La smania dei legislatori: punire, punire, punire di Diego Mazzola L’Unità, 25 maggio 2024 Dobbiamo ricordare le parole di Thomas Mathiesen: “La prigionizzazione è l’opposto stesso della riabilitazione, ed è l’ostacolo maggiore sulla strada del reinserimento nella società”. Prendendo per sacra l’affermazione della responsabilità penale personale, si è permesso che un numero impressionante di cittadini venisse lasciato “sopravvivere”, quando ci è riuscito, alle vie nazionali al gulag, deprivandolo della dovuta partecipazione alla vita civile, al processo democratico e liberale della riconciliazione e del reinserimento. Sappiamo che non poche, ormai, sono le associazioni che si occupano di carceri e di come “uscire” dalla società carceraria, la quale è comunque un aspetto dell’illusione totalitaria, sempre pronta a svuotare dei suoi contenuti la Carta Internazionale dei Diritti Umani. Penso che sia giunto il momento di contattarle per organizzare una fase di riflessione per marciare uniti. La collaborazione di coloro che oggi sono detenuti è indispensabile, soprattutto per introdurre il lavoro, perché necessaria a quella presa di coscienza e nella costruzione di una Legge che, mai come in questa fase, ha dimostrato tutto il suo fallimento. L’abbattimento al suolo degli attuali Istituti Penitenziari può dare il via alla costruzione di luoghi in cui, per tempi strettamente necessari, riscoprire il senso di responsabilità e della dignità personale e, quindi, consentire l’abolizione dell’istituto che più di ogni altro le delegittima, ovvero il carcere, per come è e per come non può non essere. Del resto è ormai noto che si è compresa la mancanza di senso e la immoralità della punizione e che oggi possiamo fare qualche passo avanti, non nella direzione di “pene alternative” ma in quella dell’alternativa al Sistema Penale volta a introdurre mattoni di nonviolenza nella costruzione del Patto Sociale. E quando viene dato l’ergastolo a una donna responsabile della morte di una figlia nei modi e nei tempi di cui si è saputo, non ci resta che stupirci del non avvenuto riconoscimento delle condizioni mentali in cui il fatto è avvenuto. Si tratta della cieca e atavica passione di punire, che ha chiaramente coinvolto quel tribunale, e che non ha fatto i conti né con la medicina né con i progressi compiuti nel Diritto dalle moderne neuroscienze. Ad aver formalmente abolito l’ergastolo sono in pochi in Europa. Ci sono Paesi come la Norvegia, la Croazia, la Serbia, la Bosnia, il Portogallo. C’è anche la Città del Vaticano, dove già dal 2013 è consentita la detenzione fino a un massimo di 35 anni, in linea con la sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani del 9 luglio 2013. Del criterio in base al quale si è “pensato” quel massimo di 35 anni non mi è dato sapere. Ma di quella “logica” parlò nientemeno Louk Hulsman, dicendo che gli era parsa molto simile a quella che determinava gli antichi romani nel “predire il futuro” interpretando il volo degli uccelli o indagando nelle viscere dei polli. Anche nella CEDU si può fare di meglio. Oggi si viene a sapere anche di Angela Davis e di Ruth Gilmore, e della loro opera volta a contrastare legalmente la costruzione di nuove carceri negli USA e dell’impegno dell’International Conference on Penal Abolition e di ciò che si è fatto in Portogallo e nella vicina Svizzera, dove si sta andando verso la progressiva riduzione del sistema penale. Per quanto riguarda l’Italia, come sappiamo, nonostante le condanne da parte della CEDU e le recenti sentenze costituzionali, abbiamo l’ergastolo di fatto “ostativo”, il “fine pena mai” e un dibattito sulla “certezza delle pene” che non ha mai fine. I nostri “legislatori”, continuano a preferire la punizione alla prevenzione e al reinserimento. A fronte di questa smania di punire, serve richiamare gli insegnamenti di Louk Hulsman, autore di Pene perdute, secondo il quale l’opzione reato non è mai proficua, di Nils Christie, che ripete che “il crimine non esiste”, di Michel Foucault, per il quale “il crimine non è altro che la malattia”, di Thomas Mathiesen che ha trascorso molti anni della sua vita a ripetere che “la prigionizzazione è l’opposto stesso della riabilitazione, ed è l’ostacolo maggiore sulla strada del reinserimento”, di Filippo Turati che, non oggi ma agli inizi del secolo scorso, vedeva nelle carceri il “cimitero dei vivi”, di Altiero Spinelli che nel 1949 pensava “che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale”. Esiste una grande storia dell’Abolizionismo nostrano e internazionale. In molti Paesi, con la somministrazione gratuita e sotto rigido controllo medico di cocaina ed eroina e con una ricercata offerta di lavoro a quelli che nel nostro Paese continuano a essere chiamati “tossicodipendenti”, hanno cominciato col chiudere alcuni istituti penitenziari. E poi: di che cosa si tratta quando si sente parlare di “rieducazione del condannato”. Forse potremmo cominciare a comprendere che con l’art. 27 della nostra costituzione si è permessa l’introduzione della violenza nell’Ordinamento, come un cavallo di Troia: quello del codice Rocco o quello del codice Stalin, fate voi. Il carcere è un fallimento, urge una riforma di Aurora Nicosia cittanuova.it, 25 maggio 2024 La cultura repressiva come unica risposta al male sociale è una sconfitta per tutti. Urge riformare il sistema carcerario. Dibattito aperto nel corso del convegno promosso da Città Nuova e Melagrana Napoli “Giustizia dentro e fuori le mura. Il carcere e la comunità”, svoltosi lo scorso 18 maggio nella città partenopea. I numeri sono impietosi e parlano da sé: in Italia, stando ai dati del Ministero della Giustizia, aggiornati al 30 aprile scorso, sono presenti 61.297 detenuti a fronte di una capienza regolamentare che prevede 51.167 posti disponibili. Maglia nera alla Lombardia con +2.755, seguita da Puglia con +1.486, Lazio (+1.483), Campania (+1.362). Regioni “virtuose” la Sardegna che ha 458 posti liberi, la Valle D’Aosta con -39, il Trentino-Alto Adige con -21. Ma il sovraffollamento, sebbene sia il problema che più facilmente balza agli onori della cronaca, non è l’unico del complesso mondo della giustizia. Se ne è parlato al convegno svoltosi di recente a Napoli dal titolo “Giustizia dentro e fuori le mura. Il carcere e la comunità”, promosso dalla rivista Città Nuova e Melagrana Napoli che è possibile rivedere sul canale YouTube di Città Nuova. Una mattinata che ha visto un’ampia partecipazione di quanti sono coinvolti a vario titolo nell’ambito delle carceri, con interventi delle diverse figure, istituzionali e non, che hanno dato voce a quella che si continua a chiamare un’emergenza, ma che di fatto è oramai da anni diventato un problema strutturale e grave. Non possiamo restare indifferenti ai numeri dei suicidi, né alle condizioni di salute fisica e mentali dei reclusi, né al loro essere tagliati dal resto della comunità cittadina, lontani e privati degli affetti familiari. Non possiamo tacere di fronte ad una giustizia che tale non è in tanti, troppi casi. “Si dice sempre che sono delinquenti e meritano di stare in carcere. Ma anche questa idea viene smentita dal fatto che non tutti i detenuti sono colpevoli del reato a loro ascritto. Così si arriva a dover pagare un risarcimento, spesso di notevoli proporzioni, che va a pesare sulla comunità intera”, evidenzia Samuele Ciambriello, garante regionale della Campania per le persone private della libertà. “Ma anche qualora siano colpevoli, rimangono pur sempre degli esseri umani”, ricorda a tutti il garante. E fra loro ci sono anche molti anziani, malati di mente, tossicodipendenti che dovrebbero stare altrove. Che il sistema carcerario attuale sia una sconfitta lo testimonia il fatto che arriva al 70% dei detenuti la percentuale di chi torna in carcere dopo aver scontato una pena, mentre la recidiva si riduce di gran lunga per chi gode di una pena alternativa. L’invito del garante è quello di puntare alla speranza, paragonandola a una madre che ha due figli: indignazione e coraggio. “Non ci preoccupiamo del fatto che le persone che entrano in carcere escano meglio di come sono entrate”, commenta Sergio Pezza, presidente della sezione penale del Tribunale di Benevento che ricorda come l’Italia nel 2009 sia anche stata sanzionata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo per non aver rispettato i diritti dei detenuti. Corte europea che incoraggia l’Italia ad agire per ridurre il numero dei detenuti prevedendo, in particolare, l’applicazione di misure alternative al carcere. “Allorquando ci sono solo tre metri quadri di spazio in una cella - sottolinea Pezza -, c’è uno spazio inadeguato alla dignità umana. Bisognerebbe inoltre considerare in generale se una condanna è non commisurata al reato commesso, unita a condizioni igieniche non buone, a poche ore d’aria e via discorrendo”. Non si dovrebbe parlare di pena al singolare, ma di pene al plurale, cioè di un ampio ventaglio di soluzioni che ridiano dignità e prospettive di una vita diversa a chi ha sbagliato. E, ancor prima, tutta la società e le istituzioni dovrebbero impegnarsi in una cultura della prevenzione. “Il carcere, così come è strutturato attualmente, è un’istituzione contro la persona”, tuona don Franco Esposito, responsabile della pastorale carceraria della diocesi di Napoli. Situazioni e trattamenti talora disumani, infatti, non risultano una soluzione, ma diventano essi stessi un problema nel problema. Che invece potrebbe essere risolto diversamente. Anche solo da un punto di vista economico. Basti pensare che un carcerato costa allo Stato 180 euro al giorno, mentre le case di accoglienza gestite volontariamente, come quella della diocesi di Napoli, non ricevono alcun aiuto economico, ma arrivano molto meglio a favorire il reinserimento degli ex detenuti dando loro una vicinanza sociale ed un futuro lavorativo. “Se il carcere ci deve essere, per impedire che si producano altri danni alla comunità, è pur vero che dopo il carcere bisogna prevedere altro”, chiede don Franco che parla dei volontari come persone che, diversamente dalle altre, pensate “per” il detenuto, sono “con” il detenuto. La testimonianza di un agente di Polizia penitenziaria, Enrico Bellotta, pone l’attenzione su un altro aspetto che non di rado va incontro a criticità, anche se, sottolinea l’agente, occorre tener presente che sono casi singoli. Torna anche qui, come per altre figure professionali, il grave problema, tra gli altri, della mancanza di personale che mette a dura prova tutto il sistema. Confermano quanto raccontato fin qui le testimonianze di volontarie e volontari impegnati nelle diverse carceri della Campania e in Abruzzo, gli interventi dal pubblico molto partecipe e interattivo, il racconto del progetto che Città Nuova porta avanti con la sua rivista e il libro di Fernando Muraca “Liberi di cadere, liberi di volare”. Conferma l’importanza di quanto affermato la toccante esperienza di Marco Migliaccio, che ha sperimentato sulla propria pelle le criticità della detenzione e, al contempo, l’importanza di una prossimità che lo ha portato al pieno reinserimento sociale. Un convegno, dunque, in cui non è mancata la denuncia forte delle tante zone d’ombra e che ha raccontato l’indignazione e il coraggio di chi, sentendosi interpellato, si attiva giorno dopo giorno, da anni, per fare la sua parte. Non è stato un evento spot, si commentava, ma una tappa di un lungo percorso che ha una sua storia e che andrà avanti. Maratona oratoria Ucpi per l’emergenza suicidi: 35 da gennaio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 maggio 2024 L’Unione delle Camere Penali Italiane ha deliberato l’avvio di una maratona oratoria a livello nazionale per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla drammatica situazione delle carceri italiane. L’iniziativa, che prenderà il via mercoledì prossimo, 29 maggio, sarà coordinata dall’Ucpi con il supporto dell’Osservatorio Carcere e vedrà coinvolte tutte le Camere Penali territoriali. Le maratone oratorie si svolgeranno in luoghi pubblici e proseguiranno fino a data da destinarsi. “Sono 35 i suicidi in carcere dall’inizio dell’anno - denuncia l’Ucpi un dato inaccettabile che evidenzia il fallimento di un sistema che non è più in grado di garantire neanche il minimo rispetto dei diritti umani dei detenuti”. L’Unione delle Camere Penali punta il dito contro l’immobilismo della politica: “I decisori politici, pur inevitabilmente consapevoli dell’eccezionale gravità della situazione, hanno offerto un’indecorosa immagine di totale immobilismo, bloccati da interessi meramente opportunistici, determinati dal timore della perdita di consenso elettorale derivante dall’assunzione di doverosi provvedimenti di clemenza come l’indulto, o anche semplicemente restitutori delle sofferenze indebitamente inflitte ai detenuti, come la liberazione speciale anticipata”. Ricordiamo che l’ultimo suicidio, l’ennesimo, riguarda una donna detenuta in custodia cautelare nel carcere di Torino. Mariassunta Pulito, 64 anni di Caltanissetta, accusata assieme al marito di aver violentato il loro padrone di casa, si è suicidata giovedì mattina nel bagno della sua cella soffocandosi con un sacchetto di plastica in testa e legato attorno al collo con un laccio. Parliamo della quarta donna negli ultimi due anni che si è suicidata nel carcere delle Vallette di Torino. Numeri sconcertanti e non si fa nulla. Anche il ministro della Giustizia Nordio pare essere ostaggio del populismo penale. La delibera degli avvocati penalisti, approvata il 20 maggio scorso, sottolinea come il sovraffollamento carcerario abbia raggiunto livelli allarmanti, paragonabili a quelli denunciati nella sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Attualmente, la situazione all’interno degli istituti di pena italiani non solo priva i detenuti della loro dignità umana, ma rappresenta anche un fallimento del sistema democratico stesso. L’Ucpi ha più volte sollecitato interventi immediati da parte del governo per affrontare l’emergenza sovraffollamento e ripensare l’intero sistema dell’esecuzione penale. Tuttavia, le risposte politiche sono state inesistenti, dettate dalla paura di perdere consenso elettorale piuttosto che dalla volontà di risolvere problemi umanitari. La mancanza di riforme ha creato un ambiente di lavoro insostenibile per gli agenti di polizia penitenziaria e per gli operatori del settore, con un numero di personale del tutto inadeguato rispetto alle necessità. La maratona oratoria dell’Ucpi ha l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica e spingere i decisori politici a prendere provvedimenti urgenti. Verranno denunciati pubblicamente la condizione inumana dei detenuti, il degrado degli istituti penitenziari, le inefficienze del sistema carcerario, l’assenza di riforme significative e, come detto, l’indifferenza della classe politica. L’Unione delle Camere Penali Italiane invita la società civile a partecipare attivamente a queste iniziative, per rompere il muro dell’indifferenza e riportare l’attenzione su un tema di fondamentale importanza per la democrazia e la giustizia. Le maratone oratorie non saranno solo momenti di denuncia, ma anche occasioni di riflessione e proposta, per cercare soluzioni concrete e restituire dignità umana a chi è attualmente privato dei propri diritti fondamentali. In conclusione, la delibera dell’Ucpi fa un richiamo accorato alla Costituzione Italiana e ai principi sui quali si fonda la convivenza civile. La