Parlar d’amore. Racconti dal convegno di Ristretti Orizzonti sui legami affettivi in carcere di Adriano Sofri Il Foglio, 24 maggio 2024 Una settimana fa il convegno intitolato “Io non so parlar d’amore” si è poi tenuto davvero, al carcere Due Palazzi di Padova, organizzato da Ristretti Orizzonti, e ispirato alla sentenza di gennaio della Corte Costituzionale secondo cui, in sostanza, non c’è bisogno di alcuna legge ad hoc per riconoscere il diritto dei detenuti, e dei loro famigliari, a non essere amputati della propria vita affettiva e sessuale, e che si tratta soltanto (soltanto!) di metterlo in pratica. Si può riconoscere qui un elemento costitutivo del supposto stato di diritto: che c’è sempre bisogno di chiarire di che cosa non c’è bisogno. Lo si sta chiarendo da almeno tre o quattro decenni, mentre altrove lo si fa come una cosa ovvia, in Norvegia o in Albania, e in altri 29 paesi! Il convegno ha avuto una partecipazione piuttosto straordinaria di famigliari e detenuti, magistrati e direttori, avvocati e giuristi, volontarie e intellettuali, agenti e assistenti e assessore, mediche e psicologhe e sessuologhe… La sua intera registrazione prende 5 ore e 25 minuti, è, nitidamente, su Radio Radicale. Dunque ne riparleremo, quando l’avrete guardato e ascoltato. 5 ore e mezza sono tante, direte. Infatti, tutto quello che ha a che fare col tempo sta al cuore della galera. Francesca Melandri l’ha sottolineato, a cominciare da quel “a quanti anni ti hanno condannato” che è, prima di “quanti anni hai”, il segno particolare di identità del carcerato. Un giorno o l’altro si farà un convegno sul concetto di “anni”. Io, quando ci fui dentro, sbrigai la cosa con uno scambio all’aria, lo presero per una battuta. A: “Che ora è?” B: “Le tre e quaranta”. A: “Ancora le tre e quaranta? Non passano mai, ‘sti ventidue anni!”. Il fatto è che la contraddizione più straziante del carcere riguarda i due opposti desideri: quello di dare un po’ di senso al tempo da trascorrerci dentro, e quello di anestetizzare, ottundere quel tempo - addormentarmi stasera e svegliarmi fra ventidue anni. La seconda cosa è larghissimamente praticata a suon di farmaci, e del resto ha una sua lucida dignità: la reclusione, quando non prema una vera forza maggiore, è così stupida che un suo ragionevole travestimento è una resa. D’altra parte, decidere di sopravvivere e cercare dei surrogati alla vita è una specie di impegno abbastanza naturale negli animali umani, tanto più quando non siano soli e abbiano qualcuna, qualcuno cui tenere più che a se stessi. Così è anche per affetti e amore, mogli, compagne (mariti, compagni, per il 4 per cento di detenute donne) e, per le une e gli altri e altri ancora, figli e genitori. Ornella Favero, animatrice prima di Ristretti - era, e immagino che sia ancora, una bravissima slavista - si è fatta prestare dal Papa la frase: “La tenerezza è un modo inaspettato di fare giustizia”. Inaspettatissima, quanto alla realtà delle istituzioni competenti, la cui immagine è macchiata da suicidi, violenze, sovraffollamento, cinismo, umiliazione di guardie e ladri. “E avrebbero bisogno di parlare un linguaggio nuovo, di trovare le parole giuste per coinvolgere tutti gli attori in gioco, operatori, volontari, persone detenute, loro famigliari, in quella rivoluzione che la sentenza della Corte Costituzionale prefigura, quando parla della desertificazione affettiva prodotta dal carcere, e apre la strada all’irrompere dell’amore nelle galere”. L’irrompere dell’amore in un giacimento di analfabeti amorosi: roba forte. Dalla cronaca che ne ha fatto Elvira Scigliano per il Mattino di Padova, estraggo questo racconto del detenuto Marino: “La mia bambina più grande, Carlotta, ha iniziato ad avere crisi epilettiche dopo il mio arresto. Erano provocate dall’angoscia perché io non ero più a casa: aveva appena 7 anni. Quando poi ha iniziato a venire a trovarmi, prima di avere una crisi si nascondeva nell’armadio: voleva condividere con me la prigione, a modo suo”. E un altro brano di Scigliano mi è piaciuto specialmente: “Il direttore della Casa di reclusione, Claudio Mazzeo, conferma: ‘Abbiamo gli spazi e molti detenuti che avrebbero diritto alla stanza dell’affettività. La sentenza spiega chiaramente che non è necessario aspettare il legislatore, dunque siamo in attesa delle linee guida che usciranno dal tavolo tecnico aperto dal Governo per agire concretamente’.” E conclude, la cronista: “I detenuti non sono molto fiduciosi: non credono si realizzerà mai”. Ecco un caso di concordanza incoraggiante: io sono d’accordo col direttore Mazzeo, e ancora più d’accordo coi detenuti scettici. Ora aspettiamo l’irruzione, da qualunque parte provenga. Carceri: chi resiste è punito di Sergio D’Elia* L’Unità, 24 maggio 2024 Siamo stati auditi come Nessuno tocchi Caino dalle Commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera dei deputati che sta esaminando l’ennesimo disegno di legge detto “sicurezza”. Ci sono cose buone e giuste come quelle in materia di lavoro in carcere. Ma poi c’è, immancabile, la batosta sanzionatoria a tutela dell’ordine e della sicurezza nelle carceri. In un istituto di per sé penitenziario si pensa che legge e ordine possano essere assicurati dalla minaccia di ulteriori pene e dalla esclusione dai benefici penitenziari. Al