Carcere e giornalismo: scrivere per sconfinare di Ornella Favero* odg.mi.it, 28 maggio 2024 Casi di studio. L’esperienza di Ristretti Orizzonti, il giornale scritto dalle persone detenute nel carcere di Padova: oltre le narrazioni dominanti, accorciare la distanza tra “fuori e dentro” e ridare complessità alle notizie che l’informazione “tradizionale” ha semplificato. Ristretti Orizzonti è una rivista bimestrale di 48 pagine, ogni anno escono sei numeri più un numero speciale, dedicato a un tema particolare. Il primo numero è uscito nel 1998. La redazione si trova nella Casa di reclusione di Padova ed è formata da persone detenute e volontari. Una piccola redazione esterna cura il progetto di confronto con le scuole e la Newsletter quotidiana “Ristretti News”. Ornella Favero ne è la direttrice. ------------- I “ristretti” nel linguaggio del carcere sono i detenuti: allargare gli orizzonti ristretti della galera è stato il primo obiettivo che ci siamo dati, in questa redazione di volontari e detenuti nata nella Casa di reclusione di Padova con l’idea di fare un giornale che parlasse di pene, di carcere, di reati in modo diverso da come siamo abituati a vedere sui giornali, in televisione, nei social. I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi: questa è la società con cui dobbiamo dialogare, fatta di uomini e donne che per lo più sono convinti di appartenere alla categoria delle persone sicuramente buone e perbene. E invece noi con il nostro giornale raccontiamo che i confini tra il bene e il male non sono così ben definiti, e che basta un niente per “sconfinare” e trovarsi dall’altra parte. La nostra sfida è proprio accorciare la distanza fasulla, illusoria tra il “mondo dentro” a quello fuori. A Ristretti Orizzonti lo facciamo prima di tutto con il progetto Scuole e carcere. Educazione alla legalità. Un progetto in cui le persone detenute parlano poco del carcere, e molto di più di come è facile finirci dentro, di tutti quei comportamenti, quelle relazioni sbagliate, quei piccoli rischi che alla fine sfuggono al controllo e portano al reato. Perché il reato non è sempre una scelta, spesso è uno scivolamento in situazioni, che poi non si è in grado di gestire, ed è per questo che le narrazioni delle persone detenute rappresentano per i ragazzi delle scuole un modo per vedere nella realtà le conseguenze di certi comportamenti, e allenarsi così a pensarci prima, cosa che non ha saputo fare chi ha commesso reati. Il nostro progetto infatti lo chiamiamo “un allenamento a pensarci prima”, ed è lì che le “narrazioni del male” diventano un dono che le persone detenute fanno alla società, mettendo a disposizioni il peggio della propria vita a dei perfetti sconosciuti perché quel racconto possa servire a prevenire altro male. Questa fiducia profonda nel potere delle narrazioni, anche le più difficili come quelle degli autori di reati particolarmente violenti, è in fondo il cuore del lavoro di Ristretti. Spezzare la catena del male - Quello che abbiamo capito in redazione è che bisogna evitare la trappola del vittimismo, che scatta quando chi entra in carcere da colpevole, se trattato in modo poco umano, comincia a sentirsi inevitabilmente una vittima. Proprio per uscire da questi meccanismi la scelta fondamentale di Ristretti è di occuparsi sì delle persone detenute, ma di aprire anche con le vittime dei reati un confronto profondo sul tema della assunzione di responsabilità. Agnese Moro, che ha avuto il padre ucciso negli anni della lotta armata, ha definito la nostra redazione come “la possibilità di un incontro tra persone che non dovrebbero teoricamente mai incontrarsi, e anche un luogo in cui si possono rimuovere un po’ le barriere nell’incontro con sé stessi, quindi grazie per questo lavoro che ci aiuta a non tifare per gli uni o per gli altri, ma a tifare insieme per la possibilità di farcela”. Che a “tifare per la possibilità di farcela” siano vittime e autori di reato insieme è spiazzante per quella parte della società, che giustifica la sua richiesta di tanta galera dicendo di agire in nome delle vittime. Ma ci sono, per fortuna, sempre più vittime scelgono il dialogo con gli autori di reato proprio per “spezzare la catena del male”, nella piena consapevolezza che rispondere al male con altrettanto male non potrà mai generare del bene. La pena rabbiosa e la pena riflessiva - Il paradosso del nostro giornale è che noi dobbiamo lavorare per ridare complessità alle notizie che l’informazione “tradizionale” ha brutalmente semplificato. “Marcire in galera fino all’ultimo giorno” per esempio è la ricetta oggi più facile, la nostra sfida è quella di raccontare a una società spaventata che tanto carcere serve solo a rendere peggiori le persone. Nel nostro Paese è invece ancora diffusa la convinzione che la pena debba fare più male possibile. E così ti trovi davanti a storie di persone entrate in galera da giovani con pene pesanti e che poi in carcere hanno vissuto rabbiosamente e si sono ulteriormente rovinate la vita, come Raffaele D., che di sé racconta: “Ho girato 12 carceri in 15 anni senza una sosta, fino a oggi, che di anni ne ho 37. E così sono diventato un fascicolo vivente”. Quando una persona entra in carcere e viene trattata come un bambino, infantilizzata, privata della possibilità di decidere qualsiasi cosa, anche l’ora in cui farsi la doccia, il carcere fa vivere questa persona a “pane e rabbia” e la punisce con una aggiunta di pena che va ben oltre quella che dovrebbe essere davvero la condanna, cioè la privazione della libertà. La società deve essere aiutata a capire che la pena scontata in modo rabbioso fa uscire solo persone incattivite. Al contrario, essere trattati con umanità e rispetto mette le persone di fronte alla loro responsabilità e le costringe a riflettere sulle loro scelte sbagliate. Mi viene in mente un giovane detenuto che a un incontro con gli studenti ha esordito dicendo “Grazie perché mi fate sentire colpevole”. È come se quel ragazzo avesse sgombrato il campo dalla rabbia e smesso di cercare alibi per i suoi disastri, e avesse finalmente accettato di fare i conti con la sua responsabilità. Il punto è che oggi, in carceri pesantemente sovraffollate e con personale insufficiente, sono sempre di più i detenuti che non trovano ascolto, non sono in grado di riflettere su sé stessi e non hanno risposte alla loro disperazione se non quella estrema del suicidio. Ecco, alla fine il primo e fondamentale motivo di esistere di Ristretti Orizzonti è fare di tutto perché più nessun detenuto sia trattato come un fascicolo vivente. *Direttrice di Ristretti Orizzonti Un permesso per andare a trovare mia moglie finché è ancora in grado di riconoscermi di Salvatore Fiandaca* Ristretti Orizzonti, 28 maggio 2024 L’ordinamento penitenziario prevede che un detenuto possa essere accompagnato con scorta a trovare un proprio congiunto per gravi motivi di salute, a rischio di morte e anche dopo la morte per dare un ultimo saluto alla salma, a volte anche dopo la sepoltura. Mia moglie si è ammalata di Alzheimer oltre 5 anni fa. All’inizio non sembrava grave, dimenticava qualcosa, non usciva più di casa, aveva difficoltà a collegarsi in videochiamata. Niente di non risolvibile; l’ispettore incaricato dei colloqui familiari, rendendosi conto del problema, mi propose di non caricare mia moglie di questa ulteriore incombenza, avrebbe incaricato lui una volontaria di farmi prenotare la chiamata. Per la prima volta in 36 anni di carcere sono stato destinatario di un atto di umanità così forte e inaspettato. Sicuramente non dimenticherò mai quel gesto tanto carico di sensibilità quanto raro in questi posti, anche perché è l’unico che mi sia stato fatto in tutta la detenzione. Prima i miei familiari a turno andavano a casa da mia moglie a ricevere la videochiamata per farmi parlare con lei e così siamo andati avanti per qualche anno. All’inizio estate del 2023, però, mia moglie viene colpita da un’ischemia e ricoverata in ospedale. Superata l’ischemia non viene più rimandata a casa perché nessuno può occuparsi di lei h24; mia figlia lavora e questo è l’unico mezzo del loro sostentamento. Ricoverata in una RSA si aggrava sempre di più per cui chiedo un permesso per poter andare a trovarla finché è ancora in grado di riconoscermi. L’iter procedurale viene messo in moto velocemente, altrettanto velocemente la richiesta viene rigettata perché mia moglie non è in fin di vita. Nessuno lo aveva mai detto, infatti, anche se con quella malattia, tutto può succedere. Io avevo chiesto di poter vedere mia moglie dopo 5 anni dall’ultimo incontro finché era ancora in grado di riconoscermi. Nei rari sprazzi di lucidità lei dice a mia figlia che avrebbe voglia di vedermi. Credo che a me tutto possa essere negato ma a una donna di 70 anni, ammalata come lei, non dovrebbe essere negato il desiderio di vedere l’uomo a cui si è legata per tutta la vita, sin dai primi anni di liceo, all’età di 14 anni. Secondo me questo tipo di permesso dovrebbe essere concesso finché i propri cari sono in vita, perché dopo la morte non credo possano godere di questo beneficio. Ho pagato e sto pagando, ho 70 anni dei quali oltre la metà passati in carcere, fuori l’unica persona che mi aspettava, mia moglie, non può più farlo per cui non so se ho ancora voglia di uscire dal carcere. Ma di una cosa sento la necessità; di scontare la pena con umanità da parte di chi gestisce la mia reclusione. Perché io ormai è da diversi anni che ho verso le istituzioni un atteggiamento di sensibilità e massimo rispetto. Cosa che non avevo prima, e senza altri scopi se non quello di una reciproca pacificazione. *Redazione Ristretti AS1 Parma Dignità nelle carceri. Al via le “maratone oratorie” dell’Ucpi di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 28 maggio 2024 Petrelli: serve un intervento immediato del governo per decongestionare gli istituti e fermare i suicidi. Domani l’Unione delle Camere Penali darà inizio sull’intero territorio nazionale a una staffetta di maratone oratorie dedicate dall’emergenza carcere. Parteciperanno a questi eventi, organizzati a cura delle singole Camere penali, non solo gli avvocati penalisti ma anche tutti i rappresentanti della società civile che saranno invitati o che vorranno spontaneamente partecipare: l’obiettivo è sensibilizzare l’opinione pubblica circa le drammatiche condizioni nelle quali versano le carceri del nostro Paese. Operatori penitenziari, volontari, educatori, personale sanitario, polizia penitenziaria, i Garanti dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, i rappresentati delle associazioni che dedicano il loro impegno alla cura e alla difesa dei diritti di coloro che sono ristretti, e ovviamente i rappresentanti delle istituzioni pubbliche e della politica, sono tutti sollecitati a intervenire nei luoghi in cui le maratone saranno svolte. La drammaticità del momento è stata troppe volte evidenziata e denunciata, con manifestazioni spontanee che ancora si svolgono in tutta Italia, con eventi a carattere nazionale come quello organizzato da Ucpi a marzo a Roma, nella Piazza dei Santi Apostoli, al quale hanno partecipato i rappresentai della politica a sostegno del disegno di legge Giachetti- Bernardini per la liberazione anticipata speciale. O come l’incontro con il Ministro Nordio, al quale l’Unione ha partecipato assieme ad Anm, organizzato da Radio Radicale, tenutosi ad aprile presso l’Università di Roma Tre. Il numero dei suicidi continua a crescere ininterrottamente, senza distinzione fra strutture del Nord, del Centro, del Sud e delle isole, a dimostrazione della tragica diffusione di un fenomeno che testimonia indubbiamente la condizione di alienazione e di abbandono nella quale versa la popolazione carceraria. Siamo tutti consapevoli del fatto che non esiste un rapporto diretto fra numero dei suicidi e sovraffollamento, ma sappiamo anche che il sovraffollamento impedisce alle poche strutture ancora virtuosamente attive nelle nostre carceri di svolgere dignitosamente ed efficacemente il proprio lavoro di assistenza, sanitaria, psicologica, psichiatrica e di trattamento in favore dei detenuti. Lo sbilanciamento fra popolazione carceraria (che ha da tempo superato il limite dei 61.000 reclusi) e posti disponibili (una capienza stimata per circa 47.000 persone), con punte di criticità del 200%, rende evidentemente impossibile ogni forma di assistenza, e finisce così per catalizzare tutte le carenze delle strutture e con l’aumentare il senso di abbandono e di disperazione dei soggetti più fragili. Le chiusure dei reparti, le preoccupazioni securitarie dovute al numero degli ingressi, la carenza di risposte di giustizia, concorrono tutte a rendere privo di speranza l’orizzonte della detenzione. Siamo allo stesso modo ben consapevoli che l’intero sistema dell’esecuzione penale, a partire da un radicale ripensamento del senso della pena detentiva, debba essere oggetto di un’ampia e radicale riforma. Si tratta di riprendere quel filo che era stato intrecciato con l’esperienza corale degli Stati generali dell’esecuzione penale, che aveva visto il diffuso impegno di tutte le categorie coinvolte nell’esperienza carceraria, dagli architetti agli operatori, dagli avvocati ai magistrati, e di svilupparne la prospettiva programmatica. E, tuttavia, di fronte alla drammatica esperienza di 36 suicidi in questi primi cinque mesi dell’anno, non possiamo ancora una volta non richiamare il Governo alle sue responsabilità, chiedendo di porre in essere rimedi concreti e urgenti volti alla decompressione del sovraffollamento e all’immediato ripristino di una condizione minima di legalità. L’avvocatura è consapevole del suo ruolo sociale e della necessità di tutelare i valori democratici della nostra Costituzione, non in astratto, bensì nella concreta tutela del diritto alla vita, e in questo caso del diritto alla dignità delle persone detenute, condannate e in attesa di giudizio, tutte naturalmente destinatarie di eguali aspettative di protezione. Una esigenza cui fa eco la parola stessa di Papa Francesco che, nella sua Bolla di indizione del Giubileo del 2025, ha voluto ricordare proprio “i detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto”, formulando un’esplicita esortazione “ai Governi che nell’anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in se stesse e nella società”. Vi sono diritti della persona sui quali visione laica e visione religiosa appaiono collocati su di un unico orizzonte di umanità. Non si può restare sordi ad entrambi. *Presidente dell’Unione delle Camere penali italiane L’allarme dei Garanti: “Troppi detenuti sono esclusi dal voto” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 maggio 2024 L’8 e 9 giugno 2024 i cittadini chiamati alle urne per le elezioni europee e amministrative. In questo contesto, un’attenzione particolare è rivolta al diritto di voto dei detenuti, un tema delicato e spesso trascurato. I Garanti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Lazio e di Roma Capitale, Stefano Anastasìa e Valentina Calderone, hanno preso una posizione decisa per assicurare che anche i detenuti aventi diritto possano partecipare al voto. In vista delle imminenti elezioni, i Garanti hanno inviato una lettera alle direzioni degli istituti penitenziari, sollecitando l’attivazione di tutte le procedure necessarie per consentire ai detenuti di esercitare il loro diritto di voto. La missiva, indirizzata anche al Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise, Maurizio Veneziano, pone l’accento sulla necessità di garantire l’universalità del diritto di voto, sancita dall’articolo 21 della Dichiarazione universale dei diritti umani. “Vi scriviamo in merito alla possibilità che tutti i detenuti che ne abbiano i requisiti possano esercitare il proprio diritto di voto al prossimo appuntamento elettorale”, esordisce la lettera, sottolineando l’importanza della dignità umana e dell’inclusività del processo democratico. Tuttavia, come rilevato dai Garanti, vari ostacoli pratici spesso impediscono ai detenuti di votare, tra cui la mancanza di informazioni sulle procedure e problemi organizzativi. Inoltre, l’assenza del voto postale per le elezioni amministrative complica ulteriormente la situazione per i detenuti fuori dal comune di residenza. Nella loro lettera, Anastasìa e Calderone chiedono alle autorità carcerarie di adottare tutte le misure necessarie per facilitare il voto dei detenuti. “Nell’attesa di ripensare per via normativa le possibilità di accesso al voto delle persone condannate”, scrivono i Garanti, “ci auguriamo che le autorità competenti facciano di tutto per garantire l’accesso alle urne ai potenziali elettori che si trovano oggi in carcere”. L’iniziativa dei Garanti è accompagnata dall’invio di materiale informativo e di una locandina elaborata dalla Conferenza dei Garanti territoriali in collaborazione con l’associazione Antigone, destinata a spiegare ai detenuti le procedure da seguire per esercitare il voto. Questo materiale è fondamentale per superare le barriere informative che spesso limitano l’accesso al voto dei detenuti. Il richiamo dei Garanti alle direzioni carcerarie rappresenta un passo importante verso la rimozione di queste barriere. La speranza è che questa sollecitazione possa portare a un cambiamento concreto, garantendo che tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione di detenzione, possano esercitare il loro diritto di voto. “Ognuno conta”, sottolineano i Garanti, richiamando il principio fondamentale dell’universalità del voto. Ma come si organizza un carcere per le votazioni? Il regolamento interno prevede che il detenuto chieda di poter votare al momento dell’ingresso in carcere, dichiarando la propria residenza nel caso sia diversa da quella dell’istituto dove sconta la pena. Da questa prima richiesta dovrà contattare personalmente il Comune di residenza e chiedere una tessera elettorale speciale. Un iter burocratico che secondo l’associazione Antigone dimezza la popolazione detenuta abile al voto. Inoltre, data l’impossibilità di uscire per seguire incontri elettorali, i detenuti si informano solo con mezzi di comunicazione come le televisioni in carcere. Attualmente, quindi, il diritto di voto dei detenuti in Italia è garantito solo in teoria, mentre nella pratica molti incontrano difficoltà significative. Le carenze organizzative all’interno degli istituti penitenziari, la mancanza di informazione e l’assenza di modalità di voto alternative come il voto postale rappresentano i principali ostacoli. Il caso delle elezioni amministrative è emblematico: i detenuti fuori dal comune di residenza sono di fatto esclusi dal processo elettorale. Basti pensare all’esempio francese. Durante le elezioni del 2022, c’è stata un’enorme partecipazione al voto da parte dei detenuti. Questa ampia affluenza alle urne è stata possibile grazie alla novità del voto via posta. Una novità che ha sostituito le precedenti modalità per procura o attraverso la richiesta di uno specifico permesso e che ha incentivato la partecipazione. Non si comprende perché non sia possibile attuare anche qui da noi questa modalità. L’associazione Antigone da tempo si batte per questo. Ma non solo. Elaborò una proposta di legge per la modifica dell’articolo 28 del codice penale: ovvero eliminare dall’elenco delle pene accessorie la privazione del diritto al voto. Anche perché, vietare a una persona l’esercizio di un diritto fondamentale non sembra allinearsi con la finalità rieducativa e riabilitativa della pena. Ma qui, anche i detenuti che non sono stati raggiunti da questa pena accessoria, trovano difficoltà nell’esercitare questo diritto. Polizia penitenziaria: istituiti i Gruppi anti-rivolte, ma mancano