Una telefonata dal carcere e il deserto degli affetti di Stefano Ferrio Corriere del Veneto, 26 maggio 2024 A proposito di “desertificazioni affettive” chi trascorre mezz’ora al giorno spettegolando di amorazzi e sconti da outlet sui jeans firmati, oppure giocando a Penalty Shooters fino a inebetirsi, destinerebbe dieci centesimi del proprio abbonamento mensile a chi vorrebbe telefonare ai propri cari dal carcere? La provocazione nasce al termine di un percorso iniziato appurando che solo dentro un carcere aperto al mondo esterno come il Due Palazzi di Padova chi non è detenuto può “liberarsi”, anche per un’intera giornata, del proprio telefonino. Il quale, qui consegnato all’ingresso per ragioni di sicurezza, non è certissimo che nuoccia alla salute, anche se da decenni è oggetto di allarmi precauzionali circa l’effetto delle sue radiazioni. Ma di sicuro ruba quantità esorbitanti di tempo alla nostra capacità di coltivare relazioni più sane e utili di quelle virtuali. Ironia della sorte, a causa della tipologia di rete che ne consente l’uso, lo stesso telefonino è chiamato come il mezzo blindato a bordo del quale vengono trasportati i detenuti, i quali però desiderano comprensibilmente ben altri “cellulari”, che sono proprio quelli elettronici, grazie a cui comunicare con i propri cari, ovvero con chi all’esterno del carcere dà senso alla propria esistenza. Si parla di un uso “vitale” del mezzo, lontano anni luce dai giochini ossessivi e dai chiacchiericci social che intasano la stragrande maggioranza del tempo trascorso al telefonino in regime di libertà. Questo intreccio di paradossali contraddizioni è solo uno dei deformanti giochi di specchi generati da un’iniziativa come “Io non so parlar d’amore”, giornata nazionale di studi promossa dall’associazione Granello di Senape e dal periodico Ristretti Orizzonti. Un’iniziativa che per una giornata intera ha ospitato centinaia tra operatori, giornalisti e volontari all’interno del carcere Due Palazzi di Padova, trasformato nell’occasione in agorà dove fare il punto dopo la sentenza con cui, il 6 dicembre scorso, la Corte Costituzionale, dichiara l’illegittimità dell’articolo 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). Il passo preso in esame come illegittimo è quello in cui alla persona detenuta viene vietata una libera e non sorvegliata intimità con un proprio partner. Si profila dunque anche per l’Italia una liberalizzazione del sesso in carcere sulla scia di quanto da tempo avviene in Paesi come la Germania, la Svizzera, l’Albania, la Spagna, l’Olanda e la Romania. Il merito è anche di un magistrato di sorveglianza di stanza a Spoleto, Fabio Gianfilippi che, con un’ordinanza promulgata nel gennaio del 2023, ha sollevato il tema giuridico su cui si è espressa la Consulta. La portata di questa sentenza è sicuramente “storica” perché, come rilevato durante i lavori coordinati da Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, ora non si tratta di redigere un’apposita legge in materia, ma semplicemente di applicare nei fatti quello che i giudici ritengono un diritto inalienabile. A proposito del quale, nel dibattito di Padova non è mancato chi ha rilevato come esso trovi posto in una Costituzione scritta da molti che di carcere se ne intendevano, essendo stati detenuti durante la dittatura fascista. L’urgenza del tema è accuratamente sottolineata dalla Corte Costituzionale che descrive come “desertificazione affettiva” quanto si contempla nel “paesaggio del carcere italiano”, alludendo a una brulla e aspra quotidianità estesa a familiari, partner di oggi e di ieri, compagni di strada, amici per sempre, avvocati per la vita. Gli stessi soggetti a Padova portati al centro di dolenti narrazioni su figlie di ergastolani sofferenti di epilessia, studenti ritrovati in carcere poco prima del suicidio, genitori ingombranti proprio perché assenti. È un quadro che imporrebbe una liberalizzazione delle telefonate nelle carceri italiane, dove invece introdurre o detenere cellulari oggi costituisce reato. Perché chiamare a casa, o chi si ama, aiuta a vivere anche dietro le sbarre. Può fare bene rammentarlo anche dove le desertificazioni affettive riguardano noi che, stando “fuori”, parliamo al vuoto mascherato da nomi scritti nell’agenda, o spendiamo fortune di tempo giocando a League of Legends assieme ad altri 180 milioni di fans. E se solo ognuno di questi ultimi destinasse non dieci, ma un centesimo al mese, alle chiamate dei detenuti, l’”affare” sarebbe sotto gli occhi di tutti. Rita Bernardini: “Il mio sciopero della fame per chiedere umanità nelle carceri sovraffollate” di Raffaella Troili Il Messaggero, 26 maggio 2024 “Sono al sedicesimo giorno di sciopero della fame, che in Sicilia vale doppio”. Non è certo il primo, per Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino” candidata al Parlamento europeo con la lista Stati Uniti d’Europa, capolista in Sicilia e Sardegna. Il suo obiettivo è ottenere un segnale concreto da Governo e Parlamento sulle condizioni inumane e degradanti delle carceri italiane... “La proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale dei detenuti che rispettano le condizioni per il rilascio “calendarizzata” in Parlamento grazie a un precedente sciopero della fame portato avanti con Roberto Giachetti, si è arenata alla vigilia delle elezioni europee. Come dire, di diritti umani e civiltà se ne parla dopo”. Nel frattempo nelle carceri italiane la situazione è fuori controllo... “Trentasei suicidi tra i detenuti, oltre a morti e gesti pericolosi. Il sovraffollamento non permette di seguirli dal punto di vista sanitario e rieducativo. Ci sono 14mila presenze in più rispetto alla reale capienza (61mila e 300 a fronte di 47mila posti): problema riconosciuto da tutti, a partire dal presidente Mattarella. Intanto i magistrati di sorveglianza risarciscono con denaro o sconti di pena migliaia di detenuti in base all’articolo 35 ter dell’ordinamento penitenziario sul sovraffollamento”. Ma il problema non si affronta... “E io proseguo lo sciopero, in attesa di risposte dalle istituzioni. Lo Stato è fuori legge, inascoltate le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo e soprattutto il richiamo di Mattarella, garante della Costituzione, ha detto chiaramente alle forze politiche che dignità non è un carcere sovraffollato”. I risvolti sono tanti e pesanti... “Non possiamo definirci democratici se accettiamo la tortura, sbattiamo in carcere e buttiamo la chiave. Il messaggio è questo, e non dimentichiamo che dietro le sbarre ci sono anche innocenti, il 30% dei detenuti in custodia cautelare verrà riconosciuta innocente all’esito del processo. Ogni anno lo Stato risarcisce mille persone per ingiusta detenzione. Molti cittadini percepiscono poi che se una persona è sotto accusa, di fatto è colpevole. Non dimentichiamo il caso Zuncheddu, finito nella gogna, assolto dopo 32 anni. Ho visto tanti Zuncheddu ma anche tanti innocenti dietro le sbarre per piccoli reati, anche presidenti di Regione”. Nel frattempo tutte le carceri sono in sofferenza... “Pannella lo definiva uno Stato criminale. L’emergenza riguarda i detenuti e gli agenti, da soli e sotto organico, ad affrontare persone fragili, psichiatriche, costrette a trattamenti inumani e degradanti. Circa 7mila detenuti devono scontare da 15 giorni a un anno, altrettanti da un anno a due. Migliaia più vicini al fine pena, potrebbero uscire. Faccio campagna elettorale cercando di ottenere con non violenza una risposta su temi di cui mi occupo da anni, comprese le misure alternative più efficaci ai fini della recidiva e il reinserimento sociale. La Salis ha detto che da candidata si occuperà di questi temi, di certo hanno dato tutti più spazio a lei che a me”. Nordio: nel 2026 colmeremo organici magistratura. Intercettazioni, diritti devastati di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2024 Lo ha detto il ministro alla Giustizia, Carlo Nordio, al Festival dell’economia di Trento, aggiungendo che l’Italia è in linea con gli obiettivi fissati dal Pnrr. “Noi per la prima volta entro il 2026 colmeremo gli organici della magistratura. I magistrati in servizio sono circa 9.000 ma dovrebbero essere circa 10.500, quindi abbiamo in progetto di assumerne 1.900 con tre concorsi”. Lo ha detto il ministro alla Giustizia, Carlo Nordio, al Festival dell’economia di Trento. Il Ministro ha poi proseguito affermando che la durata dei processi si sta riducendo in linea con quanto richiesto dall’Europa e che sulle intercettazioni l’Italia ha violato i diritti come stabilito ieri dalla Cedu: faremo una riforma che non intaccherà però la lotta alla mafia, al terrorismo, alla grande delinquenza per la quale le intercettazioni restano necessarie. Il Ministro ha poi detto che l’abuso d’ufficio non è un reato spia della corruzione, e che si impegnerà per far approvare una norma che tuteli i giornalisti contro le querele temerarie. Infine, sul caso Salis: il Governo ha seguito la procedura. Pnrr, siamo in linea - Per quanto riguarda le risorse del Pnrr, “abbiamo lavorato sulla scia del governo precedente e abbiamo ottenuto dei risultati molto importanti. Abbiamo ridotto l’arretrato in maniera consistente: è una zavorra, ma il programma va avanti. La durata dei processi si sta riducendo in linea con quanto richiesto dall’Europa. In due anni abbiamo investito oltre 818 milioni di euro nell’amministrazione giudiziaria, di cui 133 milioni in digitalizzazione. Entro marzo 2026 verranno riqualificati 481.000 metri quadrati di strutture. Noi siamo perfettamente in linea con quanto chiesto dall’Europa, quello che ci è stato promesso in parte l’abbiamo ottenuto e in parte l’otterremo”, ha proseguito il Ministro Nordio. “Non si tratta né di sprechi né di obiettivi fantasiosi. Gli obiettivi posti dall’Europa li stiamo step by step raggiungendo. Pact sunt servanda, ma alcuni aspetti possono essere rimodulati. Assumere a termine, ad esempio, per l’ufficio del processo significa demotivare, noi stiamo cercando invece di trovare una soluzione per dare il posto fisso a queste persone”, ha aggiunto. Intercettazioni, diritti devastati - “I diritti sono stati devastati sulle intercettazioni” ha affermato il ministro rispondendo ad una domanda sul pronunciamento della Corte europea per i diritti dell’uomo sul caso Contrada. “La Cedu dice che noi abbiamo violato i diritti umani. Noi faremo una riforma sulle intercettazioni: per quanto riguarda la lotta alla mafia, al terrorismo, alla grande delinquenza le intercettazioni sono non solo indispensabili ma insufficienti. Dopodiché il caso odierno è emblematico, perché non è stata tutelata la ‘terza persona’ non coinvolta in indagini”. “Il pacchetto Nordio andrà in parlamento e stiamo lavorando ad una riforma delle intercettazioni e dei sequestri”. “Mi domando - ha concluso sul punto - che effetto avrà la sentenza su alcune indagini in corso. Le intercettazioni devono essere un mezzo di ricerca della prova e non un mezzo di prova”. Abuso d’ufficio non è reato spia - Per quanto riguarda la lotta alla corruzione, Nordio ha detto “l’Italia ha un arsenale normativo penale che è il più severo e agguerrito d’Europa con 17 norme per combattere la corruzione”, ma che il suo contrasto va disgiunto dall’abuso d’ufficio. “Non è un reato spia ma il contrario della corruzione, allora il rimedio è annullare l’atto amministrativo illegittimo ed il risarcimento del danno pecuniario che è molto più efficace della norma penale”. Stampa, norma per i giornalisti - Sulla tutela della libertà di stampa, infine, Nordio ha detto che vorrebbe introdurre “la querela o la citazione temeraria, c’è comunque l’impegno per una norma a tutela dei giornalisti”. Caso Salis, seguita procedura - “Io farei una grande distinzione fra il papà della detenuta che è condizionato dall’emotività e gli esperti del settore. Non è possibile che un governo interferisca con la magistratura. È stata seguita la procedura prevista dagli accordi internazionali: chiedere gli arresti domiciliari in Ungheria è la conditio sine qua non per chiederli in Italia”. Ha conclusi il ministro della Giustizia, rispondendo a una domanda sul caso di Ilaria Salis. La lezione del Gip di Milano alla Procura sul diritto di difesa di Simona Musco Il Dubbio, 26 maggio 2024 Caso Boyun, la vicenda dei due avvocati per i quali i pm avevano chiesto la misura cautelare. Negata però dal giudice Roberto Crepaldi. “Ci si deve domandare (...) che ne sarebbe del diritto di difesa se i rapporti economici tra indagato e difensore fossero scandagliati sotto la lente - particolarmente penetrante - della ricettazione e/o dell’incauto acquisto”. A scriverlo è il gip del Tribunale di Milano Roberto Crepaldi, che ha respinto la richiesta di interdittiva avanzata dalla procura nei confronti di due avvocati. Secondo l’accusa, i due, difensori del presunto boss della mafia turca Baris Boyun in un altro procedimento, si sarebbe fatti pagare con denaro sporco “essendone consapevoli, con l’aggravante di avere commesso i fatti nell’esercizio della professione legale in quanto nominati di fiducia” dal turco. Un’opzione respinta dal gip, che ha allertato i colleghi pubblici ministeri sul rischio di confondere i piani. Sul rischio, cioè, di “screditare” la funzione difensiva, di fatto impedendone il libero esercizio, laddove il pagamento dell’onorario venisse inteso come concorso in un reato. Il classico cortocircuito, insomma, che vuole il difensore complice del proprio assistito. Di più, identificato con esso. La notizia è stata però data in pasto ai giornali così: anche sulle grandi testate, infatti, le ipotesi d’accusa sono state messe in bocca al giudice delle indagini preliminari. Il contrario di quanto avvenuto, dal momento che il gip, per spiegare ai colleghi l’assurdità dell’accusa, ha pure tirato in ballo la giurisprudenza tedesca, nel tentativo di chiarire i rischi di un simile modo di procedere. Anche perché gli indizi per attribuire ai due difensori una consapevolezza della possibile provenienza illecita di quei soldi si riducono a pochi elementi, del tutto ambigui e peraltro frutto di intercettazioni tra indagato e assistito, un fatto vietato dalla legge: secondo il pubblico ministero Bruna Albertini, “la consapevolezza dell’illiceità dell’origine