Ammalarsi e morire in carcere. Così funziona la sanità in cella di Federica Pennelli* Il Domani, 27 maggio 2024 Gli ambienti degli istituti penitenziari spesso sono insalubri e non è semplice accedervi in caso di emergenze. Ma il caso Cucchi e la pandemia hanno reso più urgente la discussione sul diritto alla salute per i detenuti. Parlare con un sanitario (che preferisce rimanere anonimo) di salute in carcere, significa affrontare un tema che di solito emerge solo per cronaca e mai per urgenza di dibattito politico pubblico, che sconta troppo spesso un imbarbarimento etico e morale sui temi sociali. Eppure, nel bene e nel male, la clinica e la cura fanno parte di un sistema pubblico ben definito, anche se spesso ambivalente e lacunoso. L’assistenza sanitaria alla popolazione detenuta, infatti, è di competenza del Servizio sanitario nazionale (Ssn) e dei Servizi sanitari regionali, dove l’amministrazione penitenziaria applica le norme della legislazione italiana relative all’assistenza sanitaria dei detenuti. La presa in carico - Le persone che perdono la libertà, secondo il racconto del sanitario, “arrivano da noi dall’esterno, per prima cosa vengono visitate e gli vengono subito fatti degli esami. Sono isolate fino a che non sappiamo che sono negativi i risultati, poi vengono messi nelle celle comuni. Alle persone viene anche proposto il prelievo per le malattie infettive, che possono rifiutare, ma non possono invece rifiutare quello della tubercolosi, perché si trasmette anche per via respiratoria ed è di facile trasmissione”. All’interno del carcere di Bologna, il direttore sanitario si è organizzato per avere più servizi possibili: c’è la possibilità di un servizio analisi, di raggi due giorni a settimana, e di ecografie due volte al mese. I servizi di ginecologia e ostetricia ci sono tutte le settimane e per quanto concerne le visite specialistiche c’è un medico cardiologo e un oculista una volta alla settimana, l’otorinolaringoiatra due volte al mese, il dentista quattro volte a settimana, pneumologo e infettivologo una volta al mese. Per l’assistenza psicologica e psichiatrica “queste figure ci sono tutti i giorni ma non bastano”. Nel carcere di Bologna ci sono 854 detenuti, tra uomini e donne, per una capienza di 500 posti, “per cui fanno il possibile ma non sempre riescono a vedere i pazienti quanto servirebbe, il numero di dipendenti non è proporzionato al numero dei detenuti”. Chi lavora dentro come sanitario o educatore ha “un atteggiamento di attenzione per il sociale, lavorare qui è difficile”, continua il sanitario: “Tra le figure sanitarie c’è una sensibilità per i temi della marginalità e dell’esclusione sociale: tante volte cercano di segnalare situazioni di fragilità”. Il carcere fa ammalare - Se è vero che in carcere a Bologna si può essere presi in carico e curati, vero anche è che di carcere ci si ammala e si muore. Ci sono molte patologie prodotte dall’ambiente esterno ed altre che sopraggiungono non appena si arriva ad essere rinchiusi in ambienti vecchi ed insalubri. Per quanto riguarda l’igiene e la prevenzione, uno dei temi preoccupanti è legato alla condizione insalubre dei materassi “non vengono cambiati da più di 12 anni e sono bagnati dall’umidità, non vedono il sole e hanno la muffa”. Il sanitario aggiunge che “se i medici curano la bronchite ogni due settimane ad un paziente e lui dorme su un materasso che fa schifo, è ovvio che gli tornerà”. In carcere, inoltre, le situazioni “a volte vanno al di là delle possibilità anche di chi lo gestisce” è proprio il carcere con la sua struttura che fa ammalare, fa morire e fa perdere la salute mentale. Il sanitario segnala periodi in cui ci sono solo docce fredde e si rimane senza riscaldamento per lunghi periodi “può succedere che si rompano, sono tante persone in un posto enorme e vecchio, si ammalano anche per questo. Le persone detenute avvisano gli agenti, che mandano mail per avvisare la direzione e la direzione manda qualcuno, ma non subito”. Sono strutture con riscaldamenti in ghisa e tubature vecchie ed “è ovvio che se li usi tutto il giorno, tutti i giorni per tutte quelle persone, poi si rompano”. Il fatto di intervenire tardi, sembra uno dei tanti dispositivi di controllo, di uso di forza e potere: l’istituzione carceraria è in grado di controllare i detenuti, tenendoli al freddo, avendo così potere su di loro. Come ad esempio il potere di decidere quando ridar loro, o meno, il calore che gli sarebbe dovuto. Suicidi e violenze - Se una persona si sente male in carcere, avvisa l’agente che chiama subito un sanitario, anche per piccole problematiche. Quindi si va da una piccola a una gravissima intensità: “Le prima persone che accorrono sono il medico e l’infermiere interni, anche se non in tutte le carceri c’è sempre il medico, ma a Bologna c’è sempre. Allertati dalla radio arrivano e, se la cosa è grave, chiamano il 118”. Spesso l’accesso delle ambulanze è rallentato dalla stessa struttura del carcere, fatta di accessi con porte blindate da aprire. Il carcere di Bologna, come tutti del resto, è in punto isolato della città “dunque se il 118 deve salire oltre il primo piano con la barella, si perdono minuti preziosi”. Per quanto riguarda i suicidi, uno dei più grandi problemi delle persone rinchiuse qui e nei Cpr, il sanitario afferma di aver visto diverse complessità nel tentativo di salvare le persone: “In quei casi il fatto di essere lontano dalla città e avere forti barriere architettoniche, fa sì che arrivi l’ambulanza e si debbano aprire i cancelli, l’ascensore spesso è rotto e bisogna salire a piedi e portare una barella, perdendo tempo prezioso”. Sulla questione delle violenze nel tragitto tra questura e istituto carcerario il sanitario sostiene che “su questo, tra sanitari, vedo tanta attenzione”. Quando la persona arriva da fuori e viene fatto il triage iniziale “i medici devono dire se, secondo loro, le lesioni che riporta, se le riporta, sono causate da violenze nel tragitto dalla questura al carcere. Loro lo domandano alla persona che arriva, anche perché le visite avvengono, da noi, quasi sempre senza guardie all’interno dell’ambulatorio, che rimangono fuori”. Al sanitario è capitato di vedere persone con segni di violenza “so che è stato segnalato nel referto, anche se spesso le persone che arrivano in carcere non lo dicono per paura di ritorsioni successive. Ci sono stati casi eclatanti in cui la persona è arrivata visibilmente pestata e dunque gli è stato chiesto quando fosse accaduto. È stato poi segnalato, ma non so, non credo che ci siano state ripercussioni su chi lo avesse pestato, tutto credo si concluda con il rapporto”. Se succede “qualcosa di davvero grave, hanno almeno un referto che riporta quello che è successo e l’istituto carcerario si tutela”. Il dopo Stefano Cucchi - L’impianto carcerario a Bologna è migliore rispetto ad altre carceri, afferma chi ci lavora, ma il potenziamento della clinica all’interno del carcere “deriva da tutto quello che è successo durante il Covid, comprese le rivolte dei detenuti perché non potevano più vedere e sentire i parenti”. Ma, dal racconto raccolto da Domani, c’è anche un prima e un dopo la sentenza di condanna per l’omicidio di Stefano Cucchi: “Tra post Cucchi e post Covid hanno più remore a risolvere lentamente le cose, c’è un’aria di compromesso che si cerca, almeno apparentemente” anche se tutto questo si inserisce in un clima generale repressivo, ghettizzante, di istituzione totalizzante: “fatto di equilibri e dinamiche di potere che io stesso, dopo tanto tempo, fatico a comprendere”. Da quando lavora dentro, infatti, “tra i tanti mantra che si sentono ripetere ogni giorno, uno di questi è “da dopo Cucchi facciamo così”. La sentenza è diventata, dunque, uno spartiacque: “probabilmente nonostante i pestaggi continuino sono diminuiti qui, è cambiata la parte difensiva da parte delle forze dell’ordine e anche il protocollo medico: adesso qui refertano tutto, i medici vengono chiamati per ogni piccola cosa”. Un sistema carcere spesso fallimentare, messo in luce da molte associazioni per i diritti umani e condannato dalla Corte europea dei diritti umani. Iniziare a parlare di salute in carcere, dunque, diventa fondamentale per portare il tema fuori da quelle mura e per fare in modo che vengano costantemente attenzionate. Ma anche per ricordare che la salute, fisica e mentale, è rinchiusa in una morsa asfissiante di un apparato repressivo fatto di sorveglianza, punizione e controllo. *Autrice freelance. Si occupa di sanità, diritti, salute mentale e femminismi La riforma che serve alla giustizia malata di Piero Tony Il Foglio, 27 maggio 2024 Fino a quando non si separeranno le carriere, il giudice non sarà mai terzo, imparziale ed equidistante. Errori e orrori dal tempo del caso Tortora non sono serviti. L’inspiegabile contrarietà dell’Anm alla riforma Nordio. La versione di un ex magistrato. Dovremmo chiederci, cari colleghi, perché oggi ormai quasi tutti concordano, a parte l’associazione nazionale magistrati, sul fatto che il pessimo stato della nostra malata bradigiustizia - quel pessimo stato che fa paura a tutti, ossia agli investimenti stranieri oltre che ai medici che curano o ai sindaci che firmano o ai giardinieri che potano e così via - non dipende da una punizione divina, ehi, che ci dobbiamo fare, è andata così. Ma dipenda da altro: da pura ignoranza generale della magistratura (memorabile sul punto il coming out espresso a Siena tanti anni fa, forse era il 2017, dall’associazione nazionale magistrati nella relazione di sintesi del loro congresso nazionale, ciliegina sulla torta l’enunciata speranza nella scuola superiore della magistratura) e soprattutto da una mancanza di specializzazione professionale, di quella specializzazione che invece connota sempre più qualsiasi professione. Ancora oggi infatti, nonostante sopravvenute micromodifiche ordinamentali degli ultimi anni, nell’alveo di un’unica e commista carriera regolata da un unico e indistinto Csm, Consiglio superiore della magistratura, i magistrati possono più o meno disinvoltamente saltellare, in quanto notoriamente tuttologi e periti peritorum, da un sereno ruolo giudicante a una arcigna funzione requirente. E viceversa. Ancora oggi che ci si può imbattere da una parte nel chirurgo iperspecialista della prima falange del dito mignolo della mano destra o nell’informatico iperspecialista di crittografia per password manager e, dall’altra, nella competenza universale della nostra magistratura. Ancora oggi si fanno orecchie da mercante a fronte dell’assioma (lo definiamo così perché così accade) che, fino a quando non si separeranno le carriere, nell’attuale dialettica anzi pseudodialettica dibattimentale il giudice non sarà mai terzo e imparziale ed equidistante ma, come è naturale, tenderà ad ascoltare il collega pubblico ministero come fosse prezioso coadiutore amico della giustizia e il difensore come fosse impiccione guastafeste di cui diffidare in quanto sempre pronto a inserire bastoni tra le ruote. Orecchie da mercante a fronte dell’assioma che, fino a quando la carriera sarà unica, pm e gip potranno continuare a dialogare rovinosamente nel pieno del procedimento (o essere sospettati di farlo, il che non sposta il problema) come buoni colleghi conviventi - più o meno occasionalmente, più o meno interessatamente, sia chiaro - sulla verosimiglianza di quelle ipotesi o sulla praticabilità di quegli accertamenti o sulla necessità di integrare le indagini. Agevolati dal fatto che, solitamente, pm e gip condividono da remoto la disponibilità degli atti digitalizzati, mediante One Drive o simili, e possono così governarli secondo necessità, naturalmente non dimenticando il copia incolla che gonfia e dà autorità a qualsiasi fascicolo, clic se ti adegui e faticosa motivazione se disattendi. Orecchie da mercante, infine, sul fatto che fino a quando non si separeranno le carriere, il giudicante in camera di consiglio sentirà sempre il rischio di sconfessare e danneggiare lavoro e immagine del collega cui è legato da tante comunanze. Così non va. È irragionevole oggi nutrire il sia pure minimo dubbio sull’urgente necessità di separare le carriere e affinare le rispettive specializzazioni, quale primo inevitabile passo per poter poi pensare alle riforme conseguenti e tentare di allinearci al resto del mondo. Non c’è chi non veda - a parte l’anm naturalmente - che per gli attuali paradigmi criminologici e tecnoscientifici non basta infatti tutto l’arco di una vita professionale, quanto ad acquisizione delle necessarie competenze specialistiche speculari, mediante il solo avvicendamento nei due ruoli. Le carriere vanno separate, la loro specificità non può essere sottovalutata, la preparazione professionale non deve essere comune ma mirata allo spasimo, cultura della giurisdizione per chi deve giudicare e cultura dell’investigazione corretta per chi deve esercitare il diritto punitivo dello stato. Perché indagini e normative sono sempre più complesse e sovranazionali, le fonti di prova sempre più scientifiche e sofisticate, i grandi crimini economico-finanziari e fiscali e gli incroci societari anonimi sempre più globalmente interconnessi, gli algoritmi valutativi o predittivi sempre più imperversanti e onnipresenti, i protocolli investigativi sempre più tecnici, le interpretazioni e gli accertamenti peritali quasi esoterici, la necessità di continui aggiornamenti sempre più incalzante. Insomma, non pasta un magistrato peritus peritorum. Quando già in Assemblea Costituente Piero Calamandrei e Giuseppe Grassi - quest’ultimo firmò la Costituzione quale ministro guardasigilli - espressero perplessità sul fatto che la carriera fosse unica, si tagliò corto rinviando la soluzione alla allora imminente riforma ordinamentale ma nulla cambiò. Quando il 13 giugno 1987 Enzo Tortora venne definitivamente assolto da tutte le gravissime imputazioni il presidente pro tempore dell’associazione nazionale magistrati tentò di tranquillizzare l’opinione pubblica: non sarebbero più accaduti errori così gravi perché entro un paio d’anni l’allora vigente processo inquisitorio sarebbe stato sostituito da un nuovo processo