gli agenti di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 28 maggio 2024 I “Gruppi di intervento operativo” sono reparti speciali istituiti dal ministro della Giustizia e servono a sedare le rivolte nelle carceri. I sindacati: per sorvegliare i detenuti mancano 18 mila agenti. Si chiamano Gruppi di intervento operativo (Gio) e sono i reparti speciali istituiti dal ministro Carlo Nordio con un decreto del 14 maggio. Servono a sedare le rivolte nelle carceri. Finora non c’erano. Le rivolte c’erano, ma non il reato. Lo ha introdotto il governo a novembre. Punisce chi si rivolta con uso di violenza o minaccia, ma anche con resistenza passiva. Fattispecie già oggetto di critiche, perché per un verso le rivolte erano già punite, per un altro rischia di essere criminogena. Nel senso che uno può finire in cella per un reato minore e poi, rifiutando di obbedire a ordini, entrare in una spirale che non lo fa più uscire. Ma torniamo ai “Gio”. Sono utili? Con qualche precedente di “squadrette punitive”, e con accuse di torture e pestaggi (vedi Santa Maria Capua Vetere, Modena e il Beccaria), possono spaventare qualcuno. Eppure un corpo specializzato potrebbe invece, se ben addestrato, contribuire a mantenere l’ordine, evitando eccessi di reazione. Il problema, per ora, è un altro. E lo spiega Gennarino De Fazio. Non un pericoloso criminale, ma il segretario Uil della polizia penitenziaria: “Dove li troverà questi agenti Nordio? Ne mancano già 18 mila. Nel 2024 è prevista l’assunzione di 2004 persone. Ma 2400 andranno in pensione. Oggi il carcere è illegale. Non si può pensare solo a interventi repressivi: bisogna prima svuotare gli istituti e aumentare il numero degli agenti”. Il controverso disegno di legge di Piantedosi sulla sicurezza di Ylenia Magnani linkiesta.it, 28 maggio 2024 Si avvicinano le elezioni europee e accelera l’esame della proposta presentata lo scorso gennaio dal ministro dell’Interno. Ma giuristi e associazioni a tutela dei detenuti lamentano una deriva repressiva ai limiti della costituzionalità. Il disegno di legge (ddl) sulla sicurezza del governo Meloni interviene duramente con un approccio securitario immotivato trasformando la percezione di insicurezza, ben spesa anche in campagna elettorale, in un testo che ambisce a intervenire in situazioni di disagio sociale tramite la repressone penale. E soprattutto sopraeleva con disposizioni ad hoc la tutela delle forze di polizia rispetto a quella garantita ad altri pubblici ufficiali. “È inaccettabile e non degna di uno stato liberal-democratico questa sopraelevazione identitaria delle forze di polizia - spiega a Linkiesta Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone -. Con questo ddl si autorizza un’immunità funzionale che mette profondamente in discussione il principio di uguaglianza”. È un testo che tradisce lo spirito ideologico della maggioranza e mostra un assoluto impoverimento politico. Che agisce e legifera di riflesso a quelle che sono le vicende mediatiche contingenti. Tra le proposte del ddl, ora in discussione in commissione affari costituzionali e commissione giustizia, c’è la possibilità di consentire agli agenti di pubblica sicurezza di detenere un’arma diversa da quella di ordinanza, anche quando non sono in servizio. Una necessità, spiega il testo, che gli agenti di sicurezza avrebbero comunicato direttamente, senza mezzi termini. Per capirci, qualora la proposta dovesse passare, un agente non in servizio avrebbe la possibilità di girare, da libero cittadino, con un’arma priva di licenza diversa da quella di ordinanza. Una facoltà riservata solo agli organi di polizia, e che non viene estesa agli altri pubblici ufficiali. “È una previsione che lascia non poche perplessità, perché gli agenti di pubblica sicurezza sono tali nell’esercizio delle loro funzioni, non fuori, dove invece sono come gli altri cittadini”, ha spiegato nel suo intervento in commissione Paolo Bonetti, professore di diritto costituzionale all’Università di Milano Bicocca. Un tentativo di andare oltre ai protocolli, che sembra voler avvicinare il Paese al modello americano, dove la facilità dell’accesso alle armi è cosa comune, ma che non ci appartiene. “Trovo che questa sia la disposizione più scioccante - spiega a Linkiesta Lucia Risicato, professoressa di diritto penale all’Università di Messina -. Di una norma del genere non solo possiamo, ma dobbiamo fare a meno. Perché in Italia non c’è alcuna urgenza che possa ammettere un intervento privilegiato di questo tipo. Parliamo di una disposizione che non si giustifica sulla base di dati allarmanti, ma sulla percezione mediatica della criminalità percepita”. Dello stesso spirito anche le altre disposizioni, che introducono ulteriori fattispecie di reato a un codice penale già ricco. Tutta una sezione è dedicata a intervenire duramente nella repressione di diverse forme di dissenso. Quello promosso con il blocco stradale degli ecoattivisti, punito anche quando esercitato solo con il proprio corpo, ma soprattutto quello di rivolta penitenziaria, punita qui anche quando si esprime come semplice “resistenza passiva”, precisa il ddl. “Anziché depenalizzare o incentivare pene alternative o interdittive siamo ossessionati dalla pena carceraria nonostante le condizioni ormai invivibili. E anche la resistenza passiva, che può essere anche il semplice sciopero della fame viene così punita”, continua Risicato. Per questo nuovo reato il ddl prevede la pena della reclusione, che forse a causa di un lapsus freudiano viene estesa anche a tutti coloro si macchino di un reato simile all’interno di un Centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) o di un Centro di accoglienza straordinaria (Cas). La proposta del Governo non solo equipara la detenzione in un istituto penitenziario con la permanenza in un centro di accoglienza, ma per chi commette il reato in questi centri commina fino a vent’anni di carcere qualora tre o più persone “promuovano, organizzino, o dirigano una rivolta”. E consente all’autorità giudiziaria di poter condannare alla pena della reclusione anche chi legittimamente esercita il proprio diritto alla disobbedienza civile tramite una “resistenza passiva”. “Stiamo assistendo a una criminalizzazione di qualsiasi tipo di dissenso che arriva a punire anche quelle che in carcere sono molto spesso semplici manifestazioni di insofferenza, non rivolte - spiega Gonnella -. È un approccio che produrrà un effetto sul fronte penitenziario, punendo coloro che sono già vulnerabili con altri anni di carcere e contribuendo a rendere ancora più ingestibile un sistema già piegato dal sovraffollamento”. Dello stesso avviso si è espresso anche l’ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick in commissione affari costituzionali. Che ha sottolineato quanto sia pericoloso l’accostamento tra gli istituti penitenziari e i vari Cpr e Cas, mettendo in luce anche possibili scenari di incostituzionalità: “La previsione della rivolta in carcere e nei centri di migranti mi lascia sconcertato. Ma soprattutto l’introduzione della condotta della resistenza passiva, cioè della disobbedienza. Credo che questo apra un grosso problema ai sensi dell’articolo 13 della Costituzione”, che all’ultimo comma vieta qualsiasi forma di violenza fisica o psichica nei confronti di soggetti ristretti, (nrd). In un Paese con più di sessantamila detenuti e un sovraffollamento carcerario ben oltre i limiti è inspiegabile e irragionevole un approccio così spinto alla carcerazione. Tentativi di reprimere il dissenso, soprattutto quando espresso da chi si trova in condizioni già estremamente precarie, non può che portare a un peggioramento della vita negli istituti. Che oltre a coinvolgere innanzitutto i detenuti trascina con sé anche tutti gli operatori della polizia penitenziaria, gli educatori e tutto il personale che in quegli spazi lavora. Con più di trenta suicidi in carcere solo quest’anno e più di un processo per tortura a carico di agenti della polizia penitenziaria italiana è incredibile che questo Governo immagini di risolvere qualcosa con provvedimenti al limite del costituzionale. Superare l’insofferenza al dissenso e imparare a guardare dentro gli istituti di pena può essere forse un buon punto di partenza per un intervento sul fronte della giustizia che abbia un atteggiamento più umano. Carriere separate, ci siamo: Mantovano e Nordio al Colle di Valentina Stella Il Dubbio, 28 maggio 2024 La riforma costituzionale della Giustizia potrebbe approdare in Consiglio dei ministri già mercoledì. Domani sottosegretario alla Presidenza e guardasigilli la illustreranno al Quirinale. Ci siamo, quasi certamente. Molti indizi concorrono a suggerire che la riforma costituzionale della giustizia, imperniata sulla separazione delle carriere, possa approdare già mercoledì in Consiglio dei ministri. Lo lasciano credere i toni espliciti di una figura chiave dell’Esecutivo qual è Alfredo Mantovano, il quale oggi ha spiegato come l’urgenza della modifica risieda, tra l’altro, nella necessità di “avere due Csm”. Ma più ancora l’accelerazione è attestata dalla salita al Colle di cui il sottosegretario alla Presidenza sarà protagonista domani pomeriggio insieme con l’autore della riforma, Carlo Nordio. Da una parte l’incontro in cui i testi del ddl costituzionale saranno mostrati a Sergio Mattarella - o al suo consigliere giuridico Daniele Cabras - attesta la delicatezza e l’importanza dell’intervento, all’altra segnala anche che ormai a Palazzo Chigi il piano d’azione è davvero pronto. Sui tempi c’è ancora un filo d’incertezza: resta plausibile anche la data del 3 giugno. Ma il passaggio con la Presidenza della Repubblica (anticipato dal Foglio e confermato poco dopo dell’agenzia LaPresse) sembra l’ultimo sigillo prima del via libera governativo. Dopo che Giorgia Meloni ha spiegato di non voler legare il proprio destino politico all’esito del referendum sul premierato, la separazione delle carriere pare diventata una priorità per l’Esecutivo e non solo per Forza Italia. Se infatti il vicepremier e leader di FI Antonio Tajani ha ribadito che “sta per arrivare in Cdm la separazione della carriere e non solo, noi vogliamo una giustizia giusta, un processo in cui il cittadino sia garantito da una parità di posizione tra accusa e difesa”, a dare ancora più forza alla riforma è stato, come detto, proprio Mantovano, ospite sempre oggi di “Live in Milano” su SkyTg24: la separazione tra giudici e pm, ha detto, “nei fatti c’è da qualche anno, con la riforma Cartabia, che ha previsto un solo passaggio tra le due funzioni. Noi puntiamo a portare in Consiglio dei ministri il disegno di legge Nordio perché, a fronte della separazione nei fatti, c’è un solo Csm”, ha chiarito l’ex magistrato e primo consigliere della premier in materia di giustizia. A parlare è Mantovano, ma è difficile credere che la sua valutazione non sia pienamente condivisa dal vertice del governo. “Il ddl che arriverà in Cdm non riguarda solo la chiusura formale di una separazione che è già nei fatti, ma ne trarrà le conseguenze, permettendo a due Csm di occuparsi di due distinte carriere e provando a ridimensionare il ruolo delle correnti, gli unici veri partiti rimasti sul campo, protagoniste spesso delle carriere dei magistrati”. Inoltre, ha aggiunto il sottosegretario, “puntiamo a togliere al Csm la sezione disciplinare e a individuare una Corte di Giustizia che si occuperà di tutti i magistrati, svincolata dall’appartenenza correntizia. Spero apprezzeranno anche altre forze politiche, che l’hanno proposta in passato”. L’ultimo riferimento sembrerebbe chiamare in causa il Pd, che ha depositato un ddl sull’Alta Corte a prima firma di Anna Rossomando. Mantovano ha proseguito ribadendo “l’inserimento in Costituzione del ruolo essenziale dell’avvocatura, che permette la parità delle parti processuali, prevista nel codice di procedura penale da 35 anni”. E quando la giornalista di Sky ricorda poi al sottosegretario come da magistrato sia stato esponente di “MI”, la stessa corrente che, anche da queste pagine, ha criticato fortemente la riforma, lui replica: “Io ho fatto parte di Magistratura indipendente quando il suo presidente era Paolo Borsellino e suoi esponenti avevano peso e profilo di tutto rispetto, ma alla fine della mia carriera di magistrato ho preferito stare in disparte, fuori da ogni corrente”. Sulla possibilità di instaurare un dialogo con la magistratura associata, come ipotizzato anche dal viceministro Francesco Paolo Sisto al congresso dell’Anm, Mantovano ha concluso con un’altra battuta aspra nei confronti dei suoi ex colleghi: “Noi siamo aperti al dialogo, come lo siamo stati sul premierato”, tuttavia “di fronte a pronunciamenti come quelli che abbiamo ascoltato nel congresso dell’Anm secondo cui la separazione delle carriere farebbe scatenare l’apocalisse” è “difficile affrontare un confronto”. Il dialogo “si basa sul rispetto delle posizioni e sulla non demonizzazione di alcune proposte. Se mettiamo da parte i pregiudizi, il confronto si farà”. A commentare le dichiarazioni di Mantovano ci hanno pensato due gruppi associativi. “In una intervista a SkyTg24 - ha detto Rocco Maruotti, rappresentante di AreaDg nel parlamentino Anm - Mantovano, nell’argomentare sulla necessità della separazione delle carriere, cita Paolo Borsellino come il presidente di una MI “i cui esponenti avevano peso e profilo di tutto rispetto”. Non so su questo cosa pensino i suoi colleghi di MI e se è una valutazione che condividono. Quello che però non si può condividere è ricorrere alla memoria di Paolo Borsellino per sostenere la necessità della separazione delle carriere, tema sul quale basta scorrere gli scritti di Borsellino per capire come egli non la condividesse e la considerasse uno strumento per “mortificare obbiettivamente i magistrati del pubblico ministero, prefigurandone il distacco dall’ordine giudiziario”, parole pronunciate a Marsala l’11 dicembre 1987”. Magistratura indipendente si è fatta sentire con Loredana Miccichè e Claudio Galoppi, rispettivamente presidente e segretario: “L’apertura al dialogo fa parte della nostra identità e della nostra storia. Dunque la ribadiamo ancora una volta. Auspichiamo che però le riforme non siano ispirate, come appare invece dalle anticipazioni, da un intento di mortificazione della magistratura tutta”. Cosa porta Nordio oggi da Mattarella di Ermes Antonucci Il Foglio, 28 maggio 2024 Il Guardasigilli al Quirinale per illustrare la riforma della magistratura: separazione delle carriere, riforma del Csm, Alta corte per i giudizi disciplinari, avvocato nella Costituzione. Il Cdm, però, potrebbe slittare al 3 giugno. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano si recheranno oggi pomeriggio al Quirinale dal capo dello stato Sergio Mattarella per illustrare i contenuti della riforma costituzionale della magistratura. Lo confermano al Foglio fonti autorevoli. L’approvazione del disegno di legge di riforma costituzionale, incentrato sulla separazione delle carriere e la riforma del Consiglio superiore della magistratura, era stata fissata per il Consiglio dei ministri di mercoledì. Secondo le ultime indiscrezioni, tuttavia, l’approvazione potrebbe slittare a lunedì 3 giugno. Il testo predisposto da Nordio prevede anche l’istituzione di un’Alta corte competente sui giudizi disciplinari dei magistrati (che verranno quindi sottratti al Csm) e l’introduzione dell’avvocatura in Costituzione. Sulla separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri non si torna indietro. Probabile che resti un concorso unico, mentre è da definire se saranno istituiti due distinti Csm (uno per i pm e uno per i giudici) o se sarà mantenuto un unico Consiglio, ma diviso in due sezioni. Su questo è in corso un confronto acceso nella maggioranza tra FdI da una parte (favorevole a due Csm) e Forza Italia e Lega dall’altra (che spingono, con spirito più pragmatico, per un unico Csm). Fratelli d’Italia vorrebbe lanciare un messaggio molto chiaro agli elettori, anche in vista delle europee, spingendo per una separazione delle carriere radicale, con la creazione di due diversi Csm. Il partito di Meloni vorrebbe anche due concorsi separati: uno per accedere alle funzioni di pm e uno per i giudici. Questa opzione, però, considerata anche la lentezza cronica con cui oggi vengono svolti i concorsi di accesso in magistratura, sarebbe già stata esclusa. Una volta approvata in Consiglio dei ministri, però, il destino della riforma costituzionale sarà deciso in Parlamento. Consapevoli di questo, anche per rendere la riforma più “digeribile” per le opposizioni, Forza Italia e Lega vorrebbero ammorbidire alcuni contenuti, ad esempio lasciando in vita un unico Csm, presieduto dal capo dello stato, seppur diviso in due sezioni. Il rischio, ovviamente, è quello di annacquare eccessivamente la riforma. Si vedrà, comunque, quale sarà l’esito di questo confronto interno alla maggioranza. La principale novità emersa nelle ultime ore riguarda però l’affidamento della funzione disciplinare a un organo esterno al Csm, con l’obiettivo di evitare che gli illeciti disciplinari siano giudicati da magistrati che poi sono chiamati anche a esprimersi su trasferimenti e promozioni dei propri colleghi, e così eliminare anche il rischio di condizionamenti correntizi. Questa proposta ha cominciato a circolare fin dagli inizi degli anni Novanta, anche se poi non ha mai trovato attuazione, anche per l’opposizione costante dell’Associazione nazionale magistrati. Già nel 1991 la commissione di studio nominata dal capo dello stato Francesco Cossiga e presieduta da Livio Paladin, ex presidente della Corte costituzionale, concluse i suoi lavori proponendo l’affidamento del potere disciplinare a un organo esterno al Csm, in modo da evitare l’anomalia di far coincidere nel Consiglio funzioni sia amministrative che giurisdizionali. Le proposte della commissione Paladin, tuttavia, non vennero prese in considerazione dalla classe politica. L’idea di esternalizzare la funzione disciplinare venne poi ripresa nel 1997 dalla famosa “bozza Boato”, messa a punto dall’allora deputato Marco Boato durante la Bicamerale per le riforme di Massimo D’Alema. Il provvedimento, mai approvato, prevedeva la creazione di una Corte di Giustizia, composta da nove membri scelti dal Csm (sei tra i membri togati e tre fra i membri laici). Anche la riforma costituzionale approvata nel 2011 in Cdm dal governo Berlusconi affidava la funzione disciplinare sulle toghe a un’Alta Corte di Giustizia. Ora è Nordio a rilanciare l’idea del trasferimento della competenza disciplinare a un’Alta corte esterna al Csm, anche se restano da capire le modalità di composizione di quest’ultima. Il testo potrebbe prevedere il sorteggio dei componenti a partire da una rosa composta da magistrati e giuristi e avvocati con un determinato periodo di esperienza professionale alle spalle. L’idea è sempre stata contrastata dall’Anm, convinta che la sottrazione della funzione disciplinare al Csm porterebbe a uno “stravolgimento dell’assetto costituzionale dell’ordine giudiziario”. Per quanto il ruolo dell’avvocatura, proprio dieci giorni fa Nordio aveva annunciato che “nella nuova riforma la dignità della figura dell’avvocato entrerà in Costituzione”. “La cultura della giurisdizione poggia su un tavolo a tre gambe: accusatore, difesa e giudice. Senza uno di loro sarebbe una giurisdizione monca”, ha detto il Guardasigilli. “Nella riforma costituzionale la figura dell’avvocato avrà una menzione autonoma come elemento strutturale della giurisdizione”. Si è di fronte a una modifica dall’alto valore simbolico e culturale. Meno sul piano pratico: pensare che la semplice menzione dell’avvocato in Costituzione possa