dignità umana è un diritto inviolabile e la sua privazione è inaccettabile. La maratona oratoria vuole essere un segnale forte e chiaro: il sistema carcerario italiano deve essere riformato, e ciò può avvenire solo attraverso un impegno collettivo e un’assunzione di responsabilità da parte di tutte le componenti della società. “Le carceri sono come magazzini di esseri umani. Ma nessuno fa niente” di Simona Musco Il Dubbio, 25 maggio 2024 “Io non ho mai perso la speranza. Mai. Sono soddisfatto solo di una cosa, che ora da qualche parte c’è scritto che non ho commesso il fatto. È stata una grande sofferenza. Mi sono chiesto tante volte perché, ma non ho mai trovato una risposta”. Poco prima di essere assolto, Beniamino Zuncheddu era diventato fragile. Chi gli è stato vicino, riuscendo alla fine a dimostrare che non ha mai commesso quel triplice omicidio per il quale era stato condannato all’ergastolo, passando 33 anni di vita in carcere, non lo aveva visto così in pericolo nemmeno quando sembrava destinato a passare l’intera esistenza dietro le sbarre. Ora, mesi dopo la sentenza del processo di revisione che ne ha sancito l’innocenza passando alla storia come il caso di ingiusta detenzione peggiore della storia del Paese, ha ripreso peso. Arriva a Roma, alla libreria “Borri Book” di Termini, per la presentazione del libro “Io sono innocente” (DeAgostini), scritto assieme al suo avvocato Mauro Trogu, in compagnia della sorella Augusta, instancabile combattente che lo ha tirato fuori da lì, agganciando un giorno quel giovane avvocato al quale ha urlato in faccia: “Mio fratello è innocente”. Zuncheddu, polo blu e scarpe da tennis, gioca con gli occhiali, mentre tratta il microfono come un oggetto incandescente. Parla poco e non nasconde la sua timidezza, che traspare da quel sorriso abbozzato sul suo viso ogni volta che qualcuno gli si avvicina per stringergli la mano, per conoscerlo, per farsi fare un autografo. Una vera e propria rock star. Ma per il male che lo Stato gli ha fatto, al momento, non ha avuto alcun risarcimento. “Se non ci fosse stata mia sorella a quest’ora sarei sotto un ponte. O a rubare. Tanto ci sono stato 30 anni in galera, tanto vale che rubo, se mi va bene bene, se non mi va bene ritorno in carcere: un delinquente in più in Italia”, dice al Dubbio sorridendo. È una pelle che non conosce, quella da protagonista, che non ha mai nemmeno considerato, dopo 33 anni in carcere da innocente. Mai una parola fuori posto, in quelle celle, mai uno scatto d’ira, nonostante la rabbia fosse un sentimento che era totalmente autorizzato a provare. Ma non lo ha fatto. L’importante era non chiedergli di confessare un reato mai commesso: quello lo avrebbe fatto di certo scattare. “Per usufruire della condizionale mi chiedevano un sicuro ravvedimento: ma di cosa mi dovevo ravvedere se non ho fatto niente? E se lo avessi fatto, come mi sarei sentito dopo, una volta libero? Poi ce l’hai addosso tutta la vita ed è una cosa che non mi appartiene. Perciò ho detto no”. La sua speranza di tornare libero si basava su un’equazione semplice: gli innocenti non possono finire in carcere. “Pensavo che un giorno o l’altro sarei uscito, perché essendo innocente mi sembrava una cosa impossibile che i giudici non capissero. Tutti sapevano la mia storia, tutti dicevano che ero innocente, lo sapevano anche gli agenti, lo sapeva il Tribunale, lo sapevano tutti, però nessuno si muoveva. Ma ho sempre sperato che un giorno sarei uscito”, racconta a margine della presentazione del libro. “Questo (Trogu, ndr) è il sesto avvocato che ho avuto. Stavo perdendo le speranze pure sugli avvocati. È durato tanto. Ho avuto pazienza e a furia di stringere i denti non ne ho più. Però intanto, mi sono detto, finché respiro, lotto”. Ma le carceri sono un posto difficile in cui lottare, un posto difficile pure per respirare. “Si sta come le sardine. Lo sanno tutti, ma nessuno fa una legge per alleggerire quel peso. Perché non fanno uscire le persone a cui rimangono pochi anni? Quelli che hanno una famiglia, soprattutto? Perché non ci sono gli operatori, gli assistenti sociali, perché non date loro un lavoro? Le carceri sono come magazzini di esseri umani”. Un deposito di corpi che non hanno dignità. Ma nonostante questo, nonostante una vita rubata, Zuncheddu non è arrabbiato con nessuno. “Nemmeno con chi mi ha accusato: anche lui è una vittima”. Com’è possibile? “Se sbatto la testa al muro - sorride - sono io a farmi male. E dopo non cambia niente, vale per tutte le cose”. Una volta fuori, spiega Zuncheddu, la cosa più bella è stata vedere tutto il suo paese, Burcei, dalla sua parte. A festeggiarlo. “Mi aspettavano tutti, non ci ho capito niente”. E ora, cosa vorrebbe Beniamino Zuncheddu? “Curarmi. Una famiglia? Ormai è tardi per una famiglia”. “La giustizia non è stata clemente con Beniamino, che era l’uomo perfetto per il disegno che qualcuno aveva in testa”, dice Irene Testa, garante dei detenuti della Sardegna, che ha avuto un ruolo di primo piano per tirare fuori Beniamino da quel buco nero che è il carcere. Vicino a loro c’è Gaia Tortora, la prima a portare il caso Zuncheddu in tv, che dice seria: “Questa storia è anche la mia”. Quella di suo padre Enzo, l’uomo simbolo della malagiustizia in Italia. Una giustizia “che fa paura”, continua Testa, e che non è stata clemente “neanche in questa sentenza, che ci ha lasciati tutti con l’amaro in bocca”. Perché pur assolvendolo, i giudici di Roma non lo hanno dichiarato del tutto innocente. “Cosa c’è da rispettare in una sentenza che ci dice che Zuncheddu è un colpevole che l’ha fatta franca? - si chiede Testa - Dopo avergli rubato tutto, è stata l’ennesima cattiveria nei confronti di Beniamino”. Un’occasione mancata, spiega Trogu, per prendere le distanze da ciò che nella giustizia non funziona. Una giustizia sulla quale bisognerebbe riflettere, che ha condannato velocemente e ci ha poi messo 33 anni a fare un passo indietro. “Quella sentenza l’ho letta con molta incredulità - spiega Trogu -. Non mi aspettavo grandi proclami a suo favore, ma neppure mi sarei mai aspettato un modo di raccontare quel processo così lontano da quello che avevo vissuto. Non è semplicemente l’aver valutato gli elementi raccolti in ottica accusatoria. La cosa più incredibile è che sono stati totalmente omessi i riferimenti delle prove a favore di Beniamino”. E ciò nonostante ogni udienza riservasse un colpo di scena, mai contro di lui, sempre a favore. “Non c’è stato un solo testimone che abbia portato un elemento a carico di Beniamino aggiunge Trogu -. Tutto il dibattimento era univoco nel dimostrare che le indagini erano state condotte in maniera irregolare, che le prove erano false e di tutto questo, nella sentenza, non si parla. La sentenza non racconta quel processo. E per questo sono contento di aver scritto questo libro”. Io sono innocente è l’urlo lungo 33 anni di un uomo che deve ricominciare a vivere a 59 anni. “Un uomo che è rimasto uguale a quando aveva 26 anni”, dice lui, col volto di un ragazzino. Ed è un titolo che rappresenta “la giusta risposta a quanto si legge in quella sentenza - conclude Trogu -, una negazione della realtà in nome di qualcosa che non voglio immaginare”. Un nuovo reparto di Polizia penitenziaria per sedare le rivolte in carcere di Stefano Baudino lindipendente.online, 25 maggio 2024 Con l’introduzione del nuovo reato di rivolta in carcere, previsto dal nuovo pacchetto di sicurezza (la cui discussione alla Camera è prevista per il periodo immediatamente successivo alle elezioni europee), il governo ha autorizzato la creazione di un nuovo reparto di polizia carceraria, incaricato specificamente di sedare le rivolte. Con il decreto ministeriale del 14 maggio 2024 è infatti stato istituito il G.I.O., il Gruppo di Intervento Operativo. Il nucleo sarà articolato in un ufficio centrale e vari uffici territoriali e sarà alle dirette dipendenze del DAP, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Nato ancora prima dell’introduzione formale del reato che dovrebbe occuparsi di contenere, il G.I.O. avrà il compito di intervenire in caso di “emergenze, non altrimenti fronteggiabili in sede territoriale, che possono pregiudicare l’ordine, la sicurezza e la disciplina in ambito penitenziario, oltre che per particolari eventi critici sotto il profilo della sicurezza e per specifiche condizioni di elevato rischio nel medesimo ambito penitenziario”. Eppure, sia le associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti che il sindacato della Polizia Penitenziaria sono unanimi nel ritenere che, prima di mettere mano all’inasprimento della repressione delle proteste, il governo dovrebbe agire sulla prevenzione, intervenendo sulle molteplici criticità dell’ambiente carcerario che rappresentano la causa diretta dei disagi dei detenuti. Le cui condizioni generali, come raccontano numerosi rapporti, peggiorano di anno in anno. Nello specifico, all’interno del decreto ministeriale si legge che il GIO “opera su scala nazionale e interviene su disposizione del Capo del Dipartimento”, avendo “funzioni di pronto intervento diretto a ristabilire, in presenza di situazioni emergenziali non altrimenti gestibili in sede locale, la sicurezza, l’ordine e la disciplina penitenziaria”, nonché a “garantire altri servizi di particolare complessità operativa sul territorio nazionale”. Inoltre, su richiesta del Direttore del G.O.M. e disposizione del Capo del Dipartimento, ha la possibilità di “intervenire, nelle suddette emergenze, a supporto del Reparto operativo mobile nelle sezioni 41 bis”. Nel decreto viene scritto che il GIO, “in particolari contesti operativi” è anche chiamato a “garantire i presidi di sicurezza in occasione di eventi, anche internazionali, organizzati dall’Amministrazione penitenziaria, ovvero alla cui organizzazione è chiamata a partecipare”. Nonostante l’istituzione del GIO sia stata accolta in maniera piuttosto favorevole dal sindacato della Polizia Penitenziaria (UILPA), per bocca del suo segretario generale, Gennarino De Fazio, l’organizzazione ha lanciato un appello al governo, sostenendo che emergenze e criticità nel circuito penitenziario debbano essere “soprattutto prevenute garantendo la vivibilità e la sicurezza delle carceri, partendo da organici della Polizia penitenziaria e delle altre figure professionali sufficientemente formati e adeguati alle effettive esigenze pure di garanzia dei diritti contrattuali per gli operatori”. Senza mezzi termini, De Fazio ha infatti denunciato che “puntare sulla repressione a danno della prevenzione potrebbe aumentare le già enormi difficoltà e portare al definitivo tracollo”, facendo presente che, nella situazione attuale, i membri del GIO “verranno sottratti a organici già mancanti di 18mila unità e rischieranno di diventare come una palla di biliardo che schizza da una parte all’altra per tentare di fronteggiare le emergenze”. Il segretario generale di UILPA ha chiesto all’esecutivo di varare un decreto carceri “che con procedure d’urgenza consenta, prima di ogni altra cosa, di mettere in sicurezza l’apparato mediante congrue assunzioni straordinarie, il deflazionamento della densità detentiva e il potenziamento del servizio sanitario”. È inoltre opportuno constatare come, a fronte di una formulazione ancora poco chiara di quella che effettivamente possa essere considerata una “rivolta carceraria”, nonché dei contorni e dei limiti di un reato che la punisca, già si stia operativamente pensando a come reprimerlo. Come le associazioni interessate alla tutela dei diritti dei detenuti e, per certi versi, la stessa polizia penitenziaria denunciano da tempo, le rivolte in carcere sono molto spesso determinate da situazioni di profondo disagio vissute dai detenuti. Un disagio che è molto difficile possa essere ridimensionato mettendo mano a un’ulteriore spinta repressiva. Per comprenderlo, è opportuno consultare i dati del 20esimo Rapporto sulle condizioni di detenzione recentemente pubblicato dall’associazione Antigone, dal titolo “Nodo alla gola”, in cui si attesta come, nel solo periodo compreso tra gennaio 2023 e marzo 2024, negli istituti penitenziari italiani si sono verificati oltre 100 suicidi, date da esperienze detentive sfociate in “situazioni di grandi marginalità”. Dalle statistiche disponibili, risulta che almeno 22 tra le oltre 100 persone che si sono suicidate avrebbero sofferto di patologie psichiatriche, che dilagano negli istituti penitenziari di tutto il Paese (1 individui su 5 tra quelli detenuti, racconta la relazione, fa regolare uso di antipsicotici, antidepressivi e stabilizzanti dell’umore). Nel frattempo, non fa che peggiorare la situazione legata al tasso di sovraffollamento carcerario, vicino a una media del 120% a livello nazionale, con picchi di oltre il 200% in due strutture lombarde. Eppure, di fronte alle scarse condizioni riservate ai detenuti italiani, negli ultimi anni in Italia si è registrato un taglio nella spesa riservata alle strutture penitenziarie. Nella legge di bilancio del 2023, si leggeva che a partire dall’anno scorso si sarebbe dovuta attuare una razionalizzazione del personale che avrebbe dovuto portare a risparmiare quasi 10 milioni. Carcere italiano e religione cattolica: un rapporto ancora indissolubile di Nicolò Cenetiempo MicroMega, 25 maggio 2024 Se è vero che un tempo nelle carceri italiane la stragrande maggioranza dei detenuti era di religione cattolica, attualmente le proporzioni non sono più così schiaccianti. Ciononostante, ancora oggi la religione cattolica trova nelle nostre prigioni una corsia preferenziale rispetto agli altri culti. Con buona pace della laicità dello Stato. A Torino, da ottobre 2023 a gennaio 2024, il Centro Servizi per il Volontariato ha formato oltre 170 persone sui temi principali del mondo penitenziario. Nell’ultimo incontro, tenutosi il 25 gennaio 2024 e dedicato alla presentazione degli enti che operano all’interno o all’esterno del carcere, erano presenti i portavoce di sei associazioni aperte al coinvolgimento di nuovi volontari: di queste, cinque erano in modo più o meno diretto di ispirazione cattolica. Non si tratta però di un caso isolato, perché spesso il Terzo Settore attivo negli istituti di pena è connotato da uno stretto legame con le istituzioni ecclesiastiche. Un indicatore, questo, dello status privilegiato di cui gode la religione cattolica nelle carceri italiane. Da una parte l’Ordinamento Penitenziario (legge 354/75) sancisce la libertà per i detenuti di professare la propria fede religiosa, ma dall’altra riserva un occhio di riguardo al solo culto cattolico. È infatti assicurata la presenza in ogni istituto di almeno un cappellano (art. 26), che - insieme al magistrato di sorveglianza, il direttore, il medico, il preposto alle attività lavorative, l’educatore e l’assistente sociale - è anche parte della commissione incaricata di sovrintendere al trattamento per le persone ristrette (art. 16). Secondo il Regolamento Esecutivo della legge 354/75, inoltre, il carcere è provvisto di una o più cappelle dove celebrare il rito cattolico, mentre per le altre confessioni religiose dovrebbero essere messi a disposizione “idonei locali” (art. 58). Una disparità non da poco, come emerge dal rapporto dell’associazione Antigone uscito nel 2021: nel 79,5% degli istituti visitati non era presente alcuno spazio dedicato esclusivamente a culti non cattolici. Tuttavia, questo trattamento di favore non trova più un fondamento solido nella presenza di una maggioranza