reato di “Istigazione a disobbedire alle leggi” previsto dall’articolo 415 del codice del Ventennio, il Parlamento della Repubblica aggrava: “la pena è aumentata se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute”. Dopo l’articolo “fascista” ecco subito quello “democratico” inventato dalla nuova legge: il 415-bis, che introduce il reato di “Rivolta all’interno di un istituto penitenziario”, che può essere consumato “mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti”. Resistenza anche passiva! Il messaggio è devastante: non vogliamo o non possiamo migliorare le condizioni di vita nelle carceri, allora, puniamo chi a queste condizioni di vita si ribella. Non solo i violenti, ma anche i disobbedienti e i resistenti passivi, non solo gli istigatori a delinquere, ma anche gli oppositori pacifici, gli obiettori di opinione e di coscienza. Le nostre carceri sono illegali, fuori dalla Costituzione. L’Italia rischia una nuova condanna da parte della Cedu. Ma invece di migliorare la vita dei detenuti il governo decide di punire con pene altissime chi si ribella a questo scandalo, anche pacificamente, anche opponendo una resistenza passiva. Ci sono delle scene iconiche nella storia radicale di lotte nonviolente. Le più note sono quelle degli scioperi della fame e della sete, quelle delle disobbedienze civili e delle obiezioni di coscienza. Meno note sono quelle di resistenza passiva alle forze dell’ordine, nei sit-in, nei cortei e nelle manifestazioni di piazza. Ce n’è una di Marco Pannella steso per terra a Roma in mezzo a via della Conciliazione col cartello e la scritta “beato chi ha fame e sete di giustizia”. Un’altra lo mostra steso per terra col cartello al collo con su scritto “di naja si muore” e il capo incastrato tra la ruota e il parafango di un autobus che aveva bloccato al centro della carreggiata. Una volta, davanti al Parlamento europeo, vestito stile Al Capone, col doppiopetto gessato, la camicia bianca e la cravatta, Marco fu portato via dalla piazza come un peso morto da quattro poliziotti. Marco Pannella non c’è più; come si suol dire: è venuto a mancare. Ma come pensava Aldo Capitini - contro il luogo comune che il morto è morto e non torna mai più - “i morti non ritorneranno perché non sono mai andati via”. Ricorrono quest’anno e in questi giorni gli anniversari di persone a noi care: il trentennale di Mariateresa Di Lascia, la fondatrice di Nessuno tocchi Caino, il trentaseiesimo di Enzo Tortora, il simbolo della lotta per la giustizia giusta, l’ottavo di Marco Pannella, l’uomo della speranza contro ogni speranza. Mariateresa, Enzo e Marco non se ne sono mai andati, sono qui, compresenti, nella ispirazione e nell’azione dei militanti radicali, nonviolenti, transnazionali e transpartici di Nessuno tocchi Caino. La nostra Presidente, Rita Bernardini, in questi giorni è in giro per la Sicilia e la Sardegna a onorare il posto di capolista per “Stati Uniti d’Europa”. La sua campagna elettorale è scandita dai tempi e gli obiettivi di uno sciopero della fame che ha deciso di riprendere per cercare di portare un po’ di ristoro, di amore, di conoscenza in un luogo di questa povera Italia, che è di privazione non solo della libertà ma di tutto, della salute fisica e psichica e anche della vita. Anche Rita ha nella sua biografia immagini iconiche di lotte nonviolente. In una foto la vedi avvolta da una selva di piante di marijuana coltivata a domicilio. In un’altra la vedi distribuire il raccolto a fini terapeutici ai malati condannati dall’ipocrisia proibizionista a soffrire e morire senza il minimo sollievo. Ma la foto per me più bella la ritrae giovanissima radicale a Piazza San Pietro come Pinocchio tra due agenti di polizia che se la portano via, manifestante non autorizzata, resistente passiva all’ordine costituito vaticano e italiano. A proposito di “legge e ordine”, nonviolenza e resistenza passiva, alcuni giorni fa siamo stati auditi come Nessuno tocchi Caino dalle Commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera dei deputati che sta esaminando l’ennesimo disegno di legge detto “sicurezza”. Ci sono cose buone e giuste come quelle in materia di lavoro in carcere. Ma poi c’è, immancabile, la batosta sanzionatoria a tutela dell’ordine e della sicurezza nelle carceri. In un istituto di per sé penitenziario si pensa che legge e ordine possano essere assicurati dalla minaccia di ulteriori pene e dalla esclusione dai benefici penitenziari. C’è da tremare ogni qualvolta a un articolo del codice penale o penitenziario si aggiunge un articolo “bis”. L’Italia-culla-del-diritto ha già fatto le spese dei famigerati 416 bis, 41 bis, 4 bis. Ora, al reato di “Istigazione a disobbedire alle leggi” previsto dall’articolo 415 del codice del Ventennio, il parlamento della Repubblica aggrava: “la pena è aumentata se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute”. Dopo l’articolo “fascista” ecco subito quello “democratico” inventato dalla nuova legge: il 415-bis, che introduce il reato di “Rivolta all’interno di un istituto penitenziario”, che può essere consumato “mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti”. Resistenza anche passiva! Il sovraffollamento sta sfiorando la soglia critica di dieci anni fa, quando con la sentenza Torreggiani