rafforzare il suo ruolo nel processo è una pia illusione. Del resto numerose previsioni costituzionali, prima fra tutte la presunzione di innocenza, già oggi sono nei fatti drammaticamente disattese. La separazione delle carriere non è una riforma giusta ma un’impostura di Armando Spataro Il Foglio, 28 maggio 2024 Le parole di Falcone e le idee di Pisapia e di Martina non convincono l’ex magistrato. La riforma “finirebbe con il compromettere gravemente la tutela dei diritti dei cittadini”. La risposta all’articolo del direttore Claudio Cerasa. Egregio direttore, nel suo articolo, pubblicato sabato 18 maggio, lei definisce la separazione delle carriere una “riforma giusta” e “anche di sinistra”, utilizzando “tre lezioni” (come lei le definisce) per dimostrarlo. Parto dalla definizione, per discutere poi del resto: da qualunque area politica possa essere sostenuta o condivisa, la riforma in questione è in realtà un’”impostura”, una mistificazione attraverso la quale, disegnando un quadro fasullo - quello del giudice che oggi, ignorando le tesi del difensore, sposerebbe quelle del pubblico ministero in quanto suo “fratello” - si afferma di voler assicurare una giustizia giusta ai cittadini. In realtà, il divieto di passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti penali e viceversa finirebbe con il compromettere gravemente la tutela dei diritti dei cittadini, il principio della loro eguaglianza di fronte alla legge e con il sottomettere il pubblico ministero al potere esecutivo. Non si tratta di affermazioni rituali, ma il tema in questione è complesso e le motivazioni di chi difende l’attuale assetto non possono certo essere riassunte in un articolo. Sono costretto, dunque, a tentare di essere sintetico e - per chi fosse interessato - a rimandare al testo della mia audizione Dinanzi alla commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati del 25 gennaio 2024 (consultabile anche sul sito della rivista giuridica “Giustizia Insieme”). Mi occupo di questo argomento da più di trent’anni, da quando, cioè, le tensioni tra politica e magistratura, normali in ogni democrazia, hanno raggiunto livelli inaccettabili, tanto da indurre due ministri della Giustizia ad affermare che la magistratura non è uno dei tre poteri previsti dalla Costituzione, ma un ordine sottoposto agli altri due. Vorrei allora qui ricordare che la possibilità per chi ha vinto un pubblico concorso di scegliere se fare il giudice o il pm e poi di transitare da una funzione all’altra è una “forza” del nostro sistema. Intanto, i due mestieri, pur differenti, hanno una caratteristica comune: il pm condivide con il giudice l’obbligo di ricerca della verità storica dei fatti e non è votato - comunque e sempre - alla formulazione di richieste di condanna, ma deve determinarsi (o dovrebbe) a richieste assolutorie ogniqualvolta reputi che il quadro probatorio sia carente. Ciò anche a seguito delle indagini a favore dell’imputato che per legge è obbligato a compiere. Tali obblighi professionali, fortunatamente per i cittadini, nulla hanno a che fare con le regole del giusto processo e la terzietà del giudice, previste dall’art. 111 della Costituzione e in particolare dal secondo comma (“Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”) che nulla ha a che fare con la separazione delle carriere: la citata parità tra le parti è infatti quella endoprocessuale, garantita dalle regole del processo e, semmai, da una pari preparazione professionale, generale (cioè comune all’intero ceto dei giuristi) e particolare (concernente, cioè, la conoscenza del singolo processo). Ma il difensore resta un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere, che lo obbliga a ricercare l’assoluzione o comunque l’esito più conveniente per il proprio assistito (che lo retribuisce per questo) a prescindere dal dato sostanziale della sua colpevolezza o innocenza. Il difensore che nello svolgimento delle indagini difensive ignori volutamente l’esistenza di prove a carico e si adoperi per ottenere l’assoluzione di un assistito la cui colpevolezza gli sia nota, non viola alcuna regola deontologica ed anzi assolve il proprio alto mandato nella piena legalità. Ma veniamo alle tre “lezioni” presenti nell’articolo citato in premessa: la prima riguarda la presunta posizione di Giovanni Falcone di cui si citano passaggi di un intervento del 1989 per dimostrare che sarebbe stato favorevole alla separazione delle carriere, il che è entrato nell’immaginario collettivo come una verità sgradevole per i magistrati. In realtà, si tratta di un’interpretazione errata di frasi estrapolate da un contesto ben più ampio, quello di 12 pagine contenute nei capitoli 22 (“Evoluzione del principio di obbligatorietà dell’azione penale”) e 23 (“Il Pubblico Ministero nel processo penale”) di un testo importante “Giovanni Falcone - Interventi e proposte, 1982-1992” (Sansoni Ed.) Una lettura completa di quelle pagine dimostra che Falcone teorizzava, in realtà, in modo assolutamente condivisibile, la necessità di una più accentuata specializzazione del pm nella direzione della Polizia giudiziaria, rispetto a quanto era richiesto nel regime vigente prima del codice di rito del 1988. Alla fine della pag. 182 Falcone dice che la questione merita “l’approfondimento di tutte le possibili implicazioni”, dimostrando che non stava prendendo posizione ma che aveva voluto porre su tappeto il problema del funzionamento della giustizia nel nuovo assetto che il Cpp aveva riservato al pm. Mi permetto di aggiungere, visto il comune percorso associativo, che in innumerevoli occasioni, peraltro, Falcone aveva spiegato di non condividere la necessità di separare le carriere di giudicanti e requirenti all’interno della magistratura. Egli credeva solo che, con l’avvento del nuovo codice di procedura penale e l’abolizione della figura del giudice istruttore, vi fosse accentuato bisogno di un sapere specialistico e che le conoscenze necessarie a un pm per svolgere efficacemente il suo lavoro non coincidessero certo con quelle del giudice. “In una società complessa come l’attuale, solo la specializzazione del sapere può consentire di comprenderla e dominarla”: furono queste le parole di Giovanni in occasione di un Congresso che si svolse a Milano, nel novembre 1988. Il che è sacrosanto e comporta la necessità di prevedere non la separazione delle due carriere ma fasi di approfondito aggiornamento nel caso di riconversione professionale da giudice a pubblico ministero e viceversa. Peraltro, se anche fossero quelle male interpretate, si potrebbe comunque dissentire anche dalle opinioni di Falcone, come avvenne in un documento firmato da 60 esperti magistrati, tra cui Borsellino e Caponnetto, in cui si criticava il suo originario progetto di costituzione della Procura nazionale antimafia, elaborato mentre lavorava presso il ministero della Giustizia, progetto non a caso poi modificato. In ogni caso, la più sicura conferma della sua contrarietà alla separazione delle carriere la diede Falcone stesso chiedendo e ottenendo più volte di passare dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa: da giudice istruttore era anche diventato procuratore della Repubblica aggiunto, funzione che esercitava quando fu chiamato da Martelli al ministero. E analoghi mutamenti di funzione hanno chiesto e ottenuto altre vittime di mafia e terrorismo come Paolo Borsellino e Guido Galli, nonché altri magistrati cui tanto deve il nostro paese come Francesco Saverio Borrelli che, autorevolmente a proposito della sospetta vicinanza dei giudici alle tesi dei pm, aveva parlato di “diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni” ricordando l’importanza di “una tradizione più che secolare di unità che ha prodotto indiscutibili frutti quali la condivisione della cultura della giurisdizione e la possibilità, transitando da una funzione all’altra, di utilizzare esperienze eterogenee” (Micromega, n. 1/2003). La seconda “lezione” riguarda la proposta di legge che i parlamentari di Rifondazione comunista Giuliano Pisapia e Giovanni Russo Spena presentarono nel 2001 in tema di “distinzione delle funzioni requirenti e giudicanti e di passaggio da una funziona all’altra”. Tale riferimento è stato poi arricchito con la pubblicazione sul Foglio di lunedì 20 maggio del testo della proposta di legge e della relazione di accompagnamento. Si vorrebbe con ciò dimostrare che, in passato, anche la sinistra era orientata verso la separazione delle carriere. Ma, a prescindere dalla già citata irrilevanza di questo particolare, basta leggere i testi pubblicati e la relazione per comprendere che tale proposta, risalente a 23 anni fa, non riguarda affatto i tanti mutamenti della Costituzione e del nostro ordinamento che oggi si vogliono approvare: doppio concorso per l’accesso in magistratura, doppio Csm con sorteggio “attenuato” di parte dei componenti, diversa formazione, interventi sui criteri di priorità dell’azione penale affidati al Parlamento etc. Peraltro, il testo della riforma Pisapia è oggi irrilevante perché non prevede affatto una netta separazione delle carriere, ma solo limitazioni e requisiti perché il passaggio dall’una all’altra sia possibile. Cioè esattamente quanto oggi già previsto, essendo già intervenute negli ultimi decenni un d.lgs il 5 aprile 2006 (in attuazione di una legge delega del 20 luglio 2005), successivamente una legge del 30 luglio 2007 ed infine la legge n. 71 del 17 giugno 2022 che, con conseguente notevole cambiamento del sistema preesistente, hanno finito con il raccogliere le indicazioni di Pisapia e Russo Spena. L’ultima legge n. 71 del 2022 ha determinato un’accentuazione estrema del processo di interna divisione del corpo della magistratura, procedendo oltre i già rigidi steccati eretti dalla riforma Castelli del 2006 e realizzando il massimo di separazione possibile tra giudici e pubblici ministeri a Costituzione invariata. L’art. 12 della legge 71/2022 ha infatti modificato l’art. 13 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, stabilendo la regola generale che il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa può essere effettuato una volta nel corso della carriera, entro il termine di nove anni dalla prima assegnazione delle funzioni. Peraltro, esaminando i dati ufficiali relativi ai cambi recenti di funzioni, si può verificare che nel 2019, 2020 e 2021 sono stati rispettivamente 5, 10 e 15 i magistrati giudicanti trasferitisi al ruolo di inquirenti, mentre i pubblici ministeri diventati giudici sono stati rispettivamente negli stessi anni 19, 15 e 16! Ciò di fronte alle migliaia di magistrati in servizio nei due ruoli. Da un lato, dunque, quella “trasmigrazione”, secondo alcuni “inquinante” culturalmente e professionalmente, non è poi così massiccia come si vuol far credere ed è anzi marginalissima; dall’altro, può dirsi che la ragione di questa contenuta tendenza alla preservazione della funzione esercitata sta forse nel fatto che si va affermando quell’esigenza di specializzazione che molti indicano tra i possibili e più efficaci strumenti di risoluzione di conflitti e tensioni. Sempre nella relazione della proposta Pisapia-Russo Spena è contenuta una grave inesattezza, forse giustificabile con l’epoca in cui fu redatta: si sostiene - come ancora oggi molti affermano - che la separazione delle carriere si imporrebbe anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri stati a democrazia avanzata. Ciò è totalmente privo di fondamento e ignora le radicali differenze tra il nostro ordinamento - per fortuna caratterizzato da indipendenza del pm e obbligatorietà dell’azione penale - e quelli di altri stati europei. Studiandoli seriamente ci si accorgerebbe che ovunque la carriera del pm sia separata da quella del giudice, il pm stesso dipende dall’esecutivo (con l’unica eccezione del Portogallo, la cui realtà non può ritenersi, però, così qualificante da ispirare le tendenze del nostro ordinamento). Ma sarebbe anche chiaro che, sia pure con vari requisiti e grazie a provvedimenti amministrativi, l’interscambiabilità dei ruoli è possibile dovunque (in Austria, in Belgio, in Svizzera, in Olanda, in Germania, in Francia etc.), tranne che in Spagna. Nel novembre 2013, in Francia, è stato reso noto il rapporto della commissione ministeriale presieduta dal procuratore generale presso la Corte di Cassazione, composta anche da giudici, presidenti di Corte d’Appello e di Tribunale. Orbene, il rapporto ha sottolineato, innanzitutto, proprio la necessaria priorità della unificazione effettiva delle carriere dei giudici e dei pm (“Proposta n. 1: Iscrivere nella Costituzione il principio dell’unità della magistratura”), al fine di “garantire ai cittadini una giustizia indipendente, uguale per tutti e liberata da ogni sospetto”. In Inghilterra e Galles, invece, non esiste il pm nelle forme da noi conosciute, ma il Crown Prosecution Service che consiglia e può rappresentare la Polizia, vera titolare dell’iniziativa penale: ecco l’”avvocato della polizia”, così agognato in Italia! Tra l’altro, a prescindere dallo status del pm, spesso funzionario dipendente dall’esecutivo, in quasi tutti gli altri stati europei esiste il giudice istruttore, figura cancellata in Italia sin dal 1989, che garantisce indagini indipendenti. Il sistema statunitense, infine, si divide in giustizia federale, ove predomina la nomina da parte del presidente degli Stati Uniti, e giustizia statale ove vige il sistema elettorale. Ciononostante, esiste l’interscambiabilità tra i ruoli di giudici e pm che coinvolge anche l’avvocatura dalla quale, anzi, spesso provengono i pm e i giudici. Ma in relazione agli orientamenti della comunità internazionale vi è da segnalare che le ragioni a favore dell’unicità della carriera sono innanzitutto rafforzate dalla prospettiva del Consiglio d’Europa. Vanno a tal fine citati almeno due importanti documenti ricchi di inequivocabili affermazioni: il primo è costituito dalla Raccomandazione REC (2000)19 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale”, adottata il 6 ottobre 2000, ove si prevede (al punto 18) che “… se l’ordinamento giuridico lo consente, gli stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire a una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice, o viceversa. Tali cambiamenti di funzione possono intervenire solo su richiesta formale della persona interessata e nel rispetto delle garanzie”. Si afferma, inoltre, sempre nella Raccomandazione (parte “esposizione dei motivi”), che “La possibilità di “passerelle” tra le funzioni di giudice e quelle di Pubblico Ministero si basa sulla constatazione della complementarità dei mandati degli uni e degli altri, ma anche sulla similitudine delle garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza, di statuto. Ciò costituisce una garanzia anche per i membri dell’ufficio del pubblico ministero”. Il secondo è il nuovo parere 9 (2014) del Consiglio consultivo dei procuratori europei destinato al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, approvato a Roma il 17 dicembre 2014, avente ad oggetto “Norme e principi europei concernenti il Pubblico Ministero”, contenente la cosiddetta Carta di Roma” e una nota esplicativa dettagliata dei principi contenuti nella Carta stessa: vi sono con forza ribaditi tutti i principi che depongono per l’interscambio di funzioni. Ma va anche ricordata, in ordine al tema di cui qui si discute, la creazione della Procura europea (Eppo) che, con sede in Lussemburgo ed entrata in funzione dall’1 giugno 2021, almeno per il momento è competente esclusivamente a indagare e perseguire gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione dinanzi alle ordinarie giurisdizioni nazionali degli stati partecipanti e secondo le regole processuali di questi ultimi. Orbene, è significativo che, anche per rendere omogenee le legislazioni europee in tema di giustizia, la normativa che riguarda l’Eppo impegna gli stati europei a bandire specifici interpelli ai rispettivi magistrati per diventarne componenti, prevedendo che questi ultimi possono esercitare - negli stati di provenienza - funzioni sia giudicanti che inquirenti: nell’ultimo interpello bandito in Italia, infatti, alla luce anche della normativa interna, vi sono stati vari giudici che hanno chiesto di diventare pubblici ministeri nell’Eppo. Come si può dire, allora, che l’Europa vuole e attua dovunque la separazione delle carriere? La risposta a questa domanda che continuo a porre dovunque è il silenzio, salvo quella di un giornalista che in un recente confronto televisivo, mi si è rivolto con una frase cortese: “Non diciamo fesserie per favore!”. È pertanto possibile affermare che la comunità internazionale viaggia proprio verso quel modello ordinamentale che, invece, in Italia viene ciclicamente messo in discussione, quasi mai per buone ragioni, peraltro trascurando che, nell’ambito del nostro procedimento penale, il pm svolge un ruolo di controllo - che deve essere efficace e completo - sulla legalità dell’operato della Pg: ciò ne rende palese la natura di organo di giustizia vicino piuttosto alla figura del giudice che a quella di parte deputata a sostenere in sede processuale le tesi della polizia, come avviene negli ordinamenti veramente ispirati al modello accusatorio. La “terza lezione da sinistra” riguarda una mozione congressuale presentata nel 2019 dall’ex segretario del Pd Maurizio Martina, sostenuta da altri esponenti dello stesso partito, in cui si affermava che “il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale”. Mi spiace per Martina ed i suoi seguaci dell’epoca, ma non ho nulla da aggiungere a quanto già scritto e preferisco, alle sue parole, quelle dell’avv. prof. Franco Coppi che, intervistato l’8 luglio 2023, ebbe a dichiarare: “La separazione delle carriere… sarebbe un’enorme spendita di quattrini, una cosa mostruosamente difficile. E a che servirebbe? Io non ho mai pensato di aver vinto o perso una causa perché il pm faceva parte della stessa famiglia del giudice. Dipende dall’onestà intellettuale delle persone”. È giusto pertanto ribadire che, al di là delle criticità talvolta rilevabili nel comportamento dei magistrati (tema di cui pure ho molte volte scritto e parlato), l’unicità delle due carriere è necessaria anche per difendere e rafforzare un’omogenea “cultura giurisdizionale” tra pm e giudici, un’espressione di cui è però opportuno spiegare il significato concreto, poiché spesso viene fatta passare per una cortina fumogena utile per celare supposti privilegi corporativi. In concreto, unicità della cultura giurisdizionale sta a indicare il dovere per il pm e il giudice di compiere lo stesso percorso per l’affermazione della verità. Le valutazioni possono alla fine divergere, ma i canoni della valutazione delle prove devono unirli: il pm dovrà valutarne la fondatezza solo in funzione della loro valenza nella fase del giudizio, mentre è bene che i giudici conoscano a loro volta limiti e doveri propri dell’attività investigativa, senza che ciò determini il loro appiattimento sulle ragioni di chi accusa, ignorando quelle di chi difende. E una simile cultura si crea e rafforza attraverso un unico concorso per l’accesso alla magistratura, un unico Csm che amministra le carriere di tutti i magistrati, un’unica formazione professionale (auspicabilmente da aprirsi all’Avvocatura per favorire l’intensificarsi di una formazione comune, pur nella diversità delle professioni) e una identica indipendenza dal potere politico e assoluta indifferenza alle sue aspettative, essendo la magistratura sottoposta soltanto alla legge. Una cultura che l’Italia dovrebbe preoccuparsi di diffondere nel resto d’Europa, invece di disperderla, specie a fronte di ripetute tensioni tra potere