schiacciante di detenuti di fede cattolica, com’era in passato. I processi migratori hanno infatti contribuito ad ampliare il ventaglio confessionale anche nelle carceri italiane, dove nel 2020 il 40% della popolazione ristretta era costituito da musulmani, cristiani ortodossi, anglicani, evangelici, ma anche buddhisti, induisti, ebrei, Testimoni di Geova, non credenti, e una componente significativa (oltre 11mila detenuti) di cui non è stata rilevata la religione. Se il cappellano è una figura normativamente prevista nel contesto penitenziario, lo stesso non si può dire degli altri ministri di culto, che possono accedere al carcere solo se la richiesta presentata dalla persona detenuta per l’assistenza spirituale viene accettata dalla direzione dell’istituto. Qualora una confessione religiosa abbia stipulato un’intesa con lo Stato italiano, i ministri di culto non necessitano di una particolare autorizzazione - ad esempio alcune Chiese evangeliche, ma anche l’Unione buddhista italiana e l’Istituto buddista italiano “Soka Gakkai”. Le istituzioni religiose che, invece, non intrattengono con lo Stato rapporti disciplinati dalla legge devono passare per il Ministero dell’Interno, che rilascia ai ministri di culto dei nulla-osta ad personam - è la prassi valida per i Testimoni di Geova e per l’Islam. Quello musulmano è un caso particolare: non avendo un’autorità gerarchicamente superiore. Il ddl Sicurezza va contro chi protesta. Pene triple rispetto alla corruzione di Federico Capurso La Stampa, 25 maggio 2024 Il nuovo ddl Sicurezza, ora in discussione alla Camera, dopo aver previsto l’introduzione del nuovo reato di “resistenza passiva” negli istituti penitenziari, con cui si rendono punibili fino a otto anni di carcere i casi di protesta pacifica dei detenuti, punta ora a inasprire le misure contro chi vuole manifestare contro la realizzazione di opere pubbliche. Matteo Salvini da tempo si lamenta dei tanti comitati che in tutta Italia si battono per evitare la realizzazione di infrastrutture a lui care, come il Ponte sullo Stretto. Così, adesso, il deputato leghista Igor Iezzi presenta un emendamento al ddl Sicurezza che va proprio nella direzione indicata dal leader. Prima aumenta le pene per i reati di resistenza, violenza o minaccia a un pubblico ufficiale, portandole da sette a quindici anni, “se la violenza o la minaccia è commessa da più di dieci persone, pur senza uso di armi”. Poi aggiunge un ulteriore aggravante, nel caso in cui la violenza o minaccia venga commessa per “impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica”. In questo caso, gli anni di carcere possono arrivare a 25 anni. A lanciare l’allarme è il deputato di Avs Angelo Bonelli, che vede nell’emendamento Iezzi un chiaro mandante politico: “Vuole intimidire la legittima protesta contro il Ponte sullo Stretto. La pena prevista è tripla rispetto al reato di corruzione e ad altri reati gravi come la rapina. Siamo in una vera emergenza democratica”. Nel mirino di Bonelli c’è Salvini che - lo accusa il deputato di Avs - dal ministero delle Infrastrutture ha affidato lavori per oltre 15 miliardi di euro senza gara pubblica, come il ponte sullo stretto di Messina e la diga foranea di Genova e non ha accolto le contestazioni di irregolarità dell’Autorità nazionale anticorruzione sulle procedure adottate dal suo ministero. E adesso “vuole mandare in carcere chi protesta! Sarà dura opposizione in Parlamento e nel Paese, anche contro chi sta devastando il territorio con opere dannose come il ponte sullo stretto, mentre in Sicilia un milione di persone non ha accesso all’acqua potabile a causa della siccità e dell’assenza di interventi sugli acquedotti”. La Corte europea dei diritti dell’uomo prende a ceffoni la malagiustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 25 maggio 2024 La Cedu dice che l’Italia, sulle intercettazioni, è doppiamente nemica dei diritti dell’uomo. Brutta giornata per il partito dello sputtanamento. È stata una giornata triste quella di giovedì per il partito dello sputtanamento (Pds): quasi da lutto al braccio. È una giornata diremmo quasi drammatica per tutti coloro che negli ultimi anni hanno cercato di affermare un’idea tossica all’interno del dibattito pubblico. Un’idea che, grosso modo, potremmo provare a sintetizzare così: il compito principale della giustizia non è solo quello di smascherare il malaffare della società, ma è anche quello di fare emergere i comportamenti immorali dei cittadini più potenti. E per avvicinarsi a questo importante obiettivo, i magistrati italiani hanno tutto il diritto di mettere l’apparato giudiziario al servizio non solo della giustizia ma anche della moralità. E di conseguenza hanno il dovere etico di offrire alla libera stampa materiale utile per poter costruire, con la complicità dei cronisti giudiziari trasformatisi all’occorrenza in buca delle lettere delle veline delle procure, l’imprescindibile processo mediatico, necessario per offrire al tribunale del popolo le giuste coordinate per condannare moralmente anche chi non ha sufficienti prove per essere condannato in un’aula giudiziaria. L’altro ieri, dicevamo, per il partito dello sputtanamento, è stato un giorno drammatico. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto all’unanimità che vi sia stata violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della privacy, vita privata e corrispondenza) della Convenzione Cedu su un caso particolare: l’intercettazione e la trascrizione delle comunicazioni telefoniche di Bruno Contrada nell’ambito del procedimento sull’omicidio di Nino Agostino in cui l’ex funzionario del Sisde non era imputato né indagato. Sentite cosa dice la Cedu: “La Corte ha concluso che la legge italiana non offriva garanzie adeguate ed effettive contro gli abusi alle persone che erano state sottoposte a una misura di intercettazione ma che, non essendo sospettate o accusate di coinvolgimento in un reato, non erano parti nel procedimento. In particolare, nessuna disposizione prevedeva che tali soggetti potessero rivolgersi a un’autorità giudiziaria per un controllo effettivo della legittimità e della necessità della misura e per ottenere un adeguato risarcimento, a seconda dei casi”. Se non fosse sufficientemente chiaro, il più importante organo europeo che si occupa della tutela dei diritti dell’uomo dice che l’Italia, sulle intercettazioni, è doppiamente nemica dei diritti dell’uomo. Consente che vi sia un meccanismo che permette di intercettare, e dunque di sputtanare, persone che sono estranee alle indagini. E non consente alle persone che hanno subìto un danno da queste intercettazioni, in quanto sputtanate, di avere un risarcimento. La questione dovrebbe essere chiara: il modo in cui i magistrati italiani interpretano l’articolo 267 del Codice di procedura penale, quello che consente al pm di approvare le intercettazioni con decreto motivato quando vi sono “gravi indizi di reato”, è un modo del tutto sballato che, puntando sui sospetti e non sulle prove, offre al magistrato la possibilità di intercettare chiunque, grazie a quella mostruosità chiamata intercettazione a strascico. Nel momento in cui si vengono a toccare i diritti fondamentali, come la privacy, le garanzie nei confronti delle persone non indagate devono essere massime e l’idea che qualunque persona non indagata possa “spuntare” in un’intercettazione solo perché quel nome intercettato può aiutare il processo mediatico a supportare delle indagini fatte con i piedi, senza prove, senza reati, senza pistola fumante, è un’idea che può funzionare bene negli stati totalitari ma è un’idea che non si adatta bene a chi ha a cuore i valori non negoziabili dello stato di diritto. C’è un giudice in Europa. Ad ascoltarlo, oltre che i legislatori, dovrebbero essere anche coloro che hanno scelto di trasformare il giornalismo in uno spettacolo degno dello zoo, dove accanto ai rinoceronti, alle foche, alle giraffe spiccano, dietro le vetrate, i velenosi pappagalli delle procure. Caso Mori, l’Anm ora attacca tutti: “Così denigrano i magistrati” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 maggio 2024 Scontro a distanza con i carabinieri, che avevano difeso l’ex Ros indagato dai pm di Firenze per le stragi del 1993. Scontro indiretto e a distanza tra magistrati e carabinieri sulla nuova inchiesta a carico del generale Mario Mori, indagato dalla Procura di Firenze per i reati di strage, associazione mafiosa e associazione con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico. Secondo i pm fiorentini, pur avendo notizia delle intenzioni stragiste di Cosa nostra, nel 1993 il militare si sarebbe girato dall’altra parte non facendo nulla per sventare i piani di morte dei mafiosi. La giunta esecutiva della sezione toscana dell’Anm ha auspicato che la vicenda “possa trovare soluzione esclusivamente in ambito processuale e nell’assoluto rispetto delle prerogative e dei diritti delle parti”. L’Anm, con un comunicato, ha espresso “piena solidarietà e vicinanza ai magistrati della Procura di Firenze” dopo aver letto le dichiarazioni rilasciate da Mori “e da autorevoli esponenti del governo e della maggioranza parlamentare nonché i commenti di alcuni organi di informazione”. Il riferimento è molto probabilmente alle parole del sottosegretario di Stato Alfredo Mantovano che ha incontrato l’ex comandante dei Ros e gli ha manifestato “sconcerto, nonostante che decenni di giudizi abbiano già dimostrato l’assoluta infondatezza di certe accuse”; a quelle del Ministro della difesa Guido Crosetto per cui “c’è la voglia di distruggere un servitore dello Stato che ha sfidato il potere di alcuni”; a quelle dell’onorevole di Forza Italia, Rita Dalla Chiesa, che su X ha scritto: “Coraggio, Generale Mori. Questo scempio da parte della Procura di Firenze finirà presto”; a quelle dello stesso generale che, in una lettera aperta, si è detto “profondamente disgustato da tali accuse che offendono, prima ancora della mia persona, i magistrati seri con cui ho proficuamente lavorato nel corso della mia carriera nel contrasto al terrorismo e alla mafia, su tutti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”. Per il sindacato delle toghe se “lo sconcerto e l’insofferenza del Generale sono umanamente comprensibili”, al contrario “le altre dichiarazioni e i commenti come già denunciato al recente congresso Anm di Palermo in relazione ad analoghi interventi riguardanti l’attività di magistrati del Distretto di Firenze, appaiono non tanto esercizio del diritto di critica, senz’altro legittimo, ma dettati da fine denigratorio dell’attività dell’Autorità Giudiziaria, il cui agire sarebbe addirittura connotato da intenzioni persecutorie”. Pertanto i magistrati associati, correndo in difesa dei loro colleghi Spiezia, Tescaroli, Turco, Gestri, hanno espresso “la più netta contrarietà a che, come reiteratamente avvenuto in passato, vicende in corso di accertamento nelle sedi competenti siano oggetto di dichiarazioni pubbliche contro singoli magistrati - i quali, in rispettoso silenzio, si occupano anche del procedimento in questione nell’esclusivo adempimento dei propri doveri di ufficio - chiaramente finalizzate a pregiudicare il prestigio della magistratura nel suo complesso, così contravvenendo a basilari principi di civiltà democratica”. A stigmatizzare fortemente il comunicato dell’Anm è stato il presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri: “è vergognosa la persecuzione nei confronti del generale Mori, convocato dai magistrati il 23 maggio, data poi evitata, in contemporanea con gli eventi commemorativi della strage di Capaci. È incredibile che l’Anm si metta a difendere un’autentica ed ingiusta ostinazione, contro la memoria di Berlusconi e contro il generale Mori. A Mori va il plauso degli italiani in qualità di eroe della legalità”. Sempre a favore di Mori, proprio qualche giorno fa persino il Comando generale dei carabinieri aveva diramato una nota in cui si leggeva: “Nel pieno rispetto del lavoro dell’autorità giudiziaria, l’Arma esprime la sua vicinanza nei confronti di un ufficiale che, con il suo servizio, ha reso lustro all’istituzione in Italia e all’estero, confidando che anche in questa circostanza riuscirà a dimostrare la sua estraneità ai fatti contestati”. Per la cronaca la Cassazione ha già assolto l’ex generale dei Ros Mario Mori - insieme ad Antonio Subranni, Giuseppe De Donno e all’ex parlamentare Marcello Dell’Utri - nel processo per la presunta trattativa Stato-mafia. Una vicenda processuale durata vent’anni sulla quale, evidentemente, non si vuol mettere la parola fine. Mori è innocente: nove sentenze ai pm non possono bastare? di Astolfo Di Amato L’Unità, 25 maggio 2024 Nessuna novità: un ulteriore processo a carico del generale Mori. Il quale ha fatto osservare, in una delle sue prime dichiarazioni, che la nuova imputazione ha aggiunto un elemento di surrealtà: “Oggi vengo indagato per non aver impedito le stragi, quindi una virata di 360 gradi rispetto al precedente teorema. A Palermo, infatti, mi hanno processato per 11 anni con l’accusa di aver trattato con la mafia e siglato un accordo con Provenzano per far cessare le stragi”. Sta di fatto che Mario Mori, dopo essere stato sottoposto per oltre venti anni ad indagini e a tre processi, chiusi tutti con assoluzione piena, oggi è sottoposto ad un altro processo. Sempre per gli stessi fatti. Perché sta qui la totale inaccettabilità, anche sotto il profilo strettamente giuridico, di quanto oggi accade. Degli aspetti politici e politico-sociali della vicenda ha già scritto, su questo giornale, il Direttore. Ma vi è un aspetto di assoluta inammissibilità giuridica di quanto accade, che merita di essere sottolineato. Vi è una regola fondamentale di ogni ordinamento civile, che vieta di sottoporre la stessa persona ad un nuovo processo, quando per gli stessi fatti sia già stato giudicato. Essa è generalmente conosciuta con il brocardo latino “ne bis in idem”, il che fa comprendere che già l’antica Roma la conosceva e l’applicava. La ragione fondamentale sta nella intollerabilità della condotta di uno Stato, che vessi a vita una persona. Ciò tanto più che, considerata la disparità macroscopica sia di poteri di indagine e sia di mezzi economici, sarebbe una lotta alla quale nessun cittadino sarebbe, alla lunga, in condizione di resistere. Ma questa regola, nell’Italia di oggi, presenta un evidente difetto: se interpretata alla lettera rischia di limitare i poteri dei pubblici ministeri. Non sia mai! Ed ecco allora una serie di trucchi per aggirarla: si è vero i fatti sono gli stessi…ma oggi c’è un episodio in più che prima non era stato considerato, si è vero i fatti sono gli stessi, ma oggi ci occupiamo delle conseguenze di quei fatti, che prima non avevamo considerato, e così via. Attraverso questi meri artifici verbali sono sistematicamente violate, nei casi ai quali le procure hanno maggiore interesse, le disposizioni contenute sia nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (art. 4 del protocollo VII), su cui giudica la Corte di Strasburgo, e sia la Carta dei diritti fondamentali dei cittadini europei (art. 50), su cui giudica la Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Tutte e due convergono nell’indicare che non si può essere giudicati due volte per gli stessi fatti. La giurisprudenza delle Corti internazionali, formatasi sulle due disposizioni, è giunta alla conclusione che “l’identità dei fatti materiali deve essere intesa come un insieme di circostanze concrete