del denaro deriverebbe dal contenuto di un dialogo intercettato, nel quale il Boyun afferma, riferito ai due difensori, che “siamo diventati amici, quasi come fratelli e durerà per sempre/fino alla morte questo legame. Quando c’è un problema qui, ci riuniremo frequentemente”. Frase che si accompagna all’appellativo “grande capo Boris”, utilizzato da uno dei due avvocati per riferirsi a Boyun. Ma quella frase viene pronunciata in tono scherzoso, scrive il gip. E da sola, d’altronde, cosa potrebbe significare? Quando si ipotizza la ricettazione in capo ad un avvocato, dice il gip, serve “cautela”, per un duplice ordine di ragioni. “In primo luogo, egli ha fisiologicamente rapporti economici con soggetti quantomeno sospettati di aver commesso un delitto, cosicché l’eventuale consapevolezza della qualità criminale del proprio debitore - già insufficiente secondo l’opinione della Suprema Corte in relazione ad un normale rapporto obbligatorio - deve essere considerata irrilevante - scrive il giudice -. Se così non fosse, infatti, il difensore non potrebbe mai esigere il pagamento degli onorari dal proprio assistito quando egli gli abbia confessato - in seno al rapporto fiduciario - di essere dedito al crimine, ovvero dopo la condanna definitiva del cliente privo di lecite fonti di reddito. In secondo luogo, non può non evidenziarsi la delicatezza della situazione qui vagliata, stante la necessità di considerare gli interessi sottesi al rapporto difensivo, il quale si differenzia da qualsiasi altro rapporto contrattuale perché attiene al fondamentale - anche sul piano costituzionale - diritto di difesa”. Che potrebbe andare a farsi benedire se i rapporti economici tra le parti, appunto, fossero intesi come affari “loschi”. Il Gip ha seguito la strada della giurisprudenza tedesca, che per non “pregiudicare il diritto al libero esercizio della professione e il diritto di difesa del cliente” ha optato per “un approccio restrittivo”, con la possibilità di effettuare incriminazioni solo quando “il professionista abbia piena ed attuale consapevolezza dell’origine delittuosa del denaro, lasciando fuori dall’area della rilevanza penale situazioni di mero sospetto”. Leggere il pagamento di una parcella sotto la lente del riciclaggio o della ricettazione, infatti, rischia “di interferire con la serenità del rapporto difensivo (intesa come libertà dell’assistito di confidare particolari contra sé e del difensore di ricevere tali confidenze), di creare conflitti di interessi tra difensore e assistito, costringendolo a scegliere tra la rinuncia al mandato e il compenso e, in fondo, interferendo con il diritto costituzionale di difesa”. Da qui la condivisione della soluzione tedesca: un penalista, scrive il giudice, “potrà essere punibile solo se ha acquisito, al momento dell’accettazione, la certezza che il denaro proviene da reato, senza che si possano imporre a questi obblighi di indagine sulle fonti di reddito (legali o illegali) del cliente”. Proprio per tale motivo, date le fonti di prova, è stato impossibile accogliere la richiesta del pm. In primo luogo in quanto i dialoghi utilizzati come indizio “non offrono particolari spunti”: “Non è stato evidenziato alcun rapporto anomalo tra i due difensori e il Boyun”, scrive il giudice. Di più: “Non sono emerse condotte di favoreggiamento dei difensori né nulla che, sotto il profilo penale o anche solo deontologico, suggerisca una cointeressenza patologica”. E per vedere nell’appellativo “grande capo” un indizio, aggiunge il gip, servirebbe “un grosso sforzo di fantasia”. L’unico fattore sospetto resta il pagamento in contanti, date anche le somme elevate (decine di migliaia di euro). Ma il quadro è “reso ulteriormente incerto, sotto il profilo della piena consapevolezza dei due, dalle caratteristiche del debitore: il contante, infatti, potrebbe trovare spiegazione alternativa anche nel fatto che trattasi di soggetti stranieri, privi di un’occupazione in Italia e il cui sostentamento ben potrebbe essere garantito da soggetti ancora residenti in patria, i quali invierebbero le somme necessarie in contanti”. La vicenda ha suscitato la preoccupazione del Coa di Milano, che già aveva protestato vibratamente per le indagini a carico di Alessia Pontenani, avvocato di Alessia Pifferi, condannata per aver lasciato morire di stenti la figlia di soli 18 mesi. Un’indagine, avevano detto, che metteva a rischio il diritto di difesa. Il Coa ha espresso preoccupazione, auspicando “che sia sempre garantito il diritto costituzionale di difesa, avendo, peraltro, sempre tutelato l’autonomia e l’indipendenza di ogni iniziativa investigativa”. Un auspicio fatto proprio anche dal Movimento Forense: “È necessario voltare pagina - si legge in una nota -, salutando appunto un’epoca triste che vede, tra le tante, il martirio processuale che subiscono per decenni famosi servitori dello Stato”. Dura la reazione della Camera penale meneghina: “Avevamo denunciato, nella vicenda Pifferi, un’impostazione culturale che sospetta del difensore, lo vorrebbe docile nell’esercizio del proprio ruolo e lo inquisisce a processo in corso - si legge in una nota -. Il tutto con il corredo di spigolature a mezzo stampa che travolgono la presunzione d’innocenza e contaminano le regole per la formazione della prova. La notizia di ieri è l’ennesimo salto di qualità. A poco più di due mesi dall’astensione e dalla partecipata assemblea del 20 marzo scorso è chiarissimo che il diritto ad una piena e libera difesa è tutt’altro che scontato e richiede di essere tutelato, nella nostra quotidiana esperienza di avvocati penalisti e in tutte le sedi istituzionali”. Solidarietà ai due avvocati è arrivata anche dalla Camera penale di Roma, che richiama il codice di procedura penale e, in particolare, l’articolo 103, che tutela le conversazioni tra avvocato e assistito. Articolo che, affermano i penalisti nella nota, non è stato adeguatamente “difeso” nemmeno dal gip, che pure ha scongiurato la misura interdittiva. “La delicatezza e particolarità del rapporto professionale che scrutina gli fa contenere la richiesta cautelare sul versante del dolo del delitto, lasciando invece tracimare le pretese dell’accusa proprio sul nervo scoperto della riservatezza dei dialoghi con l’assistito: lo sarebbero solo quando riferiti al processo per cui è conferita la nomina, secondo l’ordinanza; il che implicherebbe per un verso che sia comunque consentito l’ascolto dei dialoghi per poterli catalogare e, per altro verso, che il difensore attivasse, mentre parla con l’assistito, una sorta di interruttore dei temi - scrive la Camera penale -. È stato uno dei più autorevoli avvocati che il nostro Foro abbia mai conosciuto, Giovanni Aricò, a ricordare che, se quello penale è il codice dei delinquenti, quello di procedura è il codice dei galantuomini. Si farebbe meglio a rileggerlo, di tanto in tanto”. La difesa di Massimo Bossetti non si arrende: “La sua condanna è un grave errore giudiziario” di Davide Varì Il Dubbio, 26 maggio 2024 I legali dell’imputato condannato in via definitiva all’ergastolo si oppongono alla richiesta di archiviazione nei confronti della magistrata Letizia Ruggeri. E rincarano la dose: “Lei ha mentito”. “Abbiamo chiesto che non gli sia consentito di accedere a questi reperti, né ora né mai, né per la revisione né per niente altro”. La dichiarazione del pm di Bergamo Letizia Ruggeri resa alla procura di Venezia e contenuta nell’ultimo atto della difesa di Massimo Bossetti, condannato in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, sarà presto valutata dal gip Alberto Scaramuzza - lo stesso che aveva sollecitato approfondimenti sulla magistrata indagata per frode in processo e depistaggio - ma mediaticamente riaccende fin da ora l’attenzione sui campioni di Dna che la difesa ha potuto visionare solo lo scorso 13 maggio, a ormai dieci anni dal match genetico con Ignoto 1. L’opposizione dell’avvocato Claudio Salvagni - Il 17 luglio prossimo il gip Scaramuzza dovrà pronunciarsi sulla richiesta della procura di Venezia di archiviare l’indagine sul pm Ruggeri e sull’opposizione presentata dall’avvocato Claudio Salvagni, istanza che ha già superato il vaglio di ammissibilità. I due provvedimenti - visionati dall’Adnkronos - svelano dettagli nuovi su quella che è la prova regina contro Bossetti, ma gettano anche ombre su presunte ipotesi di dirottare il processo. Al centro della disputa c’è la conservazione dei 54 campioni di Dna - estratti dagli abiti di Yara e contenenti la traccia mista di vittima e carnefice - spostati dal frigo dell’ospedale San Raffaele all’ufficio Corpi di reato del tribunale di Bergamo. Deterioramento dei campioni di Dna - Un cambio di destinazione che interrompendo la catena del freddo (i reperti erano conservati a 80 gradi sotto zero) potrebbe aver compromesso il materiale biologico e la possibilità di nuove analisi. Un trasferimento che sarebbe stato deciso dal pm Letizia Ruggeri senza attendere il provvedimento della corte d’Appello di Bergamo, giudice dell’esecuzione, ignorando l’allarme dei carabinieri sul rischio di deterioramento dei campioni di Dna e pregiudicando così la possibilità di un giudizio di revisione che la difesa da tempo persegue. “Ansia di distruzione” delle provette che contengono il Dna - Sono due le questioni su cui il gip di Venezia dovrà fare chiarezza: se il pubblico ministero di Bergamo era consapevole che spostando i campioni di Dna avrebbe potuto comprometterne l’integrità e se questa scelta abbia avuto come fine quello di depistare le indagini. La procuratrice aggiunta di Venezia Paola Mossa non ha dubbi: Letizia Ruggeri ha agito con “correttezza”. Nella richiesta di archiviazione di cinque pagine si ricorda che nel novembre del 2018 - poco dopo la sentenza della Cassazione su Bossetti - i carabinieri del Reparto operativo di Bergamo chiedono di indicare la destinazione dei reperti che verranno spostati in tribunale solo il 2 dicembre dell’anno successivo, a testimoniare “nessuna “ansia di distruzione”“ da parte del pubblico ministero “ma solo richieste e provvedimenti conformi al dettato normativo e alle autorizzazioni ricevute”. “È vero che nel provvedimento di confisca la corte d’Assise fa riferimento alla non opportunità di provvedere, allo stato, alla distruzione dei reperti, e che il deposito degli stessi in luogo non dotato di congelatori ne avrebbe probabilmente alterato l’integrità; ma è altrettanto vero che quel provvedimento interviene solo il 15 febbraio 2020” quando le provette sono già da due mesi e mezzo all’ufficio Corpi di reato. Una “soluzione di prudenza da parte del giudice” i cui costi economici avrebbe dovuto comportare “l’ipotesi di una responsabilità sotto il profilo contabile per il pubblico ministero” scrive la procura. Soprattutto “non vi era poi alcuna ragione perché la Ruggeri dovesse ‘temere’, così da volerlo impedire, il giudizio di revisione e con esso la possibilità di pervenire a un risultato diverso. La prova scientifica su cui si fonda il giudizio di responsabilità a carico del Bossetti è risultata assolutamente solida e non vi sono elementi per ritenere che accertamenti successivi e ulteriori possano inficiarla”. Cosa scrive la procura di Venezia sul caso di Bossetti - Per la procuratrice aggiunta di Venezia, “i dati acquisiti durante le indagini e valorizzati in sede dibattimentale consentono di affermare la perfetta corrispondenza” tra Ignoto 1 e Bossetti, conformità che “non è stata mai posta in dubbio neanche dalla difesa” ed “è dato non superabile”. Dunque “deve ritenersi privo di qualunque fondamento un interesse del pubblico ministero - la bontà del cui operato è attestata anche dalla Corte di Cassazione che riconosce a coloro che si erano occupati delle indagini ‘caparbietà e competenza’ - a sottrarre quei reperti ad accertamenti ulteriori che mai potrebbero mettere in discussione quel risultato”. Cosa contesta l’avvocato difensore di Massimo Bossetti - Di tutt’altro tono l’opposizione della difesa di Bossetti che chiede il rinvio a giudizio della pm Letizia Ruggeri, la quale “nessun diritto aveva a distruggere i campioni, provvedimento riservato esclusivamente al giudice”, ordinando il 2 dicembre del 2019 il trasferimento delle 54 provette in tribunale “quando già aveva avuto conoscenza dell’autorizzazione del giudice dell’esecuzione alla difesa di esaminare i campioni”, ok arrivato tre giorni prima. “Ha agito in modo consapevole (conoscendo le norme e ignorando anche l’allarme prospettatole dai carabinieri), in modo tale da rendere i reperti biologici inservibili per nuove indagini” si legge nell’istanza di 43 pagine. Avrebbe così messo in atto “una attività criminale, un abuso inaccettabile, una violenza gratuita” distruggendo i campioni di Dna che hanno portato alla condanna di Massimo Bossetti e che, “se sottoposti a nuovo esame (ancora possibile in stato di corretta conservazione come affermato dai consulenti tecnici Lago e Casari al pm di Venezia), avrebbero potuto scagionarlo”. Questi reperti “sono stati distrutti non per caso fortuito o forza maggiore, non è stata una casuale interruzione di energia elettrica a bloccare i frigoriferi in laboratorio, a provocare lo scongelamento delle provette, ma una attività ordinata da chi quei reperti li doveva, per legge, custodire. Ora, ed è confessorio, si è avuta la conferma del perché di tale volontaria e scientifica distruzione: “abbiamo chiesto che non gli sia consentito di accedere a questi reperti, né ora né mai, né per la revisione né per niente altro” si legge nell’istanza della difesa che riporta una frase delle dichiarazioni spontanee del 13 febbraio del 2023 del pm Letizia Ruggeri. Nuova comparazione del Dna - Affermazione che se legata a quella del professor Giorgio Casari davanti all’allora procuratore vicario di Venezia Adelchi D’Ippolito - “mi venne quasi spontaneo chiedere come mai allora non si accolse quella insistente richiesta della difesa del Bossetti di procedere in contraddittorio ad una nuova comparazione del Dna con il materiale (i 54 campioni, ndr) …anche perché e voglio ribadirlo anche in questa sede tale comparazione era a mio giudizio assolutamente possibile. Il professor Previderé mi ha risposto dicendomi che, in una situazione del genere, appariva più opportuno