l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per sistematici trattamenti contrari al senso di umanità nelle carceri. Le presenze di detenuti nei 189 istituti penitenziari hanno superato ormai la quota di 61.000 persone stipate in 47.500 posti disponibili. E ogni mese i detenuti aumentano di oltre 450 unità. Un trend che ci porterà a fine anno agli stessi livelli per i quali nel 2013 intervenne la giustizia europea. Un’altra condanna sarebbe un’onta per lo Stato italiano, un marchio indelebile, tal quale quello che di solito bolla il cittadino comune come recidivo, un delinquente abituale, professionale o per tendenza. È impossibile, nelle condizioni di sovraffollamento attuali, rispettare l’articolo 27 della Costituzione italiana e l’articolo 3 della Convenzione europea, pianificare qualsiasi obiettivo di rieducazione e inserimento sociale. Il carcere è un ecosistema limitato, non può crescere all’infinito. Non è solo una questione di rispetto di diritti umani fondamentali, ma delle elementari leggi della fisica, del rispetto della capacità di carico di un sistema. Il suo contenuto umano, la dignità e il recupero delle persone, la loro vita e il loro reinserimento sociale, non interessano? Ma qui, oggi, è il contenitore stesso a non bastare più, perché ha superato la sua capacità di carico. Ci vorrebbero consistenti atti di clemenza come amnistia e indulto, riforme strutturali necessarie e urgenti per contenere il sovraffollamento nelle carceri e il sovraffollamento nei tribunali paralizzati da 5 milioni di processi penali pendenti. Il minimo sindacale dovrebbe essere aumentare i giorni di liberazione anticipata per buona condotta, come prevede la proposta di legge di Roberto Giachetti e di Nessuno tocchi Caino che avrebbe il doppio vantaggio di ridurre il sovraffollamento e di mantenere l’ordine pubblico interno nelle carceri. Ma, invece di misure volte a ridurre il sovraffollamento e a incentivare e premiare i comportamenti virtuosi dei detenuti, il disegno di legge governativo prevede aumenti di pene e nuove fattispecie criminose. La soluzione offerta dal governo ai detenuti e ai detenenti è: “sorvegliare e punire”. Il messaggio è devastante: non vogliamo o non possiamo migliorare le condizioni di vita nelle carceri, allora, puniamo chi a queste condizioni di vita si ribella. E puniamo non solo i violenti, ma anche i disobbedienti e i resistenti passivi, non solo gli istigatori a delinquere, ma anche gli oppositori pacifici, gli obiettori di opinione e di coscienza. Nella teoria e nella prassi della nonviolenza radicale, tra le forme di non collaborazione col potere è contemplata anche la resistenza passiva, soprattutto quando il potere costituito non rispetta le sue stesse leggi costituzionali, quando il potere mostra la sua faccia feroce. È forza gentile e mite ma anche “intollerante” quella della nonviolenza. Come diceva Mariateresa Di Lascia, la nonviolenza non significa “toll?re”, distogliere lo sguardo, voltarsi da un’altra parte, tollerare, sopportare cose, fatti, situazioni che sono intollerabili. Il rifiuto del vitto dell’amministrazione, la battitura delle pentole sulle sbarre, il mancato rientro in cella dall’ora d’aria in segno di protesta per le condizioni inumani e degradanti del carcere, la promozione o partecipazione o semplice propaganda di queste forme di lotta, non sono molto diverse dagli scioperi della fame, dai sit-in o da altre manifestazioni storicamente proprie della prassi radicale, e anche sindacale. Avviso, quindi, ai legislatori: prima di votare questa legge, consultate gli archivi di Radio radicale, guardate le foto delle marce antimilitariste, ritornate sulle scene di lotta e resistenza nonviolenta. Pensate a Marco Pannella. *Segretario di Nessuno tocchi Caino Suspence sulle carriere separate. Greco: il giusto processo ora non c’è di Valentina Stella Il Dubbio, 24 maggio 2024 Il presidente del Cnf: “Il divorzio tra giudici e pm è indispensabile, anche l’inserimento dell’avvocato nella Carta necessario per riequilibrare il sistema”. Suspence sulla riforma costituzionale di Nordio, il cui testo a via Arenula è pronto, ma che non è ancora stata messa all’ordine del giorno di Palazzo Chigi. Intanto il presidente del Cnf avverte: “La modifica è indispensabile, ora il giusto processo non esiste”. Il disegno di legge costituzionale su separazione delle carriere e riforma del Consiglio superiore della magistratura è praticamente pronto. Lo riferiscono fonti del ministero della Giustizia. Si attende ora solo di conoscere da Palazzo Chigi, che definisce gli ordini del giorno, la data in cui il provvedimento, insieme ad altri decreti legge in materia di giustizia - compreso uno sulle carceri - finirà sul tavolo del Consiglio dei ministri. Le ultime date disponibili prima delle Europee dovrebbero essere due: mercoledì 29 maggio e lunedì 3 giugno. Ovviamente non si può dare per scontato che la riforma riesca ad essere effettivamente discussa e approvata dall’Esecutivo prima dell’election day, fissato per l’8 e il 9 giugno. Ma il ddl costituzionale di Nordio non ha solo un valore in sé: i tempi del suo iter assumono anche un significato politico, considerato che Forza Italia e Antonio Tajani ne fanno una bandiera, e vorrebbero poterla issare almeno nell’ultima settimana di campagna elettorale. Chiaramente