derivanti da eventi che sono, in sostanza, gli stessi, in quanto coinvolgono lo stesso autore e sono inscindibilmente legati tra loro nel tempo e nello spazio”. Occorre, perciò, guardare alla sostanza e verificare se quella sostanza (cioè, il fatto) è già stato giudicato o no. Ebbene, nel caso del gen. Mori si sono già celebrati ben tre processi, che hanno tutti riguardato la sua condotta, quale comandante del I reparto dei ROS, nei primi anni Nouna vanta. Quel periodo è stato oggetto di uno scrutinio millimetrico in ben tre processi, svoltisi attraverso tre gradi. Perciò è stato oggetto di ben nove sentenze. Alla fine, in tutti e tre i procedimenti le tesi dell’accusa sono state sconfessate. Oggi un quarto procedimento. Rispetto al quale, prima ancora del diritto ad essere dichiarato innocente, vi un diritto preliminare: quello a non avere la propria vita rovinata dall’accanimento di funzione dello Stato, quella della pubblica accusa, che, non potendo accettare la sconfitta, riparte all’infinito con contestazioni sempre nuove, ma riferite agli stessi fatti. È una vessazione accettabile, forse, per gli ideologi delle verità assolute, ma che, proprio per questo, legittimano gli Stati totalitari. Ma in uno Stato, che rispetti il cittadino come persona, è una vessazione inaccettabile. Campania: “Troppi fascicoli arretrati e il carcere per i minori non è la soluzione” ansa.it, 25 maggio 2024 Al 31 dicembre 2023, i ragazzi, minori e giovani adulti in carico agli Uffici dei Servizi sociali per i Minorenni, erano 14.245; di questi, circa 6mila in Campania. Lo ha detto il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, a margine della presentazione del primo rapporto sulle condizioni di detenzione dei minori in Campania, presentato dall’associazione Antigone a Castel Capuano a Napoli. “Parliamo di 6mila persone che in un anno in Campania sono stati fermati, accompagnati dai genitori, messi alla prova, mandati nelle comunità, nelle carceri. Chi si è occupato di loro? Perché non si muove un team, un patto educativo tra varie istituzioni? Perché l’idea di fondo è sempre punire e reprimere un ragazzo che a 14 anni sbaglia? Una società che giudica un minorenne e dopo averlo giudicato, lo mette in carcere è una società malata che sta giudicando se stessa e la propria malattia”. Ciambriello affronta anche il tema dei fascicoli arretrati “In Italia vi sono 29 Tribunali per i Minorenni: a tutti manca il personale e il risultato è l’accumulo di fascicoli a ognuno dei quali corrisponde il destino di un adolescente. Le chiamano pendenze. Ma dietro di esse c’è una famiglia complessa, variegata e disgregata. A Milano sono 12.662 i fascicoli in pendenza, a Roma 8.368, a Napoli 5.531, a Bologna si raggiunge il numero esorbitante di 10.106 pendenze nonostante il numero dei giudici sia quello previsto da pianta organica. Cosa pensiamo che dicano questi numeri per la vita dei minorenni?” Ultima considerazione “In Italia abbiamo 17 carceri per minorenni, 10 sono nel Centro - Sud. Con i numeri in aumento, credo che prima o dopo è intenzione del Dipartimento, del Ministero di Giustizia, del Governo di aprire nuove carceri. Ma questa può essere la risposta a un disagio di una devianza che diventa a volte micro criminalità. Sono in arrivo nuove carceri per minorenni”. Siracusa. Tra il 30 e il 40% dei detenuti richiede cure e terapie psichiatriche di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 maggio 2024 L’allarme è stato lanciato dal Garante, Giovanni Villari, dopo il suicidio a inizio maggio. Il suicidio di un detenuto avvenuto agli inizi di maggio presso la casa circondariale di Cavadonna (Siracusa) ha portato alla luce gravi carenze nel sistema carcerario locale, sollevando questioni urgenti riguardo alla salute mentale e alle condizioni di vita dei detenuti. Giovanni Villari, garante dei diritti dei detenuti del comune di Siracusa, ha effettuato un sopralluogo nella struttura, rivelando dettagli allarmanti sulla gestione e sulle condizioni dei detenuti. Il detenuto suicida, in terapia psichiatrica, avrebbe dovuto essere trasferito in una comunità di recupero già a giugno 2023, secondo quanto rilevato dal Garante. Una richiesta purtroppo caduta nel vuoto, con conseguenze drammatiche. Ma non finisce qui. Quello stesso pomeriggio, circa un’ora prima del suicidio, un altro detenuto aveva tentato di togliersi la vita nella stessa sezione. Anche lui in terapia psichiatrica e in sciopero della fame per protesta, è riuscito a salvarsi. Queste due tragiche vicende gettano luce su una realtà sconvolgente: secondo fonti mediche, tra il 30 e il 40% dei detenuti di Cavadonna richiede cure e terapie psichiatriche. Almeno 12 casi sarebbero di gravità “significativa”. Eppure, il Garante denuncia una “grave carenza di personale sanitario”, con 29 turni scoperti solo a maggio, per un totale di 180 ore non coperte. “È imprescindibile un intervento immediato per potenziare il personale sanitario”, avverte. Ma le criticità non finiscono qui. Nell’ala dove è avvenuto il suicidio sono in corso lavori di ristrutturazione, con casi di scabbia dovuti all’infestazione di parassiti, un problema persistente nonostante gli interventi passati. Il Garante ha suggerito ulteriori azioni per ridurre la proliferazione di questi pericolosi parassiti. Senza dimenticare le annose problematiche di sovraffollamento e carenza di personale di polizia penitenziaria, che affliggono cronicamente l’istituto siracusano come tanti altri in Italia. Un’ulteriore beffa riguarda l’installazione dei distributori gratuiti di acqua potabile sanificata e dei dispenser per tutte le sezioni, avvenuta settimane fa ma ancora non attivata per “ritardi nella consegna di attrezzature”. Secondo la direzione, l’attivazione avverrà entro una settimana, ma il Garante sottolinea la necessità di posizionare i dispenser vicino agli ingressi delle sezioni per consentire un accesso libero ma sorvegliato. Questo report del Garante Villari è un grido di allarme sulle condizioni disumane in cui versano i detenuti di Cavadonna, con particolare riguardo alle importanti necessità di cura psichiatrica della popolazione carceraria. Una situazione esplosiva che richiede interventi immediati ed efficaci per garantire i diritti umani fondamentali anche dietro le sbarre. Il carcere dovrebbe essere un luogo di reinserimento e riabilitazione, non di ulteriore sofferenza e morte. Quanto accaduto dimostra ancora una volta come le carceri italiane siano un sistema malato, che richiede riforme radicali. Senza risposte concrete e un’inversione di rotta decisa, si rischiano altre tragedie e ulteriori violazioni dei diritti umani fondamentali. È l’ultimo appello del Garante Villari, che si unisce al coro di voci sempre più assordanti che chiedono un cambio di passo per porre fine a questa mattanza silenziosa. Parma. Nuova denuncia della Camera penale: “Nelle carceri disagio, sofferenza e degrado” La Repubblica, 25 maggio 2024 Dallo stato dell’immobile, alle condizioni dei reclusi in media sicurezza e di quelli malati “continueremo a denunciare la malagestione”. “Gli osservatori hanno toccato con mano, anche grazie ai colloqui con i detenuti e con gli agenti della polizia penitenziaria, il disagio, la sofferenza e il degrado in cui versa il carcere di Parma, nonostante l’impegno profuso da quanti lì operano (polizia penitenziaria, personale amministrativo, personale medico, volontari etc. etc.)”. È quanto rilevano l’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali Italiane e la Camera penale di Parma che hanno avuto la possibilità di effettuare una visita all’interno dell’Istituto penale in via Burla pochi giorni prima dell’ennesimo suicidio nel carcere cittadino. “Non può tacersi la vetustà e la conseguente inadeguatezza dell’immobile a garantire condizioni di permanenza dignitose non solo ai detenuti ma anche a quanti lavorano all’interno della struttura”, sottolineano gli avvocati Gianpaolo Catanzariti, Maria Brucale, Massimiliano Chiuchiolo, Monica Moschioni membri dell’Osservatorio nazionale carcere dell’Ucpi, l’avvocato Manuela Mulas consigliera della Camera Penale di Parma e l’avvocato Francesco Loise, membro della Commissione Carcere della Camera Penale di Parma che hanno avuto accesso a sezioni detentive di media e alta sicurezza, oltre che al padiglione che ospita i detenuti in semilibertà e quelli ammessi a lavoro interno ed esterno alla struttura. “Le maggiori criticità riguardano le sezioni di media sicurezza, dove sono detenuti circa 400 persone, per la maggior parte in condizioni di assoluta indigenza e spesso con problemi di tossicodipendenza e/o di disturbi psichiatrici. I ‘poveri’ in carcere non hanno la possibilità di avere sufficiente materiale sia per la propria igiene personale, che per la pulizia dei locali in cui devono vivere, tanto meno hanno la possibilità di acquistare beni di prima necessità. Non è un caso se gli ultimi tre casi di suicidio avvenuti nell’Istituto di Parma hanno riguardato detenuti di queste sezioni”. “La situazione - proseguono gli avvocati - purtroppo non è migliore per i detenuti affetti da malattie gravi, nonostante la vocazione dell’Istituto penale di Parma a centro clinico di massima eccellenza, con specializzazione cardiologica. Il Sai (Servizio di assistenza integrata - ex centro clinico) è in grado di ospitare 12 detenuti malati e sei detenuti lavoranti addetti alla funzione di caregiver e al servizio pulizia delle celle detentive. Il problema maggiore è rappresentato dai tempi di permanenza che dovrebbero essere brevi e invece si prolungano oltre l’anno. Pertanto sono state create due sezioni nelle quali sono attualmente ospitati circa una quarantina di detenuti affetti da patologie gravi e in attesa di collocamento presso il Sai. Questi ultimi, pur beneficiando di una situazione di favore rispetto ad altre sezioni detentive, non possono usufruire dell’assistenza medica intensificata di cui necessitano”. All’interno dell’istituto penitenziario di Parma ci sono anche “due ambiti lavorativi di eccellenza che, tuttavia, occupano meno di 20 lavoranti a fronte di una popolazione carceraria che sfiora le 700 unità: si tratta del laboratorio di recupero di attrezzature informatiche e della lavanderia industriale che, purtroppo, a causa di un guasto è inattiva da circa un mese”. “Mai come oggi sentiamo la drammaticità di quanto scritto nella nota dell’Ucpi del 30 aprile 2024: il tempo dell’agire è davvero scaduto. Non per questo intendiamo abbassare la guardia rispetto all’emergenza in atto e continueremo a denunciare la malagestio, offrendo la massima collaborazione affinché l’art. 27 della Costituzione trovi piena attuazione”, conclude il direttivo della Camera Penale di Parma. Forlì. Ilaria Cucchi visita il carcere: “Emergenza sovraffollamento” di Paola Mauti Il Resto del Carlino, 25 maggio 2024 La senatrice ha incontrato poi i militanti di Alleanza Verdi e Sinistra. La senatrice Ilaria Cucchi ha incontrato candidati ed elettori di Alleanza Verdi e Sinistra presso il mercato coperto di piazza Cavour. Ma prima si è recata in carcere (tutti i parlamentari possono visitare i penitenziari; in più, lei è vicepresidente della commissione giustizia in Senato): una tappa obbligata per una persona con la sua storia, cioè un fratello morto mentre era in custodia cautelare. Ancor prima di arrivare in parlamento, la Cucchi ha fatto della difesa dei diritti dei detenuti la sua battaglia principale. A Forlì, in particolare, ha constatato “il problema della carenza di personale, del sovraffollamento, della scarsa manutenzione”. Nel dettaglio, “il personale mi ha riferito che, su una dotazione di organico che dovrebbe essere di 99 unità, la media è di 45, quindi quasi la metà. Un problema tipico delle carceri italiane è la frequenza di numerosi occupanti affetti da gravi patologie psichiatriche, per le quali le strutture non sono adeguate, e la numerosità di persone che hanno compiuto piccoli reati, che potrebbero scontare pene alternative e che rischiano di uscire in condizioni emotive e personali peggiori di quando sono entrate”. Una stoccata al governo: “È possibile che la priorità di questo Governo fossero i rave party? È evidente che la destra sia alla continua ricerca di un nemico”. Accanto alla Cucchi c’era l’ex magistrato forlivese Carlo Sorgi, secondo il quale “stiamo assistendo a un attacco contestuale ai principi della Costituzione, con una volontà non espressa ma esplicita nei fatti di stravolgerla”. Si è riferito, poi, al caso di Ilaria Salis, candidata alle elezioni europee nel Nord Est nella lista Alleanza Verdi e Sinistra: “Rischiamo di fare la fine dell’Ungheria, smontando un pezzo di regole democratiche alla volta”. Ad accogliere la senatrice c’era anche Maria Giorgini, segretaria confederale della Cgil di Forlì-Cesena, che le ha consegnato un documento in cui chiede un “Tavolo su Salute e Sicurezza per operatori e operatrici che svolgono attività lavorativa presso la Casa Circondariale”. Il candidato consigliere Alessandro Ronchi ha ricordato che “la realizzazione del nuovo carcere è una priorità: significherebbe migliori condizioni di vita per il personale e i detenuti, e cittadella della Rocca libera”. Bologna. Giustizia riparativa, giovane a giudizio. Il Gip: mancano le strutture di Federica Orlandi Il Resto del Carlino, 25 maggio 2024 La proposta per un caso di violenza sessuale: l’imputato aveva chiesto di accedere al percorso di mediazione. Ma niente da fare, dice il giudice: “In città non è stata indetta la Conferenza per incaricare gli enti locali”. Siamo ancora fermi a tre mesi fa, anzi, ormai a quasi un anno fa: nulla è cambiato sul fronte della giustizia riparativa a Bologna, dove enti e strutture mirati a fornire questo strumento, introdotto dalla riforma Cartabia nel 2022 e in vigore da luglio 2023, non ci sono. Così ieri il giudice dell’udienza preliminare Alberto Ziroldi è stato di fatto costretto a rigettare la richiesta presentata appunto tre mesi fa, di concerto tra le parti, dalla difesa di un ventiquattrenne accusato di violenza sessuale nei confronti di una ragazza all’epoca appena diciottenne, affetta da deficit cognitivo. E ne ha disposto il rinvio a giudizio. La giustizia riparativa dovrebbe consentire alle parti di intraprendere un percorso di mediazione, fuori dal tribunale e guidate da figure professionali esperte, con l’obiettivo di ‘ripararè il danno subito dalla vittima. Il mediatore, alla fine dell’iter, deve redigere una relazione che, se positiva, permette all’imputato di accedere a uno sconto di pena. Ma a Bologna, per ora, ciò non pare possibile. Infatti, riconosce il gup Ziroldi, “non risulta essere stata indetta la Conferenza locale per il distretto della Corte d’appello di Bologna”, Conferenza incaricata di individuare gli enti locali a cui affidare il compito di istituire i Centri per la giustizia riparativa e organizzarne i servizi, anche incaricando i mediatori tramite appalti o convenzioni; né “sono ancora formalmente riconosciuti i mediatori e i livelli essenziali di prestazioni” richiesti. Ecco allora che “l’istanza presentata non può trovare accoglimento, per impossibilità di effettuare il percorso secondo la legge”. Il processo, a marzo, fu rinviato di diversi mesi proprio nella speranza che nel frattempo qualcosa cambiasse: così non è stato. La violenza contestata risale al 2021: l’imputato invitò a casa sua la vittima, conosciuta sui social, con la scusa vedere un film, poi però la palpeggiò ed ebbe un rapporto