non ripetere un esame che, a fronte della scarsità del materiale genetico e di possibili contaminazioni, avrebbe potuto dare risposte ambigue e di fatto non significative vale a dire un non risultato” - rappresenta per la difesa Bossetti un’inquietante presa di coscienza: quell’esame, se ripetuto, “non avrebbe restituito il medesimo risultato, ‘smontando’ così, una inchiesta dai costi esorbitanti. Ed è per questo che, a fronte di una autorizzazione ‘imprevista’, andavano distrutti”. Su quelle provette chi conosce il caso non dimentica le domande fatte sempre dal procuratore D’Ippolito alla Ruggeri (riportate nella prima opposizione della difesa): “Le contesto e la porto a conoscenza del fatto che il professor Casari e il colonnello Lago (Ris di Parma, ndr) hanno qui detto, da me interrogati, che l’esame era assolutamente ripetibile e che c’era del Dna sufficiente per poter effettuare una nuova comparazione e vedere se quel Dna era effettivamente oppure no il Dna di Bossetti, che si poteva fare…”. Dichiarazioni che spiazzano. “Ma assolutamente no, ma abbiamo tutto un processo in cui - mette a verbale la pm -…ho tutti i verbali del processo in cui è emersa una cosa completamente diversa. Ma…cioè sono anche abbastanza meravigliata”. E aggiunge: “Si, certo, qualcosa magari si tira fuori, ma... ma non... ma non con questa certezza in questi termini con cui mi viene prospettato adesso, nel modo più assoluto. Io so che era un materiale assolutamente…cioè i rimasugli assolutamente scadente, inidoneo per qualsiasi altra comparazione e ripetizione di esame. Cioè il Dna di Bossetti, così bello, così limpido, di cui abbiamo parlato per tutte queste udienze, così inequivocabile, da quei reperti non verrà mai più fuori. Questo è quello che loro hanno detto a me. Per cui rimango veramente sorpresa”. Le ulteriori critiche della difesa di Bossetti alla pm Ruggeri - Per Bossetti c’è anche un’altra precedente “colpa” della magistrata che è il volto dell’inchiesta sull’omicidio di Yara. “Non ha mai dichiarato in alcun modo, l’esistenza dei 54 reperti biologici, non l’ha fatto all’udienza preliminare, quando la difesa insisteva per giungere a un incidente probatorio, non l’ha fatto quando ha domandato di acquisire la consulenza genetica al fascicolo del dibattimento come accertamenti irripetibili, non l’ha fatto quando ha conosciuto la sentenza di secondo e terzo grado”, ma “è rimasta in silenzio, in assoluto silenzio, un assordante e clamoroso silenzio” si legge nell’opposizione alla richiesta di archiviazione. “Sono proprio quei reperti, tenuti opportunamente nascosti, per evitare la formazione della prova in dibattimento, che dovevano essere assolutamente distrutti per evitare che venisse, anche nella fase esecutiva, in superficie la verità, ovverosia che tre gradi di giudizio sono stati completamente falsati, proprio per effetto di quel “nascondimento”. I campioni di Dna “non solo non erano esauriti, ma erano idonei per nuove analisi, come affermato dai testimoni qualificati”. Un silenzio che per la difesa, che con “sorda ostinazione” prova a riaprire il processo, ha impedito di dimostrare, e oggi rende ancora più complicato farlo, che il match tra Ignoto 1 e Massimo Bossetti è un “clamoroso errore”. Ferrara. Zan (Pd): “In carcere situazione esplosiva, sovraffollamento al limite” di Nicolò Govoni estense.com, 26 maggio 2024 Non è più sostenibile la situazione nella Casa Circondariale Costantino Satta di Ferrara. I dati presentati nella conferenza stampa di sabato nel piazzale antistante il carcere, indetta dall’unione comunale Pd Ferrara, parlano chiaro: il sovraffollamento è ormai al limite, il numero di agenti è ridotto e la costruzione del nuovo padiglione andrebbe ad aggravare questi numeri, e a togliere importanti spazi rieducativi. E l’onorevole Alessandro Zan attende una risposta dal ministro Nordio. “La situazione è sempre più critica”, introduce il consigliere uscente Davide Nanni. “I detenuti sono 407 su 244 posti di capienza massima, a fronte di 152 agenti su 212 unità previste; gli agenti e assistenti maschili sono 111 su 150 previsti. Ci sono nove circuiti detentivi, e adesso in Consiglio comunale è stata votata la deroga per la costruzione di un nuovo padiglione: altri 80 detenuti, che andrebbero ad aggravare il sovraffollamento, senza la rassicurazione ministeriale di nuovi agenti, riducendo inoltre spazi dell’attività rieducativa. In Consiglio comunale e in sede parlamentare è stato chiesto che il Ministero intervenga”. Era presente l’onorevole Alessandro Zan, autore dell’interrogazione: “Ringrazio il Pd di Ferrara, i consiglieri Nanni e Baraldi e il candidato Anselmo; e saluto la senatrice Ilaria Cucchi, simbolo della lotta per la giustizia e i diritti umani dei detenuti. La situazione è esplosiva: il carcere ha un sovraffollamento superiore alle medie nazionali. C’è quindi una qualità bassissima di recupero della pena dei carcerati, che rimangono cittadini e cittadine di questo Paese e devono avere una possibilità. L’Articolo 27 della Costituzione è chiaro: se il detenuto è riconosciuto come una persona, attraverso l’attività lavorativa ed educativa anche fuori dal carcere, si può abbattere la recidiva, per la sicurezza di tutta la società. La qualità di una struttura detentiva è lo specchio di come sta la nostra società: se il carcere sta male, tutta la società sta male”. “Alla camera in Commissione giustizia abbiamo chiesto un’informativa da parte del Dap, il dottor Giovanni Russo - prosegue l’onorevole Zan - e ci è stato detto che non arrivano i soldi dal Governo. Io penso che anche il Dap abbia responsabilità: non si può lasciare a se stessa una struttura. La questione del padiglione è un’altra faccia dell’approccio che la destra ha al carcere: solo punitivo. Questo crea solo maggiore esasperazione, quando noi dovremmo lavorare perché le attività trattamentali extramurarie siano invece favorite, stravolgendo il paradigma della detenzione. Ho presentato un’interrogazione al ministro Nordio, e solleciteremo una risposta: non può esserci silenzio su una questione così grave”. Ha preso la parola anche il candidato sindaco Fabio Anselmo: “Non accettiamo che si speculi sulla vita della gente, e buttare via le chiavi è una spesa per tutti. Le condizioni di queste carceri sono un costo in crescita: chi pensa che sia giusto così deve capire che paga di più. Laddove in carcere ci siano condizioni umane, la recidiva diminuisce in maniera esponenziale. L’esempio è la Norvegia: hanno riformato il sistema, c’è molta rieducazione, e la recidiva è calata al 20%. Bisogna essere pragmatici. Un carcere aperto, con organici in ordine e con un recupero dei detenuti, costa meno alla comunità”. “Nordio - prosegue Anselmo - sosteneva che avrebbe ridotto la popolazione carceraria e i reati: entrambi sono aumentati. Vorrei che gli italiani e i ferraresi si rendessero conto di quanto nociva sia questa propaganda, e di quanto costi a loro e ai loro figli: invertiamo la rotta, e mettiamo di fronte alla loro responsabilità i politici che governano l’Italia e questa città. Riconoscere i diritti umani è un investimento per noi e per il futuro”. A corollario Anna Chiappini, consigliera uscente: “Con il consigliere uscente Mauro Vignolo presto attività di volontariato nel carcere: quando si è a contatto diretto con gli ospiti sembra che queste persone non abbiano avuto delle opportunità, e molto spesso si trovano qui per un percorso di vita disfunzionale. Dobbiamo dare loro la speranza che ci siano opportunità di miglioramento, che loro possano acquisire strumenti in questi anni, altrimenti tocchiamo un senso di impotenza e una grande rabbia”. Da segnalare che sulla situazione del carcere di Ferrara da tempo anche la Camera Penale Ferrarese aveva segnalato la problematica relativa al nuovo padiglione che si vorrebbe creare, intervenuta nuovamente in queste ore per sottolinearne la criticità: “La nostra associazione da quando è stata appresa la notizia ha a più riprese evidenziato sulla stampa locale il fatto che, la creazione di un nuovo padiglione andando a discapito dei pochi spazi di socialità esistenti, finirebbe per incidere pesantemente sul diritto costituzionale che prevede che la pena debba tendere alla risocializzazione del condannato. L’idea di fondo che il sovraffollamento carcerario possa essere risolto attraverso la creazione di nuovi istituti penitenziari, ovvero attraverso l’ampliamento di quelli già esistenti, è pura utopia e rappresenta una visione non conforme ai nostri principi costituzionali ed al diritto comunitario”. Verona. Il ministro Nordio: “Nessun privilegio in carcere per Chico Forti” di Angela Pederiva Il Gazzettino, 26 maggio 2024 Come per Filippo Turetta, così anche per Chico Forti. Per entrambi i detenuti “famosi” nel carcere di Montorio Veronese è scoppiata la polemica sui presunti trattamenti di favore rispetto agli altri ristretti, ma in ambedue le situazioni il dicastero della Giustizia ha preso posizione per escludere favoritismi. Sull’assassino reo confesso di Giulia Cecchettin era intervenuto a gennaio il sottosegretario Andrea Ostellari, mentre del condannato per l’omicidio di Dale Pike ha parlato ieri il ministro Carlo Nordio: “Non ci sono corsie preferenziali”. A margine del suo intervento al Festival dell’economia di Trento, la città di Forti, Nordio ha commentato il dibattito di questi giorni sugli episodi che hanno riguardato il 65enne, come la foto nel penitenziario con il deputato Andrea Di Giuseppe, gli apprezzamenti per il menù cucinato dallo chef, il permesso in tempi rapidi per la visita all’anziana madre Maria Loner. “Le critiche ha premesso il ministro sono il sale della libertà e in una democrazia non mi stupiscono. La situazione è chiarissima, l’accordo con gli americani è stato pieno e leale. Ci sarà un’espiazione della pena secondo le leggi italiane che gli americani conoscono perfettamente e abbiamo ottenuto il grande risultato umano che una persona detenuta possa vedere la madre molto anziana e su questo siamo soddisfatti”. L’esponente di Fdi ha definito il rientro di Forti in Italia come “un grandissimo risultato ottenuto dal Governo italiano, con la presidente del Consiglio che si è spesa moltissimo, così come il mio ministero”. Nordio ha precisato che l’obiettivo è stato centrato “contattando per mesi e mesi” le autorità statunitensi e “spiegando agli americani anche la legislazione italiana”, rendendoli “consapevoli” che una volta tornato, il trentino “sarebbe stato soggetto alla legislazione italiana che prevede forme di liberazione anticipata anche nel caso dell’ergastolo, purché non sia ostativo e questo non lo è”. Secondo l’ex magistrato, inoltre, non ci sono state forzature nemmeno nella rapidità con cui la Sorveglianza ha autorizzato la visita a Trento: “È stato un grande successo umanitario per una persona che dopo 25 anni in carcere può espiare il resto della pena nel suo Paese di origine vedendo la mamma. È un momento di soddisfazione per il Governo essere riusciti a convincere un Governo amico, ma molto rigoroso per quanto riguarda l’espiazione della pena come quello americano, che il nostro sistema è in grado di garantire la prosecuzione della pena coniugata con l’umanità e la tendenza alla rieducazione del condannato che è scritta nella nostra Costituzione”. Un principio rivendicato pure da associazioni come “Sbarre di zucchero”, che però appunto lo invocano per tutti i 61.000 reclusi. A proposito di detenuti all’estero, intanto, è polemica per quanto accaduto ieri in Ungheria nel processo a Ilaria Salis. Il giudice Josef Szos ha rivelato l’indirizzo dove l’attivista milanese sta scontando da giovedì i domiciliari. Immediata la protesta del padre Roberto Salis, che si è girato verso l’ambasciatore italiano Manuel Jacoangeli: “Bisogna fare qualcosa”. Il diplomatico ha allertato la Polizia: “Abbiamo fatto subito una nota alle autorità ungheresi, segnalando quanto avvenuto e chiedendo l’adozione di tutte le misure necessarie per garantirle la sicurezza”. Nel frattempo il Sindacato di Polizia penitenziaria paventa il rischio che i casi Forti e Salis alimentino una campagna problematica per il rimpatrio dei 2.058 ristretti italiani dai penitenziari esteri. “Se rientrassero tutti ha dichiarato il segretario generale Aldo Di Giacomo farebbero collassare le nostre carceri già con un sovraffollamento vicino al 130% della capienza. Il caso Forti ha concluso Di Giacomo continua ad alimentare polemiche politiche e legittime proteste tra i detenuti, a cominciare da quelli di Verona, per il trattamento da “star”. Non vorremmo che diventasse un esempio su come trattare i detenuti italiani al rientro”. Forlì. Altremani Impresa sociale festeggia in carcere i suoi primi 2 anni di attività forlitoday.it, 26 maggio 2024 Una grande festa per l’impresa sociale che prende il nome dal Laboratorio Altremani, nato appunto all’interno del carcere nel 2006 grazie al lavoro di rete tra Carcere, Provincia, Mareco Luce, Ispettorato del Lavoro, organizzazioni sindacali e l’ente di formazione Techne, che in questi 18 anni ne ha curato la regia. Altremani Impresa sociale festeggia in carcere i suoi primi 2 anni di attività alla presenza dei tanti imprenditori soci accomunati dal forte senso di responsabilità sociale grazie al quale sono nati e si sono sviluppati i laboratori produttivi in carcere. Prima società nata in provincia con l’unico scopo di lavorare sui temi dell’esecuzione penale, Altremani opera esclusivamente a favore della sicurezza sociale del territorio provinciale di Forlì Cesena, attraverso il lavoro dei detenuti (e ex-detenuti) della Casa Circondariale di Forlì e attraverso le attività educative finalizzate a diffondere la cultura della legalità e della tolleranza, cercando di salvaguardare i giovani dal pericolo di esperienze dirette di esecuzione penale. In occasione dell’assemblea soci della società Altremani, gli imprenditori soci hanno festeggiato con i detenuti lavoratori il secondo anno di vita di questa innovativa società, nata da un’idea delle imprese committenti che già operavano in carcere, unitamente all’ente di formazione Techne. La Società Altremani esercita, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, principalmente attività mirate all’inserimento e