la strada sarà lunga, prima che il progetto di riforma possa trasformarsi in realtà, considerati i passaggi parlamentari previsti per una modifica costituzionale e l’eventuale referendum. Sta di fatto che la maggioranza, e soprattutto la premier Giorgia Meloni, non possono disattendere, a questo punto, l’impegno assunto con Antonio Tajani e l’intero partito berlusconiano, i quali intendono rivendicare la modifica imperniata sul “divorzio” tra giudici e pm come uno dei principali obiettivi ottenuti in memoria del Cavaliere. Se così non dovesse essere si creerebbe un bel problema all’interno dell’alleanza di governo. Greco: la riforma è essenziale - Sulla riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario si è espresso anche Francesco Greco, presidente del Consiglio nazionale forense, ospite a Coffee Break su La7: “Noi riteniamo la separazione delle carriere indispensabile per riequilibrare il sistema del processo penale. Oggi non esiste parità tra accusa e difesa: l’accusa gode di un vantaggio sproporzionato. Il principio del giusto processo, sancito dalla nostra Costituzione, non potrà mai essere realizzato appieno finché persisterà questo squilibrio”. Il vertice della massima istituzione dell’avvocatura ha proseguito: “Il sistema italiano, tra l’altro, è un’anomalia nel panorama europeo: in quasi tutti i Paesi del Vecchio Continente, in particolare quelli con princìpi democratici e liberali paragonabili all’Italia, le carriere di giudici e pubblici ministeri sono separate. In Germania, Francia, Svizzera, Austria, Portogallo e Olanda, per esempio, questa distinzione è già realtà. Addirittura, in Germania non esiste il Csm: le carriere, le promozioni e gli avanzamenti dei magistrati sono decisi da funzionari dello Stato. Il nostro sistema rappresenta un’eccezione tutta italiana”. Poi un passaggio su una battaglia che il Cnf porta avanti da tempo e che, salvo modifiche dell’ultima ora, verrà concretizzata nel ddl costituzionale, così come immaginata nell’ipotesi del Consiglio nazionale forense: “Il ministro Nordio - ha aggiunto difatti Greco - ha annunciato che il disegno di legge sulla separazione delle carriere includerà anche l’inserimento della figura dell’avvocato nella Costituzione, passo fondamentale per riequilibrare il ruolo di accusa e difesa nel processo”. Ddl penale in stand by: 343 emendamenti - Forza Italia aveva chiesto una accelerazione anche per l’approvazione del cosiddetto ddl penale, che invece è stato rimandato a data da destinarsi, certamente a dopo le elezioni di inizio giugno. La precedenza, come stabilito dalla conferenza dei capigruppo della commissione Giustizia della Camera, è stata data al ddl sicurezza. Sono d’altra parte ben 343 gli emendamenti presentati dai gruppi al provvedimento, che contiene, com’è noto, anche l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Il termine per depositare le proposte di modifica è scaduto oggi alle 12. In totale 53 emendamenti sono arrivati dalla stessa maggioranza: 35 dalla Lega, 10 da Fratelli d’Italia, 7 da Forza Italia e 1 da Noi moderati. Mentre tra le file delle opposizioni, 100 emendamenti sono stati depositati dal Partito democratico, 97 dal Movimento 5 stelle, 48 da Alleanza Verdi e Sinistra, 20 da Italia viva, 12 da +Europa, 8 dal gruppo Misto e 2 da Azione. La discussione, che inizierà martedì prossimo, non si preannuncia breve, e solo dopo l’appuntamento elettorale si tornerà a parlare di questo pacchetto di modifiche in materia penale. Ha espresso, per questo, il proprio disappunto il responsabile Giustizia di Azione, il deputato Enrico Costa: “Il ddl Nordio, quello sull’abuso d’ufficio, ancora rinviato. Iscritto all’odg dell’aula Camera per lunedì 27 maggio per l’approvazione definitiva, il punto salterà e si andrà dopo le Europee. Sulla giustizia una maggioranza al rallentatore, tra indecisioni e rinvii”. Caso Contrada, la Cedu condanna l’Italia: “Basta abusare delle intercettazioni” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 maggio 2024 Per la Corte Europea la legge italiana non offre garanzie adeguate. L’avvocato Stefano Giordano chiederà un incontro con il ministro Nordio. In Italia l’autorità giudiziaria abusa delle intercettazioni senza alcun valido motivo e, come se non bastasse, non esistono rimedi interni alla nostra legislazione per opporsi. È per questo motivo che la Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo (Cedu) condanna il nostro Paese attraverso la sentenza Contrada contro Italia, che riguardava la liceità dell’intercettazione delle conversazioni telefoniche del ricorrente e la perquisizione della sua abitazione e di altri beni. Parliamo in particolare dell’operazione svolta dalla Procura generale di Palermo - titolari l’allora Procuratore generale Roberto Scarpinato (ora senatore del Movimento 5Stelle e componente della commissione Antimafia) e i sostituti Domenico Gozzo e Umberto De Giglio - la quale aveva disposto la perquisizione non solo dell’attuale abitazione dell’ex 007 Bruno Contrada, ma anche di altri due immobili, perché - scriveva la Procura - “esiste fondato motivo di ritenere, sempre sulla base di elementi acquisiti in questo procedimento, che Contrada abbia ancora la disponibilità di documenti”. Contrada, però, non faceva parte di alcun procedimento penale. Ovviamente