sessuale con lei, immobile e pietrificata dallo choc. La ragazzina, difesa dall’avvocato Mattia Finarelli, dopo giorni di lacrime trovò la forza di denunciare. L’imputato, con l’avvocato Stefania Mannino, ha ammesso il rapporto sessuale e di avere trattato ‘freddamente’ la giovane, ma ha detto di avere pensato che lei fosse consenziente. Risponde di violenza sessuale aggravata dalle condizioni di inferiorità psichica della vittima e dalla sua condizione di momentanea limitazione della libertà personale. Pesaro. Lavoro e formazione in carcere, in arrivo il laboratorio di “Artigiani dentro” csvmarche.it, 25 maggio 2024 Lo spazio è in allestimento nell’istituto di Pesaro grazie all’impegno dell’associazione Bracciaperte, che negli scorsi mesi ha coinvolto dodici detenuti in un corso di formazione tecnica. Vi saranno riparati elettrodomestici e biciclette recuperate e poi donate alla comunità. Dal 2013, Bracciaperte ha gestito la formazione professionale di millecinquecento detenuti e curato tante altre attività socio lavorative. Mario di Palma, presidente dell’associazione: “Ma il volontariato in carcere resta un tema ancora troppo sottovalutato”. Un luogo di formazione e reinserimento nella società attraverso il lavoro per i detenuti, un centro dove riparare elettrodomestici e biciclette per poi donarli alle comunità. Nasce con questa visione il laboratorio polifunzionale all’interno del carcere di Pesaro che presto aprirà le proprie attività. A renderlo possibile, l’associazione pesarese Bracciaperte, da 13 anni attiva negli istituti penitenziari regionali e nazionali, in variegate azioni a scopo socio lavorativo. I volontari stanno completando rifiniture e arredamento. Il nuovo spazio è la tappa di approdo del progetto più ampio “Artigiani dentro”, nato negli scorsi quattro mesi, periodo in cui l’associazione Bracciaperte si è impegnata a gestire la formazione di dodici detenuti attraverso un corso per tecnici di elettrodomestici realizzato col contributo di Cassa Ammende e il coordinato dall’ente formativo di Senigallia 9000uno. “Dopo la formazione, la Direzione del Carcere con il contributo dell’Ats1 ci ha dato il via all’ideazione del laboratorio polifunzionale”, spiega Mario Di Palma, presidente di Bracciaperte e responsabile, insieme a Katja Parcesepe, della docenza e della didattica del corso. Il laboratorio sarà un centro assistenza dove riparare prodotti donati e metterli a disposizione delle famiglie in difficoltà. Continua Di Palma: “Sono molteplici i benefici generati sul territorio da un progetto così importante, tra la formazione di detenuti, la riscoperta di vecchi mestieri, il recupero di frigoriferi, lavatrici, bici e altre apparecchiature, a favore della comunità”. Tutto ciò sarà garantito dalla presenza dei volontari di Bracciaperte e di altre associazioni coinvolte. “Il lavoro è alla base della dignità umana ed è il modo migliore per evitare la recidiva. Troppo spesso la pena è espiata senza che siano avviati percorsi per il reinserimento nella società”, continua Di Palma. Bracciaperte negli anni ha coinvolto circa millecinquecento detenuti nei propri laboratori, gestiti da volontari e da artigiani. Nel 2013 l’associazione ha vinto il riconoscimento “Coesione volontariato e impresa” della Regione Marche e nel 2021 le attività svolte durante il Covid le sono valse la premiazione a Roma alla Giornata internazionale del volontariato. Lo scorso anno insieme alla Fondazione Wanda Diferdinando e all’associazione Toc, Bracciaperte ha reso possibile “Stanza libera tutti”, una serie di azioni e incontri con i clown per migliorare gli spazi rivolti ai minori che fanno visita ai propri cari in carcere. Inoltre, Bracciaperte ha realizzato nell’istituto penitenziario di Pesaro e con l’associazione Isaia due corsi tecnici, di riparazione elettrodomestici e di meccanico bici e un laboratorio artistico per le scenografie di uno spettacolo dell’Aias di Pesaro. “Crediamo che la rete sia fondamentale affinché il Terzo settore possa raggiungere capillarmente quante più persone in difficoltà possibile. Per questo da anni incontriamo i ragazzi nelle scuole di vario ordine e grado per sensibilizzare il tema del volontariato e sono in tanti ad aderire ai nostri progetti - riflette Mario di Palma, che conclude con rammarico. Tuttavia occorre evidenziare come il tema del volontariato in carcere troppo spesso sia coperto da un velo di pregiudizi. Le attività formative e benefiche sono quasi sempre affidate al volontariato che opera quasi sempre autofinanziandosi e con risicate risorse. Da anni cerchiamo una sede dove realizzare un laboratorio che possa coinvolgere anche i giovani in abbandono scolastico. Ma ormai ci abbiamo rinunciato, rassegnandoci al fatto che continueremo i laboratori solo in carcere”. Paola (Cs). Un ufficio favorirà il reinserimento sociale dei detenuti di Francesco Frangella cosenzachannel.it, 25 maggio 2024 Il nuovo sportello è stato inaugurato all’interno del tribunale, sarà gestito dal Dipartimento della giustizia minorile e di comunità. All’interno del tribunale di Paola è stato inaugurato l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna, grazie a uno spazio messo a disposizione dall’Ordine degli Avvocati presieduto da Gianfranco Parenti. Questo nuovo sportello, sotto la gestione del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità, avrà il compito di garantire un “trattamento socio-educativo” alle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, favorendo il loro reinserimento sociale. “La messa alla prova e le sanzioni sostitutive sono strumenti preziosi. Queste iniziative riducono la pressione sul sistema carcerario e detentivo - ha commentato Filippo Giuseppe Leonardo, presidente del palazzo di giustizia paolano - e sono essenziali per raggiungere gli obiettivi costituzionali della pena: rieducazione, ripristino della legalità e reintegrazione sociale. La risocializzazione è efficace quando avviene subito dopo il reato, permettendo un trattamento personalizzato che può facilitare anche il reinserimento lavorativo”. Il giudice Leonardo, recentemente subentrato a Salvatore Carpino, presente anch’egli all’inaugurazione, ha concluso: “Questi strumenti rappresentano un progresso civile perché permettono allo Stato di contrastare il crimine con proporzionalità, assicurando un’esecuzione della pena equa”. Il reinserimento sociale posto come obiettivo primario, rispettando tutte le parti coinvolte, in particolare le vittime, per garantire che l’esecuzione esterna della condanna non sia percepita come una riduzione della pena. Antonio Antonuccio, Direttore dell’Esecuzione Penale Esterna per la provincia di Cosenza, ha sottolineato: “Le misure alternative alla detenzione hanno dimostrato la loro efficacia con bassi tassi di recidiva, indicando che questa è la strada da seguire. Un approccio meno repressivo favorisce la comprensione e la correzione degli errori”. Anche Emilio Molinari, direttore interdistrettuale per la Calabria dell’Esecuzione Penale Esterna, e il suo vice Rocco Scicchitano, concordano: l’apertura dello sportello, insieme a quello di Castrovillari, rappresenta una conquista di civiltà. Molinari ha spiegato: “Il nostro Dipartimento di Giustizia Minori e di Comunità sottolinea l’importanza della comunità nel processo, essenziale per evitare una società focalizzata solo sul carcere”. Scicchitano ha aggiunto: “Le misure alternative e le pene sostitutive dimostrano che la pena può essere effettiva anche fuori dal carcere. Spesso, per pene brevi, il carcere può aggravare la desocializzazione. La messa alla prova e le pene sostitutive possono ridurre il fenomeno dei “liberi sospesi”, persone che vivono una sospensione sociale durante le lunghe procedure legali. Anticipare l’esecuzione della pena può rendere più efficaci i dispositivi giudiziari. La collaborazione è fondamentale, rendendo questo momento cruciale”. Palmi (Rc). Al via un percorso di sostegno alla genitorialità per i detenuti inquietonotizie.it, 25 maggio 2024 La Camera Minorile “Malala” di Palmi ha avviato un percorso di sostegno alla genitorialità rivolto ai detenuti del Carcere di Palmi, progetto ideato in occasione dell’evento dello scorso dicembre “Giustizia e Passione, dentro ma anche fuori dall’aula”. “I detenuti che sono anche genitori affrontano sfide ancora più difficili - spiegano gli organizzatori - poiché devono conciliare la loro situazione carceraria con il ruolo di genitori. Abbiamo ritenuto doveroso contribuire, attraverso un corso di formazione, ad offrire loro strumenti e risorse per mantenere un legame significativo con i propri figli, nonostante la separazione fisica imposta dalla detenzione”. Un’iniziativa che nasce dalla convinzione che sostenerne la genitorialità possa contribuire a ridurre il rischio di recidiva dei genitori detenuti, offrendo loro un motivo in più per impegnarsi nel percorso di riabilitazione e reinserimento sociale. “In un contesto in cui la punizione spesso prevale sulla riabilitazione, è importante promuovere progetti che valorizzino la dignità e i diritti dei detenuti come genitori - spiegano ancora i membri dell’associazione minorile - riconoscendo la loro capacità di crescere e educare i propri figli nonostante le difficoltà incontrate. Sostenere la genitorialità dei detenuti significa promuovere una cultura della solidarietà, dell’inclusione e della responsabilità condivisa”. Il primo incontro, sul tema della Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti, ha avuto un ottimo riscontro da parte la popolazione detenuta, che ha ascoltato con grande attenzione le relazioni degli avvocati Carmelita Alvaro e Francesca Morabito e di Stefano Ierace, responsabile dei servizi sociali del Comune di Palmi. La progettualità è stata possibile anche grazie alla sinergia che si è creata con l’Amministrazione penitenziaria, grazie alla dirigente della casa circondariale di Palmi Marianna Stendardo, il responsabile dell’area sicurezza Domenico Paino e al responsabile dell’area trattamentale Domenico Ciccone. Pisa. L’attività dell’associazione Controluce nel Polo Universitario del carcere di Giovanna Baldini* Ristretti Orizzonti, 25 maggio 2024 Mercoledì 22 maggio u.s. a Pisa presso il Dipartimento di Scienze Politiche si è tenuto un convegno sul tema del valore e dell’importanza dello studio in carcere dal titolo “Una lunga storia dalla parte dei “Senza”. Il Polo Universitario Pisano”. Dopo i saluti delle autorità presenti, tra cui il Delegato ai Rapporti con il territorio Unipi Marco Macchia e l’assessora regionale alle Politiche Sociali Serena Spinelli, sono intervenuti i rappresentanti dei Poli Universitari della Toscana coordinati dal professor Gerardo Pastore dell’Università di Pisa: Maria Paola Monaco, PUP di Firenze; Gianluca Navone, PUP di Siena; Antonella Benucci, PUP di Siena stranieri; Andrea Borghini, PUP di Pisa. La seconda parte del convegno: “Narrazioni, Protagonisti, Orizzonti” ha visto la testimonianza di due studenti ristretti del Polo Universitario Pisano. Apprezzata la proposta emersa dai lavori di tornare a incontrarsi annualmente per monitorare in maniera sistematica gli sviluppi dell’importante rapporto carcere- università. Particolarmente significativa la testimonianza dell’Associazione di volontariato carcerario pisana Controluce, la cui rappresentante ha tracciato un bilancio di luce e ombre dell’esperienza svoltasi presso la Casa Circondariale Don Bosco di Pisa. Ne diamo conto nelle pagine che seguono: “Mi chiamo Giovanna Baldini, sono una volontaria di Controluce, associazione pisana che da oltre 30 anni si occupa di vicinanza e contiguità con i carcerati dentro e fuori dal luogo di pena. Professoressa liceale di lettere in pensione, mi sono adoperata da molti anni per avvicinare i detenuti alla lettura e alla scrittura, individuata l’una e l’altra come fondamentali esercizi per la mente, come opportunità per mantenere legami con la realtà esterna e, perché no, come educazione al bello della parola scritta in prosa e in poesia. In virtù di questa attività è stato abbastanza semplice avvicinare ed essere avvicinata da alcune persone ristrette che avevano iniziato un percorso universitario nelle mie materie e in alcune altre affini. Il Polo Universitario del carcere Don Bosco di Pisa è stato un luogo ad alto tasso educativo, in cui, con il supporto di insegnanti volontari dell’associazione Controluce, attraverso la conoscenza, si cerca di abbattere le barriere imposte alle persone deprivate della libertà. Individui che accettano la sfida dello studio e della riflessione su se stessi e su quello che è stato il loro punto di rottura con la società. Di questa tensione e di tale scoperta sono stata testimone, perché ho visto nel quotidiano, giorno dopo giorno, la forza emancipatrice dell’impegno intellettuale, dei libri e dello studio. Se attualmente il Polo Universitario pisano risulta poco frequentato, pure in un recente passato questa esperienza ha garantito risultati interessanti, sia per i numeri delle persone coinvolte, che toccano ormai le due cifre, sia per la qualità dei risultati formativi. Un discorso a parte meriterebbe l’intreccio tra condizione universitaria e semilibertà, fonte di non pochi disagi e fatiche per questo particolare tipo di studenti. Altre ancora sarebbero, secondo me, le questioni che emergono da tali vicende e ben vengano giornate come quella di oggi che ci hanno permesso di parlarne e di mettere a confronto esperienze diverse. Il problema più importante risulta essere che, al momento attuale, il Polo Universitario pisano sta conoscendo una tanto preoccupante quanto malinconica contrazione di presenze e merita di interrogarsi sul perché. Certamente la pandemia recente ha giocato un ruolo notevole nell’allontanare gli interessati dallo studio e a ciò si deve aggiungere una lunga vacanza della funzione apicale nella Casa Circondariale Don Bosco e una più generale stanchezza dell’intera struttura verso pratiche tanto impegnative e delicate. Si rifletta, inoltre, sul fatto che più di un terzo dei detenuti è ormai di origine straniera. Quindi, nel ribadire la bontà dell’esistenza del Polo Universitario, dalla mia condizione di volontaria nel carcere di Pisa, mi sentirei di proporre a tutte le componenti che operano all’interno del Don Bosco, una rinnovata attenzione verso le esigenze di quanti (operatori carcerari, volontari, amministrativi, detenuti) vedono nell’impegno intellettuale una via di riscatto valida per questi giorni, dentro, e per quelli che verranno, fuori. Mi sentirei di articolare tre proposte. L’area educativa del carcere, per esempio, potrebbe, in maniera organizzata, monitorare quanti siano in possesso delle condizioni minime per accedere all’università, fornendo con l’ausilio dei volontari, un’informazione orientata qualificata. Il compito degli stessi volontari sarebbe, poi, quello di seguire il detenuto nel suo percorso di studio: dal favorire il consolidamento delle conoscenze di base, al reperimento dei testi, alle fotocopie e a tutto quello che serve. Insomma, un atteggiamento di tutoraggio di buon livello. Inoltre, compito della dirigenza carceraria diventerebbe quello di migliorare, progressivamente e sistematicamente, le condizioni previste nel protocollo stabilito tra Università e Istituzione penitenziaria. Io credo che, secondo i modi pensati dai Padri Costituenti, noi tutti dobbiamo tendere a utilizzare più e meglio il tempo costretto della pena per riaffermare in ogni occasione il valore della libertà