reinserimento nel mercato del lavoro di persone in esecuzione penale interna (presso la Casa Circondariale di Forlì) o esterna al fine di fornire alle persone un’opportunità di lavoro stabile e duraturo per la vita successiva al fine pena. 20 soci tra professionisti e imprenditori del territorio si sono uniti, 2 anni fa, per costituire un nuovo ente del terzo settore, senza finalità di lucro, capace di fare innovazione, welfare e sicurezza sociale. Dal 2006 in carcere sono stati realizzati vari laboratori di cui oggi si occupa direttamente l’impresa Altremani: assemblaggio, saldatura, falegnameria, produzione carta e incollaggio shopper che rappresentano un’esperienza di grande successo sia in termini occupazionali che economici, garantendo nel tempo a oltre 110 detenuti regolari contratti di lavoro. Una grande festa per l’impresa sociale che prende il nome dal Laboratorio Altremani, nato appunto all’interno del carcere nel 2006 grazie al lavoro di rete tra Carcere, Provincia, Mareco Luce, Ispettorato del Lavoro, organizzazioni sindacali e l’ente di formazione Techne, che in questi 18 anni ne ha curato la regia. “Siamo molto orgogliosi di questi primi 2 anni di attività della nostra società - chiarisce Daniele Versari, presidente dell’impresa sociale - grazie all’impegno e alla dedizione dei soci di Altremani siamo riusciti a dare a tanti detenuti una seconda opportunità, permettendo loro di imparare un mestiere e riscoprire il valore del lavoro”. “Il nostro territorio ha il grande merito di saper fare rete - sottolinea Lia Benvenuti, direttore generale di Techne - 43 partner tra imprese, istituzioni, enti hanno rinnovato nei mesi scorsi un importante Protocollo di Rete mirato all’inclusione delle persone detenute e al loro reinserimento nella società e nella legalità”. Ancona. Plastic Free per la prima volta nel penitenziario di Montacuto con Seconda Chance plasticfreeonlus.it, 26 maggio 2024 Mattinata coinvolgente ed emozionante quella trascorsa dal nostro referente regionale Plastic Free Marche e Umbria, Leonardo Puliti, e dalla nostra referente locale di Numana, Francesca Tarabelloni. Ad accompagnarli all’ interno del penitenziario dorico, Caterina Piermarocchi, referente regionale di Seconda Chance. Obiettivo dell’iniziativa è stato quello di incontrare e sensibilizzare anche i detenuti sul grave problema dell’utilizzo smodato della plastica, condividendo con loro delle buone pratiche per cercare di limitare e puntare a risolvere il problema. Plastic Free, da sempre in prima linea nella sensibilizzazione di scuole di ogni ordine e genere, per la prima volta si è recata all’interno di un penitenziario per sensibilizzazione dei detenuti. Tutti i detenuti intervenuti, hanno dimostrato grande interesse e grande disponibilità al confronto. Il team Plastic Free Marche li ringrazia per la loro partecipazione e per aver donato, con le loro storie, delle bellissime emozioni ai due nostri referenti presenti. “Il problema della Plastica è un problema molto sentito anche all’interno del penitenziario - afferma Leonardo Puliti (Plastic Free) - e questo a conferma che siamo tutti sulla strada giusta. Colgo l’occasione per ringraziare la Direttrice del carcere, Dott.ssa Manuela Ceresani e la Polizia Penitenziaria di Montacuto che ci hanno permesso questa bellissima esperienza”. Vibo Valentia. “Scuola dentro”, conclusione del progetto che coinvolge studenti e giovani detenuti ilvibonese.it, 26 maggio 2024 Gli allievi dell’istituto “Gagliardi” racconteranno l’esperienza vissuta a contatto con i minorenni dell’Istituto penale “Paternostro” di Catanzaro. Saranno presenti alla conferenza finale le massime autorità del territorio. Gli studenti dell’Ipseoa “Gagliardi”, nell’ambito di una conferenza conclusiva (lunedì 27 maggio, ore 11, Aula Magna) racconteranno l’esperienza vissuta grazie al progetto “Scuola dentro”. Ad essere protagonisti in 45 che hanno dato vita ad attività laboratoriali nei diversi indirizzi con i minori detenuti nell’Istituto penale dei minorenni “Paternostro” di Catanzaro. Cinque uscite in cui gli studenti hanno svolto attività laboratoriali di cucina, pasticceria, agraria e scienze motorie e, come momento conclusivo, lo Sport con una partita di calcetto (con i docenti Santina La Gamba, Antonio Ramondino, Costantino Loiacono, Lina Platì, Raffaele Cuppari, Vincenzo Pesce, Francesco Marasco e Paola Cosmano, accompagnati da Pasquale La Serra). Superare i pregiudizi - Nella conferenza si farà un bilancio delle attività svolte con un video e un’intervista fatta ad un minore detenuto. Nelle uscite sono state sempre presenti le docenti referenti Giusi Cesari e Pamela Ciambrone, le quali hanno messo in rilievo l’impatto emotivo che si è generato nell’incontro e nel dialogo tra studenti e minori ristretti per la crescita educativa e la possibilità del riscatto come luce per il futuro dei minori. In questa intensa esperienza formativa, oltre a comprendere cosa significa essere privati della libertà, è emerso un altro aspetto significativo: il superamento dei pregiudizi. Il programma - Il programma prevede la partecipazione di diversi esponenti del mondo istituzionale e rappresentati delle associazioni ed enti privati che hanno partecipato al progetto. Nei saluti iniziali insieme alla direttrice scolastica Eleonora Rombolà, ci saranno quelli di Maria Limardo (sindaco di Vibo), di Corrado Landolina (presidente della Provincia di Vibo Valentia), di Gaetano Aurelio (presidente Unicef Vibo Valentia), di mons. Attilio Nostro (vescovo Diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea), di Maria Joel Conocchiella (responsabile provinciale Libera). Seguiranno gli interventi di Teresa Chiodo (presidente Tribunale dei Minori di Catanzaro), di Camillo Falvo (procuratore della Repubblica di Vibo Valentia), di Massimo Martelli (direttore comunità Ministeriale di Catanzaro), di Raffaele Figliano (esperto diritto minorile). Hanno aderito al progetto, oltre all’Ipm Paternostro anche il Comune di Vibo Vaklentia, la Provincia di Vibo, L’Unicef provinciale, la Bcc Calabria Ulteriore e l’Artigiano della ‘nduja Caccamo. Roma. “Visto da dentro” festeggia i primi dodici mesi di pubblicazioni a cura di Stefano Liburdi Il Tempo, 26 maggio 2024 I detenuti del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso raccontano i principali fatti di attualità. Lo sguardo sul mondo di chi da quel mondo è escluso. Un progetto che mette in primo piano formazione e reinserimento. La redazione de Il Tempo e i “futuri giornalisti” con la pagina “Visto da dentro”, festeggiano il primo compleanno. Era maggio del 2023 quando la “squadra” del reparto di alta sicurezza e quella di media sicurezza di Rebibbia si incamminavano in questa esclusiva e unica iniziativa. Lo sguardo sul mondo di chi da quel mondo è escluso ha sensibilizzato il lettore, come dimostrano le tante critiche positive avute. Questo lavoro di squadra è stato ed è uno strumento legale e sociale che migliora la persona: il solo fatto di portare fuori la voce di chi elabora articoli giornalistici da dentro una cella la dice lunga sul concetto di umanità e dignità. Noi autori non solo abbiamo dato la voce a diversi argomenti poco dibattuti ma abbiamo fornito anche delle spiegazioni. Abbiamo spaziato dai diritti umani alle varie guerre in corso, dalla politica alla cronaca, dallo sport allo spettacolo, dall’intelligenza artificiale, sino alla bioetica, per poi passare al cambiamento in corso dell’energia del terzo millennio. Anche se il nostro status è detentivo non abbiamo prodotto articoli solo sulle problematiche carcerarie, pensiamo inoltre di aver scritto qualcosa di utile per un miglioramento e per quella speranza dovuta. Abbiamo ospitato tante personalità nella nostra pagina, nel primo articolo c’è stata la presenza del Ministro Gennaro Sangiuliano, poi dei vari registi, da Riccardo Milani a Matteo Garrone oltre alle attrici Pilar Fogliati o Micaela Ramazzotti solo per citare alcuni nomi. Senza dimenticare il grande piacere di ospitare il Santo Padre e Pietrangelo Buttafuoco, quest’ultimo Presidente della Biennale di Venezia che ha degnamente svolto il ruolo assegnato. Noi speriamo di proseguire con lo stesso entusiasmo che ci unisce e ringraziamo la Direzione di Rebibbia, il nostro giornalista e amico Stefano Liburdi se tutto ciò è stato possibile e la redazione de Il Tempo ricordando che questa formazione è l’unica arma potente per rendere la società libera più sicura. La formazione di queste persone detenute (che non hanno mai tradito la fiducia) può essere spendibile anche fuori se lo si vuole. Abbiamo l’obbligo di valorizzare questa opera trattamentale che non è mai stata d’intrattenimento e questo se si vuole rispettare l’art. 27 della Costituzione dietro le sbarre. Grazie Stefano Liburdi se hai dato questa opportunità a noi, per queste significative capacità di autoriflessività maturate durante gli incontri di gruppo a vantaggio anche dell’attività di osservazione e trattamento. Grazie ancora se hai creduto in noi e se ti sacrifichi affinché questa luce non si smorzi. La redazione di “Visto da dentro” “Tra le mura del carcere. Torpore e passione”, a cura di Giovanna Testa letture.org, 26 maggio 2024 È stato pubblicato dal Gruppo Editoriale Albatros il libro “Tra le mura del carcere. Torpore e passione”, a cura di Giovanna Testa. Il libro si distingue per il suo approccio innovativo e coinvolgente rispetto ad altre pubblicazioni sul tema della vita carceraria. Ciò che rende questo testo particolarmente interessante è il fatto che non si basa solo sulle conoscenze accademiche e sulla vasta letteratura in materia, ma trae spunto soprattutto dalle esperienze dirette e critiche degli autori, alcuni dei quali hanno lavorato o ancora operano all’interno del sistema penitenziario. Il libro, pertanto, non costituisce solo un arricchimento bibliografico, ma rappresenta una finestra aperta su un mondo spesso invisibile, offrendo ai lettori uno spaccato autentico e profondo della vita carceraria. La prospettiva di analisi adottata nel libro è inedita, potente, poiché si incentra sulla dimensione affettiva ed emozionale di tutti i soggetti coinvolti, dai detenuti agli operatori penitenziari. Si addentra nelle pieghe più intime dell’esperienza umana, esplorando il bisogno di connessione emotiva e il desiderio di dare un senso alla propria esistenza, anche in condizioni di costrizione. Pone l’accento sull’importanza della sfera affettiva non solo per i detenuti, ma anche per coloro che vi lavorano, come la polizia penitenziaria, psicologi, educatori, assistenti sociali, medici, infermieri, mediatori culturali, cappellani e volontari. Gli autori esaminano approcci e stati d’animo di queste figure, nonché le complesse dinamiche relazionali che caratterizzano l’ambiente penitenziario, cogliendone molti aspetti e sfaccettature ed anche le possibili implicazioni e i rischi insiti in queste situazioni. Ogni dettaglio acquista significato e porta il lettore in un mondo separato e misterioso: in carcere, nonostante le circostanze avverse, molti guizzi vitali pulsano con forza, dimostrando che la dignità e la ricerca di un’esistenza significativa sono universali. Questa pubblicazione è un invito a riflettere sulle condizioni carcerarie, a riconoscere la resilienza degli individui e a valorizzare la dimensione affettiva come elemento centrale del percorso di riabilitazione e reintegrazione sociale. In sintesi, “Tra le mura del carcere. Torpore e passione” offre una prospettiva nuova e profondamente umana della vita in carcere, rendendolo un testo utile e interessante per chiunque voglia comprendere la complessa realtà del sistema penitenziario. Il libro si compone di sei capitoli. Nel primo capitolo intitolato “In carcere. Corpi in letargo, cuori in subbuglio”, Giovanna Testa esamina in modo approfondito e inconsueto la vita reclusa, focalizzandosi sulle componenti affettive, sui sentimenti e sulle reazioni emotive dei detenuti. Analizza lo spettro della solitudine, l’amore e la sessualità, le pulsioni e il loro contenimento all’interno del carcere. L’amore in carcere viene osservato e descritto nelle sue diverse sfumature e complessità, mettendo in luce le dinamiche uniche che si sviluppano in un contesto di privazione della libertà. L’autrice esplora anche le figure impegnate nel sistema carcerario, sia operatori volontari che professionali, indagando i possibili sconfinamenti e le ambiguità nelle relazioni tra detenuti e operatori. Viene discusso il ruolo cruciale dell’educazione emotiva nelle strutture penitenziarie, individuando strumenti e percorsi utili a promuovere la consapevolezza di sé e la gestione della sfera emotiva in un ambiente di contenimento. Questo approccio non solo migliorerebbe il benessere dei detenuti, ma contribuirebbe a promuovere un ambiente di lavoro più sano per tutti gli operatori, contribuendo in ultima analisi a un sistema penitenziario più umano e dignitoso e, dunque, maggiormente in grado di perseguire le proprie finalità istituzionali e costituzionali. Il secondo capitolo “Affetti reclusi. Una prima riflessione sociologica sui rapporti emotivi e sentimentali in contesto carcerario”, a cura di Daniela Grignoli e Mariangela D’Ambrosio, propone un’analisi approfondita del carcere come luogo di ibridazione tra inclusione ed esclusione sociale. Le autrici presentano dati nazionali che delineano la situazione attuale della detenzione, mettendo in evidenza come l’ambiente carcerario spesso non riesca a sostenere adeguatamente le dimensioni personali, relazionali, affettive, emotive e sessuali dei detenuti. Questo limite rappresenta un ostacolo significativo nel percorso di riabilitazione e reinserimento sociale delle persone private della libertà. Inoltre, il saggio esamina l’impatto della pandemia da Covid-19 sul sistema penitenziario, con un focus particolare sulle relazioni familiari. Durante la pandemia, spiegano le autrici, le già fragili dinamiche affettive e relazionali all’interno delle carceri sono state ulteriormente messe alla prova, accentuando le difficoltà nel mantenere i legami con l’esterno e nel gestire le emozioni e i bisogni affettivi dei detenuti. Nel terzo capitolo, Valentina Dardone offre una prospettiva psicologica inedita, sintetizzata nel titolo “Il carcere è affetto”, che esprime l’idea centrale del capitolo: “L’affetto che trasmette il carcere di fatto impressiona, turba chi dall’esterno si accinge ad entrare. Ben presto ci si ritrova auspicabilmente coinvolti e appassionati”. Quale testimone privilegiata di una realtà complessa quale il carcere, inizialmente come tirocinante, poi come operatore volontario e infine come esperto psicologo, ha permesso all’autrice di alimentare una riflessione profonda sulla dimensione affettiva all’interno di questo contenitore di vite difficili. Attraverso queste esperienze, Dardone esplora le complesse dinamiche emotive presenti all’interno del carcere, evidenziando come l’ambiente carcerario influenzi profondamente le emozioni sia dei detenuti che di chi vi lavora. Il quarto capitolo “Focus sulle interazioni professionali tra assistenti sociali e destinatari dei servizi di esecuzione penale esterna (UEPE). Funzione di controllo e relazione di aiuto”, curato da Giuseppe Di Leo, espone un quadro accurato e realistico delle relazioni e interazioni professionali tra assistenti sociali e destinatari dei servizi di esecuzione penale esterna (UEPE). Di Leo focalizza la sua attenzione sul difficile equilibrio che gli assistenti sociali devono mantenere tra funzione di controllo e relazione di aiuto. L’autore affronta, inoltre, il tema del trattamento e della motivazione dell’utente “non volontario”, riportando frammenti di storie di vita all’interno di una relazione professionale particolarmente complessa. Questo capitolo mette in luce le sfide quotidiane e le dinamiche emotive che caratterizzano il lavoro spinoso e talvolta arduo degli assistenti sociali, offrendo una prospettiva dettagliata e umana su taluni aspetti dell’esecuzione penale esterna. Nel quinto capitolo, intitolato “Emozioni in gabbia. Report di un’esperienza laboratoriale a tema carcere ed emozioni”, Roberto De Lena riporta gli esiti di un interessante laboratorio di gruppo realizzato all’interno di una comunità pedagogico-riabilitativa per persone alcoldipendenti e tossicodipendenti, che ha coinvolto diversi ospiti con pregresse esperienze detentive e alcuni operatori. L’esperienza del laboratorio ha rafforzato l’idea che le emozioni siano universali e inscindibili dall’esperienza umana, e che l’esplorazione e la gestione consapevole di queste emozioni possano contribuire in modo significativo al processo di cambiamento e alla costruzione di una vita più sana ed equilibrata, nonostante le contrarietà presenti nell’ambiente circostante. Il sesto capitolo si ricollega al tema dell’educazione emotiva trattato nel primo capitolo. L’autrice, Concetta Di Renzo (Dont), si concentra su “La poesia che cura” e sul potere trasformativo della scrittura. La Di Renzo parte dall’esperienza personale di “approccio ai versi” per proporre l’uso terapeutico della poesia nell’ambito dell’educazione emotiva all’interno delle strutture penitenziarie. Giovanna Testa, PhD in “Istituzioni Giuridiche ed Evoluzione Economico-Sociale” e in “Promozione e tutela dei diritti dell’infanzia”, ha effettuato diverse collaborazioni con l’Università degli Studi del Molise in qualità di docente a contratto. Esperta di temi riguardanti il lavoro sociale, gli interventi socioeducativi, l’esecuzione penale e il mondo carcerario. Ha lavorato per molti anni nell’Area Educativa degli istituti penitenziari. La storia di Sergio Cosmai arriva su Raiuno di Paola Militano Corriere della Calabria, 26 maggio 2024 Il direttore del carcere di Cosenza ucciso dalla ‘ndrangheta. Domani sera (lunedì 27 maggio) alle 23.50 il programma “Cose Nostre” (condotto da Emilia Brandi) che racconta storie di mafia, si occuperà della vicenda di Sergio Cosmai, direttore del carcere di Cosenza assassinato dalla ‘ndrangheta nel 1985. “Trentasei anni, sposato, padre di una bambina di tre anni e di un figlio che nascerà poche settimane dopo la sua morte, Cosmai è un dirigente capace e integerrimo. A Cosenza - viene evidenziato nel lancio della puntata dal titolo “Per un’ora d’aria” - arriva nell’estate dell’82 e impone, da subito, il rispetto delle regole in uno dei penitenziari più turbolenti d’Italia. Ma nel giugno ‘83, durante la protesta dei detenuti per ottenere un’ora d’aria supplementare, rifiuta di piegarsi alla sfida lanciatagli da uno dei boss della ‘ndrangheta cosentina: una scelta che pagherà con la vita. La figura di Cosmai è stata a lungo dimenticata. Ci vorranno, infatti, decenni prima di individuare gli esecutori e il mandante del suo omicidio, e per recuperare la memoria di un servitore dello Stato che, come recita la motivazione della medaglia d’oro al valore civile assegnatagli nel 2017, “ha immolato la sua vita ai più nobili ideali di legalità e di giustizia”. La ricostruzione dell’intricata vicenda giudiziaria del suo omicidio è affidata all’ex procuratore capo di Cosenza Mario Spagnuolo e al giornalista esperto di ‘ndrangheta Arcangelo Badolati. Il ritratto dell’uomo di Stato, ma anche del marito e padre amorevole rivive invece nelle parole della vedova di Cosmai, la professoressa Tiziana Palazzo”. Tra i protagonisti della puntata, anche Domenico Mammolenti, in quegli anni collaboratore di fiducia di Cosmai nell’attività amministrativa contabile. Lo scorso marzo, in un’intervista rilasciata al Corriere della Calabria (leggi in basso), Mammolenti ha ripercorso quegli anni e soprattutto quella tragica giornata che scosse la città di Cosenza. “Ancora la costruzione della struttura (il nuovo carcere, ndr) non era stata completata - ha affermato Mammolenti - c’erano le pratiche degli espropri da compilare e poi c’erano i boss abituati da sempre a comandare. Cosmai gli si mise subito di traverso per contrastare la loro arroganza che andava a discapito dei detenuti più deboli. Ad esempio, quando si dovevano assegnare i detenuti per i lavori da svolgere quotidianamente, il boss sceglieva i suoi uomini per fargli guadagnare qualche soldo in più. Cosmai bloccò questa consuetudine dando il lavoro a chi effettivamente ne aveva bisogno per aiutare a casa le famiglie. Insomma, con lui al vertice della struttura si acuì lo scontro tra il potere criminale e il potere dello Stato”. Lo scorso 22 maggio nella Biblioteca “Stefano Rodotà” del Liceo Classico “Telesio” di Cosenza è stato presentato il documentario che racconta proprio la storia di Sergio Cosmai. Il film finanziato dalla Fondazione Calabria Film Commission con il bando produzioni 2022, intitolato “Delitto Cosmai” e prodotto dalla OneManDoingThings, è stato diretto dal regista Fabio Rao. Europa sociale, il confronto: salario, povertà, giovani di Giulio Sensi Corriere della Sera, 26 maggio 2024 La Commissione Ue ha competenze limitate sul sociale ma ha adottato direttive e regolamenti vincolanti per attuare il “Pilastro europeo dei diritti sociali”. Maurizio Ferrera del Laboratorio Secondo welfare: “L’indicazione politica è chiara”. Giuseppe Guerini: “Passi avanti in questi 5 anni”. Gli obiettivi sono grandi, i passi avanti degli Stati membri ancora piccoli e lenti. Il Pilastro dei diritti sociali proclamato dal Parlamento, dal Consiglio e dalla Commissione ha segnato nel 2017 un punto di svolta nelle politiche dell’Unione europea. Afferma i diritti nel campo del welfare e vuole ridurre le diseguaglianze con nuovi provvedimenti Ue, anche legislativi. La Conferenza di Porto del 2021 ha definito l’Agenda per dare consistenza al Pilastro e stabilito alcuni macro obiettivi per il 2030. Ora il tema si è affacciato anche nel dibattito sulle elezioni europee dell’8 e 9 giugno. Il lavoro spetta agli Stati: sono loro a dover trasporre le direttive per realizzare le raccomandazioni. Il piano per il “Pilastro europeo” - “Il Pilastro europeo - spiega Maurizio Ferrera, docente di Scienza politica all’Università di Milano e advisor scientifico del Laboratorio Percorsi di secondo welfare - marca un po’ la svolta nell’orientamento sulle tematiche sociali. Sono venti principi espressi sotto forma di doveri o di aspirazioni, ma il suo valore è politico e non legale”. La Commissione europea (Ce) guidata da Ursula von der Leyen ha però adottato un ambizioso piano per l’attuazione del Pilastro, con direttive e regolamenti vincolanti, raccomandazioni, non vincolanti, e contributi finanziari. Le competenze della Ue in ambito sociale sono limitate. Ma le direttive approvate toccano questioni importanti come la conciliazione vita lavoro, il salario minimo, i lavoratori su piattaforma. Mentre le raccomandazioni hanno riguardato il reddito minimo garantito, la non autosufficienza, l’eguaglianza di genere, il diritto all’abitazione, la nuova garanzia giovani, la lotta alla povertà, anche minorile ed educativa. Italia “negligente” - “Prendiamo il reddito minimo. La raccomandazione non entra nello specifico - aggiunge Ferrera - ma esorta i Paesi a riformare i loro schemi nazionali su criteri di carattere generale”. Dopo la riforma del reddito di cittadinanza l’Italia è negligente, perché non conforme in pieno a quanto previsto dalla raccomandazione Ue. Ma non sempre chi vive al di sotto della soglia di reddito dignitoso ha gli strumenti e le informazioni per avere diritto ad alcuni servizi pur previsti a livello locale. E Ferrera spiega: “Dipende da molto fattori. Livelli di istruzione non elevati impediscono di poter navigare sui siti e avere informazioni di base o competenze per accedere”. Il sociale e l’economia - C’è però un problema più generale, come sottolinea Elena Granaglia, docente di Scienza delle finanze al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre. “Il sociale non è solo la dimensione delle politiche, ma riguarda anche come funziona l’economia. Perché è difficile farle se non si governa l’economia e non si diminuiscono le diseguaglianze. Dal punto di vista della tassazione siamo indietro. Ma le proposte ci sono, la Commissione vi lavora da anni. Serve in ogni caso un rafforzamento del bilancio europeo per finanziare gli interventi sociali che solo la scala europea può realizzare. Il Parlamento può avere una forte azione di pungolo. Anche se è dirimente, una centralità ce l’hanno il Consiglio e gli accordi fra gli Stati”. Coinvolto il Terzo settore - “Intanto - riprende Ferrera - l’Ue ha inaugurato e promosso attraverso sostegni materiali e finanziari il coinvolgimento delle parti sociali, della società civile e di tutto il Terzo settore”. E favorisce il coordinamento fra i protagonisti dell’economia sociale e dell’innovazione attraverso una apposita strategia che integra e rafforza il Pilastro sui diritti sociali. Tra questi c’è Giuseppe Guerini, presidente della Cecop-Cicopa, la confederazione europea delle cooperative. “Molti passi avanti in questi cinque anni sono stati fatti e va riconosciuto lo sforzo per passare da un approccio che era residuale e di testimonianza a una traduzione sul piano concreto”. Vedere subito i risultati sarà difficile, ma sul piano politico c’è stata la proposta di azioni concrete sulla dimensione sociale. “Negli anni precedenti non si erano mai visti così tanti provvedimenti, considerando che la Ce non ha competenze dirette in ambito sociale, che sono circoscritte all’occupazione. Il riconoscimento dell’economia sociale e di prossimità, non solo nell’ambito del Pilastro, ma anche nella strategia industriale europea, dà una nuova luce a un ecosistema che muove il 10% del Pil, occupando circa 13 milioni di persone”. Ora la Commissione sta invitando gli Stati membri ad adottare iniziative che sostengano gli sforzi fatti, agendo anche sulla fiscalità che è materia di competenza esclusiva degli Stati. “Se ne sta occupando il Comitato economico e sociale europeo - aggiunge Guerini - con un parere sul ruolo della tassazione per favorire lo sviluppo sociale. A luglio sarà pronto da consegnare al nuovo Parlamento e alla Commissione per incoraggiare un avanzamento sul tema della fiscalità”. Quei malintesi sulla legalità di Concita De Gregorio La Repubblica, 26 maggio 2024 Le leggi e il loro rispetto, in generale la giustizia, hanno due funzioni legate a favorire la convivenza. La prima e più evidente è quella di stabilire un sistema di regole uguali per tutti: a volte pesanti, a volte farraginose, a volte passibili di errore nell’interpretazione e nell’applicazione, persino nel giudizio delle corti ma tuttavia indispensabili a fare in modo che decine di milioni di persone non facciano un po’ come gli pare. Se ciascuno difatti facesse quel che vuole, quello che gli conviene e pazienza per gli altri, sarebbe impossibile - un inferno - la vita in comune. Le regole, in definitiva, servono a costruire comunità. La seconda funzione, meno percettibile, è quella di indicare un’idea di mondo entro la quale convivere. Stabilire cosa si può e cosa non si può fare - uccidere, allestire un laboratorio chimico in garage, altro - serve non solo punire chi lo fa ma anche a confermare nel suo comportamento chi non lo fa. Genera un sistema di valori e indica una rotta comune: in questo Paese, in questa società abbiamo faticosamente stabilito negli anni, diciamo pure nei secoli, che cosa è giusto e cosa è sbagliato per il bene di tutti. È la nostra identità comune. Strizzare l’occhio all’illegalità è dunque doppiamente dannoso. Accogliere con festa istituzionale un ergastolano condannato per omicidio o esortare chi voglia costruire una stanzetta senza aver prima ottenuto il permesso (le condizioni di sicurezza, per esempio, in un paese dove inondazioni e terremoti provocano periodiche tragedie) sono casi moltissimo diversi nel merito (per intensità, diciamo) ma non nel metodo. Il sottotesto, il messaggio simbolico a tutti comprensibile, è lo stesso: che la presidente del Consiglio stenda il tappeto rosso a un condannato - ingiustamente? Non sappiamo e non tocca a lei deciderlo - o che il leader della Lega proponga l’ennesimo condono a chi vuol essere “padrone a casa sua” e dunque abbattere o costruire a suo piacere, dicono la stessa cosa. Dicono che la giustizia è un peso, le regole sono un orpello, che le sentenze sono opinabili e possiamo decidere noi, da soli, cosa è giusto e cosa no. È, in entrambi i casi, un attentato al sistema di regole che sono le fondamenta e le mura della casa in cui tutti viviamo. Lo so, è una lunga premessa che viola il dettato dei