fu un buco nell’acqua. Come rende noto l’avvocato Stefano Giordano del Foro di Palermo, il quale, assieme alla compianta avvocata Marina Silvia Mori del Foro di Milano, aveva promosso il ricorso, la Cedu ha ritenuto che vi sia stata violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della privacy, vita privata e corrispondenza) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo per quanto riguarda l’intercettazione e trascrizione delle comunicazioni telefoniche di Contrada. La Corte Europea dei Diritti Umani sottolinea che la legge italiana non offre garanzie adeguate ed effettive contro gli abusi nei confronti degli individui sottoposti a misura di intercettazione, ma che, poiché non sono indiziati né imputati della commissione di un reato, non sono parti nel procedimento. Sempre la Cedu osserva che per i malcapitati non è possibile rivolgersi all’autorità giudiziaria per un effettivo controllo della liceità e della necessità della misura e ottenere un risarcimento adeguato. In sostanza, si condanna un istituto che, così come di fatto applicato dall’Autorità giudiziaria, rappresenta la forma più inquietante dell’autoritarismo statale. Un principio reazionario che è l’opposto di quello liberale e garantito dalla nostra Costituzione. L’avvocato Stefano Giordano preannuncia che vorrebbe avere un incontro con il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, visto che questa sentenza della Cedu riguarda un tema molto dibattuto che dovrebbe essere a lui stesso sensibile. “Siamo molto soddisfatti, perché - al di là del caso concreto - la Corte ha individuato all’unanimità un vizio molto grave della legislazione italiana in materia di intercettazioni. La palla passa dunque alla politica, affinché riformi in senso liberale l’intera materia delle intercettazioni”, commenta l’avvocato. Ricordiamo che nel 2021, proprio a seguito del ricorso presentato dall’avvocato Giordano, ha chiesto allo Stato italiano di fornire risposta ad alcuni specifici quesiti, riguardanti la chiarezza e la precisione della legge italiana in materia di perquisizioni e intercettazioni; la necessità e la proporzionalità delle attività investigative svolte nel caso concreto; nonché la sussistenza nell’ordinamento interno di strumenti processuali idonei a contestare quelle attività. Le risposte non hanno soddisfatto e la Cedu, all’unanimità, ha emesso la condanna. Nel caso specifico, ricordiamo che tre sono state le perquisizioni effettuate nel giro di breve tempo a Bruno Contrada. L’ultima, risolta con l’ennesimo nulla di fatto, risale al 29 giugno del 2018. Documenti sequestrati? Un album fotografico con foto della Polizia di Stato, alcuni atti processuali pubblici, degli appunti per una bozza di lettera da inviare al magistrato Nino Di Matteo per alcuni chiarimenti. La perquisizione, come detto, era stata disposta dalla Procura generale di Palermo. Le altre due precedenti, avvenute nel giro di pochi giorni, erano state disposte dalla Procura antimafia di Reggio Calabria nel quadro di indagini su fatti di mafia e di ‘ndrangheta risalenti agli anni Novanta. In particolare, su un presunto rapporto di Contrada con Giovanni Aiello, risalente a circa 40 anni fa, quando dirigeva la squadra mobile di Palermo, dal 1973 al 1976. L’ex agente Giovanni Aiello, suo malgrado conosciuto come “faccia da mostro”, è morto di crepacuore qualche anno fa, era considerato una sorta di “anima nera” che, a parere di taluni magistrati - o meglio secondo un teorema però rimasto senza prove - sarebbe stato dietro a ogni strage di mafia degli ultimi decenni. Eppure non è mai stato rinviato a giudizio, ogni indagine è stata puntualmente archiviata per mancanza di qualsiasi indizio. Ma “faccia da mostro” rimane. “Contrada - aveva denunciato l’avvocato Stefano Giordano - continua a essere periodicamente sottoposto ad atti invasivi della sua vita personale e del suo domicilio (perquisizioni, intercettazioni), senza che a suo carico risulti essere pendente alcun procedimento penale”. Per questo motivo era stato introdotto un nuovo ricorso avanti alla Cedu per denunciare l’illegittimità sul piano convenzionale di una normativa (come quella italiana) che consente alla Pubblica Autorità di sottoporre indiscriminatamente ad atti invasivi della vita personale e del domicilio (quali perquisizioni, sequestri e intercettazioni) soggetti che non siano parte (né in veste di indagato, né in quella di persona offesa) di un procedimento penale e che si trovano per di più privati, in tal modo, delle garanzie che le norme interne e convenzionali pongono a tutela di chi sia formalmente accusato di un reato. I giudici di Strasburgo hanno emesso la condanna. Una questione che il Parlamento dovrà affrontare, magari attraverso l’introduzione di strumenti che permettano agli individui di difendersi da tali abusi. Dieci anni senza Andy. Un caso chiuso senza giustizia di Andrea Sceresini Il Manifesto, 24 maggio 2024 Sull’assassinio di Rocchelli e Mironov nel Donbass ad opera dell’esercito ucraino ora sappiamo tutto, ma riaprire il procedimento contro i responsabili in questo momento appare difficile. Secondo i genitori “prima o poi dovrà essere riaperto, e si dovrà agire contro i comandanti dei due reparti che quel giorno erano presenti sulla collina”. Oggi il ricordo del