politico e magistratura, che generano il rischio di riforme punitive: occorre “spiegare all’opinione pubblica che non si buttano via da un giorno all’altro secoli di storia e di valori civili” (G. Zagrebelsky interv. del 2008). “Noi orfani di femmicidio senza aiuto psicologico ci ammaliamo” di Paola Molteni Avvenire, 28 maggio 2024 Giuseppe Delmonte ha fondato una onlus e l’ha chiamata “Olga” come la mamma uccisa da suo padre 27 anni fa: io e i miei fratelli siamo stati lasciati soli. Non deve più accadere. Si chiama “Olga”, acronimo che sta per “oltre la grande assenza”. Per questo è nata la onlus: per colmare la distanza che separa le vittime di violenza dalla politica e dalle istituzioni. Ma prima di tutto il nome è quello di Olga Granà, morta a 51 anni per mano dell’ex marito, e madre di Giuseppe Delmonte, 47enne, fondatore dell’associazione appena presentata nel capoluogo lombardo. Un progetto che grazie alla collaborazione di uno staff di professionisti in ambito sanitario, educativo e legale, punta a promuovere iniziative psicologiche, pedagogiche e formative, anche grazie alla collaborazione delle forze dell’ordine. Giuseppe aveva appena 19 anni quando la sua mamma è morta ad Albizzate, nella provincia di Varese, caduta sotto i colpi d’ascia inferti il 26 luglio del 1997 dal coniuge che lei aveva lasciato. La sua, come tante, è stata la cronaca di un omicidio annunciato. “Mia madre lo diceva sempre: vostro padre mi ammazzerà. Ma anch’io, mio fratello e mia sorella vivevamo nel terrore, non potevamo ridere né guardarlo negli occhi. Quando avevo tredici anni, e i miei fratelli erano già maggiorenni, avevamo chiesto a nostra madre di separarsi, l’avremmo protetta noi. Ma la situazione non cambiò. A quella decisione seguirono più di cinque anni di botte, minacce e soprusi. “Fino a quel mattino, davanti all’ufficio postale, dove era andata a ritirare il vaglia postale di 500 euro, che mio padre doveva pagare secondo l’accordo di separazione, il primo dei contributi economici che non ci avrebbe mai riconosciuto”. Ai figli di Olga viene concessa la scorta per quattro giorni durante i quali il padre, latitante, si nasconde in Sicilia. “Eravamo in pericolo: un testimone che era con lui, la sera prima dell’omicidio, disse alle autorità che mio padre aveva intenzione di sterminare tutta la famiglia”. L’uomo attualmente si trova in carcere con una condanna all’ergastolo, arrivata dopo anni di processi e lotte giudiziarie ma anche di grande sofferenza per i figli. “Siamo stati lasciati da soli, completamente abbandonati dallo Stato, dal quale non è mai arrivato alcun sostegno economico. Eravamo indifesi, senza tutele né leggi specifiche che prendessero in carico la nostra situazione”. Giuseppe sottolinea quanto invece sarebbe stato prezioso in quel momento un supporto, soprattutto psicologico. “Non avevo la capacità di affrontare un dolore così devastante, perciò l’unico rimedio possibile per me è stato quello di rimuovere tutto, fino a decidere di cambiare casa e lavoro. Per vent’anni”, ammette commosso “ho raccontato che i miei genitori erano morti in un incidente stradale, pur di non affrontare la tragica realtà”. Poi la scelta di affidarsi alla psicoterapia e da lì, la difficile elaborazione della violenza e della perdita, fino alla rinascita. “Molto di quel tormento sarebbe stato più lieve se l’aiuto fosse arrivato subito. Per questo oggi voglio essere vicino a tutti i piccoli che restano senza genitori e intendo alzare la mia voce verso tutte le istituzioni: assicurate loro un supporto psicologico immediato. Questi giovanissimi hanno bisogno di ascolto, di sfogare la propria rabbia, di trasformare la sofferenza in riscatto e in un nuovo progetto di vita”. Intanto l’associazione, fanno sapere gli esperti del team, sta già facendo la sua parte, promuovendo in tutta Italia “quel cambiamento culturale che verrà prima delle norme”, assicurano. “La legge che tutela gli orfani di crimini domestici”, fa presente Delmonte, “risale al 2018 ma non è ancora sufficiente, basti pensare che i risarcimenti restano legati ai tempi estenuanti della burocrazia. Inaccettabile poi che ancora non esista un censimento di questi orfani speciali. Sono tutte emergenze, queste, sulle quali la mia associazione è pronta a scendere in campo”. Da due anni il 47enne porta la sua testimonianza nelle scuole, per contribuire alla prevenzione di un male così diffuso nel nostro Paese, e ad educare i più giovani alla cultura della non violenza, partendo dalla condivisione e dall’ascolto. “Ricordo ai ragazzi quanto è dannosa anche l’indifferenza, come quella che hanno dimostrato i nostri vicini. Nessuno è mai intervenuto per aiutarci, nonostante di continuo si levassero urla spaventose dalla nostra casa”. Giuseppe ha rivisto suo padre in carcere dopo 22 anni. “Gli ho chiesto: ti sei reso conto di avermi rovinato la vita? Ha abbassato gli occhi senza rispondere. In quel momento gli ho detto che non ci saremmo più visti. Così è stato, e da quel giorno è cominciata, davvero, la mia seconda vita”. Mayson Majidi: “Temevo la giustizia iraniana, ma quella italiana è peggio” di Angela Nocioni L’Unità, 28 maggio 2024 Ha iniziato uno sciopero della fame nella sua cella Maysoon Majidi, 27 anni, curdoiraniana, e nota attivista per i diritti umani, in carcere da Capodanno. Non capisce perché non viene liberata essendoci prove lampanti della sua innocenza ed essendo riuscita finalmente a farsi interrogare dalla pm: 10 ore di interrogatorio. Ad accusarla di aver collaborato a bordo con gli scafisti erano le dichiarazioni di due migranti che hanno viaggiato nella stessa barca a vela incagliatasi il 31 dicembre. I due che hanno firmato l’atto d’accusa la scagionano completamente. Hasan Hosenzadi, uno dei due, attualmente a Berlino, dichiarato irreperibile dalla Guardia di finanza delegata dal tribunale di cercarlo, tanto irreperibile da essere intervistato dall’Unità il 10 maggio, ha detto: “Sono disposto a giurare che quella ragazza non ha niente a che fare con chi gestiva la barca, non ha fatto niente, viaggiava come me”. E ancora: “Ho detto che questa ragazza era una come noi, del tutto estranea, mi hanno fatto firmare alcuni documenti, non so esattamente cosa fossero. La polizia ha detto che questa ragazza era una degli scafisti. Ha insistito che avrei dovuto dire che era una scafista”. Lo ha ripetuto a un inviato delle Iene, con altri dettagli. Anche l’altro accusatore, Alì Dara Dana, la scagiona completamente. All’avvocato di fiducia, Giancarlo Liberati, che ha già presentato un appello cautelare, Maysoon ha detto di aver pensato che la giustizia iraniana fosse una delle peggiori del mondo ma che avendo provato sulla sua pelle quella italiana inizia a ricredersi. Mayson Majidi in sciopero della fame. È in cella accusata di favoreggiamento all’immigrazione clandestina di Silvio Messinetti Il Manifesto, 28 maggio 2024 Non aveva altra scelta. Per bucare il muro del silenzio sul suo grottesco caso giudiziario Maysoon Majidi ha iniziato ieri uno sciopero della fame. È rinchiusa nel carcere Rosetta Sisca di Castrovillari da sei mesi. Una protesta eclatante quanto disperata. Sia per professare la propria innocenza rispetto alle tesi accusatorie dei pm di Crotone, sia per chiedere che venga fissata con urgenza l’udienza al tribunale del Riesame di Catanzaro per l’appello contro il rigetto della richiesta dei domiciliari. Attrice e regista curdo-iraniana di 28 anni, attivista per i diritti delle donne in Iran, Majidi è fuggita dal suo paese perché perseguitata dagli ayatollah. L’attivista, dopo esser passata da un campo profughi in Iraq, era scappata in Turchia temendo di essere estradata in Iran. Imbarcatasi a Izmir, ha viaggiato per cinque giorni in balia delle onde e dei flutti, finché il battello si è incagliato nelle secche tra Gabella e Marina di Strongoli in Calabria. La notte dello sbarco, appena messo piede sulla costa jonica, ha urlato alla guardia costiera: “Sono una rifugiata politica”. Dopo il porto di Crotone, però, è arrivato il carcere. Dove è stata tradotta per favoreggiamento all’immigrazione clandestina. La donna ha sempre respinto le accuse mosse sulla base delle testimonianze di due dei 77 migranti. Nelle carte dell’inchiesta viene definita “aiutante del capitano”. È accusata di aver distribuito acqua, il poco cibo a disposizione e di aver provato a mantenere la calma dove possibile. Di sicuro c’è che Majidi non ha guidato materialmente l’imbarcazione, condotta da un cittadino turco. Si tratta di elementi accusatori deboli su cui sono subito emersi molti dubbi. Gli stessi testimoni, un iraniano e un iracheno, hanno negato di aver accusato la donna, sostenendo che la traduzione delle loro parole sia stata distorta. L’incidente probatorio che avrebbe potuto chiarire la vicenda, calendarizzato nell’udienza del 14 maggio, si è concluso con un nulla di fatto perché i testimoni sono stati dichiarati irreperibili dal tribunale di Crotone. Testimoni che, invece, sono stati rintracciati facilmente, in Germania e Inghilterra, dal programma tv Le Iene. In un duplice videomessaggio i due naufraghi hanno ribadito di non aver mai accusato Majidi. Al contrario la definiscono “un passeggero come gli altri che non c’entrava nulla con il capitano”. Ai fini processuali però quelle dichiarazioni non sono per ora utilizzabili dalla difesa, in quanto non è possibile recepire testimonianze dall’estero. Per il governo iraniano è una minaccia. Per la procura di Crotone, invece, una presunta scafista a cui sono stati negati i domiciliari a causa del pericolo di fuga, anche perché la donna non ha né un domicilio né parenti in Italia. Il peggior incubo nella mente della 28enne iraniana resta il rimpatrio. Il procedimento penale, oltre a costarle il carcere, potrebbe infatti compromettere l’ottenimento della protezione interazionale. “Tornare in Iran le costerebbe la vita”, dicono i suoi legali. Parafrasando il celebre film, si potrebbe dire che Kafka non solo è a Teheran. Ma anche in Calabria. Veneto. I condannati in regime esterno sono 3 volte i detenuti ansa.it, 28 maggio 2024 In Veneto, al 30 aprile scorso, i condannati ammessi a regimi esterni al carcere risultano il triplo di quelli detenuti. Il dato è emerso dal convegno organizzato oggi a Vicenza dal Consiglio regionale dell’Ordine degli Assistenti sociali del Veneto, insieme alla Fondazione Con i Bambini e ai referenti del Progetto Tra Zenit e Nadir. Secondo i dati pubblicati dal Dipartimento giustizia minorile e di comunità forniti dal sistema Siepe, in Italia al 30 aprile erano 138.627 le persone in carico agli Uffici esecuzione penale esterna (Uepe) per gli adulti, di cui 27.517 in messa alla prova e 29.648 in affidamento in prova al servizio sociale. Il numero complessivo è doppio rispetto ai 61.049 detenuti in carcere. In Veneto la situazione è anche migliore: al 30 aprile i soggetti in carico agli Uepe erano 9.029, mentre quelli in carcere 2.617. Per quanto riguarda i minori e i maggiorenni con reati commessi in minore età, quelli in carico fino al 15 maggio scorso erano 675, mentre quelli in carcere a Treviso - riservato ai soli maschi - erano 17. A livello nazionale Ufficio ci sono 14.308 giovani in affidamento esterno, di cui con messa alla prova 2.998, a fronte di 554 minorenni detenuti, numero in forte aumento rispetto alla fine del 2022, quando erano 381. La crescita è dovuta a diversi fattori, ma molto si deve all’aumento delle misure di custodia cautelare per effetto del cosiddetto decreto legge Caivano. In Veneto negli ultimi due anni, oltre agli effetti del decreto Caivano, è stata evidenziata la crescita significativa dei reati contro la persona e la proprietà, che coinvolgono baby gang. “Questa problematica - ha sottolineato Chiara Bortolato, del Servizio sociale di Venezia - è in crescita, in particolare, nell’area di Verona e richiede un lavoro importante in termini di prevenzione”. Sicilia. Un detenuto su quattro con disagi psichici, ma le strutture di riabilitazione non bastano di Lina Bruno Quotidiano di Sicilia, 28 maggio 2024 In Sicilia tre Rems con 60 ristretti e 500 pazienti in comunità. L’assessore Volo: “Ma la Regione è seconda per posti attivati”. Una chiusura che ha segnato l’inizio di una nuova fase per la gestione della malattia mentale dei reclusi ma dopo dieci anni si ha l’impressione di essere davanti a un percorso incompiuto. La legge 81 del 2014 che fissava per il primo aprile 2015 la data definitiva dell’abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari arriva dopo un lungo iter partito da un’indagine parlamentare che accertò le condizioni di estremo degrado degli istituti e la generalizzata carenza di quegli interventi di cura che avevano motivato l’internamento. Le telecamere per la prima volta entrarono in queste strutture, mostrando le degradanti condizioni di vita in cui persone con gravi patologie erano costretti a vivere, in molti casi senza la prospettiva di un fine pena. Le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) - “Una discarica sociale” li definì Nunziante Rosania, psichiatra e direttore dagli anni 90 fino alla sua abolizione, dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), unico istituto in Sicilia dei sei esistenti. In alternativa per gli autori di reato affetti da disturbi mentali, furono istituite le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), strutture residenziali con funzioni terapeutiche e socio-riabilitative, con permanenza transitoria ed eccezionale. Lo spirito della legge era quello di innescare un meccanismo che creava i presupposti per la riabilitazione e il reinserimento contemplando il coinvolgimento di comunità e servizi territoriali, ritenendo prioritaria la cura rispetto alla restrizione; la gestione divenne di competenza sanitaria. Ogni norma però deve fare i conti con la realtà. Dopo 10 anni il dubbio è che non si sia fatto quel salto di qualità a cui la legge mirava. I magistrati hanno difficoltà a trovare posti nelle residenze della Regione di riferimento dove collocare la persona con patologie mentali per l’esecuzione delle misure e la soluzione, viene detto da più parti, non è l’aumento di queste strutture, ma farle funzionare bene. “C’è un ricorso eccessivo alle Rems - dice Padre Pippo Insana già cappellano dell’Opg di Barcellona e fondatore della Casa di accoglienza e solidarietà - in queste residenze dovrebbero andare solo persone in fase acuta e per un periodo limitato”. Carente l’intero sistema di presa in carico e cura della malattia mentale - Il problema è che ad essere carente è l’intero sistema di presa in carico e cura della malattia mentale sul territorio. “La residenzialità al costo di 220 euro al giorno per ricoverato - dice Insana - è preferita ai gruppi appartamento e ai progetti personalizzati che hanno l’obiettivo di rendere autonomo il paziente e costerebbero anche meno. Le istituzioni, i Distretti socio sanitari, il terzo settore in coordinamento possono trovare la strada più idonea per l’autonomia e l’integrazione. Purtroppo si sono fatti passi indietro nei servizi di psichiatria, manca il personale sanitario, manca il gruppo multifunzionale, mancano i centri diurni, manca l’interazione tra Asp, Comuni e cooperative sociali per l’inserimento lavorativo”. La presenza di una persona che dovrebbe andare in Rems, in Cta, se non c’è un percorso riabilitativo, può essere destabilizzante per la stessa Comunità terapeutica, una tipologia di struttura che soffre già di gravi problemi. “Nulla è cambiato malgrado le battaglie fatte in questi anni da associazioni, familiari, sindacati - dice Fiorentino Trojano psichiatra componente del gruppo tecnico della Salute mentale dell’Assessorato regionale alla Salute - in una delle ultime riunioni del Coordinamento erano state avanzate alcune richieste tra cui la copertura dei posti scoperti, la convenzione con le Università per avvalersi di specializzandi in Psichiatria, la conversione degli Spdc a reparti ad alta assistenza, il monitoraggio sui Budget di salute. Da tre mesi non ci riuniamo, non sappiamo se su questi temi si sia prodotto qualcosa”. C’è la risposta. “L’assessorato della Salute - dichiara l’assessore Giovanna Volo - sta dando seguito alle proposte emerse in occasione dell’ultima riunione del Coordinamento, durante la quale è stata evidenziata la necessità di apportare alcune indicazioni all’interno della programmazione regionale, tendenti al rafforzamento dell’attività a cui sono preposti i Dsm. In particolare, il dirigente generale del dipartimento regionale per la Pianificazione strategica, Salvatore Iacolino, ha inviato una nota ai dirigenti del Servizio 1 (Personale Ssr dipendente e convenzionato), del Servizio 4 (Programmazione ospedaliera) e del Servizio 9 (Tutela della fragilità-Area integrazione socio-sanitaria) a predisporre gli schemi di provvedimenti che l’amministrazione regionale dovrà adottare”. In Sicilia ci sono tre Rems - In Sicilia ci sono tre Rems, una a Naso (Me) e due a Caltagirone (Ct), per un totale di 60 posti, numero insufficiente per Fiorentino Trojano, viste le liste d’attesa. “Abbiamo nelle Cta circa il 40% di pazienti giudiziari con una situazione che si viene a creare inconcepibile, saltano i percorsi riabilitativi in Cta perché è difficile gestire la commistione di soggetti con problemi diversi. In Sicilia ci sono 1.500 ricoverati in Cta accreditate e circa 500 sono pazienti giudiziari tanto che c’è un documento inviato all’Assessore, dei direttori sanitari delle Comunità, in cui dicono che non riescono a lavorare”. Una quarta Rems è in via di completamento a Caltanissetta, chiarisce l’assessore Volo che aggiunge: “La Sicilia è la seconda regione italiana, dopo la Lombardia, per numero di posti attivati. L’assessorato sta procedendo con la concreta attuazione dell’accordo del 30 novembre 2022 per la realizzazione del Punto unico regionale (Pur) quale ufficio che si possa interfacciare con l’autorità giudiziaria. In particolare, sta per essere istituito un tavolo di lavoro composto dalla Regione, dagli operatori sanitari e dall’autorità giudiziaria per stabilire le regole di funzionamento del Pur”. La Rems di Naso è in una sede inadeguata con possibilità limitate per gli ospiti di fare attività riabilitative. Si aspetta il trasferimento al piano terra dello stesso plesso, ristrutturato nel 2022 e mai attivato. “Abbiamo risolto il problema con il catasto e con l’Enel che può fare adesso il potenziamento - spiega il Commissario Asp Messina Giuseppe Cuccì - faremo presto i lavori di manutenzione, necessari dopo due anni, le gare per l’arredamento e saremo pronti”. Altra situazione critica è quella dell’Articolazione per la tutela della salute mentale del carcere di Barcellona, unica in Sicilia, quindi con la pressione delle liste d’attesa di ristretti dei vari istituti, con malattie psichiatriche sopraggiunte durante la detenzione. Il Garante ne ha rilevato tutte le criticità. “Dopo le segnalazioni - dice Cuccì - abbiamo fatto i bandi e siamo pronti ad assumere 18 infermieri; per gli Oss abbiamo fatto un protocollo d’intesa con l’Asp di Catania per acquisire personale dalla loro graduatoria, la procedura è in fase di perfezionamento per 50 operatori”. Mancano altre figure e manca la continuità nell’assistenza psichiatrica che è fondamentale come rileva Rosania. “Gli psichiatri sono un bene prezioso e raro - dice l’assessore Volo - stiamo cercando di migliorare l’assistenza sanitaria anche stipulando un accordo con la specialistica ambulatoriale per invogliare i professionisti a svolgere ore negli istituti penitenziari”. C’è un protocollo d’intesa tra il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e l’assessorato alla Salute del 18 aprile 2023, inattuato, che