La politica vuole finalmente occuparsi delle carceri italiane? di Claudio Cerasa Il Foglio, 29 maggio 2024 I partiti dovrebbero candidare uno qualsiasi dei 61.049 detenuti nelle patrie galere. Dal caso di Ilaria Salis, a quello di Chico Forti, l’attenzione per le condizioni delle carceri del mondo, da parte della maggioranza e dell’opposizione, è commovente. Forse ora però sarebbe il caso di concentrarsi sullo stato di quelle italiane. Nelle ultime settimane, nel nostro Paese, si è verificato un piccolo e formidabile miracolo politico che merita di essere preso decisamente sul serio vista la sua oggettiva eccezionalità. Il piccolo e formidabile miracolo ha investito tutto il fronte dei partiti, in modo trasversale, e ha permesso di mettere in mostra il grado di attenzione che vi è tra i leader dei vari partiti attorno a un tema molto delicato, messo al centro dell’agenda politica dalla quasi totalità dei leader politici. In estrema sintesi: l’attenzione alle condizioni delle carceri nel mondo. A sinistra, lo avrete visto, si è fatto un gran parlare, per molti mesi, del caso Ilaria Salis. Un pezzo di sinistra, il Pd, ha trasformato la maestra accusata di aver aggredito due uomini in Ungheria in una nuova eroina dell’antifascismo. E la scintilla ricorderete quando è scattata: nel momento in cui le televisioni hanno mostrato le immagini orribili di Ilaria Salis con le catene ai polsi e i ceppi alle caviglie in un’aula di tribunale in Ungheria. Il resto della storia la conoscete. Il Pd ha provato a candidare Salis, le correnti del Pd hanno spiegato alla segretaria del Pd che in lista non c’erano più posti da capolista, Salis è stata candidata da Bonelli e Fratoianni e da quel momento l’attenzione del Pd per Salis è diminuita sostanzialmente (ed è diminuita ancora di più dopo il passaggio di Salis dalle carceri ai domiciliari: campagna elettorale rovinata). L’attenzione profonda per le condizioni dei carcerati da parte del mondo della politica (non starete mica pensando che la sinistra si è interessata a Salis solo perché detenuta nelle carceri di un amico di Meloni, no?) ha toccato un’altra vetta significativa sul caso Chico Forti, caso che il governo italiano è riuscito, come hanno tentato di fare tutti gli ultimi governi italiani compresi quelli guidati dal M5S, a strappare alla terribile giustizia americana e a restituire finalmente alle nostre affidabilissime patrie galere (siamo ironici) dopo anni di lunghi contenziosi diplomatici con i governi americani. Un terzo caso di attenzione ancora una volta speciale dedicata dal nostro Paese al tema delle carceri riguarda l’estradizione non concessa la scorsa settimana a un uomo di nazionalità turca, di origine curda, arrestato dalle forze di polizia a Viterbo, con l’accusa di essere a capo di un gruppo criminale in Turchia. Il governo Erdogan ha chiesto di mandare in Turchia l’arrestato ma l’Italia ha manifestato perplessità di fronte alla richiesta di far scontare una pena in Turchia a un curdo. L’attenzione per le condizioni delle carceri del mondo, da parte della maggioranza e dell’opposizione, è commovente. Ma una volta esaurito l’interesse per i temi legati al giusto processo, alle derive della gogna e alla discrezionalità dei magistrati che esiste in giro per il mondo potrebbe essere utile concentrarsi qualche secondo sulle uniche carceri che la politica italiana sembra ignorare all’interno del famoso globo terracqueo: quelle italiane. Un piccolo ripasso. Al 31 marzo erano 61.049 le persone detenute, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti. Il sovraffollamento carcerario è tornato ai livelli di dieci anni fa, quando l’Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Da inizio anno, sono 35 le persone che si sono suicidate negli istituti penitenziari. In media ogni anno 961 cittadini finiscono dietro le sbarre senza avere responsabilità dei delitti che vengono loro attribuiti. E ogni anno sono circa due milioni di euro che lo stato spende per risarcire i cittadini vittime di errori giudiziari. Numeri da brividi. Che dovrebbero suggerire una riflessione, piccola ma necessaria. Una volta esauriti i nomi degli italiani detenuti all’estero da governi guidati da politici che non si amano, alle prossime europee, o anche prima, per mostrare attenzione alle condizioni drammatiche delle carceri sarebbe sufficiente una piccola mossa: pescare, a caso, uno dei 61.049 detenuti che si trovano in Italia e candidarlo capolista in tutte le circoscrizioni. Che aspettiamo? Il dramma sociale della carcerazione preventiva dei povericristi di Giuliano Ferrara Il Foglio, 29 maggio 2024 Mettere in cella gli indagati è un abuso su cui si tace dai tempi di Mani pulite. Oramai è diventata un’abitudine di desolazione e rassegnazione. Si sa che un terzo dei detenuti in Italia è statisticamente da considerare non colpevole, lo dicono i processi successivi o coevi alle spesso lunghe, inutili, dannose detenzioni preventive. Sappiamo anche che una specie di teoria legale surrettizia dice che non esistono innocenti ma solo colpevoli “in attesa” di essere scoperti. Parliamo spesso di povericristi, di persone che fanno una vita non integrata, che sono dentro per imputazioni a volte risibili, che non godono di protezione legale adeguata, e che quasi nessun occhio politico istituzionale o sociologico inquadra mai a sufficienza tra i fattori di sofferenza umana e sociale più pesanti. Conosciamo la differenza fra gli incarcerati per reati sociali e i cosiddetti colletti bianchi, che vivono la stessa condizione in modi generalmente meno disumani. Sappiamo anche che la detenzione preventiva e il suo uso giudiziario diffuso come pressione per imbastire processi periclitanti o fragili nelle loro fondamenta di indagine possono essere, nel caso di gente eletta per fare amministrazione e politica come in altri casi di giustizia penale ordinaria, strumenti del tutto illegittimi per cercare le prove attraverso la pressione personale dell’isolamento coatto. Nello stato di diritto, quando non esistano seri elementi che giustifichino la messa al bando degli indagati in un’inchiesta criminale, la reclusione o l’arresto a domicilio protratti nel tempo, condizioni che scandiscono settimane e mesi di interrogatori e ricerca delle prove, sono uno scandalo intollerabile o che dovrebbe essere considerato intollerabile. Nessun cittadino presunto innocente dovrebbe essere ristretto “in attesa” di essere scoperto colpevole. A Genova ormai da quasi un mese un certo numero di indagati del ceto politico amministrativo e imprenditoriale è sotto sequestro, ovvero sottoposto a detenzione preventiva in carcere o agli arresti domiciliari. Dall’epoca delle indagini milanesi dell’inizio anni Novanta del secolo scorso a questa procedura siamo ormai abituati, anche se è un’abitudine di desolazione e di rassegnazione. Gli indagati sono dentro, teoricamente, perché non fuggano, perché non inquinino le inchieste, perché non ripetano i reati, ma è convinzione comune che la vera ragione, patente all’epoca di Mani pulite e oggi appena dissimulata da modi meno impresentabili, è un’altra. Gli arresti a grappolo, le retate dei politici, le lunghe carcerazioni preventive furono notoriamente un modo spurio e illegale di gestire i processi, di ottenere confessioni sotto minaccia, di dare la stura a dimissioni a catena, e di dare un colpo politico definitivo al sistema dei partiti e a chi lo rappresentava, fino al cambiamento coatto della Costituzione e delle sue guarentigie a difesa della divisione dei poteri. Quello schema di giustizialismo penale non è superato. A Genova, per esempio, i magistrati indagano da quattro anni su corruzione e altro. Molto tempo per ottenere indizi concordanti e significativi, per cercare e trovare prove e giustificare incriminazioni, vista anche la piena disponibilità di intercettazioni a strascico, dirette o ambientali. Ora invece si dice, ragionevolmente, che i pm sono “a caccia” della prova, il che è palesemente assurdo e antigiuridico, visto che le prove sono o dovrebbero essere materiali d’accusa documentali e testimoniali in base ai quali si procede, ed eventualmente ci si può cautelare temporaneamente con la tecnica di polizia dell’arresto degli indagati. Ma che cosa impedisce di continuare a cercare elementi di accusa con gli indagati a piede libero? Niente. Salvo il fatto che il prezzo della libertà personale potrebbe essere l’inclinazione acquisita ad accusare e a testimoniare contro questo o quell’indagato. Questi metodi vanno avanti nel tempo, fanno sempre meno notizia, sono considerati scontati, i media discettano sull’interpretazione più o meno abusiva delle intercettazioni e perfino dei verbali di interrogatorio, dove un lecito diventa illecito per assonanza malevola, e il risultato è un sequestro giudiziario collettivo. Il dramma sociale della carcerazione preventiva dei povericristi è tremendo, questo sequestro è attutito dalle condizioni dei sequestrati, ma dal punto di vista della corruzione e consunzione dello stato di diritto, e degli effetti balordi sulla politica e l’opinione, è altrettanto pericoloso e scandaloso. La giustizia riparativa è in ritardo perché il carcere non riabilita di Luigi Patronaggio* Avvenire, 29 maggio 2024 Malgrado sia teoricamente tra i più avanzati, l’ordinamento penitenziario trova ostacoli alla sua applicazione in strutture e istituzioni carenti. E così il carcere non riabilita. Sono assolutamente d’accordo, e per taluni forse anche sorprendentemente d’accordo, con l’iniziativa dell’associazione Sciascia-Tortora affinché i neo-magistrati facciano una significativa esperienza professionale all’interno delle carceri. Lo spirito di tale iniziativa, tuttavia, non deve avere il sapore della aprioristica condanna morale della casta magistratuale sordamente arroccata sulla propria privilegiata torre, deve invece mirare a far prendere coscienza ai neo-magistrati di cos’è in concreto la pena che essi infliggeranno e se l’esecuzione di tale pena sarà in linea con il dettato costituzionale e con i principi enunciati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu). Una premessa non può essere però omessa: la nostra legge sull’ordinamento penitenziario, specie dopo la riforma Cartabia è, in linea teorica, una delle più avanzate al mondo, ma le istituzioni e le strutture che dovrebbero garantirne l’applicazione sono oggettivamente carenti. Talvolta in gravissimo ritardo come nel settore della giustizia riparativa, dove si registrano inefficienze nell’avvio dei Centri e delle Conferenze locali. Una prima generale considerazione sulla pena va inoltre formulata, essa infatti deve tendere al raggiungimento di due distinti obiettivi: uno volto alla punizione, repressione e prevenzione dei reati, l’altro volto alla rieducazione e riabilitazione del reo. A ben guardare, tuttavia, il tema della prevenzione è strettamente legato al tema della riabilitazione, perché solo un reo che ha preso coscienza della sua condotta deviante attraverso un percorso risocializzante sarà al riparo da ricadute e recidive. Sul tema della riabilitazione il nostro Paese presenta tuttavia ritardi d’ordine culturale, strutturale e organizzativo. Sul piano culturale, perché occorre comprendere che punire senza risocializzare non produce alcun effetto sull’ordine e la sicurezza pubblica. Sul piano strutturale, perché le nostre carceri sono per buona parte invivibili, senza adeguati servizi igienici, senza idonei spazi ricreativi, privi di una reale e costante assistenza sanitaria. Sul piano della organizzazione, perché, oltre ai carenti servizi di risocializzazione interni al carcere, occorre registrare una inadeguata relazione con le strutture esterne del Terzo settore abilitate a reinserire il condannato nella società civile. Costruire nuove carceri, alzare nuovi muri, senza completare gli organici della polizia penitenziaria, dei direttori, degli assistenti sociali e degli educatori non permette di realizzare alcun valido obiettivo. Sotto altro aspetto, occorre garantire all’interno degli istituti penitenziari una assistenza medica di base continuativa e porre una maggiore e più intensa attenzione al sostegno psicologico e alle cure psichiatriche del detenuto. È noto a tutti, infatti, il crescente dramma dei suicidi in carcere, arrivati quest’anno alla media di uno ogni tre giorni e mezzo. All’interno del disagio psichico, in particolare, grande attenzione deve essere dedicata al recupero di quanti sono affetti da tossico e alcool dipendenze. Per il superamento delle indubbie criticità della sanità carceraria è necessaria una interlocuzione fra l’amministrazione penitenziaria e le Regioni, perché la medicina del territorio deve essere anche la medicina degli istituti di pena, senza distinzione fra chi sta fuori e chi sta dentro le mura. Esiste infine il grande ed irrisolto problema del lavoro: quasi assente quello all’interno di troppi istituti, fragile e precario quello all’esterno. Puntare alla creazione di una rete di istruttori, di tecnici e di maestri artigiani e, al contempo, realizzare officine e laboratori interni, ovvero rilanciare le attività agricole e casearie, potrebbe essere un buon punto di partenza per offrire una successiva possibilità di lavoro esterno al condannato. Il lavoro esterno, stimolato da aiuti ed incentivi pubblici, deve essere qualificante, incentivante, equamente retribuito e tendenzialmente stabile, non già un espediente per reclutare mano d’opera di basso profilo a tempo determinato. Infine, occorre garantire un solido aiuto a quanti si impegnano nel Terzo settore, magari stornando a loro favore i profitti illeciti sottratti al crimine organizzato, offrendo vigore a quelle necessarie sinergie fra pubblico e privato, permettendo al settore pubblico di scaricare compiti non in grado di assolvere da solo. Qualsiasi soluzione del problema carcerario presuppone tuttavia la conoscenza del fenomeno dall’interno, in tal senso va salutata positivamente l’iniziativa dell’associazione Sciascia-Tortora, perché la popolazione carceraria ha composizione eterogenea e bisogni diversificati. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, d’altra parte, non può abdicare al proprio ruolo di controllore, ancorché tale ruolo vada interpretato nel rigoroso rispetto della legge e della persona ed evitare il ripetersi di fenomeni come quelli registrati, da ultimi, al Beccaria di Milano. Doverosa quindi l’attenzione di tutti gli operatori della giustizia al mondo delle carceri, nessuno escluso, perché da luoghi di gratuita sofferenza si trasformino in luoghi di effettivo recupero. *Procuratore generale di Cagliari Nordio istituisce reparti speciali per picchiare i detenuti di Angela Stella L’Unità, 29 maggio 2024 Istituito un reparto speciale della Polizia penitenziaria contro le rivolte in carcere, potrà intervenire anche in quelle minorili. È polemica. Da oggi e fino a data da destinarsi, l’Unione delle Camere penali italiane, in collaborazione con il proprio Osservatorio carcere, ha organizzato una maratona oratoria in vari luoghi pubblici di tutto il Paese per rappresentare “alla società civile la condizione inumana dei detenuti, il degrado della realtà carceraria nella quale si vedono costretti a svolgere la propria attività lavorativa gli agenti di polizia penitenziaria e gli operatori tutti, le inefficienze del sistema, le mancate riforme, l’irresponsabile indifferenza della politica e ogni altro aspetto che possa offrire l’immagine del fallimento di un sistema che rappresenta la negazione stessa della democrazia ed organizzare ogni opportuna iniziativa di informazione e protesta”. I numeri parlano chiaro: trentasei suicidi dall’inizio dell’anno tra i detenuti e quattordicimila reclusi in più rispetto alla capienza regolamentare dei nostri istituti di pena. Secondo i penalisti, guidati da Francesco Petrelli, “il costante aumento del sovraffollamento carcerario (oramai prossimo a quello della sentenza Torreggiani) ed il conseguente peggioramento delle condizioni di vita a cui sono costretti i detenuti, li priva del più elementare e al contempo fondamentale dei diritti, ovvero quello alla dignità umana”. Da qui spesso atti di autolesionismo. E la situazione tenderà a peggiorare con l’arrivo del caldo rovente nelle carceri. Eppure “la privazione della dignità umana ad opera dello Stato non solo è certamente illecita, ma appare assolutamente inaccettabile”. Tuttavia, si legge ancora nella delibera di Giunta dell’Ucpi, “i decisori politici, pur inevitabilmente consapevoli della eccezionale gravità della situazione, hanno offerto un’indecorosa immagine di totale immobilismo”. Nel momento in cui scriviamo ancora non è giunta conferma del fatto che oggi sul tavolo del Consiglio dei Ministri arriverà, oltre al ddl costituzionale sulla separazione delle carriere, anche un decreto legge sulle carceri che dovrebbe prevedere alcune misure per lo sfoltimento della popolazione detenuta. Però è polemica sul decreto del 14 maggio firmato dal Ministro della giustizia Nordio che stabilisce l’istituzione del “G.I.O.”, Reparto specializzato del Corpo di Polizia Penitenziaria, che può intervenire per fronteggiare anche negli istituti minorili problemi di sicurezza. A sollevare criticità è la Camera penale di Roma che scrive: “Il decreto interviene mentre in Commissione Giustizia si discute un disegno di legge a firma Nordio, Piantedosi, Crosetto dal titolo “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio” che, interamente connotato da una visione panpenalistica e carcerocentrica, inserisce tra le migliaia di fattispecie di reato previste dal nostro ordinamento quella di “rivolta” (art. 18 dlgs) all’ interno delle carceri e prevede espressamente la rilevanza penale della c.d. “rivolta passiva” che non si sostanzia di condotte violente o dannose ma esclusivamente di espressioni di dissenso o di protesta pacifica”. Si tratta, secondo i penalisti capitolini, “di una precisa volontà politica, quella di perseverare nella compressione dei diritti delle persone detenute trattandole come oggetto di controllo e di contenimento”. Pertanto chiedono che gli appartenenti al Gio “possano entrare nelle carceri solo se dotati di body cam per una inderogabile esigenza di trasparenza, a tutela dei ristretti e ancora di più della polizia penitenziaria che possa fornirsi di strumenti di prova certa per rifuggire l’eventualità di essere oggetto di false accuse di condotte indecorose”. Teste di cuoio per sedare le rivolte. De Fazio: “Questo carcere è illegale” polpenuil.it, 29 maggio 2024 Il Governo ha istituto un nuovo reparto di Polizia penitenziaria, il Gruppo di Intervento Operativo (Gio) per sedare le rivolte nelle carceri. Il problema, ci spiega il segretario del sindacato Uil-Pa, Gennarino De Fazio, è che il sistema delle carceri attualmente “è illegale”. E che prima di pensare alla repressione, servirebbe ridurre il numero dei detenuti e aumentare quello degli agenti. Ne hanno parlato in pochissimi (lo ha scritto in un colonnino il Manifesto), ma pochi giorni fa, il 14 maggio, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, con un decreto ministeriale, ha istituito un nuovo reparto composto da agenti di Polizia penitenziaria: si chiama “Gruppo di Intervento Operativo (Gio). A che serve? A intervenire in caso di rivolte in carcere. Voi direte, le rivolte ci sono sempre state. Sì, ma non c’era il reato di rivolta, introdotto lo scorso novembre dal governo. Punisce con pene da 2 a 8 anni chi si rivolta con uso di violenza o di minaccia, ma anche chi fa resistenza passiva. Voi ribatterete: ma se prima le rivolte c’erano, e in effetti c’erano, e non esisteva il reato, quelle rivolte non era punite? Sì, erano punite eccome: con fattispecie come “radunata sediziosa”, violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento. E allora perché intervenire così? Perché per questo governo la narrazione è importante. E come si è inventato il reato di rave, così si è voluto chiarire che le rivolte non saranno più tollerate, anche in forma di resistenza passiva, e che saranno severamente punite con un reato nuovo di zecca. E prima di essere punite, saranno sedate da corpi specializzati. I Gio, appunto. Visti i diversi e documentati casi di violenza da parte di squadrette di agenti – dalle rivolte sanguinose e dimenticate di Modena durante il Covid, alle torture di Santa Maria Capua a Vetere, ai pestaggi al carcere minorile Beccaria – c’è da preoccuparsi per questo nuovo Gio? In teoria, no. Ben venga un corpo specializzato, ben addestrato, che sappia come riportare l’ordine, possibilmente senza eccessi di reazione e senza improvvisazioni pericolose. In pratica, è da vedere all’opera. Per fare chiarezza, abbiamo scambiato due chiacchiere con chi questi temi li conosce bene. Perché è spesso dietro le sbarre, ma dall’altra parte. Si tratta di Gennarino De Fazio, segretario Uilpa della polizia penitenziaria. Segretario, è soddisfatto dell’istituzione dei Gio? “Non proprio, perché siamo in un’emergenza permanente. Dove li troverà Nordio questi agenti? Il corpo ha già una carenza di organico di 18 mila unità. Questi agenti diventeranno una sorta di palla da biliardo che schizza da una parte all’altra per fronteggiare le emergenze”. Sono state promesse nuove assunzioni... “Certo, sono previste 2004 assunzioni quest’anno. Ma sa nello stesso anno quanti pensionamenti sono previsti? Sono 2040. Faccia i conti. Ora c’è un emendamento pendente del governo al disegno di legge sulla sicurezza che potrebbe aumentare di qualche unità le assunzioni”. Una buona notizia, no? “No, perché questo emendamento prevede una riduzione del tempo di addestramento del personale, per consentire al governo di poter dire di avere assunto qualche persona in più. In tempi normali il corso durava due anni. Durante il Covid il periodo era stato ridotto, in via transitoria, a sei mesi. Ora, con questo emendamento si riduce ulteriormente l’addestramento a 4 mesi. Considerando 20 giorni di assenza possibili e i weekend, fanno solo 60 giorni effettivi. Questo vuol dire prendere persone a caso e buttarle nelle carceri”. Però, a parte la questione organico, la presenza di un corpo del genere è condivisibile? “Sì, l’idea va nella direzione giusta. Anzi, ci andrebbe, se l’evento critico fosse un’eccezione. Purtroppo non è così. Le rivolte e le aggressioni contro gli agenti sono in aumento”. Per questo è stato creato il reato di rivolta... “Sì ma non basta. Questo governo pensa solo alla repressione”. Detto dal segretario di un sindacato degli agenti fa un po’ impressione... “L’ho già detto e lo ripeto. Oggi le carceri sono illegali. Finché non si rendono vivibili gli istituti, non si può intervenire con la repressione. Prima bisogna ripristinare la legalità. Bisogna ridurre la densità detentiva: ci