di stampo accusatorio, “all’americana, due parti in guerra davanti al giudice terzo e imparziale,” spiegò. La separazione delle carriere avrebbe dovuto essere il naturale corollario - come in quasi tutti i paesi anglosassoni ed europei con processo di stampo accusatorio - ma invece, a dir il vero con grande solerzia, si provvide solo a degradare di posto il pubblico ministero di udienza, non più sulla pedana assieme al giudicante. Ma giù sul pavimento accanto al difensore, tutto qui e nient’altro cambiò. Fu Giovanni Falcone tra i primi ad accorgersi che alla riforma processuale mancava qualcosa. Non è possibile, il pm non può essere “parente” del giudicante, “le carriere vanno separate, ne va della qualità dei risultati” sbottò più volte, ma nonostante ciò anche questa volta tutto restò come prima. Passarono gli anni, inutilmente. La centralità delle indagini (prevalentemente di polizia e dunque prive della garanzia della difesa, anche perché un pm da solo non può tenere il passo di squadre di investigatori) e la funzione solo o quasi solo scenica del dibattimento furono sempre più evidenti. La Corte costituzionale ci mise del suo, sostanzialmente rese ancora più vano l’impianto accusatorio del codice 1988 - già minato dalla non separatezza delle carriere - con la sentenza numero 255 del 3 giugno 1992 che, ritenendo “fine primario e ineludibile del processo penale quello della ricerca della verità”, ravvisava in codesto impianto “il principio di non dispersione dei mezzi di prova”, che qualche sconsiderato e irrispettoso burlone assimilò a quello del norcino che dell’animale non vuole buttare via nulla. Arrivò il processo mediatico di Mani pulite, sarabanda di funzioni e carriere e professioni varie. Con la stampa nazionale che ogni giorno condannava e beatificava, sempre all’unisono, dopo zelanti riunioni mattutine delle testate più importanti (Goffredo Buccini, e con il gip, sempre il solito, che si appiattiva acriticamente sulle richieste dei colleghi pm perché, a suo stesso dire, tra il 1992 e il 1993 la mole degli atti di Mani pulite a lui pervenuta era stata tale che, spesso, i suoi erano stati pedissequi accoglimenti delle istanze del collega pm e quelli del collega pm pedissequi accoglimenti delle richieste della polizia giudiziaria (Italo Ghitti, intervista di Tv7, 2002). Arrivarono gli scandali Palamara, Trattativa, Mafia Capitale, Eni-nigeria, Loggia Ungheria, arrivarono clamorosi errori giudiziari, solo ad esempio ricordo Giuseppe Gullotta, Paolo Melis, Beniamino Zuncheddu, arrivarono le statistiche sulle riparazioni per l’ingiusta detenzione, circa tre al giorno negli ultimi dieci anni, ma tutto restò ancora come prima: centralità di indagini non garantite e inconsistenza dibattimentale, affettuosa colleganza tra giudicante e requirente, carriera unica asseritamente per potersi difendere da quei furbacchioni che vorrebbero usare la separazione delle carriere come grimaldello per sottoporre poi il pm all’esecutivo (eterno leitmotiv di chi è privo di argomenti seri e si accontenta di processare le intenzioni, che peraltro non trova alcuna corrispondenza… nella storia del mondo). Infine, alleluia alleluia, è arrivato il ministro Nordio e l’agognata riforma della separazione delle carriere è parsa cosa fatta! Siamo in dirittura di arrivo, verrà accolto come un liberatore dalle incongruenze, dalle disfunzioni, dall’immobilismo, dalle lapidazioni mediatiche, ho ingenuamente pensato tutte le mattine appena aperti gli occhi. Perché il Guardasigilli è un serio liberale che non dimentica la parola data, perché ha subito sciorinato i suoi progetti di riforma del sistema giustizia, a partire dalla non negoziabile separazione delle carriere - non negoziabile, così ha detto ripetutamente - e da un forte scossone ai tempi processuali, in quanto si sa che procedimenti imbalsamati per anni costituiscono nient’altro che denegata giustizia. Mi aspettavo solo ovazioni ma non le ho sentite. Molte le critiche per la ventilata abolizione dell’abuso d’ufficio, nonostante la pervicacia con cui la giurisprudenza ha usato tutti i sistemi, da sempre, per frustrare i ripetuti tentativi di tipizzazione fatti dal legislatore, perfino cercando di ampliarne l’oggetto con un inaudito richiamo all’articolo 97 della Costituzione, ma questa è un’altra storia. Mi aspettavo ovazioni, visto quello che pare un grave e consolidato stato di dissesto della nostra giustizia, e invece incredibilmente l’anm ancora una volta ha espresso intransigente contrarietà alla separazione delle carriere nella mozione finale 12 maggio 2024 del 36° Congresso di Palermo. Ogni persona dovrebbe leggerla, codesta mozione, per capire quali sono i veri problemi della giustizia, quale è l’attuale gradiente del suo distacco dalla realtà, come funzionano i mulini a vento e così via. Ad esempio, udite udite, potrà rilevare che, nella a dir poco drammatica situazione di perniciosa lentezza in cui versa, vicina allo stallo, nulla dice sul come e cosa modificare per un miglioramento ma, anzi, difende quell’esistente malato esemplarmente disfunzionale con assoluta intransigenza. Rassicurando, mah, che non demanderanno nulla all’intelligenza artificiale. Aggiungendo, di primo acchito in difformità dai dati statistici più volte pubblicati ma poi si precisa che il riferimento è “al prezzo di sangue” pagato per fortuna tanto tempo fa, che la magistratura gode di credibilità e di fiducia presso i cittadini. Tace invece sui grossolani errori giudiziari che si palesano dopo anni di calvario, sui plateali abusi istruttori tipo quello perpetrato nel processo Eni-nigeria, sui pm che si innamorano delle proprie fantasie e continuano all’infinito per non dover rendere conto, sulle guerre ai fenomeni… nessuna parola se non la rivendicazione di libertà di interpretazione e di autonomia ed indipendenza, incomprensibile visto che si tratta di valori condivisi da tutti. Sta di fatto - non possiamo non tentare di consolarci - che la nomina del guardasigilli Nordio è comunque servita, anche alla luce degli argomenti di chi gli si oppone, a fare chiarezza su tante cose. Esempio, che non tutti si rendono conto che, sostituendo radicalmente nel 1988 il vecchio codice inquisitorio con quello tendenzialmente accusatorio, tutto ci si poteva aspettare ma non l’inaccettabile sgorbio di un sistema giustizia zoppo che entra continuamente in risonanza e denega qualsiasi risposta. E dunque che molti auspicano che il vigente sistema giustizia resti così come è. E dunque che molti pensano che nel nostro paese la giustizia funziona soddisfacentemente, anche perché i nostri pm, grazie a Dio e all’unicità di carriera, si avvantaggiano della cultura della giurisdizione. Ma come è possibile? E gli errori ed orrori sopra ricordati da dove saltano fuori? E le misure cautelari e quelle di sicurezza che guadagnano sempre più terreno sul processo perché le sentenze definitive non arrivano mai? E le indagini preliminari che durano anni senza che sia effettuato un atto garantito? E la lentezza, con legge Pinto tanto al quadrato da aver imposto l’art. 55 del DL n. 83 del 2012, che ci ha reso famosi nel mondo? E le veline che, passate ai media da chi incolpa, massacrano per l’eternità con efficacia immediata? Incredibile la radicale opposizione a Nordio, un ministro che, come tutte le persone dabbene, desidera che la giustizia funzioni e torni a essere autorevole. Un ministro che finalmente, cercando di aiutare un sistema giustizia strutturalmente disfunzionale partendo dalle fondamenta, intende solo allinearsi al resto del mondo eliminando errori e omissioni. La sua determinazione nel voler separare le carriere fa sperare, il pregresso rapporto di colleganza fa pensare che l’ordine non riuscirà a intimidirlo, supererà il lutto della mancanza di ovazioni perché non pare… del tutto sprovveduto. È però palese che, se si dovesse perdere questa felice occasione congiunturale, si rischierebbe di restare tra i paesi “impresentabili” per le prossime due o forse tre generazioni, con buona pace per figli, nipoti e discendenti. Mi sono sempre chiesto perché nella magistratura prosperasse una così forte e ostinata opposizione alla separazione delle carriere, “responsabilità più leggera se condivisa” diceva un vecchio procuratore della Repubblica mio caro amico e soggiungeva “ma anche questione di archetipi, una cosa è Salomone una cosa è un minestrone”. Non ho mai ben capito che cosa intendesse. *Ex magistrato Il sorteggio “secco” per il Csm è uno schiaffo che lede l’onore dei giudici di Liana Milella La Repubblica, 27 maggio 2024 La magistratura sarebbe l’unica categoria professionale deprivata del diritto di voto e di scelta della propria rappresentanza. Contro una riforma costituzionale inutile e inaccettabile si lotta. Ma contro uno schiaffo che lede l’onore che si fa? Si ricorre ai duelli di ottocentesca memoria? Si lancia una sfida in campo aperto? Si corre al Colle da Sergio Mattarella? Perché è proprio un ceffone gratuito e irriverente quel sorteggio “secco” delle toghe che poi dovrebbero entrare a far parte del futuro Csm. Arriverà il 3 giugno con la riforma costituzionale della giustizia. Mossa preelettorale che Forza Italia ha imposto a Meloni. Della serie, “il premierato a te, l’autonomia a Salvini, e le carriere divise a noi”. L’attuale Costituzione è limpida, all’articolo 104 per il Csm parla di “componenti eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie”. Una “elezione” che li pone alla pari con gli altri componenti del Csm, i laici, “eletti” anch’essi “dal Parlamento in seduta comune”. Figure paritetiche, frutto di una scelta libera dei rispettivi elettori. E invece che fa il Guardasigilli Carlo Nordio? Il collega tra i colleghi come ama dipingersi quando, di continuo, vagheggia il suo passato con la toga addosso? Impone il sorteggio “secco” a diecimila magistrati italiani. Che diventeranno gli unici cittadini privati del diritto di voto e di scelta. Un ceffone soltanto? Peggio, una questione d’onore. Inaccettabile perché vendicativa. Viene fuori un’onta, la privazione di un diritto primario, giusto dalle mani di un magistrato che veste i panni di ministro e che non fa altro che autocitare la sua precedente vita, nella quale non era amato dai colleghi. Uno sfregio costituzionale che non ha pari. Che certo uno sciopero non potrà cancellare. Potranno farlo solo gli italiani con una valanga di no contro la presunta riforma costituzionale della giustizia. Su cui proprio il Quirinale sta cercando di mettere degli argini sconsigliando due Csm nettamente separati. Il diritto di voto è sacro. Cancellarlo significa andare oltre il valico della decenza. In questo caso significa solo una cosa. Che non è certo quella di battere il correntismo. Perché se davvero le correnti sono così forti come la politica le dipinge, un’idra a più teste, una volta sorteggiati i membri del Csm potranno spartirseli comunque. Lo scopo del sorteggio invece è solo quello di offendere i giudici e i pm che in Italia garantiscono la legalità. Presentandoli così al cittadino come una categoria di reietti. È la traduzione del disprezzo della politica di destra per delegittimare chi si batte contro i mafiosi e i corrotti. È lo sfregio vile di chi vuole vendicarsi per le indagini sulla corruzione, da Mani pulite in avanti. Test psicoattitudinali e sorteggio sono le due facce della stessa medaglia. Della serie, questi giudici sono pazzi, quindi gli leviamo anche il diritto di voto. La prossima mossa sarà quella di cancellare l’intera categoria. A partire dai pm sotto il potere esecutivo. Poveri giudici, e povera Italia. Riforme drastiche per la giustizia di Luigi Labruna La Repubblica, 27 maggio 2024 Non c’era nessuno a riceverlo a Napoli. Né un pomposo ministro, né un sottosegretario. E al suo domicilio non è andato nessun “democratico” addetto a parlare di diritti violati in tv. È mancato persino l’alto monito alla magistratura a “recuperare la fiducia dei cittadini”. Nessuno lo ha candidato. Vicende inquietanti come la sua in Italia sono talmente normali e frequenti da non interessare nessuno se non coinvolgono avversari o non sono scabrosi. Cose estranee al caso iniziato nel 1993 (31 anni fa) quando il professore Mario Como, di Ingegneria della Federico II, diede - con gli altri due membri della III commissione del Consiglio superiore dei lavori pubblici (Cslp) - parere favorevole al progetto di costruzione del “faro dei piloti” del porto di Genova, abbattuto nel 2013 dall’impatto col molo della Jolly Nero. Ci furono nove morti e, nel processo che seguì, pesanti condanne a staff della nave, armatore, ecc. Nel 2016 si aprì un processo bis con imputati, tra gli altri, per omicidio e crollo colposi, Como e i colleghi del Cslp, condannati nel 2020 a un anno e 6 mesi solo per il crollo. In appello (marzo 2023) Como e un altro ingegnere sono stati assolti con formula piena (il terzo era morto): sentenza confermata dalla Cassazione il 6 maggio scorso. Il professore aveva 59 anni quando espresse il parere “legittimo” che gli ha rovinato la vita: ora di anni ne ha 89 e può considerarsi fortunato. Tanti altri innocenti se la sono vista ben peggio. Repubblica del 22 scorso ricorda che in Italia “i casi di ingiusta detenzione e di errori giudiziari sono moltissimi”: in media “951 all’anno”. E cita il caso Zuncheddu: “33 anni passai in carcere da condannato all’ergastolo; assolto nel 2024 nel processo per revisione”. Dario Del Porto ha illustrato poi il caso dei fratelli Diana di Caserta, “eroi dell’anticamorra” spinti nel 2019 nel pozzo oscuro di un’imputazione per “concorso esterno in associazione mafiosa”: rovinati e poi assolti “perché il fatto non sussiste”. È giustizia questa? È giustizia “da non riformare”? Chiedere riforme drastiche - che inizino almeno col porre accusa e difesa in condizione di “vera” parità rispetto al giudice - è “stare con la destra” e non “con la sinistra”? No. È solo stare con la democrazia, i diritti violati, la costituzione. Brescia, 28 maggio 1974 ore 10:12, inferno a piazza della Loggia di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 27 maggio 2024 Dopo mesi di violenze e attentati, i sindacati e tutti i partiti