regolamenta le Articolazioni, prevedendo l’attivazione di altre due, a Palermo e Siracusa. “L’Atsm di Palermo sarà certamente attivata alla Casa circondariale Pagliarelli - assicura l’assessore Volo- i lavori dovrebbero cominciare a settembre, per potere avviare l’attività il prossimo anno”. In un contesto così complesso anche il lavoro degli agenti di polizia penitenziaria nelle carceri siciliane è diventato difficile. “Poco personale, turni massacranti, difficoltà a gestire detenuti con storie diverse specie quelli con disturbi mentali. Lo sottolinea Calogero Navarra segretario nazionale per la Sicilia del Sappe. “I malati psichiatrici, in carcere, non hanno cure adeguate, vivono in reparti comuni con gli altri reclusi e, quindi, creano problemi di carattere gestionale ed organizzativo, con continue aggressioni al personale, distruzione quotidiana di celle e suppellettili. Gli agenti sono in prima linea, spesso da soli in reparto, aggrediti e senza tutele. Una volta eravamo un po’ psicologi, educatori, assistenti oggi non abbiamo più tempo per instaurare alcun rapporto e quindi di prevenire atti violenti, costretti a gestire situazioni per le quali non sono preparati. Dovremmo essere come appartenenti alla polizia penitenziaria 4.491 siamo 3.600 e quest’anno vanno in pensione altri 150. Ne hanno assegnati 200 ma non basteranno, infatti si sta chiedendo la permanenza oltre due anni dopo la pensione con Intervista a Santi Consolo, garante regionale per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e per il loro reinserimento Santi Consolo, magistrato in pensione, è stato nominato nel maggio 2023 con decreto del presidente della Regione, Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti in Sicilia e per il loro reinserimento sociale. Ha fatto numerose visite negli istituti penitenziari siciliani segnalando enormi criticità. Quanto è problematica la gestione dei detenuti con patologie mentali? “Stanno aumentando terribilmente le disabilità mentali per le persone ristrette, c’è un crescente degrado delle condizioni di vita all’interno degli istituti. Il carcere da questo punto di vista è patogeno perché accentua le disabilità mentali e ne fa insorgere altre. Il 25% dei detenuti ha problemi conclamati, ma il disagio è molto più ampio con un sommerso rilevante che non viene registrato. Ci sono ristretti che sono abituali assuntori di antidepressivi, spesso il carrello dei medicinali con questi farmaci passa regolarmente per la distribuzione e si possono creare dipendenze” A Luglio 2023 ha effettuato una visita nella Casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto. In che situazione è l’Atsm? “Dopo l’abolizione degli Opg, gli interventi non sono stati adeguati per garantire le prestazioni sanitarie. Prima della visita avevo sollecitato l’attivazione delle altre due Atsm previste, a Palermo e Siracusa, ma resta un disagio terribile per chi, degli oltre 6600 detenuti negli istituti penitenziari siciliani, avrebbe bisogno di accedere in queste Articolazioni per la tutela della salute mentale. Non c’è la recettività a Barcellona e qui l’Atsm funziona malissimo. I posti non vanno oltre i 30, bisogna considerare che ci sono liste d’attesa lunghissime e molto spesso proprio per questi ritardi si creano delle situazioni che possono degenerare in atti di autolesionismo e suicidari. Tutti gli istituti penitenziari richiedono il ricovero presso le Atsm ma solo poche richieste riescono ad essere accolte. Ad oggi le criticità non sono per nulla risolte, si sono se possibile pure aggravate. Ci sono condizioni igienico sanitarie precarie, mancano Oss e Osa, c’è carenza di psichiatri e psicologi ed un solo tecnico della riabilitazione psichiatrica”. I sindacati di polizia penitenziaria sono critici, gli agenti dicono di avere difficoltà a gestire questo contesto... “Le Atsm dovrebbero essere adeguatamente attrezzate, avere personale dedicato. In passato negli Opg si era creata una specializzazione da parte del personale di polizia penitenziaria che da parecchi anni assisteva e accudiva queste persone, trovando un equilibrio nell’approccio che veniva dall’esperienza. Penso che sarebbero necessari dei corsi di formazione per agenti ma si dovrebbero anche implementare tutti gli organici. La polizia penitenziaria ha oggi un grave disagio nello svolgimento delle attività quotidiane. Una persona con disabilità mentale non è facile da gestire e purtroppo l’indice del malessere è dato dal numero di suicidi che da due anni a questa parte è aumentato. Tra i detenuti, ma anche tra gli agenti”. Qual è la situazione nelle Rems siciliane? “C’è un criterio di territorialità con numero chiuso. Ogni regione può recepire solo persone residenti, il numero di posti è limitato e quindi il problema è gravissimo. Quando una persona che è ricoverata in istituto penitenziario deve andare in Rems se manca il posto viene trattenuta ed è una detenzione illegale. Chi va nella Rems non è una persona che ha una condanna penale perché anche se ha commesso un fatto-reato è stata dichiarata incapace di intendere e di volere quindi è prosciolta. Le Rems cominciano a manifestare situazioni di crisi perchè il personale spesso ha difficoltà a mantenere l’ordine all’interno, ci sono situazioni di alcuni disabili mentali non facilmente gestibili. Quale potrebbe essere la soluzione? “La soluzione, sarebbe migliorare la situazione detentiva. Bisognerebbe inoltre assumere nell’immediato provvedimenti che determinano una deflazione delle presenze negli istituti e su questo c’è la proposta di legge Giachetti- Bernardini per una liberazione anticipata speciale che dovrebbe avere temporaneamente anche una efficacia retroattiva. È in discussione alla Camera sono stato audito e ho espresso la mia opinione favorevole”. (La discussione è stata rinviata a dopo le elezioni Europee ndr). Sardegna. Detenzione, le Comunità dialogano con le istituzioni: ecco la nuova strada di Luigi Alfonso vita.it, 28 maggio 2024 I responsabili delle otto strutture che fanno capo al Coordinamento regionale della Sardegna delle Comunità per l’accoglienza rivolta al mondo della detenzione, hanno incontrato l’assessore della Sanità per segnalare criticità e proposte d’intervento. Un più efficace coordinamento con il sistema della giustizia e l’avvio di una campagna di ascolto reciproco. Lo chiede a gran voce il Coordinamento regionale della Sardegna delle Comunità per l’accoglienza rivolta al mondo della detenzione, composto da otto realtà che da decenni svolgono un’intensa attività su tutto il territorio dell’Isola: cooperativa sociale “San Lorenzo” - Iglesias; cooperativa sociale “Il Samaritano” - Arborea (OR); cooperativa sociale “Ut Unum Sint” - Nuoro; cooperativa sociale “Comunità Il Seme” - Santa Giusta (OR); associazione di volontariato “Giovani in cammino” - Sorso (SS); associazione “Cooperazione e confronto - Comunità la Collina” - Serdiana (CA); cooperativa sociale “Casa Emmaus” - Iglesias; cooperativa sociale “Differenze” - Sassari. All’incontro ha partecipato anche il portavoce del Forum Terzo settore della Sardegna, Andrea Pianu. Questa mattina nella sede regionale di Acli Sardegna, a Cagliari, i rappresentanti delle otto strutture hanno illustrato al neo assessore regionale dell’Igiene e sanità e dell’assistenza sociale, Armando Bartolazzi, un documento di analisi e proposte in merito al disagio delle persone nell’ambito della detenzione e al rilancio e potenziamento delle misure alternative al carcere. Si è parlato di sovraffollamento nelle carceri, del disagio delle persone nell’ambito della detenzione e pena, del rilancio e potenziamento delle misure alternative alla detenzione. “Gli episodi di pestaggi negli istituti penali per minori, il ripetersi di casi di suicidi, le stesse difficoltà che vivono i lavoratori del sistema delle carceri, richiedono un’attenzione che deve andare oltre i semplici proclami della disponibilità a favorire l’unico modo di alleviare il carico delle strutture: favorire concretamente le misure alternative alla detenzione”, hanno più volte sottolineato i componenti del Coordinamento. Le proposte sostanzialmente sono due, così riassumibili. “Intanto, occorre che la nostra rete possa coordinarsi in modo più efficace con tutto il sistema della giustizia (Tribunali di sorveglianza, carceri, Uiepe), in modo tale da rendere più coerenti i tempi di valutazione, verifica e approvazione da parte delle aree trattamentali degli istituti di pena, abbattendo così il lungo iter burocratico necessario per le autorizzazioni da parte dei magistrati di sorveglianza”, è stato spiegato oggi. “Il Fondo dedicato dalla legislazione regionale al particolare servizio che svolgiamo, dalla sua istituzione ha passato varie difficoltà, comunque con trasformazioni positive che sono ancora molto distanti dalle vere esigenze di gestione. Infatti, i tempi delle attribuzioni delle risorse finanziarie rispetto a quelli di gestione restano inconciliabili con un servizio che vogliamo essere di qualità. Le strutture, indipendentemente dal numero di ospiti, sono tenute al pagamento del personale e delle tasse in coerenza e nel rispetto della legalità che insegniamo ai nostri ospiti, e in tempi che le procedure chiedono stringenti. La recente riforma Cartabia ha impostato un nuovo corso sulle misure alternative alla detenzione, avviando i percorsi della giustizia riparativa ma non ancora sul piano del coordinamento delle misure alternative nel loro complesso. Pertanto, riteniamo essenziale che il sistema cammini dentro un processo progettuale coerente che valorizzi tutte le risorse”. La seconda proposta riguarda l’avvio urgente di una campagna di ascolto reciproco, di fatto partita oggi con questo incontro, e “si rivolge ai Tribunali di sorveglianza per migliorare i meccanismi di attribuzione delle misure alternative; alle carceri per favorire un percorso coordinato e orientato allo sviluppo di percorsi educativi concettualmente e metodologicamente coerenti; agli Uiepe per una migliore connessione e definizione dei progetti educativi personalizzati; infine, alla Regione Sardegna per cambiare e migliorare i meccanismi di attribuzione delle risorse finanziarie, in coerenza con le esigenze del lavoro sociale che svolgiamo e della dignità dei lavoratori e dei nostri ospiti”. I fondatori e operatori delle strutture che aderiscono al Coordinamento sono molto noti nell’Isola per la serietà, la competenza e la capacità di progettazione: Gianluca Carboni, Antonello Caria, Antonello Comina, don Ettore Cannavera, Giuseppe Madeddu, Giovanna Grillo, don Gaetano Galia e don Pietro Borrotzu. Con le loro strutture scrivono da tempo, tutti i giorni, pagine di vita e progetti che ricostruiscono uomini e donne, minori e adulti, in un percorso virtuoso di ri-nascita. Ma la volontà non è più sufficiente, sono richieste sempre di più professionalità di alto profilo che vanno pagate adeguatamente e in tempi certi. Le istituzioni non possono fingere indifferenza di fronte a questi problemi, che si trascinano da troppo tempo. “Le nostre strutture sono nate nel solco del percorso costituzionale, generando in Sardegna una rete originale e peculiare che opera ormai da oltre 30 anni”, spiegano. “Il nostro Coordinamento nasce nel 2015 dall’esigenza delle associazioni e cooperative sociali costituenti, già operanti nel settore anche all’interno di apposite strutture presenti nel territorio regionale, di comunicare alla società civile che è possibile affiancare le persone entrate nel circuito penale e sostenerle nel percorso di un cambiamento che porti all’autodeterminazione e ad abbassi il livello della recidiva. Tale convinzione si fonda nell’art. 27 della Costituzione Italiana”. Non è solo un problema di risorse finanziarie. I responsabili delle strutture spiegano che “in caso di difficoltà di gestione dell’ospite o della inadeguatezza dell’inserimento (ad esempio detenuti psichiatrici o con problemi di dipendenza patologica), permangono tempistiche lunghe per la revoca della misura di affidamento alla struttura. Oppure, nei casi di minori, molti ragazzi attualmente in carcere minorile hanno serie patologie psichiatriche che vanno trattate adeguatamente. I posti letto nelle strutture residenziali specialistiche ad alta intensità sono troppo pochi. I minori vengono inseriti in strutture inadeguate all’accoglienza della loro gravità, con conseguenze importanti sugli stessi ragazzi e sul gruppo dei pari. Inoltre, l’80% di loro ha anche una diagnosi di dipendenza patologica (spesso cannabis e alcol) non diagnosticata e non seguita dai servizi”. Decisamente simbolico il luogo da cui si è collegato don Pietro Borrotzu. “In questo momento mi trovo alla colonia penale di Mamone con una classe di un liceo di Nuoro”, ha spiegato. “Dalle scuole passa il cambiamento culturale che non riguarda soltanto gli adulti, se è vero che anche molti ragazzi mostrano una cultura giustizialista”. Forcaiola, l’ha invece definita invece don Ettore Cannavera. Un po’ tutti i convenuti hanno battuto su un punto: eliminare le carceri minorili per destinare i giovanissimi detenuti a realtà strutturate come queste: si ottengono migliori risultati di recupero, a vantaggio della collettività, e pure lo Stato risparmia tanti soldi. L’assessore Bartolazzi, dopo aver ascoltato gli interventi, ha detto che sono problemi che lui conosce molto bene. “Nel quartiere di Roma dove sono nato e cresciuto, molti giovani sono rimasti invischiati nella criminalità: alcuni hanno fatto molto carcere e si sono rovinati, altri addirittura sono morti”, ha spiegato. “La Sardegna ha una realtà differente dalla maggior parte delle altre regioni italiane. Qui ci sono strutture di eccellenza che possono salvare tanti ragazzi. I detenuti devono potersi riscattare ed essere reinseriti in un contesto di inclusione sociale reale. Sono contrario in generale al carcere, purché ci sia una valida alternativa. Qui c’è. Aiutatemi a mettere in campo azioni adeguate, ma coinvolgiamo anche la magistratura”. Non si esclude che, nei prossimi mesi, la Regione possa organizzare una giornata di lavori che coinvolgano non solo il Coordinamento ma anche il ministro della Giustizia, i magistrati di sorveglianza, i direttori degli istituti di pena e la Garante dei detenuti della Sardegna, Irene Testa. “Dobbiamo avviare una stagione di dialogo a tutti i livelli”, ha detto Bartolazzi. “Ma voi dovete comunicare meglio all’esterno i risultati che state ottenendo con il vostro lavoro”. Il direttore generale delle Politiche sociali, Giovanni Deiana, è intervenuto per ricordare che “dal 2006 in Sardegna esiste un fondo per queste comunità sarde, pari a 1,9 milioni di euro l’anno. Andrebbe inserito nella Finanziaria a inizio anno, per non rincorrerlo per mesi. Questo contributo non è diffuso in tutte le altre regioni. Il ministero non interviene, la Regione Sardegna sì perché il Consiglio regionale ha ben compreso il significato sociale dell’intervento”. Se le otto strutture residenziali lavorassero a pieno regime (il tetto massimo è fissato in 16 detenuti per struttura, per un totale di 128 posti letto), basterebbero tra i 500mila e il milione di euro aggiuntivi per pagare tutti i costi. “Ma è più importante avere la certezza dei tempi dell’erogazione”, hanno fatto notare i componenti del Coordinamento. “Oggi si è fatto accenno più volte alla Costituzione”, ha commentato la deputata sarda Francesca Ghirra. “Ebbene, questo apparato normativo è il più violato, soprattutto per quanto riguarda i diritti umani. Dopo il Decreto Caivano, c’è stato un aumento esagerato di arresti di minori. Ma non è questa la strada per tirarli fuori da un percorso di illegalità”. In Sardegna sono presenti dieci carceri: le Case circondariali di Lanusei, Oristano, Sassari-Bancali e Tempio Pausania; le Case di reclusione di Alghero, Arbus - Is Arenas e Isili; le Case circondariali e di reclusione di Cagliari-Uta e di Nuoro; le ex colonie penali di Is Arenas, Mamone e Isili. Al 31 maggio 2023 erano detenute in Sardegna 2.079 persone (dati ministero della Giustizia). Le donne detenute nell’Isola sono il 2% del totale dei detenuti, mentre gli stranieri sono il 22,7%. In questo periodo, nel carcere minorile di Quartucciu (l’unico nel territorio regionale), sono presenti soltanto 5-6 ragazzi, anche a causa dei lavori di ristrutturazione in corso. Padova. Il direttore della Casa di reclusione: “Affettività in carcere, attendiamo indicazioni” di Claudio Mazzeo* Corriere del Veneto, 28 maggio 2024 Egregio direttore, in relazione all’articolo del 18 maggio a firma della giornalista Sara Busato, avente ad oggetto il recente convegno che si è tenuto in data 17 maggio all’intero dell’istituto penitenziario che dirigo, sento il dovere di fornire dei chiarimenti a rettifica dell’articolo che vede riportate delle affermazioni che appaiono riduttive di un più complesso e articolato intervento del sottoscritto. La questione affettività in carcere è di estrema complessità e come detto alla giornalista, pur ritenendomi favorevole in linea di principio, bisogna attendere le indicazioni del Dipartimento che proprio per questo ha istituito un apposito tavolo tecnico per studiare come attuare la sentenza della Corte costituzionale. Pertanto nessuna candidatura è stata avanzata, ma solo la disponibilità del sottoscritto a fornire il proprio contributo per l’attuazione della sentenza, secondo le indicazioni che saranno date dal dipartimento a tutti gli istituti. In merito agli spazi, giova chiarire che allo stato non ci sono sale da poter adibire per l’affettività, ma spazi intesi come suolo su cui poter progettare delle unità abitative. Ma come detto tutto questo presuppone ed è subordinato alle indicazioni del Dipartimento, al lavoro del tavolo tecnico e aggiungo a valutazioni di edilizia penitenziaria. Tale chiarimento si rende necessario al fine di non creare aspettative alle persone detenute a ai loro familiari sull’immediata e pronta attuazione della sentenza nella casa circondariale di Padova. *Direttore della Casa di reclusione di Padova Torino. Suicidi in carcere, scontro giudici-legali di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 28 maggio 2024 È scontro tra Magistratura indipendente, il gruppo associativo più votato alle ultime elezioni del Csm, e la Camera penale, sul dramma dei suicidi in carcere, l’ultimo giovedì scorso. “Vogliono solo screditarci, strumentalizzando una situazione tragica”, si legge in una nota, che replica alle accuse dei penalisti. Dritti al punto (ammesso che questo lo sia): “La Camera penale non ha perso l’occasione di formulare affermazioni pretestuose, infondate, generiche e prive di argomentazioni in relazione all’attività della magistratura all’evidente fine - non se ne vedono altri - di screditarne l’immagine”. Lo scrive, in un lungo comunicato, la segreteria distrettuale di Magistratura indipendente (Mi) in risposta, appunto, alla nota dei penalisti, la scorsa settimana. Sul dramma dei suicidi in carcere, l’ultimo giovedì, quando una signora di 64 anni si era tolta la vita al “Lorusso e Cutugno”, dove era detenuta in custodia cautelare. È la quarta donna a suicidarsi alle Vallette negli ultimi 12 mesi. Se è curioso che il comunicato non sia stato griffato dall’intera giunta Anm, è pur vero che Mi è stato il gruppo associativo più votato alle ultime elezioni del Csm; dunque non pare esagerato parlare di scontro tra magistratura e avvocati: su una tragedia che s’è trasformata in fisiologico effetto collaterale della detenzione. Va da sé, con la soluzione che potrebbe arrivare soprattutto dalla politica. Siamo infatti di fronte - si legge nella nota di Mi - a “un problema di estrema rilevanza e di assoluta delicatezza, che la magistratura ha ben presente e che