oggi saranno uomini più o meno della mia età: chissà che cosa è stato delle loro vite, chissà quanti di loro ce l’hanno fatta. I detenuti ragazzini sono smarriti e soprattutto sono persi. Nel senso che lì dentro li perdiamo. Chiuderli in gabbia è insensato. La condizione delle nostre carceri è disperata e in costante peggioramento. Quel che è accaduto in questi giorni al Beccaria ne è la prova. È il fallimento totale di una società che dovrebbe recuperare e restituire alla collettività dei giovani liberati dalla violenza che hanno dentro e che li ha portati a delinquere. Ma se alla violenza della pena si aggiunge quella procurata volontariamente da chi dovrebbe invece custodire chi è detenuto, nessuno si salva. Non sarà un caso se ad oggi, mentre scrivo, sono 32 i suicidi in carcere dall’inizio dell’anno Le violenze sui minori al Beccaria sono segno di mali annosi di don Gino Rigoldi* Famiglia Cristiana, 2 maggio 2024 Sono troppe le ore lasciate vuote: ai ragazzi bisogna offrire più laboratori, agli agenti più formazione. Il buco nero, che ha visto agenti di polizia penitenziaria accusati di atti terribili del tutto illegali dentro l’istituto penale minorile Cesare Beccaria di Milano, di cui sono stato cappellano e in cui continuo a impegnarmi, ha radici in problemi strutturali che segnaliamo da anni: per carenza di personale, dopo le 16.30 e fino al mattino successivo non ci sono più attività per i ragazzi detenuti che restano a “ciondolare” nelle celle, mentre gli unici adulti presenti nella struttura con loro sono gli agenti penitenziari addestrati a mantenere l’ordine e la sicurezza, ma non formati con competenze da “educatori”, né una preparazione specifica nel trattare con adolescenti difficili. Da sempre, poi, mancano 20 agenti sui 70 previsti in organico: sono le persone che stanno di gran lunga più tempo con i detenuti spesso con turni di dodici ore. Se già otto ore con ragazzi molto agitati sono assai impegnative, dodici sono una fatica tremenda. Questo tempo vuoto, che si presta a essere riempito di esasperazione e solitudine, deve finire perché può generare distorsioni. Ci hanno chiesto: ma non vi siete accorti di niente? Dobbiamo tenere presente che certe cose si fanno di nascosto, chi se ne deve accorgere è il comandante. Un comandante degli agenti in carcere deve fare un po’ il padre, un po’ la madre, un po’ il difensore, deve mediare le fatiche: un carcere, in cui ci sono adolescenze recluse con vissuti difficili, è luogo di tensioni, e può accadere che soli a gestirle ci siano agenti di pochi anni più grandi dei detenuti. Non solo, al Beccaria negli ultimi vent’anni il turn over è stato intenso: abbiamo visto avvicendarsi numerosi direttori provvisori e part-time e vari comandanti, provvisori anch’essi. Un comandante e un direttore, finalmente stabili, e preparati, come abbiamo da qualche mese, sono un cambiamento importante: nella stabilità e nel dialogo tra le due figure più facilmente emergono problemi e “segreti” che, dove si agisce troppo in autonomia, possono restare nascosti. Riguardo ai ragazzi, penso vadano ripristinati i laboratori serali e serve dar loro competenze molto pratiche, considerando la tipologia attuale dei detenuti: per un minore non accompagnato che finisce in carcere dopo aver commesso reati di sopravvivenza, dato che vive di espedienti in strada, imparare a fare la pizza o il cartongesso, lavori che gli italiani non vogliono fare, spesso è la via che rimette in carreggiata una vita, che dà dignità. Per gli adulti, poi, servirebbe una formazione continua dell’intero gruppo, agenti ed educatori, in modo che tutti insieme rappresentino una comunità educante. E intanto gli agenti del minorile dovrebbero avere una preparazione specifica a monte. *Cappellano emerito dell’istituto penale per minorenni Beccaria di Milano “Più che sul carcere, per i ragazzi dobbiamo puntare su prevenzione e accompagnamento” di Gigliola Alfaro agensir.it, 2 maggio 2024 Sono terribili alcune immagini diffuse dalla Polizia penitenziaria e tratte dal sistema di videosorveglianza dell’Istituto penale per i minorenni Cesare Beccaria di Milano, che hanno per vittima del pestaggio un giovanissimo. “È da una trentina d’anni che vado come volontario al carcere minorile e credo che quanto è successo al Beccaria rientri in episodi orribili ma molto delimitati”. A dirlo è Marco Lovato, della Comunità Papa Giovanni XXIII. Da molti anni in Sicilia, è responsabile con la moglie Laura di una casa famiglia in cui, fino al Covid, ha accolto anche ragazzi provenienti dal carcere minorile, offrendo loro una diversa prospettiva di vita. È responsabile della cooperativa sociale “Rò La Formichina”, nata nel 2001 dall’esperienza della Comunità Papa Giovanni XXIII, per supportare le case famiglia presenti sul territorio e dare una risposta concreta ai bisogni delle persone accolte dalla comunità. L’obiettivo di “Rò La Formichina”, infatti, è favorire il reinserimento sociale e lavorativo di persone che sono state escluse dalla società a causa della loro condizione fisica o del loro passato. La cooperativa risponde ai bisogni socio-assistenziali ed educativi delle persone con disabilità e dei ragazzi in situazioni di svantaggio. Allo stesso tempo, promuove l’inserimento lavorativo di ragazzi con procedimenti penali in corso e delle persone con disabilità, attraverso l’acquisizione di competenze professionali principalmente nei settori della falegnameria e dell’apicoltura. Le violenze al Beccaria hanno molto colpito… Vado spesso nel carcere minorile di Acireale. Le carceri minorili al momento in Italia sono 17, di queste 4 sono in Sicilia e due in provincia di Catania, già questo fa capire l’emergenza della criminalità minorile nel nostro territorio. Don Oreste Benzi diceva che nell’errore di una persona che sbaglia c’è l’errore di tutta la società, io l’ho pensato sempre per i ragazzini che incontravo in carcere, sono ragazzi che abbiamo relegato nelle periferie delle grandi città. I ragazzi che stanno al minorile hanno tutti la solita storia fotocopia: o vengono dalle periferie delle nostre città o sono ragazzi immigrati che non siamo riusciti a integrare nella nostra società. Purtroppo c’è un errore nel loro cammino: oggi mi viene da pensare che anche nei 25 agenti di custodia del Beccaria ci sia un errore di tutta la società perché abbiamo relegato al carcere risolvere un problema che abbiamo e che non vogliamo vedere. Sono molti i ragazzi in carcere? Oggi ci sono 500 minori nelle carceri minorili, era da tanto che non succedeva in Italia, questo ci fa capire che c’è un’emergenza che non vogliamo vedere. Sono triplicati i ricoveri nelle psichiatre infantili perché gli adolescenti stanno male, ci danno dei segnali veramente pericolosi che facciamo fatica a cogliere, che vogliamo risolvere con un colpo di spugna: nei confronti dei ragazzi che delinquono abbiamo inasprito le pene con il decreto Caivano, dando risposte forti con uno Stato duro, che non si piega, fa retate. Mandiamo i ragazzi nelle carceri minorili, ma non abbiamo dato una risposta di un esempio più forte come società in questi quartieri dove noi non ci siamo, dovrebbe essere più presente la Chiesa, dovrebbe essere più presente la società. In carcere, poi, magari non riusciamo a fare progetti educativi come si deve, quindi rimandiamo il problema, anzi li mettiamo in incubatrice, emarginiamo ancora di più questi ragazzi, diventa poi un problema la loro gestione. Negli ultimi anni ho visto nel carcere minorile ragazzi molto più violenti, molto più agitati, specchio anche delle crisi adolescenziali che abbiamo in questo momento. Cosa sarebbe opportuno fare al posto dell’opzione carcere? Credo che dovremmo puntare molto sulla prevenzione e ancora di più sull’affido familiare. Dovremmo essere più disponibili ad appoggiare famiglie in difficoltà, con ruoli educativi di vicinanza, amicizia, dovremmo essere più attenti come Chiesa ad intervenire nelle nostre periferie. Il sogno di Papa Francesco della Chiesa in uscita è fantastico: questa Chiesa che esce e va ad abitare le periferie, non va a visitare, non va a fare volontariato, ma va ad abitare, a vivere con altre persone, non vede questi ragazzi come oggetto del nostro volontariato, ma come protagonisti della società da ascoltare e con cui camminare, dovremmo impostare così le nostre scuole, che andrebbero rivoluzionate, perché certi ragazzi non riescono a tenere il passo delle scuole. Sul territorio dovrebbero essere molto più presenti, oltre alle attività educative, anche quelle di cura, ma in tanti posti manca anche il medico di base, figuriamoci lo psichiatra. Insomma, dovremmo puntare su un discorso di cura, di aggregazione, è una ricetta a lungo termine, molte volte siamo abituati a questo colpo di spugna, ma non è il modo per operare nella nostra società. Cosa suggerisce, quindi? Abbiamo accolto nella nostra casa famiglia e in altre case famiglia dei ragazzi in pena alternativa al carcere, sono state sempre esperienze molto belle, come cooperativa “Rò la Formichina” diamo borse lavoro ai ragazzi dell’area penale minorile, ho sempre visto dei ragazzi che hanno voluto riscrivere la loro vita, ho visto gruppi Scout che hanno accolto ragazzi dell’area penale che hanno fatto un cammino bellissimo. Bisogna ragionare anche all’interno della Chiesa: a volte mi sembra che confondiamo la pastorale giovanile con la pastorale degli studenti, ma ci sono dei ragazzi che hanno bisogno di percorsi completamente diversi, molto più vivaci, ma che hanno bisogno anche di più vicinanza, bisogna camminare assieme, bisogna legare la nostra vita con la loro, ci viene chiesto di rivoluzionarci completamente. Come Stato dobbiamo avere coscienza che alcuni ragazzi sono da contenere, quando un ragazzo è violento, continua a sbagliare, va fermato ma non va punito, agganciandolo per ripartire con un percorso nuovo, nuovi modelli, nuovi strumenti. Inasprire le pene con un adolescente non funziona. Mi ha detto che è da molti anni volontario in carcere: ci racconta la sua esperienza? Quello che vedo di bello nel carcere minorile di Acireale è che si crede molto nei ragazzi; malgrado momenti veramente difficili che si attraversano, ho sempre visto la direttrice, gli educatori, gli agenti di polizia credere nei ragazzi, essere molto aperti al territorio e a tutte le attività che il territorio può offrire. In carcere ci sono ragazzi molto fragili, ci sono problemi enormi anche tra loro, ci sono anche situazioni pesanti, ma gli educatori hanno sempre creduto che si poteva ricominciare, non hanno mai perso la fiducia nei ragazzi nel proporre qualcosa di diverso rispetto alla detenzione. Penso che sia un richiamo anche per noi volontari, dovremmo essere molto più presenti. Vedo tante uova di Pasqua, tanti panettoni dentro il carcere, però durante l’anno non vedi persone che vengono a fare ripetizioni, che vanno a giocare a pallone, che vanno a vedere un film, che partecipano alla messa all’interno del carcere. Credo che ci sia bisogno di questo scambio molto più forte. Come casa famiglia abbiamo iniziato anni fa ad andare nel carcere minorile a giocare a pallone, a fare teatro, ma abbiamo capito che i ragazzi ci chiedevano di passare del tempo con loro, si è creata un’amicizia, abbiamo trovato una disponibilità bellissima da parte della direzione e dell’area educativa e ben presto ci hanno dato l’autorizzazione a entrare con i nostri ragazzi. Abbiamo iniziato con i ragazzi portatori di handicap e i bambini a fare teatro in carcere. I minori ristretti hanno dimostrato una grandissima maturità nell’essere attenti ai bambini e ai ragazzi portatori di handicap, è stato molto bello fare con loro le rappresentazioni, poi abbiamo iniziato a fare delle ripetizioni scolastiche, c’è stata la possibilità che i ragazzi potessero uscire, abbiamo accolto dei ragazzi che sono venuti nelle nostre case in pena alternativa alla detenzione perché potevano avere l’affidamento alla comunità. Questo però prima del Covid, adesso no. Sono stati sempre dei cammini molto belli, una volta al mese noi come casa andiamo alla messa in carcere minorile con i nostri ragazzi, si creano proprio dei percorsi di amicizia. Nel carcere di Acireale ho vissuto le preghiere delle varie religioni assieme, c’è una grande attenzione alle diverse fedi, la festa di Pasqua come per la fine del Ramadan, un grande rispetto per tutti e penso che questo abbiamo aiutato nella relazione. E l’esperienza lavorativa in “Rò la Formichina”? Anche nella nostra cooperativa sociale, mettere a lavorare fianco a fianco ragazzi portatori di handicap e minori ristretti tira fuori il più bello da questi ultimi, dare a loro l’opportunità di fare cose belle è quello che serve. Nella nostra cooperativa, abbiamo il settore del miele, vicino al carcere minorile di Catania, e la falegnameria, che è vicina al carcere minorile di Acireale, dove tantissimi ragazzi sono passati per fare un periodo di sei mesi come tirocinio, sono sempre state esperienze positive. Con i ragazzi del carcere minorile stiamo facendo degli strumenti con il legno dei barconi dei migranti. Saranno inseriti due ragazzi del carcere minorile insieme al nostro liutaio, abbiamo iniziato a fare chitarre con il legno dei barconi dei migranti, è un progetto molto bello in cui crediamo molto. Che riscontri avete con i ragazzi a cui date una possibilità lavorativa? Dare a questi ragazzi la possibilità di fare qualcosa