dell’arco costituzionale scendono in piazza contro il neofascismo nella città lombarda. Una bomba nascosta nel cestino dei rifiuti falcia la vita di otto persone, oltre cento i feriti. A Brescia la mattina del 28 maggio 1974 piove a dirotto, in città si sta svolgendo una manifestazione antifascista organizzata dalle principali organizzazioni sindacali, Cgil, Cisl e Uil, quattro cortei che confluiscono nella centrale Piazza della Loggia dove, alle 10 in punto, sono previsti gli interventi degli oratori dal palco, montato davanti al palazzo municipale. Una fitta schiera di ombrelli si assiepa al centro della piazza, in molti trovano riparo sotto i portici in attesa che partano i comizi. Alla manifestazione partecipano un po’ tutti i partiti dell’arco costituzionale, i comunisti, i socialisti, i repubblicani, anche la Democrazia cristiana, con l’eccezione del Movimento sociale italiano accusato di fomentare e coprire le trame oscure del terrorismo fascista. La paura di una svolta autoritaria nel nostro paese in quel passaggio storico era tangibile, incombente, era accaduto in Grecia nel 1967 con il colpo di Stato dei colonnelli, era accaduto in Cile l’anno precedente con il golpe di Pinochet. Tutti ricordano inoltre i tentativi veri o presunti di rovesciare l’ordine democratico con il Piano Solo (1964) e il fallito golpe Borghese (1970). Eppoi c’erano state le altre stragi, quelle italiane tanto sanguinose quanto avvolte nel mistero: il 12 dicembre 1969 la bomba alla sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano (17 morti 88 feriti), il 22 luglio 1970 un altro ordigno fa deragliare all’altezza di Gioia Tauro il treno direttissimo per Torino proveniente dalla Sicilia (sei morti, sessanta feriti), il 31 maggio 1972 una Fiat 500 imbottita di esplosivo uccide tre carabinieri a Peteano, in provincia di Gorizia. È la strategia della tensione, portata avanti da menti e mani occulte nel labirinto dell’eversione nera e dei servizi deviati. Stragi di Stato vennero chiamate anche se le verità giudiziarie non sempre hanno combaciato con le ipotesi di complotto, anche per colpa dei depistaggi successivi. Nel Bresciano, nei mesi precedenti il 28 maggio, tutta una sequenza di violenze e attacchi che i sindacati e le organizzazioni di sinistra non esitano a definire di matrice “neofascista “: il 16 febbraio una bomba devasta l’entrata della Coop di viale Venezia, a rivendicarla un volantino della Sam (Squadre di azione Mussolini), il 27 febbraio a Lumezzane viene data alle fiamme la sede del Sindacato unitario dei metalmeccanici, l’8 marzo altre due bombe sono rinvenute all’interno della Chiesa delle Grazie, il 14 marzo a Leno un ordigno colpisce il palazzo della Cisl, il 14 marzo cinque bombe vengono ritrovate in un parco pubblico di Brescia, l’8 aprile ancora colpi d’arma da fuoco contro la Coop, il 27 aprile la polizia sventa un attentato contro la sede locale del Psi di largo Torrelunga; il primo maggio, festa dei lavoratori, un altro fallito attentato contro la Cisl: davanti l’ingresso della sede, una borsa di tela con otto candelotti di dinamite già innescati; il 18 maggio a piazza del Mercato perde la vita un militante neofascista di 21 anni, si chiamava Silvio Ferrari e trasportava una bomba sul pianale della sua Vespa Primavera. È per rispondere a questa escalation di provocazioni che i sindacati convocano i cortei del 28 maggio, ma in pochi pensano che quella manifestazione potesse essere oggetto lei stessa di un brutale attentato. La polizia non ravvisa particolari rischi, non ci sono misure di sicurezza eccezionali, procede a un’ispezione di routine del palco dove intervengono gli oratori, ma gli agenti non controllano la piazza, in particolare nessuno pensa alle cassette metalliche portarifiuti appoggiate sotto i portici: erano state svuotate prima delle 7 dai netturbini. Quando prende la parola il sindacalista della Cisl Franco Castrezzati sono le 10.08, nel suo intervento attacca frontalmente l’Msi e il suo segretario Giorgio Almirante “lugubre servitore degli ideali nefasti della repubblica di Salò che ordiva fucilazioni e repressioni”, affermando che il suo partito dovrebbe essere messo fuorilegge perché erede diretto e mai pentito del ventennio mussoliniano. Sei minuti dopo, alle 10.12, Castrezzati pronuncia la seguente espressione: “A Milano...”, poi un’esplosione, improvvisa e terribile, squarcia l’aria: una bomba al tritolo deflagra nella parte est della piazza, nascosta proprio all’interno delle cassette portarifiuti sotto le colonne del porticato che le forze dell’ordine non hanno voluto controllare. La scena è apocalittica, un mare di sangue ovunque, pezzi di corpi smembrati, urla di disperazione e richieste di aiuto che coprono i lamenti dei feriti agonizzanti, l’effetto dell’esplosione viene aumentato dalla densità dei partecipanti, addossati l’uno all’altro come sardine. Dal palco Castrezzati invita i compagni a stare fermi, a mantenere la calma e a rimanere all’interno della piazza, bisogna evitare che nel panico qualcuno rimanga schiacciato ma non è facile, in pochi minuti arrivano le ambulanze e a quel punto i manifestanti vengono fatti defluire verso la vicina piazza della Vittoria. Il bilancio sarà di otto morti e oltre cento feriti. Le vittime sono Giulietta Banzi Bazoli, 34 anni; Livia Bottardi in Milani, 32 anni; Alberto Trebeschi, 37 anni; Clementina Calzari Trebeschi, 31 anni; Euplo Natali, 69 anni; Luigi Pinto, 25 anni; Bartolomeo Talenti, 56 anni; Vittorio Zambarda, 60 anni. Alle 13.00, terminata la fase dei soccorsi, gli idranti dei vigili del fuoco puliscono la piazza, un’operazione che sembra normale a tutti, anche alla piccola folla di lavoratori che si trova ancora all’interno di Piazza della Loggia. Solo che quegli idranti, giunti sul luogo dell’esplosione prima della polizia scientifica, cancellano per sempre le tracce e i reperti dell’ordigno, un atto irresponsabile che complicherà ulteriormente le indagini e i processi giudiziari che seguiranno negli anni. Cinquant’anni di processi, depistaggi e colpi di scena. E una verità ancora parziale di Rocco Vazzana Il Dubbio, 27 maggio 2024 Cinquant’anni, una serie impressionante di istruttorie e processi e una verità ancora parziale. La storia giudiziaria della strage di Piazza della Loggia sembra non finire mai. Un cammino lungo e accidentato, caratterizzato da errori, depistaggi accertati e colpi di scena improvvisi. Due, ad oggi, i responsabili individuati e condannati all’ergastolo in via definitiva nel 2017: Carlo Maria Maggi, esponente di spicco dell’organizzazione neofascista Ordine Nuovo, deceduto nel 2018, considerato il mandante dell’attentato, e Maurizio Tramonte, militante ordinovista e già informatore del Sid (i servizi segreti per la Difesa) noto come “Fonte Tritone”, ritenuto uno degli esecutori materiali. Ma a 50 anni di distanza pendono ancora due processi per accertare altre responsabilità di quel tragico 28 maggio 1974: uno presso il Tribunale dei minori di Brescia, nei confronti del sessantasettenne Marco Toffaloni, di poco minorenne nel giorno della strage, e uno a carico di Roberto Zorzi, nel frattempo diventato cittadino americano. L’unica certezza consegnata alla storia e alle aule di tribunale è che quel bagno di sangue fu concepito dai neofascisti veneti di Ordine Nuovo, che potevano contare su molte braccia a Brescia e tante complicità negli apparati dello Stato. Quegli stessi apparati che hanno contribuito a rendere quasi impossibile l’individuazione di tutte le tessere di un puzzle complicato fin dalle prime ore successive a quel botto. È quello che la sentenza della Corte d’Assise d’appello di Milano (poi confermata in Cassazione) nel 2016 definisce “opera sotterranea” condotta da un “coacervo di forze” che di fatto ha reso “impossibile la ricostruzione dell’intera rete di responsabilità”, con un risultato devastante “per la dignità stessa dello Stato e della sua irrinunciabile funzione di tutela delle istituzioni democratiche”. L’inchiesta parte subito monca, condizionata dalla scelta improvvida del vice questore di Brescia, Aniello Diamare, di far lavare la piazza da un’autobotte dei pompieri a due ore dalla strage. Il lavaggio, disposto prima ancora dell’arrivo del magistrato, porta alla dispersione dei reperti essenziali, tanto che il collegio dei periti potrà stabilire solo in modo assai approssimativo la natura e la quantità dell’esplosivo impiegato. Il primo filone di indagini e il primo processo, terminato nel 1979, si concentrano su un livello locale della possibile pianificazione e realizzazione della strage. È il mondo che ruota attorno a Ermanno Buzzi e Angelino Papa, esponenti della galassia neofascista e malavitosa. Più teppaglia che militanti politici capaci di pianificare una strage. Buzzi è un noto traffichino e ladro di opere d’arte, ad accusarlo è Luigi Papa, padre di Angelino e Raffaele: dice di aver saputo in altre circostanze che Buzzi ha messo delle bombe in piazza Loggia. Le condanne sono pesanti: l’ergastolo per Buzzi, 10 anni e 6 mesi per Angelino Papa. La Corte d’Assise d’appello bresciana però assolverà tutti. Buzzi incluso, anche se da deceduto, perché nel frattempo è stato assassinato nel carcere di massima sicurezza di Novara dai neofascisti Pierluigi Concutelli e Mario Tuti: lo strangolano utilizzando i lacci delle scarpe. “L’ipotesi è che Buzzi sia stato ucciso per aver preannunciato di voler parlare al processo d’appello”, spiega Michele Bontempi, avvocato di parte civile al processo sulla Strage. “Tuti e Concutelli, da parte loro, hanno sempre detto di averlo ucciso, invece, perché era un “infame”, un delatore, un informatore di Carabinieri”. Il 30 novembre del 1982, però, la Cassazione annulla la sentenza di secondo grado bresciana e dispone l’invio degli atti alla Corte di Assise di appello di Venezia per un nuovo processo. Si concluderà con assoluzioni a pioggia per insufficienza di prove. Ma a seguito di una serie di nuove rivelazioni di esponenti della destra carceraria, nel marzo del 1984, si apre una nuova istruttoria a Brescia. Al centro delle indagini Cesare Ferri, già finito sotto la lente d’ingrandimento della magistratura nel 1974 e poi prosciolto. L’iter processuale terminerà in un nulla di fatto anche questa volta. Ci vorranno tanti altri anni e tanti altri processi per ricostruire almeno un pezzo di questo puzzle e individuare due colpevoli nel 2017. “Le prove importanti a carico di Maggi sono tre. Una generica, cioè il ruolo: era a capo di Ordine Nuovo Veneto e quindi aveva un ruolo preminente e decisionale”, dice ancora Bontempi. Poi ci sono i dettagli contenuti nei “famosi appunti della Fonte Tritone, cioè gli appunti informativi scritti dal maresciallo Felli sulla base di un racconto ricevuto da Tramonte che si qualificava come informatore”. È da quegli “appunti” che salta fuori “una riunione avvenuta tre giorni prima della strage ad Abano Terme, a casa di Gian Gastone Romani, esponente dell’estrema destra, nel corso della quale si è deciso di realizzare la strage in quei termini”. Tramonte descrive quella riunione “come un monologo di Maggi, quindi Maggi assume la posizione di chi decide sostanzialmente che quel famoso attentato nel Nord Italia doveva essere fatto a Brescia il 28 maggio”, racconta ancora l’avvocato Bontempi. C’è infine una terza prova: un’intercettazione ambientale del 1995 tra i “camerati” Raho e Battiston. “Nel maggio 1974 si trovavano a Venezia e frequentavano lo stesso ambiente di Maggi”, continua il legale. “I due parlano a ruota libera, non sanno minimamente di essere intercettati. Hanno saputo che Carlo Digilio, uno dei pentiti che accusa Maggi, ha iniziato a collaborare, e dicono di aver appreso proprio da Digilio che il giorno prima della strage, Marcello Soffiati, altro personaggio vicino a Maggi, era partito per Brescia con una valigia piena di esplosivo. Temono che Digilio possa dire la verità anche sulle cose grosse, cioè su piazza della Loggia. Temono di essere tirati in ballo”, ricostruisce l’avvocato di parte civile. Cosa aspettarsi dunque dall’ultimo filone ancora aperto sulla strage di Brescia? “Che gli imputati vengano condannati se ci sono prove e che vengano assolti in caso contrario. L’importante è che vengano confermati la matrice della strage e l’ambiente nel quale è maturata”, conclude Bontempi. Così iniziò la stagione della strategia della tensione di Paolo Delgado Il Dubbio, 27 maggio 2024 C’è una data precisa che per gli storici segna l’inizio della strategia della tensione in Italia: sono i giorni fra il 3 e il 5 maggio 1965, quando si svolse a Roma, all’Hotel Parco dei Principi, il convegno organizzato dall’Istituto di Studi Militari Alberto Pollio sulla “Guerra Rivoluzionaria”. Il convegno, più che della guerra non convenzionale, si concentrò sulle strategie, effettivamente tutt’altro che convenzionali, con le quali contrastare non solo l’eventuale guerriglia ma qualsiasi forma di avanzata del comunismo. Il convegno non rimase nel campo delle dissertazioni teoriche. Già l’anno dopo l’Ufficio Affari Riservati del Viminale, guidato da Filippo Umberto d’Amato, organizzò l’affissione di massa di manifesti filocinesi, con l’obiettivo di indebolire il Pci filosvietico. A una quantità di ufficiali furono inviati opuscoli, stilati da Franco Freda, che incitavano le forze armate a costituire Nuclei per la difesa dello Stato. Il Capo di Stato maggiore della Difesa Giuseppe Aloja promosse nell’esercito i “corsi d’ardimento” per preparare i soldati alla guerriglia. Il capo di Stato maggiore dell’Esercito, generale De Lorenzo, si oppose e lo scontro tra i due generali, combattuto a colpi bassi, facendo scoppiare scandali dall’una e dall’altra parte, portò alla scoperta del dossieraggio di massa operato dal Sifar e poi a quella del golpe minacciato nel 1964 dal presidente della Repubblica Segni. Nel 1969 il clima politico era ideale per la fioritura di quella strategia. Dopo il golpe in Grecia del 1967 praticamente tutto il sud dell’Europa era costellato da regimi neofascisti. Gli apparati dello Stato adoperavano senza ritegno la manovalanza per operazioni di infiltrazione e provocazione. I neofascisti si