reporter a Pavia. Esattamente dieci anni fa, il 24 maggio del 2014, Andy Rocchelli e Andrej Mironov sono stati assassinati mentre facevano il loro dovere di reporter sul fronte di Sloviansk, in Ucraina. Oggi, nonostante il silenzio che avvolge questa vicenda, sulle loro morti sappiamo praticamente tutto, compresi i nomi di chi le ha provocate ma probabilmente non sarà mai condannato. Quel giorno Andy e Andrej erano in compagnia di un fotografo francese, il 23enne William Roguelon, che come loro era lì per documentare le sofferenze della popolazione civile durante gli scontri tra i miliziani pro-Putin e l’esercito di Kiev. Nel pomeriggio i tre erano saliti su un taxi e avevano raggiunto i sobborghi meridionali della città, all’epoca controllata dalle truppe separatiste. Il driver aveva posteggiato accanto al muro di cinta della fabbrica di ceramiche “Zeuss”, dopodiché i giornalisti si erano incamminati verso il passaggio a livello che separava gli avamposti filorussi dalle postazioni ucraine, attestate sulla vicina collina di Karachun. È stato in quel momento che qualcuno ha iniziato a sparare. I cronisti, assieme al tassista e a un abitante del luogo, si sono rifugiati in un fossato accanto alla strada, dove sono stati bersagliati da una fitta scarica di colpi di mortaio. “Fu una pioggia di 20-30 proiettili esplosi a ritmo serrato, con la chiara volontà di sopprimerci”, racconterà William, che ancora oggi porta sulle gambe i segni di numerose ferite. A pochi metri da lui, Andy e Andrej rimarranno uccisi sul colpo: Rocchelli aveva 30 anni, veniva da Pavia ed era stato tra i fondatori del collettivo Cesura; Mironov, classe 1954, era invece un dissidente russo impegnato nella difesa dei diritti umani. Tra il 2018 e il 2021 si è svolto in Italia un lungo e burrascoso processo a carico del soldato della Guardia nazionale ucraina Vitalij Markiv, che il 24 maggio si trovava con la sua unità sulla collina di Karachun. Accusato di “concorso in omicidio”, Markiv è stato prima condannato e poi assolto. Sia nella sentenza di primo grado che in quella d’appello, poi confermata dalla Cassazione, si afferma tuttavia che i colpi di mortaio che uccisero Andy e Andrej furono “sparati dalla collina Karachun ad opera dei militari dell’Armata Ucraina”, e che l’attacco avvenne “senza alcuna provocazione e offensiva”, in esecuzione di “un ordine illegittimamente dato dai comandanti” e “in violazione delle norme che mirano alla protezione dei civili”. A Karachun la Guardia nazionale non aveva in dotazione mortai, ma a presidio della collina c’era in quei giorni anche un secondo reparto, ben più numeroso e abbondantemente munito di artiglieria: la 95ma Brigata aviotrasportata dell’esercito ucraino. Sempre nel 2021, dopo infinite ricerche e numerosi buchi nell’acqua, con il collega Giuseppe Borello siamo riusciti a rintracciare uno dei reduci di quella formazione. L’uomo, che in seguito ha disertato e oggi vive in Europa occidentale, faceva parte della “Rozved rota”, la squadra delle sentinelle, e la sua trincea si trovava in una posizione esattamente frontale rispetto alla fabbrica “Zeuss” e al passaggio a livello verso il quale si erano incamminati Andy, Andrej e William. “Ho ancora la scena davanti agli occhi - ci ha raccontato nel corso di una lunga intervista poi trasmessa da RaiNews24 -. Alcuni civili erano scesi da una macchina e si erano gettati nel fossato, in mezzo alla boscaglia. Non so chi di noi li abbia avvistati, ma ricordo le parole del nostro comandante: “Quelle persone non devono stare lì”. Poi abbiamo iniziato a sparare con le armi pesanti”. E ancora: “Non so perché il nostro comandante abbia dato l’ordine di sparare. Non c’erano state provocazioni e quegli uomini erano vestiti in abiti borghesi, non rappresentavano una minaccia per noi. I primi colpi esplosero lontani, oltre la fabbrica di ceramiche, poi il tiro si spostò verso l’incrocio (dove era posteggiato il taxi, ndr), infine i proiettili si abbatterono sul fossato. Si sparò come si fa in guerra, per uccidere”. La dinamica descritta dal testimone coincide perfettamente sia con le ricostruzioni dei magistrati che con i ricordi di William Roguelon. Per uccidere Andy e Andrej, sempre secondo l’intervistato, i militari della 95ma Brigata avrebbero utilizzato un mortaio automatico di fabbricazione sovietica, il Vasilek, la cui presenza a Karachun è stata involontariamente confermata proprio da uno dei comandanti della Guardia nazionale, Andrej Antonishak, che nel 2021, durante un’intervista in difesa di Markiv, ha dichiarato: “Alla zona industriale (cioè nella zona della fabbrica di ceramiche, ndr) [i nostri soldati] usavano i Vasilek da 82 mm”. Eppure, nonostante tutto ciò, l’affaire Rocchelli è oggi un caso chiuso. Dopo l’inizio dell’invasione russa, nel febbraio di due anni fa, l’ipotesi di un nuovo processo appare addirittura utopistica, perché istruirlo significherebbe trascinare davanti alla sbarra gli ufficiali di un esercito alleato che il nostro Paese supporta politicamente e militarmente. A cominciare dall’ex comandante della 95ma Brigata, l’uomo che nel racconto del nostro testimone avrebbe dato l’ordine di sparare contro i giornalisti e che nel maggio 2014 era a capo di tutte le truppe ucraine presenti a Karachun: è il generale Mychajlo Zabrodskyj, che