intellettuale: che è anche libertà interiore, libertà di giudizio, di critica, di relazione.” *Associazione Controluce Napoli. Convegno su “condizione carceraria e desertificazione affettiva” di Paolo Picone Corriere del Mezzogiorno, 25 maggio 2024 Il convegno organizzato a Napoli, martedì 28 maggio al Maschio Angioino, dal “Movimento Forense”. “La Costituzione, la condizione carceraria e la desertificazione affettiva - dialoghi per la consapevolezza”. È il tema dell’iniziativa promossa dal Dipartimento Carceri del Movimento Forense, presieduto dall’avvocato Elisa Demma e coordinato dall’avvocato Alessandro Gargiulo, che si terrà martedì prossimo, 28 maggio, al Maschio Angioino, con inizio alle 10 del mattino. Un’iniziativa, questa, che prende spunto da una sentenza della Corte Costituzionale (n. 10/2024), “che ha introdotto, imposto e regolato tra le mura delle carceri italiane il tema dell’affettività e dell’intimità”, si legge in una nota del Movimento Forense. “La Corte - si legge sempre nella nota - nel mutare radicalmente il suo precedente orientamento sul tema, senza tralasciare analoghe regolamentazioni in molteplici paesi comunitari, ha affermato che i sentimenti, l’intimità, l’amore devono essere necessariamente coltivati, e ciò anche quando dentro c’è il detenuto e fuori, liberi, ci sono i suoi grandi affetti, il partner, i figli”. Dopo i saluti del sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, e del consigliere comunale, Gennaro Demetrio Paipais, sono previsti gli interventi dei presidenti dei Consigli dell’Ordine degli avvocati di Napoli e di Napoli Nord, gli avvocati Carmine Foreste e Gianluca Lauro; del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, il professor Maurizio Felice D’Ettore e della presidente nazionale del Movimento Forense, Elisa Demma. Introdurrà i lavori il costituzionalista Sandro Staiano, direttore del Dipartimento di Giurisprudenza della Federico II di Napoli, “raccontando la decisione della Corte Costituzionale”. Si alterneranno poi nelle relazioni, la componente il Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, l’avvocato Irma conti; il garante regionale dei detenuti e portavoce della Conferenza nazionale dei garanti territoriali, Samuele Ciambriello. Ed ancora: don Tonino Palmese, garante comunale dei detenuti; l’avvocato Giovanna Perna per l’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere penali Italiane; Sergio D’Elia, segretario di “Nessuno tocchi Caino”; la dottoressa Simona Di Monte, della Procura della Repubblica di Napoli. Tra gli interventi previsti quelli delle Ordinarie di Diritto processuale penale e Composizione architettonica e urbana della Federico II, Clelia Iasevoli e Marella Santangelo. Palermo. In scena i detenuti-attori della Casa circondariale Pagliarelli ilmediterraneo24.it, 25 maggio 2024 Lo spettacolo a Palermo, il 27 maggio, nel teatro del carcere. Protagonista la Compagnia Evasioni. Tra ragione e sogno, la poesia per poter attraversare la vita senza restarne travolti. I detenuti-attori della Casa circondariale Pagliarelli “Antonio Lorusso”, tornano in scena con un’altra rappresentazione della Compagnia Evasioni. Lunedì 27 maggio in anteprima per educatori, polizia penitenziaria, docenti e soprattutto per i detenuti del carcere palermitano, il sipario si aprirà su (Dis)Incanto, scritto e diretto da Daniela Mangiacavallo che firma regia e drammaturgia. Di Roberta Barraja, i costumi; assistente ai costumi Francesca Mandalà. Collaborazione drammaturgica e artistica di Marzia Coniglio, Fabiola Arculeo, Oriana Billeci; assistenti di scena Alba Sofia Vella, Antonella Sampino. Foto di scena, Danilo Tarantino. Sul palcoscenico, Antonino Alvarez, Gianpaolo Benfante, Antonio Cardella, Maurizio Celesia, Antonio Cirivilleri, Giacomo Cusimano, Ivan D’Amato, Umberto D’Arpa, Giuseppe Di Francesco, Carmelo Di Marzo, Francesco Duecento, Giovanni Giardina, Giancarlo Grisafi, Giusto Gueccia, Francesco Paolo La Rocca, Ferdinando Lipari, Domenico Lo Nigro, Fabrizio Marchese, Marco Marsala, Daniele Messina, Michele Mulè, Michele Musso, Fabio Mustacciolo, Maurizio Randazzo; con la partecipazione delle attrici e collaboratrici della compagnia, Fabiola Arculeo, Oriana Billeci, Marzia Coniglio. Lo spettacolo - “(Dis)Incanto - dice la regista Daniela Mangiacavallo che anche quest’anno è tornata a lavorare con i detenuti del Pagliarelli - riflette sulla capacità dell’uomo, oggi, di poter ancora provare “incanto”. Uno sguardo puro, un animo di bambino e la capacità di abbandonarsi alla fantasia e al sogno: sono queste le porte per accedere al bello e alla realtà più profonda e nascosta delle cose. Chi vuole vedere e conservare in sé l’incanto, come quello di Oberon che con il suo flauto fa ballare i bambini; o come lo splendore di una bambina nel cielo, seduta sul bordo delle nuvole a tessere una tela di filo d’argento, dovrà farlo prima che l’età adulta gli veli gli occhi. Perché a fare castelli in aria non sono i pazzi, ma gli eletti capaci di vederli davvero, quei castelli fatti d’aria e popolati di magiche creature. In un mondo che cambia e spaventa, pronto a inghiottirci, le favole sono una possibilità, una sorta di salvacondotto per attraversare la vita. È in quella fessura sottile tra la ragione e il sogno che la poesia sa guardare, anche quando si hanno gli occhi ormai ciechi”. Il progetto - Curato dall’Associazione di promozione sociale “Baccanica”, lo spettacolo rientra nel progetto della Fondazione Acri (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio), intitolato “Per Aspera ad Astra” e finalizzato a portare il teatro in carcere, per contribuire al recupero dell’identità personale e alla risocializzazione dei detenuti. Giunto quest’anno alla sua sesta edizione, oggi il progetto vede in rete ben quattordici istituti di pena italiani; capofila con la Compagnia della Fortezza, il carcere di Volterra, dove nel 1994 grazie al regista Armando Puzzo è iniziata questa avventura. Un ringraziamento particolare per l’attenzione e la disponibilità messe in campo per il buon fine dell’iniziativa, va alla direttrice della Casa circondariale Pagliarelli “Antonio Lorusso”, Maria Luisa Malato; al comandante della polizia penitenziaria, Giuseppe Rizzo, e agli agenti; ai componenti dell’area educativa. Monza. Fughe innocenti. In mostra le lenzuola ri-dipinte dai detenuti di Cristina Bertolini Il Giorno, 25 maggio 2024 Da un’idea dell’artista albanese Elend Zyman condivisa con 11 ospiti del carcere “I ragazzi le hanno trasformate, anche una vita rovinata può essere recuperata”. “Evasione” emotiva e simbolica attraverso l’arte. È iconico il titolo della galleria d’arte creata dall’artista albanese, monzese d’adozione, Elend Zyman che insieme a un gruppo di 11 detenuti della casa circondariale di via Sanquirico ha dato vita a una galleria d’arte o una “Galera Gallery” come la chiama lui, utilizzando le lenzuola usate. L’inaugurazione si è tenuta ieri, alla presenza delle autorità e di tanti amici e curiosi. L’idea era quella di creare una mostra all’aperto, ma le condizioni meteo hanno costretto l’artista a ripiegare all’interno, creando una vera e propria galleria espositiva di sicuro effetto cromatico e simbolico nel corridoio d’ingresso del carcere di Monza. L’esposizione è stata un’occasione di festa, proprio in occasione dei 30 anni dell’Associazione Carcere aperto. “Abbiamo chiesto alla lavanderia le lenzuola usate, anche quelle più brutte e strappate - spiega l’artista - che poi i ragazzi hanno dipinto e trasformato in grandi installazioni artistiche. Perché anche una vita rovinata, strappata, considerata da buttare, può essere recuperata. “Evasione” è possibilità di essere altro, di definirsi come esseri umani unici e ancora liberi di evolvere”. Tutto è nato da una chiacchierata davanti a un caffè tra Elend e il cappellano del carcere. Insieme hanno immaginato un percorso artistico per alcuni detenuti. La direttrice del carcere, Cosima Buccoliero è stata contenta di agevolare l’iniziativa. Il percorso è iniziato con una sorta di avvicinamento: all’inizio i detenuti erano restii a svelarsi nella manifestazione artistica. Poi hanno cominciato a disegnare, prima su carta e poi sui lenzuoli. Qualcuno ha lasciato l’impronta della sua mano, qualcun altro quella di un pesante scarpone; qualcun altro si è sdraiato sul lenzuolo evocando il più celebre sudario della storia. Lenzuola usate che portano con sé un percorso umano e drammatico unico, dove i detenuti hanno dormito, sognato, pianto sono diventate opere d’arte dai mille colori e messaggi. Ne sono usciti “Fiori neri”, “I dadi della vita” che va come va, sfuggendo di mano e poi “L’urlo”, “Il calpestato”, ricordi di case dell’infanzia, ma anche ricordi di deserti immensi. Infatti gli 11 artisti sono per metà italiani e per metà stranieri, con viaggi pericolosi alle spalle. Ne sono sortiti 25 lavori dall’effetto emotivo insospettato che trasformano il corridoio freddo in una casa, interpretando il senso di comunità che si crea tra chi lavora nel carcere, sempre in bilico tra umanità e rigore. I lavori preparatori sono diventati un “libro d’artista” chiuso da un paio di manette che Zyman ha presentato ieri. Elend Zyman nasce a Elbasan (Albania) nel 1978, frequenta lo studio di un pittore albanese e si diploma al liceo artistico della sua città nel 1996. Arrivato in Italia dopo un periglioso viaggio per mare, si diploma alla Nuova Accademia di belle arti di Milano. Per le sue opere utilizza supporti e materiali diversi, tra cui le lenzuola. Espone in numerose collettive e personali, in Italia e Francia. Politica-toghe, la storia in quei dieci processi di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 25 maggio 2024 “Una storia d’insieme”, scrivono i due storici Marcello Flores e Mimmo Franzinelli introducendo il loro libro “Conflitto tra poteri” (Il Saggiatore) su politica e magistratura nell’Italia repubblicana, che raccontano come questione non solo istituzionale. Continuità e rotture, separatezza e commistioni, dilemmi costituzionali e romanzo popolare. La ricostruzione si alterna a flashback su una decina di “processi del secolo” che hanno segnato l’immaginario collettivo, da Montesi a Tangentopoli, da Fenaroli a Cucchi. Professor Flores, il primo nome che compare nel libro è Gaetano Azzariti, un magistrato atipico. Perché? “Anche se non ha mai svolto un ruolo nei tribunali ma ha operato soprattutto nel ministero, era un magistrato. Non lo fosse stato, non avrebbe potuto fare il presidente del Tribunale della razza. Lo abbiamo scelto perché è stato il simbolo (forse il migliore dal punto di vista della qualità di giurista) della difficile e contraddittoria transizione tra il fascismo e la democrazia”. Perché contraddittoria? Prevalse la continuità o la discontinuità? “Entrambe le cose, per decenni. Le forze conservatrici, tra tutte la Dc degli anni ‘50, utilizzarono la continuità per evitare che le grandi novità riformatrici della Costituzione potessero concretizzarsi. Non soltanto su questioni più direttamente politiche come il testo unico di pubblica sicurezza, ma su un’idea del mondo ancorata alla mentalità clerico-fascista ancora presente e anni luce distante dalla sensibilità della società”. Gli anni del processo Montesi. Cambiò l’immaginario collettivo? “Per la prima volta la politica si trovava coinvolta, sia pure indirettamente, con questioni di sesso e droga, coinvolgenti la Dc, il partito più moralista e bacchettone, ma in cui erano in corso lotte di potere che avrebbero utilizzato proprio quegli eventi per fare spazio alla generazione più giovane e liberarsi di statisti anziani come Piccioni. Fu un corto circuito che scosse l’opinione pubblica e su cui abbiamo trovato la testimonianza di un cronista d’eccezione, Garcia Marquez”. Quale fu l’effetto del Diario di un giudice di Troisi, uscito nel 1955? “Troisi fu lasciato abbastanza solo, accusato apertamente dalla Dc e dai conservatori dentro la politica e dentro la magistratura. A partire dal ministro della giustizia Moro e dal presidente della Cassazione Eula: uno coerente antifascista, l’altro ex fascista non pentito”. Nessuno lo difese? “Giuristi di area liberalsocialista. Il suo caso lasciò le cose come stavano, non insegnò nulla, non a caso venne ripreso solo tra fine ‘60 e inizio ‘70 dalla nuova leva di magistrati e anche di scrittori”. Quando nasce Magistratura democratica ed entrano le donne: con quali effetti? “Dirompenti nel lungo periodo perché cambiano, sia pure in modo contraddittorio e non lineare, le consolidate strutture di potere e di complicità tra vertici della politica e della magistratura”. Oggi la magistratura è prevalentemente femminile. “Ma resta il problema che le donne, ormai in maggioranza, continuano a essere fortemente discriminate nelle posizioni apicali: la mentalità che non le voleva ha pesato tantissimo e per troppi anni ancora”. Da Fenaroli a Braibanti: da un grande processo popolare - soldi, lacrime - a un grande processo politico: omosessualità, destra e sinistra. “Fenaroli fu il primo grande processo mediatico, con l’Italia divisa tra colpevolisti e innocentisti, ma non ebbe alcun retroterra politico, segnò l’attenzione sempre più coinvolta del pubblico per le questioni giudiziarie e i processi. Braibanti fu invece un processo moral-politico, in cui la sinistra, simboleggiata da Braibanti, era vista come corrotta e corruttrice sulla base di articoli del codice fascista che verranno poi abrogati”. Un passaggio d’epoca? “Il momento di svolta e scontro tra una società che sta conoscendo una modernizzazione vera e la politica e la giustizia ancorate a un moralismo da anni ‘40 condiviso dal mondo conservatore e reazionario”. Anni ‘70: terrorismi, strategia della tensione, trame internazionali, che ruolo gioca la magistratura? “Anche qui con forti chiaroscuri: con aperte complicità con il potere politico, nei depistaggi, nella presenza nella P2 ma anche col sacrifico di un numero enorme di magistrati caduti in nome dello stato di diritto. E di altri che hanno cercato pur con difficoltà di cercare la verità (storica e processuale) rischiando carriera, promozioni e isolamento”. Dopo il terrorismo, la mafia: i giudici eroi degli anni ‘80. È stato un errore? “La politica, e anche la società, ne hanno fatto insieme il simbolo e il capro espiatorio. La divisione interna alla magistratura, dal punto di vista delle idee politiche ma soprattutto dell’idea di giustizia, aveva almeno tre-quattro opzioni e alla fine trovava un punto d’accordo nella rivendicazione corporativa di cui il Csm è diventato sempre più l’espressione”. Perché Mani Pulite, esaltata anche all’estero come rivoluzione giudiziaria, da voi è definita “ciclone in un bicchier d’acqua”? “Perché quella rivoluzione giudiziaria, che poteva e doveva esserci, in realtà non si è verificata, lasciando le cose identiche o peggiori nei due decenni successivi”. Per colpa di chi? “Il prestigio conquistato è stato accompagnato da un protagonismo mediatico che si è rivelato poi spesso un boomerang e ha spinto soprattutto alcuni pubblici ministeri a ritenere questo aspetto, e i legami spesso non ortodossi con la stampa, fondamentale, esagerando sempre più la propria esposizione ma anche diminuendo la propria credibilità come promotori di giustizia”. Berlusconi e i pm: chi ha vinto, alla fine? “La guerra dei trent’anni di Berlusconi è stata contro alcuni magistrati, anche se ha cercato di ridimensionare l’intera categoria e di rimetterla, almeno in parte, sotto il controllo