prestavano pensando di poter adoperare loro l’alleanza con lo Stato per i propri fini eversivi. Nella situazione di disordine sociale creata dal ‘68 l’asse tra apparati dello Stato e neofascisti alzò il tiro. Il 25 aprile a Milano scoppiarono due bombe, una alla Fiera di Milano, l’altra alla stazione centrale. Erano attentati che miravano a fare rumore, non ancora a fare vittime. L’8 e il 9 agosto esplosero 8 bombe piazzate su altrettanti treni: non ci furono vittime ma una dozzina di feriti. Per tutti gli attentati sono stati condannati Franco Freda e Giovanni Ventura, esponenti dell’estrema destra veneta. Passano di solito per “ordinenovisti” anche se in realtà non facevano parte di Ordine Nuovo. La bomba alla Banca nazionale dell’Agricoltura del 12 dicembre 1969 cambiò tutto. Stavolta fu una strage che costò 12 vittime. Tra Roma e Milano esplosero quel giorno altre 4 bombe. Lo Stato perse buona parte della propria credibilità accusando degli attentati un piccolo gruppo di anarchici che risultò poi oltretutto infiltrato sia dai neofascisti di Avanguardia Nazionale che dai servizi segreti. La responsabilità della strage di Freda e Ventura è stata accertata ma i due essendo stati assolti in un processo precedente, non potevano più essere condannati. I legami con un uomo dei servizi come Guido Giannettini, in realtà più un infiltrato fascista nei corpi dello Stato che non il contrario, e con i servizi segreti militari americani, per il tramite di un altro neofascista, Carlo Digilio, sono altrettanto certi. Impossibile invece chiarire se l’ordine della strage sia partito dallo Stato, come è fortemente improbabile, o se siano stati i neofascisti, sentendosi al sicuro per le commistioni con lo Stato a scegliere di alzare il tiro. La stagione delle stragi e la vera strategia della tensione iniziarono quel giorno. Nei cinque anni successivi ci furono innumerevoli attentati esplosivi di cui 140 di livello superiore. In alcuni casi finì di nuovo in strage, in molti altri ci si arrivò a un pelo. Il 22 luglio 1970, poco dopo l’esplosione della rivolta di Reggio Calabria, venne fatto deragliare, all’altezza di Gioia Tauro, il Treno del Sole. Le vittime furono 6, i feriti 66. In un primo momento il deragliamento fu attribuito a un incidente, ancora oggi le origini della tragedia, che fu comunque dolosa, non sono accertate anche se l’esplosivo appare di gran lunga la più probabile. Il 31 maggio 1972 un’autobomba uccise tre carabinieri a Peteano. A piazzare la bomba era stato il militante di Ordine Nuovo, passato anche per le file di Avanguardia Nazionale, Vincenzo Vinciguerra. È l’unico reo confesso, ha sempre rifiutato di chiedere misure alternative alla detenzione e ha sempre sostenuto di aver deciso l’attentato come atto rivoluzionario e non come parte della strategia della tensione, in quanto quest’ultima mirava a rinsaldare e non rovesciare il potere costituito. Il 17 maggio 1973, mentre il ministro dell’Interno Rumor inaugurava davanti alla Questura di Milano il monumento al commissario Luigi Calabresi, ucciso un anno prima, Gianfranco Bertoli lanciò una bomba che uccise 4 persone e ne ferì 52. Bertoli era un anarchico e ha sempre sostenuto di aver agito da solo. Era però certamente in contatto con l’area neofasciscista veneta già responsabile della strage di piazza Fontana ed era stato per tutti gli anni 50 un informatore dei servizi segreti. Prove in grado di portare a condanne non se ne sono però trovate. La mattanza più grave, fino a quel momento, fu quella del 28 maggio 1974 a Brescia. La bomba esplose nel corso di una manifestazione antifascista, le vittime furono 8, 102 i feriti. È possibile che l’obiettivo fossero i reparti dei carabinieri, che avrebbero dovuto trovarsi nel luogo dell’esplosione. Al termine di una vicenda giudiziaria lunghissima e articolata in tre procedimenti sono stati condannati infine alcuni esponenti della solita cellula neofascista veneta e un informatore dei servizi segreti, Maurizio Tramonte. L’ultimo e più grave attentato si verificò appena pochi mesi dopo, nella notte fra il 3 e il 4 agosto, sul treno Italicus. L’esplosione uccise 12 persone. I neofascisti inquisiti, in particolare Mario Tuti, sono stati tutti assolti. La definizione “strategia della tensione” rischia di trarre in inganno ed è stata in effetti spesso fuorviante. Sembra indicare una regia unica e un’azione coordinata. La realtà è diversa. In quei cinque anni agirono in Italia nuclei e centrali diversi, spesso privi di collegamenti o legati in modo labile. Di strategia però è lecito comunque parlare perché tutte quelle aree distinte avevano in comune un anticomunismo che non faceva alcuna distinzione tra il Pci e i gruppi rivoluzionari e tutte ritenevano opportuno e possibile uno sbocco autoritario, sia pure in versione tra loro molto diverse, della crisi italiana. Quando fu evidente che quella possibilità non c’era più, dopo la caduta dei regimi in Grecia Spagna e Portogallo e del presidente Nixon negli Usa, la strategia della tensione si chiuse e la violenza politica in Italia prese connotati molto diversi. “Mia madre Giulietta, morta a 35 anni in quella piazza: ai giovani parlo di lei” di Simona Musco Il Dubbio, 27 maggio 2024 Il senatore dem Alfredo Bazoli aveva solo 4 anni quando l’ordigno si portò via sua madre, insegnante e sindacalista. Ventotto maggio 1974. Giulietta Banzi Bazoli, madre di Beatrice (9 anni), Guido (6 anni) e Alfredo (4 anni), si sveglia presto. Prepara la colazione ai bambini, poi li bacia e si infila in macchina, una Renault 5 che la porterà a piazza della Loggia. Deve - vuole - partecipare alla grande manifestazione contro le violenze che stanno insanguinando il Paese. Lei, insegnante di francese al liceo Arnaldo, sindacalista della Cgil scuola, amatissima dagli alunni, ha soli 35 anni quando entra, suo malgrado, nella storia di questo Paese. In piedi, col pugno alzato, “contro il terrorismo neofascista”, mentre si ripara dalla pioggia vicino ad un cestino dei rifiuti in cui i terroristi di Ordine nuovo hanno lasciato una bomba, che deflagrerà lasciando a terra otto morti. Ci sono Alberto e Clementina Trebeschi, Livia Bottardi Milani, Luigi Pinto, tutti insegnanti. Vittorio Zambarda, un muratore comunista appena andato in pensione, l’ex partigiano Euplo Natali e Bartolomeo Talenti, sindacalista della Flm. E c’è anche Giulietta a terra, senza vita. Giulietta la sindacalista, l’insegnante, la madre di Alfredo Bazoli, avvocato e senatore dem, che come ogni anno racconterà di sua madre e del buco nero che ha inghiottito l’Italia in quegli anni neri. Che ricordo ha di sua madre, del giorno della strage? In realtà questa domanda ha una risposta piuttosto breve. Ero solo un bambino, avevo quattro anni e mezzo, e non ho ricordi né di quel giorno né di mia madre in particolare. Tutti i ricordi, purtroppo, sono stati un po’ cancellati nel corso del tempo. Ho qualche flash, ma molto, molto sbiadito. Ha avuto modo di ricostruire il ricordo di quel giorno attraverso il racconto dei suoi familiari e di chi conosceva sua madre? È stato mio padre a raccontarmi come andarono le cose. Mia madre era una sindacalista della scuola, insegnava francese al liceo Arnaldo, il liceo classico della città. Era impegnata sia politicamente sia sindacalmente: era un’appassionata anticonformista, molto amata dei suoi studenti per la sua capacità di essere molto diversa dai soliti professori paludati del tempo. Quella mattina era andata alla manifestazione in piazza della Loggia, organizzata da tutti i partiti antifascisti e anche dai sindacati per protestare contro quel clima di violenza eversiva che nella nostra città si avvertiva particolarmente acuto in quei giorni. Pochi giorni prima era saltato in aria un ragazzo di 20 anni, dell’estrema destra bresciana, che trasportava un ordigno di notte sul suo motorino, un ordigno destinato a qualche ulteriore attentato. Mia madre aveva deciso di partecipare, come altri migliaia di cittadini, alla manifestazione, unendosi ad uno dei cortei che si avvicinavano alla piazza da tre punti diversi della città. Quando arrivò, siccome pioveva e lei non aveva un ombrello, andò a ripararsi sotto i portici ed ebbe la sfortuna di andare proprio vicino a quel cestino dei rifiuti dove quella mattina qualcuno aveva riposto un ordigno collegato a un timer, che alle 10.12 fece detonare la bomba. Morì sul colpo, così, quella mattina, il 28 maggio 1974. Aveva solo 35 anni. Quell’episodio vi ha cambiato la vita... Sì, è stato uno spartiacque. La nostra vita, la mia è quella dei miei fratelli, è stata più che segnata, direi fortemente, indirizzata e quasi determinata da quell’evento. Quanto ha inciso anche nella sua scelta di fare politica? La famiglia di mio padre - che all’epoca era assessore all’Urbanistica della città di Brescia - per tradizione ha sempre avuto passione politica. Mio nonno fu deputato della Costituente, il mio bisnonno fu uno dei fondatori del Partito popolare di Don Sturzo, quindi per tradizione abbiamo sempre avuto una grande passione politica e civile. La mia scelta è maturata dentro questo contesto favorevole, diciamo, alla passione politica. Non credo che quell’evento, di per sé, sia quello che ha fatto scattare una molla particolare. Sicuramente, però, mi ha sempre dato una particolare sensibilità sui valori della democrazia che quella bomba aveva cercato di violare, di limitare. Cosa ha rappresentato per la storia del nostro Paese quell’evento storico? È un evento che si inserisce esattamente in quel periodo in cui lo stragismo tentò di condizionare l’evoluzione democratica nel nostro Paese e la sua storia politica. Ed è una stagione figlia di una presenza di forze occulte, nascoste, di neofascisti, pezzi di servizi segreti e pezzi di istituzioni che purtroppo, in qualche modo, hanno lavorato insieme perché si potesse condizionare e limitare la nostra libertà. E che hanno oltretutto impedito l’accertamento della verità: quella giudiziaria è giunta solo 43 anni dopo e si è scoperto, col tempo, che uno dei condannati era un infiltrato dei servizi segreti. È una vicenda clamorosa dal punto di vista delle responsabilità. Ha seguito il processo? Quando ero più giovane molto saltuariamente. Cercavo anche di non farmi troppo prendere da queste spire che rischiavano di portarmi sempre al 28 maggio del ‘74. Gli ultimi, invece, li ho seguiti molto più da vicino, così come sto seguendo i procedimenti che sono ancora in corso contro i presunti esecutori materiali della strage. Invece suo padre Luigi partecipava alle udienze? Sì, ma era una situazione diversa per lui. Per noi figli, per noi ragazzi, fratelli, stare troppo dentro questa vicenda, molto pesante da gestire emotivamente, sarebbe stata una cosa molto complicata. Ci siamo preoccupati della cosa una volta più maturi, più grandi, quando siamo stati più in grado anche di fare i conti con la necessità di capire meglio il contesto in cui tutto è avvenuto. Come mai suo padre quel giorno non era alla manifestazione? Ci stava andando, era un po’ in ritardo. Era rimasto a casa perché aveva alcuni appuntamenti telefonici e quindi era uscito un pochino più tardi. Sentì il botto della bomba mentre era per strada. Quando arrivò in piazza si accorse di quello che era successo: c’era gente che scappava, insanguinata, che urlava e vide una scena di guerra. Ma non vide mia madre, che era stata già caricata su un’ambulanza. Non si accorse subito che era morta e ci mise anzi diverse ore prima di sapere. Telefonò ovunque e solo dopo qualche ora fu informato dal suo amico di partito, che era presidente della provincia di Brescia di allora, Tarcisio Gitti. Toccò a lui il compito di dire a mio padre che tra le vittime c’era anche mia mamma. Come ha vissuto, suo padre, il fatto di essere scampato alla morte per caso? Come tanti di quelli che si trovavano in quella piazza lì, perché ovviamente la bomba ha colpito a caso, quindi chi si trovava sull’altro lato rispetto a quel cestino non venne colpito dall’onda d’urto e si salvò. Tutti quelli che erano in quella piazza si sentono dei sopravvissuti: stiamo parlando di migliaia di persone. Lei con queste persone ha avuto modo di parlare di quello che è successo? Ho parlato con tante persone, che mi hanno raccontato di quella storia, di quella vicenda. Col tempo, l’interesse a capire e sapere si è fatto molto più pressante e prevalente rispetto a qualunque altra considerazione. Lei il 28 maggio cosa farà? Di solito non vengo mai a Roma, rimango a Brescia per partecipare alle commemorazioni. Quest’anno ci sarà anche il Presidente della Repubblica. Ma ogni anno partecipo a tanti incontri nelle scuole, dove vado a parlare della mia esperienza ai ragazzi, cercando di trasmettere la memoria di quanto è accaduto. Cosa dice in particolare i ragazzi e come rispondono a questi racconti? Spiego la mia storia personale, racconto di mia madre, perché è l’unico modo per suscitare in loro una curiosità. Stiamo parlando di cose accadute 50 anni fa e non si può pretendere che i ragazzi sappiano o siano particolarmente interessati alla cosa. Però una volta che ascoltano la mia storia personale la curiosità scatta sempre. Ha mai parlato con qualcuno degli studenti di sua madre? Sì, ogni tanto mi capita ancora di incrociarne qualcuno. E tutti hanno un ricordo di lei pieno di nostalgia. Stop in Cassazione all’istanza di accesso alla giustizia riparativa di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2024 È inammissibile l’istanza di sospendere il processo per essere ammesso ai programmi di giustizia riparativa, proposta dal difensore dell’imputato dinanzi alla Corte di cassazione. Lo hanno stabilito i giudici di legittimità con la sentenza 18027 dell’8 maggio scorso. Il nuovo articolo 129-bis del Codice di procedura penale, introdotto dall’articolo 7, comma 1, lettera c) del decreto legislativo 150 del 2022 (riforma Cartabia della giustizia penale) prevede che in ogni stato e grado del procedimento il giudice può disporre, anche d’ufficio, l’invio della persona indicata come autore del reato e della vittima a un centro per la giustizia riparativa per lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa. L’articolo 