dopo essere stato eletto parlamentare nel 2019 (e aver fatto parte del Gruppo per le relazioni interparlamentari con la Repubblica italiana), tra l’aprile 2023 e il febbraio 2024 è stato promosso vice comandante in capo delle Forze armate di Kiev. Nella giornata di oggi, a Pavia, Andy Rocchelli sarà ricordato con numerose iniziative anche da chi, come noi, non ha avuto la fortuna di conoscerlo. “È importante che questa vicenda non venga dimenticata - dicono i genitori, Rino ed Elisa -. Il procedimento prima o poi dovrà essere riaperto, e si dovrà agire contro i comandanti dei due reparti che quel giorno erano presenti sulla collina. L’attacco contro i reporter è durato oltre mezz’ora, con la determinazione che nessuno dovesse uscirne vivo. È scandaloso che dopo dieci anni non si sia ancora fatta giustizia”. Difficile non dargli ragione. Torino. Detenuta di 64 anni si suicida in carcere. La Garante: “Da Nordio solo promesse” di Gianni Giacomino La Stampa, 24 maggio 2024 Gallo: “Il ministro dopo l’ispezione non ha fatto nulla”. Non ha retto al carcere e si è suicidata ieri mattina, nel bagno della sua cella della sezione femminile del carcere Lorusso e Cotugno. Mariassunta Pulito, 64 anni di Caltanissetta, era accusata assieme al marito di aver violentato il loro padrone di casa, un uomo di 65 anni Cogne. Era in custodia cautelare dal 26 marzo, quando era stata arrestata dai carabinieri. Alle 7,30 è stata trovata morta dagli agenti della polizia penitenziaria: si era soffocata con un sacchetto di plastica in testa e legato attorno al collo con un laccio. Secondo quanto ricostruito, ha aspettato che la sua compagna di cella uscisse per andare nel bagno e togliersi la vita. “Avevo avuto con lei un colloquio telefonico mercoledì mattina - racconta l’avvocato Massimiliano Bellini, del foro di Caltanissetta - era scoraggiata, non si capacitava perché fosse ancora in carcere dopo due mesi. Lei ha sempre proclamato la sua innocenza ed era molto provata”. “Avevo appena presentato la nuova istanza di scarcerazione, chiedendo di nuovo i domiciliari a Caltanissetta per lei e il marito continua l’avvocato - Tutte le istanze sono state respinte. Privare una persona della libertà senza una condanna definitiva non solo mina la presunzione di innocenza, ma può anche infliggere sofferenze psicologiche insopportabili”. “Ho incontrato quella donna la mattina di Pasqua. Mi è rimasta impressa perché era molto composta. Era solo preoccupata per il marito. Perché voleva sapesse che lei dal carcere di Brissogne era stata trasferita in quello di Torino, niente di più”. Monica Gallo, garante comunale per i diritti dei detenuti ricorda così Mariassunta Pulito. L’ennesima detenuta che si è suicidata in una cella delle Vallette. “È la quarta negli ultimi due anni - scuote la testa la Gallo - un numero sconcertante. Ad agosto era venuto in visita nella sezione femminile il ministro della Giustizia Nordio facendo promesse di miglioramento delle condizioni. È passato un anno e non è successo nulla. Anche le agenti della penitenziaria sono disperate perché con le recluse si instaura comunque un rapporto umano”. Come quello che avevano con Susan John, 43 anni, di origine nigeriana, che si lasciò morire di fame e di sete. E con Azzurra Campari, 28 anni, trasferita da Genova, dal penitenziario di Ponte Decimo, che si impiccò. Tre tragedie in nove mesi. Troppe. Per questo ieri Felice D’Ettore il garante nazionale per i diritti dei detenuti ha chiesto approfondimenti sul suicidio della donna e gli investigatori della Procura torinese hanno sequestrato il fascicolo della vittima. “Non mostrava sofferenze e non aveva mai manifestato intenzioni suicide - continua Gallo - ma solo lei sapeva davvero cos’aveva in fondo al cuore”. “Dopo i due suicidi a distanza di pochi giorni avvenuti a Torino lo scorso agosto il ministro Nordio promise un intervento sulle telefonate in carcere. Rimasto sulla carta. C’è invece bisogno di un intervento di liberalizzazione delle telefonate - attacca Patrizio Gonella, il presidente di Antigone -. Si vari una commissione di inchiesta su queste morti in carcere. Si assumano mille educatori e si investa sulle misure alternative per deflazionare il sistema che oggi ha circa 13 mila detenuti in più rispetto alla capienza effettiva”. A Torino su 1035 posti sono reclusi 1448 detenuti. Nella sezione femminile sono invece detenute 133 donne su un centinaio di spazi. “Siamo al trentaseiesimo suicidio in carcere dall’inizio del 2024 - sbotta il segretario generale del sindacato Osapp Leo Beneduci - è inconcepibile che responsabili politici quali il ministro Nordio ed il sottosegretario delegato Delmastro non si rendano conto del significato e delle cause che stanno provocando una vera e propria strage nelle carceri”. Roma. Detenuto in sciopero della fame da tre mesi, chiede di essere ascoltato di Andrea Ossino La Repubblica, 24 maggio 2024 La storia di Massimiliano Sparacio, condannato a 30 anni di carcere per l’omicidio di Luca Palli, l’uomo che lo perseguitava. Adesso non mangia, scrive al governo e chiede che venga raccontata tutta la verità. Rinchiuso nella cella in cui dovrà trascorrere 30 anni della sua vita, Massimiliano Sparacio non mangia. Da tre mesi è in sciopero della fame. Perché dopo aver invano scritto lettere al