di diverso, credere in loro è importante, ma una volta che finiscono la pena devono essere accompagnati perché sono molto fragili, incentivando i servizi sociali e attività nel territorio per loro. Come Chiesa dovremmo essere molto attenti nel proporci a loro anche come presenza, seguendoli nelle loro famiglie, proprio quella Chiesa di cui parla Papa Francesco, molto viva, molto attenta a chi è più in difficoltà, avendo chiaro che abbiamo qualcosa di grande da proporre, qualcosa che è pienezza. Mi ha colpito una volta un ragazzo, che mi ha detto: “Basta, so già cosa non devo fare, perché me lo dicono tutti, ma ditemi cosa devo fare, datemi l’occasione di fare qualcosa di bello”. Questo ragazzo oggi è papà di tre bambini ed è educatore in una comunità. Ha incontrato, infatti, delle persone che non lo sgridavano per quello che faceva, ma gli hanno dato la possibilità di fare delle cose belle ed è un operatore stupendo oggi. Ma a 14 anni aveva iniziato con lo spaccio, cercava qualcosa di grande: o gli davamo Gesù oppure avrebbe continuato a cercare nella delinquenza qualcosa di più grande. Il desiderio di Assoluto che tutti abbiamo anche questi ragazzi ce l’hanno fortissimo, ma spesso non sanno indirizzarlo. Carceri minorili: sono come “Mare fuori” o sono un inferno come il Beccaria? di Susanna Marietti* Oggi, 2 maggio 2024 Le carceri minorili sono 17 e recludono 550 ragazzi. Quelle per adulti sono 190 e recludono 61 mila persone. Il sistema minorile è quindi molto più contenuto (e differente per codice di procedura penale e dipartimento del ministero della Giustizia da cui è controllato) di quello del carcere per adulti. Si ispira a un modello educativo che punta al recupero dei ragazzi. In “Mare fuori” si sono viste figure istituzionali che, oltre a garantire la sicurezza, seguivano i giovani detenuti anche con impegno educativo e formativo: dovrebbe essere sempre così, perché - come per gli educatori - il compito dei poliziotti nelle carceri minorili è primariamente educativo. Infatti, si parla di “educare” i ragazzi e non di “rieducarli”: sono personalità in evoluzione. Negli ultimi 35 anni, il sistema della giustizia minorile è riuscito a far fede a valori di tipo educativo gestendo i ragazzi sia in carcere sia fuori (14 mila sono in carico a comunità o seguiti a casa). Quello che è accaduto al carcere Beccaria ha lasciato tutti stupiti, anche noi di associazione Antigone che nel tempo abbiamo visto, documentata, la violenza nelle carceri per adulti. La violenza in un carcere minorile, così sistematica e crudele come quella descritta dal giudice per le indagini preliminari che ha disposto le misure cautelari degli agenti, va oltre l’immaginazione. Anche se ultimamente avevamo segnalato una accresciuta tensione interna in tutte le carceri. Non serve una “formazione” per capire che non bisogna picchiare i ragazzi. Piuttosto, sarebbero utili corsi sui diritti umani e sul rispetto delle persone detenute. *Coordinatrice nazionale di Antigone e responsabile dell’osservatorio minori Don Grimaldi: “Queste le sfide per il futuro dei cappellani nelle carceri italiane” di Gigliola Alfaro agensir.it, 2 maggio 2024 “Nuovi volontari, formazione per agenti, cappellanie e uffici di pastorale penitenziaria, il Giubileo negli istituti”. L’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane traccia al Sir un bilancio del quinto convegno nazionale che si è tenuto ad Assisi sul tema “Lo vide e ne ebbe compassione. (Lc 10,33). Dall’indifferenza alla cura”. Un incontro segnato dalla fraternità, dalla numerosa partecipazione e da un “vero senso di Chiesa”: queste le caratteristiche del quinto convegno nazionale dei cappellani e degli operatori della pastorale penitenziaria che è stato promosso ad Assisi, dal 24 al 27 aprile, dall’Ispettorato generale dei cappellani nelle carceri italiane, sul tema “‘Lo vide e ne ebbe compassione. (Lc 10,33). Dall’indifferenza alla cura”. A trarre un bilancio dell’appuntamento è don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane. Don Raffaele, com’è andato il convegno ad Assisi? Il V convegno pastorale di Assisi è andato molto bene con una ricca partecipazione di cappellani, volontari, religiosi e religiose e questo ha permesso di vivere questo convegno come una “grande realtà nostra”. Ringraziandomi, il card. Matteo Zuppi, che è intervenuto ad Assisi, mi ha detto: “Ho toccato con mano un vero senso di Chiesa”. Ci fa piacere sentire queste parole, che rispecchiano effettivamente quanto abbiamo vissuto nei giorni del convegno. Il “senso di Chiesa” che ha citato il card. Zuppi nasce dal fatto che il presidente dei vescovi italiani ha potuto vedere come siamo uniti. Ed effettivamente è stato bello perché si è creato un clima di grande fraternità. Vogliamo anche ringraziare la Cei perché attraverso il messaggio audiovisivo del segretario generale, mons. Giuseppe Baturi, e la presenza del presidente, card. Zuppi, l’assemblea è stata accompagnata dai pastori della Chiesa italiana, noi abbiamo bisogno del loro sostegno per le attività che facciamo. Qual è stato l’obiettivo del convegno? L’obiettivo del nostro convegno, in generale, è stato richiamare la comunità, non solo cristiana ma anche civile, ad avere compassione, ma non fermarsi neppure solo a questo, cercando di passare dall’indifferenza alla cura. Durante il convegno ci siamo posti la domanda di come passare dall’indifferenza alla cura. A conclusione dei lavori ho rivolto degli appelli, soprattutto dicendo che se realmente vogliamo far passare la comunità dall’indifferenza alla cura dobbiamo impegnarci anche noi. Ho lanciato, perciò, la provocazione di promuovere percorsi per nuovi volontari perché questo ci aiuta a rigenerare il volontariato che è all’interno dei nostri istituti penitenziari; infatti, molti sono anziani, fanno anche bene il loro lavoro però rischiamo che se non c’è questo innesto di nuova linfa tra diversi anni avremo poca presenza di volontari all’interno degli istituti. E coinvolgere nuovi volontari è anche un modo per curare l’indifferenza. Quali sono i temi che avete affrontato durante l’incontro? Il convegno ha toccato tre tematiche: il Giubileo nelle carceri, la giustizia riparativa, le cappellanie e gli uffici diocesani di pastorale carceraria, con la presenza di figure autorevoli, come mons. Rino Fisichella e Antonio Sangermano, capo Dipartimento Giustizia minorile e comunità. Abbiamo anche ricevuto il messaggio del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che ha riconosciuto il nostro importante lavoro negli istituti penitenziari. Formando tre gruppi di lavoro sui tre temi, ogni gruppo ha proposto delle iniziative rispetto al Giubileo, alla giustizia riparativa, alle cappellanie e agli uffici di pastorale carceraria. Anche nei nostri istituti siamo chiamati a vivere il Giubileo, soprattutto il 14 dicembre 2025 quando si celebrerà, secondo il calendario, il Giubileo dei detenuti. Non tutti i detenuti potranno partecipare, quindi pastori e sacerdoti sono chiamati ad andare nelle carceri per celebrare in quella giornata il Giubileo dei detenuti e cercare di fare vivere nelle carceri il Giubileo, per raggiungere il maggior numero di ristretti possibile. Quando ci sarà la Giubileo delle famiglie, dal 30 maggio al 1° giugno 2025, potrà essere una bella occasione celebrare il Giubileo delle famiglie anche con i detenuti all’interno delle carceri. Oppure quando sarà il Giubileo dei giovani, dal 28 luglio al 3 agosto 2025, noi cercheremo di realizzare quella giornata con i giovani all’interno dei nostri istituti minorili ma anche nelle carceri dove ci sono giovani adulti ristretti. È emerso qualcosa rispetto alle cappellanie e agli uffici di pastorale carceraria nelle diocesi? Sul fronte delle cappellanie siamo tutti d’accordo che è necessario organizzare in modo più strutturato nelle carceri le cappellanie che già in qualche forma esistono. In ogni diocesi dove c’è un carcere il vescovo dovrebbe emanare un decreto per la costituzione della cappellania, di cui il cappellano dovrebbe essere il moderatore, con il supporto di tutte le altre figure che lavorano all’interno dei nostri istituti penitenziari. Le cappellanie devono avere la funzione di sostenere i cappellani, che tante volte vivono il loro servizio da soli, con fatica. Per promuovere gli uffici di pastorale carceraria all’interno delle diocesi ci darà un grande aiuto la Conferenza episcopale. Da parte dell’Ispettorato siamo disponibili ad aiutare le diocesi a istituire questi uffici, che sono importanti perché con l’ufficio di pastorale carceraria le diocesi si sentono ancora maggiormente coinvolte nell’annuncio del Vangelo in luoghi di sofferenza come il carcere. L’ufficio di pastorale carceraria dovrebbe essere integrato nella pastorale diocesana, non dovrebbe essere un’azione pastorale a parte, di modo che il cappellano non si senta solo un delegato ma parte di una comunità che a nome del vescovo entra nel carcere per esercitare un servizio. Durante il convegno avete parlato delle violenze ai danni di ragazzi nel carcere Beccaria di Milano? Con Sangermano abbiamo discusso di quanto accaduto e in generale della violenza all’interno dei nostri istituti penitenziari, anche se non vogliamo mai generalizzare perché ci sono tante forze che negli istituti penitenziari lavorano con professionalità. Anche tra la Polizia penitenziaria ci può essere qualcuno che esercita il suo servizio con prepotenza. Noi abbiamo chiesto che la Polizia penitenziaria sia aiutata, educata, formata, perché negli istituti penitenziarie ci sono anche poliziotti o figure professionali che non sono pienamente formate per affrontare problematiche che toccano soprattutto i giovani. In questi istituti c’è bisogno di persone formate per questo tipo di servizio, altrimenti si rischia, com’è successo al Beccaria e in qualche altro istituto, di esercitare una forma di potere e non di servizio. Vi siete dati appuntamento all’anno prossimo? Sì, abbiamo annunciato che il sesto convegno di pastorale penitenziaria si terrà sempre ad Assisi dal 29 aprile al 2 maggio 2025. Separazione delle carriere, Nordio rinvia la sfida con le toghe. Pressing di Azione: “Così ci fa perdere tempo” di Liana Milella La Repubblica, 2 maggio 2024 Il Guardasigilli evita di presentare il testo prima del congresso di Palermo dell’Anm. Il deputato calendiano Costa: “Basta un emendamento ai testi già presentati alla Camera”. Non è ancora questa la “settimana buona” per portare a palazzo Chigi la separazione delle carriere. Così dicono in via Arenula. Gli uffici stanno studiando, ma non sono ancora pronti. I maligni sostengono che il Guardasigilli Carlo Nordio vuole solo evitare di essere “impallinato” a caldo durante il congresso dell’Anm, in programma la prossima settimana a Palermo e per giunta con la presenza di Sergio Mattarella il giorno dell’apertura. Al ministero fanno spallucce. E spiegano semmai che il ministro, questa settimana, dovrà occuparsi del G7 sulla giustizia a Venezia. Che i giudici siano già pronti allo scontro durissimo è scontato, come dimostra la presa di posizione dei colleghi europei, e stavolta non è escluso che lo sciopero, tenuto in cassaforte sui test psicoattitudinali visto che entreranno in vigore tra due anni, non diventi attuale davanti a un ddl costituzionale per realizzare l’agognata riforma che Berlusconi non è mai riuscito a portare a casa. Ma ad agitare politicamente le acque è il deputato più attivo sul fronte di una giustizia super garantista. Parliamo di Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, al lavoro sempre sullo stesso tema, come dimostra il tormentone che scatena su X. E proprio lui è durissimo con Nordio. “Bastava un emendamento” dice a Repubblica, e spiega: “Non c’era alcun bisogno di presentare una legge costituzionale, era sufficiente un emendamento alle quattro proposte che sono già in prima commissione alla Camera sin dall’inizio della legislatura. Io ho presentato la mia il 13 ottobre del 2022, poi sono arrivate quelle di Forza Italia, di Italia viva, della Lega. E poi sono state fatte ben 35 audizioni, lungo l’arco di un intero anno. Il governo se n’è sempre disinteressato”. Ma non basta. Costa ricorda un altro passaggio delle “promesse” di Nordio: “A marzo dell’anno scorso ha detto che ‘entro l’autunno’ avrebbe presentato una sua proposta. Che non solo non si è mai vista, ma ha prodotto un effetto dilatorio, perché per attenderla abbiamo rallentato i lavori della commissione”. E conclude: “Ora l’annuncia nuovamente e quando arriverà dovrà essere sottoposta alle audizioni, non consentendoci di dare il termine per gli emendamenti”. E chiude: “Dopo un anno e mezzo in cui hanno dormito ora si svegliano con l’unico effetto di rallentare il percorso”. Costa è ovviamente un fan della separazione. Legge costituzionale appunto che divide in due la vita dei magistrati. Al punto che potrebbero esserci anche concorsi distinti, per pm e per giudici, e non più un concorso unico. Due professioni e due vite. E due Csm. E a leggere l’allarme delle toghe europee proprio questi due Csm non avrebbero più alcun potere, ma sarebbero solo quell’organo di “alta amministrazione” che provvede alle nomine non certo casualmente indicato come l’optimum dall’attuale vicepresidente leghista del Csm Fabio Pinelli. Costa non “perdona” Nordio. Che sulla separazione delle carriere sarebbe andato perfino oltre la sua mossa sulla prescrizione - “anche quella impantanata al Senato” dice Costa - su cui ha presentato un suo testo che è andato a sovrascrivere le proposte parlamentari già esistenti. Due storie sovrapponibili. Solo che stavolta - “e per fortuna” chiosano le toghe - perdere più di un anno di tempo può far perdere il treno della separazione. Tant’è che Costa definisce quella di Nordio “una manovra dilatoria”. E ripete di continuo che “qui bastava un semplice emendamento”. Sul suo tavolo ecco il nutrito elenco di costituzionalisti, giuristi, magistrati, avvocati che già sono stati auditi dalla commissione Affari costituzionali, tra il 22 febbraio 2023 e lo scorso 30 gennaio, ben 11 mesi che già danno la misura di quanto a lungo sia durato questo dibattito solo in questa legislatura. Se n’era parlato in quella scorsa, a seguito del progetto di legge costituzionale presentato dalle Camere penali. Nell’elenco che Costa agita figurano i nomi più noti di chi in questi anni si è occupato ormai infinite volte della materia ed è stato sentito a Montecitorio. Tra gli studiosi della Costituzione ecco Gaetano Azzariti, Massimo Luciani, Alfonso Celotto e Massimo Villone. Un giurista come Vincenzo Maiello, ovviamente il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, quello del Consiglio nazionale forense Francesco Greco, nonché Giandomenico Caiazza che era al vertice dell’Unione delle Camere penali. E poi i giuristi, Giorgio Spangher e Giuseppe Di Federico, magistrati come Claudio Castelli, ex presidente della Corte d’Appello di Brescia, Piergiorgio Morosini presidente del tribunale di Palermo, Valerio Savio presidente aggiunto della sezione gip del tribunale di Roma, l’ex procuratore di Torino Armando Spataro, e Beniamino Migliucci, l’ex presidente dell’Ucpi che ha presieduto il Comitato promotore della legge per la separazione delle carriere. “E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia” diceva il replicante Roy Batty di Blade Runner. E questo teme non solo Costa, ma anche Forza Italia che con Pietro Pittalis, vice presidente della commissione Giustizia e autore della proposta sulla separazione, ha criticato più volte l’idea di Nordio di presentare un suo testo. Che, appunto” rischia “di far perdere solo tempo prezioso”. Per una riforma che lo stesso Antonio Tajani ha definito più volte “prioritaria”, “il sogno irrealizzato” di Berlusconi. La terza gamba delle riforme strategiche che ogni partito della maggioranza si sta giocando anche in campagna elettorale, premierato per FdI, Autonomia differenziata per la Lega, e la separazione delle carriere per Forza Italia. Ma proprio su quest’ultima ci sarà da fare i conti con le toghe, pronte stavolta ad affrontare una battaglia durissima contro una riforma che, come Santalucia ha detto più volte, non farà risparmiare un solo giorno ai tempi dei processi. “Fare pace col dolore”. Daniela Marcone e le vittime di mafia di Viviana Daloiso Avvenire, 2 maggio 2024 La vicepresidente di Libera è figlia di un funzionario ucciso dalle cosche nel 1995 a Foggia: “A chi vive un lutto così grande ricucire lo strappo della violenza sembra impossibile. Ma esiste una strada. Quando raccontiamo le nostre storie parliamo anche a noi stessi, quando vediamo che il nostro dolore viene riconosciuto dai mafiosi e dagli assassini che abbiamo davanti capiamo che c’è una possibilità per noi di conoscere la verità e per loro, anche, di cambiare vita”. Dalla scrivania del suo studio, corteggiata da Viola - una bella gatta rosata che a ogni videochiamata cerca celebrità piazzandosi in camera - Daniela Marcone ripercorre la sua straordinaria storia di dolore e di coraggio. Come se fosse normale che l’uno e l’altro siano fatti della stessa materia, si nutrano per crescere, contagiare, generare cambiamento. Quanta forza può avere una sola donna. Daniela, vicepresidente di Libera, referente nazionale dell’associazione per l’area Memoria, tra le anime della mobilitazione dei familiari delle vittime di mafia e dei percorsi di giustizia riparativa (guardando alla riparazione proprio dalla parte delle vittime), l’ha scoperto a 25 anni, nel 1995, quando le cosche gli hanno portato via per sempre papà Francesco. Che era direttore dell’Ufficio del Registro di Foggia e appena una settimana prima aveva inviato un esposto in Procura contro alcune irregolarità nella gestione delle pratiche dello stesso ufficio. In quel momento la vita di Daniela è finita ed è ricominciata: in lotta perla verità, per la legalità, per non lasciarsi sommergere dall’odio e dalla rabbia, perché nemmeno gli altri familiari di persone uccise lo facciano. E perché solo ricucendo lo strappo del torto e della violenza subiti si resta umani. Anche quando ricucire un dolore così disumano sembra impossibile. Nella guerra della tua città, Foggia, con le mafie - che è guerra di tante altre città in Italia e con troppe vittime - tu Daniela hai trovato una risposta di dialogo e di riparazione. Com’è stato possibile? Il nastro va riavvolto a quel 31 marzo 1995, il giorno che ha cambiato tutto. Mi hanno ucciso papà sulle scale di casa, nell’androne, a colpi di pistola. Tornava dal macellaio, ho saputo subito che era lui quando sono arrivata perché a terra ho visto il sacchetto con la carne impacchettata. Il cruccio che m’e rimasto addosso per tanto tempo è stato quello di non averlo guardato in volto l’ultima volta che l’ho salutato, qualche ora prima: è passato dietro la mia sedia, raccomandandomi di spegnere il riscaldamento. Era stato un marzo freddo, come questo. Ecco, già al funerale accadde qualcosa: dal momento dell’omicidio avevo sentito entrare il male dentro di me. Quella violenza efferata, e poi la rabbia per quella violenza, mi avevano travolto e schiacciato completamente. Il fatto che papà fosse stato ucciso, che non fosse morto e basta, aveva annientato la mia umanità. Così decisi quasi d’impulso di perdonare: lo dissi, quasi lo urlai dall’altare al funerale, chiedendo all’arcivescovo Giuseppe Casale di poter parlare. “Perdono chi l’ha ucciso” dissi e sentii il male uscire, lasciarmi. Il male non è più tornato? Tante volte. Perché poi io, mia mamma e mio fratello Paolo siamo rimasti soli. Una solitudine insopportabile, perché papà era stato un uomo di Stato. Lo Stato doveva esserci e invece eravamo soli. Peggio, durante il processo, dopo la prima archiviazione, iniziò ad essere anche screditato da chi aveva lavorato con lui e lo conosceva. Mia mamma piangeva di continuo, fu un dolore che la segnò per sempre. Mi feci carico io della ricerca della verità e quella ricerca mi consumò, per 10 anni agognai la giustizia che ero fermamente convinta gli dovesse essere resa, visto che lui nella giustizia credeva. Il suo omicidio è rimasto senza colpevoli. Finisti tu, nel mirino... Sì. Mi arrivavano lettere e messaggi minatori: “Perché non ti arrendi?”, “Vuoi vendicarti?”, e ancora “Sei una fallita”, “Tuo padre si rivolta nella tomba”. Facevo paura, persino le amiche avevano paura ad uscire con me. Ero una donna che non lasciava alle spalle il passato, che non rioccupava delle cose di casa, non avevo figli, non ne ho potuti avere per motivi salute. Col tempo però capii che nella ricerca di quella verità avevo perso la verità di mio padre e della sua vita, dell’essere umano che era stato. Fu lì che cominciai a ripercorrerla: ricostruendo chi era, perché era stato ucciso, contestualizzando la sua morte, capii anche che dovevo allargare lo sguardo, parlare di quello che stava accadendo a Foggia, delle guerre tra cosche che si consumavano nel silenzio generale. Iniziai a raccontare la storia delle altre vittime, che erano tante, non solo Francesco Marcone. Col passare del tempo si scopri lo specifico della mafia foggiana, i suoi meccanismi. Fu una svolta epocale, anche per la magistratura. E poi arrivò Libera… Incontrai don Luigi Ciotti, nel 2006 diventai referente per Foggia. Lì iniziò la svolta per me. Organizzavo eventi, chiamavo il prefetto, interloquivo con le istituzioni: la città iniziava a cambiare. Cominciai a incontrare sistematicamente altri familiari di vittime di mafia. Conoscevo storie, e il dono di conoscerle mi rendeva più determinata, mi faceva capire che da tutto quel male poteva nascere qualcosa. La memoria del dolore lacerante che ci accomunava era generativa. Iniziarono gli incontri nelle carceri, qui prese forma il desiderio che avevo cullato di poter conoscere il nome di chi aveva ucciso mio padre, di sapere - visto che lui era nella luce - chi invece era rimasto nel buio. Solo che io non avevo nessuno da incontrare: l’unico indagato, quello che aveva procurato la pistola che aveva ucciso papà, era morto in un incidente sul Gargano nel 2005. Finché per caso fui invitata da uno scrittore a un percorso di lettura nel carcere di Foggia. Incontrammo dei detenuti al 416bis, mi venne chiesto di dire due parole, lo feci. Dopo l’incontro quelli dissero che non volevano più vedere “la signora coi capelli rossi”. Ma quando seppero poi che ero figlia di Francesco Marcone, che mafiosi come loro mi avevano ucciso il padre, dissero che volevano vedermi di nuovo, che erano colpiti dal mio coraggio: “Vogliamo parlarle”. Non era mai successa una cosa simile, in carcere. Più tardi, dopo l’incontro, sognai che la persona che era venuta sotto casa con la pistola per uccidere papà la buttava via, salvando lui ma anche se stesso. Facevo per la prima volta mie le parole di don Tonino Bello ai funerali del sindaco Giovanni Camicetta, ucciso anche lui dalla mafia: “Ci farebbe comodo che chi l’ha fatto fosse un mostro, in realtà è un nostro”. Oggi questi percorsi si moltiplicano nelle carceri, la giustizia riparativa è un’opzione concreta… In Italia in realtà è più difficile che altrove, perché manca la verità. L’80% dei familiari di vittime di mafia non la conosce, non sa chi ha ucciso i propri cari, come me. Il diritto alla verità non è scritto nella nostra Costituzione, dove non compare mai la parola “vittime”: Ma questi percorsi sono speranza: quando raccontiamo le nostre storie parliamo anche a noi stessi, quando vediamo che il nostro dolore viene riconosciuto dai mafiosi e dagli assassini che abbiamo davanti capiamo che c’è una possibilità per noi di conoscere la verità e per loro, anche, di cambiare vita. Sembra impossibile, ma chiedersi cosa può riparare l’irreparabile che abbiamo vissuto è decisivo: è lì che torniamo tutti umani, noi e loro. E la comunità in questo gioca un molo fondamentale, ci aiuta e deve aiutarci: non dimenticando le vittime e nemmeno i rei, come se queste due condizioni fossero definitive (vittime per sempre, colpevoli per sempre), ma diventando protagonista terza e collante tra i due. È così che lo strappo si ricuce. Il tuo l’hai ricucito? La morte di mio padre ha spezzato il patto col resto del mondo, con l’umanità, con la fede persino. Ho recuperato queste cose, le recupero ancora a ogni incontro, la pacificazione con tanto dolore è qualcosa che inseguo continuamente dentro di me, mai definitiva. Ma sono tornata a vivere nella casa dove l’hanno ucciso. Qualcuno mi ha chiesto: come fai a entrare da quel portone? Ci entro in modo diverso da quando sono venuti qui dei bambini delle elementari: le maestre volevano fargli fare il giro dei luoghi di Francesco Marcone. Quando li ho visti tutti seduti allineati sulle scale, come tanti pulcini, misi è stretto il cuore. Il portone è diventato altro, la morte è stata accolta dalla vita. L’altra giustizia possibile, plasmata dalle mani e dal coraggio dei familiari delle vittime di mafia di Francesco Cajani* Avvenire, 2 maggio 2024 Quanto coraggio ci vuole ad incontrare se stessi, quando tutto questo deve passare attraverso l’incontro con un altro che ci ha ammazzato l’esistenza? Credo di aver iniziato a pormi questa domanda solo 8 anni fa, accompagnando Marisa Fiorani, madre di Marcella di Levrano, uccisa dalla Sacra Corona Unita, ad un incontro al carcere di Opera con alcuni detenuti del Gruppo della Trasgressione, un tempo appartenenti alla criminalità mafiosa. Prima, nella mia testa, abitava solo il ricordo di poche parole che un ragazzo mi confidò - in un campo profughi a Novo Mesto quando entrambi avevamo 22 anni - per cercare di spiegarmi cosa avesse provato ad uccidere un proprio simile. Avevo del resto affrontato tutto il percorso universitario incentrando la mia attenzione esclusivamente sul reo. E anche durante la tesi di laurea quello che mi aveva più appassionato, nella mia indagine presso il Tribunale per i Minorenni, era il dilemma di optare tra una giustizia rigorosamente punitiva, e pertanto definita paternalistica, e una che - in quanto più remissiva - era più simile ai tratti materni. Avevo scelto di arruolarmi tra i fautori della prima tesi, salvo iniziare a ricredermi grazie a due eventi che come una benedizione hanno segnato profondamente la mia esperienza di vita: essere diventato padre e aver iniziato a camminare a fianco dei familiari delle vittime della criminalità organizzata. Sono giganti, questi ultimi, ai quali la vita ha lasciato in pegno un macigno di dolore grande come una montagna. C’è stato un tempo, diverso per ciascuno di loro, durante il quale l’incontro con frammenti illuminati della Chiesa e della società civile ha offerto l’occasione per ricevere in dono scarponi e corde. Ma loro, quei doni, li hanno utilizzati non tanto per arrivare in cima alla montagna quanto per calarsi, ancora più in profondità, in quello che Dostoevskij