sono 14 mila detenuti in più della capienza. Bisogna aumentare il personale: mancano 18 mila agenti. E bisogna intervenire sulla sanità carceraria”. Sono anche i punti sollevati anche dal capo dello Stato... “Esatto. Nelle celle oggi ci sono malati di mente abbandonati a loro stesso, in una situazione kafkiana. Non dovrebbero stare lì. Così come non ci dovrebbero stare i tossicodipendenti”. Il reato di rivolta serve? Oppure no? “L’abbiamo detto anche alla premier. Si deve affrontare il problema a monte, non a valle. Così si rischia di innescare un circolo vizioso, che aumenta la permanenza dei detenuti invece di deflazionare. La previsione di un reato specifico di per sé non è negativa, perché si deve porre un argine legislativo ad alcune condotte. Ma soltanto se sono un’eccezione e se sono concepite in maniera dolosa. E questo può avvenire solo se un carcere è legale. Oggi la rivolta è una reazione quasi giustificata rispetto a quello che si vive nelle carceri, che porta all’esasperazione i detenuti”. Nel frattempo le aggressioni continuano. Creare un gruppo speciale come il Gio non è rischioso? “No, al contrario. Le carceri sono davvero un generatore di violenza. E un personale non formato e male equipaggiato, che ogni giorno subisce le vessazioni dei detenuti, può reagire in modo incontrollato. Ben venga dunque un corpo specializzato. Ma con quali agenti? A fare cosa? Il rischio è che il Gio si trasformi in Gruppo imboscati speciali”. Le rivolte ci sono perché le condizioni delle carceri sono disumane e terribili. Ma alcune volte sono enfatizzate. È successo l’altro giorno con Benevento. Si era detto del sequestro di personale e di aggressioni. E non era vero... “È vero, non ci sono state aggressioni e sequestri. Ma se un gruppo di detenuti occupa una sezione e la demolisce, come la chiamiamo? Sfasciare tutto è rivolta oppure no? Detto questo, senza un ripristino di condizioni di legalità e di rispetto, la repressione servirà a poco”. Salviamo i ragazzi: chiudiamo le carceri per minori di Massimiliano Smeriglio L’Unità, 29 maggio 2024 Gli Ipm sono sempre più pieni a causa del dl Caivano. Diventano luoghi in cui concentrare sofferenza e difficoltà di giovani cresciuti in contesti di marginalità sociale. Vanno ingaggiati in forme radicalmente alternative alla privazione della libertà. Perché no, perché non dovremmo squarciare il velo di ipocrisia che avvolge il dibattito sul sistema detentivo dei minori proponendo la chiusura degli istituti penitenziari minorili. Soprattutto dopo i fatti di Milano. Il sistema di attuazione della pena in un paese democratico dovrebbe essere il termometro attraverso cui si misurano i diritti dei cittadini. Perché coloro che sono privati della libertà personale sono cittadini la cui vita si trova interamente nelle mani dello Stato. Lo Stato italiano, più volte, ha dimostrato di non essere in grado di tutelare i diritti minimi, e, talvolta, addirittura l’incolumità, degli uomini e delle donne reclusi dentro gli istituti penitenziari. Gli oltre trenta suicidi avvenuti dietro le sbarre solo dall’inizio del 2024 dovrebbero aprirci gli occhi su un mondo che volontariamente abbiamo allontanato dal dibattito pubblico. Il carcere come buco nero, che interessa a pochi. Accettiamo che nel buio il carcere diventi luogo di sofferenza e privazioni che vanno ben oltre la pena della privazione della libertà personale. Una sorta di pena aggiuntiva. Se non siamo in grado di affrontare il tema di come la pena debba essere strumento di risocializzazione delle persone detenute, allora almeno iniziamo dal salvare i ragazzi. I dati che emergono dall’ultimo rapporto di Antigone sulle presenze di minori negli istituti penitenziari devono spingere ad un dibattito serio sul senso di queste strutture: abbiamo veramente bisogno degli Istituti penitenziari minorili? Il Decreto Caivano, nel pieno tracciato di un abuso del diritto penale come strumento emergenziale e politico per gestire e normare i fenomeni sociali, ha generato un meccanismo di progressivo aumento delle presenze di giovanissimi dietro le sbarre. Approvato sull’onda emotiva dei terribili fatti dello scorso anno, ha però incentivato e favorito la detenzione come misura cautelare anche nel caso di reati di lieve entità imputati a minorenni. In questo modo, il rischio concreto è quello di replicare il sovraffollamento che aggrava le strutture penitenziarie per adulti. Come se non bastasse, ad oggi la popolazione giovane reclusa è in maggioranza composta da persone che non sono state condannate in via definitiva, ma che subiscono la privazione della libertà personale come misura cautelare, spesso per questioni relative a piccolo spaccio e consumo di sostanze stupefacenti. Giovani che difficilmente vengono instradati verso percorsi di terapia e riabilitazione verso le dipendenze. All’inizio del 2024 erano circa 500 i detenuti nelle carceri minorili italiane, un dato in crescita rispetto agli ultimi dieci anni. È solo uno degli interessanti dati raccolti nel recente rapporto di Antigone, pubblicato proprio riguardo le condizioni dei 17 Istituti Penitenziari Minorili presenti sul territorio italiano (tendenzialmente al Sud, con la Sicilia che ne conta ben 4). I reati commessi sono in gran parte contro il patrimonio, solo il 22% riguarda reati contro la persona. Gli ingressi in IPM sono stati 835 nel 2021, a fronte dei 1143 del 2023. I ragazzi in misura cautelare erano 340 nel gennaio 2024, mentre erano 243 un anno prima. Parliamo di ragazze e ragazzi in gran parte minorenni, che sono quasi il 60% dei presenti, contro un 40% di presenze di giovani adulti, mentre prima del Decreto Caivano la situazione era esattamente invertita. Pesa, infatti, su questo la possibilità introdotta dal Decreto Caivano di trasferire i ragazzi maggiorenni dagli IPM alle carceri per adulti. Un dato che salta all’occhio è quello relativo alla composizione, che vede aumentare la percentuale dei reclusi stranieri all’aumentare della restrittività del dispositivo di pena. In questo senso, la messa alla prova e la permanenza nelle comunità sono misure maggiormente utilizzate per i ragazzi italiani. Le torture e le vessazioni emerse, poi, dal caso gravissimo del Beccaria di Milano aprono gli occhi anche su un altro spaccato: la violenza insopportabile e strutturale cui questi ragazzi sono sottoposti quotidianamente. Così gli Istituti Penitenziari Minorili diventano luoghi in cui concentrare la sofferenza e le difficoltà di giovani cresciuti in contesti di marginalità sociale. Lo Stato assume la violenza e la repressione come unica forma di relazione, evitando invece di affrontare il problema alla radice. La redistribuzione di opportunità che permettano a tutte e tutti i ragazzi di crescere e sviluppare a pieno la propria personalità. Un impegno tracciato dalla nostra stessa Carta costituzionale. Repressione, violenza e marginalizzazione non possono che innescare spirali che inducono al crimine e alla recidiva. Un giovane che finisce nel sistema penitenziario è un cittadino in formazione nelle mani dello Stato: per questo dovrebbe essere responsabilità e compito di una democrazia matura quello di assumerne la formazione scolastica e professionale, la crescita all’interno di comunità che possano costituire opportunità di scelta che spesso molti ragazzi non hanno. In questo senso, l’Europa potrebbe fare molto. Immaginiamo programmi per l’apprendimento di lingue e culture degli altri paesi, per lo scambio culturale e, perché no, opportunità di mobilità interna all’Unione non solo per le eccellenze ma anche per gli ultimi. Allargando Erasmus anche a chi è espulso dal sistema formativo. Uscire dalla marginalità e costruire nuova cittadinanza attraverso lo scambio, la cultura, la formazione professionale, la creatività. Oggi, mentre lo Stato è assente o violento, questo compito è svolto nel silenzio da alcune realtà. Mi viene in mente la comunità Kayros, quella di don Claudio Burgio, che accoglie in comunità residenziali minori adolescenti e giovani maggiorenni con procedimenti penali, provvedimenti amministrativi e civili. Nelle stanze di quella comunità si è formata un’intera generazione di nuovi artisti, italiani di seconda generazione, che stanno conquistando il mercato musicale europeo. Ragazzi che riescono ad uscire dalla marginalità sociale grazie alla musica, all’arte, nonostante lo Stato continui a mettergli i bastoni tra le ruote. Il caso di Zakaria Mouhib, in arte Baby Gang, in questo è emblematico. Secondo quanto raccontato da Le Iene, il ragazzo sarebbe stato nuovamente recluso per aver sponsorizzato l’uscita del suo nuovo disco su Instagram: un altro arresto per il ragazzo, che a soli 22 anni oggi rischia di passare l’ennesimo compleanno con i compagni di cella. Baby Gang a marzo è stato il rapper italiano con più ascolti su Spotify. Dal carcere di Busto Arsizio, dov’è attualmente recluso, lancia un grido di allarme verso il mondo di fuori e inizia uno sciopero della fame con l’obiettivo di accendere una luce sulle condizioni degli istituti penitenziari. “A spaventarmi non è il carcere, è il sistema, è l’idea di essere marchiato a vita, la sensazione che vogliono impedirmi di splendere. Io non sono un pericolo per la società, ma ho sempre più paura che questa società sia un pericolo per me”. Raccogliamo la voce di questi ragazzi e accendiamo la luce dietro le sbarre. Il primo passo dovrebbe essere quello di ingaggiarli in forme radicalmente alternative alla privazione della libertà. Il secondo chiudere la vergogna delle carceri per ragazzi poco più che bambini. “Evado a lavorare”: terza edizione del bando per il reinserimento delle persone detenute La Repubblica, 29 maggio 2024 Il lavoro è lo strumento fondamentale per il reinserimento sociale delle persone detenute. Parte da questa certezza la terza edizione del bando “Evado a lavorare”, promosso dalla Fondazione Con il Sud. L’iniziativa mette a disposizione complessivamente 3 milioni di euro e si rivolge alle organizzazioni di Terzo Settore di Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia. Il lavoro restituisce dignità riduce le recidive. La restituisce al tempo trascorso in carcere per scontare la propria pena, ma è l’elemento principale che riduce drasticamente le percentuali di recidive che si verificano in quasi il 70% dei casi tra chi non lavora e solo nel 2% tra chi ha vissuto un’esperienza lavorativa, che nello stesso tempo beneficia anche di ricadute positive sull’autostima e sul benessere. Ciò acquista ancora più importanza se si considerano gli allarmanti dati sul fenomeno dell’autolesionismo e dei suicidi in carcere: da inizio 2024 i casi di suicidio sono già 30, il 13% dei quali ha riguardato la fascia di età tra i 16 e i 25 anni. I dati del Cnel. Attualmente, come spiega il Cnel, i detenuti e le detenute che lavorano con un contratto collettivo nazionale sono solamente il 34% (18.654) della popolazione carceraria, di cui 16.181 alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e 2.473 (4% della popolazione carceraria) per imprese o cooperative esterne. Per citare la situazione di due istituti penitenziari del Sud Italia, secondo il XVIII rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione a Poggioreale lavorano solo 280 detenuti sui 2.190 presenti, meno del 13%; ad Agrigento solo 46 su 311 (15%). Pochissimi i corsi di formazione attivati. Considerazioni analoghe possono essere fatte per la formazione. Sempre secondo dati Antigone, i corsi attivati all’interno degli istituti carcerari sono stati 148 - meno di un corso per istituto - di cui solo 100 portati a termine. Se nel 1996 si riusciva a coinvolgere l’8,34% dei detenuti presenti, già dal 2016, nonostante la disponibilità di risorse pubbliche per la formazione dei detenuti, viene raggiunto solo il 3%, con una riduzione significativa dell’offerta di formazione professionale nel corso degli ultimi 25 anni. Il lavoro è davvero una seconda opportunità. “I dati, se fosse necessario, ci dimostrano chiaramente quanto il lavoro sia uno strumento imprescindibile per dare una seconda opportunità a persone che hanno scontato o stanno scontando la propria pena - dice Stefano Consiglio, Presidente della Fondazione CON IL SUD - non solo, l’impegno lavorativo permette di valorizzare o incrementare le proprie competenze, alimentando l’autostima delle persone detenute”. L’aspetto della convenienza economica dello Stato. “Gli obiettivi raggiunti dai 20 progetti che abbiamo finanziato con le 2 edizioni precedenti di questo bando - ha aggiunto Consiglio - ci confermano questa realtà e rendono ancora più consapevole e convinto il nostro impegno in questa direzione. Un lavoro che, oltre ad essere coerente con la nostra missione, può generare anche un beneficio economico per l’intero Paese: come rilevato dalla Bocconi, infatti, la recidiva di una persona detenuta “costa” alla comunità 154 euro al giorno”. Chi potrà partecipare al progetto. Il bando si rivolge a partenariati composti da almeno 2 organizzazioni di Terzo Settore oltre a ogni struttura penitenziaria competente in base alla tipologia di intervento proposta e alla situazione delle persone coinvolte. Potranno prendere parte alla partnership anche istituzioni locali, scuole, associazioni di categoria, centri per l’impiego e soprattutto imprese appartenenti al tessuto imprenditoriale locale e nazionale. I tassi di recidiva nel lungo periodo. Saranno sostenute iniziative capaci di favorire concreti processi di reinserimento sociale e lavorativo per persone in esecuzione penale, favorendone la progressiva autonomia e, con l’intento di dare piena attuazione alla funzione rieducativa della pena e ridurre i tassi di recidiva nel lungo periodo, promuovendo allo stesso tempo percorsi di responsabilizzazione della comunità, reti di sostegno accoglienti e inclusive e iniziative di riparazione. L’occupazione principale elemento di riscatto. Tutte le iniziative finanziate dovranno includere la componente occupazionale quale strumento di riscatto e inclusione sociale dei detenuti anche attraverso l’attivazione o il potenziamento di servizi volti a garantire un’adeguata connessione dentro-fuori il carcere. I progetti dovranno mettere al centro le persone in esecuzione penale e porre attenzione anche a tutte le altre dimensioni rilevanti della loro vita (es. abitativa, sanitaria, legale, ...) promuovendo l’acquisizione di competenze e il rafforzamento delle relazioni affettive, funzionali a garantire l’efficacia dei percorsi di reinserimento. La scadenza del bando. Il Bando, pubblicato sul sito della Fondazione Con il Sud scade il 25 settembre 2024 e prevede la presentazione delle proposte esclusivamente online tramite la piattaforma Chàiros. Cos’è la Fondazione Con il Sud. È un Ente non profit privato nato nel novembre 2006 dall’alleanza tra le Fondazioni di origine bancaria e il mondo del Terzo Settore e del volontariato per favorire lo sviluppo del Sud Italia attraverso la promozione di percorsi di coesione sociale. La Fondazione sostiene interventi “esemplari” per l’educazione dei ragazzi alla legalità e per il contrasto alla dispersione scolastica, per valorizzare i giovani talenti e attrarre i “cervelli” al Sud, per la tutela e valorizzazione dei beni comuni (cultura, ambiente, riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie), per la qualificazione dei servizi socio-sanitari, per l’integrazione degli immigrati, per favorire il welfare di comunità. In 16 anni ha sostenuto oltre 1.600 iniziative, tra cui la nascita delle prime 7 Fondazioni di comunità meridionali (nel Centro storico e nel Rione Sanità a Napoli, a Salerno, a Benevento, a Messina, nel Val di Noto, ad Agrigento e Trapani), coinvolgendo 7 mila organizzazioni diverse. Ddl Sicurezza, la maggioranza litiga sugli emendamenti della Lega di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 maggio 2024 Camera, Commissioni Giustizia e Affari Costituzionali. I presidenti ai relatori: “Attenti al rispetto dei principi costituzionali”. Il governo rafforza lo stop alla cannabis light. Sullo stop alla cannabis light - che entrerebbe così nel mercato illegale e in mano alle mafie, al pari della cannabis psicotropa - tutti d’accordo, nella maggioranza. Anzi, dal governo arriva la giustificazione che rafforza l’intenzione. Così come tutti d’accordo anche sui nuovi reati di “rivolta in carcere” e di “integralismo”, e sullo scudo penale in favore dei pubblici ufficiali “costretti” a usare la violenza. Inoltre, per il momento, almeno fino alle elezioni, vietato discutere delle sanzioni maggiorate per i reati di violenza o minaccia “commessi al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica”. Ma su altri emendamenti al ddl Sicurezza targati Lega sale la tensione nella maggioranza di governo, e la spaccatura si fa sempre più evidente nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera, riunite in sede referente. Ieri, infatti, Ciro Maschio di Fd’I e Nazario Pagano di FI, rispettivamente i due presidenti della I e II commissione, hanno dichiarato inammissibili 44 emendamenti, tra i quali una decina delle 35 proposte di modifica presentate dalla Lega al testo governativo firmato Piantedosi-Nordio-Crosetto. Dopodiché - cosa assai insolita - nel loro speech i due esponenti della maggioranza hanno invitato i relatori che dovranno dare “pareri di competenza” a “un’attenta valutazione del rispetto dei principi costituzionali” nel caso delle due proposte emendative del deputato leghista Igor Iezzi: quelle che introducono la castrazione chimica per i violentatori e l’obbligo all’uso dell’italiano nelle funzioni religiose islamiche. Al deputato di “Salvini premier” la cosa non è andata a genio, e ha protestato ritenendo “inaccettabile” il gesto pilatesco degli alleati di governo. Dal canto loro, i presidenti Maschio e Pagano hanno spiegato di aver optato per il criterio meno rigido di censura degli emendamenti, preferendo rinviare più in là un’ulteriore eventuale selezione. A dopo le elezioni, evidentemente. Anche se, per non evidenziare la spaccatura, la maggioranza ha intenzione di approntare il ddl Sicurezza il più possibile nelle commissioni, in modo da evitare il “confronto” in Aula. La Lega intanto ha dovuto rinunciare fin da subito agli emendamenti, bocciati perché “estranei” al testo, che imponevano restrizioni e divieti sui luoghi e sui ministri di culto islamici, o che proponevano il reato di “commercializzazione di prodotti con marchi o segni contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”. No anche alle proposte Iezzi che chiedevano cauzioni per le partite Iva e i lavoratori autonomi extracomunitari. Nel cestino dei presidenti però è finita anche la proposta emendativa di Avs che prevedeva il divieto di accesso dei minorenni alle fiere in cui si vendono o si espongono armi da fuoco. L’aveva firmata il deputato Devis Dori che comunque presenterà ricorso. Al contrario, è stato accolto - con stupore dello stesso Dori - l’emendamento che, modificando la legge Scelba, vieta il saluto romano in occasione di raduni. La mannaia sulla cannabis light invece è rimasta intatta, anche se l’emendamento alla legge 242 del 2 dicembre 2016, che vieta “l’importazione, la lavorazione, la detenzione, la cessione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, l’invio, la spedizione, la consegna, la vendita al pubblico e il consumo di prodotti costituiti da infiorescenze di canapa, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata o contenenti infiorescenze” della canapa (Cannabis sativa L.), è stato riscritto dal governo. L’esecutivo ha aggiunto soltanto una premessa per evitare che la proposta fosse respinta per estraneità al testo: “Al fine di evitare che l’assunzione di prodotti da infiorescenza della canapa - si legge ora al comma 1 dell’articolo 13 bis, da inserire nel ddl Sicurezza - possa favorire, attraverso alterazioni dello stato psicofisico del soggetto assuntore, comportamenti che mettano a rischio la sicurezza o l’incolumità pubblica o la sicurezza stradale”. Con questo emendamento, dunque, la cannabis che contiene solo cannabidiolo Cbd, privo di effetti psicotropi, rientrerà nelle sostanze vietate dalla legge sugli stupefacenti 309/90. Una norma completamente ascientifica che, come sottolinea anche il dem Stefano Vaccari, “metterà a rischio un’intera filiera”. E infatti i più arrabbiati e preoccupati sono gli Imprenditori Canapa Italia la cui Associazione Ici ha richiesto “ufficialmente un’audizione” nelle Commissioni. “In pericolo - spiegano - ci sono decine di migliaia di lavoratori e le attività di centinaia di imprenditori che hanno fatto investimenti e ne stanno facendo”. Dal Colle a Palazzo Chigi, sprint sulla separazione delle carriere di Valentina Stella Il Dubbio, 29 maggio 2024 Riforma subito in Consiglio dei ministri: il sorteggio integrale dei togati al Csm tra i passaggi “rivedibili” del ddl anticipato a Mattarella. La riforma costituzionale della giustizia approderà già oggi in Consiglio dei Ministri. L’ordine del giorno di Palazzo Chigi prevede infatti al primo punto, per la riunione che inizierà alle 13, “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”. La convocazione è arrivata ieri sera alle 22, due ore circa dopo il termine dell’incontro tra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Dal Quirinale non è trapelata alcuna indiscrezione. Riserbo assoluto sul contenuto del colloquio, che è considerato di prassi alla vigilia di una riforma costituzionale e del quale c’è un precedente in questa stessa legislatura, verificatosi quando la ministra delle Riforme Maria Elisabetta Alberti Casellati aveva anticipato al Colle la riforma del premierato. Secondo fonti parlamentari, l’approvazione del ddl costituzionale sarebbe potuta slittare a lunedì prossimo, in modo da non dare l’impressione di aver portato al Quirinale una riforma già pronta. Ipotesi poi smentita dai fatti. L’incontro tra governo e Presidenza della Repubblica è iniziato intorno alle 19 e si è dunque focalizzato sulla separazione delle carriere, inserita all’interno di un complesso di modifiche assai più ampio. Nel testo preparato per il Consiglio dei ministri, e oggetto appunto dell’incontro di ieri sera al Colle, si prevede un Csm unico ma diviso in due sezioni, al cui vertice dovrebbe rimanere il presidente della Repubblica. Questa previsione del Consiglio superiore sdoppiato potrebbe forse affievolire appena le critiche dell’Anm, perché, almeno plasticamente, si attenua quell’idea un po’ indecifrabile di un governo autonomo dei magistrati requirenti sganciato da tutto. Ma dall’altra parte c’è un’altra previsione che invece è destinata a sollevare un anatema senza se e senza ma: ossia il sorteggio integrale per i membri togati di Palazzo dei Marescialli. Tra i sorteggiabili dovrebbero