45-ter delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale indica l’autorità giudiziaria competente a disporre tale invio. In fase di indagini preliminari provvede con decreto motivato il pubblico ministero; dopo l’emissione del decreto di citazione a giudizio e fino al momento in cui il fascicolo non viene trasmesso al giudice del dibattimento provvede il giudice per le indagini preliminari; fino alla trasmissione degli atti al giudice dell’impugnazione provvede il giudice che procede e che ha emesso la sentenza; infine, specificamente, la norma prevede che durante la pendenza del ricorso per cassazione, deve provvedere il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Alla luce della lettera della legge, durante la pendenza del ricorso per cassazione, quindi, l’istanza per l’avvio di un programma di giustizia riparativa non deve essere proposta al giudice di legittimità ma al giudice che ha emesso il provvedimento impugnato: sicché, essendo impugnata di solito con ricorso per cassazione una sentenza del giudice d’appello, il più delle volte (come peraltro nel caso esaminato dalla sentenza), la competenza rimane in capo alla corte d’appello. La Cassazione, con questa decisione, stabilisce per implicito che dinanzi a un’istanza presentata davanti all’autorità incompetente, quest’ultima non ha alcun obbligo di trasmetterla al giudice competente, ma anzi scatta la sanzione dell’inammissibilità. Ne deriva anche il fatto che il giudizio di cassazione non potrà mai essere sospeso in attesa dell’invio al centro di giustizia riparativa, perché, anche se l’istanza viene correttamente presentata al giudice che ha emesso la sentenza impugnata, non è possibile per il giudice di merito disporre la sospensione del giudizio di legittimità. Tuttavia, va ricordato che l’accesso a un programma di giustizia riparativa per iniziativa del condannato resta possibile nella fase dell’esecuzione della pena. Milano. L’inchiesta sulla giustizia minorile che ha anticipato il caso Beccaria di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2024 Le risse, il difficile lavoro degli educatori e quella violenza del 2022. Il 7 agosto 2022 tre giovani detenuti dell’Istituto Penale Minorile Beccaria di Milano sorprendono nel sonno il loro compagno di cella e lo sottopongono a reiterate violenze sessuali e torture: abusi perpetrati per più di due ore senza che nessuno intervenisse. Solo all’indomani l’educatore, venuto a conoscenza dei fatti durante il colloquio con il minore, ha provveduto alla segnalazione. Fin dal suo ingresso nell’Istituto la vittima aveva dimostrato difficoltà di adattamento all’ambiente penitenziario ed era stato collocato nel reparto infermeria, ma il giorno prima dell’aggressione, per “ragioni organizzative urgenti”, era stato trasferito nella cella di quelli che sarebbero diventati i suoi violentatori. “Chi li ascolterà?”, la video inchiesta finalista della dodicesima edizione del Premio Morrione per il giornalismo investigativo e vincitrice del Premio Libera giovani, parte dalla ricostruzione di questi fatti per denunciare le fragilità e l’inadeguatezza del sistema penitenziario italiano, specie nell’ambito della giustizia minorile. L’episodio, riprodotto dai disegni di Giuseppe Naselli, è lo stesso che ha dato impulso all’inchiesta, condotta dalle pm Rosaria Stagnaro, Cecilia Vassena e dall’aggiunta Letizia Mannella, che alcune settimane fa ha portato all’arresto e alla sospensione di 21 agenti della polizia penitenziaria: accusati a vario titolo di maltrattamenti e lesioni in danno di minori e concorso nel reato di tortura anche mediante omissione. Chi si occupa di giustizia minorile avverte che è necessario rivedere l’intervento educativo. Delle violenze subite e agite parlano i ragazzi che esprimono la loro sofferenza, se solo si è disposti ad ascoltare. È proprio attraverso questi racconti che si ottengono i primi indizi per risalire la filiera della riabilitazione sociale nelle carceri minorili che mostra più di una falla strutturale. L’inchiesta di Selena Frasson e Claudio Rosa è stata realizzata grazie al supporto dell’associazione Amici di Roberto Morrione. Tutor giornalistico: Pietro Suber. Roma. Diritto alla salute: nuove sale operatorie e telecardiologia a Regina Coeli di Antonella Barone gnewsonline.it, 27 maggio 2024 Due moderne sale operatorie consentiranno di effettuare nel Centro clinico dell’istituto penitenziario romano Regina Coeli interventi di chirurgia ambulatoriale, generale, odontostomatologica, plastica, dermatologica, ortopedica e di endoscopia digestiva. È uno dei nuovi servizi sanitari presentati stamani alla presenza del Presidente della Regione Lazio Francesco Rocca, del Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Maurizio Veneziano, della Direttrice dell’istituto Claudia Clementi e del Commissario Straordinario della ASL Roma 1 Giuseppe Quintavalle. Un investimento rilevante che ha consentito di dotare la struttura di apparecchiature elettromedicali all’avanguardia, allestire gli ambienti di cura con nuovi arredi e attivare un servizio di telecardiologia nell’area della radiodiagnostica. “L’attivazione di questi nuovi servizi è stata resa possibile da una straordinaria sinergia tra Regione Lazio, ASL Roma 1, INMP, ASL Roma 5 e dalla direzione della Casa circondariale - ha commentato Quintavalle - Con l’attuale apertura delle due sale operatorie, gli interventi di chirurgia saranno eseguiti in Istituto. La salute è un diritto di tutte le persone, libere o detenute, tutti dobbiamo avere le stesse opportunità di fronte alla malattia”. Il Centro SAI - Specialistica Ambulatoriale Interna dispone di 78 posti letti, più due posti letto dedicati alla salute mentale, un servizio infermieristico H24 e una cucina interna a cura della ASL Roma 1. Nel Centro Clinico è possibile sottoporsi ad accertamenti ematochimici, elettrocardiogramma, ecocardiogramma, holter cardiaco e pressorio, elettroencefalogramma, elettromiografia, doppler, spirometria, esame audiometrico, gastroscopia, colonscopia, ecografia, radiologia generale, esami oculistici e prestazioni odontoiatriche. Previsti anche screening per la ricerca di malattie infettive, per la prevenzione tumore del colon-retto e dell’epatite C. È inoltre possibile accedere a numerose visite specialistiche ed è attivo un servizio di telemedicina in cardiologia, diabetologia, e pneumologia. Pesaro. Lavoro e formazione in carcere, in arrivo il laboratorio di “Artigiani dentro” fanoinforma.it, 27 maggio 2024 Un luogo di formazione e reinserimento nella società attraverso il lavoro per i detenuti, un centro dove riparare elettrodomestici e biciclette per poi donarli alle comunità. Nasce con questa visione il laboratorio polifunzionale all’interno del carcere di Pesaro che presto aprirà le proprie attività. A renderlo possibile, l’associazione pesarese Bracciaperte, da 13 anni attiva negli istituti penitenziari regionali e nazionali, in variegate azioni a scopo socio lavorativo. I volontari stanno completando rifiniture e arredamento. Il nuovo spazio è la tappa di approdo del progetto più ampio “Artigiani dentro”, nato negli scorsi quattro mesi, periodo in cui l’associazione Bracciaperte si è impegnata a gestire la formazione di dodici detenuti attraverso un corso per tecnici di elettrodomestici realizzato col contributo di Cassa Ammende e il coordinato dall’ente formativo di Senigallia 9000uno. “Dopo la formazione, la Direzione del Carcere con il contributo dell’Ats1 ci ha dato il via all’ideazione del laboratorio polifunzionale”, spiega Mario Di Palma, presidente di Bracciaperte e responsabile, insieme a Katja Parcesepe, della docenza e della didattica del corso. Il laboratorio sarà un centro assistenza dove riparare prodotti donati e metterli a disposizione delle famiglie in difficoltà. Continua Di Palma: “Sono molteplici i benefici generati sul territorio da un progetto così importante, tra la formazione di detenuti, la riscoperta di vecchi mestieri, il recupero di frigoriferi, lavatrici, bici e altre apparecchiature, a favore della comunità”. Tutto ciò sarà garantito dalla presenza dei volontari di Bracciaperte e di altre associazioni coinvolte. “Il lavoro è alla base della dignità umana ed è il modo migliore per evitare la recidiva. Troppo spesso la pena è espiata senza che siano avviati percorsi per il reinserimento nella società”, continua Di Palma. Bracciaperte negli anni ha coinvolto circa millecinquecento detenuti nei propri laboratori, gestiti da volontari e da artigiani. Nel 2013 l’associazione ha vinto il riconoscimento “Coesione volontariato e impresa” della Regione Marche e nel 2021 le attività svolte durante il Covid le sono valse la premiazione a Roma alla Giornata internazionale del volontariato. Lo scorso anno insieme alla Fondazione Wanda Diferdinando e all’associazione Toc, Bracciaperte ha reso possibile “Stanza libera tutti”, una serie di azioni e incontri con i clown per migliorare gli spazi rivolti ai minori che fanno visita ai propri cari in carcere. Inoltre, Bracciaperte ha realizzato nell’istituto penitenziario di Pesaro e con l’associazione Isaia due corsi tecnici, di riparazione elettrodomestici e di meccanico bici e un laboratorio artistico per le scenografie di uno spettacolo dell’Aias di Pesaro. “Crediamo che la rete sia fondamentale affinché il Terzo settore possa raggiungere capillarmente quante più persone in difficoltà possibile. Per questo da anni incontriamo i ragazzi nelle scuole di vario ordine e grado per sensibilizzare il tema del volontariato e sono in tanti ad aderire ai nostri progetti - riflette Mario di Palma, che conclude con rammarico - Tuttavia occorre evidenziare come il tema del volontariato in carcere troppo spesso sia coperto da un velo di pregiudizi. Le attività formative e benefiche sono quasi sempre affidate al volontariato che opera quasi sempre autofinanziandosi e con risicate risorse. Da anni cerchiamo una sede dove realizzare un laboratorio che possa coinvolgere anche i giovani in abbandono scolastico. Ma ormai ci abbiamo rinunciato, rassegnandoci al fatto che continueremo i laboratori solo in carcere”. Biella. Vietato parlare di carcere. Cancellato l’evento con Altreconomia sulla salute mentale altreconomia.it, 27 maggio 2024 Martedì 28 maggio Luca Rondi avrebbe dovuto incontrare all’interno della Casa circondariale alcuni detenuti e un centinaio di studenti e studentesse delle scuole superiori per parlare di carcere, salute mentale e giornalismo. L’evento, in programma da mesi, è stato annullato senza chiare motivazioni. Un episodio di chiusura grave. Martedì 28 maggio il nostro Luca Rondi avrebbe dovuto partecipare a un incontro presso la Casa circondariale di Biella, intervistato da un gruppo di studenti delle Scuole superiori e da alcuni detenuti sul tema della salute mentale e del suo lavoro di giornalista. Un incontro programmato da mesi e già autorizzato dall’amministrazione penitenziaria, che era a conoscenza della tematica trattata. Venerdì 24 maggio, però, l’incontro è stato cancellato “causa i molti impegni istituzionali” e le “diverse criticità del periodo che richiedono la massima attenzione”, ed è stato rimandato “all’inizio del prossimo anno scolastico ovvero a data successiva da concordarsi”. Coincidenze particolari. La settimana prima della cancellazione abbiamo pubblicato i dati sull’utilizzo di psicofarmaci proprio nella struttura di Biella da cui emerge un quadro preoccupante. Secondo i dati pubblicati da Antigone nel 2023 quasi otto detenuti su dieci ne assumevano, secondo l’analisi dei dati forniti dall’Azienda sanitaria di Biella ad Altreconomia emerga una spesa a detenuto tra il 2021 e il 2022 molto elevata rispetto ad altri istituti italiani analizzati nella nostra inchiesta “Fine pillola mai”. A oggi non è pervenuta nessuna replica dall’istituto né dall’Azienda sanitaria. Così come l’annullamento dell’incontro, giunto senza chiarimenti o richieste di confronto. Da fonti non istituzionali siamo a conoscenza che la veridicità di quanto da noi pubblicato sarebbe stata messa in dubbio. Confermiamo quanto scritto nel pezzo segnalando una sola correzione: laddove abbiamo indicato che “in tre anni, 2020-2022, un farmaco su tre acquistato era uno psicofarmaco” c’è un’imprecisione perché i dati si riferiscono al 2018, 2021 e 2022. Non al 2020/2021/2022. La sostanza è la stessa. La decisione dell’amministrazione penitenziaria sull’evento di Biella sembra non riguardare in maniera puntuale l’oggetto dell’inchiesta ma forse una tendenza a una inaccettabile “chiusura” a priori del sistema. Luca Rondi ha lavorato sull’inchiesta “Fine pillola mai” per oltre dieci mesi analizzando dati ma soprattutto confrontandosi costantemente con chi le carceri le visita e le vede tutti i giorni - come Antigone - e con psichiatri e medici che operano all’interno dei penitenziari. Da ottobre 2023 in poi il lavoro non si è fermato. Abbiamo portato l’inchiesta alla Camera dei deputati e su tanti territori per raccontare il lavoro svolto e confrontarsi, nuovamente, con numerosissimi professionisti. Non ci siamo mai sottratti al confronto o alle critiche. Eppure oggi ci troviamo di fronte all’impossibilità di parlarne. L’aspetto più rilevante di questa triste vicenda riguarda gli oltre cento ragazzi e ragazze tra i 16 e i 18 anni che martedì 28 maggio avrebbero fatto ingresso in carcere. Da mesi alcuni di loro si occupavano di questo evento, preparato con l’aiuto dei docenti nei minimi dettagli e facendo anche ingresso nella struttura per conoscere i detenuti che avrebbero intervistato con loro Luca Rondi. Sono i ragazzi a pagare il prezzo più alto di questa decisione. Ed è paradossale in un contesto in cui il carcere soffre, soprattutto, perché è dimenticato e isolato dalla comunità. Pochi si interessano delle sorti di chi è recluso e delle diverse figure professionali che operano nelle strutture. Il messaggio che arriva a studenti e studentesse, che avrebbero varcato le soglie della Casa circondariale, è la sconfitta più grande. Gorizia. Giustizia e informazione, le nuove frontiere del giornalismo qui.uniud.it, 27 maggio 2024 Mercoledì 29 maggio, dalle 10, al polo di Santa Chiara. Dalla