definirebbe il sottosuolo dentro ciascuno di noi. Come Margherita Asta, che proprio in un passaggio del nostro documentario “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine” identifica l’esatto momento in cui ha iniziato a dare un senso alla morte dei suoi due fratelli gemelli: alla prima udienza del processo ai mandanti della strage di Pizzolungo, quando decise di ritrovare i tratti dei loro volti, sia pure trasfigurati, dentro lo squallore di un album fotografico. E proprio quel momento l’ha portata poi a voler incrociare anche il volto di chi, quei fratelli insieme a sua madre, aveva annientato per sempre. Il coraggio delle donne non è quello di affrontare il nemico in un campo di battaglia. Prende forma, quel coraggio, con Daniela Marcone quando supera gli orizzonti di un dolore strettamente personale e indicare con forza la necessità di costruire una memoria collettiva delle vittime delle mafie pugliesi. Passa, il coraggio delle donne, da Agnese Moro, quando rilegge il referto dell’autopsia eseguita sul corpo di suo padre per essere certa di non averne tradito la memoria andando ad incontrare chi aveva contribuito ad ucciderlo. Porta dentro di sé, il coraggio delle donne, il dono dell’accoglienza, capace - per loro stessa natura - di generare altra vita. È interessante che Paolo Setti Carraro abbia paragonato la sua esperienza di familiare di vittima di reato, attivo nei percorsi trattamentali in carcere, all’attività di una ostetrica che aiuta a far nascere l’uomo dentro un criminale. Prendendolo per mano. La giustizia riparativa ha bisogno delle mani di Marisa, Margherita, Daniela, Agnese e di tutte le altre donne che hanno tratto ispirazione dal loro coraggio. Ma ha bisogno anche delle mani di Paolo e di tutti gli altri uomini che hanno deciso di scongelare il proprio dolore per provare a farne qualcosa di diverso. La giustizia riparativa ha bisogno che le nostre mani si uniscano: per accompagnare quella danza - come nel quadro di Matisse - affinché sia in grado di restituire un poco di senso a tutto questo sangue versato e, come in una trasfusione vitale, generare esperienze di pace. *Pubblico ministero presso il Tribunale di Milano e componente del comitato scientifico “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine” Detenzione inumana, in caso di rigetto la nuova istanza reiterativa è inammissibile di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 2 maggio 2024 Il diniego di risarcimento va impugnato altrimenti assurge a cosa giudicata e non è consentita la riproposizione della domanda in base a elementi non valutati dal giudice a cui erano stati però presentati. L’istanza respinta per ottenere il risarcimento della sofferta detenzione inumana e degradante, non può essere riproposta se non per elementi nuovi o già sussistenti, ma non sottoposti all’esame del giudice di sorveglianza. Va quindi definita inammissibile la domanda riproposta quando si lamenta la mancata presa in considerazione da parte della precedente decisione di rigetto di elementi di fatto portati all’attenzione del giudice. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 17373/2024 - ha dichiarato inammissibile il ricorso con cui era stata impugnata la decisione di rigetto della domanda in quanto reiterativa della precedente in assenza di elementi nuovi. I giudici di legittimità hanno, infatti, precisato che quando si ritiene che il giudice abbia mancato di valutare alcuni aspetti della richiesta risarcitoria e che si asseriscono fondamentali, l’istante non ha altro rimedio che quello impugnatorio, altrimenti scatta l’acquiescenza al decisum. Per cui risulterà inammissibile una nuova domanda con cui sottoporre il ritenuto difetto della precedente decisione che aveva negato il diritto al risarcimento. Inoltre, la Corte di cassazione respinge il ricorso dove intendeva far valere come legittimo “motivo nuovo” l’intervenuta decisione delle sezioni Unite penali sul calcolo dei metri quadri fruibili nella cella che escludono il carattere inumano della detenzione. Dunque, sul punto, la Suprema Corte non esclude l’irrilevanza di sopravvenuti orientamenti giurisprudenziali, ma non quando - come in questo caso - l’intervento nomofilattico non fa che definire compiutamente i parametri già ampiamente emersi in giurisprudenza per la decisione di un determinato tipo di cause. La Corte respinge anche il motivo con cui il ricorrente intendeva far rilevare come nuovo motivo per ottenere il risarcimento inizialmente negato che successivamente alla sua istanza altri detenuti si erano visti accogliere come fonte di danno la circostanza dell’assenza di acqua potabile e della percezione dei miasmi provenienti da una discarica attigua al carcere. Lamentela che, appunto nel suo caso, egli aveva presentato con l’iniziale domanda, ma ottenendo un giudizio di segno contrario da parte del giudice di sorveglianza. La differente valutazione di tali due ultime condizioni ottenuta da altri detenuti del medesimo carcere non sono motivo che demolisca l’ormai definitivo giudicato esecutivo. Reati a querela, il Pm può contestare l’aggravante anche oltre il termine di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 2 maggio 2024 Lo ha ribadito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 17457 depositata ieri. A seguito della riforma Cartabia (Dlgs 10 ottobre 2022, n. 150), per i reati divenuti perseguibili su istanza di parte, nel caso di decorso del termine di 90 giorni (previsto all’art. 85) senza che sia stata proposta la querela, è consentito al pubblico ministero di modificare l’imputazione in udienza mediante la contestazione di una circostanza aggravante, per effetto della quale il reato divenga procedibile di ufficio. Lo ha ribadito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 17457 depositata oggi, accogliendo il ricorso del Procuratore della Repubblica e annullando con rinvio la decisione del Tribunale di Siracusa che aveva dichiarato di non doversi procedere per mancanza di querela. Il reato contestato all’imputato era quello di essersi impossessato, con mezzo fraudolento, di quantità imprecisate di energia elettrica mediante allaccio diretto alla rete Enel. Secondo il Tribunale, il Pubblico ministero avrebbe manifestato tardivamente la volontà di contestare l’aggravante di cui al n. 7 dell’art. 625 cod. pen. Contro questa decisione ha proposto ricorso immediato per Cassazione il PM affermando che il Tribunale ha erroneamente fissato un termine di decadenza ai fini della contestazione di cui all’art. 517 cod. proc. pen. Proprio con riferimento a un caso di furto di energia elettrica, la Cassazione (n. 50258/2023) aveva già chiarito che è consentito al pubblico ministero, ove sia decorso il termine per proporre la querela, modificare l’imputazione mediante contestazione, in udienza, di un’aggravante che rende il reato procedibile d’ufficio. A questo approdo, chiarisce la IV Sezione, non osta la recente sentenza a S.U. Domingo (49935/2023) che riguarda la sola circostanza aggravante della recidiva, rispetto alla quale il Massimo consesso ha focalizzato l’attenzione sul “segmento processuale” in cui la contestazione suppletiva della aggravante possa essere efficacemente elevata in rapporto all’istituto della prescrizione. Diverso è il caso in questione, spiega la decisione, “non essendo l’istituto della querela legato al decorso del tempo, il cui dispiegarsi, collegato alla prescrizione, incide favorevolmente sulla posizione dell’imputato, a meno che non intervenga una sua rinuncia. In quest’ultimo caso si riespande in tutta la sua pienezza il potere dei P.M. di provvedere in qualunque segmento processuale alla contestazione della recidiva”. La condizione di procedibilità della querela, diversamente dalla prescrizione, dipende dalla volontà della persona offesa ed è revocabile in ogni momento e preesiste al giudizio. “Ove, come nel caso del subentro del diverso regime introdotto dalla c.d. riforma Cartabia, questa non sia stata proposta nel termine trimestrale di cui all’art. 85 d.lgs. 150/22 si verifica una decadenza da parte del titolare della facoltà di proposizione della stessa; la circostanza, tuttavia, è ininfluente sul potere-dovere del P.M. di provvedere alla contestazione suppletiva o ad una diversa qualificazione giuridica del fatto, che, incidendo sulla procedibilità, priva di rilievo la decadenza dal termine trimestrale”. Così, sebbene l’esito della mancanza della querela e della prescrizione conducano, nell’ottica del giudice, al medesimo risultato, “si tratta all’evidenza, di situazioni giuridiche profondamente diverse: l’istituto della prescrizione attiene all’estinzione del reato a seguito del mero decorso del tempo; il regime di procedibilità attiene alla necessaria sussistenza di una specifica condizione per l’esercizio dell’azione penale rispetto a determinate figure di reato, secondo una scelta che è rimessa alla discrezionalità del legislatore. Si tratta di discipline normative affatto diverse per struttura e finalità, che non possono essere equiparate ai fini che qui rilevano”. In conclusione, il P.M., ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen. era pienamente legittimato ad effettuare la contestazione suppletiva della circostanza aggravante dell’essere stato il furto commesso su bene destinato a pubblico servizio. Civitavecchia (Rm). “Tentati suicidi in carcere, non è più possibile attendere” laprovincia.online, 2 maggio 2024 “La notizia del recente tentativo di suicidio di un detenuto, fortunatamente sventato dalla professionalità e prontezza del Personale della Polizia Penitenziaria, verificatosi all’interno della Casa Circondariale di Civitavecchia Nuovo Complesso, richiama l’attualità e drammaticità della situazione, ormai non più sostenibile e tollerabile, all’interno delle strutture carcerarie italiane, ove - dall’inizio dell’anno - si sta verificando quasi un suicidio al giorno”. A intervenire su quanto accaduto nei giorni scorsi è il direttivo della Camera Penale di Civitavecchia che “conferma la propria adesione alle iniziative e posizioni di forte allarme, sinora rimasto inascoltato, in tema di gestione del sistema carcerario e connesse drammatiche problematiche, da mesi lanciato dall’Unione delle Camere Penali Italiane, oggetto di due precedenti iniziative di astensione dalle udienze e attività giudiziarie (7-9 febbraio 2024 e 20 marzo 2024), tragicità che purtroppo non sembra cessare”. “È necessario - spiegano - quindi, un intervento normativo immediato, onde porre fine ad una condizione disumana fonte di drammi personali e di morte. I recenti fatti di cronaca, le ultime inchieste sulle violenze negli istituti di pena e, soprattutto, il costante - purtroppo crescente - aumento dei suicidi dei detenuti (anche di coloro reclusi perché sottoposti a misura cautelare, quindi in attesa di giudizio), evidenziano ancora una volta la necessità di misure urgenti idonee a ridurre con effetto immediato il numero della popolazione carceraria. Lo impone ogni principio anche sovranazionale di tutela dei diritti umani, lo chiedono le nostre coscienze. Il costante innalzamento della popolazione carceraria - proseguono dalla Camera Penale di Civitavecchia - determinato anche dalla continua introduzione di nuove fattispecie di reato, e dalla rincorsa all’innalzamento delle pene, presto porterà l’intero sistema a superare i livelli di sovraffollamento che nel 2013 condussero all’umiliante condanna dell’Italia da parte della Corte EDU con la nota” sentenza Torreggiani”. Non possiamo rimanere inermi, la Camera Penale di Civitavecchia non rimarrà silente, l’Unione delle Camere Penali non rimarranno inermi - aggiungono ancora - L’immediata adozione di soluzioni emergenziali che riportino il numero dei detenuti entro livelli accettabili [e soprattutto rispettosi della dignità umana dei detenuti] appare indifferibile al fine concedere ai reclusi un minimo di sollievo (proprio in ragione del principio costituzionale di rieducazione della pena), così come a tutti gli operatori ogni giorno impegnati a prestare la propria opera all’interno delle strutture (cui deve andare sempre il nostro ringraziamento per l’impegno profuso, soprattutto quello della Polizia Penitenziaria). Nonostante il grido di allarme dei Penalisti Italiani, nonostante l’urlo disperato della popolazione detentiva tutta e delle famiglie, nulla sembra però smuovere le coscienze di chi, per le responsabilità politiche e di governo assunte, avrebbe il dovere di fare qualcosa; ora, immediatamente. La Camera Penale di Civitavecchia, consapevole e convinta del fatto che non è più possibile attendere, supporterà senza esitazione tutte le iniziative che la Giunta e l’Unione delle Camere Penali Italiane andranno ad assumere nel prossimo futuro, attraverso l’adozione di tutti gli strumenti, anche di protesta, atte a richiamare l’attenzione della politica e delle istituzioni”. Palermo. I ragazzi dello zoo di Ballarò di Floriana Bulfon Oggi, 2 maggio 2024 L’alba sul lastricato di Ballarò fa brillare centinaia di pezzi di stagnola che avvolgevano le “pietre” di crack. È il girone degli “scafazzati”, gli schiacciati che nulla risolleva. Lisa s’è venduta anche la casa. Carla non ha più denti. Giulio è morto a 19 anni. Nei vicoli di Palermo, il mostro si chiama crack. Costa pochi euro, ti uccide la testa. È un’emergenza in crescita. I genitori non sanno più cosa fare. Ma qualcuno non si arrende. I ragazzi dello