evidentemente non può che essere risolto con interventi politici di tutti i livelli: sull’organizzazione delle carceri, sul quadro normativo, sulle forze a disposizione della polizia penitenziaria”. E non, è il duro attacco ai penalisti, puntando il dito contro pubblici ministeri e giudici. Di certo, il tema è da anni al centro del dibattito, come dimostrano i due incontri in menù proprio la settimana passata: “Suicidi in carcere. Una piaga da sconfiggere”, una tavola rotonda promossa dal consiglio dell’ordine degli avvocati; e “Il suicidio: una sfida per la società, una responsabilità per tutti”, convegno che l’ordine degli psicologici ha dedicato ai gesti anticonservativi in generale, ma nel quale si è parlato anche dei disastro dei suicidi tra le mura degli istituti di pena. Nell’incipit della nota, Mi riassume le critiche che la Camera penale “Vittorio Chiusano” avrebbe mosso alle toghe: “Noi accusiamo quei magistrati del merito che, sordi alle condizioni delle carceri, continuano nell’abuso dell’utilizzo della custodia cautelare. Noi accusiamo quella magistratura di sorveglianza che si limita al burocratico smaltimento dei fascicoli, con tempi incompatibili con l’attenzione alle persone”. E ancora: “Nel comunicato - afferma ancora Mi - i magistrati di sorveglianza vengono descritti come operatori pigri e insensibili, laddove per quelli dell’ufficio requirente e del gip si parla senza mezzi termini di abusi che sarebbero perpetrati in danno dei soggetti privati della libertà personale. Al di fuori di un’ipocrisia, questo è l’esatto messaggio che il comunicato vuole trasmettere”. Risposta di Mi: “A questo punto, anche noi accusiamo. Accusiamo la Camera penale di avere strumentalmente utilizzato una situazione tragica - che vede i magistrati coinvolti in prima persona, attraverso scelte professionali delicate, complesse e sempre effettuate nell’interesse supremo della giustizia, come pericolosi autori di abusi (senza che di tali abusi si faccia specifica menzione e si portino elementi di conferma degli stessi, indicando chi, quando, come e perché sarebbero stati commessi) - al fine di delegittimare l’operato della magistratura tutta”. Di più: “Accusiamo la Camera penale di essersi dimenticata di sottolineare il carico di lavoro degli uffici giudiziari, che inevitabilmente condiziona i tempi delle risposte che il sistema nel suo insieme è in grado di fornire. Accusiamo la Camera penale - si legge ancora nella nota - soprattutto, di avere formulato una critica all’attività giudiziaria senza fondarla su elementi precisi, concreti e specifici”. Illuminante, sulla situazione del penitenziario, era stato il commento di Monica Gallo, garante comunale delle persone private della libertà personale: “La situazione del carcere torinese è disastrosa e il sovraffollamento nella sezione femminile è superiore a quello della sezione maschile”. Al momento, ci sono 133 detenute a fronte di un centinaio di posti. Ormai, s’è persa pure la speranza: “Dopo l’arrivo del ministro Nordio, un anno fa, pensavo davvero potesse cambiare qualcosa. Invece è rimasto tutto uguale. Ma almeno si potrebbero eliminare le cause di morte più frequenti in carcere: dalle lenzuola ai fornelli, passando per i sacchetti di plastica”. Con i quali, si era soffocata l’ultima vittima. Venezia. Suicidio in cella di Bassem Degachi, il Gip archivia. I parenti: “Faremo causa al ministero” di Alberto Zorzi Corriere del Veneto, 28 maggio 2024 Sul registro degli indagati erano finiti il comandante della Polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Maggiore e due colleghe. Ma nei giorni scorsi, come richiesto dal pm Roberto Terzo, la loro posizione è stata archiviata dal gip Luca Marini. Nessun colpevole, dunque, per la morte di Bassem Degachi, il 38enne tunisino che il 6 giugno di un anno fa si impiccò in cella con delle lenzuola dopo aver ricevuto quella mattina una nuova ordinanza di arresto per droga, lui che vedeva ormai vicina la libertà. I famigliari, con l’avvocato Marco Borella, avevano fatto un esposto e la procura ha ricostruito nel dettaglio quelle ore drammatiche: alle 12.30 Degachi era stato ripreso dalle telecamere mentre rientrava nella sua cella, alle 12.41 la moglie aveva telefonato disperata dicendo che aveva paura che potesse farla finita e, nonostante il comandante le avesse promesso una sorveglianza potenziata, nessuno sarebbe andato a vederlo fino alle 13.55, quando era stato trovato già morto. Sulla base degli esiti dell’autopsia, però, la procura ha ritenuto che non ci siano certezze sull’orario del decesso, che potrebbe essere avvenuto anche prima che un intervento potesse evitarlo. E dunque troppo poco per portare tre poliziotti a processo, sebbene il fascicolo sia invece stato inviato al ministero per eventuali risvolti disciplinari. I parenti di Degachi, che avevano presentato un’opposizione formale alla richiesta di archiviazione del pm, però non se la sono messa via e faranno una causa civile al ministero contestando la responsabilità oggettiva per il suicidio. Il suo caso, oltre alle polemiche sulle condizioni carcerarie, aveva evidenziato anche il problema dei tempi delle misure cautelari: l’inchiesta in questione risaliva al 2018. Milano. Difensori indagati per ricettazione. Avvocatura: attacco inaudito alle garanzie di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2024 Il Coa di Milano e l’Avvocatura stigmatizzano l’iniziativa della Procura meneghina che ha intercettato e poi chiesto misure cautelari due legali sostenendo che le parcelle professionali integravano il reato di ricettazione. Sdegno dell’Avvocatura per l’iniziativa della Procura di Milano che si è spinta a chiedere una misura cautelare interdittiva per l’attività svolta da due legali, difensori di cittadini turchi per svariate fattispecie di reato, perché avendo ricevuto dagli assistiti somme di denaro quale compenso professionale, avrebbero integrato il reato di ricettazione. Immediata la reazione dell’Unione lombarda degli ordini forensi che ha espresso “sostegno” alla presa di posizione del Coa di Milano condividendone la preoccupazione per una iniziativa che svilisce il rapporto difensivo e ne viola la riservatezza. La Procura, infatti, ha monitorato, “con attività tecnica a mezzo di intercettazioni”, “il libero e inviolabile esercizio del mandato stesso, espressamente tutelato dall’art. 103 c.p.p.”. Il Presidente degli avvocati milanesi, Antonino La Lumia, ricorda che la “discutibile iniziativa investigativa è stata motivatamente respinta dal GIP, il quale ha negato una misura cautelare interdittiva, che avrebbe avuto come effetto immediato l’impossibilità, per gli Avvocati, di svolgere il mandato e, dunque, avrebbe impedito all’indagato di avvalersi della difesa tecnica liberamente scelta”. Non solo, l’ordinanza del GIP ha “puntualmente (e giustamente) rimarcato la peculiarità del rapporto professionale tra Avvocato e assistito, nonché la necessità di tutelare il diritto di difesa, evidenziando, altresì, il rischio di una compressione di tale diritto ove i rapporti economici tra indagato e difensore fossero scandagliati sotto la lente - particolarmente penetrante - della ricettazione e dell’incauto acquisto”. Tuttavia, anche alla luce di quanto uscito sugli organi di stampa che in alcuni casi ha addirittura falsamente indicati gli avvocati come “arrestati”, il Coa “esprime forte apprensione” e “auspica che sia sempre garantito il diritto costituzionale di difesa, avendo, peraltro, sempre tutelato l’autonomia e l’indipendenza di ogni iniziativa investigativa”. La delibera firmata dal Presidente la Lumia è stata trasmessa in modo da avere massima eco al Ministero della Giustizia, e a tutti i vertici della giurisdizione meneghina. Per le Camere penali si tratta di un “inaudito attacco alle garanzie, alla libertà dell’avvocato e al diritto di difesa dell’indagato”. Dopo il caso del difensore di Alessia Pifferi, un Pubblico Ministero - proseguono i penalisti - ha “nuovamente utilizzato il potere istituzionalmente devolutogli per mortificare l’attività difensiva, delegittimando la funzione esercitata a tutela del cittadino”. “Assistiamo - sottolineano i penalisti - a un’ulteriore deriva della prassi giudiziaria disancorata dai principi costituzionali, troppo spesso faziosamente enunciati dalla magistratura, ma, ancora una volta, totalmente disattesi. Viene allora da domandarsi: dov’è la misteriosa cultura della giurisdizione alla quale - a dire della magistratura - dovrebbe appartenere anche il pubblico ministero? Emerge, viceversa, una pericolosa estremizzazione del ruolo dell’inquirente che pervicacemente insiste ad assimilare la difesa dell’indagato alla difesa del reato”. Scende in campo anche l’Associazione italiana giovani avvocati che definisce “grave la vicenda che vede due avvocati indagati dalla Procura di Milano per ricettazione”. La Procura, ricorda l’Aiga in una nota, ha rivelato pubblicamente, in apposita conferenza stampa, che l’indagine è stata estesa anche nei confronti dei due Colleghi difensori e che il Gip aveva rigettato la richiesta di misure cautelari nei loro confronti”. “L’Aiga ritiene inammissibile questi - ormai troppo soventi - attacchi all’indipendenza dell’avvocato e all’inviolabilità della sua funzione difensiva. Tale azione costituisce una pericolosa deriva, soprattutto in quanto, da come si apprende, i difensori erano stati fatti oggetto di intercettazioni e indebolisce, inevitabilmente, la figura e il ruolo dell’avvocato quale difensore e garante della libertà e dell’effettività della difesa”, continua la nota. “L’Aiga - sostiene il presidente avvocato Carlo Foglieni - auspica che il rispetto di tale diritto, costituzionalmente previsto, possa essere massimamente garantito proprio dall’apparato giudiziario, ricordando come il diritto di difesa costituisca un caposaldo dello Stato Democratico che - come ricordato dal Ministro della Giustizia in occasione del Festival della Giustizia dell’Aiga- nella figura dell’Avvocato trova la sua massima espressione”. Milano. La pena è estinta, ma se a dirlo è l’avvocato non basta: arrestato di Simona Musco Il Dubbio, 28 maggio 2024 Un uomo è rimasto in carcere per una notte nonostante l’ordine di esecuzione sia stato archiviato 12 anni fa: “Il potere di limitare la libertà maneggiato con disinvoltura”. L’ordine di esecuzione era stato archiviato 12 anni fa e le pene dichiarate estinte. Ciononostante, un uomo è stato arrestato a Malpensa, subito dopo essere atterrato dopo un lungo viaggio, e trattenuto per una notte in carcere, “complice” la domenica. A raccontare la vicenda è Giuseppe Calderazzo, difensore di Giuseppe B., che ora ha sporto denuncia - informando anche i ministri Carlo Nordio (Giustizia), Matteo Piantedosi (Interno) e Guido Crosetto (Difesa) - per “la illegale limitazione della propria libertà personale”. Tutto è accaduto il 3 marzo scorso, quando Giuseppe stava rientrando - dopo 20 anni di assenza - dalla Repubblica Dominicana per presentare sua moglie alla famiglia. Una volta atterrato a Malpensa, l’uomo “è stato illegalmente tratto in arresto - si legge nella denuncia - dalla polizia di frontiera, in quanto asseritamente destinatario di un ordine di esecuzione alla pena di anni 2 mesi 3 e giorni 20 di reclusione”. Tutto normale, se non fosse che l’avvocato Calderazzo, subito contattato dal signor Giuseppe, con due diverse mail, inviate a due ore circa di distanza l’una dall’altra, ha fatto avere alla polizia di frontiera sia il provvedimento di restituzione dell’ordine di esecuzione sia la relativa archiviazione degli atti esecutivi, a seguito del provvedimento con il quale erano state dichiarate estinte le pene. “Qualcosa, o forse più di qualcosa, deve essere andato storto se la polizia di frontiera, dopo l’estenuante confronto con i documenti offerti dal legale, oppone, con il piglio della certezza, tre roboanti argomenti: i provvedimenti emessi dall’autorità giudiziaria ma provenienti da un avvocato devono essere confermati (vai a capire perché) dalla stessa autorità emittente e siccome era domenica questa verifica non poteva essere effettuata - scrive Calderazzo sul sito della Camera penale di Locri -; i carabinieri di Borgia (Cz), appunto quelli inizialmente incaricati dell’esecuzione, sostenevano che il provvedimento del 2012 “era ancora in piedi” (in che senso?) perché sebbene avesse lo stesso numero di procedimento nei confronti della stessa persona e per quelle pene estinte da qualche anno portava comunque una “sigla” diversa; infine, buon ultimo, quel provvedimento del 2012 risultava inserito nella Banca dati interforze e da eseguire”. E ciò nonostante Calderazzo avesse a suo tempo chiesto l’aggiornamento del casellario, senza alcun esito. “È evidente - si legge nell’esposto - che ci si trova di fronte ad una gravissima violazione dell’articolo 13 della Costituzione determinata sia dal mancato aggiornamento (per anni) della banca dati interforze sia dalla incompetenza che ha caratterizzato la condotta degli agenti di Pg di Malpensa e soprattutto di Borgia, specie ove si pensi che proprio alla stazione dei Carabinieri di Borgia la procura della Repubblica di Reggio Calabria aveva inviato, per la notifica, dapprima il provvedimento del nuovo cumulo di pene concorrenti (che assorbiva quello della procura generale di Catanzaro) e poi la richiesta di ritiro dello stesso per estinzione delle pene ivi contenute, sicché non si comprende come il Comando di quella Stazione dei Carabinieri, o comunque gli “operatori della stessa”, poteva(no) seriamente sostenere la attuale esecutività di un provvedimento in realtà archiviato 12 anni prima”. Ma c’è pure un’altra considerazione: i provvedimenti ostentati da un avvocato, anche quando firmati da un giudice, devono essere “verificati - scrive ancora il penalista - perché, evidentemente, ammantati dal sospetto figlio di quella subcultura della collusione che fa percepire con viscerale avversione, purtroppo non solo alle forze dell’ordine, alcuni fondamentali principi della nostra Costituzione”. Uno smacco al quale si aggiunge anche la difficoltà a correggere un errore se questo viene commesso di domenica. “Che è come dire: di domenica non si possono arrestare le persone (esattamente quello che, però, stavano facendo) perché non ci sono pubblici ministeri di turno a Milano a cui dare “immediata notizia” del luogo dell’arresto, a cui “consegnare” l’arrestato e a cui consentire, magari, di liberarlo immediatamente quando l’arresto è stato effettuato “fuori dai casi consentiti dalla legge”“, aggiunge il legale. E di questo si tratta, nel caso di Giuseppe: “È documentale - si legge ancora nell’esposto - che si sia operato un arresto in palese difetto dei presupposti di legge che avrebbero consentito tale misura, il che impone di verificare ed accertare le singole responsabilità di ciascuno dei soggetti coinvolti nella vicenda”. A seguito dell’arresto, l’uomo è stato condotto nel carcere di Busto Arsizio, per essere scarcerato il giorno successivo a seguito di un provvedimento urgente emesso dalla procura generale di Catanzaro che certificava il cortocircuito. “Se non si comprende (perché manca) la ragione dell’arresto - prosegue Calderazzo - di certo la vicenda è attraversata da una inquietudine di fondo chiaramente originata dalla disinvoltura con la quale si maneggia quel delicatissimo potere, ancorché provvisorio, di limitare un diritto inviolabile: la libertà personale. E non si tratta semplicemente di incompetenza, intesa come mancanza di organizzazione, struttura, professionalità e mentalità, ma di incoscienza dei limiti di quel potere. Se nel dubbio meglio arrestarlo, sarebbe riduttivo individuare il cuore del problema nella incapacità di svolgere quel compito, più utile evidenziare l’insensibilità come mancanza di percezione delle distorsioni sul piano della stessa democrazia”. A ciò si aggiunge il fatto che nessuno abbia aggiornato la Banca dati interforze, compito, ha dichiarato la direzione centrale della Polizia criminale presso il dipartimento che gestisce la banca dati, che sarebbe “di esclusiva competenza dell’ufficio di polizia che ha a suo tempo iscritto la prima segnalazione”. “Ora, a prescindere dall’opinabilità dell’assunto - dal momento che la giurisprudenza di legittimità individua proprio nell’autorità amministrativa il soggetto incaricato ad aggiornare il dato contenuto nella banca dati con quello proveniente dall’autorità giudiziaria - ciò che è evidentemente rilevante non è “chi” deve intervenire - conclude Calderazzo - ma “quando” perché questo fa tutta la differenza del mondo tra la libertà e il carcere. E il buon Giuseppe lo sa bene”. Torino. Patrik Guarnieri suicida in carcere a 20 anni, Sgarbi incontra la famiglia di Tito di Persio Il Messaggero, 28 maggio 2024 Il politico e critico d’arte Vittorio Sgarbi ieri mattina si è recato a casa dei genitori di Patrik Guarnieri, il ragazzo suicida il giorno del suo 21esimo compleanno (13 marzo scorso) in cella nel carcere di Castrogno. Sgarbi si è recato a Giulianova per portare le sue condoglianze alla famiglia Guarnieri e, insieme al suo staff, si è reso disponibile affinché il caso venga discusso con un’interrogazione presso il Parlamento europeo il prossimo 15 luglio. Sgarbi ha ricordato ai presenti che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha emesso un’importante ammonizione nei confronti dell’Italia riguardo alle condizioni carcerarie nel Paese. Secondo la Corte, le prigioni italiane sono afflitte da sovraffollamento e carenze strutturali e sanitarie che violano i diritti umani dei detenuti. “La volontà del governo italiano è di attuare le necessarie riforme”, ha tenuto a specificare il politico. Ha poi aggiunto: “Tale ammonimento rappresenta la necessità urgente di riformare il sistema carcerario del paese per garantire il rispetto dei diritti umani”. Adele Di Rocco, presidente del coordinamento Codice Rosso Abruzzo e Marche, ha affermato durante l’incontro: “La procura di Teramo ha aperto un’inchiesta tuttora in corso, ma ci sono elementi critici. In primis, c’è da dire che Patrick, per aver violato l’obbligo di dimora, è stato mandato in carcere. Di solito, in casi come il suo, si va ai domiciliari. Il ragazzo aveva un grave disagio; adesso si tratta di capire se c’era compatibilità tra la situazione in carcere e le cause della sua morte”. Erano le 5.45 del 13 marzo quando gli operatori della polizia penitenziaria trovarono Patrick Guarnieri senza vita. È morto con il lenzuolo stretto al collo e legato all’inferriata della finestra del bagno nella cella dove era stato messo in isolamento. Il giovane, di origini rom, si trovava nel carcere teramano da meno di 24 ore su disposizione del giudice, con l’accusa di aver ripetutamente violato l’obbligo di dimora a Giulianova cui era sottoposto per una serie di condotte illecite che gli erano contestate. Gli agenti della penitenziaria hanno trovato Patrick impiccato alla grata e non hanno potuto fare nulla per salvarlo. Immediata è stata la richiesta di intervento del 118, ma gli operatori sanitari arrivati in carcere hanno dovuto solo constatare l’avvenuto decesso alle 6.24. Venezia. Cuochi e camerieri, la nuova vita dei detenuti negli alberghi di Costanza Francesconi Corriere del Veneto, 28 maggio 2024 È la prima volta in Italia. “Così combattiamo le recidive”. Un detenuto di Venezia sta finendo di scontare la pena impiegato nella cucina di un albergo cittadino. Esce la mattina e rientra la sera, percepisce regolare stipendio e vive nella sezione “semi liberi” di Santa Maria Maggiore, la più vicina alle mura. A Belluno dieci ospiti della casa circondariale sono stati assunti da un’azienda che vi opera all’interno, mentre alcune detenute al carcere della