presunzione di innocenza, al diritto all’oblio, alla diffamazione. Quali sono le criticità che mettono a rischio oggi e domani il diritto di cronaca? Quali gli effetti della cronaca giudiziaria sull’opinione pubblica e le trasformazioni dell’opinione pubblica nell’era dei social? Sono questi gli argomenti che verranno affrontati a Gorizia, mercoledì 29 maggio, dalle 10, nel workshop “Il giornalismo oggi e domani. I temi della giustizia e l’informazione pubblica” nell’aula magna del polo di Santa Chiara (via Santa Chiara 1). L’incontro è organizzato dall’Ordine dei giornalisti e dall’Associazione della stampa del Friuli Venezia Giulia con l’Università di Udine. Nell’occasione saranno consegnati i riconoscimenti della terza edizione del Premio di laurea Piero Villotta riservato ai laureati dei corsi di laurea in Relazioni Pubbliche e in Comunicazione integrata per le imprese e le organizzazioni. I saluti - Porteranno i saluti iniziali, il delegato dell’Ateneo per la sede di Gorizia, Francesco Pitassio; il presidente dell’Ordine dei giornalisti del Fvg, Cristiano Degano; la promotrice del Premio, Adriana Ronco Villotta, giornalista e storica dell’arte; la coordinatrice dei corsi in Relazioni pubbliche e Comunicazione integrata per le imprese e le organizzazioni, Antonella Pocecco. L’incontro sarà coordinato da Renata Kodilja, docente dei corsi di laurea in Relazioni pubbliche e Comunicazione integrata per le imprese e le organizzazioni. I relatori - I lavori proseguiranno con gli interventi dei relatori. “Informazione e giustizia. Presunzione di innocenza, diritto all’oblio, diffamazione: tutte le criticità che mettono a rischio il diritto di cronaca”. È il tema che tratterà Gianluca Amadori, componente Comitato esecutivo dell’Ordine nazionale dei giornalisti, già presidente dell’Ordine dei giornalisti del Veneto. “Li chiamano processi mediatici. Ma la cronaca giudiziaria è un’altra cosa” è invece il titolo dell’intervento della giornalista Luana de Francisco, componente del Consiglio di disciplina territoriale dell’Ordine dei giornalisti Fvg. Di “Filtri, bolle, proiettili. Le trasformazioni dell’opinione pubblica nell’era dei media sociali” parlerà invece Daniele Ungaro, docente di sociologia dei fenomeni politici dell’Università di Udine. Gli interventi dei premiati - Apriranno la sessione dedicata ai vincitori del premio Piero Villotta i quattro laureati che hanno ricevuto la menzione speciale: Chiara Angeli, laureata in relazioni pubbliche, svilupperà il tema della sua tesi su “Influencer marketing: dinamiche evolutive nella relazione tra influencer e azienda”; Lia Crisiani, laureata in comunicazione integrata per le imprese e le organizzazioni, illustrerà la sua tesi su “Cineturismo e turismo fotografico: strumenti di marketing territoriale”; Francesca Maiorana, laureata in laureata in comunicazione integrata per le imprese e le organizzazioni, parlerà della sua tesi dedicata a “La memoria dell’occupazione sovietica in Lituania: il Museo delle occupazioni e delle lotte per la libertà di Vilnius”; Alberto Masetti, laureato in Relazioni pubbliche, esporrà la sua tesi su “L’ironia come strumento nella comunicazione e nella pubblicità”. Infine, la vincitrice del Premio Villotta, Martina Norbedo, laureata in Comunicazione integrata per le imprese e le organizzazioni, spiegherà la sua tesi su “Stigma sociale della detenzione e dinamiche di reinserimento”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Spettacolo per la Giornata Nazionale del Teatro in Carcere infosannio.com, 27 maggio 2024 Mercoledì 29 maggio 2024, alle ore 15.00, presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere “Francesco Uccella” si celebra la 62° Giornata Mondiale del Teatro e l’undicesima Giornata Nazionale del Teatro in Carcere con lo spettacolo teatrale “So pacchere e sorrise… favorite!” con Oscar Di Maio, Luciano e Massimo Salvetti, Anna Damasco (presentatrice) e l’accompagnamento musicale a cura dei maestri Nunzio Ricci e Sossio Giordano. Ancora una volta a promuovere l’evento sono l’Associazione Casmu di Carinaro, presieduta da Mario Guida, la Rassegna Nazionale di Teatro Scuola PulciNellaMente, di cui è direttore Elpidio Iorio, in stretta sinergia con i vertici della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere, diretta da Donatella Rotundo, e la responsabile dell’area pedagogica Giovanna Sansone Prosegue dunque l’impegno dei due sodalizi casertani all’interno delle strutture carcerarie per donare attraverso l’arte, un’occasione di solidarietà, speranza e spensieratezza a chi la vita ha riservato un destino non proprio clemente. Prima dello spettacolo, intellettuali, artisti e rappresentanti delle istituzioni rifletteranno sui notevoli benefici di questa forma d’arte teatrale che coinvolge migliaia di detenuti nelle carceri italiane e prova ad abbattere la barriera del pregiudizio fra il “dentro” e il “fuori” le mura. Lo spettacolo - con produttore Nicola Le Donne e tecnico di scena Luigi Savino - ha per protagonista Oscar Di Maio, mattatore della comicità, erede della dinastia teatrale partenopea, che, indossando gli abiti più noti dell’avanspettacolo, lascia cadere la sua maschera svelandosi per ciò che realmente è: un meraviglioso attore completo capace di cantare, recitare, ballare ed emozionare come pochi sulla scena. Lo farà coadiuvato dalla formidabile coppia dei fratelli Salvetti. Una carrellata di macchiette che partono da “M’aggià curà” e arrivano a “dove stà Zazzà”. Uno spaccato sulla canzone di “giacca” e una serie di quadri comici e sketch come nella migliore tradizione teatrale. La scena è composta da uno specchio e da bauli. Lo specchio, senza vetro, è rivolto alla platea e consente all’attore di guardare se stesso nel pubblico. Il baule è la sintesi della filosofia delle compagnie storiche teatrali, pronte a viaggiare, a spostarsi, a contenere i costumi e gli attrezzi di scena che sono l’anima stessa del teatro. Oscar Di Maio, discendente da una famiglia di noti attori napoletani, debuttò all’età di otto anni al Teatro Sannazaro, gestito da Nino Veglia e Luisa Conte, dove già lavoravano la madre, la zia Olimpia e lo zio Gaetano. Dopo esperienze teatrali al Sannazaro, lavorando con artisti come Enzo Cannavale, Carlo Taranto e Nino Taranto, Pietro De Vico, Gennarino Palumbo, Ugo D’Alessio, debutta nella sceneggiata con Mario Trevi, Pino Mauro, Nino D’Angelo e Franco Moreno. In teatro lavora con artisti del calibro di Enzo Vitale, Rosalia Maggio, Beniamino Maggio, Trottolino. Uno dei personaggi principali di Oscar Di Malo è quello del “cafone”, nato nel 1997. con cui presenta i tratti più tipici dello stereotipo del provinciale napoletano-casertano. Luciano e Massimo Salvetti sono figli d’arte. Il loro papà è Raimondo Salvetti, attore comico e direttore artistico tra i più conosciuti e apprezzati dal pubblico. Il loro debutto in tenera età è sulle tavole del famoso “Teatro 2000”, tempio della sceneggiata, e subito dopo in TV a Canale 21. Con il papà e la sua compagnia “Gli amici del varietà” mettono in scena una serie di spettacoli: “Farse, farsette, vicoli e macchiette” - “Dal Vesuvio con amore” - “Na cammera affittata a tre” - “Na scampagnata d’e tre disperate” - “Risate sotto le stelle”... che spaziano dal varietà all’avanspettacolo, dalla farsa petitiana alla pochade francesce, dalla commedia alla sceneggiata, dalla prosa al musical. Un italiano su 7 vive sotto la soglia di povertà. Sos da Banco Alimentare di Giovanni Bruno* Corriere della Sera, 27 maggio 2024 Il rapporto Istat evidenzia un peggioramento rispetto al 2022 della condizione delle famiglie dove un adulto è lavoratore dipendente. Il Banco sostiene 7600 enti, riferimento per quasi 2 milioni di persone in povertà. Ma la burocrazia blocca ancora chi vuole donare ed evitare gli sprechi. Certamente una immagine complessiva non rassicurante quella che emerge dal “Rapporto annuale 2024” dell’Istat, in linea con quanto descritto nel “Rapporto Bes 2021” il Benessere Equo e Sostenibile in Italia. Una persona su dieci vive sotto la soglia minima di povertà: tra i minori sotto i 16 anni il 13,5% è in “deprivazione materiale e sociale” e il 5,9 % in povertà alimentare. Più si è giovani, più è probabile avere difficoltà: i più colpiti sono le persone in età lavorativa per cui il reddito da lavoro è sempre meno in grado di proteggere sé e i figli da situazioni di disagio economico. Istat evidenzia un peggioramento rispetto al 2022 della condizione delle famiglie con persona di riferimento (quello che una volta si sarebbe detto “capofamiglia”) lavoratore dipendente: sono il 9,1%, dall’8,3% dell’anno precedente. Il ceto medio si è andato riducendo e impoverendo anche se le differenze “tra chi sta bene e chi sta male” sembrano diminuire, ma al ribasso, perché la situazione economica è peggiorata per quasi tutti. Cala anche la partecipazione alla vita sociale in genere: nei giovani tra i 16 e i 24 anni, per esempio, l’attività di volontariato è scesa in 10 anni dall’11 all’8 %, come l’incontrarsi stabile tra amici ha visto una flessione dal circa 95 all’88%. In controtendenza invece su questo punto gli over settantaquattrenni che, per esempio, aumentano dal 5,4 al 7,1 % la loro partecipazione ad attività di volontariato. Gli alimentari cresciuti del 9 per cento - L’inflazione che ha visto l’aumento in particolare dei prezzi dei generi alimentari, nel 2023, ha determinato l’incremento della spesa per le famiglie del 9,0% per i prodotti alimentari, e questo ha pesato soprattutto sulle fasce più deboli. Tutto conferma e giustifica gli incrementi di richieste di aiuto che dalla pandemia in poi ci troviamo a registrare: in crescita il numero di enti che chiede di convenzionarsi con il Banco Alimentare: ora sono poco più di 7.600 ma con circa un 6-7% di enti in “lista di attesa” in tutta Italia. Le persone da questi sostenute sono già circa 1.800.000 e noi cerchiamo, con sempre più difficoltà, di rispondere in modo adeguato alle loro difficoltà. Questo desiderio, questo tentativo di riuscire a dare una risposta minimamente adeguata al bisogno incontrato è proprio ciò che ci costringe, con grande sofferenza, a non incrementare il numero degli enti convenzionati e quindi delle persone aiutate. La burocrazia non aiuta - È perciò assolutamente importante che si sblocchino i ritardi e gli impedimenti burocratici e amministrativi che in questi primi mesi dell’anno hanno condizionato le consegne di alimenti dei bandi pubblici, peraltro coperti da fondi opportunamente già stanziati sia dalle Autorità Europee sia da quelle Nazionali, proprio per sostenere le persone in gravi difficoltà economiche e in povertà alimentare. Allo stesso modo è importante che cresca la consapevolezza delle aziende dell’agroalimentare ad evitare ogni sorta di possibile spreco e a considerare il donare le eccedenze alimentari un dovere, una convenienza, un bene per la società nel suo insieme. Ancora una volta, come è successo con la pandemia che ha visto le persone in povertà assoluta crescere di un milione in un anno, si parla dei “nuovi poveri”, e si cerca di capire chi sono e se allora, nel 2020 erano stati soprattutto i lavoratori precari, quelli a chiamata o gli irregolari che si erano trovati di colpo senza alcun reddito, sono tante le persone oggi che pur con un lavoro si ritrovano in situazione di “povertà assoluta”, come abbiamo visto prima. I nuovi poveri - Non scordiamoci che la soglia di povertà assoluta è calcolata, come media in Italia, di 1.150 euro mensili per due persone. Consideriamo anche che l’aiuto alimentare ha come effetto quello di “liberare” alcune risorse economiche che consentono altre spese, dalle cure mediche all’abbigliamento o ai bisogni educativi per i figli spesso costretti a rinunciare a momenti di socialità con tutte le conseguenze che questo può comportare per il loro futuro. Questo è il momento, un momento in cui anche la pace è fortemente minacciata, in cui non possiamo dare nulla per scontato, in cui far crescere l’attenzione e, nelle tante persone che quotidianamente incontriamo sui tram, sui treni dei pendolari, per le strade dei nostri paesi e quartieri, imparare a scorgere il bisogno. Bisogno che è anche nostro e che si manifesta in un senso di insicurezza e di precarietà acuito dalla guerra che è così vicina a noi. *Presidente Fondazione Banco Alimentare La guerra non è mai morta: se continuiamo a ignorarla non costruiremo la pace di Gabriele Segre* Il Domani, 27 maggio 2024 Per trent’anni ci siamo illusi che la guerra fosse estinta. Oggi scoprire che è rimasta una possibilità ineliminabile del nostro futuro ci costringe a rivoluzionare il nostro pensiero. Sempre più europei sembrano affrontare il presente in modo non troppo dissimile da come i nostri nonni vissero l’estate del 1939. Gli interrogativi delle settimane precedenti l’invasione nazista della Polonia sono riflessi nei media e nelle menti di oggi: Putin si accontenterà di invadere solo parte dell’Ucraina? Il conflitto in Medio Oriente finirà per allargarsi? La Cina sta per attaccare Taiwan? Per molti non è necessario attendere alcun’altra conferma: siamo già in guerra, si tratta solo di aspettare che il fronte avanzi fino a noi. Una discrepanza rivelatrice - Forse è meglio fermarsi un istante, prendere fiato e provare ad essere obiettivi: i pericoli sono concreti, ma è improbabile che vedremo i tank russi marciare su Berlino o Parigi domani mattina. Tuttavia, è proprio questa profonda discrepanza tra realtà e percezione a rivelare in maniera evidente quanto, nel giro di pochi anni, sia cambiato il volto del nostro pianeta. Ormai lo sappiamo: sgretolatasi l’Unione Sovietica, l’Europa si è assopita, cullata dalla certezza di una pace che sembrava perenne. La fine della storia ci aveva consegnato un mondo unipolare con una sola superpotenza e una stabilità inedita per l’umanità. In assenza di minacce, sforzi e attenzione potevano così spostarsi dalla gravosa politica internazionale — strumento fino ad allora essenziale per garantirci la sopravvivenza — alla più redditizia economia globale. I piccoli conflitti locali non minacciavano l’aspirazione massima di questo nuovo ordine: la