essere inclusi i magistrati con almeno 15 anni di anzianità. L’ipotesi di un sorteggio secco e non “temperato” da una successiva elezione svuoterebbe completamente la valenza politica della componente togata e sarebbe, nell’ottica del governo, un colpo più forte ai gruppi associativi della magistratura, ma comporterebbe anche tensioni maggiori fra Esecutivo e Anm. Non a caso due giorni fa proprio il sottosegretario Mantovano a Sky tg24 aveva dichiarato che l’obiettivo del governo è “ridimensionare il ruolo delle correnti, gli unici veri partiti rimasti sul campo, protagoniste spesso delle carriere dei magistrati”. Secondo altre indiscrezioni, vi sarebbe l’aumento del numero dei membri laici dei Consiglio. Il ddl non prevede però modifiche all’articolo 112 della Costituzione, ovvero quello che riguarda l’obbligatorietà dell’azione penale. In ogni caso non si può escludere che in Consiglio dei ministri si faccia una scelta diversa, o meglio che il confronto politico pre-Cdm porti a conclusioni diverse su tutti i versanti. Basti pensare, ad esempio, che proprio al Senato è in discussione una proposta a prima firma del capogruppo di Forza Italia Pierantonio Zanettin che punta al sorteggio temperato e non secco dei togati al Csm. Quindi lo spazio per una discussione è aperto. I giochi insomma non sono fatti anche considerato che il viceministro Francesco Paolo Sisto ha aperto uno spazio di dialogo con l’Anm a Palermo. Sono scelte, comunque, delle quali a via Arenula si è discusso a lungo in questi mesi, a dimostrazione della delicatezza delle questioni e del timore di evitare strappi in più direzioni. In primis con il Colle: la previsione di due Csm distinti, come inizialmente ipotizzato, avrebbe investito in modo diretto le prerogative del Capo dello Stato come presidente dell’organo di autogoverno. È da escludere tuttavia che Mattarella abbia dato un suo giudizio su un progetto che deve essere sottoposto prima al vaglio del Cdm e poi al doppio passaggio parlamentare, per finire con il referendum popolare. Più volte in passato però ha sottolineato come la Costituzione preveda e imponga l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, che deve comunque nutrirsi anche del prestigio e dell’autorevolezza delle toghe. Ciò sembrerebbe forse attestare una valutazione neutrale ma anche l’assenza di pregiudizi da parte del Presidente. Ma l’incontro di ieri era finalizzato anche a mitigare l’idea di una conflittualità con la magistratura: portare al Colle la riforma della giustizia va visto anche come tentativo di condividerla, nei limiti del consentito, con il garante dell’equilibrio tra i poteri dello Stato. Giorgia Meloni, che è stata rappresentata dal suo fedelissimo consigliere Mantovano, non ha mai avuto l’intenzione di dare alla modifica costituzionale una valenza di forte scontro come invece avvenne quando a presentare la riforma fu Silvio Berlusconi, e come viene rivendicata oggi dal suo partito in sua memoria. “Siamo finalmente in dirittura d’arrivo per la riforma della Giustizia”, ha dichiarato proprio ieri il vicepremier Tajani, “una vittoria che va nella direzione della tutela dei cittadini e che dedichiamo al nostro leader Silvio Berlusconi”. Riavvolgendo i capitoli precedenti, la riforma costituzionale della separazione era stata più volte annunciata ma allo stesso tempo abortita perché appunto non era intenzione della presidente del Consiglio iniziare una battaglia con le toghe. E però Forza Italia ha fatto il suo pressing e ottenuto quello a cui stiamo assistendo. Si potrebbe dire che al momento sarebbe stato più facile portare definitivamente a casa la riforma del ddl penale Nordio, già approvata in prima lettura al Senato. Ma in campagna elettorale è sicuramente più spendibile una riforma che dai cittadini potrebbe essere considerata contro la casta dei magistrati e che segue di poco quella sui test psicoattitudinali per entrare in magistratura, approvata sempre nella medesima ottica. Mentre mettere il sigillo definitivo su una norma che abroga l’abuso di ufficio e anche su quella della prescrizione, passata invece già alla Camera, avrebbe significato attirarsi delle critiche in quanto entrambe potenzialmente viste come un alleggerimento verso la criminalità economica o altri tipi di delitti socialmente inaccettabili. Sulle indiscrezioni emerse ieri si è espresso criticamente il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa: “Fonti di governo hanno sorprendentemente fatto trapelare la notizia dell’incontro Nordio-Mattarella. Una sgrammaticatura istituzionale, coerente con l’obiettivo dell’Esecutivo di usare in vista delle Europee il tema della separazione delle carriere (cancellando il lungo lavoro parlamentare). Un consiglio: evitino di tirare per la giacca il Capo dello Stato nelle loro sbracate strumentalizzazioni elettorali”. Giudici separati dai pm. Il governo accelera, la freddezza del Quirinale di Liana Milella La Repubblica, 29 maggio 2024 La riforma della giustizia già oggi in Consiglio dei ministri: Forza Italia realizza il sogno di Berlusconi. E Sisto presenta ai suoi il testo. La separazione delle carriere, con un incontro inopportunamente anticipato e reso pubblico addirittura il giorno prima, ieri è approdata al Quirinale. Poco dopo le 19. E oggi arriverà anche in Consiglio dei ministri per il primo via libera. L’obiettivo del Guardasigilli Carlo Nordio, “scortato” dal sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano nella veste ormai di “ministro ombra”, era quello di bruciare i tempi e strappare proprio al Colle una sorta di consenso a presentare il testo. Che, in questo caso, sarebbe arrivato dal vertice dello stesso Csm, visto che Sergio Mattarella accomuna nella sua persona entrambe le “presidenze”, della Repubblica e del Csm. L’obiettivo di Nordio e Mantovano, ottenuto quell’assenso, era di portare subito, già oggi, il testo a palazzo Chigi. La convocazione del consiglio dei ministri “numero 88” è arrivata lo stesso. Diffusa poco dopo le 21 e trenta. Anche se non risulta che ci sia stato alcun via libera preventivo del Quirinale. Il quale invece, mediaticamente, si è chiuso nel più totale riserbo. Nessuna indiscrezione né sul mini vertice - durato meno di 45 minuti, troppo poco per valutare una riforma costituzionale di tale portata - né tanto meno sul futuro della riforma stessa. D’altra parte non è prassi che il Quirinale autorizzi in anticipo, e sulla base di un colloquio informale, la presentazione di una riforma della Carta. Dal Colle non è neppure giunta la comunicazione ufficiale dell’incontro con la classica formula dei soli nomi. Da Enrico Costa di Azione è giunta invece una bacchettata: “Una sgrammaticatura istituzionale. Evitino di tirare per la giacca il capo dello Stato nelle loro sbracate strumentalizzazioni elettorali”. Ma tant’è. Su input della premier Giorgia Meloni, il Guardasigilli Nordio aveva fretta, e nel corso della giornata ha confermato più volte, e a più fonti, che il suo testo sarebbe stato discusso già oggi, come chiedeva con insistenza Forza Italia con Antonio Tajani dopo la promessa della stessa premier di ottenere prima delle europee la riforma che avrebbe voluto Berlusconi. La separazione delle carriere è una “questione di partito”. Il bonus elettorale per Forza Italia. E proprio da via Arenula il vice ministro forzista, nonché avvocato barese Francesco Paolo Sisto, per tutta la giornata è partito alla volta di Camera e Senato per presentare ai “suoi” parlamentari il testo della riforma. Una giornata di passione la sua per rendere edotti i suoi colleghi su cosa contiene. Eccolo con il vicepresidente della commissione Giustizia della Camera Pietro Pittalis. E poi al telefono col capogruppo Tommaso Calderone, trattenuto in Sicilia da ragioni elettorali. E ancora al Senato con Pierantonio Zanettin. In mano ha tre fogli. La riforma è tutta lì. Che lui via via squaderna. Non ha ancora certezze sul Consiglio dei ministri. Ma può dire che Nordio vuole assolutamente che si faccia subito, anche se si susseguono le voci di un probabile slittamento al 3 giugno. La riforma arriverà stamattina con un fuori busta. Non è passata neppure per il solito pre-consiglio. Dalla ridda di bozze che in queste settimane si sono sovrapposte l’una all’altra, anche più d’una nella stessa giornata, ecco come cambierà la giustizia italiana. Nelle intenzioni del governo addirittura con l’idea di ottenere il primo via libera già prima di agosto, con poche e concentrate audizioni lampo. Una netta separazione delle carriere di giudice e di pm, con due concorsi separati. Che saranno previsti con una legge ordinaria. Un solo Csm, presieduto da Mattarella, con due braccia ben distinte. Una sezione per i pm e una per i giudici. E qui un durissimo “schiaffo” alle toghe. Il sorteggio “secco” in chiave anti correnti. Non potranno più votare per i loro rappresentanti che saranno sorteggiati. I laici invece saranno “eletti” dal Parlamento. Il Csm “perde” anche la sezione disciplinare. Sarà un’Alta corte a mettere sotto processo i magistrati che sbagliano. La figura dell’avvocato entra nella Costituzione. L’azione penale resterà obbligatoria. La premier Meloni almeno ha detto no alla discrezionalità. Ecco che cosa è la separazione delle carriere e perché i magistrati vi si oppongono di Francesco Grignetti La Stampa, 29 maggio 2024 Oggi il Consiglio dei ministri licenzierà una proposta di legge che rivoluziona la giustizia italiana. La decisione è presa. E di colpo il governo non vede l’ora di correre verso una nuova riforma della Costituzione. Il consiglio dei ministri oggi licenzierà una proposta di legge che rivoluziona la giustizia italiana. Sarà una riforma in tre semplici ma giganteschi passi. Primo, la separazione delle carriere dei magistrati, ovvero concorsi separati dall’inizio e poi così avanti per tutta la carriera. Da una parte i magistrati giudicanti, quelli che emettono sentenze. Dall’altra gli inquirenti, ovvero chi riceve le notizie di reato, conduce le indagini e, quando raggiunga le prove, chiede le condanne. Secondo, sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura in due Csm, sempre presieduti dal Capo dello Stato: uno per la giudicante, un altro per i pubblici ministeri; il loro compito si circoscriverà a gestire i concorsi e le nomine agli incarichi direttivi e semidirettivi. Terzo, una Alta corte per esaminare i profili disciplinari di tutti magistrati (ordinari, amministrativi e contabili), che non avranno più modo di autogestirsi in autonomia com’è oggi. L’Alta corte sarà formata da nove membri e si tratterà di un organo di tutela giurisdizionale contro i provvedimenti amministrativi assunti dai Consigli superiori della magistratura ordinaria, amministrativa e tributaria. Da notare che di una Alta corte parlava già la Bicamerale di Massimo D’Alema, è stato un cavallo di battaglia di Luciano Violante, il Pd l’aveva proposta nella scorsa e nell’attuale legislatura, ma nella logica di modificare un pezzo per salvare il mosaico complessivo. Se questa riforma costituzionale andrà in porto sarà davvero una rivoluzione copernicana. È voluta fortissimamente dagli avvocati. È avversata altrettanto fortissimamente dalla magistratura. Tutta la magistratura, nessuna corrente esclusa. È attesissima, poi, da mezzo mondo politico: Forza Italia l’aveva in programma da tanti anni ed anzi era un pallino di Silvio Berlusconi che è morto senza riuscire nel suo intento, la Lega di Matteo Salvini vi si è appassionata da qualche anno (diciamo da quando la materia è seguita da Giulia Bongiorno), da ultimo era anche nel programma del partito di Giorgia Meloni, che se ha tentennato l’ha fatto non per il principio ma per pragmatismo, perché non voleva andare ad uno scontro totale con la magistratura. La separazione delle carriere, inoltre, piace molto anche a Matteo Renzi e a Carlo Calenda. E con i voti dei centristi, in Parlamento la navigazione del progetto di legge sarà molto più agevole che per il premierato. I magistrati dicono che questa riforma crea un mostro. Il corpo separato dei pubblici ministeri, infatti, anche se non finirà alle direttive dell’Esecutivo come accade in Francia, avrà un immenso potere e non ci sarà il contrappeso di una cultura comune della giurisdizione che li fa sentire tutti uguali, inquirente e giudicante. Proprio questa cultura comune, al contrario, è considerata un male terribile dai garantisti, che vi leggono innanzitutto una commistione inopportuna. E intanto esulta Antonio Tajani, che ha preteso di avere nel carnet del governo una riforma direttamente collegabile al suo partito, al pari del premierato per Fratelli d’Italia o l’Autonomia differenziata per la Lega: “Siamo - dice - finalmente in dirittura d’arrivo per la riforma. Ogni imputato avrà la possibilità di avere l’accusa e la difesa sullo stesso piano”. Secondo l’Anm, la riforma rischia di intaccare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Già, perché il diavolo si nasconde nei dettagli. L’attuale Consiglio superiore della magistratura è un potente organo di autogoverno della categoria. Il suo plenum è la sede dove si prendono tutte le decisioni che contano e qui i magistrati eletti dai propri colleghi sono la stragrande maggioranza. Con la riforma e lo sdoppiamento, invece, nei due plenum andranno molti più membri nominati dal Parlamento, cioè dalla politica. E già così si alterano gli equilibri. Ma c’è di più. Mentre i cosiddetti “laici”, espressione della politica, saranno eletti dalle Camere in seduta comune, i “togati”, cioè la quota di magistrati del plenum, saranno scelti per sorteggio. Prevale in questo caso la logica dell’uno vale uno. Tutto pur di strozzare le deprecate correnti della magistratura. Che sia questo l’obiettivo ultimo, l’ha spiegato Alfredo Mantovano, sottosegretario alla Presidenza, e magistrato di Cassazione prestato alla politica, che ben conosce le dinamiche interne al suo mondo: “La riforma - ha detto in una intervista televisiva su Sky - non riguarda solo la chiusura formale di una separazione che è già nei fatti, ma trarne le conseguenze, permettendo a due Csm di occuparsi di due distinte carriere e provando a ridimensionare il ruolo delle correnti, gli unici veri partiti rimasti sul campo, protagoniste spesso delle carriere dei magistrati”. Inoltre - ha aggiunto - “puntiamo a togliere al Csm la sezione disciplinare e individuare una Corte di giustizia per i magistrati che si occuperà di tutti i magistrati, svincolata dall’appartenenza correntizia”. Ed è appunto questa “appartenenza correntizia” il nemico. Noi penalisti, alienati e “sospesi” a un giudice senza volto di Giorgio Varano* Il Dubbio, 29 maggio 2024 Tra le derive ereditate dal covid, la più pesante è la celebrazione solo “cartolare” di molti processi: con l’effetto disumanizzante di condanne pronunciate non da un magistrato al termine del giudizio, ma recapitate via mail. Quasi come un drone che rilascia un ordigno. Le riforme del processo penale degli ultimi anni sono state tutte improntate a rendere più “efficiente” la giustizia, tese a diminuire i tempi di tutte le fasi non solo giurisdizionali ma anche lavorative, questo grazie anche ad una certa accelerazione tecnologica - basti pensare al portale telematico - portatrice della falsa promessa di un minor tempo di impiego per svolgere tutte quelle attività necessarie all’esercizio del diritto di difesa. Il risultato di quella falsa promessa è l’alienazione che ci pervade durante il tempo trascorso in solitudine davanti ad uno schermo, e una certa eugenetica forense in danno degli avvocati meno giovani e tecnologicamente o economicamente meno attrezzati. L’attività svolta dietro a un computer sembra una corsa su un tapis roulant: corriamo non per arrivare ad una meta ma per rimanere nello stesso punto e per non cadere in conseguenza della riduzione del ritmo del passo. L’alienazione creata - forse non proprio inconsapevolmente - tende a farci dimenticare che una delle cause della fine della funzione dell’avvocato è iniziata quando nel nostro processo ha avuto ingresso la possibilità che un cittadino venga giudicato da un giudice senza volto, nel segreto più totale di una camera di consiglio virtuale, se non domestica. Il giudizio di impugnazione, sia esso di merito o di legittimità, si svolge non è dato sapere dove e alla presenza di chi. Si invia una mail e si riceve - talvolta, non sempre - una risposta per mail. Un cittadino viene condannato da un giudice senza volto, e la condanna gli viene inviata attraverso un computer. Il giudice, dunque, non è più un essere umano con un volto che legge la propria decisione davanti all’imputato, ma un individuo sconosciuto che attraverso la tecnologia recapita la sentenza direttamente al domicilio dell’imputato. È la trasposizione del sistema bellico del drone nell’amministrazione della giustizia, della guerra “intelligente” ed efficiente che riduce al minimo il dispendio umano di chi la realizza ed eleva al massimo quello di chi la subisce. E, come nella guerra tecnologica, anche nella giustizia chi la gestisce in questo modo ritiene naturale che alla propria superiorità tecnologica si accompagni la propria superiorità morale. L’avvocato, da sempre visto come un fastidioso granello che inceppa l’ingranaggio della giustizia efficiente, in questo medioevo della giustizia è diventato un soggetto superfluo e da marginalizzare. Un mittente di pec, un accompagnatore all’inginocchiatoio riparativo del pentimento (e del risarcimento), un nome da scrivere nel verbale di un’udienza che non c’è, un interprete della babele dei “protocolli” della repubblica federale giudiziaria italiana, un risponditore disilluso alla “X” apposta sul modulo delle conclusioni della pubblica accusa. L’avvocato è stato quindi indotto in una fortissima crisi di gratificazione. Quasi tutto quello che un tempo erano il suo lavoro, la sua funzione, il suo ruolo anche sociale, i suoi riti, gli è stato tolto. Il futuro disegnato appare sempre più fosco. La crisi dell’avvocatura e della “vocazione” è conseguenza diretta di questa incertezza sulla direzione della storia che rende difficile reagire in modo sistemico. L’avvocato non è più né un produttore né un conoscitore di sapere, ma il gestore di una quotidianità eterea che vive imprigionato nell’inferno dell’eguale, dei giorni tutti simili, delle procedure burocratiche, dell’incomunicabilità, del venir meno dei rapporti umani. Parafrasando Nietzsche e il suo concetto di “ultimo uomo”, l’avvocato attuale, così come scientemente trasformato dalle ultime riforme, è diventato “l’ultimo avvocato”, antitesi non tanto di un avvocato ideale, ma di quello reale creato dalla storia, dalla società e dalle leggi. Un ultimo avvocato stanco che non si assume alcun rischio rifugiandosi nella conservazione di quanto ha, poco o molto che sia, e che vive in una comunità sempre più povera culturalmente, moralmente e socialmente, humus perfetto per la ribalta di figure modeste - quando non dannose o, peggio, pericolose - e per l’allontanamento delle migliori intelligenze dalla comunità politica forense. In questo medioevo dell’avvocatura si affaccia un pericolo ancora maggiore, quella che viene impropriamente definita intelligenza artificiale. La scelta del nome è indicativa della volontà di nascondere, dietro ad un gradevole sostantivo, una realtà pericolosa. È infatti errato parlare di “intelligenza”, perché essa, come ci dice la radice etimologica latina, è la capacità di “leggere dentro”, di immergersi, e certamente la tecnologia non è in grado di farlo. In realtà bisognerebbe parlare di “calcolo artificiale”, perché l’A.I. non è altro che questo. E qualsiasi tipo di calcolo, di analisi di dati, di idolatria degli stessi, nell’ambito delle scienze umane - come il diritto - rappresenta una pericolosa abdicazione al progresso portato dal “lume della ragione” negli ultimi secoli. Con il calcolo artificiale si affaccia una nuova forma di autoritarismo, pericolosa perché ammaliante e fintamente razionale, che occorre prima comprendere per poi combattere. Il pericolo più grande è rappresentato dallo stimolo all’indolenza e alla deresponsabilizzazione del giudice, alla irrilevanza dell’avvocato, alla forza del calcolo dei dati che certamente sarà decantata dalla pubblica accusa a supporto della repressione oggi dei reati e un domani anche della valutazione dissenziente del giudice. Sarà necessario battersi per un umanesimo digitale per governare l’effetto dirompente che il calcolo artificiale avrà sul contributo dell’uomo nei processi decisionali, perché questa potentissima tecnologia non è tesa a integrare o potenziare le capacità umane, ma a sostituire il fattore umano e la razionalità umana nelle decisioni. Come invertire questa deriva reazionaria e autoritaria? Alzando la voce, risollevando gli orgogli, pretendendo di riportare l’avvocatura alla sua funzione. Un primo inizio? Riportare fisicamente gli avvocati e i magistrati nelle aule, abolire la possibilità della sentenza-drone, abrogare qualsiasi norma che elimini la presenza fisica dell’avvocato e dell’imputato dalle aule, riportare il processo penale alla sua funzione scolpita da principi - oralità, contraddittorio, parità delle parti, solo per citarne alcuni - vilipesi dal legislatore e purtroppo, in alcuni casi, mortificati persino dalla Corte costituzionale. *Responsabile comunicazione Unione Camere Penali Italiane Stalking e non molestie per il condomino che altera le abitudini di vita degli altri di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2024 Chi con ripetute minacce e molestie ingenera paura da cui deriva uno stato perdurante di ansia nelle vittime commette il delitto di atti persecutori, che è aggravato se lo stalker agisce con odio razziale. No alla derubricazione del delitto di stalking nella contravvenzione di molestie se la vittima entra in uno stato di perdurante ansia e modifica le proprie abitudini di vita a fronte delle condotte reiterate dell’imputato. Infatti, le molestie sono ravvisabili solo quando il risultato nella psiche della persona offesa è quello di essere infastidita. Dunque la linea di demarcazione tra i due reati è rappresentata dalle conseguenze psicologiche che la condotta ingenera nella persona presa di mira con comportamenti che vanno dall’insulto agli imbrattamenti o impedimenti a utilizzare cose di cui si ha la disponibilità. In sintesi le minacce o le molestie ripetute vanno punite come atti persecutori a norma dell’articolo 612 bis del Codice penale quando creano uno stato di ansia che pervade la vita della persona posta nel mirino del molestatore finanche arrivando al punto di modificarne le abitudini normali. La Corte di cassazione - con la sentenza n. 21006/2024 - ha così annullato la sentenza del tribunale monocratico che aveva svalutato