zoo di Palermo li incontri negli angoli più oscuri di Ballarò. Li incroci per strada, ma in realtà sono prigionieri di una gabbia invisibile che li taglia fuori dal mondo: famiglie, amicizie, amori non contano più nulla. Tengono la testa bassa, ma quando riesci a guardarli negli occhi capisci in un attimo che hanno perso tutto: gli importa soltanto del crack. Sono vite spezzate, come il suono dei cristalli di questa droga che si spaccano per diventare un fumo incantatore: li porta in paradiso alla velocità di un razzo, dona loro dieci minuti di estasi assoluta, poi però con la stessa rapidità li schianta nell’inferno. “Non riesco a rinunciare, allevia ogni dolore. Il mio dolore? È iniziato con un amore sbagliato”. I capelli tirati sulla fronte non nascondono il volto scavato di Lisa, una quarantenne che viene nel quartiere solo per comprare. È fortunata perché ha ancora un posto dove stare. Aveva un lavoro in un ufficio pubblico e anche una casa in una bella zona, ma se l’è venduta: in un paio d’anni ha bruciato quasi 100 mila euro: “Ho ancora qualcosa da spendere. Poi non so che farò, ma so che senza crack non posso stare”. Questa forma di cocaina fusa e imbastardita con altri prodotti chimici per alcuni è il punto di partenza: cominciano persino alle scuole medie, perché è lo sballo più economico. Cinque euro a dose, senza bisogno di buchi: basta scaldarla nella pipetta, dentro una bottiglia di plastica o in una lattina ed inalare con forza. Per altri è il punto di arrivo dopo avere provato ogni sostanza: la scelgono perché fa immediatamente dimenticare tutto, riempie l’anima e la sospende in un limbo caldo. Per tutti è una strada praticamente senza uscita. Il crack è un dominatore spietato, ti cattura subito: l’esistenza si trasforma in una corsa senza sosta sulle montagne russe, cadendo sempre più in basso. Due fratelli si buttano sulla scalinata di Ballarò: non si reggono in piedi. Hanno 14 e 16 anni. Uno indossa il pigiama ed è scalzo: come se si fosse appena alzato dal letto, in preda a un incubo da cui non riesce a liberarsi. Seduta sui gradini c’è una ragazza che da un’ora si gratta il polpaccio così forte da sanguinare. Poi incrocia lo sguardo di un uomo: “Andiamo di là...”. Una dose in cambio di un rapporto orale, consumato al volo dietro al vicolo tra cumuli di rifiuti e topi. “Quasi tutte si prostituiscono”, ammette Gloria biascicando. Sono le due passate. Gloria ha 25 anni, un maglione liso, le tracce di una bellezza logorata in fretta. Racconta che voleva diventare estetista e invece passa la notte su questa scalinata: “Penso soltanto al crack, per averlo fai qualunque cosa”. Carla ha una quarantina d’anni, è fiorentina ed è arrivata a Palermo da qualche anno e non sa bene nemmeno perché. Le sono rimasti pochi denti, il marchio di una lunga dipendenza: “Ho iniziato fumando qualche spinello a scuola con gli amici, poi sono finita nell’eroina, ma il peggio è venuto dopo con il crack”. Carla pronuncia con lentezza parole confuse. Dice di amare la musica techno e di essere disperata: “L’eroina è una mamma: sentivo il calore dell’abbraccio di mia madre. Il crack è una merda: lo so bene e sto cercando di smettere”. Carla, Gloria, Lisa, i due fratellini, la ragazza che si prostituisce sono i campanelli di allarme di una nuova epidemia devastante. Non dilaga solo a Palermo, ma praticamente in ogni metropoli d’Italia e d’Europa. Il crack è sbucato dal nulla più o meno sei anni fa, irrompendo sulle piazze di spaccio per catturare nuovi clienti e vecchi consumatori. Come uno zombie che esce dalla tomba: aveva terrorizzato l’America negli anni Ottanta, senza mai attraversare l’Atlantico. Negli States era diventato un’emergenza nazionale: il pifferaio narcotico che trascinava nell’abisso torme di giovanissimi, senza distinguere tra rampolli di buona famiglia e figli delle periferie. Il presidente Ronald Reagan si presentò con la moglie Nancy in televisione per denunciare che “stava uccidendo una generazione di bambini” e promettere guerra ai narcos. Dall’America è scomparso all’improvviso. C’è chi sostiene sia stato merito della campagna martellante per mettere in guardia dai pericoli; chi invece crede sia stata solo volontà dei trafficanti, passati a vendere roba più remunerativa delle dosi da tre dollari. Oggi gli investigatori si chiedono perché sia risorto proprio in Europa, dove non aveva mai messo piede. L’ipotesi è che sia un danno collaterale del boom delle importazioni di cocaina: in un decennio sono schizzate dai quintali alle tonnellate. Il prezzo è calato, la qualità aumentata. Così il marketing criminale in cerca di altri sbocchi ha puntato sul crack. Il fatto che Palermo ne sia particolarmente inondata è anche specchio del declino di Cosa Nostra. Le rotte della coca sono in mano ai calabresi e i boss siciliani per ottimizzare i profitti fanno tagliare quella di scarto: nei cristalli c’è al massimo una parte di “neve” e nove di bicarbonato di sodio o di ammoniaca. È un affare di famiglia: viene lavorato nelle cucine di casa, affidando la vendita ai figli sotto i quattordici anni perché “i piccoli non li possono arrestare” e così li mandano tutta la notte a spacciare. Giulio Zavatteri se n’è andato a 19 anni. “Sono entrato in camera sua”, ricorda il padre Francesco, “era raggomitolato sul pavimento, accanto al letto. Ho provato a chiamarlo, era gelido. Ho continuato a piangere e baciargli la fronte”. Giulio era cresciuto nei quartieri del benessere: “Era brillante, dipingeva, parlava inglese, guardava la Cnn. Dopo avere iniziato il Classico al Meli, uno dei licei più rispettati, nello zaino gli ho trovato un po’ di marijuana”. Gli cambiano scuola, ma va peggio: viene ricoverato prima di compiere 15 anni. Lo mandano in una comunità a Partinico ma proprio lì davanti gli fanno provare il crack. Quando torna a casa, la situazione peggiora. Si fa aggressivo con la fidanzatina, con i genitori. I centri per disintossicarlo non danno risultati. “Giulio mi diceva: “Pa’, devi capire non siamo persone sbagliate, siamo solo più fragili e sensibili degli altri”“. Due mesi e dieci giorni dopo la morte di Giulio, il suo amico del cuore Diego si è buttato sotto un treno. Era figlio di una coppia di professori, aveva la stessa dolcezza nel cuore e la stessa droga nel corpo. Francesco Zavatteri ha vissuto l’impotenza delle famiglie e per questo a Ballarò ha creato la Casa di Giulio, una struttura con specialisti che offrono ascolto e assistenza medica. Dopo il tramonto il telefono squilla in continuazione. C’è la dottoressa che chiama da Siracusa: il figlio ha preso a cazzotti lei e il padre, poi è scomparso. Un’altra madre spiega di avere dato alla figlia dieci euro e poi altri cinque: “Servono a calmarla, forse ho sbagliato ma almeno non si prostituisce”. Nessuno li aiuta: il crack nelle statistiche ufficiali neppure esiste, perché non viene distinto dalla cocaina. C’è chi lotta da vent’anni come Pina Lupo e si sente abbandonata: “Ho dovuto denunciare ancora mio figlio, era l’unico modo per obbligarlo a curarsi. Giuliano da bambino era una promessa del calcio, poi si è spento: prima gli spinelli; a 14 anni la coca. Mi sono rivolta agli psicologi del SerD (Servizi per le Dipendenze patologiche): inutile. Né le comunità, né il carcere sono serviti a tirarlo fuori; l’ho mandato persino in Australia. Due anni fa ha scoperto il crack e lo ha disastrato: ogni mezz’ora ne pretende altro”. Nino Rocca è un professore di filosofia in pensione che crede nel volontariato. La notte si inoltra nei meandri di Ballarò, dello Sperone, di Borgo Vecchio: “Ci sono genitori che arrivano piangendo da tutta la Sicilia. Io per strada parlo tanto con questi giovani. Come educatore so che bisogna creare le condizioni per renderli protagonisti del loro riscatto. Ma gli strumenti in campo non bastano. Bisogna dare una risposta a tutta questa disperazione”. Foggia. “Dietro le sbarre ci sono anche i figli dei detenuti”, oggi il convegno nazionale noinotizie.it, 2 maggio 2024 I problemi gravi che riguardano circa centomila bambini in Italia. La deprivazione affettiva, lo stigma sociale, l’enorme difficoltà da parte dei bambini di comprendere appieno e di poter vivere il più serenamente possibile una condizione, quella di essere figlio di un genitore detenuto, che crea traumi e ferite molto dolorose. In Italia, sono più di 100mila i bambini con uno o entrambi i genitori detenuti in carcere. In che modo e con quali strumenti è possibile aiutarli a godere del loro sacrosanto diritto alla bigenitorialità e quali sono gli ostacoli e i limiti da affrontare, da parte della società, per assicurare loro un aiuto e un sostegno efficaci? È questa la complessa questione sulla quale, giovedì 2 maggio 2024, con inizio alle ore 15 nell’aula consiliare di Palazzo di Città, a Foggia si terrà un importante convegno nazionale. L’iniziativa, nell’ambito del progetto dei “100 giorni per la legalità e la lotta alle mafie”, è organizzata dalla Camera Minorile di Capitanata e dal Comune di Foggia, con la collaborazione e il patrocinio di Comitato Unicef Foggia, Ordine degli Avvocati di Foggia, Camera Penale di Capitanata e Unione Nazionale Camere Minorili. Il diritto alla bigenitorialità dei figli di genitori detenuti, per reati esterni alla famiglia e alla relazione familiare, presenta grandi complessità legate a condizioni personali, familiari, culturali e sociali. Il legame dei figli con i genitori detenuti è connotato nella maggioranza dei casi da profondo affetto, bisogno di incontro e confronto; oppure, in diversi casi, da risentimento e negazione. Criticità e complessità relazionali di cui tener conto sono il rischio di identificazione, la linea sottile tra comprensione e giudizio, perdono e rinnegamento, oppure l’emulazione e l’idealizzazione di un genitore lontano. Anche un supporto al genitore collocatario appare fondamentale quanto necessario nella gestione della relazione tra il figlio e l’altro genitore ristretto. Ad aprire i lavori del convegno, moderati dall’avvocato Ermenegildo Russo, saranno i saluti di: Maria Aida Episcopo, sindaca di Foggia; Giulio De Santis, assessore alla Legalità del Comune di Foggia; Anna Lucia Celentano, presidente della Camera Minorile di Capitanata; Maria Emilia De Martinis, settore psicosociale-pedagogico dell’Unione Nazionale Camere Minorili; Gianluca Ursitti, presidente del Consiglio dell’Ordine Forense di Foggia; Giulia Magliulo, Direttrice della Casa circondariale di Foggia. A seguire, sarà proiettato “La luce dentro”, film-documentario di Luciano Toriello. I temi del convegno saranno introdotti dagli interventi di Ludovico Vaccaro, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Foggia, e di Felice Maurizio D’Ettore, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Sui diversi e specifici aspetti delle problematiche oggetto del convegno interverranno: Piero Rossi, Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale; Roberto Casella, Foro di Bologna-direttivo UNCM; Clara Goffredo, Magistrato di sorveglianza; Adelaide Minenna, Giudice Ordinario presso il Tribunale per i Minorenni di Bari; Mirella Enza Pina Malcangi, Direttrice UEPE Foggia. Le conclusioni saranno affidate a Giulio Treggiari, presidente della Camera Penale di Capitanata. Il grande scandalo dell’antimafia siciliana di Lucio Luca La Repubblica, 2 maggio 2024 Pubblichiamo uno stralcio del romanzo di Lucio Luca “La notte dell’antimafia” che racconta una vicenda di abuso di potere e corruzione al palazzo di giustizia di Palermo. Ci sono date che a Palermo non possono sfuggire. Figuriamoci se sei un’icona dell’antimafia, una che toglie i piccioli ai mafiosi e che ha studiato alla scuola del Palazzaccio. Quando si faceva notte nel bunker per scrivere atti e inchieste, documenti e interrogatori. A mano, certo, all’epoca non c’era mica Internet e non è che il collega ti poteva passare per mail le sue carte. Il copia e incolla era ancora nella mente di Dio e nessun supporto tecnologico ti avrebbe aiutato a collegare i fatti, le coincidenze, persino quei semplici dettagli che, a volte, ti aiutavano a ricostruire anni di indagini piazzando ogni minimo particolare nelle caselle giuste. Tipo il cubo di Rubrik, quella roba che ci ha fatto andare in fissa quando eravamo ragazzi. Anche se oggi basta un nerd coreano o un adolescente della sperduta campagna americana per risolverlo in meno di cinque secondi. Solo che trovare le prove per gettare in galera un mafioso non è poi così semplice come fare affacciare i colori giusti in sei fottutissimi lati di un rompicapo. Senza contare che i boss sono leggermente più permalosi di un ragazzino di Seul o del Nord Dakota. E infatti qualcuno di quei maestri del bunker ci aveva rimesso la pelle. E con lui anche la moglie, il portiere del condominio, magari uno che passava di lì per caso. Per non parlare degli uomini e delle donne di scorta, saltati in aria con i loro giudici senza potere far nulla per difenderli. Il 19 luglio, quindi, pure se hai l’emicrania o devi fare la ceretta, quelle due ore in via D’Amelio te le devi segnare in agenda. Ti tocca. La chiamano “passerella” e forse negli anni lo è diventata, ma di certo la dottoressa Silvana non poteva mancare. Anche se, dopo il servizio delle Iene e il gran casino che si era sollevato, ne avrebbe fatto volentieri a meno. E comunque, sia fatta la volontà del Signore, anche questa volta alla manifestazione “Le vele della legalità” Silvana era andata a fare panza e presenza. Quattro parole di circostanza, quelle proprio non se l’era potute evitare: “Ieri durante un convegno dell’Associazione nazionale magistrati hanno proiettato un filmato nel quale Paolo Borsellino diceva: non sono un eroe, faccio solo il mio dovere. Ed è così. Noi non siamo eroi, facciamo solo il nostro dovere”. Applausi, complimenti del sindaco, la parola a Manfredi e Lucia Borsellino, i figli del magistrato ucciso in via D’Amelio. Toccava ascoltarli, e poi abbracciarli. Ci mancherebbe altro. Però quei due proprio non le calavano e a una sua amica, in una pausa della cerimonia, l’aveva raccontato senza giri di parole. “Manfredi? Per carità, uno squilibrato. La sorella Lucia? Cretina precisa”. Niente, la dottoressa non sopportava le lacrime. E il fatto che un uomo bello e fatto, commissario di polizia, potesse ancora piangere per un padre morto ammazzato più di vent’anni prima, non riusciva proprio a capirlo. “Ma poi, Manfredi che si commuove, ma perché minchia ti commuovi ancora dopo tutto questo tempo. Davanti a Mattarella, ma che figura fai?”