prosperità. Anzi, questa sembrava destinata ad un incremento infinito, sospinto dalle nuove prospettive di cooperazione mondiale. Con il risvegliarsi di vecchie e nuove superpotenze, siamo oggi destinati a vivere in un mondo multipolare, persino più precario di quello iscritto nelle vecchie logiche della Guerra Fredda. E ci siamo bruscamente ricordati che la loro politica è per sua natura una “politica di potenza”, in cui ciascun attore è costretto a concorrere contro gli altri a garanzia della propria sicurezza. La politica internazionale è tornata così ad essere il campo di confronto determinante. Una gara sempre più competitiva, in cui le architetture del diritto internazionale vacillano pericolosamente di fronte alla rivoluzione anarchica dei blocchi geopolitici contemporanei. A guardar bene, ad infrangersi è stata anzitutto una doppia illusione: non solo per 30 anni abbiamo creduto nella “morte della guerra”, ma anche che il merito della sua dipartita fosse da individuare nel trionfo del diritto, dell’economia e dell’etica, riconosciuti come i tratti fondanti e vincolanti dell’ordine internazionale. Ispirare la pace - Ora scopriamo che non erano così determinanti: il mondo non era in pace perché eravamo in grado di vietare i duelli; lo era perché, in quel “far west”, uno solo possedeva la pistola. Adesso che tutti sono impegnati ad armarsi, chi è a mani nude deve correre ai ripari. I primi spari ci hanno ricordato che, anche se non immediato, un conflitto che ci travolga direttamente non si può più escludere. È stato sufficiente tornare a considerare questa come una possibilità per determinare un cambio di prospettiva radicale, una rivoluzione copernicana del nostro pensiero civile: dall’essere definitivamente epurata, la guerra è di nuovo elemento ineliminabile nelle nostre società. A generare il sentimento d’angoscia che oggi si manifesta in forme sempre più pervasive non è allora la paura che le bombe ci sorprendano stanotte, ma il fatto che lo spettro di cui avevamo persa memoria sia riapparso nelle nostre menti, più sinistro che mai. Ancora una volta è compito della politica spiegare ai cittadini che la possibilità della guerra non significa né la sua certezza né la negazione totale della sua esistenza, ma che si tratta di una variabile rilevante nell’equazione di progettazione del futuro. Non è una sfida semplice: ci sono generazioni intere che, per loro fortuna, non hanno mai dovuto occuparsi di basi missilistiche e rifugi antiatomici, mentre chi viene al mondo in quest’epoca dovrà, suo malgrado, fare i conti con questa gravosa spada di Damocle. Non è detto che si riveli un male: la storia ci ricorda che crescere consapevoli dell’esistenza della guerra è un modo efficace per ispirare la pace. *Direttore della fondazione Vittorio Dan Segre La scuola della pace dove ucraini e russi cancellano la guerra di Federico Monga La Stampa, 27 maggio 2024 A Duino si formano studenti dei Collegi del Mondo Unito candidati al Nobel. Anche palestinesi e israeliani vivono e dialogano nelle stesse aule. “Permettere ai giovani di tutto il mondo di incontrarsi, vivere insieme e studiare insieme è una delle cose più importanti che possiamo fare per la pace e un mondo migliore”. Con questa motivazione Alfred Bjørlo, rappresentante parlamentare del Partito Liberale norvegese, ha candidato il movimento dei Collegi del Mondo Unito (UWC) al Premio Nobel per la Pace 2024. Fondato nel 1962, in piena guerra fredda dall’educatore tedesco Kurt Hahn: 18 scuole sparse per i quattro continenti. Dalla casa madre in Galles, Atlantic College, agli Stati Uniti, UWC USA, dove ha studiato anche Giulio Regeni, a Singapore, passando per il Costarica, Mostar in Bosnia, Changshu in Cina, Arusha in Tanzania. I Paesi coinvolti sono 155 con i loro comitati nazionali che raccolgono fondi e selezionano gli studenti. Presidente è la regina Noor di Giordania. Prima la carica è stata ricoperta da Nelson Mandela e Carlo III d’Inghilterra quando non era ancora re. Una comunità di quattromila ragazze e ragazzi tra i 17 e i 19 anni, attualmente iscritti, oltre sessantamila ex allievi che dopo il diploma non si sono più lasciati e costituiscono una rete di relazioni sociali, culturali ed economiche. Il collegio italiano è diffuso. Nel senso che si divide in tutto il paese di Duino, provincia di Trieste, sopra le falesie della riserva naturale che guarda dall’altra parte del golfo il promontorio industriale di Monfalcone. Aule, dormitori, teatro, spazi comuni, sale musica e laboratori all’avanguardia. Il mondo in un villaggio. Quest’anno i diplomati, attraverso l’International Baccalaureate, sono stati 84, provenienti da più di ottanta Paesi. Paesi in guerra o addirittura in conflitto tra loro. Ucraini e russi, palestinesi e israeliani, libanesi, afghani, pakistani, iraniani, siriani. Nelle stesse aule, negli stessi dormitori, nella stessa mensa sono passati la principessa d’Olanda Ariane e ragazzi arrivati dai luoghi più poveri del pianeta grazie a un programma di borse di studio che consente di aiutare quasi il 90 per cento degli studenti. Tra i sottoscrittori, molti ex allievi che dalle periferie più dure e disagiate sono arrivati attraverso i college UWC ai vertici di società finanziarie globali o ad amministrare piattaforme digitali oggi molto in voga. Il bando per il prossimo anno è già aperto e si chiuderà a ottobre. Tra i progetti più importanti: il bando per i minori non accompagnati che vengono seguiti durante tutto il corso di studi da tutor nella loro lingua madre. Un mondo, a differenza di quanto avviene nelle università italiane e americane, disposto al dialogo. Un mondo pensato a far rigermogliare e diffondere quel sentimento antico e tra i più nobili che il fondatore Hahn aveva messo come cardine del percorso pedagogico: la compassione. Il college, oltre a insegnare materie tradizionali e strategiche per il futuro dei ragazzi preparandoli al ruolo di leader, allena (e così coglie il senso più profondo ed etimologico della parola compassione) soprattutto a condividere le difficoltà altrui. Una volta lasciato alle spalle il Castello del quattordicesimo secolo, che ai tempi dei romani era un avamposto per fare la guerra, si entra nel cuore del collegio dove si impara a fare la pace. “Quest’anno è stato più difficile del solito” ammette l’ambasciatrice Cristina Ravaglia, presidente del Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico. Il 7 ottobre ha inaridito il dialogo. Il buio della ragione ha coperto il cielo sopra la Striscia di Gaza. “Il dialogo si è interrotto, ma alla fine anche i ragazzi e le ragazze israeliane hanno partecipato alla raccolta fondi per aiutare la famiglia di una studentessa palestinese di Gaza”. Banan, che per settimane non ha saputo più nulla di sua mamma e suo papà in fuga dai bombardamenti, non se la sente di unirsi a un gruppo di compagni per parlare di pace e di guerra in questo momento. “Tra noi ci confrontiamo, ma non sono ancora pronta per affrontare una discussione pubblica”. Durante la recita di Natale attraverso l’espediente letterario e il ruolo di uno studente nei panni di uno stregone, la fiamma del dialogo, impostato sul significato della fiducia reciproca, è stata riaccesa. Al tavolone della sala colloqui, dove ci accompagna Gregorio, diciottenne torinese arrivato qui perché “stufo del metodo del liceo italiano cercavo uno sguardo nuovo sul mondo” e ora uno dei grandi animatori e sponsor del modello UWC, sono seduti una decina di ragazzi. “Solo i nomi di battesimo” si raccomanda Valentina Bach, ex allieva ora Segretario Generale e, come avviene nei Collegi del Mondo Unito, impegnata con passione anche in tante altre mansioni, assunte per puro spirito di corpo ovviamente. “Accompagno gli studenti al centro di accoglienza migranti di Trieste a insegnare loro l’italiano”. Sono i disperati del maledetto silos, miserabile e incivile rifugio dei fuggiaschi della rotta balcanica che non sanno più dove andare o aspettano le forze e il momento giusto per fuggire da un’altra parte. Solo nomi nessun cognome, dunque. Perché c’è Maksim, russo di 18 anni. Non può più tornare a casa, andrebbe subito al fronte. Sta seduto a fianco di Anastasia, ucraina. Anastasia spiazza: “Ora la pace è impossibile, è una strada troppo tortuosa”. “La pace è una parola grandiosa. Ho sentito dire da un’economista che la cosa migliore o almeno la cosa minima che possiamo fare se non puoi fare nient’altro è parlarne. Penso però che, almeno parlandone e sensibilizzando le persone, la pace non sia qualcosa di impossibile”. Secondo Shaha irachena appena maggiorenne “il modo migliore per ottenere la pace nel mondo intero è attraverso l’istruzione scolastica e l’educazione. Se non possiamo educare le generazioni più anziane, forse possiamo educare le nuove generazioni”, le risponde Baseerat, scappata dal Kashmir, “Studiare era l’unica mia alternativa di fuga”. La pace impossibile? Ma come? Anche i giovani? “Qui non insegniamo la pace in teoria, ma attraverso azioni concrete quotidiane” spiega il rettore del collegio Khalid El-Metaal che dopo aver insegnato e gestito solo scuole esclusive, ma non inclusive dal Canada all’Egitto, ha deciso di abbracciare la filosofia di UWC. Insomma, non lo slogan “peace and love” in voga negli anni Settanta che vuol dire tutto ma anche niente. “Di questi tempi - è la strategia di El Metaal - mantenere la speranza è essenziale. Questo luogo è stato creato come un’icona di pace. Un’icona è qualcosa a cui guardi per trovare speranza, quindi l’idea è che tutti gli studenti di diverse nazionalità si sforzino di capirsi a vicenda per abolire l’idea di nemico. Dobbiamo divulgare l’ispirazione a fare la pace in modo che anche altre persone siano determinate a fare lo stesso. L’Italia e il Mediterraneo sono sempre stati e sono di nuovo crocevia di questo confronto tra realtà che devono essere necessariamente cosmopoliti. In questo senso andare contro l’immigrazione, come fanno i partiti, soprattutto conservatori, in Italia e in Europa mi sembra andar contro la nostra storia e l’evolversi della realtà. Il cosmopolitismo è sempre stato una risorsa. E qui a Duino lo dimostriamo tutti i giorni”. Haya, libanese di 17 anni: “Molti di noi si siedono insieme e cercano di capire prospettive diverse. Facciamo piccole discussioni e facciamo domande su ciò che accade, cercando di capire. E viceversa, cercando di far capire agli altri cosa avviene nel nostro Paese. Penso che essere qui sia un’opportunità per imparare gli uni dagli altri. Qui a Duino abbiamo un’occasione unica perché, tornando a casa, non puoi parlare di certi argomenti che sono ancora tabù”. Sapere, conoscere, sviluppare la capacità critica attraverso la libera circolazione delle idee e delle notizie anche e soprattutto dopo l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, è l’obiettivo di Maksim: “Perché in Russia da anni vince solo la propaganda. Molti miei amici non sanno nulla. E non sanno nulla da talmente tanto tempo che sono disinteressati alle motivazioni di questa guerra. Sono solo interessati ad avere un lavoro. Punto e basta. Chi affronta certi argomenti finisce in carcere. Quindi è meglio non sapere nulla. Questo è il ragionamento in Russia. Abbiamo visto cosa è successo con gli ucraini nel 2014, hanno fatto una rivoluzione e hanno rischiato le loro vite per un cambiamento e noi non abbiamo fatto nulla. Alla fine, vogliamo vivere in pace e abbiamo bisogno di trovare un compromesso. Ma molte persone nel governo sono egoiste e cercano solo di beneficiare loro stesse senza pensare al bene comune”. “È vero - le risponde Anastasia, studentessa ucraina arrivata a Duino due anni fa, poco prima dell’invasione - non puoi parlare con molti russi perché non sanno nulla, non hanno internet. Con Maksim invece sì. Anche noi ucraini siamo vittime in un certo senso della propaganda, ma abbiamo la possibilità di consultare la rete. E questo cambia tutto. Possiamo farci un’idea nostra, libera. L’ostacolo principale è che non c’è rispetto per gli altri. La comprensione reciproca è la chiave della pace. Perché quando capisco che Maksim non è così diverso da me, devo rispettarlo così come rispetto me stessa”. “Conoscere entrambi i lati della storia - si inserisce Lenny, diciottenne israeliana - è fondamentale per fare qualche passo verso la pace. Le opinioni dei miei genitori sono molto diverse. Io, i miei fratelli e le mie sorelle siamo andati in diverse parti del mondo per studiare. Le nostre opinioni restano radicate da anni e anni di chiusura ma ora abbiamo la possibilità di un’altra prospettiva”. Una prospettiva diversa che lascia sperare in un futuro migliore. “Qui si sente una libertà che a casa non sento” è una battuta di Mattia, protagonista del film Duino, premiato all’ultimo festival di Torino Lovers. È la storia autobiografica del regista Juan Pablo Di Pace, nomen omen, che racconta, con stile e potenza narrativa, come proprio da studente al Collegio del Mondo Unito di Duino ha conosciuto la sua libertà sessuale e ha trovato la via per condividere la sua omosessualità con i genitori argentini. “Perché qui - ci dice Gregorio congedandoci - non studiamo solo e parliamo di argomenti alti e universali. A Duino si costruiscono amori a volte passeggeri a volte per sempre. E ci divertiamo tanto grazie alle attività collaterali: lo sci, la vela, la manutenzione del bosco, la pulizia della spiaggia, l’aiuto agli anziani del paese”. Venire a Duino merita davvero. Turchia. Sepolti in carcere i difensori di Kobane: nel silenzio dell’Occidente di Laura Schrader volerelaluna.it, 27 maggio 2024 Il 16 maggio un tribunale di Ankara ha emesso la sentenza nel processo per il “caso Kobane”. Il verdetto distribuisce a 24 esponenti del partito HDP centinaia di anni di carcere per aver agito ai fini della distruzione dell’unità dello Stato e dell’integrità del Paese e per numerosi altri reati, omicidi compresi. Agli ex co-presidenti del partito, Selahattin Demirtas e Figen Yuksegdag, spettano rispettivamente 42 anni e 5 mesi e 30 anni e 3 mesi anni di carcere. Pene tra 9 anni e 22 anni e 5 mesi per gli altri imputati, tra i quali la sindaca di Diyarbakir (12 anni) e il sindaco di