paragrafi brevi, della semplificazione in slogan instagrammabili buoni per farci magliette meglio se griffate, delle frasi da tradurre tutto attaccato in hashtag e delle implorazioni dei social media manager: per favore, non fermatevi al primo paragrafo. Ma sarebbe anche venuto il momento, cova da parecchio tempo, di ribellarsi alla banalizzazione del linguaggio perché chi parla male pensa male, e chi pensa male agisce peggio. Quindi se siete arrivati fin qui intanto grazie, per ricreazione ecco un aneddoto. L’altro giorno una giovane e veemente esponente leghista in un dibattito pubblico tv si è infervorata contro la sinistra (anche “i comunisti” ha detto un paio di volte. Immediata nostalgia delle cabine del telefono e dei Bee Gees) perché a suo dire impedirebbe a una famiglia semplice e felice di costruire una stanzetta per il neonato dove capita, nel sottotetto o in garage, nell’orto. Era appena passato un servizio sul terremoto nei Campi Flegrei, interviste ad anziani che vivono in case lesionate e chiaramente non a norma antisismica (costruite in anni in qui quelle norme non esistevano, difatti tendono a crollare) che dicevano dove mai posso andare, voglio morire a casa mia. La ragione per cui quando la terra smotta, il vulcano erutta, il fiume esonda succede che la gente muoia non è solo che non ci sono politiche di cura del territorio, né soldi per manutenerlo - la sicurezza costa ma salva la vita. È anche che quelle case sono state costruite dove non dovevano, sono cresciute senza che nessuno abbia pensato di chiedere prima sarà sicuro? Si può fare? Sono state costruite secondo la logica che guida la veemente leghista: a casa mia faccio come voglio. Lo so, di nuovo, e ne convengo. Aspettare sei mesi, un anno per ottenere un permesso di conformità è noiosissimo. Nuoce alla libera impresa, i cantieri non si aprono la gente non lavora, i geometri scalpitano e i proprietari non possono disporre dei propri beni, fare la cameretta del neonato o affittare come b&b. La libera impresa vince sempre. Tuttavia corre dei rischi. Se il muro non tiene, se alla prima pioggia la culla in garage viene travolta dal fango che tragedia, no?, che terribile sfortuna. Due considerazioni. La terribile sfortuna è solita colpire i più poveri. Chi ha molti soldi e molti mezzi usa i condoni per ampliare a basso costo la villa al mare, ne approfitta, non ha bisogno di mettere il bambino in veranda. Il condono arricchisce chi è già ricco e mette a repentaglio chi, povero, è già in pericolo. Inoltre, il ventesimo condono di questo governo dice a tutti una cosa precisa - l’idea di mondo, appunto. Intanto fate come volete, non vi stancate a chiedere permessi alla Sovrintendenza, al Comune: fate, illegalmente, poi caso mai ci darete due euro a sanare. Vi sentite più liberi così? Bene. Vedete, questo è il governo delle libertà. Dove liberta e licenza, libertà e arbitrio sono nella neolingua sinonimi: pazienza per gli altri. Solo un cenno ai casi Chico Forti e Ilaria Salis. Non siamo nessuno per valutare l’innocenza o la colpevolezza dell’uno e dell’altro, esibire prove, farsi investigatori: per questo ci sono i tribunali. Abbiamo due italiani. Uno condannato all’ergastolo per omicidio negli Stati Uniti, paese democratico. Una indagata per lesioni in Ungheria, come Stato un esempio minore di tutela dei diritti umani. Indagata significa in attesa di giudizio, dunque - vige la presunzione di innocenza - non colpevole. Che gli esponenti di governo (Matteo Salvini, per tutti) additino Salis come pericolosa estremista e mettano cuori e bandiere su Instagram al condannato in via definitiva è una doppia misura gravissima. Uno è stato giudicato colpevole, l’altra è innocente fino a prova contraria. Cosa deve capire, il cittadino comune, se la presidente del Consiglio va ad accogliere all’aeroporto militare il condannato e non spende una parola per l’innocente? Che è giustizia alla carta. Che le leggi e i processi sono opinabili. Che ciascuno fa un po’ come vuole. Che si fa quel che conviene, politicamente e personalmente. Pazienza per le regole. Siete tutti invitati a infischiarvene. Verranno un condono o una revisione, tanto, prima o poi. La giustizia è un kit fai da te, è poca cosa. Che paura. Che pericolo, nell’allegro giubilo della maggioranza degli ignavi, stiamo correndo. “I social ormai sono il luogo in cui le persone combattono lotte settarie in favore della loro tribù” di Carlo Crosato L’Espresso, 26 maggio 2024 La comunicazione tecnologica ha ridisegnato il modo in cuisi raccontano i fatti. Ma, anziché contribuire a una società più giusta, amplifica cospirazioni e populismi. Con due parole d’ordine: traffico e viralità. Parla Ben Smith, il fondatore di BuzzFeed News. Nessuna realtà è cambiata così profondamente negli ultimi decenni come il mondo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Un mondo capace di maturare e prendere forme sempre nuove, mutando l’habitat umano e trasformandolo in un ambiente vitale fatto di connessioni e comunicazione. Tutto è iniziato, certamente, con la creazione di internet; ma cruciale è stata la nascita del cosiddetto web 2.0, in cui siamo diventati assieme fruitori e produttori di messaggi potenzialmente diretti a tutto il mondo. Un processo avviato con la comparsa dei primi blog e dei primi siti d’informazione online, che hanno letteralmente cambiato il modo di costruire le notizie, raccontare la storia del mondo, filtrare le informazioni e costruire conoscenza. Oggi il dibattito pubblico e politico si è trasferito in massa nei social network, obbedendo alle leggi di quell’ambiente algoritmico, fatto di consenso polarizzato, coinvolgimento emotivo, influencer e follower, fra cui non si comprende più se a dettare la linea siano i primi o i seguaci con i loro gusti da assecondare. Parole d’ordine sono traffico e viralità, in una china avviata a cavallo fra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, come scrive nel suo libro “Traffic” Ben Smith, cofondatore e caporedattore di Semafor, già editorialista per il New York Times e, prima, fondatore di BuzzFeed News e promotore negli anni di numerosi blog politici. Smith ricostruisce con piglio romanzato e avvincente la rocambolesca nascita dei primissimi blog e giornali online, fra ricerca spasmodica di clic e profitto e la forse velleitaria speranza di mobilitare il pubblico su questioni cruciali per la vita collettiva. Il libro di Smith è prezioso perché evidenzia gli sviluppi odierni di questo processo, in cui al dogma del traffico di massa si è sostituito il settarismo e la frammentazione; e in cui le belle speranze di progresso sono messe in ombra da certa aggressiva retorica populista di destra. Si dice spesso che uno strumento è qualcosa di neutro e che il suo valore dipende da come viene utilizzato. La comunicazione digitale ha rivoluzionato il mondo, ridisegnando il modo in cui si ricostruiscono gli eventi, si fa politica e si creano relazioni personali... “Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione possono essere formalmente neutrali, ma i social media hanno avuto un impatto politico molto specifico. Hanno corroso il potere istituzionale, rivelando tutte le crepe delle istituzioni esistenti e amplificando le narrazioni populiste sulle cospirazioni delle élite. Per altro, le “metriche di coinvolgimento” (engagement metrics) sviluppate dalle compagnie di social media hanno favorito un particolare tipo di politico: il populista, che prima cavalca discorsi controversi o offensivi per rappresentare se stesso come un outsider, e poi beneficia del “coinvolgimento” che ha prodotto sui social media”. Nel 2024 ci saranno molte elezioni politiche in tutto il mondo. Negli Stati Uniti si voterà per il presidente. Chi sta vincendo in termini di occupazione dei nuovi media? “Negli Stati Uniti, le attuali elezioni si sono un po’ allontanate dai nuovi media, in parte perché i candidati sono molto conosciuti. Donald Trump era un candidato perfetto per Facebook, perché le sue esternazioni hanno stimolato il coinvolgimento e quindi calamitato l’attenzione. Ma è fuori da Facebook e Twitter dal 2021, e la sua piattaforma, Truth, è stata un fallimento. Alcuni dei suoi sostenitori più estremisti, però, si organizzano online, e i social media hanno anche soffiato sul fuoco delle proteste su Gaza, che sembrano aiutarlo e danneggiare Joe Biden. Per parte sua, Biden non ha padronanza dei nuovi media, e infatti è stato eletto in parte perché aveva promesso di non twittare mai. E così, paradossalmente, entrambe le campagne spenderanno miliardi di dollari in pubblicità televisiva per raggiungere le poche persone anziane ancora indecise”. Il titolo del libro è emblematico: “Traffic”, la quantità di interazioni, la diffusione delle voci e l’attenzione che si può attirare. Il libro, osservando il nascente giornalismo digitale, descrive due tendenze: una è la ricerca del traffico, dei numeri, dei click e del profitto; l’altra è la promozione di cause e idee importanti nel dibattito pubblico. Tuttavia, senza traffico, ci si ritrova a predicare nel deserto; e però, per il traffico, le idee impegnate e complesse non funzionano perché richiedono sforzo e tempo. Questo porta a una contraddizione: il traffico è un mezzo così importante per la diffusione dei contenuti che diventa il vero fine, per il quale i contenuti vengono sacrificati... “Questa è, in un certo senso, la storia del pericolo di diventare ciò che si può misurare. Naturalmente i giornalisti hanno sempre desiderato la diffusione delle loro parole e hanno sempre voluto che la gente leggesse il loro lavoro. Ma quando la tecnologia ha permesso loro di conoscere con dettagli senza precedenti chi e quanto li leggeva, hanno corso il rischio di trasformarsi semplicemente in uno specchio di ciò che i lettori volevano. Questo non è un problema nuovo per i media, ma le nuove metriche del traffico lo hanno intensificato”. È un problema che riguarda sia il giornalismo che la politica e la finanza... “L’attuale fase dei nuovi media sta determinando questo spostamento dalle istituzioni agli individui, e così molti leader si sentono obbligati a essere influenti. Si vedono amministratori delegati che postano costantemente su LinkedIn, per esempio, per aumentare il loro profilo personale. C’è poi tutta una nuova generazione di figure mediatiche e politiche che comunicano direttamente con i loro fan e follower, ristrutturando radicalmente il dibattito pubblico”. Il dogma è la viralità. Sappiamo però come funziona un virus: si diffonde a spese dell’individuo che infetta. Abbiamo difese immunitarie? “Nel migliore dei casi si è trattato di un fenomeno positivo: le persone hanno condiviso idee che ritenevano importanti o mobilitanti. Campagne come “It Gets Better” hanno permesso alle persone gay di prendere coscienza di sé e credo abbiano salvato delle vite. Ma nel peggiore dei casi la viralità, guidata dai più bassi istinti delle persone e dalle metriche tecniche di coinvolgimento, ha amplificato il lato più volgare delle persone. Credo però che, per riprendere la sua metafora, la società abbia iniziato a sviluppare anticorpi. Penso che molte persone siano diventate sospettose rispetto a ciò che viene loro presentato sui social media e stiano cominciando a risalire a fonti più affidabili. I giovani, nel frattempo, si sono fatti molto avveduti nella ricerca della provenienza delle informazioni prima di crederci. L’intelligenza artificiale intensificherà tutti questi dubbi diffusi: il rischio maggiore non sarà che le persone vengano ingannate, ma che smettano di fidarsi di qualsiasi cosa”. Il giornalismo digitale discusso nel libro plasma il dibattito pubblico filtrando le informazioni. Oggi, con i social network, il discorso politico si è letteralmente spostato online. Questo influisce sulla qualità della partecipazione democratica. Tutti sentono di avere qualcosa da dire e coloro che hanno cose veramente importanti da dire sono sopraffatti dal rumore. Si tratta di una partecipazione autentica? “A volte lo è. I social media hanno dato voce a persone emarginate dalle conversazioni d’élite, e hanno portato un effettivo progresso, per esempio, quanto ai diritti delle donne sul posto di lavoro. Talvolta mi chiedo se George W. Bush sarebbe stato in grado di trascinare con tanto agio il popolo americano in Iraq se le voci e i video iracheni avessero fatto parte del dibattito. Più recentemente, però, i social media sono diventati un luogo in cui le persone combattono lotte settarie in favore della loro tribù, favorendo così la polarizzazione e il tribalismo. Lo si vede nelle battaglie, per esempio, su grandi questioni sociali come la razza e l’aborto. Un altro esempio sono le campagne per tacciare il figlio del presidente Biden, Hunter, di essere una mente del crimine globale. I social media non sono più un luogo in cui ci si persuade reciprocamente attraverso conversazioni aperte: sono diventati lo spazio dove radunare i propri sostenitori e combattere il nemico”. Il traffico di massa di cui parla il suo libro è stata una misura quantitativa, spesso confusa come misura della qualità. La quantità dipende soprattutto dalle emozioni reattive, che deflagrano, distruggendo il ragionamento. C’è spazio per il pensiero e la discussione sul web? “Ho scritto il libro per rappresentare la fine di un’epoca, e credo che l’era del traffico di massa nei media sia finita. La nuova tendenza è la frammentazione in molti piccoli pubblici. Questo è particolarmente visibile nel podcasting dove, per esempio negli Stati Uniti, il più grande conduttore - Joe Rogan - controlla solo una quota del 5 per cento del mercato. Tutti gli altri sono ancora più piccoli. Quando vedete qualcuno in metropolitana con gli auricolari, non avete idea di cosa stia ascoltando. Lo stesso vale per il boom delle newsletter. È possibile leggere di argomenti specialistici, o riflessioni in merito a particolari prospettive politiche, in modo molto approfondito e nel confronto con persone solidali nel punto di vista o profondamente interessate a quel tema ristretto, che si tratti di politica o di cibo o di un’area geografica. Penso che questo possa essere salutare: molti di questi spazi sembrano prestarsi a un dialogo più sfumato e aperto, e non sono costantemente minacciati