Giudecca, formate come operatrici ai piani, sono pronte a prestare servizio in aziende a caccia di personale. Il lavoro come chance per tornare alla vita libera è la sfida intrapresa da direzione dei servizi sociali della Regione Veneto, Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria triveneto (Prap) e Veneto lavoro, secondo un “modello Veneto” inedito in Italia. “I centri per l’impiego entrano nelle carceri integrando pubblico e privato, dove quel “pubblico” permette ai detenuti ammessi al lavoro all’esterno (secondo le prescrizioni dell’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, ndr) di accedere alle politiche attive come qualsiasi cittadino disoccupato, di essere iscritti al collocamento mirato se in possesso di certificato di invalidità Inps, e di impegnarsi in tirocini interni ed esterni alle strutture in cui si trovano”, ha spiegato Alessandra Rossi di Veneto lavoro, ieri alla presentazione di un caso esemplarmente riuscito nella sede dell’Associazione veneziana albergatori (Ava). Il programma per il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti è esteso alle nove carceri di Belluno, Padova, Rovigo, Treviso, Venezia, Verona e Vicenza attraverso diciassette proposte di Garanzia di occupabilità dei lavoratori (Gol) finanziate da fondi Pnrr dedicati ai disoccupati e persone in cerca di nuove occupazioni. Tre “Gol” riguardano Venezia: un corso per operatrici ai piani nel carcere femminile alla Giudecca, uno per impiantisti elettrici e uno per operatori di sala e cucina a Santa Maria Maggiore. In quest’ultimo ambito, Ava ha chiuso il cerchio di domanda e offerta nel mercato del lavoro turistico-ricettivo. “Estenderemo l’iniziativa alle altre sedi associative territoriali - annuncia il vicedirettore Ava Daniele Minotto -. Il 70 per cento delle persone carcerarie sono recidive, le aziende devono contribuire ad abbattere questo tetto creando opportunità di lavoro. A Venezia servono 800 lavoratori l’anno nel settore turistico-alberghiero, spazio ce n’è e la legge Smuraglia prevede inoltre sgravi contributivi e fiscali per le imprese o cooperative che assumono detenuti in stato di reclusione o ammessi al lavoro all’esterno”. Tutti i detenuti devono scontare la propria pena, cambia la modalità per chi dispone di determinati requisiti giuridici. “Grazie a questa misura alternativa il carcere diventa risorsa per liberare potenzialità dei singoli” evidenzia Angela Venezia, direttrice dell’ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato. “Si comincia da lavori domestici in carcere per passare a un corso di formazione con Veneto lavoro, ad attività più strutturate, fino all’inserimento esterno- spiega il direttore carcere maschile Venezia Enrico Farina -. i detenuti mi chiedono come accedere al percorso. Gli rispondo che dipende dalla loro volontà e dall’impegno che metteranno in questo percorso”. Verbania. “Semi di libertà”: nasce l’orto che prepara la vita che viene dopo di Cristina Pastore La Stampa, 28 maggio 2024 L’orto in carcere vedrà la luce con l’assistenza di un tecnico agronomo di Vco Formazione. Lo hanno chiamato “Semi di libertà”, perché coltivando ortaggi e piccoli frutti in carcere si lavora alla vita che verrà dopo, da uomo libero che vuole voltare pagina e ricominciare. Il progetto è un’iniziativa della comunità della casa circondariale di Verbania. L’anno scorso in cordata con numerosi partner i detenuti hanno realizzato un campetto sportivo in uno dei cortili del penitenziario a Pallanza, dove c’è spazio anche per un orto. La direttrice Claudia Piscione sta facendo rete per sostenere questa nuova attività con Comune, associazioni e volontari che si spendono per costruire le basi per il reinserimento sociale dei detenuti attraverso programmi di rieducazione. Nella struttura carceraria di via Castelli sono un’ottantina e 25 di loro sono impegnati in un percorso formativo e lavorativo. Buona parte è presa in carico dalla cooperativa Il Sogno, con la produzione dolciaria della “Banda biscotti” che ha sede nel palazzo della scuola di polizia penitenziaria in piazza Giovanni XXIII, la mensa sociale a villa Olimpia e il bar di Casa Ceretti a Intra. La Fondazione comunitaria del Vco e l’Ordine degli avvocati di Verbania sono pronti a sostenere la nuova iniziativa, ma per portarla a termine servono altre donazioni. La raccolta fondi allora passa per il pranzo che venerdì 31 maggio prepareranno i reclusi, che hanno seguito il corso di sala e cucina del Formont e quello di pizzaiolo della Casa di carità arte e mestieri. L’associazione Camminare insieme, nata per stare al fianco dei detenuti a Verbania, ha invece organizzato un corso di origami e le creazioni in carta realizzate saranno messe in vendita sempre con lo stesso intento. “Immagini della detenzione” - L’orto in carcere vedrà la luce con l’assistenza di un tecnico agronomo di Vco Formazione. Si può sostenere il progetto versando un contributo a Camminare insieme. Nella giornata in cui il carcere si apre alla città saranno esposte “immagini della detenzione”, scattate da chi da dietro le sue mura ha frequentato un corso di fotografia. Il coordinamento provinciale della protezione civile ha messo a disposizione tavoli, sedie e gazebo per l’evento e al suo responsabile Francesco Cotti i detenuti che lavorano nella sartoria della casa circondariale presenteranno lo stendardo che per l’ente hanno cucito e ricamato, mentre al sindaco di Baveno Alessandro Monti verrà restituito il gonfalone comunale, che hanno restaurato. Milano. Imparare un lavoro in carcere, a Opera apre la scuola edile di Alessandra Zanardi Il Giorno, 28 maggio 2024 Progetto di reinserimento che offre ai detenuti la possibilità di fare formazione in un laboratorio attrezzato per imparare il mestiere di manovale ed essere impiegati poi nei cantieri dell’hinterland. La formazione e il lavoro come strumenti di reinserimento sociale. Con questa filosofia, ieri nel carcere di Opera è stata inaugurata la scuola edile, un laboratorio attrezzato dove i detenuti potranno imparare il mestiere di manovale ed essere successivamente impiegati dalle aziende per svolgere attività nei cantieri. Nato da un’idea di don Gino Rigoldi e della direzione carceraria, il progetto è sposato da svariati enti: Umana, Assimpredil Ance, sindacati ed Esem-Cpt (Ente unificato per la formazione e la sicurezza). Quest’ultimo soggetto, in particolare, gestirà il laboratorio, un’area di 170 metri quadrati equipaggiata con tutti i materiali del caso, dagli attrezzi ai dispositivi di sicurezza, come caschetti e scarpe anti-infortunistiche. Vi si svolgeranno corsi di 96 ore l’uno; a ogni percorso formativo potranno partecipare fino a 15 persone. Il programma è rivolto in particolare ai beneficiari dell’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, ossia ai detenuti che possono svolgere lavori esterni, ma in realtà potranno accedervi “tutti coloro che intendano voltare pagina. Siamo disponibili a ospitare anche i ragazzi del Beccaria”, ha annunciato il direttore del carcere di Opera, Silvio Di Gregorio, intervenuto al taglio del nastro insieme a don Gino Rigoldi, ai rappresentanti di Assimpredil, Esem, Umana, Cgil, Cisl e Uil. Presenti alla cerimonia anche il sottosegretario di Stato alla giustizia Andrea Ostellari e la presidente del consiglio comunale di Milano Elena Buscemi. Nei loro interventi, i relatori hanno sottolineato come il laboratorio nasca dal duplice intento di offrire ai carcerati una chance di reinserimento sociale e fornire manodopera a un settore, l’edilizia, dove resta alta la richiesta di personale. “In questo senso l’esperimento di Opera potrà essere replicato in altri contesti, per fornire manodopera anche a settori, come l’agricoltura, la ristorazione e la saldatura”, ha detto don Rigoldi. “Durante i corsi si porrà la massima attenzione anche alla sicurezza e al corretto uso dei dispositivi di protezione individuali. Temi quanto mai attuali, a fronte di una media annuale di 1.300 morti sul lavoro, in Italia”, ha aggiunto il segretario generale della Feneal Uil Salvatore Cutaia. Il sottosegretario Ostellari ha colto l’occasione per ricordare gli investimenti del Governo sul lavoro e la formazione come strumenti per abbattere il rischio di recidive e aumentare il livello di sicurezza. “I dati parlano chiaro - ha affermato -: smette di delinquere soprattutto chi impara un mestiere, confrontandosi con la fatica dell’apprendimento e il rispetto dei colleghi”. Milano. I disagi e il recupero delle ragazze detenute nelle carceri minorili tg24.sky.it, 28 maggio 2024 L’evento di Sky Tg24 ha visto ospiti Silvio Ciappi, criminologo, e Gianluca Guida, direttore del carcere minorile Nisida di Napoli, per parlare di criminalità minorile, numeri e cause del fenomeno, con un focus particolare sulle ragazze. L’emarginazione e la solitudine individuale, ma anche la speranza di una nuova vita fuori dalle carceri. A Live In Milano si è parlato di criminalità minorile, con un focus particolare sulle ragazze detenute negli istituti di pena per minori, insieme a Silvio Ciappi, criminologo, e Gianluca Guida, direttore del carcere minorile Nisida di Napoli. Guida: dal disagio nascono forme di devianza - La situazione nelle carceri, spiega Guida, vede “un andamento stabile per le ragazze italiane negli istituti di pena. C’è una forte riduzione delle ragazze straniere di etnia rom. Questo è il dato prevalente dagli istituti. Ma ora si affacciano nuove fasce di popolazione provenienti da fenomeni migratori. E dal disagio nascono forme di devianza che coinvolgono anche la popolazione femminile minorile”. Ciappi: la libertà porta anche nuove opportunità delinquenziali - Secondo Ciappi, “il crimine è anche frutto dell’emancipazione. Le ragazze di oggi si trovano a fare cose che in precedenza non si facevano, a cominciare dall’ingresso nel mondo del lavoro. Sono fattori che aumentano le opportunità delinquenziali. Possiamo dire che a una maggiore libertà di uomini e donne corrisponde una maggiore opportunità di delinquere. Entrambe le componenti di genere sono esposte alla solitudine digitale. E la criminalità degli adolescenti è interclassista”. Guida: creare una relazione di aiuto - Secondo Guida, “il percorso verso la criminalità minorile è lento e graduale, parte da esperienze di disagio, dalla prima devianza fino alla violazione delle regole del nostro vivere sociale, quindi si commettono crimini. Le nuove condizioni di disagio influiscono sui reati delle ragazze. Sono reati contro il patrimonio, ma anche contro la persona. Un ragazzo o una ragazza che commette crimini vuole essere visto, riconosciuto. La loro personalità si polverizza. Questa frammentazione dell’Io li porta a perdere la capacità di reagire. Arrivano a commettere il reato senza essere consapevoli della gravità del reato. Non hanno strumenti per capire il disvalore di ciò che hanno fatto. Devono partire dalle loro fragilità e bisogni per capire ciò che hanno commesso”. E aggiunge: “Chi arriva in carcere viene da marginalità e da periferie, che non sono solo quelle geografiche. Ne esistono anche in situazioni normali e agiate, che in realtà sono profondamente malate. Come risposta abbiamo provato a creare una relazione di aiuto, prendersi in carico i loro bisogni anche nello spazio della pena”. Ciappi: noia e vergogna dietro i reati femminili - Secondo Ciappi, la società e la visione di essa legata ai beni di consumo hanno un ruolo fondamentale nei comportamenti delinquenziali: “Noia e vergogna influiscono sui reati femminili. I beni di consumo sono quelli che contano, secondo la visione attuale della società. Il dolore sembra essere bandito. La criminalità rappresenta una scorciatoia per accedere a beni di consumo o evadere da un mondo opaco. Anche la vergogna pesa su questo. Significa non essere all’altezza, nell’era dei social si rischia di essere pesantemente esclusi”. E aggiunge: “Da una parte c’è sofferenza individuale, con sintomi psicologici, e dall’altra scatta l’aggregazione con gruppi di riferimento che hanno questi stessi sintomi comuni, quello che si definisce il ‘branco’. Ragazzi e ragazze portano una biografia frammentata, possono farsi del male o farlo ad altri. Il tempo del carcere può paradossalmente dare modo ai ragazzi di prendere consapevolezza, un tempo sospeso. Ma le ragazze possono tornare ad avere una vita normale. Hanno una capacità di entrare nel mondo superiore alle vecchie generazioni”. Stragi, la memoria ritrovata di Davide Conti Il Manifesto, 28 maggio 2024 A cinquant’anni dall’eccidio di Piazza della Loggia a Bresca. I volumi di Benedetta Tobagi per Laterza, e di Pietro Garbarino e Saverio Ferrari per Red Star Press. Sfatato il falso mito per cui quegli eventi sarebbero inintelligibili e ricostruite precise responsabilità. I legami tra la destra eversiva, gli apparati militari dell’intelligence italiana e dell’alleanza atlantica. Due analisi rigorose del fenomeno che ha insanguinato a lungo il Paese all’ombra della Guerra Fredda e nel quale hanno giocato un ruolo di primo piano i neofascisti. In uno spazio pubblico in cui la rimozione del passato ha assunto una funzione centrale nella costruzione di un presente senza storia, i lavori che muovono in “direzione ostinata e contraria” divengono preziosi. È il caso di due volumi che, mentre procede l’iter giudiziario dei processi per la strage di Bologna del 1980 e di Piazza Loggia a Brescia del 28 maggio 1974 (di cui ricorre oggi il cinquantesimo anniversario), si incaricano di costringerci a ragionare sulle vicende umanamente più tragiche e democraticamente più drammatiche della storia repubblicana. È il caso dei libri di Benedetta Tobagi, “Le stragi sono tutte un mistero” (Laterza, pp. 288, euro 18), e di Pietro Garbarino, Saverio Ferrari, “Piazza della Loggia cinquant’anni dopo” (Red Star Press, pp. 152, euro 15). Entrambi i testi si presentano apparentemente come strumenti divulgativi ma in realtà mostrano da subito la capacità di approfondire (in modo convincente) e spiegare (in modo chiaro) temi assai complessi come quello relativo alla natura dello stragismo in Italia ovvero di un fenomeno storico duraturo, collocato dentro il cuore della Guerra Fredda e capace di incidere sulla qualità del sistema democratico e costituzionale della Repubblica. Ciò grazie al concorso di neofascisti come esecutori materiali; di apparati di forza dello Stato (nei suoi vertici tanto dell’Ufficio affari riservati del Ministero dell’interno quanto del Servizio informazioni difesa) come operatori della logistica delle stragi, dei depistaggi e delle esfiltrazioni; di significative parti delle classi dirigenti e proprietarie come finanziatori; di alti ufficiali della Nato non solo come interlocutori e protettori dei responsabili ma come osservatori decidenti seppur in un quadro non univoco, anzi “polimorfico”, come ricorda Tobagi. La storica, che maneggia con sapienza il tema, passa in rassegna larga parte del dibattito pubblico sugli anni del tritolo sfatando il falso mito secondo cui gli eventi stragisti sarebbero inintelligibili; chiarendo che non esistono servizi segreti “deviati” ma solo servizi segreti; smontando teorie dietrologiche protese alla costruzione di immaginarie piste alternative come quella palestinese o internazionale per la strage di Bologna del 1980. Contestualmente si potrebbe aggiungere anche che la retorica celebrativa delle istituzioni “lo Stato ha vinto” e quella postfascista “la destra vittima di persecuzioni giudiziarie” hanno concorso ad erodere, nell’immaginario collettivo, l’evidenza dei fatti. È possibile affermare la vittoria dello Stato con tanta solennità quando, in media dopo mezzo secolo dai fatti, i processi non sono ancora conclusi; il grado di impunità dei responsabili resta altissimo; la memoria pubblica è praticamente evaporata nelle nuove generazioni per le mancanze di quelle precedenti? Così se da un lato Tobagi cita il sondaggio del 2006 condotto nelle scuole superiori di Milano (secondo cui il 41% degli studenti riteneva le Brigate Rosse e non i neofascisti di Ordine Nuovo responsabili della strage di Piazza Fontana) dall’altro non ci si può esimere dal sottolineare come il lavorio di tutti quei “narratori” pubblici, che l’autrice definisce generosamente “filo-governativi rassicuranti”, abbia iniziato a fare breccia facendo leva non su argomenti e contenuti di merito quanto piuttosto su banalizzazioni, uso del senso comune, stanchezza e disattenzione dell’opinione pubblica. In questo senso Garbarino e Ferrari riallineano fatti e documenti offrendo un focus importante sulla strage di Brescia del 1974 e soprattutto su quella organizzazione “denominata Ordine Nero nella quale erano confluiti i reduci del gruppo Movimento politico Ordine Nuovo, a loro volta eredi di quel Centro studi Ordine Nuovo, fondato nel 1956 da Giuseppe Umberto (Pino) Rauti e confluito in parte, nel 1969, nel Msi di Giorgio Almirante”. Un gruppo che, lungi dall’essere “solo” filo-nazista, rappresentò una struttura intranea agli apparati militari dell’intelligence italiana e dell’alleanza atlantica negli anni della guerra non ortodossa al comunismo fatta di stragi, attività eversive e minacce golpiste. Un percorso che oggi ha portato il processo di Brescia sulla soglia degli uffici del Comando Nato di Verona. Gli autori offrono così, per il tramite dell’intelligenza dei fatti, elementi conoscitivi imprescindibili e richiamano l’osservazione sul modo in cui nella sfera pubblica è rappresentato il “racconto” delle stragi e, dunque, sul modo in cui noi, in ultima istanza, rappresentiamo noi stessi. La beffa dei Centri per migranti in Albania: 20 agenti di polizia pagati per sorvegliare il nulla di Alessandra Ziniti La Repubblica, 28 maggio 2024 Saranno in servizio dal 2 giugno: 100 euro al giorno più vitto e alloggio. I responsabili del cantiere del Genio dell’Aeronautica militare provano a sbarrare il passo: “Ci dispiace, senza autorizzazione qui non si può entrare”. Alle loro spalle alte palizzate proteggono da occhi indiscreti l’hotspot che diventerà primo approdo dei migranti soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane, portati qui per essere sottoposti a procedure accelerate di frontiera e rimpatrio. “Serve il nullaosta del ministero della difesa albanese” - Il deputato di Avs Angelo Bonelli insiste: “Sono un parlamentare, intendo esercitare le mie prerogative ispettive in territorio dove c’è giurisdizione italiana”. “Ma qui occorre il nullaosta del ministero della difesa albanese, non c’è ancora la giurisdizione italiana”, replicano i militari mentre poco distante il direttore del porto Sander Marashi scuote la testa: “Dipende tutto dall’Italia da ora e per i prossimi cinque anni, è tutto scritto nelle carte”. Il protocollo Italia-Albania - Già, è scritto chiaramente nel protocollo Italia-Albania, ratificato con legge pubblicata sulla Gazzetta ufficiale in aprile e dunque in vigore, che nelle due aree “cedute” da Edi Rama a Giorgia Meloni per il suo progetto apripista in Europa di esternalizzazione delle richieste di asilo la giurisdizione è italiana. Ma visto che il progetto che doveva partire il 20 maggio è ancora all’anno zero, meglio provare a inventarle tutte per tenere lontano parlamentari e giornalisti. Alla fine, un paio d’ore e due telefonate dopo, toccherà all’ambasciatore italiano a Tirana Fabrizio Bucci arrampicarsi sugli specchi per sostenere che “la giurisdizione italiana comincerà solo a lavori consegnati” per poi accompagnare con estrema disponibilità Angelo Bonelli nella visita dei due Centri. L’hotspot quasi pronto e quello neanche iniziato - O meglio delle due aree: perché se al porto di Schëngjin l’hotspot è quasi pronto, trenta chilometri più all’interno, nell’area militare