le precise prove raccolte in una vicenda tipica di “persecuzioni in ambito condominiale” in alcuni casi anche aggravata dall’odio razziale nei confronti di alcuni condomini extracomunitari ripetutamente appellati come “incivili” dall’imputato. L’impugnazione della decisione che condannava l’imputato all’ammenda per il reato contravvenzionale di molestie ex articolo 660 del codice penale è stata riqualificata in ricorso per cassazione data l’inammissibilità dell’appello contro le condanne per contravvenzioni. In effetti la Cassazione nell’articolato atto impugnatorio del Procuratore della Repubblica ha rinvenuto l’illogica conclusione del giudice monocratico di primo grado perché a fronte di testimonianze di persone impaurite dal ricorrente e intimorite dalla possibilità di incontrarlo avevano mostrato il grave stato di perdurante ansia e la conseguente costrizione a dover modificare le proprie abitudini. In un caso che era comunque stato oggetto di rimessione di querela (di fatto non ritrattabile) due coniugi avevano addirittura cambiato casa. L’imputato infatti aveva apposto lucchetti a ingressi di spazi condominiali comuni atteggiandosi ad “amministratore” del palazzo, aveva più volte apposto cartelli e scritte sui muri con offese particolarmente mirate al discredito dei condomini stranieri e si vendicava delle sue ingiustificate e persecutorie lamentele verso gli altri condomini utilizzando arnesi particolarmente rumorosi in piena notte quali frese e martelli. Milano. Mancano i braccialetti elettronici: 60enne in cella. Non è la sola di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 29 maggio 2024 La mancanza di braccialetti elettronici da applicare ai detenuti ai quali vengono concessi gli arresti domiciliari sta diventando un’emergenza con conseguenze molto negative. A partire dall’ingiustificata permanenza in carcere. Sono diversi i casi di persone che, pur beneficiando da parte del giudice per le indagini preliminari di un provvedimento di sostituzione della misura cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, non possono lasciare l’istituto penitenziario ospitante perché non si riescono a reperire i dispositivi. Una situazione che sta vivendo anche B.I.R., cittadina italiana di quasi sessant’anni che si trova attualmente nel carcere milanese di San Vittore. Nei suoi confronti vengono contestati alcuni reati contro il patrimonio. “La donna - evidenzia l’avvocata Federica Liparoti del Foro di Milano -, pur potendo essere ospitata nell’abitazione del padre, è costretta a restare in carcere. È passata più di una settimana da quando alla mia assistita sono stati concessi gli arresti domiciliari, ma è ancora detenuta a San Vittore perché pare non ci siano al momento braccialetti disponibili. Chi le restituirà questi giorni che avrebbe potuto trascorrere tra le mura domestiche nell’affetto dei suoi cari e che invece si trova a passare dietro le sbarre? Ormai la carenza di dispositivi risulta sistematica. Si parla spesso di sovraffollamento carcerario, ma si tiene in carcere chi avrebbe il diritto di tornare a casa”. Nel caso in questione, la donna è una impiegata accusata di reati contro il patrimonio e proviene da un contesto sociale di piena integrazione. “L’esperienza detentiva - spiega l’avvocata Liparoti - anche per tali motivi, è per la mia assistita particolarmente dura e destabilizzante”. Già in passato Federica Liparoti aveva denunciato la mancanza di braccialetti elettronici. L’ipotesi dell’ingiusta detenzione viene valutata seriamente dall’avvocata milanese. “Non è la prima volta - dice - che a un mio assistito vengono concessi i domiciliari e si trova costretto a restare in carcere giorni e giorni in attesa di un braccialetto. Seconde me, si tratta di una situazione non più tollerabile e a cui non ho intenzione di rassegnarmi. Il valore della libertà personale non può, a mio avviso, soccombere di fronte a “problemi tecnici” o “indisponibilità di dispositivi”. Per questo motivo sto valutando la possibilità di chiedere i danni per ingiusta detenzione se la situazione dovesse ulteriormente protrarsi”. L’applicazione del dispositivo ha una sua utilità. “Il braccialetto elettronico - conclude Federica Liparoti - fornisce le stesse garanzie della detenzione in carcere. Al tempo stesso permette all’amministrazione penitenziaria di ottenere dei risparmi, visto che non si deve provvedere al sostentamento del detenuto ospite. Sarebbe quindi utile da parte del ministero della Giustizia e della società che si è giudicata la gara di appalto per la fornitura dei dispositivi fare tutti gli sforzi necessari per garantire maggiore rapidità nella messa a disposizione dei braccialetti elettronici. In questo modo si potrebbe davvero intervenire sulla questione del sovraffollamento carcerario e lasciare la custodia cautelare in carcere come extrema ratio, così come previsto dalla Costituzione”. A fare i conti con la mancanza di braccialetti elettronici non è solo la signora B.I.R. Analoga situazione la sta vivendo Jonathan Maldonado, accusato di tentato omicidio della moglie Siu, la influencer biellese ferita al petto e ricoverata nell’ospedale di Novara nei giorni scorsi. Il gip non ha convalidato il fermo di Maldonato e ha disposto nei suoi confronti l’obbligo di firma e il divieto di avvicinamento con braccialetto elettronico. Anche in questo caso non si trova nessun dispositivo per cui l’uomo deve restare ancora in cella. Le misure del divieto di avvicinamento alla persona offesa e dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria sono state disposte, ha precisato la procuratrice Teresa Angela Camelio, “solo in relazione al delitto di maltrattamenti in famiglia”. Il braccialetto elettronico è stato introdotto in Italia nel 1998, con la Legge 230 del 1998 che ha previsto la possibilità di utilizzarlo come misura alternativa alla detenzione in carcere, limitando il sovraffollamento delle carceri ed offrendo una soluzione più adeguata per alcune categorie di detenuti. Viene indossato al polso o alla caviglia ed è dotato di un sistema di localizzazione satellitare, permettendo alle autorità di monitorare gli spostamenti dell’individuo al quale è applicato di stabilire se si trova all’interno della propria abitazione o al di fuori di essa. All’interno del braccialetto è collocato un sistema Gps che permette di determinare con precisione la posizione dell’individuo e di inviare queste informazioni a un centro di controllo. Pavia. Agenti di Polizia penitenziaria sotto accusa: “Non archiviare” di Nicoletta Pisanu Il Giorno, 29 maggio 2024 Si è svolta ieri l’udienza per discutere l’opposizione alla richiesta di archiviazione delle posizioni di nove agenti di Polizia penitenziaria accusati di aver percosso un detenuto, ora in stato di libertà, a Pavia nel 2020. L’udienza si è tenuta davanti al Gip Pasquale Villani, che si è riservato sulla decisione. La parte offesa è un ex detenuto del carcere pavese che ha accusato i nove agenti di aver preso parte ad atti di violenza nei suoi confronti. In particolare, secondo la sua ricostruzione, i fatti sarebbero accaduti all’indomani dei disordini divampati nel marzo 2020 per protestare contro le restrizioni imposte anti Covid, vicenda per cui sessantotto tra detenuti ed ex sono attualmente a processo davanti al Collegio del tribunale di Pavia con l’accusa di devastazione e saccheggio. La parte offesa ieri ha raccontato al Gip la sua versione dei fatti, sottolineando di essere stato fatto spogliare, di esser stato percosso nella sua cella e anche nel percorso dalla cella a un’altra area. Inizialmente la Procura aveva chiesto l’archiviazione del caso, ma la parte offesa, assistita dall’avvocato Pierluigi Vittadini, si è opposta, chiedendo di sentire altri ex detenuti che sarebbero coinvolti nella vicenda. Ora il Gip potrà decidere se accogliere la richiesta della Procura e disporre l’archiviazione dell’indagine oppure accogliere l’opposizione e disporre nuove indagini o, ancora, rinviare direttamente a giudizio i nove agenti indagati nel caso dovesse ritenere sufficiente il materiale dell’inchiesta. Altri detenuti avevano denunciato fatti simili che sarebbero sempre avvenuti all’indomani dei disordini, ma vista la richiesta di archiviazione avevano scelto di non presentare opposizione. Roma. Cercare luce a Rebibbia. Uno sguardo dal carcere di Antonio Bompani stradeonline.it, 29 maggio 2024 Sabato 25 maggio, visitando il carcere di Rebibbia (Casa Circondariale, Nuovo Complesso) grazie ai Radicali Italiani, motore politico dell’iniziativa, ho toccato con mano le problematiche strutturali di un sistema che necessita di politiche pubbliche sempre più urgenti. Ci troviamo di fronte a quella che è a tutti gli effetti un’emergenza nazionale, troppo a lungo sottovalutata da istituzioni e partiti. L’aspetto che mi ha maggiormente colpito, in positivo, è stato la grande disponibilità dei detenuti a condividere priorità ed esigenze: fortemente interessati a raccontare e soprattutto a mostrare quel che non va, dalle loro valutazioni è emerso un quadro piuttosto lucido e chiaro. A Rebibbia, come in buona parte delle carceri italiane, il problema pratico forse principale è quello del sovraffollamento. A fronte di una capacità regolamentare di meno di 1200 posti, i detenuti sono più di 1500. In molte celle non sono garantiti i 3 metri quadri calpestabili per ogni persona, e spazi e dimensioni risicate impressionano: più celle, pensate per quattro detenuti, hanno sei posti letto. Altre questioni tecniche affrontate sono poi legate alla mancanza di personale giudiziario: gli operatori, che ringrazio per averci guidato con molta professionalità, si trovano a lavorare in contesti difficili e a gestire situazioni che necessiterebbero di un numero notevolmente superiore di agenti. Sempre su questo versante, legato cioè alla scarsità di addetti e professionisti, da segnalare è anche la penuria di interventi per alleviare fragilità e disturbi mentali dei detenuti, che dà la misura dell’inadeguatezza di certi programmi di policy. La fatiscenza degli spazi fisici va dunque di pari passo con la grande difficoltà che esiste nel garantire alcuni rilevanti servizi, anche alla luce di problemi psicologici e mentali sempre più diffusi. In questa situazione generale, che va chiaramente molto oltre Rebibbia, il Parlamento potrebbe muoversi con tanti interventi più o meno mirati. Si dovrebbe in primis ridurre l’utilizzo dello strumento penale, andando verso la direzione della depenalizzazione di alcuni reati, eliminando poi il carcere per detenuti in attesa di giudizio che non siano realmente e socialmente pericolosi, incentivando e incrementando pene alternative al carcere. Andrebbero, ancora, approvati provvedimenti urgenti di amnistia e indulto con il fine di ridurre, appunto, la popolazione carceraria. Servirebbe infine un piano straordinario per rafforzare i corpi di polizia penitenziaria. Esiste poi una carenza di lavoro e attività rieducative, che diventa un problema sia per i detenuti che per i detenenti, visto che la collaborazione con imprese esterne alle carceri è bloccata da limiti burocratici e assenza di formazione. Senza lavoro è difficile costruire percorsi che allontanino dalla recidiva, e in carcere il lavoro è effettivamente poco, nonostante sia fondamentale nel percorso di reintegrazione sociale: il 35% dei detenuti italiani lavora a tempo parziale o ridotto, dunque per pochi giorni o addirittura ore a settimana, con guadagni che consentono solamente di pagare il mantenimento, cioè le somme da restituire allo Stato a fine pena. Solamente meno del 5% lavora alle dipendenze di privati, con la possibilità di mantenere la professione anche una volta usciti di prigione. Circa due detenuti su tre non hanno accesso a nessuna forma di lavoro, mancando insieme ad esso, come detto, la formazione professionale (di competenza regionale, che le Regioni spesso non finanziano). Colpisce poi aver inteso che oggi in Italia sono 20 le mamme in carcere con figli al seguito (23 in totale), le quali spesso convivono tra assistenza sanitaria carente, bagni non separati, strutture fatiscenti, sporche e antiquate e assenza, in più carceri, addirittura di acqua calda. Un primo e significativo messaggio potrebbe essere infine abolire gli istituti penali minorili, vietando la permanenza di bambini negli Istituti a custodia attenuata. Ma il dato in assoluto più drammatico quando si parla di carceri del nostro Paese è purtroppo legato al numero dei sucidi. Il 2022 è stato l’annus horribilis dei suicidi in carcere, con 85 persone che si sono tolte la vita, probabilmente il numero più alto della storia repubblicana, sicuramente il più elevato da quando esiste un sistema di monitoraggio su scala nazionale (dal 2000, pur essendo disponibili analisi a partire dal 1990). Uno ogni quattro giorni e mezzo, con un’incidenza 20 volte maggiore rispetto alla popolazione generale. Una tragedia di Stato, spesso trascurata dagli stessi organi di stampa e dal mondo dell’informazione. I profili di chi muore (si tratta in larga parte di persone che avrebbero dovuto scontare pene brevi, o che erano entrate da poco in carcere) segnalano la brutalità di un sistema che non aiuta a reintegrarsi ma porta alla disperazione, nel vuoto dell’impossibilità di un pieno reinserimento nella società. I dati diventano ancora più impressionanti se si pensa che, sempre nel 2022, sono stati sventati dagli agenti ulteriori mille e più tentativi di suicidio. Il 2023 ha continuato a registrare un numero di suicidi nelle carceri elevatissimo, con una tendenza in corso nel 2024 che spaventa: lo documenta il rapporto di fine aprile dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, arrivato alla ventesima edizione. L’organizzazione, che si occupa di tutela dei diritti e delle garanzie nei sistemi penale e penitenziario, pone appunto l’accento sui tanti problemi che caratterizzano il sistema detentivo in Italia. Il primo è la conferma del tasso di affollamento record: al 31 marzo 2024 erano 61.049 le persone detenute, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti. Per quanto riguarda i suicidi nel solo 2023, sono state almeno 70 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un Istituto di pena. Nei primi mesi del 2024, almeno 30. “Almeno” perché numerosi sono ulteriori decessi con cause ancora da accertare. Seppur in calo rispetto all’anno precedente, i 70 suicidi del 2023 rappresentano un numero elevato rispetto al passato, e il più elevato dopo quello del 2022. Guardando agli ultimi trent’anni, solo una volta si è andati vicini a questa cifra, con 69 suicidi nel 2001. Ancora più allarmante è il dato relativo al 2024: tra inizio gennaio e metà aprile si parla di un suicidio accertato ogni 3 giorni e mezzo. Nel 2022, a metà aprile, se ne contavano 20. A fine anno potremmo rischiare di arrivare a livelli ancor più drammatici rispetto a quelli dell’ultimo biennio. Nei mesi estivi il caldo e l’interruzione delle attività negli istituti penitenziari, quali scuola e volontariato, isolano le persone detenute e, in certi casi, favoriscono i suicidi, che proprio in questo periodo raggiungono numeri elevati. L’auspicio più forte che si può fare è che a partire dalla società civile possa mutare il paradigma stesso della concezione carcerocentrica della pena, che ha a che fare con una mancata accettazione del concetto di rieducazione, retaggio storico e culturale del nostro Paese. Il concetto di rieducazione non va ancora a braccetto con l’esigenza di una giustizia giusta degna dello stato di diritto, e quindi della dignità dei detenuti. Se è vero che il grado di civiltà di uno Stato si misura osservando la condizione delle sue carceri, in Italia non siamo messi bene. La funzione rieducativa del carcere è spesso violata in maniera sistematica: se prioritario è migliorare la vita all’interno degli istituti, garantendo un accesso ai diritti fondamentali per tutti e un livello di qualità della vita stessa sufficiente e dignitoso, importante è anche adottare modalità che possano far maturare una nuova convivenza e un diverso modo di stare dentro gli istituti, come ad esempio la liberalizzazione di relazioni affettive, chiamate, videochiamate e un regime di celle aperte con progettazione ampia che porti le persone recluse ad essere impegnate in attività di studio, lavoro e ricreative sempre più coordinate e organizzate. Torino. La prima volta dei “libri umani” in un carcere minorile di Ilaria Dioguardi vita.it, 29 maggio 2024 Incontro inedito per la Biblioteca Vivente di Abcittà: per la prima volta i libri viventi sono stati dei ragazzi detenuti in un Ipm (il Ferrante Aporti di Torino), mentre i lettori sono stati alcuni studenti delle scuole superiori. Un’occasione di ascolto e condivisione tra coetanei, per smontare stereotipi e pregiudizi sul tema del carcere. Da La vittima a Finché non ti tocca, da La vita di passaggio a Mai più, da Passa prima tu a Trova le differenze. Sono alcuni dei titoli di un catalogo di libri molto speciale, intorno ai quali lo scorso 25 maggio si è realizzato il primo incontro di Biblioteca vivente nell’Istituto penale minorile “Ferrante Aporti” di Torino, con alcuni studenti degli istituti superiori. Il progetto è promosso da Abcittà e finanziato dall’Otto per Mille Valdese, in collaborazione con Essere umani onlus. Ne abbiamo parlato con Ulderico Maggi di Abcittà, responsabile della Biblioteca vivente. Maggi, questa prima iniziativa di Biblioteca vivente in un istituto penale minorile è molto importante. Ci spiega perché? Nelle carceri minorili si trovano ragazzi che hanno soprattutto dai 18 ai 21 anni, qualcuno è più piccolo. Apre una frontiera abbastanza grande perché Biblioteca vivente è uno strumento che si usa normalmente con gli adulti, sia in quanto lettori sia in quanto Libri umani. Abbiamo voluto fare quest’esperimento con i ragazzi dell’Ipm “Ferrante Aporti” di Torino con un partner, Essere umani. Nel nostro progetto di Biblioteca vivente è importante garantire una simmetria tra libro umano e lettore, devono essere entrambi giovani o entrambi adulti, non ci può essere disparità di rapporto, ciò potrebbe mettere il libro umano in una situazione di difficoltà o di fatica. Com’è nata questa sperimentazione nel carcere minorile? Quest’iniziativa nasce dall’idea di vedere quanto lo strumento fosse veramente elastico, utilizzandolo nel rapporto tra ragazzi, sia come lettori sia come libri umani, sul tema del carcere e della detenzione. Costitutivamente i pregiudizi iniziano a consolidarsi nella persona dopo l’adolescenza, in questa fase c’è ancora una forte libertà. Questo è molto interessante, lo dico da pedagogista. Nell’adulto c’è il radicamento. Il risultato ci parla di un’efficacia di questa sperimentazione. Come avete lavorato? Nell’Ipm abbiamo lavorato con un gruppo di libri umani misto, formato per la maggior parte da ragazzi detenuti dai 17 ai 21 anni, e da tre ragazze di 18 anni di una scuola superiore che sono entrate con noi per fare la preparazione. I lettori sono stati una quindicina di studenti di un altro istituto superiore di Torino, che sono entrati per ascoltare. Può spiegarci come funziona la Biblioteca vivente? È uno strumento che fa avvenire la cosa più antica del mondo, alla quale non siamo più abituati: persone che non si conoscono si parlano, si raccontano. Una racconta e l’altra ascolta. Il lettore è invitato a domandare. Le persone parlano di sé, della propria storia, raccontano solo episodi di vita (sono escluse le opinioni). È una narrazione autobiografica, la via più potente per ampliare lo sguardo che abbiamo sull’altro. Talvolta, infatti, l’altro lo categorizziamo, lo infiliamo nelle categorie che sono prevalenti anche a livello sociale e si forma un pregiudizio, lo subiamo anche senza rendercene conto. Questi purtroppo sono i meccanismi. Un ragazzo di 18 anni, per molte persone, è prima di tutto un detenuto se sta in un Ipm. Ma in realtà è prima di tutto un figlio, un fratello, un ragazzo che ha delle speranze, che non vede più il futuro, un tifoso del Torino, che ha anche commesso un reato ed è anche detenuto. Tendenzialmente, il pregiudizio ci porta a pensare che una persona è il reato che ha commesso, ancor di più della detenzione come stato, che peraltro è transitorio, soprattutto per i minorenni. Il reato rimane soprattutto nella testa della persona stessa. Torniamo ai libri umani… Nella Biblioteca vivente c’è una persona che fa il libro, con degli episodi di sé che si sente di raccontare. Un’altra persona davanti ascolta e fa domande, in 30 minuti di tempo. Quest’interazione diventa profondissima, le narrazioni sono molto forti, si parte da situazioni molto dense di pregiudizi e da categorie che sono individuate come molto sensibili. Usiamo tanti temi, quelli che a livello sociale sono molto “attaccati” da forme di sguardo stereotipato e pregiudizi, come l’immigrazione, le differenze di genere e l’orientamento sessuale, la detenzione. Cosa è successo durante l’appuntamento di Biblioteca vivente al Ferrante Aporti? L’evento si è svolto in una situazione molto particolare, per il fatto che eravamo in un carcere. Gli incontri sono la parte finale di un processo molto lungo. Normalmente la Biblioteca vivente si incrocia per strada, cerchiamo sempre luoghi in cui si “inciampa”. Come Biblioteca vivente puntiamo molto sulla particolarità della situazione, sulla piacevolezza della lettura, sulla novità dell’esperienza. In un carcere tutto questo non si può fare, c’era un gruppo di lettori e lettrici già predefinito, i ragazzi avevano un catalogo di libri, con i titoli e le rispettive quarte di copertina. Ogni ragazzo libro umano ha lavorato sugli episodi. Ogni lettore ha scelto dei libri e ha fatto 2-3 consultazioni, una dopo l’altra. I lettori e i libri umani hanno avuto, quindi, 2-3 incontri in cui si sono parlati e ascoltati. La specificità del libro umano giovane, soprattutto adolescente in carcere, aggiunge un quid di imprevedibilità che è impressionante. C’è un portato di instabilità che è data dalla condizione, dall’età e anche dalle aspettative dell’incontro con i loro coetanei, che ha suscitato un’attesa, un’agitazione emotiva fortissima. Questi ragazzi hanno fatto un salto mortale triplo. Com’è stata la preparazione a quest’incontro? Noi di Abcittà abbiamo seguito tutta la preparazione dei ragazzi libri umani. In questo percorso progressivo, questi ragazzi erano all’inizio molto affaticati da questa vita e incapaci di concentrarsi più di cinque minuti. Nel giro di un mese e mezzo, con un incontro a settimana (per un totale di cinque incontri) hanno avuto una trasformazione incredibile. Le tre ragazze studentesse che hanno partecipato, hanno sempre interagito mettendosi sullo stesso piano dei coetanei detenuti. Il gruppo di