Mardin, Ahmet Turk, ex parlamentare, figura storica della resistenza democratica kurda, oggi ottantunenne (condannato a 10 anni). Si conclude così un processo iniziato il 20 settembre 2018 e sviluppatosi nel corso di 83 paradossali udienze: apertamente violato o negato il diritto alla difesa, aula invasa da agenti di polizia, arrestato il presidente del tribunale per attività criminale, testimonianze segrete. Alcuni dei condannati erano già in carcere, come Selahattin Demirtas e Figen Yuksegdag, reclusi dal novembre 2016 per propaganda terroristica e insulti al presidente Erdogan. Quali e quanti strumenti avrebbero consentito una così cospicua attività criminosa? Secondo i giudici soltanto uno: Twitter. Questi i fatti. Era il 6 ottobre 2014. I blindati dell’Isis assediavano la città kurdo-siriana di Kobane, al confine con la Turchia. L’esercito iracheno era fuggito senza combattere regalando al nemico i propri armamenti. L’orda nera aveva conquistato la piana di Ninive e sterminato il popolo Yazidi sul monte Shengal (Sinjar). Kobane era la porta per arrivare a unire sotto il califfato il Nord dell’Irak con il Nord-Est della Siria. Staffan de Mistura, inviato dell’Onu in Siria, lanciava un appello: “Kobane è sotto assedio da tre settimane. Gli abitanti sono kurdi e si difendono tutti con grande coraggio. Adesso però sono molto vicini a non farcela più. Combattono con armi normali mentre l’Isis ha carri armati e mortai. La comunità internazionale li deve difendere perché non può più sostenere che un’altra città cada nelle mani dell’Isis. Ora serve un’azione concreta”. Anche il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban-ki-Moon, dichiarava “serve un’azione internazionale”. Ma la coalizione occidentale era bloccata: la Turchia negava la base aerea di Incirlik mentre dalla frontiera lasciava affluire verso Kobane i convogli dei foreign fighters dell’Isis e le sue forze di sicurezza sparavano a morte sui kurdi che volevano varcare il confine per unirsi ai difensori della città. In tutto il mondo e in molte città della Turchia si svolsero manifestazioni a sostegno della città assediata. I politici di HDP pubblicarono tweet contro l’Isis. Nelle piazze turche si scatenarono, contro le proteste democratiche, i gruppi filo-Isis spalleggiati dalle forze di sicurezza e tra il 6 e l’8 ottobre le manifestazioni degenerarono in gravi disordini, con furti, saccheggi, incendi, aggressioni, omicidi. Furono 46 i civili uccisi dalle bande jihadiste. Tra essi 34 erano membri o sostenitori di HDP. Gli imputati del processo di Kobane, autori dei tweet che invitavano a mobilitarsi contro l’Isis, sono stati riconosciuti colpevoli del crimine di attentato all’integrità dello Stato e di tutte le violenze commesse nelle infuocate manifestazioni di piazza. La Corte Europea per i Diritti Umani aveva a suo tempo esaminato le accuse del “caso Kobane” e aveva concluso che né gli ex co-presidenti di HDP Demirtas e Yuksegdag né altri esponenti del partito hanno responsabilità per gli eventi. Anche in occasione dei procedimenti contro i medesimi co-presidenti nel 2016, la Corte aveva dichiarato ingiusto il processo e aveva chiesto l’immediata scarcerazione. HDP - Partito Democratico dei Popoli, che fa parte dell’Internazionale Socialista, rappresenta la sinistra kurda e turca. Rifiuta il capitalismo e si batte per il riconoscimento dei diritti del popolo kurdo e delle minoranze etniche e religiose, tra le quali importante è la perseguitata componente alevita. HDP è l’unico partito che può portare i valori della democrazia in un paese bloccato tra il nazionalismo islamista di AKP (il partito del presidente) e il nazionalismo kemalista del suo primo oppositore, il CHP. I partiti legali filo kurdi riescono a sopravvivere in media per 3-4 anni prima di essere eliminati. HDP è stato l’ottavo in circa trent’anni ad essere chiuso d’imperio prima delle ultime elezioni del maggio 2023. Con la sentenza del “caso Kobane” attraverso la magistratura a lui asservita il presidente Recep Tayyp Erdogan vuole cancellare non soltanto il partito, ma ogni possibilità di sopravvivenza politica dei suoi esponenti e portare a termine la sua vendetta personale nei confronti dell’odiato Selahattin Demirtas. “Fino a quando resterò io al potere - aveva solennemente scandito nel comizio conclusivo della campagna elettorale del 2023 e nella prima trionfale esibizione dopo la risicata vittoria - il terrorista Selahattin Demirtas non uscirà dal carcere”. La sua folla rispondeva con le dita alzate nel simbolo dei Fratelli Musulmani urlando “Pena di morte per Selo!”. Selahattin Demirtas è nato nel 1973 a Elazig ma è sempre vissuto a Diyarbakir. È sposato e ha due figlie. Avvocato specializzato nella difesa dei diritti umani, si è occupato degli omicidi politici e dei desaparecidos del Kurdistan, ha fondato le sezioni di Diyarbakir di Amnesty International e di IHD, l’Associazione turca per i Diritti Umani. È stato protagonista di battaglie ecologiste, per i diritti delle donne e della comunità Lgbt. Dalla nascita del partito, nel 2012, fino al 2018 è stato co-presidente di HDP insieme alla giornalista ed editrice femminista Figen Yuksegdag. Nelle elezioni del 7 giugno 2015 HDP con il 13,1% dei voti superò lo sbarramento del 10% impedendo all’AKP di Erdogan di arrivare alla maggioranza assoluta. Tre anni dopo, dal carcere, Demirtas aveva guidato la campagna elettorale nelle presidenziali del 2018 ottenendo l’8,4% dei voti. Per il successo del giugno 2015 HDP ha pagato un terribile tributo di sangue. Il 20 luglio l’attentato suicida di un giovane turco affiliato all’Isis fa strage tra 300 ragazzi e ragazze della Federazione delle associazioni giovanili socialiste, vicina a HDP, arrivati da varie località della Turchia e riuniti in un centro culturale a Suruc, città al confine turco-siriano, per organizzare la distribuzione di aiuti umanitari alla vicina Kobane. I morti sono 34, oltre 100 i feriti. L’attentato sarebbe stato pianificato dallo stesso Erdogan e realizzato da una cellula dello Stato islamico controllata da un suo fedelissimo, Hakan Fidan, allora capo del MIT e oggi ministro degli Esteri. Circa tre mesi dopo, il 10 ottobre, due tremende esplosioni causano 103 morti e centinaia di feriti tra i manifestanti provenienti da tutto il paese che davanti alla stazione Centrale di Ankara stanno per iniziare la marcia per la pace organizzata da HDP con sindacati, associazioni e ordini professionali di sinistra per chiedere al Governo di fermare i bombardamenti contro il PKK e riaprire i negoziati per la democrazia. È l’attentato più sanguinoso di tutta la storia della Repubblica di Turchia. Sotto accusa ancora una volta lo “Stato profondo” (estremisti dei servizi segreti, di MHP e dei Lupi Grigi in collaborazione con l’Isis al servizio degli interessi presidenziali). Il 20 agosto 2016 a Gaziantep, mentre si festeggiano all’aperto le nozze di due membri del partito HDP con invitati arrivati da tutto il Kurdistan, un attentato suicida provoca 54 vittime (tra esse 29 bambini) e 94 feriti, molti gravissimi. Gaziantep è uno snodo centrale della collaborazione tra Turchia e Isis. I Servizi di Ankara conoscono quel punto della frontiera palmo per palmo. l’Isis anche questa volta non rivendica, confermando, secondo gli esperti, di essersi prestata all’altrui servizio. È probabile che sulla sentenza del processo Kobane le istituzioni europee sapranno esprimere le consuete nobili parole di condanna mentre continueranno a coltivare i lucrosi interessi con Ankara e a elargirle denaro per fermare i siriani (veri profughi di guerra, da tenere lontano dall’accoglienza a cui avrebbero diritto) e mentre si inchinano alla volontà della Nato, per la quale Stoltenberg, in sintonia con Erdogan, condanna come terrorista un popolo che con coraggio, determinazione e dignità difende quei valori che per la politica occidentale sono concetti vuoti riempiti da un misero opportunismo. Nel 2022 il premio Nobel per la Pace venne assegnato a una ONG russa di opposizione, a un attivista bielorusso e a un’associazione ucraina per i diritti umani. Io penso alle Madri di Galatasary, le Madri per la Pace, fragili come i narcisi del Kurdistan e forti come le rocce, che da trent’anni tengono viva la memoria degli scomparsi e chiedono giustizia e pace. Oppure a Selahattin Demirtas, che in un’intervista a Diyarbakir nel 2003 quando svolgeva il rischiosissimo compito di difensore dei diritti umani aveva detto: “La mia generazione è vissuta immersa nella violenza più brutale. Noi kurdi vogliamo vivere in una situazione di pace e nella quale siamo rispettati e lottiamo per questo. Io non faccio altro che quello che farebbero milioni di kurdi”. Iran. Con la morte di Raisi non si ferma la richiesta di giustizia del popolo iraniano di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2024 Svolti i funerali, è bene ricordare quale terribile eredità nel campo dei diritti umani l’ex presidente iraniano Ebrahim Raisi abbia lasciato. Per 44 anni - ossia dal 1980, quando appena ventenne venne nominato procuratore generale di Karaj - Raisi è stato direttamente o indirettamente coinvolto nella sparizione forzata e nell’esecuzione extragiudiziale di migliaia di dissidenti politici, oltre che nella tortura e nell’uccisione illegale di migliaia di manifestanti. Ha inoltre perseguitato con violenza donne e ragazze che sfidavano l’obbligo d’indossare il velo. Nel 1988 Raisi fece parte della “commissione della morte” che ordinò la sparizione forzata e le esecuzioni extragiudiziali di diverse migliaia di dissidenti politici nelle prigioni di Evin, a Teheran e Gohardasht, nella provincia di Alborz, tra la fine di luglio e l’inizio di settembre di quell’anno. Da allora, i sopravvissuti al “massacro delle prigioni” e le famiglie delle vittime sono stati crudelmente privati della verità, della giustizia e della riparazione per decenni e hanno subito persecuzioni per aver cercato di ottenere l’accertamento delle responsabilità. Trent’anni dopo, nel maggio 2018, Raisi difese pubblicamente quelle uccisioni di massa, descrivendole come “una delle conquiste di cui essere orgogliosi”. In un rapporto del novembre di quell’anno, Amnesty International chiese che Raisi fosse indagato per crimini contro l’umanità, tra cui sparizione forzata, persecuzione, tortura e altri atti disumani, fra i quali anche la sistematica occultazione della sorte delle vittime e del luogo in cui si trovano i loro corpi. Come capo del potere giudiziario, dal 2019 al 2021, Raisi ha diretto un furibondo sistema repressivo che ha ordinato decine di migliaia di arresti, detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, torture e altri maltrattamenti, processi gravemente iniqui, condanne a morte e punizioni che violano il divieto di tortura e altri maltrattamenti, quali frustate, amputazioni e lapidazioni. Sotto la sua supervisione, il potere giudiziario ha garantito impunità totale ai funzionari governativi e alle forze di polizia sospettati di aver ucciso illegalmente centinaia di uomini, donne e bambini e aver sottoposto migliaia di manifestanti ad arresti arbitrari di massa e almeno centinaia di essi a sparizioni forzate, torture o altri maltrattamenti durante e dopo le proteste nazionali del novembre 2019.Nel 2022, un anno dopo la sua elezione a presidente dell’Iran, Raisi ha chiesto un rafforzamento dell’applicazione delle leggi sull’obbligo del velo, culminato, nel settembre dello stesso anno, con la morte in custodia di Mahsa Zhina Amini, avvenuta giorni dopo essere stata arrestata con violenza dalla polizia morale iraniana, tra denunce di torture e altri maltrattamenti, che hanno portato alla rivolta del movimento “Donna Vita Libertà”. Raisi ha elogiato e supervisionato la violenta repressione delle proteste da parte delle forze di sicurezza, che ha portato all’uccisione illegale di centinaia di manifestanti e semplici passanti e al ferimento di migliaia di altre persone nonché a torture e stupri nei confronti delle persone arrestate. Come capo del potere giudiziario o presidente, sotto Raisi sono state eseguite almeno 2.462 condanne a morte. Dopo l’ascesa alla presidenza, nel 2021, Raisi ha sollecitato invocato un uso ancora maggiore della pena capitale. Da allora, le esecuzioni sono aumentate notevolmente, culminando con la messa a morte di almeno 853 persone nel 2023, con un aumento del 172 per cento rispetto al 2021. Il terribile picco di esecuzioni è stato dovuto in gran parte al ritorno a una politica antidroga mortale, che nel 2023 ha visto le autorità iraniane portare a termine almeno 481 esecuzioni per reati di droga, con un incremento del 264 per cento rispetto al 2021. Raisi doveva essere indagato mentre era ancora in vita per crimini contro l’umanità. Invece è morto impunito. Spetta a tutti gli stati, in base al principio della giurisdizione universale, avviare indagini nei confronti di tutti i funzionari iraniani che hanno agito sotto i suoi ordini per commettere crimini di diritto internazionale e assicurare così che i sopravvissuti e le famiglie delle vittime vedano i colpevoli finire a processo e chiamati, una volta per tutte, a rispondere delle loro azioni criminali. *Portavoce di Amnesty International Italia Stati Uniti. Leonard Peltier, il 10 giugno si deciderà sulla libertà vigilata di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 27 maggio 2024 Il 10 giugno la Commissione federale statunitense per la grazia e la libertà vigilata, esaminerà la richiesta presentata da Leonard Peltier, l’attivista nativo-americano in carcere da quasi mezzo secolo per un delitto che ha sempre sostenuto di non aver commesso. Peltier ha quasi 80 anni ed è affetto da molte e gravi patologie che non possono essere curate adeguatamente in regime carcerario. Per questo, la libertà vigilata è l’unica opzione a sua disposizione. Esaurita ogni possibilità di un nuovo processo, respinte le richieste di grazia presentate a Obama e a Trump mentre l’attuale presidente Biden non si è ancora pronunciato (la richiesta è stata presentata nel luglio 2021, la sorte (e la vita) di Peltier sono nelle mani della Commissione. *Portavoce di Amnesy International Italia