. Forse la figura di uno che suo padre, disintegrato dal tritolo delle bestie, non l’ha dimenticato. Che non potrà mai dimenticarlo. Per quello che era, per quello che ha fatto, per il coraggio di quei 56 giorni in trincea malgrado l’uccisione del suo amico Giovanni, di Francesca, e di Vito, Antonio e Rocco. “Ma che cazzo, le palle ci vogliono… parlava di sua sorella che si è dimessa da assessore regionale e si commuoveva. Ma vaffanculo, va. Niè, mica avevo torto quando lo dicevo io. Fin da piccolo Manfredi era uno squilibrato, lo è sempre stato. Per non parlare di Lucia, quella è proprio una deficiente. Comunque, ti lascio, stanno per mettere la corona di fiori e pure per quest’anno ‘sta cosa è finita”. Non lo sapeva la dottoressa che pure questa telefonata, insieme alle altre, sarebbe finita dentro un’informativa di mille e duecento pagine che la Guardia di finanza stava per completare. Non lo poteva nemmeno lontanamente immaginare che quel servizio delle Iene, rispetto allo tsunami che stava per arrivare, era solo il granello di sabbia di una montagna che stava per travolgerla. E mica solo lei. Pure il marito, l’ingegner Lorenzo. E il fidato Tanino, e Sandokan, il professore di Enna, Walter il ragazzino e il suo papà del Csm, i colleghi più vicini delle Misure di prevenzione, l’amica prefetta, il colonnello della Dia, persino il figlio Manuele, quello che si era preso la laurea con una tesi della quale manco si ricordava il titolo. Tutti arruolati nel cerchio magico di Silvana, tutti pronti a calpestare il proprio ruolo istituzionale pur di compiacere quel giudice che di sé diceva: “Io sono Dio onnipotente”. E che magari una sera poteva ritrovarsi un trolley pieni di soldi all’ingresso di casa, oppure si faceva pagare la spesa dagli amministratori. Quando non chiamava direttamente per farsi portare le cassette di fragole e lamponi, ovviamente. La presidentessa che godeva, ah quanto godeva, quando sistemava amici e parenti nelle aziende sequestrate. Gente che le sarebbe stata riconoscente quando ce ne fosse stato bisogno. Se solo avesse saputo, quel cellulare Silvana lo avrebbe fatto in mille pezzi. Perché dalle telefonate intercettate era uscito di tutto: potere e miserie, una palude nella quale sguazzavano uomini delle istituzioni ed esponenti della buona borghesia palermitana. Tutti insieme, giudici, controllori e controllati. E persino i “proposti”, o meglio alcuni “proposti”, i titolari dei patrimoni sequestrati che continuavano ad avere rapporti stretti con gli amministratori messi alla guida delle loro aziende. Perché, come diceva Walter, il figlio del giudice importante premiato con diverse amministrazioni giudiziarie milionarie, “non è una questione di soldi né di niente. Gestire quell’ufficio è solo una questione di potere”. Il Papa: basta investire nelle armi, è terribile guadagnare dalla morte di Matteo Liut Avvenire, 2 maggio 2024 È terribile “guadagnare con la morte”, ma “purtroppo oggi gli investimenti che danno più reddito sono le fabbriche delle armi”. A lanciare l’ennesimo appello contro la guerra e, in particolare, contro l’industria delle armi, che genera guadagni costruendo strumenti di morte, ieri, è stato papa Francesco, che, ancora una volta, al termine della consueta udienza generale del mercoledì, ha chiesto con forza di pregare per la pace. “Preghiamo per i popoli che sono vittime della guerra - ha detto il Pontefice durante i saluti al termine della catechesi tenuta nell’Aula Paolo VI -. La guerra sempre è una sconfitta, sempre. Pensiamo alla martoriata Ucraina che soffre tanto. Pensiamo agli abitanti della Palestina e di Israele, che sono in guerra. Pensiamo ai Rohingya, al Myanmar, e chiediamo la pace. Chiediamo la vera pace per questi popoli e per tutto il mondo”. Al centro della riflessione settimanale, Francesco ha messo il tema della fede, la prima delle tre virtù teologali, che, ha ricordato, “sono i grandi doni che Dio fa alla nostra capacità morale. Senza di esse noi potremmo essere prudenti, giusti, forti e temperanti, ma non avremmo occhi che vedono anche nel buio, non avremmo un cuore che ama anche quando non è amato, non avremmo una speranza che osa contro ogni speranza”. La fede “è l’atto con cui l’essere umano si abbandona liberamente a Dio”, ha ricordato Bergoglio, che poi ha indicato, quali testimoni di questa capacità, Abramo e poi Maria: entrambi, fidandosi di Dio, di fatto seguono una strada sconosciuta, che molti avrebbero evitato, perché troppo rischiosa. Questa virtù, ha poi aggiunto Francesco, è quella che “fa il cristiano”. Perché “essere cristiani non è anzitutto accettare una cultura, con i valori che l’accompagnano, ma essere cristiano è accogliere e custodire un legame, un legame con Dio: io e Dio; la mia persona e il volto amabile di Gesù. Questo legame è quello che ci fa cristiani”. Richiamando, poi, l’episodio evangelico della tempesta sedata, il Papa ha notato che “la grande nemica della fede: non è l’intelligenza, non è la ragione, come, ahimè, qualcuno continua ossessivamente a ripetere, ma la grande nemica della fede è la paura”. Ed ecco perché, anche, “per un genitore cristiano, consapevole della grazia che gli è stata regalata, quello è il dono da chiedere anche per suo figlio: la fede. Con essa un genitore sa che, pur in mezzo alle prove della vita, suo figlio non annegherà nella paura”. Dopo i migranti, la “lobby gay”: le manipolazioni (premiate dai social) di chi fabbrica veleno di Jonathan Bazzi Corriere della Sera, 2 maggio 2024 L’ossessione dei nuovi movimenti di estrema destra per la diversità sessuale e di genere risponde al bisogno di individuare un “nemico interno”, che in realtà corrisponde alle fasce più deboli e già marginalizzate della popolazione. “Le vendite di Ken incinto battono tutti i record”: nei giorni scorsi mi sono imbattuto nell’indignazione social esplosa attorno alle immagini della nuova versione dello storico fidanzato di Barbie con folta barba e in dolce attesa. In realtà Mattel non ha mai prodotto un giocattolo del genere: si tratta di un fake, creato con l’intelligenza artificiale e fatto circolare dalla propaganda filorussa per aizzare il fastidio dei tradizionalisti. La rete abbonda di episodi simili, ma questo esemplifica bene il tipo di ossessione manipolatoria dei nuovi movimenti di estrema destra verso la cosiddetta “lobby gay”, dentro e fuori l’Europa. In questo tempo di incertezze e paure le persone hanno ripreso a desiderare leader autoritari, che si presentino come impetuosi restauratori dell’ordine perduto. Accade nell’Europa dell’Est, ma i report del Parlamento europeo sistematicamente citano anche l’Italia tra i Paesi membri che più destano preoccupazione per i diritti civili. Individuare dei nemici, esterni ma anche interni, da immolare sotto forma di soluzioni nitide e inesorabili al desiderio di rivalsa degli strati emotivi più reattivi e impauriti dell’elettorato, è una strategia tipica degli autoritarismi. Poco importa se questi nemici in realtà corrispondono alle fasce più deboli della popolazione, già di loro vessate da pregiudizi, vuoti legislativi e marginalità. Oltre alla disumanizzazione degli immigrati, i nuovi movimenti di estrema destra utilizzano come collante identitario l’ostilità verso la diversità sessuale e di genere, bollando gli sforzi di attivisti e associazioni Lgbt verso una società più giusta e inclusiva come “propaganda”. I discorsi urlati di Giorgia Meloni diventati virali in questi ultimi anni andavano esattamente in questa direzione: aggregare il consenso degli elettori più timorosi delle differenze puntando sul pericolo di colonizzazione gender, perdita dell’identità eterosessuale, patriarcale, cristiana. Normalmente questa retorica, in cui il potente si traveste da vittima, legittima sé stessa in nome della salvaguardia della famiglia e dei bambini. I più piccoli sono il jolly retorico che viene calato spesso e volentieri, per suggestionare senza bisogno di argomenti razionali e dati scientifici. “Giù le mani dai bambini!”: peccato che i conservatori abbiano sempre in mente bambini virtuali, feticci retorici funzionali al progetto di restrizione delle libertà, e mai i bambini reali con tutte le loro diversità. I bambini queer, non conformi, esistono, sono sempre esistiti. Io lo sono stato, e certo a due anni non amavo le bambole e i trucchi perché indottrinato da qualche sorta di catechismo o propaganda omosessuale. Il progetto di queste nuove destre ultraidentitarie è, come sempre, fondato sullo sfruttamento opportunistico di idiosincrasie e scarsa informazione, ma capitalizza anche qualcosa di inedito, legato al nostro tempo. I social network hanno cambiato tutto e, come ogni rivoluzione, tengono insieme aspetti positivi ed effetti collaterali. Hanno moltiplicato le voci del discorso pubblico, offrendo spazi nuovi a soggetti e comunità prima irrilevanti, ma le piattaforme su cui passiamo buona parte del nostro tempo - oltre alla piaga delle fake news - hanno anche precise regole del gioco. Gli algoritmi premiano la polarizzazione, funzionano tramite una forma di ricatto implicito che tutti, prima o poi, metabolizziamo. Più sarai rapido e aggressivo, più sarai premiato. Più sarai feroce e più sarai amato. I social non stimolano la conciliazione, la ricomposizione del conflitto: il loro modello di business è basato sulla reiterazione compulsiva della contrapposizione. Lo schema è binario e qualsiasi terza/quarta opzione si provi a introdurre verrà ignorata o ricondotta a uno dei due grandi eserciti già schierati che si fronteggiano con l’intento di distruggersi. Annientare l’altro - con pattern di pensiero inflessibili, shitstorm e gogne di vario genere - è un ottimo modo per rafforzare la propria presenza online. Così funzioniamo ormai tutti: anche i progressisti ricorrono a modalità comunicative e di promozione dei propri valori che un tempo avremmo definito scarsamente democratiche, disinteressate al pluralismo. Homo homini lupus: la partita del personal branding è tutta all’insegna della logica del più forte, e i temi sociali spesso diventano solo un pretesto per l’autopromozione. Di fronte alla rinascita di movimenti politici ostili al mondo plurale forse puntare il dito non basta: il sogno strisciante di abbattimento dell’altro è qualcosa che ci riguarda tutti, indipendentemente dallo schieramento in cui ci sentiamo arruolati. Da qui passano le sfide più grandi del nostro futuro, come singoli Paesi e comunità europea: ricominciare a immaginare soluzioni per abitare davvero insieme lo spazio pubblico, bilanciando - col tempo, che i social ci hanno tolto, e l’arte della persuasione, caduta in disuso - le ragioni dei vari gruppi, senza affidare tutto a quest’unico, grande regno disincarnato e immateriale della forza, a cui ci siamo assuefatti. E che ci uniforma, sotto il segno dell’intolleranza. È colpa degli altri, ma a volte anche nostra, e a volte semplicemente non si sa. Bisogna prendersi del tempo, capirlo insieme, accostando le differenze, tornando a metterci il corpo: uno sforzo che siamo sempre meno disposti a sopportare. Migranti fantasmi dopo gli sbarchi: in tre anni 51mila minori scomparsi dai Centri di Cecilia Ferrara e Angela Gennaro Il Domani, 2 maggio 2024 I ragazzi e le ragazze di cui si sono perse le tracce dopo l’arrivo nei paesi europei è triplicato rispetto al 2018. L’Ue deve “contrastare i movimenti secondari di minori nei confini europei: li mettono a rischio di diventare vittime di trafficanti, specialmente quelli non accompagnati”, dice Ylva Johansson, commissaria europea per gli Affari Interni. Il paese con più scomparsi è l’Italia. Ecco la mappa con tutti i dati. R. viene salvato in mare dalla Life support, la nave di Emergency, lo scorso 5 aprile: 17 anni, riccioli neri e una faccia da bambino. Lascia l’Eritrea a 11 anni. “Sentivo che in tanti se ne andavano”, dice, perciò pensa che forse dovrebbe farlo anche lui. Imbocca quei sentieri, che conosce molto bene perché ci porta a pascolare le capre, e passa il confine. Per molti anni lavora in Etiopia, nei negozi, nei bar, quello che capita. Poi arriva la guerra e deve scappare. In Libia si mette d’accordo con il trafficante della comunità eritrea, ma la sua barca non parte mai e lui e altri tre alla fine vengono infilati su un altro barchino, con siriani e bengalesi. “State sotto coperta”, gli dicono, “se i trafficanti vi vedono rischiate la pelle”. R. è una delle migliaia di minori che ogni anno arrivano in Europa, 40mila solo nel 2023 secondo la commissaria Ue agli Affari Interni Ylva Johansson. 