di Gjader, ruspe e camion sono ancora alle prese con complicatissime e impreviste operazioni di sbancamento del terreno che ha presentato grossi problemi di natura geotecnica. “Non siamo in grado di dire quanto tempo ci vorrà”, spiegano i tecnici. Novembre, come sembra suggerire la scadenza per la consegna dei lavori? “Dobbiamo fare le cose per bene, la sicurezza innanzitutto, ma spero prima”, sottolinea l’ambasciatore Bucci. Dal 2 giugno gli agenti dall’Italia a sorvegliare il nulla - Certo è che fino a quando a Gjader non saranno montati i prefabbricati che daranno forma al centro di trattenimento per richiedenti asilo, al Cpr e al piccolo carcere da 24 posti, l’hotspot di Schëngjin rimarrà chiuso. E il progetto dunque di certo non partirà prima di diversi mesi. E dal 2 giugno verranno mandati 20 agenti di polizia italiani per vigilare sulle strutture vuote: riceveranno un’indennità di 100 euro al giorno più vitto e alloggio in hotel. L’appalto alle società al centro di inchieste giudiziarie - Telecamere ovunque, chiuso da recinzioni in lamiera alte tre metri, moduli a un piano per ospitare infermeria, ufficio per le identificazioni, stanzetta per l’attesa, l’hotspot di Schëngjin attende solo gli arredi interni. Niente posti letto, qui i migranti (solo uomini maggiorenni) rimarranno solo poche ore prima di essere trasportati in bus nel centro di reclusione di Gjader: 70.000 metri quadri in area militare, divisi per blocchi nelle strutture prefabbricate che il ministero della Difesa, con un appalto di cui non ce alcuna evidenza pubblica, ha affidato - per una cifra di poco superiore ai 6 milioni di euro - alla Rigroup, società leccese dell’imprenditore Salvatore Tafuro già finita al centro di un’inchiesta giudiziaria così come la Medihospes, il colosso dell’accoglienza a cui è stata affidata la gestione dei servizi ai migranti. Come ha scoperto Report, che tornerà sui centri in Albania nella puntata del 2 giugno, la Rigroup è finita a giudizio per turbativa d’asta in un’indagine del 2018 per la realizzazione del Cie di Foggia in cui alti ufficiali dell’aeronautica furono accusati di corruzione. La vicenda finì con un patteggiamento e Tafuro si liberò dalle accuse grazie all’intervento della prescrizione. “L’enorme spreco di risorse pubbliche” - “Quando inizierà l’operatività di questi centri nessuno sa dirlo, da quello che abbiamo visto con i nostri occhi è evidente che ci vorranno mesi”, dice Bonelli, “e nel frattempo siamo di fronte ad uno spreco enorme di risorse pubbliche che sfiora il miliardo di euro peraltro in violazione della legge”. Stop del governo alla cannabis light: duro colpo all’economia del comparto di Massimiliano Gallo Il Riformista, 28 maggio 2024 Oggi Stefano Rosso sarebbe additato come un pericoloso sovversivo. È il cantautore (da tempo scomparso) della celebre storia disonesta, il brano sull’eterna querelle che all’epoca l’artista definì dell’hashish legalizzato. Era la canzone dal ritornello “Che bello, due amici una chitarra e lo spinello”. Quasi cinquant’anni dopo, il dibattito è più o meno lo stesso. Nel frattempo il fronte della legalizzazione ha dovuto ingoiare parecchi passi indietro. Ora non ci si batte più per legalizzare la cannabis. Obiettivo che oggi equivale a un’utopia. Il governo Meloni vuole vietare anche la cosiddetta cannabis light. Con un emendamento al ddl sicurezza in esame alla commissione della Camera, intende rendere illegale la coltivazione e la vendita delle infiorescenze, anche di cannabis a basso contenuto di Thc (uno dei più noti principi attivi della cannabis). Di fatto la cannabis light viene equiparata alla cannabis. È un po’ come mettere sullo stesso piano la birra analcolica e quella alcolica. Siamo in campagna elettorale e il governo è evidentemente convinto che lo stereotipo (in questo caso del tutto sbagliato) dei capelloni drogati possa ancora portare qualche voto nel loro elettorato. Un provvedimento che non solo è in controtendenza con quel che sta avvenendo nel resto dell’Europa. E che ancora una volta evidenzia l’arretratezza del nostro centrodestra che proprio non ce la fa a diventare una forza politica libertaria. Ma l’assurdo è che si tratta di un provvedimento che andrebbe a danneggiare la nostra economia. Verrebbe assestato un duro colpo a un intero comparto produttivo. Dall’oggi al domani sarebbero considerati fuorilegge quattro milioni di consumatori che oggi sono liberi di acquistare cannabis light nei tabaccai o in quei punti vendita sorti un po’ ovunque. E che domani si rivolgerebbero al mercato nero per un prodotto che in larga parte dell’Europa è normalmente in commercio. Proprio recentemente la Corte di giustizia europea ha evidenziato con una sentenza che la cannabis light non può essere considerata stupefacente. Persino l’Organizzazione mondiale per la sanità ha rassicurato sul consumo di cannabis light che in altri paesi europei è considerata una sorta di integratore al pari della caffeina o della teina. Sarebbero migliaia i contenziosi che si aprirebbero da parte di imprese agricole che lavorano la canapa, di tabaccai, di operatori del settore che diventerebbero spacciatori. Racconta Luca Fiorentino, 28 anni, giovane imprenditore fondatore di Cannabidiol Distribution, azienda leader nel settore della cannabis: “Parliamo di un settore in espansione, in cui sono tantissimi i giovani: l’86% degli operatori nel settore ha meno di 35 anni. Sono numerosi quelli che hanno investito il Tfr dei genitori in pensione per aprire un’attività legale e prevista dalla legge. Dall’oggi al domani, lo Stato dice loro: guardate, abbiamo scherzato, la vostra attività ve la chiudiamo”. Non a caso Giuseppe Libutti, avvocato costituzionalista che segue aziende di settore della cannabis light, ha commentato: “Così come concepito, l’emendamento sembra più mosso da un pregiudizio verso la cannabis e si pone in contrasto con la giurisprudenza che riguarda la canapa industriale. Inutile dire che se dovesse essere approvato, aprirebbe la strada a numerosi contenziosi da parte di chi opera da anni nel settore disciplinato dalla 246 del 2016 e svolge un’attività assolutamente lecita”. Migliaia di imprese agricole che stavano fallendo, si sono risollevate grazie alla canapa. Hanno rilanciato l’azienda agricola di famiglia, sono tornati a fare assunzioni. È un settore che sta avvicinando migliaia di giovani all’agricoltura. Per un’attività - ripetiamo - che in Italia è ancora legale. La legge consentiva l’apertura di questi negozi. L’Italia offre ancora una volta, a fondi e investitori esteri, l’immagine di un Paese che favorisce i differenti settori produttivi in base all’ideologia del governo. Non proprio il messaggio più rassicurante per chi desidera investire in Italia. Medio Oriente. Quei morti senza nome né volto a Rafah di Lucia Capuzzi Avvenire, 28 maggio 2024 “Un tragico errore”. Così il premier Benjamin Netanyahu ha definito la strage di profughi a Rafah: almeno 45 vittime, oltre la metà donne e bambini. Morti senza nome né volto. Non solo perché i loro corpi sono stati divorati dalle fiamme: 153 uccisi, in media, al giorno sono troppi per essere ricordati. Anche nel clima di assuefazione globale all’orrore, però, il massacro di Rafah ha conquistato, per un momento, la ribalta mediatica. Una dopo l’altra sono arrivate le condanne della comunità internazionale. Il governo israeliano ha espresso il proprio rammarico per il “tragico errore”. Espressione quest’ultima particolarmente azzeccata. La parola “errore” porta in sé il senso dell’errare, ma anche l’amara constatazione dell’aver deviato dalla retta via. L’errore - secondo l’origine etimologica - è una deviazione dal giusto. Ma qual è il giusto da cui si è deviato? Questo è l’interrogativo cruciale. Ha deviato chi ha dato l’ordine di colpire due terroristi nascosti in una tendopoli densamente popolata, definita oltretutto dallo stesso esercito “zona sicura”? Ha deviato l’aviatore che ha premuto il pulsante senza obiettare? Ha deviato il comando militare non prevedendo un’operazione per spegnere sul nascere il prevedibile incendio? Forse hanno deviato tutti e tre. O, forse, lo stress, le condizioni ambientali difficilissime, la stanchezza per il protrarsi del conflitto, rendono sempre più difficile minimizzare i rischi. I “tragici errori” fanno parte del panorama della routine bellica. “? la guerra”, del resto, recita il detto popolare rivelando una verità profonda. Le conflagrazioni belliche - abbellimenti retorici a parte - producono morti, mutilati, profughi, orfani, stupri… È la guerra, dunque, il primo, tragico errore. Non si tratta di negare le responsabilità individuali. Queste restano e sono oggetto di leggi nazionali internazionali. Sarebbe miope, però, guardare solo gli effetti senza mettere in luce le cause strutturali da cui derivano. A deviare dal giusto sono gli Stati quando considerano la guerra un modo percorribile e sensato per affrontare le controversie nel Ventunesimo secolo. Sono gli analisti quando ripetono che è “inevitabile”, lo stato naturale dell’umanità, confondendo tra conflitto e sua risoluzione per via cruenta. Sono gli intellettuali quando affermano che la guerra è la regola della storia, la pace l’eccezione, quasi fossero categorie ontologiche e non fenomeni socialmente costruiti. Le conflagrazioni belliche sono il risultato di una serie di scelte politiche, economiche, culturali adottate dai governi e portate avanti nel tempo, al di là dell’accadimento improvviso che ne determina l’esplosione. Questo non significa sminuire la portata del singolo casus belli. Bensì comprendere che cosa vi soggiace. A proposito di Gaza, il giornalista israeliano Rogel Alpher ha parlato di “sindrome di Versailles” da cui sarebbe affetto il governo Netanyahu. Come i tedeschi al termine della Prima guerra mondiale, l’attuale esecutivo rifiuta di vedere qualunque responsabilità delle politiche adottate da Tel Aviv nell’interminabile conflitto mediorientale. Affermarlo non vuol dire negare il legittimo diritto all’esistenza dello Stato di Israele ma, a partire da questo, trovare un modo per metterlo in dialogo con l’altrettanto legittima prerogativa di un altro popolo. Ri-storicizzare o de-ontologizzare la guerra, toglierle l’aurea di presunta inevitabilità che tanti si affannano ad attribuirle, smascherarne la costruzione silenziosa, consente anche comprendere cosa sia davvero la pace. Non un’aspirazione vaga o ingenua ma un orizzonte a cui tendere, con decisioni concrete. Una parte importante della società israeliana, e di quella palestinese, lo hanno imparato con l’esperienza. Non a caso il malessere, congelato dallo choc della brutalità del 7 ottobre, comincia a emergere in modo palese. Oltre 160 organizzazioni per la pace dei due popoli, riunite nell’Alleanza per il Medio Oriente, si sono offerti come partner di fronte alla comunità internazionale e, in particolare, al G7 per esplorare vie alternative alla carneficina in atto. Il loro appello è stato firmato da papa Francesco a Verona. Ai piccoli, riuniti in Vaticano da tutto il mondo proprio nel giorno della strage a Rafah, il Pontefice ha affidato la missione di farsi costruttori di pace. Un passo alla volta, sulla giusta via, senza deviare. Medio Oriente. L’incubo escalation della forza sul diritto di Nathalie Tocci La Stampa, 28 maggio 2024 C’è una chiara escalation militare, politica e giuridica in Medio Oriente, ma diverse e contrastanti sono le letture che possiamo darne. L’invasione israeliana di Rafah va avanti. È iniziata gradualmente, quasi furtivamente, sullo sfondo degli appelli internazionali a non procedere. Dopo un attacco di Hamas, intercettato da Israele (evidenziando che dopo otto mesi l’organizzazione è ancora in piedi), l’esercito israeliano ha colpito la tendopoli di Tal as-Sultan a Rafah, che Israele stessa aveva designato come “zona sicura”. Decine le vittime civili palestinesi bruciate nelle loro tende, e centinaia i feriti. L’escalation militare avviene nonostante un’escalation politica e giuridica. Oggi tre Paesi europei - Spagna, Irlanda e Norvegia - hanno riconosciuto lo Stato palestinese, portando a 143 su un totale di 193, i membri dell’Onu che riconoscono la Palestina. Con Spagna e Irlanda, sono nove in tutto gli Stati Ue che la riconoscono, ma altri se ne potrebbero aggiungere presto, come Slovenia, Malta e Belgio. A questo si accompagna l’escalation giuridica. Da tempo era nell’aria la richiesta della procura presso la Corte penale internazionale (Cpi) di procedere con i mandati d’arresto per i crimini commessi in Medio Oriente. La settimana scorsa il procuratore Karim Khan ha compiuto il passo, raccomandando alla Corte di procedere non solo nei confronti di tre leader di Hamas, ma anche del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e del ministro della difesa Yoav Gallant. È stata una scelta dovuta: l’alternativa era procedere solo contro Hamas, di fatto affermando che la Corte non è super partes ma processa solo criminali purché siano anche anti-occidentali (come nel caso di Vladimir Putin), oppure di non procedere affatto, facendo venire meno il senso stesso del tribunale. La Cpi è stata additata da Usa e diversi Paesi europei di falsa equivalenza tra Israele e Hamas. Ma la Corte non processa gli Stati, solo gli individui e l’unica equivalenza che è tenuta a riconoscere e rispettare non è tra i carnefici ma tra le vittime, siano esse israeliane, palestinesi, o di qualunque altra nazionalità. Pochi giorni dopo, poi, è arrivato il terzo dispositivo della Corte internazionale di giustizia (Cig), che si inquadra nel contesto del procedimento del Sudafrica contro Israele per il crimine di genocidio, invocando lo stop dell’invasione di Rafah. La lettura dominante di questo concatenarsi di eventi sottolinea l’impotenza della comunità internazionale. Per settimane, Usa, Europa e mondo arabo hanno implorato Israele a fermarsi. L’amministrazione Biden l’ha fatto sia sbandierando un’enorme carota, rimettendo sul piatto la fatidica normalizzazione delle relazioni con l’Arabia Saudita, sia accennando all’uso del bastone, sospendendo per pochi giorni un carico di bombe a Israele. Ma Netanyahu ha preferito Rafah a Riad, sbeffeggiando ancora una volta Biden. La stessa lettura ci dice che, lungi dal rimettere Israele sulla via dei due Stati, a seguito del riconoscimento della Palestina da parte di altri Paesi europei, il ministro delle finanze israeliano, l’estremista Belazel Smotrich, ha minacciato di tagliare i collegamenti col sistema bancario palestinese, provocando di fatto il collasso della moribonda Autorità nazionale palestinese. Una lettura che mette in luce una generalizzata impotenza, infine, ci porterebbe ad affermare la tragicità dei tribunali internazionali. Israele non è firmataria dello Statuto di Roma, istitutiva della Cpi, e, sebbene sia membro della Cig, il tribunale non ha il potere di garantire il rispetto delle proprie sentenze, prerogativa che spetterebbe al Consiglio di sicurezza dell’Onu spesso bloccato da veti incrociati. Insomma, la lettura dominante è quella di un ordine internazionale in cui il potere bruto domina sul diritto. Ma fermarsi qui sarebbe superficiale. Una lettura alternativa sottolinea, invece, la dinamica per cui il diritto prova ad alzare la voce sulla violenza. Le proteste nei campus universitari, gli Stati che riconoscono ora la Palestina, i tribunali internazionali che procedono nonostante le intimidazioni ci parlano di società civili, di governi e di organizzazioni internazionali che hanno il coraggio di farsi sentire. Lo fanno nell’unico modo potenzialmente efficace: non invocando vacuamente la pace come amano fare in molti; è passato da tempo il tempo delle parole e basta. Solo quando le parole sono seguite da azioni che dimostrano che non c’è impunità per i crimini di guerra si può sperare di invertire la spirale di violenza. Sono azioni che richiedono coraggio perché comportano un costo per chi le esegue. Purtroppo, è il coraggio che manca ancora a molti altri protagonisti. La sospensione degli aiuti militari Usa a Israele è durata pochi giorni: è stato Biden ad abbassare lo sguardo per primo; mentre gli altri Stati che esportano armi a Israele, come Germania e Italia, non ci hanno neanche provato. Hanno preferito mostrare i muscoli solo nei confronti dei più deboli, ad esempio sospendendo gli aiuti umanitari all’agenzia Onu per i profughi palestinesi, l’Unrwa. Tra i diversi motivi che frenano l’azione c’è l’accusa di antisemitismo, ormai fusa con la qualsivoglia critica di Israele. Ma quando tutto diventa antisemitismo, la minaccia è che niente lo sia più. Avere il coraggio di parlare e di agire è negli interessi dei diritti di tutti, a partire dagli israeliani, perché Israele sarà sicura soltanto se e quando lo saranno anche gli altri, come ha ricordato in una recente intervista Aryeh Neier, sopravvissuto alla Shoah e gigante dei diritti umani, che oggi teme sia in corso un genocidio a Gaza. Cina. Lavoro forzato degli operai uiguri, Volkswagen nella bufera di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 28 maggio 2024 La denuncia. Human Rights Watch incalza il colosso automobilistico tedesco per la joint venture con Pechino. “Non può lavarsi le mani dalle sue responsabilità”. Quarantotto ore prima dell’assemblea annuale del gruppo Volkswagen Human Rights Watch e il Centro europeo per i diritti umani (Ecchr) si appellano direttamente agli azionisti. “Fatevi dire dai dirigenti come intendono eliminare il lavoro forzato degli operai uiguri nella fabbrica co-gestita con il costruttore automobilistico Siac controllato dallo Stato cinese. Vw non può semplicemente lavarsi le mani dalle sue responsabilità nelle joint venture con Pechino” è l’istanza più che imbarazzante per i vertici del marchio simbolo del made in Germany. Il colosso di Wolfsburg oggi vende un’auto ogni tre in Cina, ormai il secondo mercato per importanza come ribadito dall’amministratore delegato Oliver Blume a fine aprile. Soprattutto Vw utilizza alluminio prodotto nello Xinjiang dalle aziende legate a programmi governativi di lavoro forzato con detenuti di etnia uigura e altre minoranze turcofone. A febbraio il quotidiano filo-Confindustria Handelsblatt aveva rivelato come un appaltatore della fabbrica Vw-Siac nello Xinjiang si fosse avvalso degli schiavi a costo zero per la costruzione della nuova pista per i test. “Finora non abbiamo ricevuto indicazioni di violazione di diritti umani sul nostro circuito di prova” garantiscono i manager Vw dopo aver commissionato l’apposito audit per indagare le violazioni a Markus Löning, ex commissario tedesco per i diritti umani. Peccato solo che non includesse la pista in oggetto. “Vw non riesce a indagare adeguatamente sui collegamenti tra la sua catena di approvvigionamento in Cina e il lavoro forzato” sottolinea Hrw ricordando l’ammissione dello stesso Löning secondo cui l’indagine “si è basata sulla revisione della documentazione più che sulle interviste ai lavoratori che potrebbero rivelarsi pericolose. Anche se fossero a conoscenza di qualcosa, non lo direbbero mai”. Lo scorso giugno Ecchr ha denunciato in blocco i tre grandi brand dell’automotive nazionale all’Ufficio federale per gli affari economici, responsabile della legalità dell’import-export. “Vw Bmw e Mercedes violano gli obblighi non adottando misure efficaci per prevenire il lavoro forzato imposto da Pechino nella catena delle forniture. A gennaio Vw aveva dovuto ammettere alla dogana Usa che una parte dei microchip era stata fabbricata da un fornitore elencato dalle autorità americane come legato al lavoro forzato. Allora vennero sequestrate tutte le auto contenenti il pezzo assemblato dagli schiavi e Vw dovette sostituire il subappaltatore.