ragazzi detenuti è cresciuto mostrando una potenzialità enorme e anche tutta la potenza del lavoro di connessione con l’esterno. La dimostrazione che il carcere dovrebbe essere sempre più osmotico. Cosa può raccontarci dell’evento? Un ragazzo dell’Ipm, molto timido, che ho visto quasi sempre assente, dopo due consultazioni ha iniziato a parlare con noi per dire quanto era stato bene, non si fermava più, era un fiume in piena. Altri all’inizio erano tesissimi, emozionati, a tratti spavaldi, un po’ intimoriti nell’incontrare dopo mesi dei loro coetanei venuti da fuori. Li avevamo preparati molto a quest’incontro, ma è come se non ci avessero mai pensato veramente a quest’evento che si è materializzato. Tutti i ragazzi dell’Ipm sono scesi dalle celle (una cosa sorprendente, mi hanno detto). I lettori erano anche loro tesi all’inizio, nessuno era stato in un carcere prima. Quando finivano le consultazioni erano molto pensosi, avevano gli occhi fissi, erano desiderosi di commentare tra di loro. Può dirci, per quello che può, come sono andati i dialoghi? Ho saputo che hanno fatto domande molto dirette, gentili ma senza sconti, come forse solo dei ragazzi sanno fare. Devo dire che gli esiti sono stati molto più profondi e intensi di quel che ci aspettavamo. Una delle ragazze che ha partecipato alla preparazione insieme ai ragazzi dell’Ipm ha deciso di creare un podcast per raccontare ai compagni della classe questa sua esperienza. In che modo sono stati formati i lettori di questo progetto? Loro sono dentro un percorso portato avanti da Essere umano, sul tema carcere, sulla giustizia riparativa. È molto interessante parlarne a 17-18 anni, quando i ragazzi iniziano a farsi delle domande sui reati, su quando un atto commesso diventa reato. E anche sul limite tra lecito e illecito, tra etico e non etico, tra il bene e il male, che è molto sfuocato nei ragazzi. Progetti futuri? Da quasi 15 anni portiamo avanti le nostre iniziative, con più di 500 libri umani, è un lavoro enorme. Durante il periodo del Covid ci hanno proposto tante volte di fare incontri online, ma l’iniziativa è potente per l’incontro del “tu ed io”, per quella bolla che si forma, che è molto fisica. È uno strumento che Abcittà utilizza tantissimo, sul tema carcere abbiamo molto lavorato, da Trento a Lecce, da Cagliari a Roma. Gli appuntamenti negli istituti penitenziari si ripeteranno l’8 giugno a Genova nel carcere Marassi, il 2 luglio a Milano nella sezione femminile di Bollate, dentro un percorso di lavoro sulla decostruzione dei pregiudizi sulle donne detenute che subiscono un doppio peso: in quanto detenute e in quanto donne detenute. Modena. Carcere oltre i pregiudizi. Nuove attività rieducative di Emanuela Zanasi Il Resto del Carlino, 29 maggio 2024 L’8 giugno partita di calcetto in collaborazione col Lions all’interno del Sant’Anna. Il direttore Sorrentini: “Rivolta ferita aperta, ma dal 2020 tanto è stato fatto”. “Quella tragedia ha lasciato il segno, è ancora una ferita aperta, ma in quattro anni tante cose sono state fatte”. Così il direttore della casa circondariale di Modena Orazio Sorrentini commenta la terribile rivolta scoppiata al Sant’Anna del marzo 2020. Lo ha fatto a margine della conferenza stampa per presentare l’iniziativa del Lions Club Modena ‘Un calcio al pregiudizio’, la partita di calcetto in programma l’8 giugno prossimo all’interno del Sant’Anna. A sfidarsi saranno il team New Voices del distretto Lions 108 Tb e la squadra vincitrice del torneo interno alla struttura penitenziaria. Un’iniziativa che viaggia nel solco della detenzione vista soprattutto come riabilitazione; eventi che stanno prendendo sempre più piede soprattutto nella fase di ‘rinascita’ che il carcere ha intrapreso dopo la rivolta dell’8 marzo del 2020 durante la quale morirono nove detenuti. “Quattro anni non sono trascorsi invano - ha detto il direttore del carcere - contiamo di riattivare diverse attività rieducative come quella ad esempio che abbiamo presentato. Rimangono dei problemi - ha proseguito - ad esempio il sovraffollamento; i numeri non sono incoraggianti; circa 550 detenuti sono ben oltre la capienza regolamentare che è di circa 370. Per quanto riguarda i problemi strutturali credo che il Sant’Anna abbia bisogno di alcuni interventi, ad esempio stiamo montando tutti i ventilatori”. Ma sono i progetti rieducativi il capitolo su cui l’impegno è costante. “Lo sport è un momento di relazione - ha aggiunto Sorrentini - per i detenuti il principale problema è come impiegare il tempo della detenzione e ogni direzione si impegna perché questo tempo sia fruttuoso”. Anima dell’iniziativa del Lions club è Susanna Pietralunga, docente di criminologia per Unimore e da tanti anni esperta delle dinamiche carcerarie. “L’importanza di questo evento - ha spiegato la dottoressa Pietralunga - è quello di costruire un rapporto di connessione tra l’interno e l’esterno dell’istituto penitenziario perché purtroppo esiste storicamente una separazione molto rigida tra queste due entità ma che soprattutto dal 1975 con la riforma dell’ordinamento penitenziario e l’adesione all’ideologia del trattamento, sono diventate e devono divenire sempre di più due entità in una costante comunicazione. Sia da un punto di vista scientifico che culturale - ha concluso - i Lions costituiscono un’associazione che dialoga in modo sinergico con il territorio e con il rapporto tra carcere e realtà esterna”. Castrovillari (Cs). Si chiude il progetto con i detenuti “Copycat. Speranze replicabili” cn24tv.it, 29 maggio 2024 Si chiuderà con una mostra archeologica “Copycat. Speranze replicabili”, progetto ideato, prodotto e realizzato dalla Direzione del Parco archeologico di Sibari, istituto autonomo del Ministero della Cultura guidato dal Ministro Gennaro Sangiuliano, e che ha coinvolto detenuti della casa circondariale di Castrovillari, studenti dell’Ipsia - Istituto professionale superiore secondario dell’Erodoto di Thurii di Cassano All’Ionio - professori della stessa scuola, archeologi e assistenti all’accoglienza, fruizione e vigilanza, due direttori carcerari, un funzionario e una preside, diversi reperti originali datati tra il VI e il III secolo a.C., tre “formatori” della onlus “Maestri di Strada”, quattro seminari per un totale di sedici ore di formazione preliminare rivolta a docenti e operatori museali, un autista ed un pulmino messo a disposizione dal comune di Cassano all’Ionio per collegare anche fisicamente carcere e museo. “Questi, nel dettaglio, i numeri del progetto che, dopo la prima parte formativa - ha spiegato il direttore dei Parchi archeologici di Crotone e Sibari Filippo Demma - passa alla sua seconda e ultima fase. Accanto ai reperti, infatti, esporremo quelle stampe 3D realizzate da studentesse, studenti, docenti dell’Ipsia “Erodoto di Thurii” insieme ad alcuni degli ospiti della casa circondariale durante i laboratori che si sono tenuti nel Museo Archeologico Nazionale della Sibaritide. Oggetti che, seguendo il principio della circolarità, saranno poi utilizzati in altri laboratori con persone cieche e ipovedenti che non potrebbero toccare i delicatissimi originali ma attraverso le copie potranno almeno percepire la forma degli oggetti antichi. L’obiettivo è mostrare che la cultura va oltre ogni tipo di barriera, mentale ma anche fisica”. I reperti che saranno esposti in vetrina vengono da alcuni siti archeologici della Sibaritide: una kílix, coppa in ceramica usata durante il banchetto per contenere il vino, ritrovata in una tomba ad Amendolara (CS) e ha un’età di circa 2500 anni (VI sec. a.C.); un peso da telaio in terracotta che serviva a tendere i fili durante la tessitura ritrovato a Castiglione di Paludi e risale al IV-III sec. a.C.; una lucerna, lampada in terracotta decorata con una volpe che salta verso un grappolo d’uva proveniente dalla città romana di Copia, fondata nella Piana di Sibari dopo le greche Sibari e Thurii databile a circa 1900 anni fa (I-II sec. d.C.). Altri reperti, invece, provengono dall’antico santuario ritrovato sul Timpone Motta, nel comune di Francavilla Marittima (CS). Sono in terracotta: una pìsside, un contenitore in cui le donne custodivano prodotti di bellezza, gioielli, oggetti cari, una lekythos, boccetta per oli profumati, una brocchetta per acqua (hydria): oggetti che hanno un’età di circa 2600 anni (databili al VII-VI sec. a.C.). L’esposizione sarà inaugurata giovedì 30 maggio alle ore 10,30 (e durerà fino al 20 giugno) con una presentazione che si terrà nella sala conferenze della casa circondariale “Rosetta Sisca” di Castrovillari. Dopo i saluti di Gerardo Guerriero Liberato, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria, e dei sindaci di Castrovillari e Cassano All’Ionio, Domenico Lo Polito e Giovanni Papasso, interverranno, Giuseppe Carrà, Direttore della casa circondariale “Rosetta Sisca”, Anna Liporace, Dirigente Scolastica IISS “Erodoto di Thurii” di Cassano All’Ionio, Nicola Laieta e Alice Ruffa, Maestri di Strada ONLUS, Valentina Draetta, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Castrovillari (CS), Gianluca Gallo, Assessore all’Agricoltura, Risorse agroalimentari e Forestazione Regione Calabria. Il racconto dell’esperienza sarà affidato agli studenti e ai docenti dell’IPSIA “Erodoto di Thurii” e agli ospiti della casa circondariale “Rosetta Sisca”. A concludere i lavori, moderati da Luigi Bloise, Capo Area Trattamentale della “Rosetta Sisca”, sarà Filippo Demma, Direttore Parchi archeologici di Crotone e Sibari, Direttore Direzione Regionale Musei Calabria. Bari. Si chiude il laboratorio “Il teatro che ripara, il teatro che è riparo”, rivolto ai detenuti ciranopost.com, 29 maggio 2024 Oggi, mercoledì 29 maggio alle ore 14.30 è in programma l’evento conclusivo del laboratorio “Il teatro che ripara, il teatro che è riparo”, il progetto di formazione e accompagnamento alla pratica e alla visione del teatro rivolto ai detenuti delle sezioni di media sicurezza della Casa Circondariale di Bari a cura di Damiano Nirchio con l’associazione culturale Senza Piume in collaborazione con la cooperativa Crisi. Durante l’evento sarà presentato il cortometraggio Limbo realizzato nelle giornate di laboratorio da Vincenzo Ardito con i detenuti che hanno partecipato al progetto. Il percorso, realizzato in collaborazione con la Casa Circondariale di Bari, che per il secondo anno ha fortemente sostenuto l’attuazione del progetto, rientra nei “Laboratori Teatrali Urbani”, il più ampio progetto di formazione del pubblico legato alla stagione teatrale 2023/2024 del Comune di Bari. Un’attività che ha toccato anche i quartieri Libertà, San Pio e San Paolo, oltre alla Casa Circondariale di Bari, coinvolgendo attivamente abitanti di alcune zone periferiche della città che hanno avuto poche occasioni di approcciarsi al teatro, con la ferma convinzione che sia importante promuovere forme innovative di partecipazione, produzione ed espressione culturale. Dieci gli appuntamenti che da gennaio a marzo hanno visto il coinvolgimento del gruppo di detenuti nell’iniziativa “Il Teatro che ripara. Il teatro che è riparo”, un percorso di avvicinamento ai temi del teatro, articolato in fasi e azioni e guidato dai principi che animano l’istituto della giustizia riparativa: un laboratorio di scrittura creativa e drammaturgia per la messa in ordine e la restituzione di senso della propria storia servendosi, come il teatro insegna, della “finzione” per il racconto di una più vera verità attraverso testi destinati all’incontro con il “fuori” mediato dal pretesto del Teatro; un laboratorio di lettura ad alta voce per tornare ad essere visibili, esporsi e intervenire e diventare una risorsa per sé e per gli altri mettendosi al servizio di un’idea, una storia, un contenuto emotivo, sull’arte del farsi ascoltare e del dare voce. E quindi la performance finale per mostrare ad un pubblico intimo il percorso che, accompagnato dallo sguardo del regista Vincenzo Ardito in tutte le sue fasi, ha dato vita anche al cortometraggio. Messina. Scandalosa Mina nei racconti delle ragazze in carcere di Gianfranco Capitta Il Manifesto, 29 maggio 2024 Lo spettacolo di Tindaro Granata “Vorrei una voce”, dalle storie di carcerate nel penitenziario siciliano filtrate dal canzoniere della diva cremonese. Tindaro Granata è un attore originale, ogni volta diverso ma sempre efficace. Questa volta spiazza lo spettatore anche cantando: ma con la voce di Mina. Lo spettacolo che porta in tournée (è appena stato all’Elfo, con grandissimo successo, anzi vero entusiasmo da parte del pubblico) ha una storia più articolata e complessa di quelle correnti in teatro. Nasce infatti da una esperienza di spettacolo nato e coltivato in un carcere, quello femminile di alta sicurezza di Messina, dove è stato chiamato per fare un’esperienza artistica con le detenute da colei che abitualmente fa con loro teatro, Daniela Ursino. Si sono ritrovati, lui e loro, sul canto di Mina, idolo comune. In particolare, come traccia per i propri ricordi e le proprie esperienze, hanno preso un disco tratto da una serata rimasta famosa: quella del 23 agosto 1978, ultima esibizione della cantante in pubblico dal vivo, alla Bussola. Sulle note della tigre le donne del gruppo si sono raccontate, affidando poi all’attore la missione di portare in giro la loro esperienza, con tutta la forza del loro coinvolgimento in quel percorso coscienziale. È stato il figlio stesso di Mina, Massimiliano Pani, discografico, a farlo sentire alla cantante, che si è entusiasmata dando loro libero uso del suo repertorio. E quelle note sono ora percorso e controcanto delle storie che l’attore, solo sul palco (per ovvi motivi di sicurezza le donne del carcere di Messina non hanno potuto seguirlo) propone (e appassiona) ogni sera al pubblico, nello spettacolo Vorrei una voce. Un percorso di racconti e sentimenti che è come un flusso coscienziale, di cui Tindaro Granata si riveste, e commuovendosi quasi, tra storie e canzoni e ricordi, guida il pubblico in un viaggio tanto intimo quanto “scandaloso”, quanto può esserlo ogni umanità se raccontata sinceramente. Con pochi cambi d’abito, e una incrollabile energia fisica (oltre che vocale), l’attore fa sua ognuna di quelle storie, si mette in gioco in prima persona, si copre e si scopre, nella coscienza come negli abiti che cambia. Per lo spettatore può essere un viaggio quasi iniziatico, in quella quotidianità di dolore, fatica, bei ricordi, e qualche piccola vanità. Ma avendo come base le note e la voce di Mina, non c’è argine all’emozione, e anche al rischio di qualche immedesimazione, in quelle storie fascinose ma anche maledettamente umane. Una lezione di umanità appunto, ma guidati dalla voce di Mina, come in un bel sogno di un futuro diverso. Lo spettacolo è in tour, fra le date: domani a Castrovillari (Primavera Dei Teatri), 16 giugno a Narni Città Teatro, 17 giugno a Pistoia Festival Teatri di Confine. Baby gang, quei “cattivi ragazzi” tra percezione e realtà di Francesca Spasiano Il Dubbio, 29 maggio 2024 Secondo l’ultimo rapporto Eurispes, 4 cittadini su 10 denunciano la presenza di bande giovanili sul territorio. Ma in base ai dati della Polizia il fenomeno non deve allarmare. Chi sono davvero i ragazzi di cui tanto parla la cronaca? Si trovano principalmente nelle grandi aree urbane, più al Nord che al Sud, nei dintorni delle stazioni o dei centri commerciali. Gruppi che non sforano quasi mai i dieci, tutti maschi, prevalentemente italiani, giovani tra i 15 e i 24 anni. Ragazzi che provengono da contesti di marginalità o disagio socio-economico, il cui primo bersaglio sono i propri coetanei. I media le chiamano “baby gang”. Ma cosa sono davvero? E quanto bisogna preoccuparsi? L’unico identikit che abbiamo, l’unico che poggi davvero sui dati, descrive un fenomeno abbastanza diffuso, ma non allarmante. E comunque distante dai toni apocalittici con cui viene presentato dai media. I fatti di cronaca di cui si ha notizia, e non ultimo quello consumato la scorsa estate a Caivano - la città campana che ha dato il nome a un decreto del governo e ha riportato la premier sul posto proprio oggi per l’inaugurazione del nuovo centro sportivo - fanno una certa impressione. Ma lontano dai toni enfatici che raccontano di una “devianza giovanile” irredimibile, si trovano i numeri. E questi parlano di una tendenza da tenere sott’occhio, applicando con cautela il marchio di emergenza. “Sarebbe importante riconoscere che la sicurezza reale e quella percepita non sempre coincidono”, spiega Stefano Delfini, Direttore del Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno. Il quale mette in fila i principali dati emersi dal report “Criminalità minorile e gang giovanili” presentato un paio di settimane fa a Roma. Cifre aggiornate al 2023, in base alle segnalazioni di minori tra i 14 e i 17 anni denunciati o arrestati presenti nella banca dati della polizia, e messe a confronto con i risultati del Rapporto Italia 2024 elaborato dall’Istituto Eurispes. Che sondando il fenomeno attraverso l’esperienza diretta dei cittadini restituisce invece un quadro allarmante: oltre un terzo del campione dei rispondenti, il 36% (quasi 4 cittadini su 10), denuncia la presenza di gang giovanili nella zona in cui vive. E questa indicazione, come spiega Susanna Fara, responsabile comunicazioni di Eurispes, è percentualmente più alta presso i giovanissimi. Un’analisi che trova riscontro anche nei dati della polizia: “Nella maggioranza dei casi, le gang giovanili attive nei territori nel periodo in esame (biennio 2022-2023, ndr) hanno compiuto atti di bullismo, risse, percosse e lesioni, atti vandalici e disturbo della quiete pubblica. L’attività di gran lunga predominante, ad ogni modo, è rappresentata dalle vessazioni nei confronti di coetanei”. Secondo lo stesso report sulla criminalità minorile, dal 2022 al 2023, 73 province italiane hanno registrato attività violente o devianti da parte di gang giovanili. Tra il 2010 e il 2022 si rilevava un aumento del 15,34% delle segnalazioni di minori, ma il valore del 2023 è inferiore a quello del 2022 del meno 4,15%. Con un incremento dell’8,25 rispetto alla violenza sessuale nell’ultimo biennio. Lo studio tende necessariamente a “comprimere” un fenomeno in realtà estremamente variegato. E si pone parzialmente in contrasto con quanto rilevato precedentemente con lo studio del 2022 “Le gang giovanili in Italia”, nato dalla collaborazione fra il centro di ricerca interuniversitario Transcrime dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, lo stesso servizio di analisi della polizia e il Dipartimento per la Giustizia minorile del ministero della Giustizia, attraverso i dati forniti dagli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni (USSM). Si tratta del primo monitoraggio sul fenomeno, il primo tentativo di mapparlo e definirlo in base alle informazioni sul triennio 2019-2021. Secondo quei dati, metà degli USSM e il 46% delle questure e dei comandi provinciali dei carabinieri che hanno registrato la presenza di gang giovanili hanno anche indicato un aumento del fenomeno negli ultimi cinque anni. Se ne trova traccia anche nello studio elaborato con Openpolis dall’Osservatorio #conibambini nell’ambito del Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile, che lanciando la campagna “Non solo emergenza” racconta di quei giovani colpiti da (eco) ansia, depressione e bullismo. Ebbene, l’incremento segnalato negli ultimi cinque anni non trova conferma nel rapporto aggiornato dal Servizio Analisi Criminale, che ha condotto uno studio finalizzato proprio a rinnovare quella mappatura. “In rarissimi casi - si legge nel report - si sono registrati gruppi dotati di una gerarchia definita; non sono state censite gang che risultino essersi ispirate ad organizzazioni criminali italiane o estere”. E ancora: “Nel biennio analizzato, non vi è la percezione da parte delle Questure e dei Comandi Provinciali dell’Arma dei Carabinieri che la presenza di gang giovanili sia aumentata negli ultimi cinque anni e solamente in due province si sono riscontrati legami tra gang giovanili ed organizzazioni criminali”. Le cause? “La disoccupazione giovanile e la carenza di modelli positivi potrebbero contribuire alla formazione di tali gruppi che, spesso, catalizzano l’attenzione dei media e delle autorità locali a causa delle loro attività criminali e del loro impatto sulla comunità”. Resta dunque una domanda: esiste oppure no, un “caso Italia”? Non secondo Delfini, per il quale quello delle baby gang è un “fenomeno che non mostra peculiarità rispetto ad altri paesi”. Non solo Caivano. Le altre periferie d’Italia che aspettano d’essere curate di Marco Birolini Avvenire, 29 maggio 2024 “Non esistono aree del Paese in cui le Forze di polizia non possono decidere di entrare quando vogliono”. Parola di Vincenzo Nicoli, direttore controllo del territorio della Direzione centrale anticrimine della Polizia di Stato, che il 13 settembre 2023 rassicurò così la commissione parlamentare d’inchiesta su sicurezza urbana e periferie. Salvo poi ammettere che “ci possono essere sicuramente aree in cui sono state alzate barriere fisiche”. Non solo in alcuni quartieri difficili del Sud, ma anche a Roma (il fortino di Tor Bella Monaca) e persino al Nord. Nicoli indicò come esempi il Gad di Ferrara e Mestre. Luoghi dove prevale il degrado urbanistico e, di conseguenza, aumenta la “densità criminale”. In queste zone le forze dell’ordine, se vogliono effettuare controlli, devono arrivare con almeno due pattuglie perché “una può risultare non sempre sufficiente a gestire in sicurezza l’intervento”. Non c’è solo Caivano, insomma. Le periferie difficili spuntano anche in Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto. Non si tratta di ghetti: il modello della banlieue francese è fortunatamente lontano, però alcune situazioni destano crescente preoccupazione tra polizia e carabinieri, chiamati a inoltrarsi in un habitat delinquenziale dove attecchiscono facilmente anche i criminali d’importazione. Le zone critiche si possono facilmente individuare attorno alle stazioni cittadine, diventate un po’ ovunque un approdo per esistenze allo sbando, oltre che piazze di spaccio. È qui che finiscono molti minori stranieri non accompagnati, che si abituano in fretta a vivere di espedienti, spesso sfruttati da connazionali adulti. Accade a Milano, ma anche a Padova e Mestre solo per fare alcuni esempi. L’altro fronte caldo è quello dei grandi palazzoni popolari costruiti negli anni ‘50-’60: sorti per accogliere l’emigrazione operaia dal Sud Italia, adesso sono diventati fatiscenti rifugi dei migranti africani e asiatici, dove la legalità fatica a imporsi. Proprio Nicoli fece durante l’audizione in commissione una osservazione interessante e acuta, individuando il