da avversari ostili che costringono a una posizione difensiva o a rimanere sommersi dalle opinioni più offensive”. Nel suo libro, lei descrive una colonizzazione dei nuovi media da parte della destra. Perché la destra sembra essere più abile nell’occupare i nuovi media? Perché i nuovi media sembrano così adatti alla retorica populista della destra? “Alla base del populismo di destra c’è la promessa illusoria di un leader estraneo ai privilegi dell’élite. Il modo migliore per dimostrare di non far parte dell’élite è indurre questa ad attaccarti, specie se hai credenziali da élite, come la ricchezza o se sei di buona famiglia. Quindi, se dici qualcosa di sessista, razzista o falso, lascia che i media e il mainstream ti attacchi e di’ ai tuoi seguaci: “Vedete, io sono un vero outsider”. E questo ha l’ulteriore vantaggio di alimentare le metriche di coinvolgimento dei social media e di attirare l’attenzione su Facebook in particolare. Questo sta diventando progressivamente molto meno vero oggi rispetto a cinque anni fa, poiché Facebook è uscito dalla scena e X è molto meno rilevante. Si aprono nuovi scenari”. Il modello relazionale è quello della rete, di cui siamo tutti nodi in costante comunicazione. Ci sono nodi che hanno più successo nel far circolare la comunicazione: gli influencer. Questo concetto, di origine sociologica, ora indica individui al centro dell’attenzione generale, il cui valore non sta in ciò che dicono, ma nella loro capacità di attirare reazioni. Tutto si riduce alla strategia di comunicazione, al marketing... “Stiamo assistendo a un ampio spostamento del potere e della rilevanza dalle istituzioni agli individui, iniziato quasi 100 anni fa con il crollo del sistema degli studios hollywoodiani e l’ascesa della star del cinema, ma che è progredito in vari settori e che ora si sta davvero accentuando e consolidando. Lo si vede nel crollo della rilevanza dei partiti politici: ora il singolo candidato è molto più importante del gruppo politico di cui è parte. Lo si vede con l’importanza attribuita all’atleta fuoriclasse rispetto alla squadra sportiva. E lo si vede nei media e nel giornalismo, dove i lettori e gli spettatori sono molto più propensi a fidarsi di una persona specifica che di un marchio anonimo. Questo ha ovviamente caratteristiche positive e negative, ma credo che sia la realtà, e che le istituzioni che vogliono costruire la fiducia debbano prenderne atto”. Droghe. Il governo vuole parificare la cannabis light a quella non light di Vincenzo Bisbiglia Il Fatto Quotidiano, 26 maggio 2024 Stop alla lavorazione e cessione della cannabis light, emendamento del Governo nel Dl sicurezza. La violazione della prescrizione viene punita con le sanzioni previste dal Testo unico sugli stupefacenti. Con un emendamento al ddl sicurezza in esame in commissione alla Camera, il governo propone di intervenire sulla legge a sostegno della filiera della canapa ad uso industriale, con quantità di Thc inferiore allo 0,2%, la cosiddetta cannabis light. L’emendamento vieta la coltivazione e la vendita delle infiorescenze, anche di cannabis a basso contenuto di Thc, per usi diversi da quelli espressamente indicati nella legge stessa, e quindi quelli industriali consentiti. Il commercio o la cessione di infiorescenze viene punito con le norme del Testo Unico sulle Sostanze Stupefacenti, parificando la cannabis light a quella non light. È l’ennesimo tentativo portato avanti dal governo Meloni di bloccare la commercializzazione di una sostanza di per sé completamente innocua. Poco meno di un anno fa un altro decreto, aveva limitato sensibilmente le possibilità di acquisto. Dal 22 settembre 2023, nei negozi che attualmente vendono la sostanza, non è più possibile acquistare “prodotti da ingerire” a base di cannabidiolo, ma rimane possibile invece l’acquisto di cannabis light da fumare, cioè i fiori di canapa che contengono il cbd e non il thc. Ora la sostanza potrebbe anche essere vietata integralmente. “L’ultima geniale idea del governo Meloni? Parificare la cannabis light - che non ha nessun effetto drogante - a quella non light. Per provare a raccattare 4 voti alle europee, chiuderanno 3mila imprese e 15mila lavoratori verranno licenziati. Lavoratori, tra l’altro, per la gran parte giovanissimi. E se non ci pensa lo Stato, ci penserà la mafia. Complimenti, Giorgia Meloni. Sempre dalla parte sbagliata della storia”, commenta su X Marco Furfaro, responsabile welfare e contrasto alle disuguaglianze nella segreteria Pd. “Legalizziamo e regolamentiamo tutta la cannabis, liberiamola dal monopolio delle mafie: questa sarebbe l’unica sanatoria sotto il metro quadro che è urgente fare”, afferma Marco Grimaldi dell’Alleanza Verdi Sinistra. “Invece questo governo - prosegue il vicecapogruppo dei deputati rossoverdi - se la prende con i piccoli imprenditori che commercializzano la cannabis light, con un emendamento che colpisce un settore da 12mila occupati”. “Così come concepito l’emendamento sembra più mosso da un pregiudizio verso la cannabis e si pone in contrasto con la giurisprudenza che riguarda la canapa industriale. Inutile dire che se dovesse essere approvato aprirà la strada a numerosi contenziosi da parte di chi opera da anni nel settore disciplinato dalla 246 del 2016 e svolge un’attività assolutamente lecita”. Così Giuseppe Libutti, avvocato costituzionalista che segue aziende di settore della cannabis light, interpellato sull’emendamento del governo al ddl Sicurezza. Droghe. Cannabis light, lo stop del governo. Saranno vietate la coltivazione e la vendita di Emilio Pucci Il Messaggero, 26 maggio 2024 A rischio le 3mila imprese create con la legge approvata otto anni fa. “È vietata l’importazione, la cessione, la lavorazione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, l’invio, la spedizione e la consegna delle infiorescenze della canapa (cannabis sativa L.) coltivata, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché di prodotti contenenti tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli olii da esse derivati”, a chi viola le disposizioni “si applicano le sanzioni previste” dal Testo Unico sulle sostanze stupefacenti. Poche righe per rilanciare la battaglia contro la cannabis light che la destra porta avanti da tempo: vietarne la produzione e il commercio, disporre il ritorno all’equiparazione della cannabis light, ovvero quella con quantità di Thc inferiore allo 0, 2% e oggi venduta nei negozi commerciali, alla cannabis “normale”, che rientra tra le sostanze stupefacenti ricomprese appunto nel Testo Unico sulle sostanze stupefacenti. Lo prevede un emendamento del governo presentato al ddl sicurezza, all’esame delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera. Il testo tuttavia è contestato dalle opposizioni che già sull’accelerazione impressa dalla maggioranza sul disegno di legge avevano protestato inviando anche una lettera alla presidenza della Camera. La tesi è che il ddl di iniziativa governativa (Piantedosi-Nordio-Crosetto), approvato lo scorso novembre in Consiglio dei ministri e presentato alla Camera il 22 gennaio, è stato “scongelato” a ridosso delle Europee solo per motivi elettorali. Da martedì si entrerà nel vivo con le ammissibilità degli emendamenti presentati dai deputati, il provvedimento è atteso nell’Aula di Montecitorio per la prossima settimana ma il voto finale ci sarà solo dopo il 9 giugno. Dopo le sentenze della Cassazione in materia, il governo interviene dunque sulla filiera della produzione e vendita della cannabis light. Lo scopo è modificare la legge del 2016 sulle disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa. Legge che ha consentito in Italia la coltivazione della canapa ad uso industriale, con quantità di Thc inferiore allo 0, 2. Nel centrodestra si spiega che l’emendamento è stato voluto direttamente da palazzo Chigi. Nei giorni scorsi ci sono state delle riunioni di maggioranza alla presenza del titolare del Viminale Matteo Piantedosi ma la proposta di modifica al ddl è spuntata ieri. La battaglia contro la cannabis light è stata portata avanti dalla coalizione del centrodestra da tempo. Lo stesso Matteo Salvini nel 2019 all’epoca del governo gialloverde, quando era ministro degli Interni, dichiarò: “Chiuderò tutti i negozi di cannabis light: sono un incentivo all’uso di stupefacenti”, dichiarò. Pd, Movimento 5 stelle e Avs sono già sulle barricate. “Ecco - accusa il dem Marco Furfaro l’ultima geniale idea del governo Meloni: parificare la cannabis light - che non ha nessun effetto drogante - a quella non light. Per provare a raccattare 4 voti alle europee chiuderanno 3.000 imprese e 15 mila lavoratori verranno licenziati”. “Si tagliano definitivamente le gambe a migliaia di operatori del settore. È l’ennesima misura repressiva”, l’affondo del segretario di Più Europa Riccardo Magi. “Legalizzare la cannabis potrebbe valere oltre 10 miliardi di euro di fatturato annuo”, il “contropiano” di Marco Grimaldi dell’Alleanza Verdi Sinistra. Gli effetti e i numeri - C’è sempre stata un’accesa discussione sugli effetti della cannabis light sulla salute. Sicuramente molto inferiori a quelli della cannabis vera e propria, e tuttavia gli esperti non escludono effetti collaterali, soprattutto se combinati con altri farmaci o con l’alcol, e anche sulle donne in gravidanza e che allattano, sugli uomini che desiderano avere figli, su chi è malato di Parkinson o di disturbi al fegato. In Italia il mercato del settore coinvolge 800 aziende agricole, 3mila imprese, 15mila lavoratori - tra rivenditori al dettaglio, collaboratori, operai nelle aziende di trasformazione, agricoltori, corrieri che effettuano le consegne - e oltre 2.500 ettari di terreno utilizzati esclusivamente per la coltivazione della pianta destinata a questa fetta di mercato. Sono questi i numeri che hanno portato il giro d’affari a registrare nel 2018 un fatturato di 150 milioni di euro, contro i 40 milioni del 2017. A dimostrarlo anche i dati che arrivano direttamente dal settore agricolo, che ha visto crescere di 10 volte, dal 2013 al 2018, il numero dei terreni destinati alla coltivazione della cannabis light. Stati Uniti. Nelle carceri regna la censura: “I giornali incitano alla disobbedienza” di Dania Ceragioli lavocedinewyork.com, 26 maggio 2024 Fra i titoli messi al bando, ci sono il “New York Magazine”, il “New York Times” e “Newsweek”. “Non ricordo quante volte, nei 17 anni in cui sono stato rinchiuso, ho sentito le guardie dire ai prigionieri che non avevamo diritti”, ha raccontato in un’intervista alla stampa Paul Wright, ex co-fondatore e caporedattore di Prison Legal News, una rivista mensile nata per informare la popolazione carceraria. “All’inizio, ci avevo creduto”. I diritti passano anche dall’informazione che nelle carceri spesso è censurata, se non addirittura negata. In una recente revisione delle pubblicazioni che l’agenzia penitenziaria ha vietato, c’è un elenco infinito di riviste, libri e giornali, fra cui l’Albany Times Union, il New York Magazine, il New York Times, Newsweek e Prison Legal News. Secondo alcuni detenuti, quando il Department of Corrections and Community Supervision (DOCCS) decide di mettere al bando specifici media, “quella diventa la cultura” e non sarà facile reintrodurli. Gli articoli censurati, spesso, vengono indicati dalle agenzie penitenziarie come “potenziali fonti di incitamento alla disobbedienza” nei confronti del personale carcerario e del sistema penale-legale. “Potere e controllo - ha dichiarato Andrew Dombek, un ex agente penitenziario del DOCCS. - Si tratta soprattutto di chiarire ai detenuti chi comanda. Far sapere quello che accade fuori dalla prigione, invece, potrebbe agevolarli nella riabilitazione dopo il loro rilascio”. Alcune ricerche hanno rivelato che censurare le informazioni relative a razza e giustizia penale rende più difficile ai carcerati l’esercizio dei loro diritti e a presentare una difesa nel caso di violazioni. Quando sono chiamati a decidere su questioni costituzionali che riguardano le persone incarcerate, i tribunali prendono come riferimento la decisione della Corte Suprema del 1987, del caso Turner v. Safley. Questa sentenza favorisce soprattutto i funzionari penitenziari, che devono solo dimostrare che la censura è “ragionevolmente correlata a legittime preoccupazioni penali”. Nel 2006, la Corte Suprema ha tollerato che il Dipartimento di Correzione della Pennsylvania continuasse a trattenere, nonostante le proteste, tutte le riviste, i giornali e le fotografie delle persone detenute. Oltre 5.000 pubblicazioni ritenute non idonee sono state respinte dal Comitato di revisione dei media dell’Ufficio centrale. “Le persone che vivono nel microcosmo carcerario vogliono sapere cosa accade proprio come tutti gli altri - ha concluso Wright. - Alcune informazioni possono salvare la vita”. Secondo un’indagine di Pen America, eseguita nel 2021 in 28 Stati in cui esiste un apposito registro ufficiale delle pubblicazioni vietate, è la Florida a guidare la classifica con 22.825 titoli censurati, seguita dal Texas con 10.265 e dal Kansas con 7.699. Tunisia. Tra i manifestanti che si oppongono alla deriva autoritaria di Saied: “Meloni complice del dittatore” di Leonardo Martinelli La Repubblica, 26 maggio 2024 In centinaia hanno sfilato per protestare contro la raffica di arresti di giornalisti, avvocati e difensori dei diritti civili avvenuti negli ultimi giorni. Ma la rabbia si è rivolta anche verso l’Italia accusata di tenere in vita i rapporti tra il presidente tunisino e l’Europa. “Saied figlio bastardo degli italiani”. E “Meloni complice del dittatore”. Sono solo alcuni degli slogan urlati per le strade di Tunisi, nel tardo pomeriggio di venerdì, da una folla costituita perlopiù da giovani, che avanzava per le strade della città. L’Italia e la sua premier, l’amica di Kais Saied, il presidente tunisino, all’origine di una deriva autoritaria sempre più accelerata, erano in cima alle preoccupazioni dei manifestanti, lo sfogo della loro rabbia. Il corteo era stato indetto dopo gli arresti degli ultimi giorni di giornalisti, avvocati e rappresentanti della società civile. Ma la rabbia si è subito scaricata sull’Italia, che attraverso Meloni (ha effettuato quattro visite a Tunisi in poco meno di un anno) tiene attivo un ultimo legame di Saied all’Europa. La collera era anche contro un Paese che non muove foglia, mentre da questa parte del Mediterraneo si finisce in carcere per un niente, vedi l’avvocatessa Sonia Dahmani, che l’11 maggio è stata arrestata per aver fatto un briciolo di ironia sulla Tunisia di Saied. Durante un talk show sulla tv Carthage Plus, dove si discuteva dei migranti subsahariani, che arrivano qui per imbarcarsi verso Lampedusa, qualcuno aveva notato come in realtà loro volessero stabilirsi in Tunisia. E allora Dahmani aveva commentato: “Ma di quale paese straordinario stiamo parlando?”