17.319 di loro, dice Unicef, vengono dal mare. Scappano per sfuggire alla fame, alla guerra, per sostenere la famiglia, per un futuro migliore o perché vittime di traffico di esseri umani. Ogni giorno 50 minori stranieri scappano - Ma il viaggio non finisce in Europa. Lo raccontano i nuovi dati di Lost in Europe, gruppo di giornalismo investigativo e collaborativo europeo, pubblicati in tutta Europa. A un certo punto questi minori semplicemente spariscono. Almeno 50 al giorno: se ne vanno dai centri di accoglienza europei per minori e fanno perdere le tracce. In 51.439 dal 2021 al 2023. Con richieste di dati a 30 paesi europei - 27 Ue insieme a Regno Unito, Svizzera e Norvegia - dal 2021 al 2023 - il gruppo di reporter ha provato ad avere i dati sulle sparizioni o, come vengono chiamati in Italia, gli “allontanamenti”, dai centri di accoglienza. Un’inchiesta analoga nel 2021 aveva rivelato che erano stati 18mila i Msna (minori stranieri non accompagnati) scomparsi tra il 2018 e il 2020 in tutta Europa. Tre anni dopo i numeri sono quasi triplicati. Anche quest’anno l’Italia è “prima” con 22.899 allontanamenti in tre anni, 10.100 solo nel 2023. Al secondo posto l’Austria con oltre 20mila minori scomparsi in totale. I ragazzi e le ragazze che scompaiono vengono principalmente da Afghanistan, Siria, Tunisia, Egitto e Marocco. E spariscono soprattutto da due paesi: da Austria e Italia fuggono l’80 per cento dei Msna. Seguono Belgio (2241), Germania (2005), Svizzera (1226), Slovenia (1037). I numeri - “Solo 13 paesi hanno risposto”, racconta Emma van den Hof, data analyst di Lost in Europe. “Per due, tra cui l’Italia, abbiamo trovato dei report. 9 paesi, tra cui la Grecia, non hanno potuto darci i dati per mancanza di registrazione, e 7 non hanno risposto”. Tra questi ultimi ci sono tra gli altri Gran Bretagna, Francia e Spagna. Nel 2021 solo 10 paesi avevano risposto alle richieste di Lost in Europe. “Abbiamo un sistema migratorio “rotto” che stiamo risanando col nuovo patto europeo Asilo e migrazioni”, dice a Lost in Europe Ylva Johansson, commissaria europea per gli Affari Interni. “Stiamo rafforzando la protezione dei bambini, in particolare dei minori non accompagnati, ma anche la registrazione”. L’Ue, secondo Johansson, deve “contrastare i movimenti secondari di minori nei confini europei: li mettono a rischio di diventare vittime di trafficanti, specialmente quelli non accompagnati”. “I minori stranieri che si allontanano sono spesso preda della malavita o di sfruttatori”, spiega Carla Garlatti, garante nazionale dell’Infanzia. Ricorda quello che le hanno raccontato in una recente visita in un centro per sole ragazze minorenni straniere sole, a Marsala. “Ogni notte una o due giovani spariscono. E spesso delle macchine si appostano all’esterno con persone che offrono lavoro alle ragazze”. Cosa succede quando un minore scompare - Ma che succede quando un minore straniero scompare? “Abbiamo l’obbligo di denunciare la scomparsa alle forze dell’ordine esattamente come faremmo per un italiano”, spiega Isabella Mancini presidente di Nosotras, ong che dal 2017 gestisce due appartamenti per l’autonomia dei Msna a Firenze. “Da quel momento ci dovrebbe essere una ricerca attiva”. Quando vanno via “cerchiamo di seguirli via telefono per sapere come stanno, poi a un certo punto il telefono non funziona più e pensiamo che siano arrivati dove dovevano arrivare”. Molti hanno il mito del nord Europa o hanno famiglia altrove, “e i ricongiungimenti hanno tempi troppo lunghi”, dice Garlatti. “Un ragazzo di 16 anni non aspetta. Scappa”. Ma c’è anche un’altra questione. “Arrivano da noi da centri del Sud dove raccontano di posti affollati, in promiscuità con gli adulti”, spiega Mancini. I pericoli che corrono? “I minori egiziani hanno viaggi organizzati che mirano spesso allo sfruttamento lavorativo nella propria comunità, molto ampia in Italia”, continua la presidente di Nosotras. I coetanei tunisini “non hanno comunità di riferimento e possono diventare manovalanza per piccolo spaccio di sostanze stupefacenti, di cui sono in genere anche già dipendenti”. Il silenzio dei ministeri - Sotto al cappello del ministero del Lavoro e delle politiche sociali, che raccoglie i dati di arrivi, allontanamenti e presenze, ricade buona parte del percorso degli Msna in Italia. Ma gli uffici della ministra Marina Elvira Calderone non hanno commentato i dati di Lost in Europe rimandando al ministero dell’Interno, gestore delle prime e delle seconde accoglienze per Msna. Anche in questo caso nessuna risposta. “Tra gli allontanamenti volontari del 2023, coloro che hanno fatto ingresso nel corso dello stesso anno sono 8.788, pari all’87 per cento del totale dei casi di allontanamento”, si legge però nel report del ministero del Lavoro sui dati del 2023, i più alti di tutti. Nell’anno di Caivano e dei decreti Cutro, i minori sembrano attraversare l’Italia senza voler restare. “Non ci sono correlazioni con le politiche del governo, che non hanno toccato nulla nel sistema di accoglienza”, assicura la responsabile immigrazione FdI Sara Kelany. “Hanno regolamentato semplicemente l’ingresso per contrastare il fenomeno dei ‘falsi minori’”. Dati nazionali sullo “spauracchio” dei falsi minori, agitati fin dall’estate scorsa come causa di tutti i mali del sistema di accoglienza, sembrano non facilmente reperibili. Mentre i ‘veri minori’ - dicono i dati - fuggono di massa dai centri di accoglienza. Italiani e del continente. Migranti. Le prefetture non controllano i Cpr. Inchiesta su appalti e gestione di Luca Rondi e Lorenzo Figoni altreconomia.it, 2 maggio 2024 Il 20 maggio sapremo chi si aggiudicherà il bando di gara pubblicato a marzo dal ministero dell’Interno per la gestione dei Centri, due hotspot e un Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), che l’accordo con l’Albania vedrà nascere nel porto di Shengjin e nella località di Gjader. Per quella data, ha promesso il governo, l’attività sarà avviata, ma a quanto si sa i lavori per le strutture sono ancora lontani dal completamento. Quanto al modello che vogliamo esportare, la realtà è a dir poco preoccupante. Attraverso un lungo lavoro di accesso civico agli atti Altreconomia e i legali dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) hanno analizzato gli appalti dietro agli attuali Cpr, e quanto emerge non lascia bene sperare, per i fondi pubblici visto che la gara albanese vale 151 milioni di euro, ma soprattutto per i diritti fondamentali delle persone che in quei centri verranno rinchiuse. L’inchiesta pubblicata sull’ultimo numero di Altreconomia rivela che gli appalti milionari per la gestione dei Cpr italiani presentano protocolli per lo più inverosimili quando non palesemente falsi. A questo si aggiunge un controllo sporadico e insufficiente da parte delle prefetture che hanno affidato gli appalti. Sono state analizzate le offerte tecniche di cooperativa come la Ekene, che dal 2019 gestisce i Cpr di Macomer in Sardegna e di Gradisca d’Isonzo in Friuli-Venezia Giulia. Nell’offerta per Gradisca si promettevano attività come bricolage, pittura, e perfino videogiochi con tanto di interazione con la locale comunità dei gamer in eventi come la fiera dell’elettronica di Pordenone. Tutto smentito dalla sindaca Linda Tomasinsig, che conferma l’inesistenza di tali collaborazioni. Secondo l’inchiesta, Ekene avrebbe presentato protocolli con enti che risultano inesistenti o senza alcun contatto reale con la struttura. E c’è di peggio: a Macomer la prima ispezione prefettizia è arrivata solo tre anni dopo l’aggiudicazione del bando, mentre a Gradisca, dove negli ultimi quattro anni sono morte quattro persone, le ispezioni non hanno ancora “esiti definitivi” e l’ultima gara d’appalto è ancora aperta dopo due anni dal bando, intanto si rinnova l’incarico. Allo stesso modo, la cooperativa La Mano di Francesco Ets di Favara, gestore del Cpr di Bari, riporta nel suo protocollo collaborazioni con enti distanti centinaia di chilometri e con protocolli firmati da entità non più attive o che negano qualsiasi contatto con la cooperativa e il Cpr. Stesso quadro a Trapani, dove i gestori hanno allegato protocolli con date incompatibili o con enti che negano ogni coinvolgimento. Un esempio è la Parrocchia Maria SS Ausiliatrice di Trapani, che avrebbe sottoscritto un accordo cinque mesi dopo il pensionamento del parroco che appare come firmatario. Sono solo alcuni dei casi emersi dal lavoro di Altreconomia e Asgi, e nonostante la ritrosia dei gestori che in molti casi non vogliono rendere disponibile la documentazione, negando così il pubblico interesse a conoscere contratti per cui vengono spesi i soldi dei cittadini. Si giustificano dicendo di ritenere che l’invio degli atti “possa ledere il know how aziendale”. Comportamento che costringe gli avvocati dell’Asgi a predisporre il ricorso al Tar per ottenerli, come già annunciato. Tra i gestori che negano gli atti delle procedure d’appalto ci sono anche due dei tre selezionati dalla Prefettura di Roma per la gara sui centri albanesi, il cui esito sarà noto entro una ventina di giorni. Il Consorzio Hera per il Cpr di Brindisi, già analizzato nell’inchiesta a proposito di Trapani. E Officine Sociali, che gestisce la struttura di Palazzo San Gervasio. Oltre a questi c’è il colosso Medihospes che ha in gestione il Cas per richiedenti di Udine, l’ex caserma Cavarzerani da sempre sovraffollata rispetto ai posti disponibili. Nonostante le premesse, sono questi i tre enti selezionati dalla prefettura di Roma per trovare il vincitore del mega appalto albanese, che sarà affidato secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. I tre enti sono stati ad ora preferiti rispetto alla trentina che si è proposta, scelti per lo “svolgimento dell’attività? con metodi e processi di qualità? rispettosi dell’ambiente, della salute e della sicurezza attestati da organismi di certificazione o documentati dalle stazioni appaltanti…”, si legge nel bando di gara del ministero. Eppure, stando all’inchiesta, i casi di protocolli falsi non mancano, mentre insufficienti sono proprio i controlli di chi aveva concesso gli appalti. Una politica delle droghe per l’Europa futura di Susanna Ronconi* Il Manifesto, 2 maggio 2024 Le elezioni europee di giugno possono cambiare lo scenario dell’Unione, e a giudicare da quanto si osserva, questo cambiamento potrebbe portare ulteriore acqua ai mulini del populismo, dell’autoritarismo e dell’intolleranza. La società civile europea che si occupa delle politiche delle droghe ne è consapevole, e chiama i candidati al Parlamento Europeo a una precisa responsabilità: non solo per impedire un ritorno indietro rispetto alle attuali posizioni comunitarie, ma soprattutto per favorire un processo di riforma, di decriminalizzazione e sperimentazione di politiche alternative. Il Manifesto per una politica delle droghe che renda l’Europa più sicura, più sana e più giusta, promosso dai network C-European Harm Reduction Network, International Drug Policy Consortium e NEW NET, con l’adesione di centinaia di associazioni, vuole attivare un confronto con i candidati alle elezioni 2024, attorno ad alcuni nodi che saranno cruciali non solo per quel 30% di europei che fanno o hanno fatto uso di una sostanza illegale, ma anche per la democrazia, l’economia, la coesione sociale e il rispetto dei diritti in tutti i paesi dell’Unione. Se infatti le politiche delle droghe sono materia nazionale, la Commissione e il Consiglio europei svolgono un ruolo di indirizzo non secondario: la Strategia e Piani d’azioni sulle droghe orientano e in parte vincolano le politiche degli stati; l’agenzia europea sulle droghe, EMCDDA, da giugno EU Drugs Agency (EUDA), elabora linee guida sulla base delle evidenze; senza contare che, nello scenario delle agenzie delle Nazioni unite, l’Unione gioca un ruolo comunque di apertura e di contrasto al blocco iper-proibizionista capeggiato da Russia e Cina. Anche quest’anno, alla CND - Commission on Narcotics Drugs a Vienna, è riuscita a tenere salda la sua coesione su risoluzioni progressiste, tenendo insieme anche paesi, come il nostro e come l’Ungheria, recalcitranti ma tenuti a non rompere il fronte comunitario. Il Manifesto giunge dopo un periodo in cui i segnali dalla Commissione non sono stati positivi: la prima formulazione della Strategia europea 2021-2025 era stata rigettata dall’allora presidenza tedesca, anche grazie alla pressione delle associazioni, perché molto sbilanciata sull’approccio penale, e la riforma dell’EMCDDA/EUDA è fortemente incentrata sulla diminuzione dell’offerta piuttosto che su salute, inclusione e valutazione delle politiche. Ai candidati il Manifesto chiede un impegno su quattro temi: abbandonare la ‘guerra alla droga’ e riequilibrare le politiche comunitarie a favore dell’inclusione sociale e della salute, ridimensionando, anche sul piano economico, l’approccio penale; coerentemente, aumentare l’investimento nel welfare e nella salute, con attenzione alla riduzione del danno; esplorare approcci innovativi, come la regolazione legale dei mercati; assicurare la partecipazione ai processi decisionali della società civile, delle persone che usano droghe e delle