minimo comune denominatore della questione: “Sono tutte quante aree che sono indubbiamente carenti di servizi per fare le cose normali: dei trasporti, della palestra, della scuola, mi permetto di dire anche del bar dove il vecchietto si può andare a prendere il caffè, sedersi fuori e non avere problemi di vedere situazioni particolari”. Quartieri dormitorio, dove tutti si fanno gli affari loro e pochi, quasi sempre i soliti noti, dettano le regole. Posti dove anche la Chiesa vive situazioni di frontiera, con parrocchie e oratori assediate da spacciatori e baby gang, costrette a chiudere il portone per evitare guai. Pioltello è balzato all’onore delle cronache per il caso della scuola chiusa in occasione del Ramadan, ma la sua storia parte da lontano, con le radici dei problemi che affondano in errori antichi. La commissione parlamentare sulle periferie, in un sopralluogo di otto anni fa, rilevò che il quartiere del Satellite era stato “realizzato in modo talmente scellerato da essersi dimostrato presto invivibile e di conseguenza abbandonato. Oggi è abitato solo da stranieri o fasce povere”. Una situazione “fisicamente compromessa”, che spinse la commissione a ipotizzare una soluzione drastica: la demolizione. Così come è effettivamente avvenuto qualche anno fa per le famigerate torri di Zingonia, vicino a Bergamo, e di recente per le Dighe di Begato, ai margini di Genova. Due luoghi dove si è deciso di ripartire letteralmente da zero, abbattendo gli edifici. La gente è stata trasferita altrove, dove è più facile integrarsi. Al posto dei palazzoni sorgono nuove residenze e servizi, nel tentativo di ridare linfa vitale a un paesaggio urbano logorato da anni di incuria. Ma dove non è possibile demolire, si cerca di ristrutturare il tessuto sociale. Un fronte urbano su cui combattono quotidianamente le associazioni del Terzo settore, in alcuni casi in rete con Comuni e parrocchie, a partire dalla stessa Pioltello fino al quartiere Barriera di Torino. Sul campo giocano anche Unicef e Save The Children, che per riqualificare puntano tutto sul contrasto della povertà educativa, considerata la linfa vitale della delinquenza giovanile. Una sfida da vincere, visto che nella fascia 0-19 anni due su cinque vivono nelle 14 città metropolitane. Hanno bisogno di opportunità: con questo obiettivo sono partiti progetti sociali innovativi, in cui i protagonisti sono proprio i giovani abitanti. Guai calare le idee dall’alto, perché non funzionerebbero. Davanti alla commissione, il 4 marzo scorso, Giorgia D’Errico, direttrice relazioni istituzionali di Save The Children, ha spiegato la filosofia del programma “Un quartiere per crescere”, avviato in 5 periferie difficili per promuovere “un cambiamento disegnato e condiviso con chi quel territorio lo vive”. Un approccio dal basso per coinvolgere sia i ragazzi che le famiglie. Con una priorità: individuare spazi aggregativi e sportivi, di cui bambini e adolescenti hanno disperatamente bisogno. Secondo Save The Children manca la palestra in una scuola cittadina su tre, mentre nei quartieri gli spazi verdi sono insufficienti, così come mancano campetti da calcio, basket e volley. Una delle soluzioni proposte è l’utilizzo dei beni confiscati alla mafia: quelli destinati ai minori ora sono solo 237, cioè il 5% del totale. Si può fare di più, e soprattutto si può fare meglio. Migranti. Maysoon, se questa è la mercante d’uomini di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 29 maggio 2024 Maysoon Majidi pesa 40 chili. È in un carcere italiano da cinque mesi. Da due giorni è in sciopero della fame. E noi che abbiamo organizzato manifestazioni e tagliato ciocche di capelli gridando “Vita donna libertà” nemmeno lo sappiamo. Noi che abbiamo chiesto stentorei agli ayatollah di lasciare libere le donne iraniane di fare la loro vita, vestire come vogliono, sciogliere i capelli, cantare e danzare, teniamo in una cella una di loro con l’accusa - tutt’altro che comprovata - di essere “una scafista”. Le nostre leggi sull’immigrazione permettono questo. Permettono di arrestare una donna - una regista e attivista iraniana conosciuta anche all’estero per il suo lavoro - perché due delle persone che viaggiavano con lei sul barchino che li ha portati in salvo l’avrebbero indicata come “vice-scafista”. Il presunto “capitano”, arrestato anche lui, l’ha scagionata. I presunti testimoni, i due uomini che l’avrebbero accusata e subito dopo sono fuggiti, erano stati interrogati con l’aiuto di un mediatore che parlava arabo. Peccato che loro parlassero solo farsi. Quelle stesse persone, rintracciate in Germania, hanno detto che non è vero, non è una scafista, sono stati spinti a dire così, sono pronti a testimoniare. “La procura non li chiama. Ha chiamato una volta, era occupato, poi non ha più ritentato”, racconta Laura Boldrini, che prima di essere deputata del Pd ed ex presidente della Camera è stata a lungo portavoce dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati. Ha parlato con Maysoon, sa come si intervista un richiedente asilo, è convinta della sua innocenza. Nel frattempo sono passati cinque mesi. Centoquarantotto giorni. Maysoon Majidi ha perso 14 chili, adesso non mangia e non comprende nemmeno perché la stiano tenendo lì, in Calabria, nel carcere di Castrovillari. Se gli scafisti sono, come spesso accade, persone che non possono permettersi il viaggio organizzato dai trafficanti e che per questo vengono convinti a guidare la barca, è difficile che Maysoon Majidi lo sia perché è riuscita a dimostrare tutti i pagamenti fatti. Suo fratello era con lei e ce l’ha fatta: ha raggiunto la Germania. Il padre, professore universitario, ha venduto tutto, casa compresa, pur di farli partire. Curdi in Iran, per giunta attivisti per i diritti delle donne. A chi bisognerebbe dare rifugio in Italia, se non a loro? Non sono bastate le prove dei pagamenti, non è bastato dimostrare che le traduzioni dei testimoni dal farsi sono state pasticciate, neanche per ottenere gli arresti domiciliari. Maysoon resta in carcere perché - sarebbero queste le prove - sulla barca aiutava a distribuire i pasti. E perché all’arrivo ha mandato un messaggio al padre dicendo “siamo salvi”. Era il segnale che sbloccava altri soldi per i trafficanti veri. Quelli che sulle barche non salgono, quelli che non siamo andati a inseguire “per tutto il globo terracqueo” dopo la tragedia immane di Cutro come il governo aveva promesso. Li abbiamo lasciati comodi a fare i loro affari mentre mettiamo in prigione persone come Maysoon o come Marjan Jamali, iraniana anche lei, fuggita con un figlio di 8 anni che le è stato tolto appena arrivata. Marjan è ai domiciliari da due giorni. Prima, aveva cercato di togliersi la vita. Ad accusarla di essere l’”aiuto-capitana” sono stati con ogni probabilità gli stessi uomini che durante il viaggio avevano cercato di abusare di lei. C’è qualcosa che non torna, nella facilità con cui mettiamo in prigione donne - ragazze - fuggite da un regime che diciamo di aborrire. C’è molto, moltissimo che non torna nelle leggi che dovremmo aver fatto per contrastare l’immigrazione illegale e che rischiano invece di generare solo nuovo dolore e nuove ingiustizie. Lasciamo che Maysoon e Marjan provino la loro innocenza fuori da una cella. “Donna, vita, libertà” è un urlo che dovrebbe valere sempre per le ragazze iraniane cui abbiamo promesso una solidarietà vuota, se non ci sentiamo neanche in dovere di dar loro rifugio. Migranti. Molestata durante la traversata e accusata di essere una “capitana” di Alessia Candito La Repubblica, 29 maggio 2024 Dopo mesi di carcere, ai domiciliari la mamma iraniana. Lo ha deciso il Riesame di Reggio Calabria. In sciopero della fame l’attivista curdo-iraniana in carcere con la medesima accusa. Per mesi nessuna delle due ha potuto fornire la propria versione per mancanza di mediatori. Sette mesi dopo l’ultimo abbraccio, Marjam Jamali potrà riabbracciare il figlio. E proprio grazie a lui il tribunale del Riesame di Reggio Calabria ha concesso alla donna, fuggita dall’Iran e da un marito violento che più volte l’ha ferita ma in Italia finita in carcere come “capitana”, gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico. Da donna libera, il bimbo di 8 anni appena l’ha visto per l’ultima volta sulla banchina del porto di Roccella Jonica, al termine di una traversata complicata che sperava servisse a regalarle libertà lontano dall’Iran. Ha trovato solo il carcere, l’accusa infamante di aver fatto parte dell’equipaggio che ha gestito la traversata, un procedimento in una lingua che né conosce, né capisce, la solitudine. Il figlio lo ha visto solo dopo mesi, a margine delle udienze o nel parlatorio del carcere. Niente mediatori, in carcere senza sapere perché - È successo quando, finalmente, è riuscita ad avere assistenza legale, a raccontare anche la propria versione dei fatti grazie a un mediatore linguistico con cui fosse in grado di intendersi davvero. In precedenza, lei iraniana di lingua farsi, aveva solo avuto modo di comunicare con un iracheno. Non ha capito neanche il suo nome, lei Marjam Jamali nei documenti è diventata Miriam Qaderi, nessuno si è disturbato neanche a chiederle di mostrare le foto del passaporto che aveva nel telefono. E sì che è stato analizzato. Paradosso, quando l’avvocato Liberati che oggi l’assiste ha tirato fuori la circostanza, ha rimediato anche un’accusa di false generalità. Ma questo è successo dopo. All’arrivo, quando è stata portata in questura e sentita, delle carte in arabo e italiano che nel tempo le hanno sottoposto e fatto firmare ha capito poco o nulla. Giusto qualche segno grafico. “Accusata da uomini che ho respinto” - Solo mesi dopo ha capito che la giustizia italiana, senza mai davvero permetterle di capire cosa le stesse succedendo, le contestava accusa che pesano dai 2 ai 20 anni di carcere. E che a puntare il dito contro di lei erano stati gli stessi tre uomini dai quali si era dovuta difendere durante la traversata, durante la quale era stata identificata come preda di cui abusare. Si è salvata anche grazie a un uomo, iraniano come lei, che l’ha difesa e li ha allontanati. Al momento dell’arrivo, quegli stessi tre uomini - adesso, come spesso accade irreperibili - li hanno accusati di far parte dell’equipaggio. Come sempre spariti i testi che l’accusano - Quando è riuscita a farsi intendere, sull’accaduto ha presentato formale denuncia e sul caso è stato aperto un fascicolo. Ma alla sua versione, i giudici del Riesame - che hanno esaminato la sua posizione nel procedimento in cui è indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina - neanche adesso credono. Per loro, non ci sono prove a sostegno della sua storia di vittima di violenza domestica, neanche le cicatrici che porta addosso bastano. I tre che l’hanno accusata sono spariti, ma le loro dichiarazioni vengono prese per buone, mentre anche la ricevuta di pagamento della traversata - 14mila dollari americani versati in un’agenzia hawala da sbloccare al momento dell’arrivo - non viene considerata prova sufficiente a discarico. Scarcerata per tutelare il minore rimasto solo - Ma c’è un bimbo di otto anni rimasto solo, affidato mesi fa ad una famiglia afghana con cui ha imparato a comunicare prima a gesti e poi a parole in uno strano esperanto e che adesso su di loro non potrà contare più. Per questo il tribunale ha deciso di accogliere l’istanza di trasferimento ai domiciliari nel centro Sai di Camini, dove già il bimbo è ospite. Una misura, si legge nelle carte, che si rende necessaria anche per tutelare Marjam. Isolata anche culturalmente e linguisticamente, in carcere la donna ha già tentato il suicidio. Quelle “pilloline per dormire” che le hanno dato appena entrata in carcere e che lei si era sempre rifiutata di prendere, le ha mandate giù tutte d’un colpo. Erano sedici. L’hanno soccorsa e salvata, ma poco dopo è stata trasferita per diverse settimane all’ex opg di Barcellona Pozzo di Gotto, dove l’ha incontrata la deputata Laura Boldrini, la prima a interessarsi al suo caso, adesso seguito anche da Amnesty, diversi comitati locani e non e dal Garante per i detenuti. “Una vicenda inverosimile”, ha commentato l’ex presidente della Camera. L’incubo parallelo di Maysoon - In parte sovrapponibile a quella di Maysoon Majidi. Iraniana anche lei, ma doppiamente perseguitata nel Paese degli ayatollah, perché donna e perché curda. Regista nota e attivista, era finita nelle liste di proscrizione del regime. Di fatto, era un bersaglio. Per questo è fuggita usando l’unico canale disponibile, un veliero che attraversa il Mediterraneo con a bordo un carico di disperati come lei. E come Marjam è finita in carcere con l’accusa di essere una scafista, anche lei per mesi privata della possibilità di capire cosa le stesse succedendo perché mai ha avuto modo di accedere a documenti in una lingua che conoscesse o capisse. Testimoni irreperibili per la procura ma l’avvocato li contatta in diretta - A Crotone, il processo contro di lei è iniziato settimane fa. Ad accusarla, due persone che, contattate dall’avvocato Liberati che l’assiste, hanno cambiato radicalmente versione. Uno è iraniano, uno iracheno, le loro testimonianze - hanno affermato entrambi - sono state mal interpretate dal mediatore afghano con cui hanno parlato. Facile che sia così, parlano lingue strutturalmente diverse. Uno di loro avrebbe dovuto testimoniare all’incidente probatorio fissato qualche settimana fa, ma nonostante sia regolarmente registrato e viva in un centro gestito dallo Stato tedesco, la procura lo ha dichiarato irreperibile. Quando in aula l’avvocato lo ha contattato, il pm si è rifiutato di raccogliere la sua testimonianza. Sciopero della fame - Maysoon, che in cinque mesi di prigionia ha già perso 14 chili, è rimasta in carcere. Da ieri ha iniziato lo sciopero della fame. Una protesta, spiega l’avvocato Liberati, ma soprattutto un grido d’aiuto per professare la sua innocenza, chiedere di essere ascoltata davvero e tutelata, protetta da un regime che l’ha messa nel mirino e da cui è fuggita. Un modo per salvarsi la vita, che adesso paga con la detenzione. Migranti. Dietro le sbarre per la solidarietà tra disperati di Tatiana Montella Il Manifesto, 29 maggio 2024 Majidi e gli altri. Come ha raccontato il Manifesto, Maysoon Majidi, attivista curdo-iraniana in carcere da cinque mesi a Castrovillari con l’accusa di essere una “capitana” (scafista secondo la retorica dominante), ha iniziato lo sciopero della fame. Majidi è una regista e un’attivista che ha preso parte alle mobilitazioni delle donne iraniane, perseguitata dal regime degli ayatollah, doppiamente oppressa perché donna e curda. A dicembre 2023 ha raggiunto l’Italia dopo essersi imbarcata dalla città turca di Izmir. Arrivata in Calabria, su un’imbarcazione con altri 77 migranti, è stata arrestata per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, accusata di aver coadiuvato il capitano dell’imbarcazione distribuendo acqua e cibo. Con lo sciopero della fame Majidi afferma la propria innocenza e chiede di fissare con urgenza l’udienza sui domiciliari. A pochi chilometri Marjan Jamali, un’altra donna curdo-iraniana accusata dello stesso reato, è stata ammessa solo lunedì ai domiciliari dopo mesi di carcerazione che l’hanno separata dal figlio minore. Quelle di Majidi e Jamali sono le storie di tanti migranti, attualmente un migliaio, rinchiusi nelle carceri italiane con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Il nostro ordinamento inserisce in questo reato qualunque condotta faciliti in qualsiasi modo l’attraversamento dei confini, a prescindere dal fatto che si tragga o meno profitto, che si appartenga o meno a organizzazioni criminali. Chi guida un barcone - volontariamente o costretto - o chi svolge una qualsiasi mansione durante la traversata - come tenere la bussola, chiamare i soccorsi, distribuire cibo - rischia pene fino a 20 anni. Il reato di favoreggiamento, ovvero l’articolo 12 del Testo unico immigrazione (Tui), non ha nulla a che vedere con la tutela dei migranti. L’unico bene giuridico protetto dalla norma è quello delle frontiere, anche se la Corte Costituzionale ha indicato quello della corretta gestione dei flussi migratori. È per questo che attivisti, organizzazioni umanitarie e i migranti che esercitano forme di solidarietà vengono criminalizzati. Questo reato non c’entra niente con il fenomeno della tratta di persone, con cui viene spesso confuso. La tratta implica la violenza o il fine dello sfruttamento. Il favoreggiamento, invece, non necessita di danni inferti ai migranti coinvolti, né di profitti in favore di chi è accusato. Tra il 2006 e il 2016, più di 81mila persone sono state imputate o condannate in Europa per il reato di favoreggiamento. Le pene implicano carcerazioni molto lunghe. Chiedere l’abrogazione dell’articolo 12 del Tui è un dovere perché criminalizza l’esercizio del diritto alla fuga e della libertà di movimento. Lo sciopero della fame che ha iniziato Majidi, giovane donna di 28 anni che pesa all’incirca 40 chili, è un atto politico forte per rompere l’isolamento di questi processi. Sostenere la lotta di Majidi significa scardinare il meccanismo violento delle politiche che tutelano le frontiere invece delle persone e farlo dal punto di vista di chi rischia la propria vita attraversando i confini con imbarcazioni di fortuna, mettendo a disposizione la proprie forze e dando aiuto in mare. Atti di autodeterminazione che interrogano in primo luogo chi vive dall’altra parte dei confini attraversati: noi cittadini europei. Migranti. Rinnovato lo stato di emergenza, nonostante i numeri in calo di Giansandro Merli Il Manifesto, 29 maggio 2024 Un giorno Meloni rivendica gli sbarchi diminuiti, ma solo rispetto al 2023, quello dopo firma la delibera per “l’eccezionale incremento”. Intanto la Humanity 1 salva 182 persone. Su un barcone anche il cadavere di un neonato. Un giorno si vanta di aver ridotto gli sbarchi, quello dopo rinnova lo stato d’emergenza per “l’eccezionale incremento dei flussi di persone migranti in ingresso sul territorio nazionale attraverso le rotte del Mediterraneo”. Fa così Giorgia Meloni. Lunedì annuncia: “Grazie al lavoro lungo e complesso che stiamo portando avanti, gli sbarchi in Italia continuano a diminuire. A oggi, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, sono quasi il sessanta per cento in meno”. Martedì, invece, firma la delibera del Consiglio dei ministri per il secondo rinnovo dell’emergenza dichiarata l’11 aprile 2023, un mese e mezzo dopo il naufragio di Cutro. “È evidente che non ci sia una situazione eccezionale a cui far fronte. Il governo utilizza questo strumento per dare i centri di accoglienza in affidamento diretto. È infastidito dal rispetto delle procedure normali e vuole alimentare l’idea che l’immigrazione sia un problema straordinario”, afferma Filippo Miraglia, dirigente nazionale di Arci. Insieme alle altre associazioni che compongono il Tavolo asilo e immigrazione chiede al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi di convocare il tavolo tecnico, previsto dalla legge, dove concordare il piano annuale per l’accoglienza. L’esecutivo, invece, continua a rifiutarsi di scriverlo. “La politica di Meloni è negare la realtà: dice che non vuole gestire l’immigrazione ma fermarla, poi chiude gli occhi quando i migranti arrivano”, continua Miraglia. Tra ieri e l’altro ieri solo sull’isola di Lampedusa sono sbarcate 465 persone (dati di Sergio Scandurra, Radio Radicale). Altre undici sono state salvate dalla guardia costiera al largo di Mazara del Vallo. Una barca a vela con 71 migranti, di cui 19 minori, è stata invece intercettata dalla guardia di finanza davanti alle coste salentine. In totale alle 8 di mattina di ieri gli arrivi via mare erano stati 19.993. La premier ha ragione a sostenere che siano diminuiti, ma questo vale soltanto rispetto allo scorso anno. Nel 2023, quando l’esecutivo in carica era sempre quello guidato da Fratelli d’Italia, a questo punto erano già 48.324. L’anno prima, durante il governo Draghi, se ne erano contati 18.469. In quel caso nessuna dichiarazione dell’emergenza. Nel frattempo 41 naufraghi sono stati tratti in salvo dalla Ocean Viking, della ong Sos Mediterranée. “Una persona era quasi incosciente per ipotermia e diverse hanno ustioni da carburante”, ha dichiarato l’ong, che domani a Roma, 11.30 a Largo Argentina, consegnerà ad alcuni candidati europei le migliaia di firme raccolte a sostegno del soccorso civile in mare. A bordo della Humanity 1, intanto, ci sono 181 naufraghi soccorsi in quattro diversi interventi (a parte il primo, tutti coordinati dalle autorità italiane). Lunedì la nave ha soccorso due barconi partiti dalle città libiche di Zawyia e Sabrata, martedì altri due che avevano preso il mare da Sfax. Sul primo dei mezzi provenienti dalla Tunisia, avvistato dal ponte della nave umanitaria al largo di Lampedusa, una madre viaggiava con una figlia di tre anni viva e un neonato tra le braccia morto. Probabilmente per disidratazione. “È stato scioccante vedere quanto era piccolo l’involucro che lo conteneva”, afferma dalla Humanity 1, Sofia Bifulco, portavoce della ong. A bordo è stato osservato un minuto di silenzio per questa breve vita perduta durante il viaggio. “Un momento toccante. Tante madri stringevano i loro figli. Avevano il terrore negli occhi”, continua Bifulco. Le due parenti della giovane vittima sono state sbarcate a Lampedusa, dopo un trasbordo su una motovedetta della guardia costiera. Per gli altri 179 naufraghi, invece, il porto indicato resta quello di Livorno, nonostante le proteste della Ong. “Una violazione dei diritti umani completa. Lampedusa è qui, davanti ai nostri occhi. È assurdo mandarci in Toscana”, commentano dall’equipaggio. Migranti. La tortura degli ultimi di Lorenzo D’Agostino Il Manifesto, 29 maggio 2024 Il reato di tortura, pensato per proteggere i cittadini da chi indossando una divisa può usare la forza - e proprio per questo inviso alla maggioranza di governo - nella sua prima applicazione ha portato alla condanna non di poliziotti, ma di tre richiedenti asilo, arrivati a Lampedusa a giugno 2019 sulla nave Sea Watch di Carola Rackete. La sentenza di primo grado del tribunale di Messina ha certificato le torture sistematiche nei centri di detenzione per migranti in Libia, specificamente nella prigione di Zawiya Al Nasr. Per questo la corte penale internazionale si è congratulata con il governo italiano e Amnesty Italia ha parlato di “sentenza storica e innovativa”. Ma un esame approfondito degli atti rivela una realtà paradossale: la responsabilità per le torture nel carcere di Zawiya, sotto il controllo del ministero dell’interno libico e gestito da miliziani alleati del governo italiano nel contenimento