. Sì, di una Tunisia in preda a una crisi economica senza fine, dove non sembra proprio invitante venire a vivere... Per quella battuta, una domanda retorica, lei è ancora agli arresti e deve essere giudicata. Intanto, due noti giornalisti radiofonici, Borhen Bssais e Mourad Zeghidi, sono stati arrestati e già condannati mercoledì a un anno di carcere, per aver espresso le proprie opinioni (pure nel loro casi, assai ordinarie e senza virulenza). Un altro avvocato, Mehdi Zagrouba, è stato arrestato e, secondo la Lega tunisina dei diritti umani, sarebbe stato picchiato e torturato durante gli interrogatori. Assieme all’Omct (l’Organizzazione mondiale di lotta contro la tortura) la Lega ha chiesto che l’uomo sia sottoposto a “un esame medico-legale per documentare le tracce fisiche e psicologiche delle sevizie”. Dopo questi eccessi, gli Usa hanno protestato e chiesto spiegazioni ai vertici dello Stato tunisino (lo avevano già fatto nel passato) e così anche l’Ue (parlamentari europei avevano già contestato il rispetto della libertà d’espressione, ma mai Ursula von der Leyen, presidentessa della Commissione, che a Tunisi è venuta in visita con Meloni). Anche la Francia (che mai aveva osato criticare Saied) ha pubblicato un comunicato che va nello stesso senso. Dall’Italia, invece, niente di niente. Saied ama ricordare, con ammirazione, che Meloni è una che “dice ad alta voce quello che gli altri non osano dire”. Ma nelle sue trasferte a Tunisi, la premier italiana non ha mai osato (o voluto) pronunciare le parole “diritti umani” nei propri discorsi ufficiali. Ieri sera, per le strade di Tunisi, i manifestanti scandivano pure lo slogan “abbasso il decreto”. Si tratta del decreto 54, promulgato da Saied il 13 settembre 2022. È un provvedimento che vuole combattere la diffusione di fake news (e con pene molto dure, fino a cinque anni di carcere). In realtà il testo, che ha rappresentato la base anche per la condanna dei giornalisti Bssais e Zeghidi, serve soprattutto a colpire le voci che si ergono contro Saied e compagnia. Basta un post su Facebook o la condivisione di una notizia “sospetta” (vedi, una semplice critica al presidente) per finire in prigione. Lo sa bene Haythem Mekki, giornalista molto conosciuto e seguito soprattutto dai giovani. Aveva condiviso sui social alcune foto dell’obitorio dell’ospedale di Sfax, piene di cadaveri di migranti subsahariani ritrovati in mare. Hanno fatto il giro del mondo e sono state pubblicate anche da La Repubblica. Ebbene, Mekki rischia il carcere per averle condivise su Facebook. Ieri ha partecipato alla manifestazione. Ha spiegato che il decreto “serve a far tacere tutte le voci giudicate indesiderabili da parte del potere”. Secondo il Snjt, il Sindacato nazionale dei giornalisti tunisini, in un anno e mezzo il decreto 54 ha permesso di avviare procedimenti giuridici contro più di sessanta persone, tra cui giornalisti, avvocati e oppositori a Saied. Che dovrà affrontare le nuove elezioni presidenziali nel prossimo autunno, in questo clima di repressione e paura. E, soprattutto, praticamente con tutti i suoi principali oppositori e possibili contendenti in carcere, dopo una serie di retate iniziate nel febbraio dell’anno scorso. Ieri sera a manifestare erano in poco più di 400. Si dirà, non un numero elevato. Ma in un Paese dove esprimere la propria opinione è diventato sempre più rischioso, erano già in tanti, piccoli-grandi eroi, circondati da rappresentanti della polizia, in uniforme o in abiti civili, lì per curiosare. Riusciranno questi giovani a scatenare anche la rabbia del tunisino medio? Che sembra troppo preso dalle preoccupazioni quotidiane (come arrivare alla fine del mese) per scendere in piazza. E poi Saied resta popolare tra i ceti più poveri e nelle regioni interne del paese, dove il ritornello ricorrente è che “non lo lasciano lavorare” (gli altri politici? Le potenze straniere?). Secondo una giovane militante, presente alla manifestazione (ma che non vuole essere identificata), “un giorno o l’altro i tunisini si sveglieranno. Saied non ha risolto i problemi del paese, soprattutto quelli economici, che sono gravi. A un certo momento la gente se ne renderà conto. Sarà come la rivoluzione del 2011: prima o poi, succederà. Ora sulla libertà di espressione non si muovono, ma quando non ci sarà più da mangiare per i loro figli, si muoveranno”. Niger. Abdou, vent’anni e quattordici mesi inutili di carcere: forse le frontiere ora lo aiuteranno di Mauro Armanino* Il Fatto Quotidiano, 26 maggio 2024 Le frontiere esistenti tra il Niger dei colonnelli e il Benin di Patrice Talon, re del cotone indiscusso e presidente del Paese, sono vergognosamente chiuse. A causa delle sanzioni applicate in risposta al golpe militare di fine luglio dell’anno scorso, centinaia di camion e container sono bloccati dall’altra parte del ponte. Adesso è pure l’innocua piroga, che permetteva ai passeggeri di attraversare il fiume Niger, ad aver ricevuto l’ordine di arresto. Ciò significa che, come in un lontano passato, le frontiere tra i due Paesi confinanti sono completamente chiuse o quasi. In effetti c’è il disputato oleodotto che trasporta petrolio ‘cinese’ dal Niger alla costa atlantica del Benin che mantiene in vita una frontiera che altrimenti sarebbe del tutto invalicabile. Il libero movimento di persone e beni nello spazio dei Paesi dell’Africa Occidentale, in breve la tanto contestata Cedeao, si allontana dalla realtà una volta di più. Non affatto è il caso di Abdou Boubacar, uscito dall’ultima frontiera che lo ha imprigionato per 14 mesi a causa di un reato mai commesso nella città di Dosso, non lontano dalla capitale Niamey. Dice di essere nato in Costa d’Avorio ma nel foglio di uscita del carcere c’è scritto Monrovia, la capitale della Liberia. Dice di aver studiato in Liberia dove si parla inglese, ma il suo francese è quasi perfetto. Afferma che, essendo sua madre ivoriana, passava le vacanze da lei e questo spiegherebbe tutto. Adolescente, segue il fratello maggiore fino in Mauritania per poi tornare in una patria a scelta del momento e delle circostanze. Abdou, secondo il foglio di rilascio, è nato nel 2003 circa e avrebbe dunque la bellezza di 21 anni e lo stesso numero di frontiere sedotte, se non di più. Decide di attraversare il mare e per questo parte dalla Liberia, passa la Guinea, il Mali e, navigato il deserto del Sahara, approda in Algeria. Lavora per qualche mese ad Algeri nei cantieri edili come piastrellista, manovale e imbianchino. Il tempo necessario di andare in Libia e tentare finalmente il sogno del Mediterraneo per raggiungere l’Italia. Dopo un breve soggiorno a Tripoli paga 1700 euro al passeur per l’ultimo posto disponibile nel battello. Assicura che c’erano 113 passeggeri di tutte le nazionalità dell’Africa e altrove, comprese donne e bambini. Partiti all’imbrunire, sono stati fermati dalla guardia costiera libica ad appena un centinaio di metri dalla costa. Messo a lavorare per qualche mese gratuitamente da qualche capo, torna in Algeria dove, stavolta, le guardie e i militari lo arrestano e deportano sino al confine col Niger. Passa, con altri come lui, la frontiera invisibile tra i due Paesi la notte per raggiungere una cittadina abitata soprattutto da migranti espulsi chiamata Assamaka. Dopo un breve soggiorno, coi soldi nascosti nelle parti intime del suo corpo, raggiunge Arlit, Agadez e, nella cittadina di Dosso, passa la porta della prigione civile. Esibisce il foglio di uscita del carcere come l’unico trofeo guadagnato in questi anni di trasgressioni delle frontiere. Quattordici mesi inutili di carcere per un giovane di poco più di vent’anni non sono pochi. Abdou si sorprende, affamato e sperduto, a contare il numero di frontiere che l’hanno attraversato da quando è nato non si sa dove, quando e perché. Forse tornerà dove era partito per tentare ancora la pazienza del deserto e l’incertezza del mare. Abdou chiederà la meta del suo viaggio alle frontiere che, finora, non l’hanno mai tradito. *Missionario, dottore in antropologia culturale ed etnologia Myanmar. La tratta dei giovani marocchini sequestrati dalla mafia cinese di Leonardo Martinelli La Repubblica, 26 maggio 2024 “Utilizzati come schiavi per truffe online”. Decine di ragazzi tra i 20 e i 30 anni hanno riposto ad annunci di lavoro in Tailandia nel mondo del tech per poi finire nelle cittadelle della cybercriminalità. Per 17 ore al giorno adescavano potenziali vittime su social e app, parlando con loro, con il volto e la voce modificati dall’intelligenza artificiale. Una storia incredibile, una nuova schiavitù dai percorsi davvero globalizzati. Diverse decine di marocchini (ma secondo il quotidiano Le Monde, sarebbero già quasi 200) sono tenuti prigionieri in campi di lavoro nel Myanmar, l’ex Birmania, utilizzati per truffare online persone in tutto il mondo, ma soprattutto americani: giocatori d’azzardo, ma anche chi vorrebbe una storia d’amore o procurarsi un business proficuo. In che modo dei giovani fra i 20 e i trent’anni, in arrivo dal Marocco, si sono ritrovati schiavi dall’altra parte del mondo? E in conglomerati controllati dalle mafie cinesi? In realtà lo stesso destino sta toccando a tanti altri giovani, in arrivo dai Paesi più diversi, perché quei malfattori hanno bisogno di maestranza che pratichi ogni lingua. In Marocco, comunque, la vicenda domina ormai da giorni i media. Il procuratore generale del re ha aperto un’inchiesta e le autorità si stanno muovendo per ottenere la liberazione dei connazionali. Le vittime in molti casi avevano un lavoro in patria o studiavano all’università. Sono stati contattati online da sconosciuti, spesso altri marocchini, che ricercavano competenze informatiche o più in generale nel settore commerciale. Proponevano posti di lavoro nell’e-commerce in Tailandia con un salario interessante. I candidati hanno dovuto passare addirittura delle selezioni in videoconferenza con i presunti datori di lavori. Dopo che l’offerta veniva accettata, s’invitava la persona a prendere un aereo fino alla Malesia, che non richiede un visto ai cittadini marocchini. Una volta giunti sul posto, i neoassunti erano accolti nelle migliori condizioni possibili. Risiedevano due o tre giorni in un albergo a Kuala Lumpur, senza dover pagare niente, il tempo di ottenere un visto per la Tailandia. Il giorno dell’arrivo a Bangkok, una vettura con autista li attendeva all’uscita dell’aeroporto. “L’uomo al volante mi ha detto che mi avrebbe portato nella città dove avrei cominciato a lavorare. Ero sfinito e mi sono addormentato. Al mio risveglio, ho capito che mi trovavo dove non avrei dovuto essere”, ha dichiarato Karim, uno dei malcapitati, a Le Monde. Era finito in Birmania, nello stato di Karen, ma subito al di là della frontiera thailandese, un confine molto poroso. È lì, in una regione che è uno degli epicentri della lotta che oppone i movimenti dei ribelli alla giunta al potere, che si trovano le “scam cities”, le città della truffa, sotto il controllo delle triadi cinesi. Karim era sbarcato a meno di un’ora di strada a Sud di Myawaddy, centro nevralgico della cybercriminalità. Dopo il golpe militare del 2021, le loro attività sono cresciute. Visti gli interessi cinesi in loco, è una delle ragioni della connivenza di Pechino con il nuovo regime. Nel novembre 2023 il Digital Forensic Research Lab ha tirato l’allarme su questa “operazione massiccia di sequestri e truffe a partire dalla Birmania su scala mondiale”. “Viene schiavizzata manodopera per truffare persone nel mondo intero e guadagnare milioni di dollari all’anno”, aggiungeva questo think thank americano, che dipende dall’Atlantic Council. I cyberschiavi marocchini avrebbero raggiunto la zona tra il novembre 2023 e il febbraio 2024. In quei conglomerati, che fungono da campi di lavoro, hanno incontrato altri giovani provenienti dal Sud-Est asiatico, dalla stessa Cina, dal Giappone, dalla Russia, dallo Sri Lanka, dal Tagikistan, ma anche dalla Tunisia e dal Libano. Ci sono, poi, tanti subsahariani, che “sono quelli trattati peggio di tutti”, ha sottolineato Karim. La vita è infernale: si lavora dal lunedì alla domenica, senza sosta, “17 ore al giorno”, ha precisato a Le Monde Mohamed. Ha vissuto più di tre mesi in uno di questi campi. Mediante un computer o un cellulare, doveva cercare di adescare le potenziali vittime su Facebook, Instagram, LinkedIn e Tinder, facendosi aiutare dai traduttori online. Altri dovevano interloquire con loro, con il volto e la voce modificati dall’intelligenza artificiale. Si creavano falsi profili, di uomini e donne bellissimi e molto ricchi. Karim assicura di essere stato picchiato e privato di acqua e cibo per diversi giorni. Intanto ha visto i suoi guardiani uccidere due colleghi cinesi. Taib Madmad, segretario generale dell’Amdh, l’Associazione marocchina dei diritti umani, ha sottolineato che “finora, nel nostro Paese, avevamo a che fare con i giovani senza diploma e senza lavoro che affrontano il Mediterraneo per raggiungere l’Europa. Ma in questo caso si tratta perlopiù di giovani che avevano un lavoro e con studi universitari alle spalle”. Per lasciare il campo dove era sequestrato, Mohamed assicura di aver pagato 6mila dollari in criptovalute. Altre famiglie hanno fatto lo stesso per ottenere la liberazione dei propri familiari. Ma c’è chi non ha le risorse necessarie per rispondere a quelle richieste di ricatto, equivalenti a venti volte il salario minimo del Marocco. Karim non ha pagato niente, ma è stato aiutato da Ong locali per fuggire. Intanto le cose si stanno muovendo in Marocco, le autorità stanno intervenendo. E altri giovani marocchini starebbero ritornando a casa.