o il ricatto della politica. In realtà non ha vinto nessuno, ma hanno perso l’Italia, la credibilità della giustizia, la responsabilità della politica e il prestigio della magistratura. Politica e Magistratura si sono alleate: conflitto in superficie, nessuna riforma”. E oggi? Vero conflitto o simulacro retorico? “Lo vediamo in questi giorni, che è vero: anche se si focalizza su questioni minori (la separazione delle carriere è inutile, anche se in linea teorica sarebbe giusta) e interviene poco e male sulle questioni che meriterebbero riforme coraggiose. Prima fra tutte quella del sistema penitenziario”. Com’è cambiata l’identità profonda della magistratura? “Oggi non c’è un’identità profonda, se non sul versante dell’autonomia e della difesa dell’indipendenza. Dagli anni ‘60 i magistrati discutevano, anche litigando, sul loro ruolo, sull’idea di giustizia, su come attuare la Costituzione. Oggi la discussione sembra più sull’organizzazione interna, sulle gerarchie, sulla composizione degli organi dirigenti, ripiegata all’interno della corporazione”. C’è da rimpiangere l’ideologia, le correnti? “Proprio oggi servirebbe una spinta ideale analoga a quella che poneva tra gli anni ‘60 e gli anni ‘80 i magistrati in un confronto anche aspro tra loro”. Il popolo dei senza diritti. Dai malati terminali, alle famiglie arcobaleno di Maria Novella De Luca La Repubblica, 25 maggio 2024 Inchiesta sullo stato della democrazia in Italia. Il processo alle mamme lesbiche di Padova e gli anziani senza fondi per l’autosufficienza, il no ai certificati Lgbtq+, i bambini discriminati: viaggio tra leggi tradite e libertà civili negate. Così l’Italia si allontana dall’Europa. Immaginate un’aula di tribunale piena di mamme e bambini. I più piccoli hanno sei mesi, i più grandi otto anni. Immaginate un processo con sessantasei imputate adulte, più trentotto imputati in passeggino o con lo zainetto della scuola sulle spalle, colpevoli unicamente, mamme, figlie e figli, di essere famiglie “irregolari”. Nate sì dall’amore, ma da un amore illecito per lo Stato italiano del ventunesimo secolo, da un amore non “conforme” e scandaloso perché lesbico, formato da due donne anziché da un uomo e una donna. Basterebbe questa immagine (i bambini naturalmente non ci saranno) che anticipa quanto accadrà a Venezia il 10 giugno prossimo, il processo d’appello promosso dal ministro Piantedosi contro le 33 coppie di madri padovane cui sono stati impugnati i certificati di nascita dei figli registrati con entrambi i cognomi, per rendere plasticamente l’ossessione del governo di Giorgia Meloni contro il mondo Lgbtq+. Contro cioè il frastagliato universo non binario, spettro dei movimenti Provita, i cui nuovi crociati, armati di propaganda integralista contro l’inesistente nemico gender, dettano legge nella maggioranza sovranista. Un attacco ai diritti civili così massiccio non risparmiare nemmeno i bambini e tale da farci precipitare, come ricorda l’avvocata e attivista Cathy La Torre, “al trentaseiesimo posto su quarantanove tra i paesi più omofobi d’Europa, secondo la classifica di Ilga (International Lesbian and Gay Association) addirittura dietro l’Ungheria di Orban”. Dunque fuori dalle grandi democrazie europee. Fragili ed esclusi - I diritti delle minoranze, o delle persone più fragili, i disabili, i malati terminali, gli anziani non autosufficienti, sono il termometro per misurare la libertà di un paese. È da qui allora che bisogna cominciare per raccontare perché stiamo diventando una nazione illiberale. E se con il loro folklore le frasi ad effetto del generale Vannacci, simbolo trash della Lega che fa capo a Salvini, mai del tutto smentite rivelano l’anima razzista di parte della maggioranza, “i gay sono malati psichiatrici”, “i disabili tornino nelle classi differenziali”, sono poi le azioni concrete di questo governo a raccontare quanto le libertà personali siano in pericolo e le fragilità ignorate. Nel virare verso quello stato etico che vorrebbe togliere alle donne l’ultima parola sull’aborto e ignora i moniti della Consulta per una legge suicidio assistito. Uno Stato che in nome della (ipotetica) famiglia naturale cancella dai certificati di nascita i genitori non biologici dei figli delle coppie omosessuali, creando la categoria dei “nuovi illegittimi”, così li ha definiti con nitidezza la sociologa Chiara Saraceno, anche qui contravvenendo all’appello per una legittimazione del nuovo presidente della Corte Costituzionale, Augusto Barbera. Svuotando poi, ed è veramente uno scempio, il fondo per la non autosufficienza, lasciando migliaia di grandi anziani spesso affetti da malattie neurodegenerative nella totale povertà e disabilità. Fuori dall’Europa sui diritti Lgbtq+ - Spiega Cathy La Torre: “In Italia ci sono così pochi diritti per le persone Lgbtq+ che è molto difficile cancellare ciò che non c’è, eppure è in atto un attacco capillare alle poche libertà conquistate. Con un uso ideologico della legge utilizzata per suffragare la propria idea di Stato, dalle famiglie arcobaleno al suicidio assistito. Penso all’ostinazione di Salvini sulle carte d’identità con scritto madre e padre, per ostacolare i genitori dello stesso sesso. Penso alla commissione istituita per rivedere le linee guida sui farmaci bloccanti dell’ospedale Careggi, pura propaganda per rendere ancora più difficile la vita di quei pochissimi bambini, già molto sofferenti, trattati con la triptorelina. Penso alla legge mai nata sull’omofobia”. E se è vero come dice Cathy La Torre che è difficile togliere ciò che (purtroppo) non c’è, è vero anche che da settembre 2022, da quando Giorgia Meloni è diventata premier, gli atti contro la comunità Lgbtq+, sono diventati continui. A cominciare da quello che è il vessillo della crociata: la battaglia contro la gestazione per altri, definita nella contestatissima legge già approvata alla Camera “reato universale”, norma che prevede addirittura il carcere per le coppie che così diventano genitori all’estero, il 99% sono in realtà coppie eterosessuali, eppure nell’immaginario (e nella propaganda) è sempre ai padri gay che si fa riferimento. Ossessione neo-naturalista - E sono ancora i bambini al centro del rifiuto del governo Meloni di sottoscrivere, a marzo del 2023, insieme al fidato amico Orban, il certificato europeo di filiazione, ossia un documento che riconosce uguali diritti a tutti bambini nati nella Ue, comunque “siano stati concepiti”. Ma nella concezione ormai neo-naturalista della destra sovranista, contraria anche alle tecniche di Pma eterologhe, di cui massima esponente è la ministra Eugenia Roccella insieme ai Pro Vita, l’unica forma legale nella quale venire al mondo è la coppia maschio femmina, da qui la persecuzione delle famiglie omogenitoriali. È del gennaio 2023 la circolare del ministro Piantedosi che richiamandosi a una sentenza della Cassazione del 2022, impone ai sindaci di non registrare più all’anagrafe i figli di due mamme. Diversi primi cittadini, tra i quali Sergio Giordani di Padova, si oppongono, continuano a registrare. “Non esistono bambini di serie A e di serie B, in qualità di sindaco devo tutelarli tutti”. Ma le procure, in molte regioni fedeli al vento di reazione imposto dal Governo, impugnano gli atti, anche retroattivamente. Arrivando al caso di Padova, dove alla sbarra ci sono ben 37 coppie di madri. Ma è l’ossessione del gender a turbare i sonni della maggioranza di Lega e Fratelli d’Italia. Tanto che sempre dalle file più integraliste è partita la campagna contro la “carriera Alias” nella scuola, ossia la possibilità per gli studenti di essere nominati con il genere cui sentono di appartenere e non con il nome relativo al sesso assegnato alla nascita. Ed è sempre per lo spettro dell’identità di genere che l’Italia clamorosamente non firma, il 17 maggio scorso, insieme, guarda caso, a Ungheria, Romania, Bulgaria, Croazia, Lituania, Lettonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, la dichiarazione Ue contro omofobia e per i diritti Lgbtq+. Perché? “Avrebbe aperto le porte al gender” ha sentenziato Eugenia Roccella, per giustificare di nuovo una scelta che ci accomuna sul fronte dei diritti a paesi sempre meno democratici. Vecchi dimenticati e disabili nel ghetto - Ha fatto eco, ed è un paradosso, il silenzio della ministra leghista per le disabilità Alessandra Locatelli, di fronte alle uscite del suo compagno di partito Roberto Vannacci, sull’esigenza del ritorno delle famose “classi degli asini”, ossia le classi differenziali per i bambini disabili, cancellate in Italia dalla legge 571 del 1977. Locatelli non ha stigmatizzato le parole di Vannacci, anzi affermando, “il generale è stato frainteso”. Polemiche, ma la verità invece è che questa Destra “sociale” dei più fragili si è dimenticata. E se non un euro in più rispetto agli anni precedenti è stato stanziato per i diritti delle persone disabili è lo “svuotamento” del fondo per la non autosufficienza, aspramente criticato da Cgil, Cisl e dalla conferenza Stato-Regioni, a smascherare le vuote parole della propaganda di Dio, Patria e Famiglia. È Sandra Zampa, senatrice Pd ed ex sottosegretaria al ministero della Salute nel governo Conte, a raccontare cosa sta accadendo. “Il 25 gennaio del 2024 la premier Meloni dà una notizia clamorosa: daremo mille euro in più ad anziano. Una dichiarazione enorme, la rivoluzione della terza età, finalmente - dicono - un governo che prende in carico il dramma della non autosufficienza. Una notizia purtroppo totalmente falsa. Il decreto legislativo emanato dal Governo in attuazione della legge 33 del 2023 sulle ‘politiche per le persone anzianè è infatti una scatola vuota. Non solo perché non prevede un fondo ad hoc, quindi nasce senza soldi, se non quei fondi sottratti ad altre voci, ad esempio quelli destinati ad inclusione e povertà. Ma soprattutto quella che doveva essere una prestazione universalistica, per l’enorme bacino così l’aveva pensata il governo Draghi, si è ridotta ad una misura per pochi”. Soldi soltanto per pochissimi anziani - Ecco i numeri: di fronte a una platea di 3 milioni e 800mila anziani non autosufficienti, riceveranno per due anni l’assegno dal 2025, soltanto gli over 85 anni, in condizioni gravissime e con un Isee non superiore a 6.000 euro l’anno. “In pratica la riforma riguarderà unicamente 25mila persone che riceveranno in via sperimentale 700 euro al mese per due anni”. I numeri parlano da soli: con il trucco di paletti così escludenti la “grande riforma” annunciata da Meloni riguarderà l’infinitesima parte dei nostri anziani con gravi disabilità e malattie degenerative. La cui cura sarà ancora una volta tutta sulle spalle delle famiglie. Governo contro il suicidio assistito - È difficile dimenticare gli occhi e la voce di chi annuncia: vado a morire lontano da casa mia, perché in Italia sono condannata alla sofferenza. È difficile dimenticare, ma è soltanto uno dei tanti casi, Sibilla Barbieri, malata terminale di cancro, cui la Asl aveva negato il suicidio assistito a Roma, il suo lucido j’accuse contro uno Stato che pretende di decidere sul nostro fine vita. Accompagnata dal figlio Vittorio e da Marco Perduca dell’Associazione Coscioni di cui era consigliera, Sibilla è morta dolcemente a Zurigo a 58 anni, “ma chi non ha diecimila euro per il viaggio e l’assistenza - aveva denunciato Sibilla- è costretto ad aspettare la propria fine tra terribili sofferenze”. La sentenza della Consulta del 2019 sul caso di Dj Fabo, consente a certe condizioni di poter morire in Italia, anche con l’ausilio del servizio sanitario nazionale. Sappiamo però che la gran parte dei malati riesce ad ottenere questo diritto soltanto con una causa in tribunale. Per questo più volte la Corte Costituzionale ha invitato il Parlamento a fare una legge sul suicidio assistito. Ma il Senato, dove sono depositati ben quattro testi di legge (tra i quali l’ultimo approvato soltanto alla Camera nella scorsa legislatura) è fermo perché per ben due volte il Governo non si è presentato impedendo così l’inizio della discussione. La legge dunque è prigioniera di un governo che non solo ne blocca l’esame ma attacca quelle regioni, come l’Emilia Romagna che aveva deciso di dotarsi di alcune delibere per rendere effettivo il suicidio assistito entro 42 giorni dalla richiesta del paziente, verificata dalle Asl. Niente da fare: Palazzo Chigi e ministero della Salute, nettamente contrari al diritto di scelta sulla fine, hanno fatto ricorso al Tar contro l’Emilia Romagna. “Un ricorso ideologico sulla pelle dei malati” ha commentato con durezza Elly Schlein. Medio Oriente. La sentenza dell’Aia sconcerta Israele: “Le accuse di genocidio sono disgustose” di Fabio Tonacci La Repubblica, 25 maggio 2024 Il governo non demorde ma teme l’isolamento. Soddisfazione da parte palestinese, anche se per i vertici di Hamas “non è abbastanza”, Il coro dello sconcerto israeliano si alza immediato, compatto e sonoro, ma la settimana che si chiude, per lo Stato ebraico, è stata complicata. In pochi giorni due corti internazionali hanno accusato Israele e il suo governo, mentre tre Stati (Irlanda, Spagna e Norvegia) si sono aggiunti alla lista di chi riconosce lo Stato di Palestina. Da Tel Aviv a Gerusalemme si raccolgono commenti indignati nei confronti del mondo “che non capisce il nostro dramma”, “che ci paragona a Hamas”, “che si è dimenticato del 7 ottobre e degli ostaggi”. E tuttavia, un fatto è innegabile: “La legge - per dirla con le parole di Michael Sfard, giurista israeliano specializzato in diritto internazionale e attivista in organizzazioni pacifiste - è diventata un attore centrale sul teatro di guerra”. Il pronunciamento della Corte internazionale di giustizia (Cig) era atteso, previsto e anche prevedibile, dato il breve lasso di tempo trascorso tra la quarta richiesta del Sudafrica e il verdetto. Il governo di Israele aspettava solo di capire se l’ordine di stop sarebbe stato al conflitto in generale o alle operazioni militari a Rafah. In entrambi i casi, aveva premesso, “non c’è potere sulla terra che ci impedirà di difendere i nostri cittadini e dare la caccia a Hamas”. Infatti, pochi minuti dopo il giudizio, l’aviazione israeliana ha bombardato il campo di Shaboura a Rafah, mentre a Gerusalemme il premier Netanyahu convocava d’urgenza i ministri e il procuratore generale per studiare le prossime mosse. Perché è vero che il governo ha già detto che andrà avanti a Gaza e che comunque la decisione dell’Aia lascia spazio per attacchi mirati senza vittime civili, ma è altrettanto vero che l’ordine del massimo tribunale dell’Onu, pur non esecutivo, avrà conseguenze diplomatiche se sarà disatteso. Soprattutto considerando che non più tardi di lunedì scorso il procuratore della Corte penale internazionale (Cpi) ha chiesto il mandato di arresto per crimini di guerra per Netanyahu e per il ministro della Difesa Yoav Gallant, oltre che per i leader di Hamas. Il premier israeliano teme non tanto le sanzioni dell’Onu, che si aspetta vengano bloccate dagli Stati Uniti, quanto la contropartita che Biden potrà pretendere per l’ennesimo veto americano nel Consiglio di Sicurezza. Inoltre anche i singoli Stati potrebbero emettere sanzioni, embarghi o ritirare il sostegno militare. Le reazioni politiche, dunque. Se da una parte l’Autorità palestinese e Hamas accolgono con favore la notizia, pur con la differenza che per i miliziani l’ordine della Corte “non è abbastanza”, Ron Dermer, ministro israeliano degli Affari strategici, punta dritto