dei migranti, ricade su tre individui con ruoli del tutto marginali e transitori nell’amministrazione del carcere. Nelle testimonianze delle vittime abbondano i dettagli sulle sevizie inferte dai vertici della prigione, ma appare esiguo e impreciso il racconto di violenze commesse dai tre imputati. Lo ha riconosciuto, in parte, la Corte d’Appello, abbassando le pene inflitte in primo grado da 20 a 12 anni di reclusione perché “gli imputati erano pur sempre dei migranti che aspiravano a raggiungere le coste italiane”, e si trovavano “in uno stato di sudditanza psicologica rispetto all’apparato posto in piedi dai veri trafficanti che, purtroppo, rimangono sempre al riparo dall’azione punitiva”. Torturatori, ma con le attenuanti generiche. L’idea di usare il reato di tortura contro le persone in arrivo dalla Libia era stata prevista prima ancora della sua approvazione dall’allora procuratore di Catania Carmelo Zuccaro. In un’audizione in senato nel maggio 2017 aveva detto: “I trafficanti potrebbero essere accusati anche di tortura per le sofferenze che fanno patire ai migranti”. L’occasione fu colta a luglio 2019 dalla questura di Agrigento, responsabile per il territorio di Lampedusa e specializzata nella caccia allo scafista. Si cercavano i “capitani” dei barconi appena soccorsi dall’Ong Mediterranea, indagando a margine sul comportamento dei soccorritori. Era l’estate di Salvini al Viminale. Rispondendo alle domande di routine della polizia (chi ha organizzato il viaggio? chi teneva il motore? che vi hanno detto sulla nave di salvataggio?) un giovane camerunese, Cyriaque Zanga, racconta di maltrattamenti, estorsioni e torture sofferte nel suo viaggio attraverso l’Algeria, il Niger e la Libia. Fa i nomi dei responsabili della prigione di Zawiya, sulla costa libica: il terribile capo dei carcerieri, l’egiziano Mohamed, e il suo assistente sudanese Yassine che ammazza di botte di chi si lamenta. C’era anche un sudanese, Mahmoud, che forse è sbarcato in Italia qualche mese. In che porto? Chiede la polizia. Zanga non lo sa, ma dice che lo saprebbe riconoscere. Quattro giorni dopo la polizia mostra a Zanga gli album fotografici delle persone sbarcate a Lampedusa negli ultimi mesi: Zanga dice di riconoscere il sudanese Mahmoud nella foto che ritrae un cittadino egiziano, Ashuia Mahmoud, arrivato quel 29 giugno. Nell’album dello stesso sbarco Zanga indica come carcerieri due persone che non aveva nominato nella prima deposizione: il guineano Mohamed Condé, detto Suarez, e l’egiziano Ahmed Hameda. Zanga fa anche i nomi dei suoi connazionali passati dal carcere di Zawiya e sbarcati in Italia, in grado di corroborare il suo racconto. La polizia raccoglie così altre cinque testimonianze: quattro contro Suarez, tre su Mahmoud, e solo due su Hameda. Le carte passano alla Dda di Palermo, a cui tanto basta per spiccare i mandati di arresto. I tre si trovano nell’hotspot di Messina, dove il processo finirà per competenza territoriale. La notizia dei primi arresti per tortura fa sensazione: la stampa progressista celebra l’impegno della magistratura nel far luce sugli orrori dei campi libici. La stampa di destra ne approfitta per attaccare Carola Rackete: “Ha dato un passaggio a tre torturatori”, scrive Il Giornale. In un messaggio interno, il team di comunicazione di Sea Watch invita lo staff alla “massima discrezione” sulla vicenda per non “gettare l’osso ai media di destra”. Così passano sotto traccia i dettagli del caso: quelli che puntano alle responsabilità istituzionali libiche e italiane, ma soprattutto l’evanescenza delle accuse specifiche contro gli imputati. Basata su sole sei interviste, l’indagine di Messina è molto meno dettagliata e precisa di inchieste giornalistiche e rapporti di organizzazioni come Medici senza frontiere sullo stesso tema. Le testimonianze raccolte dalla polizia raccontano l’economia delle estorsioni ai migranti che prospera in Libia in seguito agli accordi con l’Italia del 2017: il carcere di Zawiya, dicono i testimoni, è in mano a un certo Osama, che tortura i prigionieri per estorcere riscatti tra i mille e i duemila euro. Con lui collabora il miliziano Abdulrahman a cui mancano due falangi, che cattura i migranti in mare e li porta da Osama. È facile riconoscere in questi due personaggi i libici Osama al-Kuni e Abd al-Rahman al-Milad detto Bija, due trafficanti di Zawiya sulla lista di sanzioni Onu. Quest’ultimo, ha rivelato in seguito il quotidiano Avvenire, era stato ricevuto in Sicilia a maggio 2017 come membro di una delegazione di guardacoste libici, che in quel periodo l’Italia iniziava a finanziare, formare e rifornire di navi. Non sui due capi si concentrano gli inquirenti, ma sulla “zona grigia”: quella in cui i prigionieri del campo come Suarez si fanno complici dei loro aguzzini per comprarsi la libertà. “I carcerati che davano una mano - spiega un testimone - erano quelli a cui rimanevano tremila dinari. Aiutavano, così li facevano uscire”. Secondo le testimonianze, il guineano Suarez gestiva un telefono con cui i prigionieri supplicavano familiari e amici di pagare i riscatti. I due egiziani lavoravano in cucina alle dipendenze del capo carceriere Mohamed. Le accuse, riportate dalla polizia in formule nette e standardizzate, si sgonfiano davanti al giudice: Suarez gestiva sì un telefono, ma spesso lo dava ai prigionieri a suo rischio, per consentire loro di contattare i propri cari al di là delle richieste di riscatto; tra lui e Osama era sorto un violento contrasto proprio a causa delle torture che il libico infliggeva ai neri. Sui due egiziani, Mahmoud e Hameda, le dichiarazioni sono ancora più scarne: il testimone camerunese Nchontcho dice che Mahmoud gli ha rotto i denti col calcio di un fucile. Su Hameda resta in piedi, oltre alla testimonianza di Zanga, solo una dichiarazione del ghanese Rashid: “Era il responsabile della cucina e non ha mai trattato male nessuno”. Giudici, pm e avvocati cercano risposte nette: torturatore o cuoco? Prigioniero o guardia? Migrante o aguzzino? I testimoni offrono risposte sfumate: “Purtroppo una persona deve essere là per capire la situazione”, dice Nchontcho. Nell’arringa finale del processo di appello il procuratore generale di Messina ha paragonato l’indagine giudiziaria sulla prigione di Zawiya alla liberazione di Auschwitz. L’avvocato di Ahmed Hameda, Antonino Pecoraro, ha risposto con un invito alla sobrietà, indicando alle spalle dei giudici un ritratto di Vittorio Emanuele III: “Lo stesso re che nel 1912 ha autorizzato le truppe italiane a invadere la Libia… lo stesso che firmò le leggi razziali. I grandi principi lasciamoli fuori da quest’aula”. Anche a voler seguire il paragone del procuratore, ha aggiunto, il ruolo degli imputati sarebbe al peggio quello di kapò: “Il kapò veniva utilizzato per picchiare e se non picchiava bene veniva picchiato a sua volta. Proviamo a metterci nell’ottica di quello che può avvenire là dentro”. La corte ha ritenuto gli imputati colpevoli dei reati loro ascritti - associazione a delinquere, sequestro di persona finalizzato all’estorsione, tortura - condannandoli a 12 anni di reclusione. Quasi il doppio della pena massima inflitta nei processi ai kapò che seguirono alla seconda guerra mondiale: celebrati in tribunali israeliani, non certo nell’Italia alleata dei nazisti. Pena di morte. Le esecuzioni raggiungono il numero più alto in quasi un decennio di Ilaria Solaini Avvenire, 29 maggio 2024 Il rapporto Amnesty: l’impennata in Iran porta al numero più alto dal 2015. I progressi negli Stati Uniti vacillano a causa dell’aumento del numero di persone uccise dal boia. 1.153 esecuzioni nel 2023, con un aumento del 31% (+270) rispetto alle 883 esecuzioni conosciute nel 2022. È la cifra più alta registrata da Amnesty International dal 2015 quando le esecuzioni furono 1.634, anche se queste cifre non includono le migliaia di persone presumibilmente condannate a morte in Cina, così come altre esecuzioni che si ritiene siano avvenute in Corea del Nord e Vietnam, dove mancano dati. L’unico dato che per certi versi può esser letto in maniera più positiva riguarda il fatto che le esecuzioni siano state registrate in soli 16 Paesi al mondo: si tratta del numero più basso mai registrato da Amnesty International e viene così confermata la tendenza degli ultimi anni che indicava un isolamento sempre più crescente dei Paesi che ancora non hanno abolito la pena di morte. “La discriminazione e l’arbitrarietà insite nell’uso della pena di morte non hanno fatto altro che aggravare le violazioni dei diritti umani nei nostri sistemi di giustizia penale. La piccola minoranza di Stati che insiste nel usarla deve adeguarsi ai tempi e abolire la pena una volta per tutte” ha spiegato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International, precisando che “la pena di morte sarà nuovamente esaminata all’assemblea generale delle Nazioni Unite di quest’anno. Amnesty International esorta tutti i governi a sostenere l’appello dell’ONU per porre fine all’uso della pena di morte in un fondamentale atto di impegno per i diritti umani”. Il monitoraggio di Amnesty International mostra che nel 2023 il numero più basso di Paesi registrati ha effettuato il maggior numero di esecuzioni conosciute in quasi un decennio. ?Ad oggi, 112 Paesi sono completamente abolizionisti e 144 in totale hanno abolito la pena di morte per legge o pratica. In Asia, il Pakistan ha abrogato la pena di morte per reati legati alla droga, mentre la pena di morte obbligatoria è stata abolita in Malesia. Le autorità dello Sri Lanka hanno confermato che il Presidente non intende firmare mandati di esecuzione, attenuando i timori di una ripresa delle esecuzioni. Sebbene nessun paese abbia abolito la pena di morte nell’Africa sub-sahariana, sono ancora in corso progetti di legge per abolire la pena in Kenya, Liberia e Zimbabwe. In Ghana, il Parlamento ha votato a favore di due progetti di legge che rimuovono la pena di morte dalla legislazione vigente, ma alla fine del 2023 i progetti non erano ancora diventati legge. L’aumento delle esecuzioni registrate è stato in gran parte attribuibile a un’allarmante impennata delle esecuzioni per reati legati alla droga in Iran, guidata dalla totale mancanza di riguardo da parte delle autorità per le restrizioni internazionali sull’uso della pena di morte. Questi reati non possono essere puniti con la morte secondo il diritto e gli standard internazionali sui diritti umani e hanno colpito in modo sproporzionato le comunità più emarginate dell’Iran, in particolare uomini e donne della minoranza etnica Baluchi. Sono state registrate 508 esecuzioni per reati legati alla droga: 481 in Iran; 1 in Kuwait, 19 in Arabia Saudita; 5 a Singapore. Il numero totale di 508 costituisce il 44% del totale a livello globale. Almeno 8 esecuzioni pubbliche sono state registrate in Afghanistan (1+) e Iran (7). Mentre in Iran, almeno 5 persone sono state condannate a morte e uccise per crimini avvenuti quando avevano meno di 18 anni. Nel 2023 sono state comminate almeno 2.428 nuove condanne a morte in 52 Stati, rispetto ad almeno 2.016 in 52 Paesi nel 2022. Amnesty International ha registrato commutazioni o grazie per condanne a morte in 27 Paesi. Cinque Paesi - Bielorussia, Camerun, Giappone, Marocco/Sahara occidentale e Zimbabwe - hanno emesso condanne a morte dopo una pausa. Almeno 9 sono stati i proscioglimenti di prigionieri condannati a morte in tre paesi: Kenya (5), Stati Uniti (3) e Zimbabwe (1). A livello globale, alla fine del 2023, almeno 27.687 persone erano nel braccio della morte. Per il quindicesimo anno consecutivo, gli Stati Uniti sono rimasti l’unico Paese della regione ad effettuare esecuzioni. Il numero delle esecuzioni eseguite negli Usa è aumentato del 33%, passando da 18 nel 2022 a 24 nel 2023. La Florida ha effettuato le sue prime esecuzioni (6) e le autorità federali statunitensi hanno emesso la prima condanna a morte dal 2019. Per il settimo anno consecutivo, Guyana, Trinidad e Tobago e gli Stati Uniti sono stati gli unici Paesi della regione ad aver emesso nuove condanne a morte. Mentre il continente asiatico continua ad essere la regione con il maggior numero di esecuzioni al mondo. Nella regione Asia-Pacifico, sei paesi (Afghanistan, Bangladesh, Cina, Corea del Nord, Singapore e Vietnam) hanno effettuato esecuzioni nel 2023, in calo rispetto alle otto del 2022. Nessuna esecuzione è stata registrata in Giappone e Myanmar. Sulla base delle informazioni disponibili nella regione sono state comminate un totale di 948 nuove condanne a morte, un aumento del 10% rispetto al 2022, quando si sapeva che erano state condannate a morte almeno 861 persone. La Bielorussia è rimasta l’unico paese in Europa ad aver utilizzato la pena di morte, condannando a morte una persona nel 2023. Russia e Tagikistan hanno continuato a osservare moratorie sulle esecuzioni. Il numero di esecuzioni registrate nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa è aumentato del 30%, passando da 825 nel 2022 a 1.073 nel 2023. Sono aumentate anche le condanne a morte registrate, da 827 nel 2022 a 950 nel 2023. Iran, Arabia Saudita e Iraq sono stati i primi tre Paesi con esecuzioni nella regione nel 2023. Hanno rappresentato il 97% di tutte le esecuzioni registrate nella regione: Iran (80%), Arabia Saudita (16%) e Iraq (1%). In totale otto Stati hanno effettuato esecuzioni nella regione nel 2023: Egitto, Iran, Iraq, Kuwait, Palestina (Stato di), Arabia Saudita, Siria e Yemen. In Africa sub-sahariana le esecuzioni registrate sono più che triplicate, passando da 11 nel 2022 a 38 nel 2023. Tutte le 38 esecuzioni sono avvenute in un unico Paese: la Somalia. Nel 2023 sono state registrate condanne a morte in 14 paesi, rispetto alle 16 del 2022. Le condanne a morte registrate sono aumentate drasticamente del 66%, da 298 nel 2022 a 494 nel 2023. Quattro Paesi (Kenya, Liberia, Zimbabwe e Ghana) hanno adottato misure legislative positive verso l’abolizione della pena di morte. Come Amnesty International rileva e raccoglie questi dati - Questo rapporto copre l’uso giudiziario della pena di morte per il periodo da gennaio a dicembre 2023. Come negli anni precedenti, le informazioni sono raccolte da una varietà di fonti, tra cui: cifre ufficiali; sentenze; informazioni da individui condannati a morte e dalle loro famiglie e rappresentanti; rapporti dei media; e, come specificato, altre organizzazioni della società civile. Amnesty International riferisce solo sulle esecuzioni, condanne a morte e altri aspetti dell’uso della pena di morte, come commutazioni ed esoneri, dove vi è una conferma ragionevole. In molti Paesi i governi non pubblicano informazioni sul loro uso della pena di morte. In Cina e Vietnam, i dati sull’uso della pena di morte sono classificati come segreto di Stato. In Myanmar, le autorità militari hanno continuato a imporre condanne a morte nei tribunali controllati dai militari, in procedimenti segreti e grossolanamente ingiusti. Allo stesso modo, le autorità di alcuni Stati degli USA hanno perseguito leggi per mantenere segreto l’approvvigionamento di attrezzature o sostanze utilizzate nelle esecuzioni e per impedirne, di fatto, il controllo. Quella deriva bellicista che ci porta in guerra di Domenico Quirico La Stampa, 29 maggio 2024 Chi giurava “mai soldati in Ucraina” si dovrà ricredere, la diplomazia giace ormai silenziosa in un angolo. Ecco: la parolina è stata pronunciata: istruttori, consiglieri, berretti verdi. Sembra un vocabolo innocuo. Invece ricordatevi questa data, 27 maggio. Perché quando la guerra, quella grande, non quella per comoda procura o confortevolmente non belligerante, infurierà, potrete partir da lì per riflettere con sbigottimento su come è iniziata anche per noi. Purtroppo non ci aiuterà a soffrire di meno. Si son persi due anni per accomodarsi sugli inverosimili (ma utilissimi, per loro, i centauristi della Immancabile Vittoria) paragoni storici con il 1939 e la seconda guerra mondiale: Putin come Hitler vuole conquistare il nostro mondo, Ucraina come la Polonia, rischi mortali di una nuova Monaco se si ascoltano i vili pacifisti eccetera, eccetera). Come si costruisce una omeopatica discesa agli inferi, un baedeker della guerra totale semmai era scritto, chiaro e distinto, nel Vietnam degli Anni Sessanta. Eppure provate a negare che erano quelli tempi entusiasmanti. Altro che quelli delle lente digestioni bideriane per cui basta una prosa nudarella. L’America, e con lei l’Occidente, aveva finalmente a capo uomini brillanti ed energici, non crudeli e non fanatici, avevano afferrato il comando con baldanza, rapidi dinamici sicuri. Perché non c’era più tempo di aspettare, la Storia nei momenti cruciali non concede simili lussi. Se si esita, si riflette troppo, il mondo, quello nemico, va avanti senza di noi. Sì c’erano stati degli errori, Cuba, anche allora; come oggi, Afghanistan, Iraq. Ma in fondo niente di molto importante, niente di molto grave: un vetro rotto da una sassata, come spiriteggiava una delle teste d’uovo kennediane. Già: un vetro rotto. Ma quella sensazione di esser diventati vulnerabili non era facile eliminarla. Come oggi la Guerra Fredda era più fredda che mai. Per questo. Il Vietnam, e ora l’Ucraina, sembravano il posto più adatto per rendere credibile la propria forza. Iniziò proprio così, con l’invio degli istruttori militari a Saigon. Oggi lo annunciano in molti, il gallicano furore di Macron in prima linea. Si camuffa il tutto con filosofemi brodosi, minimalisti e di facile impiego: che cosa cambia, in fondo? Fu solo un modo per togliersi lo scomodo e la lungaggine di trasferire i discepoli, i soldati ucraini, in Inghilterra o in Polonia per addestrare alle nuove armi decisive, che chiuderanno la guerra in un baleno. Non si accorse l’amministrazione Kennedy di una verità molto antica, che quando si comincia a discutere dell’impiego della forza, i fautori della forza sono sempre meglio organizzati, sembrano più numerosi e sanno utilizzare a loro favore tanto le armi della logica, quanto quelle della paura. Come l’acqua si trasforma in ghiaccio, così in questi due anni di guerra l’idea che la vittoria ucraina fosse possibile senza di noi ha finito per cristallizzarsi fino a diventare una realtà. Non perché fosse vera, non lo è mai stato neppure al momento della ritirata russa all’inizio dell’aggressione. Ma perché è diventata reale nella mente di alcuni leader molto potenti che vi scorgevano enormi vantaggi per il proprio potere e per rassodare un incerto futuro politico. Così ciò che non è mai esistito e che fin dall’inizio è apparso subito fragile e caduco, la vittoria ucraina e la resa russa con la fine di Putin, è stato fatto diventare solido e stabile. Un Paese eroico con un esercito formato da una falange tebana che apprendeva in fretta e disponeva di suggestive capacità di bricolage bellico, i droni fatti in casa, i pensionati con le bombe molotov capaci di respingere i tank russi, generali geniali e dall’aspetto marziale... E poi lui, Zelensky, il Grande Incantatore. Quello che fu il leader sudvietnamita Diem per dare corpo al tragico errore americano negli Anni Sessanta. È il presidente-star ucraino che ha realizzato, mese dopo mese, un impercettibile ma sostanziale cambiamento, l’illusione che bastassero munizioni e poi carri armati e poi qualche missile e gli F-16 e ... suvvia, ignavi, uno sforzo ancora ed è fatta. Perché era l’idea della vittoria che ci legava sempre più a lui. In questo modo i protettori hanno cominciato ad essere alla mercé del protetto. Biden, Macron, e uno dopo l’altro anche quelli che pudicamente continuano a giurare: mai un soldato in Ucraina!, si sono accorti e si accorgeranno, a loro spese, che trattare con il complesso militar industriale (e finanziario) una volta che è riuscito a infilare un piede nella porta, è terribilmente difficile, ti conduce dove non volevi arrivare. I quattrinosi guerrafondai, quelli democratici come quelli autocratici, hanno l’idea di disporre sempre di una arma nuova, di una strategia imbattibile. La loro fede sopravvive da più di due anni nonostante i fatti ne dimostrino sempre di più l’inefficacia. Sono dei credenti che convertono per utile o per mediocrità, a poco a poco, anche i politici. Così la diplomazia giace ormai silenziosa in un angolo, misera e sperduta come una ciabatta in mezzo al Sahara. Utilizzando in modo spregiudicato brigate di esperti non restii ad accenti maccartisti per fare l’esame a chi non dimostrerebbe sufficiente zelo occidentale, la vittoria a tutti i costi contro “i mongoli’’ è diventato ciò che l’opinione pubblica occidentale, “il popolo” vuole. Perché questa “è la nostra guerra” non si può lasciare che gli ucraini la combattano da soli. La prima tappa sono appunto i consiglieri militari. I civili continuano a illudersi di esser loro ad avere in pugno la situazione mentre i nuovi mastini della guerra, in doppiopetto e in divisa, si assicurano giorno dopo giorno una posizione di sempre più ampio controllo delle decisioni nella scelta dei fini e nella valutazione dei mezzi. Mentre i politici perdono il terreno, un passo dopo l’altro, senza neppure accorgersi che stanno perdendo. La bugia è diventata realtà, i governi occidentali vi sono intrappolati. La loro politica è fallita ma non possono ammetterlo. Perché sarebbe la loro fine politica. Forse potremmo battezzarla la estensione, su un altro scacchiere, della sindrome di Netanyau. Gli aiuti militari nelle risaie indocinesi e nella steppa ucraina non hanno cambiato niente, anzi vietcong e russi guadagnano terreno. Allora si spiega che la colpa non è di decisioni sbagliate ma dei sudvietnamiti e degli ucraini che si fanno uccidere troppo in fretta, sbagliano le controffensive, chiedono sempre e poi dilapidano i doni. Basterebbe qualche buon soldato occidentale che insegni loro a far meglio la guerra. Poi quando il primo “consigliere” sarà ucciso, perché avverrà, allora ogni soldato morto occidentale finirà per diventare una ragione in più perché altri ne muoiano in Ucraina. In Vietnam fu così. Quando Kennedy fu ucciso “gli istruttori” erano già sedicimila. Settanta erano morti. La guerra era diventata infinita ed era già persa. Medio Oriente. La guerra segreta di Israele contro la Corte penale dell’Aia di Yuval Abraham e Meron Rapoport* Il Manifesto, 29 maggio 2024 Sorvegliati l’attuale procuratore e Fatou Bensouda, attivisti palestinesi e membri delle Nazioni Unite. Per quasi un decennio, Israele ha sorvegliato funzionari di alto livello della Corte penale internazionale e operatori palestinesi per i diritti umani nell’ambito di un’operazione segreta volta a ostacolare l’indagine della Cpi sui presunti crimini di guerra di Tel Aviv, rivela un’indagine congiunta di +972 Magazine, Local Call e The