comunità coinvolte. Il Parlamento Europeo, pur nei limiti del suo mandato, può giocare un ruolo importante, adottando posizioni sul tema, promuovendo iniziativa politica, favorendo il dialogo con gli attori sociali. In Italia, le associazioni per la riforma delle politiche sulle droghe hanno aderito attivamente e stanno oggi chiamando i candidati italiani a sottoscrivere il Manifesto e includerlo nel loro programma politico. La prima presentazione del Manifesto si terrà a Roma, l’11 maggio, in occasione dell’assemblea annuale di Forum Droghe: vogliamo pensare che la politica italiana progressista voglia e sappia presidiare la partita di democrazia, giustizia sociale, ragionevolezza e rispetto dei diritti che si gioca attorno al tema delle droghe. *Forum Droghe Stati Uniti. Il Dipartimento di Giustizia pianifica una storica riclassificazione della marijuana di Francesco Gentile La Discussione, 2 maggio 2024 L’amministrazione degli Stati Uniti d’America, con la Drug Enforcement Administration (Dea) in prima linea, sta valutando l’ipotesi di abbassare la classificazione della marijuana nel novero delle sostanze controllate. Tale riconsiderazione deriva dal riconoscimento dei potenziali benefici terapeutici della cannabis e da un rischio di dipendenza che si sta rivelando meno preoccupante di quanto precedentemente stimato. Nonostante ciò, le autorità non stanno considerando la legalizzazione della marijuana a scopi ricreativi. Al momento, la decisione definitiva è sospesa, in attesa del verdetto dell’Office of Management and Budget (OMB). La possibile evoluzione normativa, che potrebbe comportare lo spostamento della cannabis alla Categoria III delle sostanze controllate, segue una proposta iniziale del Department of Health and Human Services. Tale cambiamento sarà sottoposto a un periodo di consultazione pubblica prima di diventare effettivo. Il presidente Joe Biden ha manifestato il desiderio di un’analisi delle politiche attuali relative alla marijuana. Ha altresì concesso l’amnistia per le condanne federali passate legate al possesso di cannabis e ha incoraggiato i governatori degli stati a procedere con la cancellazione delle condanne relative a tale sostanza, al fine di migliorare l’accesso delle persone coinvolte al mercato del lavoro e alle opportunità educative. Severe sanzioni - Anche con una modifica, le normative la manterrebbero comunque come sostanza regolamentata; il commercio illegale di cannabis continuerà a essere oggetto di severe sanzioni. Mentre alcuni cittadini mostrano perplessità sulla riforma, altri auspicano un regime normativo paragonabile a quello vigente per l’alcol. Diversi stati hanno già leggi che permettono un utilizzo più liberale della marijuana: 38 stati consentono l’uso medico e 24 lo utilizzo ricreativo. Una deregolamentazione a livello federale potrebbe comportare una riduzione degli oneri fiscali e un notevole stimolo per la ricerca scientifica. Per quanto concerne la giustizia penale, Biden ha già esercitato la sua autorità concedendo clemenza a individui precedentemente condannati per il semplice possesso di cannabis. Stati Uniti. Gli imputati dell’11 settembre possono essere detenuti a tempo indefinito, anche senza processo nessunotocchicaino.it, 2 maggio 2024 Secondo la pubblica accusa, gli imputati per gli attentati dell’11 settembre possono essere detenuti a tempo indefinito anche senza processo indipendentemente dall’esito del loro processo, gli uomini accusati di aver organizzato gli attentati dell’11 settembre 2001 possono essere tenuti per sempre come prigionieri nella guerra contro il terrorismo, in una forma di detenzione preventiva, ha detto mercoledì un procuratore militare al giudice che presiedeva il processo. Questa affermazione è stata fatta in risposta ai difensori di Mustafa al-Hawsawi, che hanno chiesto che in caso di eventuale condanna, vengano defalcati già in sentenza gli anni che ha già passato a Guantánamo, o comunque nelle mani delle autorità statunitensi. Al-Hawsawi è stato arrestato nel 2003. L’argomentazione, in un’udienza preliminare del caso dell’11 settembre, processo che si trascina da molti anni senza riuscire a superare la fase preliminare, è stata l’ultima puntata di una questione a lungo irrisolta: se un prigioniero, una volta completata una condanna per crimini di guerra, abbia diritto al rilascio dalla detenzione militare. Il col. Joshua S. Bearden, procuratore dell’esercito, ha detto che la risposta è no. Ha esortato il giudice a respingere la richiesta in quanto prematura, perché il governo, nel processo in questione, sta chiedendo la pena di morte, e comunque si tratta di decisioni che vanno oltre l’autorità del singolo giudice. Non è stata fissata una data per l’inizio del processo ai 4 uomini accusati di aver cospirato nei dirottamenti di aerei di linea che hanno ucciso quasi 3.000 persone l’11 settembre 2001. Hawsawi è stato detenuto negli ultimi 20 anni, ma non come punizione o esclusivamente per il processo, ha dichiarato il colonnello Bearden. Il procuratore ha detto che le accuse contro Hawsawi sono separate dalla detenzione che lo tiene “fuori dal campo di battaglia” nella guerra degli Stati Uniti contro Al Qaeda. Hawsawi è accusato di aver aiutato alcuni dei dirottatori con le finanze e l’organizzazione dei viaggi dagli Emirati Arabi Uniti per conto di Khalid Shaikh Mohammed, ritenuto la mente del complotto dell’11 settembre. I due uomini sono stati catturati insieme il 1° marzo 2003, in un raid in una casa di Rawalpindi, in Pakistan. “Non commettete errori”, ha detto il colonnello Bearden. “Il conflitto è ancora in corso. Le ostilità esistono ancora”. Sean M. Gleason, avvocato di Hawsawi, cittadino saudita, ha sostenuto che il suo cliente si trova in detenzione preventiva dal momento della cattura perché gli Stati Uniti avevano già emesso un mandato di arresto nei suoi confronti e preparato un’accusa segreta. In base a questo criterio, ha affermato, il prigioniero ha finora diritto a 253 mesi di sconto di pena. Gli avvocati di Hawsawi hanno scritto nella loro memoria che anche se “la pena di morte è in agguato come potenziale sentenza”, ciò non dovrebbe impedire al giudice di concedere un’attenuazione “che aprirebbe la porta a una sentenza diversa”. I suoi avvocati hanno chiesto separatamente al giudice di archiviare il caso a causa delle torture subite dal signor Hawsawi durante la sua detenzione negli Stati Uniti. Gli avvocati difensori dei sospettati hanno sollevato la questione come questione pre-processuale, sostenendo che gli imputati delle commissioni militari dovrebbero avere diritto al credito di pena come gli altri imputati militari o penali statunitensi. Nel 2010, il Pentagono ha aggiunto una norma al Manuale per le Commissioni Militari che specificamente priva i giudici dei crimini di guerra del diritto di assegnare tale credito. Ma Gleason ha sostenuto che il Congresso non ha mai incluso questa disposizione nelle varie leggi che hanno creato le commissioni militari, e quindi il suo diritto al credito era essenzialmente retroattivo. Il giudice, Col. Matthew N. McCall, mercoledì non ha posto domande sulla dottrina generale della detenzione preventiva. Ma ha chiesto perché un “processo penale” non dovrebbe essere “gestito come qualsiasi altro processo penale”. “Sono detenuti per legge di guerra per sempre, fino alla cessazione delle ostilità”, ha risposto il colonnello Bearden. James G. Connell III, che rappresenta un altro imputato, Ammar al-Baluchi, ha chiesto un credito di pena simile. Connell ha sostenuto che un imputato, soprattutto quando valuta se dichiararsi colpevole di un crimine, dovrebbe sapere quanto credito riceverebbe per la pena scontata. Connell ha anche contestato la caratterizzazione da parte del pubblico ministero del signor Baluchi come “detenuto in base alla legge di guerra” nei suoi primi anni di permanenza nella rete segreta di prigioni all’estero della C.I.A., nota come siti neri. I prigionieri detenuti in base alla legge di guerra hanno diritto a ricevere le visite dei delegati del Comitato Internazionale della Croce Rossa. I sospetti dell’11 settembre sono stati catturati nel 2002 e nel 2003, ma non hanno potuto incontrare i rappresentanti della Croce Rossa fino all’ottobre 2006, un mese dopo il loro trasferimento a Guantánamo Bay. Dei 30 detenuti a Guantánamo Bay, 11 sono stati processati o condannati; 16 sono stati approvati per il trasferimento in altri Paesi, con accordi di sicurezza; e tre sono detenuti a tempo indeterminato senza accusa o processo, tenuti in base a questa dottrina come prigionieri della guerra per sempre contro il terrorismo. Arabia Saudita. L’attivista per i diritti delle donne Manahel al-Otaibi condannata a 11 anni di carcere di Erika Riggi iodonna.it, 2 maggio 2024 Istruttrice di fitness e blogger, ha 29 anni. Dai suoi account su X e Snapchat si mostrava come una donna progressista che amava il fitness, l’arte, lo yoga e i viaggi. Una donna che sosteneva la spinta modernizzatrice del principe ereditario Bin Salman. Accade nell’Arabia Saudita del principe Mohammed Bin Salman, il modernizzatore, paladino di importanti riforme per il Regno sia dal punto di vista economico e turistico, che sociale. Incluso l’allentamento del codice di abbigliamento per le donne. In un’intervista del 2019 Manahel al-Otaibi, istruttrice di fitness e artista, ha detto come, proprio grazie alle dichiarazioni del principe, si sentiva finalmente libera di esprimere le sue opinioni e di indossare ciò che le piace”. Oggi questa donna deve scontare undici anni di carcere. Un tribunale antiterrorismo l’ha giudicata per sua “scelta di abbigliamento” e il suo “sostegno ai diritti delle donne”. La condanna, resa nota solo ieri, è stata spiccata il 9 gennaio, durante un’udienza segreta del tribunale antiterrorismo. Alla base del verdetto, una legge - presente praticamente in tutti i regimi del mondo - che criminalizza l’uso del web per “trasmettere o pubblicare notizie, dichiarazioni, voci false o dannose”. Istruttrice di fitness, attivista per i diritti umani e blogger dell’Arabia Saudita, Al-Otaibi ha 29 anni. Dai suoi account su X e Snapchat si mostrava come una donna giovane e progressista che amava il fitness, l’arte, lo yoga e i viaggi. Negli ultimi anni, dal suo arresto, nel 2022, è stata sottoposta a gravi abusi, a cominciare dalla scomparsa forzata durata cinque mesi, da novembre 2023 ad aprile 2024. Una volta tornata in contatto con la sua famiglia, ha riferito di essere stata tenuta in isolamento, di avere una gamba fratturata e di aver subito abusi fisici. I funzionari sauditi hanno negato le affermazioni. Condannata per i suoi hashtag e i suoi selfie - Tra le altre accuse, Otaibi è sotto processo per aver utilizzato hashtag come #society_is_ready e #EndMaleGuardianship per “promuovere la liberazione e la caduta del sistema del tutore di sesso maschile”. Tra i suoi criminini, la pubblicazione su Snapchat di un selfie in cui non indossava l’abaya (l’abito tradizionale saudita). E l’aver postato contenuti in favore dei diritti delle donne. Anche sua sorella, Fawzia al-Otaibi, è stata accusata di non indossare abiti decenti. Ma è riuscita a fuggire dall’Arabia Saudita. Non può tornare in Arabia Saudita, dove verrebbe arrestata per “aver diretto una campagna di propaganda per istigare le donne saudite a denunciare i principi religiosi e a ribellarsi contro usi e costumi della cultura saudita”. Un’altra sorella della giovane, Maryam, è una nota sostenitrice dei diritti delle donne che è stata detenuta e poi rilasciata. Vive a sua volta nel Regno Unito. Nel 2017 ha trascorso 104 giorni in carcere per il suo attivismo in favore dei diritti delle donne e per la fine del sistema del tutore di sesso maschile. Il femminismo in Arabia Saudita - Nel 2019, nell’ambito delle varie iniziative dimostrative pensate per promuovere il turismo, le autorità saudite hanno annunciato un allentamento dei codici di abbigliamento per le donne straniere che visitano il Paese. Ma questa concessione non è stata estesa alle cittadine residenti, che invece si trovano ad affrontare l’incertezza giuridica sulla propria libertà di vestirsi come vogliono. Nel 2019, in un video promozionale pubblicato dall’agenzia di sicurezza statale, le autorità hanno addirittura classificato il femminismo come una forma di pensiero “estremista”. Ma sono state costrette a fare rapidamente marcia indietro. La Commissione saudita per i diritti umani ha dovuto chiarire che il femminismo “non è un crimine”. Le attiviste per i diritti delle donne in carcere in Arabia Saudita - Il caso di Manahel al-Otaibi non è isolato. Tante donne in Arabia Saudita sono state condannate a pene molto dure per essersi espresse sui social media. Si tratta di provvedimenti evidentemente in contraddizione con la volontà espressa negli ultimi anni dal principe ereditario Mohammed bin Salman di allentare le restrizioni a cui sono soggette le donne nel paese. Tra loro Salma al-Shehab, studente all’università di Leeds e madre di due bambini, arrestata al suo rientro in patria per le vacanze, dopo aver ritwittato dei post di dissidenti, condannata a 27 anni. E poi Fatima al-Shawarbi e Sukaynah al-Aithan, condannate rispettivamente a 30 anni e 40 anni di carcere nel 2023. Nourah al-Qahtani, professoressa di letteratura e critica moderna al College of Arts della King Saud University, a Riyadh, è stata condannata a 45 anni nel 2022.