all’antisemitismo: “Che gli ebrei siano trattati diversamente è una storia che va avanti da duemila anni. La decisione della Cig alimenta il fuoco dell’antisemitismo, che si sta diffondendo nel mondo”. Stessa linea per il ministro messianico Itamar Ben Gvir: “Sentenza antisemita, la migliore risposta sarebbe occupare Rafah”. Più fredda la nota ufficiale congiunta del ministero degli Esteri e del Consigliere nazionale per la sicurezza: “Le accuse del Sudafrica riguardo al genocidio sono false, oltraggiose e disgustose. Israele non ha condotto e non svolgerà attività militari nell’area di Rafah che possano portare alla distruzione della popolazione civile palestinese e continuerà con gli sforzi per consentire l’ingresso degli aiuti umanitari”. Benny Gantz, ministro dell’opposizione che fa parte del gabinetto di guerra: “Siamo obbligati a lottare per riavere i nostri ostaggi (tre dei quali sono stati trovati morti ieri a Gaza, ndr), in qualsiasi momento e ovunque, compresa Rafah”. E anche Yair Lapid, avversario di Netanyahu, definisce la formulazione del verdetto della Corte dell’Aia “un disastro morale”, ma dandone la colpa al governo: “Se fosse professionale e sano di mente, avrebbe potuto prevenirlo”. Tutti fanno proprie le ragioni che il giudice israeliano Aharon Barak (uno dei due voti contrari) ha inutilmente prodotto davanti alla Corte: “Il Sudafrica non ha portato alcun elemento nuovo per sostanziare l’accusa di genocidio, né ha prestato attenzione alle minacce di Hamas o agli ostaggi. La Corte non ha menzionato neanche in una riga l’aumento degli aiuti umanitari a Gaza”. Aumento documentato da un recente studio accademico che ha analizzato i dati del Cogat (l’Agenzia del ministero della Difesa) da gennaio ad aprile. “L’ordine della Corte non è appellabile”, è la chiosa di Michael Sfard: “Israele potrà chiedere un nuovo pronunciamento, ma solo se cambieranno le circostanze”. Medio Oriente. Non c’è pace in questa prigione a cielo aperto di Martina Marchiò* La Stampa, 25 maggio 2024 Tre nuovi sacchi bianchi per cadaveri si sono aggiunti ai tanti altri senza nome. Sono di una famiglia intera arrivata già morta al nuovo punto sanitario di Medici Senza Frontiere a Rafah. Ho pensato per un attimo che forse è stato meglio così, se ne sono andati insieme, spero che non abbiano sofferto, che non abbiano capito. In questo nuovo punto, attivo da qualche giorno, offriamo cure d’emergenza ai pazienti più gravi, quasi tutti vittime di esplosioni. Li stabilizziamo, cercando di portare in vantaggio la vita sulla morte, e poi li trasferiamo nei pochi ospedali ancora funzionanti. Intanto, il confine è ancora chiuso, il carburante non basta e le medicine che abbiamo non sono infinite. Ancora poche settimane e, se non entreranno nuove forniture, saremo costretti a fare scelte difficili per alcune delle nostre attività. A Rafah più di 800 mila persone si sono spostate verso la zona costiera, dove mancano i servizi, o verso la zona centrale. Per alcuni è la nona o la decima volta. Qualcuno sceglie di rifugiarsi in edifici pericolanti e già colpiti dai bombardamenti piuttosto che vivere nel caldo soffocante delle tende. Interi quartieri sono ormai quasi deserti, e sembra impossibile immaginarli straripanti di persone fino a pochi giorni fa. I bombardamenti continuano, ci sono case ancora in piedi con terrazzi che guardano il cielo, perché sono camere da pranzo ormai senza pareti e senza soffitto. Le persone sono lì, sedute a tavola e guardano il mondo che scorre. Gli ultimi giorni sono stati molto duri anche per la zona centrale, dove molte aree, tra cui Nuseirat, sono state pesantemente attaccate. Due giorni fa centinaia di pazienti sono arrivati nella notte all’ospedale di Al-Aqsa, supportato da Medici Senza Frontiere, 20 pazienti sono morti. Tantissimi bambini sono arrivati feriti e in stato di shock per quello che avevano appena vissuto. Molte persone sono morte sotto le macerie senza avere il tempo di capire quello che stesse succedendo. La popolazione viene schiacciata su due fronti, da Rafah e dalla zona centrale, stipati in uno spazio che non può contenerci tutti. Persone intrappolate, vite andate perdute, altre preservate e cambiate per sempre. Non c’è ancora luce alla fine di questo tunnel, non c’è pace per chi resta in questa prigione a cielo aperto. *Coordinatrice medica di Medici Senza Frontiere a Gaza Medio Oriente. Una giustizia giusta per una pace duratura di Niccolò Figà-Talamanca* L’Unità, 25 maggio 2024 Le richieste dei mandati di arresto avanzate dal Procuratore della Cpi? Indipendenza e imparzialità non significano equidistanza. La responsabilità penale, anche a livello internazionale, è individuale, i popoli sono vittime e non colpevoli perché della stessa nazionalità degli indagati. “Quali sono le risposte possibili alla crisi di efficacia della comunità internazionale e dei meccanismi a favore del rispetto dei diritti umani e dello Stato di Diritto?” Con questa (epocale) domanda il 18 maggio abbiamo festeggiato al Campidoglio il 30esimo anniversario della fondazione di Non c’è pace senza giustizia. Prima di tutto voglio ricordare Marino Busdachin, primo segretario scomparso l’anno scorso e il senatore Sergio Stanzani che l’ha presieduta per anni. Due giorni dopo, il procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan inviava la richiesta ai giudici per i primi cinque mandati di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità in merito alla situazione in Palestina: tre per i rappresentanti di Hamas, per atti commessi almeno dal 7 ottobre 2023, due per rappresentanti dello Stato di Israele per atti commessi almeno dall’8 ottobre 2023. Il giorno dopo l’Unità si chiedeva giustamente “ma la guerra chi l’arresta?”. In attesa della risposta dei giudici alle richieste di Khan, e a una risposta alla nostra domanda, che in parte ingloba le preoccupazioni del direttore Sansonetti, voglio condividere le parole della presidente di Non c’è pace senza giustizia Tara O’ Grady sull’argomento: “Confidiamo che l’Ufficio del Procuratore mantenga il proprio impegno nel proseguire le indagini indipendenti sui crimini sotto la sua giurisdizione commessi a partire dal primo deferimento [palestinese] avvenuto il 13 giugno 2014. È infatti preoccupante che l’apparente inazione della Corte possa aver contribuito alle dinamiche politiche di impunità, soffocando le voci a favore della giustizia e della responsabilità sia nella società israeliana che in quella palestinese”. E di inazioni della comunità internazionale ce ne sono a bizzeffe. Anche nella primavera del 1994, quando la campagna del Partito Radicale che per Marco Pannella doveva creare il “primo segmento di una giurisdizione internazionale” si trasformava in associazione autonoma, centinaia di migliaia di persone venivano uccise nei Balcani, nella regione dei Grandi Laghi africani o nel Caucaso anche per nostra inazione. Per rispondere alle domanda con cui ci siamo ritrovati a Roma ci hanno raggiunto oltre 100 persone e una quarantina hanno preso la parola, tra questi leader indigeno dell’Amazzonia Chief Raoni, la ex-presidente della Corte Penale Internazionale Silvia Fernandez de Gurmendi, gli ex giudici Mauro Politi e Flavia Lattanzi, l’attuale vice-presidente e giudice italiano Rosario Aitala, e la vice Procuratore Nazhat Khan, gli special rapporteur dell’Onu Francesca Albanese (Palestina) e Richard Bennett (Afghanistan); il vice ministro della giustizia della Sierra Leone Alpha Sesay e Hatice Cengiz, vedova del giornalista saudita Jamal Khashoggi brutalmente assassinato nel consolato del suo paese a Istanbul nel 2018. Oltre che decine di persone da sempre mobilitate per il rispetto dei diritti umani come Emma Bonino (co-fondatrice con Pannella e Filippo di Robilant), la senegalese Khady Koita, Barbara Ibrahim, l’afgano Nader Nadery, il libico Nasser Algheitta, l’ugandese Victor Ochen e i professori David Donat-Cattin e Salvatore Zappalà. Molte sono state le risposte alla nostra sollecitazione, grazie a Radio Radicale possono essere riascoltate in traduzione. Oltre al sostegno alla Corte per cui Non c’è pace senza giustizia è maggiormente nota, in questi 30 anni abbiamo concorso all’incriminazione di Milosevic, alla creazione della Corte speciale per la Sierra Leone, favorito la ratifica del protocollo di Maputo contro le mutilazioni genitali femminili, denunciato la riduzione in schiavitù di migliaia di persone in Mauritania, le esecuzioni extragiudiziarie nelle Filippine, mappato conflitti in Kosovo e Siria e sostenuto il lavoro di decine di difensori dei diritti umani e della democrazia nonché di giornalisti indipendenti in regimi autoritari. Ma non ci siamo mai nascosti i problemi di “casa nostra”. Come esempio l’illegalità dell’amministrazione della giustizia europea. Potrei ricordare nel dettaglio il mio arresto in Belgio il 9 dicembre 2022 nel quadro del “Qatargate” e successiva detenzione per quasi due mesi - conclusasi con una liberazione senza condizioni da parte dello stesso giudice - per denunciare cosa accade in Europa in materia di indagini, interrogatori, diritto alla difesa e condizioni detentive. Non lo faccio perché l’inchiesta è ancora in corso, ma segnalo che il 22 maggio è stato comunicato che la seconda parte del maxi-riesame delle indagini preliminari si svolgerà a porte chiuse su richiesta della procura di Bruxelles e del Parlamento europeo… Ma torniamo a noi. Le parole del Procuratore della Cpi Khan ci ricordano che la legge vale per tutti. L’indipendenza e l’imparzialità non sono la stessa cosa dell’equidistanza, chi ha commesso atrocità deve esser chiamato a risponderne indipendentemente dal “lato” del conflitto a cui dichiara di essere fedele. La responsabilità penale, anche a livello internazionale, è individuale, i popoli sono vittime e non colpevoli perché della stessa nazionalità degli indagati. Credo sia ragionevole ipotizzare che la risposta alle richieste di Khan arriverà a breve. Da un paio d’anni Non c’è pace senza giustizia ha avviato un lavoro nuovo dedicato ai diritti e alle prerogative indigene dei popoli dell’Amazzonia. A Roma era con noi anche il 92enne Raoni Metuktire, che sarebbe molto piaciuto a Pannella, noto anche come Chief Raoni, leader ambientalista capo del popolo indigeno Kayapo delle pianure del Mato Grosso e del Pará a sud del Rio delle Amazzoni. Raoni, simbolo vivente della lotta per la preservazione della foresta amazzonica e della cultura indigena, ci ha ricordato che ogni giorno subiscono, cioè subiamo, l’amputazione di parti della più grande riserva di biodiversità del pianeta. Obiettivi raggiunti, amicizie confermate, partnership allacciate in questi ultimi mesi ci confermano la bontà di quella decisione di 30 anni fa lasciandoci l’onore e l’onere di continuare a perseguire una giustizia giusta perché si possa essere una pace duratura. *Segretario di “Non c’è pace senza giustizia” Iran. Il regime dei mullah divora corpi umani di Elisabetta Zamparutti* L’Unità, 25 maggio 2024 Efferato. Parola che ci trasporta dall’umano al bestiale. Aggettivo a cui solitamente ricorriamo per definire l’azione piuttosto che chi la compie. Parliamo di delitto efferato, di omicidio efferato. Eppure l’atto feroce, che allontana dall’umana comprensione, riguarda chi lo subisce come anche chi lo compie. Efferato è allora il regime iraniano. Nell’elenco dei paesi membri dell’ONU risponde al nome di “Repubblica Islamica dell’Iran”. Preferisco chiamarlo teocrazia misogina che come una belva feroce con indomita violenza si nutre di corpi umani e di questa ferocia campa. In meno di un mese, il regime dei Mullah si è preso anche il corpo di donne e minori, giustiziandoli in varie parti del Paese. Lo scorso 18 maggio, Parvin Moussavi, di 53 anni, malata di cancro, dopo quattro anni di detenzione, è stata impiccata nel carcere di Urmia, nel nord-ovest dell’Iran. Quando le guardie sono andate a prenderla per portarla al patibolo le detenute che stavano con lei hanno protestato, subendo la spietatezza di quei carcerieri entrati poi nel reparto femminile per pestarle. È stata giustiziata, insieme a cinque uomini, per reati legati alla droga. A distanza di poche ore, Fatemeh Abdullahi, di 27 anni, è stata impiccata a Nishapur nella parte orientale dell’Iran con l’accusa di aver ucciso il marito che era anche suo cugino ed abusava di lei. Pochi giorni prima, il 15 maggio, una donna di 33 anni, identificata solo con il nome, Razieh, è stata giustiziata nel carcere di Mashhad, città santa degli Sciiti, nel nordest dell’Iran. Nel corso di una vita fatta di stenti, due matrimoni alle spalle, avrebbe soffocato i suoi due figli, di quattro e otto anni, nel 2016. Non riusciva a sfamarli. Si era poi tagliata le vene. La sorella l’aveva salvata. Alla fine è arrivato il regime misogino a regolare i conti e a prendersi quella vita che forse lei stessa non voleva più. Questo allontanamento da ogni possibile forma di compassione è andato accelerando quest’anno dalla fine del Ramadan e l’inizio del Nuovo Anno persiano in aprile. Il regime ha così continuato a saziarsi oltre che dei dolci corpi delle donne, di quelli teneri dei minorenni. Così, mentre impiccavano Parvin Moussavi a Urmia, non molto lontano, nel carcere di Miandoab, legavano il cappio intorno al collo di Saadat, un curdo di 20 anni, arrestato quando ne aveva 17 con l’accusa di omicidio premeditato. Il monitoraggio quotidiano di Nessuno tocchi Caino ha documentato 254 esecuzioni dall’inizio dell’anno. Le donne impiccate sono state 11 molte delle quali sono state vittime di abusi o di matrimoni forzati. I minorenni impiccati quest’anno sono stati almeno 2. Nel solo mese di maggio le esecuzioni sono state 61, quelle di donne 4, quelle di minori una. Eppure, maggio è da sempre considerato il mese dell’anno legato alla fioritura. Chi pensa a maggio, pensa alla rosa, che di questo mese è simbolo, fiore da sempre associato al femminile e di tutti i fiori la regina. Parlando con gli amici della resistenza iraniana che di una donna bella e coraggiosa, Maryam Rajavi, hanno fatto la loro leader, ho saputo che a questo fiore è legata una simbologia anche del mondo persiano. Un mondo in cui maggio, considerato il secondo mese di primavera in Iran, è chiamato con una parola, “ordibehesht”, che in Farsi significa addirittura “Paradiso” tanto è bello. Tra le più importanti opere poetiche persiane c’è poi “Il roseto”. L’ha scritta Sa’di, mistico musulmano e maestro del sufismo che con sguardo indulgente verso l’umanità considera il giardino delle rose come il luogo dove si raggiunge il grado più alto della contemplazione. Per tutti noi allora, italiani o iraniani che siamo, maggio è il mese della rinascita e dell’amore. Amore, che mi piace pensare derivi dal latino “a-mors”, alfa privativo e “mors” morte e che quindi letteralmente significhi “senza morte”. A-mors come inno alla vita. Parola positiva e dunque violentata anch’essa dai Mullah del regime teocratico e misogino iraniano, tanto lontani dal senso di umanità quanto dalla stessa cultura e tradizione del loro Paese. A questa parola i Mullah, nel loro inferno, hanno voluto infatti tagliare la testa, facendo cadere quella “a” iniziale, per lasciare che ci sia intorno a loro solo “mors”, morte. È nostra responsabilità non tollerare, non subire passivamente tutto ciò. È nostra responsabilità indignarci. È nostra responsabilità esigere la vita, la bellezza, la grazia, la felicità e il profumo delle rose del mese di maggio. *Associazione Nessuno tocchi Caino