Guardian. L’operazione, che risale al 2015, ha visto la comunità di intelligence israeliana sorvegliare regolarmente l’attuale procuratore capo della corte, Karim Khan, la sua predecessora Fatou Bensouda e dozzine di altri funzionari della Cpi e dell’Onu. L’intelligence israeliana ha anche monitorato i materiali che l’Autorità Palestinese ha presentato all’ufficio del procuratore e ha sorvegliato i dipendenti di quattro organizzazioni palestinesi per i diritti umani. Inoltre, come riportato dal Guardian, il Mossad ha condotto una propria operazione parallela alla ricerca di informazioni compromettenti su Bensouda e i suoi familiari, in un apparente tentativo di sabotare l’indagine della Cpi. Secondo fonti al corrente delle sue attività, l’ex capo dell’agenzia, Yossi Cohen, ha cercato personalmente di “arruolare” Bensouda e manipolarla affinché si conformasse ai desideri di Israele, portando l’ex procuratrice a temere per la propria sicurezza personale. L’indagine si basa su interviste con più di due dozzine di ufficiali di intelligence e funzionari governativi israeliani, ex funzionari della Cpi, diplomatici e avvocati familiari con il caso della Cpi e gli sforzi di Israele per ostacolarlo. Inoltre, secondo diverse fonti, gli sforzi di Israele per interferire con l’indagine - che potrebbero equivalere a reati contro l’amministrazione della giustizia, punibili con una pena detentiva - sono stati gestiti dai più alti vertici. Si dice che il primo ministro Benyamin Netanyahu avesse un grande interesse per l’operazione, inviando persino ai team di intelligence “istruzioni” e “aree di interesse” riguardo al loro monitoraggio dei funzionari della Cpi. Una fonte ha sottolineato che Netanyahu era “ossessionato, ossessionato, ossessionato” dallo scoprire quali materiali la Cpi stesse ricevendo. Tel Aviv ha a lungo sostenuto che la Cpi non ha giurisdizione per perseguire i leader israeliani perché Israele non è firmataria dello Statuto di Roma, e la Palestina non è uno stato membro a pieno diritto dell’Onu. Tuttavia, la Palestina è stata riconosciuta come membro della Cpi dopo aver firmato la convenzione nel 2015, essendo stata ammessa all’Assemblea Generale dell’Onu come stato osservatore non membro tre anni prima. Subito dopo l’ingresso nella Corte, l’Anp ha chiesto all’ufficio del procuratore di indagare sui crimini commessi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, a partire dalla data in cui lo Stato di Palestina ha accettato la giurisdizione della Corte: 13 luglio 2014. Fatou Bensouda, la procuratrice capo dell’epoca, ha avviato un esame preliminare per determinare se i criteri per un’indagine completa potessero essere soddisfatti. Temendo le conseguenze legali e politiche di potenziali processi, Israele si è affrettata a creare team di intelligence nell’esercito, nello Shin Bet e nel Mossad, insieme a un team segreto di avvocati militari e civili, per cercare di impedire un’indagine completa della Cpi. Tutto questo è stato coordinato dal Consiglio di Sicurezza Nazionale di Israele (Nsc), la cui autorità deriva dall’Ufficio del Primo Ministro. “Tutti, l’intero establishment militare e politico, cercavano modi per danneggiare il caso dell’Anp”, ha detto una fonte dell’intelligence. “Tutti hanno contribuito: il ministero della Giustizia, il dipartimento di Diritto Internazionale Militare, lo Shin Bet, il Nsc. Tutti la vedevano come una guerra che doveva essere combattuta, e una contro cui Israele doveva difendersi. È stato descritto in termini militari”. L’esercito non era un candidato ovvio per entrare a far parte delle attività di raccolta di intelligence dello Shin Bet, ma aveva una forte motivazione: prevenire che i suoi comandanti finissero sotto processo. “Chi davvero voleva unirsi all’operazione erano gli stessi generali dell’Idf - avevano un grande interesse personale”, ha spiegato una fonte. “Ci è stato detto che gli ufficiali di alto rango avevano paura di accettare posizioni in Cisgiordania perché temevano di essere perseguiti all’Aia”, ha ricordato un altro. La guerra segreta di Israele contro la Corte penale internazionale si è basata principalmente sulla sorveglianza, con i procuratori principali come obiettivi primari. Le comunicazioni private di Bensouda con i funzionari palestinesi riguardo al caso dell’Anp all’Aia venivano regolarmente monitorate e condivise all’interno della comunità di intelligence israeliana. L’ex procuratrice non era l’unico obiettivo. Decine di altri funzionari internazionali legati all’inchiesta erano sorvegliati allo stesso modo. Una delle fonti ha detto che c’era una grande lavagna bianca con i nomi di circa 60 persone sotto sorveglianza - metà palestinesi e metà di altri paesi, inclusi funzionari delle Nazioni unite e personale della Cpi all’Aia. All’Aia, Bensouda e il suo staff sono stati avvertiti dai consiglieri per la sicurezza e tramite canali diplomatici che Israele stava monitorando il loro lavoro. Da allora si è prestata attenzione a non discutere certe questioni in prossimità dei telefoni. “Siamo stati informati che stavano cercando di ottenere informazioni su a che punto fossimo dell’indagine preliminare”, ha detto un ex alto funzionario della Cpi. Secondo le fonti, alcuni nell’esercito israeliano ritenevano controverso che l’intelligence militare si occupasse di questioni politiche non direttamente legate alle minacce alla sicurezza. “Le risorse dell’Idf venivano utilizzate per sorvegliare Fatou Bensouda - non è una cosa legittima”, ha dichiarato una fonte. “Era un compito davvero insolito: si svolgeva all’interno dell’esercito, ma trattava questioni completamente non militari”. Poiché i gruppi palestinesi per i diritti umani fornivano frequentemente all’ufficio della procuratrice materiali sugli attacchi di Israele ai palestinesi, dettagliando gli incidenti che volevano fossero considerati come parte dell’inchiesta, queste organizzazioni sono diventate obiettivi chiave dell’operazione di sorveglianza. In questo, lo Shin Bet ha preso il comando. Oltre a monitorare i materiali inviati dall’Anp alla Cpi, l’intelligence israeliana ha anche sorvegliato i palestinesi che hanno raccontato gli attacchi subiti da coloni e soldati. “Una delle priorità era verificare chi era coinvolto nella raccolta di testimonianze, e chi erano le specifiche vittime palestinesi convinte a testimoniare alla Cpi”, ha spiegato una fonte di intelligence. Secondo le fonti, i principali obiettivi della sorveglianza erano quattro organizzazioni palestinesi per i diritti umani: Al-Haq, Addameer, Al Mezan e il Centro palestinese per i Diritti Umani (Pchr). Addameer ha inviato appelli alla Cpi riguardanti le pratiche di tortura contro prigionieri e detenuti, mentre gli altri tre gruppi nel corso degli anni hanno inviato molteplici appelli riguardanti gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, le demolizioni punitive di case, i bombardamenti a Gaza e specifici leader politici e militari israeliani di alto livello. Nell’ottobre 2021, il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz - nominato in diversi appelli che le organizzazioni palestinesi avevano inviato alla Cpi, a causa del suo ruolo di capo di stato maggiore durante la guerra di Gaza del 2014 e ministro della Difesa durante la guerra di maggio 2021 - ha dichiarato Al-Haq, Addameer e altri quattro gruppi per i diritti umani palestinesi “organizzazioni terroristiche”. Un’indagine condotta da +972 e Local Call, pubblicata qualche settimana dopo, ha rivelato che l’ordine di Gantz è stato emesso senza alcuna prova seria a supporto delle accuse; un dossier dello Shin Bet di qualche mese dopo non ha convinto nemmeno gli alleati più accaniti di Israele. Un’indagine condotta in quei giorni da Citizen Lab ha identificato il software spia Pegasus, prodotto dalla società israeliana Nso, sui telefoni di diversi palestinesi che lavoravano in quelle Ong. (Lo Shin Bet non ha risposto alla nostra richiesta di commento.) Omar Awadallah e Ammar Hijazi, responsabili del caso alla Cpi presso il ministero di Giustizia dell’Ap, hanno scoperto che Pegasus era stato installato anche sui loro telefoni. Secondo fonti di intelligence, i due sono stati contemporaneamente bersagli di diverse organizzazioni di intelligence israeliane, il che ha creato “confusione”. “Sono entrambi dottori di ricerca che si occupano di questo argomento tutto il giorno, dalla mattina alla sera” ha detto una fonte. Hijazi non è sorpreso di essere stato sorvegliato. “Non ci interessa se Israele vede le prove che abbiamo presentato in tribunale”, ha detto. Anzi “li invito: venite, aprite gli occhi, guardate cosa abbiamo presentato”. Anche Shawan Jabarin, direttore di Al-Haq, è stato sorvegliato dall’intelligence israeliana. Ha detto che c’erano indizi del fatto che i sistemi interni dell’organizzazione fossero stati hackerati, e che la dichiarazione di Gantz è arrivata proprio pochi giorni prima la decisione di Al-Haq di rivelare di aver scoperto il software spia Pegasus sui telefoni dei suoi dipendenti. “Dicono che sto usando la legge come arma di guerra”, ha detto Jabarin. “Se non vogliono che mi serva della legge, cosa vogliono che usi, bombe?” I gruppi per i diritti umani hanno espresso profonda preoccupazione per la privacy dei palestinesi che hanno presentato testimonianze al tribunale. Una delle associazioni, ad esempio, ha incluso solo le iniziali dei testimoni nelle sue presentazioni alla Cpi, per paura che Israele potesse identificarli. “Le persone hanno paura di presentare una denuncia alla Cpi, o di menzionare i loro veri nomi, perché temono di essere perseguitate dai militari, di perdere i permessi di ingresso”, ha spiegato Hamdi Shakura, un avvocato del Pchr. “Un uomo a Gaza che ha un parente malato di cancro teme che l’esercito gli tolga il permesso di ingresso e gli impedisca così di curarsi - cose di questo tipo succedono”. Secondo fonti di intelligence, le informazioni ottenute con la sorveglianza venivano impiegate anche per aiutare gli avvocati coinvolti in conversazioni segrete con rappresentanti dell’ufficio della procuratrice dell’Aia. Poco dopo l’annuncio, da parte di Bensouda, che il suo ufficio stava aprendo un’indagine preliminare, Netanyahu ha ordinato la formazione di un team segreto di avvocati provenienti dal ministero della Giustizia e degli Esteri, e dall’Ufficio del Procuratore Generale Militare (l’autorità legale più alta dell’esercito israeliano), che è recato regolarmente all’Aia per incontri segreti con funzionari della Cpi tra il 2017 e il 2019. (Il Ministero della Giustizia di Israele non ha risposto alle richieste di commento) Anche se il team era composto da persone che non facevano parte della comunità di intelligence di Israele - era guidato da Tal Becker, consulente legale del ministero degli Esteri - il ministero della Giustizia era comunque a conoscenza delle informazioni ottenute tramite sorveglianza, e aveva accesso a rapporti dell’Anp e delle Ong palestinesi che dettagliavano casi specifici di violenza da parte dei coloni e dell’esercito. “I legali che si occupavano del caso al ministero della Giustizia erano affamati di intelligence”, ha dichiarato una fonte. “Ne ottenevano sia dall’intelligence militare che dallo Shin Bet. Stavano istruendo il caso per i messaggeri israeliani che comunicavano segretamente con la Cpi”. Durante i loro incontri privati con funzionari della Cpi, confermati da sei fonti, gli avvocati hanno cercato di dimostrare che Israele seguiva procedure robuste ed efficaci per giudicare l’operato dei soldati, nonostante i pessimi precedenti dell’esercito israeliano nell’indagare le presunte violazioni all’interno delle sue fila. I legali hanno anche cercato di mettere in discussione la giurisdizione della Cpi rispetto alle azioni di Tel Aviv, dal momento che Israele non è uno stato membro della Corte e la Palestina non è un membro a pieno titolo delle Nazioni unite. Secondo un ex funzionario della Cpi a conoscenza dei contenuti degli incontri, il personale della Corte “presentava ai legali israeliani dettagli di incidenti in cui dei palestinesi erano stati attaccati o uccisi, e i legali rispondevano con le loro informazioni”. “All’inizio c’era tensione”, ricorda l’ufficiale. In questa fase, Bensouda era ancora impegnata in un esame preliminare, precedente alla decisione di aprire un’indagine formale. Una fonte di intelligence ha detto che lo scopo delle informazioni ottenute attraverso la sorveglianza era ““ar sospettare a Bensouda che le sue informazioni fossero inaffidabili”. “Quando Al-Haq raccoglie informazioni su quante persone siano state uccise nei territori occupati l’anno precedente e le trasmette a Bensouda, è nell’interesse e nella politica di Israele trasmettere la propria contro intelligence che mini queste informazioni”. Tuttavia, dato che Israele rifiuta di riconoscere l’autorità e la legittimità della Corte, per la delegazione era cruciale che questi incontri rimanessero segreti. Una fonte ha detto che gli ufficiali israeliani hanno ripetutamente sottolineato alla Cpi: “Non potrà mai essere reso pubblico che stiamo comunicando con voi”. Gli incontri segreti tra Israele e la Cpi si sono conclusi nel dicembre 2019, quando Bensouda ha concluso l’indagine preliminare quinquennale stabilendo che c’era una base ragionevole per ritenere che sia Israele che Hamas avessero commesso crimini di guerra. Tuttavia, anziché avviare immediatamente un’indagine completa, la procuratrice ha chiesto ai giudici della Corte di pronunciarsi sulla giurisdizione della Cpi nel sentire le accuse, a causa di “questioni legali e fattuali uniche e altamente contestate” - che alcuni hanno visto come un risultato diretto dell’attività di Israele. “Non direi che l’argomentazione legale non ha avuto effetto”, ha affermato Roy Schondorf, membro della delegazione israeliana e capo di un dipartimento del ministero della Giustizia responsabile delle procedure legali internazionali contro Israele, durante un evento presso l’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale nel luglio 2022. “Ci sono anche persone lì che possono essere persuase, e credo che, in larga misura, lo Stato di Israele sia riuscito a convincere almeno la procuratrice precedente che ci fossero abbastanza dubbi sulla questione della giurisdizione da farla rivolgere ai giudici della Corte”. Nel 2021, questi ultimi hanno stabilito che la Cpi ha giurisdizione su tutti i crimini di guerra commessi da israeliani e palestinesi nei Territori occupati, così come sui crimini commessi da palestinesi in territorio israeliano. Nonostante sei anni di sforzi israeliani per evitarlo, Bensouda ha annunciato l’apertura di un’indagine penale formale. Ma non era affatto una conclusione scontata. Qualche mese prima, la procuratrice aveva deciso di lasciar cadere un esame dei crimini di guerra britannici in Iraq perché era convinta che la Gran Bretagna avesse intrapreso un’azione “genuina” per indagarli. Secondo eminenti giuristi israeliani, Israele si è aggrappata a questo precedente e ha avviato una stretta collaborazione tra l’operazione di raccolta di intelligence e il sistema di giustizia militare. Secondo le fonti, un obiettivo centrale dell’operazione di sorveglianza israeliana era consentire all’esercito di “aprire investigazioni retroattive” su casi di violenza contro i palestinesi che arrivavano all’ufficio del pubblico ministero dell’Aia. In tal modo, Israele mirava a sfruttare il “principio di complementarità”, che afferma che un caso è inammissibile dinanzi alla Cpi se è già oggetto di un’indagine approfondita da parte di uno stato competente. “Se i materiali venivano trasferiti alla Cpi, doveva essere compreso esattamente di che cosa si trattava, per garantire che le Idf li indagassero in modo indipendente e sufficiente così da poter rivendicare la complementarità”, ha spiegato una delle fonti. Anche gli esperti legali all’interno Ffam dello Stato Maggiore Congiunto - l’organo militare che indaga sui presunti crimini di guerra commessi dai soldati israeliani - erano a conoscenza delle informazioni di intelligence. Tra le decine di incidenti attualmente sotto inchiesta del Ffam ci sono i bombardamenti che hanno ucciso dozzine di palestinesi nel campo profughi di Jabaliya lo scorso ottobre; la “strage della farina” - in cui più di 110 palestinesi sono stati uccisi nel nord di Gaza all’arrivo di un convoglio di aiuti nel marzo scorso -, gli attacchi con droni che hanno ucciso sette dipendenti del World Central Kitchen in aprile, e un attacco aereo in un accampamento di tende a Rafah che ha causato un incendio e ucciso decine di persone la scorsa settimana. Tuttavia, per le Ong palestinesi che presentano le relazioni alla Cpi, i meccanismi interni di verifica delle responsabilità dell’esercito israeliano sono una farsa. Rifacendosi a quanto sostenuto da esperti israeliani e internazionali e da gruppi per i diritti umani, i palestinesi hanno a lungo sostenuto che questi sistemi - dagli investigatori della polizia e dell’esercito alla Corte suprema - servano abitualmente da”“foglia di fico” per lo Stato israeliano e il suo apparato di sicurezza, contribuendo a coprire i crimini e concedendo effettivamente ai soldati e ai comandanti una licenza per continuare impunemente gli atti criminali. Issam Younis, che è stato oggetto della sorveglianza israeliana a causa del suo ruolo di direttore di Al Mezan, ha trascorso gran parte della sua carriera a Gaza, negli uffici dell’organizzazione ora parzialmente bombardati, raccogliendo e presentando “centinaia” di denunce da parte dei palestinesi all’Ufficio del Procuratore Generale Militare Israeliano. La grande maggioranza di queste denunce è stata chiusa senza incriminazioni, convincendolo che “le vittime non possono perseguire la giustizia attraverso quel sistema”. Questo è ciò che ha portato la sua organizzazione a collaborare con la Cpi. “In questa guerra, la natura e l’entità dei crimini commessi sono senza precedenti”, ha detto Younis, che è fuggito da Gaza con la sua famiglia a dicembre e oggi è rifugiato al Cairo. “Per il semplice fatto che sono impuniti”. Nel giugno 2021, Khan ha sostituito Bensouda come procuratore capo e molti nel sistema giudiziario israeliano speravano che questo avrebbe segnato una svolta. Khan era considerato più prudente della procuratrice precedente, e si diceva che non avrebbe dato priorità alla delicata indagine che aveva ereditato da Bensouda. In un’intervista nel settembre 2022, in cui ha anche rivelato alcuni dettagli sul “dialogo informale” tra Israele e la Cpi, Schondorf ha lodato Khan per aver “cambiato traiettoria”, aggiungendo che sembrava che il procuratore si sarebbe concentrato su questioni più “convenzionali” perché il “conflitto israelo-palestinese è diventato una questione meno urgente per la comunità internazionale”. Nel frattempo, il giudizio personale di Khan è diventato il principale obiettivo di ricerca dell’operazione di sorveglianza di Israele: l’obiettivo era “capire cosa stesse pensando Khan”, come ha dichiarato una fonte di intelligence. E se inizialmente il team del procuratore sembrava non aver mostrato molto entusiasmo per il caso della Palestina, secondo un alto funzionario israeliano, “il 7 ottobre quella realtà è cambiata”. Per la fine della terza settimana dei bombardamenti di Israele su Gaza, seguiti all’attacco guidato da Hamas nel sud di Israele, Khan era già al Valico di Rafah. In seguito ha visitato sia la Cisgiordania che il sud di Israele, dove ha incontrato funzionari palestinesi così come sopravvissuti israeliani dell’attacco del 7 ottobre e parenti delle vittime. L’intelligence israeliana ha seguito da vicino la visita di Khan per cercare “di capire quali materiali i palestinesi gli stessero dando”, come ha detto una fonte israeliana. “Khan è l’uomo più noioso da spiare al mondo, perché è dritto come un righello”. A febbraio, una dichiarazione molto forte di Khan esortava Israele a non lanciare un assalto a Rafah, dove erano già rifugiati più di un milione di palestinesi. Ha anche avvertito: “Coloro che non rispettano la legge non dovrebbero lamentarsi quando il mio ufficio entra in azione”. Come nel caso della sua predecessora, l’intelligence israeliana ha sorvegliato anche gli scambi di Khan con i palestinesi e con altri funzionari del suo ufficio. La sorveglianza di due palestinesi a conoscenza delle intenzioni di Khan ha informato i leader israeliani del fatto che il procuratore stava considerando una richiesta di mandati di arresto per i leader israeliani, ma che era “sotto una pressione tremenda da parte degli Stati uniti” per non farlo. Alla fine, il 20 maggio, Khan ha dato seguito al suo ammonimento. Ha annunciato di voler richiedere mandati di arresto per Netanyahu e Gallant, dopo riscontrato ragionevoli motivi di credere che i due leader siano responsabili di crimini tra cui aver sterminato, affamato e attaccato deliberatamente i civili. Per le organizzazioni palestinesi per i diritti umani che Israele ha sorvegliato, Netanyahu e Gallant sono solo la punta dell’iceberg. Tre giorni prima dell’annuncio di Khan, i capi di Al-Haq, Al Mezan e Pchr hanno inviato una lettera congiunta a Khan chiedendo esplicitamente mandati di arresto contro tutti i membri del gabinetto di guerra di Israele, fra cui Benny Gantz, così come comandanti e soldati delle unità attualmente coinvolte nell’offensiva di Rafah. Ora Khan deve anche valutare se alcuni israeliani coinvolti nelle operazioni volte a ostacolare la Cpi abbiano commesso reati contro l’amministrazione della giustizia. Tali reati, per i quali i leader israeliani possono essere perseguiti indipendentemente dal fatto che Israele non sia firmataria dello Statuto di Roma, potrebbero potenzialmente comportare una condanna a una pena detentiva. Un portavoce della Cpi ha detto al Guardian che era a conoscenza delle “attività proattive di raccolta di informazioni svolte da un certo numero di agenzie nazionali ostili verso la Corte”, ma ha sottolineato che “nessuno degli attacchi recenti contro di essa da parte di agenzie di intelligence nazionali” ha violato i dati in mano alla Corte. Il portavoce ha aggiunto che l’ufficio di Khan è stato oggetto di “diverse forme di minacce e comunicazioni che potrebbero essere considerate tentativi di influenzare indebitamente le sue attività”. In risposta a una richiesta di commento, l’Ufficio del Primo ministro israeliano ha dichiarato solo che il nostro rapporto è “pieno di accuse false e infondate destinate a danneggiare lo Stato di Israele”. Anche l’esercito israeliano ha risposto brevemente: “Gli organismi di intelligence delle Idf svolgono sorveglianza e altre operazioni di intelligence solo contro elementi ostili e, contrariamente a quanto si afferma, non contro la Cpi o altri organismi internazionali”. *The Guardian