presidente del Consiglio Giorgia Meloni e ai ministri Matteo Salvini e Carlo Nordio, ha pensato che questo fosse l’unico modo per essere ascoltato. Il detenuto di 54 anni non rinnega le sue azioni. Ammette di aver ucciso un uomo, nel 2017, fuori da un bar di Aprilia. Ma chiede che venga raccontata tutta la verità, e non solo una parte. “Io non cerco scuse per quello che è accaduto, di sbagli ne ho commessi anche io ed è giusto che paghi, ma dire che volevo uccidere non ci sto”. Nessuna premeditazione, dice il detenuto. Piuttosto una reazione all’ennesimo pestaggio in vista, all’ennesima minaccia, dopo aver visto una mano mimare il gesto della pistola sulla fronte di sua figlia di sei anni. Perché la vittima di Sparacio, Luca Palli, il cui nome viene fatto anche da gente finita in indagini di mafia, da anni perseguitava il detenuto. Nulla che giustifichi il suo gesto ma per capire le cose occorre conoscere anche l’antefatto. Inizia in un bar di Aprilia, in via Inghilterra, dove un giorno di 9 anni fa sono scomparsi diversi Gratta e Vinci. In realtà già da tempo qualche ammanco aveva insospettito il titolare, il signor Sparacio. E per questo dopo l’ennesima sparizione aveva licenziato una ragazza assunta da poco. Un affronto, secondo l’ex compagno della dipendente, Luca Palli. Da quel momento Sparacio ha subito l’ira dell’uomo. Le cronache raccontano di incendi, minacce, richieste di denaro, aggressioni, massacri e sequestri. L’uomo era stato costretto anche a chiudere la sua attività per non avere problemi. Non bastava. I soprusi continuavano. Gli atti parlano di denunce presentate e ritirate. Di nessun intervento da parte delle forze dell’ordine. Un giorno, dopo aver fatto colazione, Palli aveva fermato Sparacio mentre era ancora con le sue figlie di 6 e otto anni. “Disse che era meglio per la mia famiglia se pagavo l’importo intero”, dice il detenuto ricordando di come Palli pretendesse 30 mila euro e di come quel giorno si fosse allontanato mimando il segno pistola alla figlia. La goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il barista si procura una pistola e accompagnato da un amico decide di intervenire in prima persona. Arriva fuori da un locale dove Palli stava facendo colazione. Lui la racconta così: “Poi uscì Luca dal bar e io lo chiamai, quando mi ha visto si è imbestialito, ha aperto la macchina, ha preso la mazza da baseball e si è messo a correre verso di me. Gli ho detto di fermarsi per chiarire, lui ha continuato a correre, io gli ho detto che ero armato, lui mi disse ‘ma che vuoi spara’ mo’ ti ammazzo’. Io quando mancavano 4 metri ho preso la pistola che stava sotto la macchina. Non ho capito più niente”. In aula la teoria della legittima difesa non ha retto. Sparacio è stato condannato a 30 anni di carcere. Lo accetta ma una cosa ancora non si spiega: perché nessuno è intervenuto prima che tutto ciò accadesse? Brescia. Minori autori di reato, al via progetto di giustizia riparativa all’Università Cattolica Corriere della Sera, 24 maggio 2024 Per ogni minore sarà realizzato un piano educativo che potrà prevedere azioni socialmente utili per l’apprendimento e lo sviluppo di competenze e abilità. Il progetto di giustizia riparativa è della Cattolica di Brescia e i minori saranno seguiti da un’equipe di giovani professionisti, composta da studenti di una Scuola di specializzazione della facoltà di Psicologia con la partecipazione della Direzione generale per la Giustizia minorile e di comunità del Ministero. Per ogni minore sarà realizzato un piano educativo che potrà prevedere azioni socialmente utili per l’apprendimento e lo sviluppo di competenze e abilità: supporto all’attività di ricerca (trascrizione di interviste, inserimento dati, correzione bozze, ricerche bibliografiche) e affiancamento logistico nella realizzazione di eventi scientifici e culturali. “Ciò costituisce non solo un aspetto del tutto nuovo e mai sperimentato a livello nazionale, ma rappresenta un elemento di valore specifico, sia per quanto riguarda la possibilità di validare scientificamente il modello di intervento, sia perché promuove l’attivazione trasversale di aspetti sociali e culturali e facilita poi la disseminazione e la generalizzazione dei risultati ottenuti” ha spiegato Giancarlo Tamanza, coordinatore del progetto. Torino. Studiare dietro le sbarre, “chiave” per tornare liberi di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 24 maggio 2024 “Io sono il frutto di tutto quello che è stato illustrato finora: non sarei la persona che sono se non avessi avuto la possibilità di studiare in carcere durante la mia detenzione”. Con il suo intervento, molto apprezzato, Roberto Gramola, laureato al Polo Universitario per detenuti del Carcere di Torino, da tempo volontario alla Caritas diocesana e collaboratore del nostro giornale, ha chiuso il terzo incontro promosso dall’Opera Barolo in collaborazione con “La Voce e Il Tempo”, nell’ambito delle iniziative per il 160° anniversario della morte della marchesa Giulia Falletti di Barolo, che si spese per il reinserimento nella Torino dell’Ottocento delle detenute. Tema della conferenza, in programma venerdì scorso, “Cultura, studio e formazione professionale in carcere”, per evidenziare come la scuola è tra i fondamenti per rispondere a quanto richiesto dalla nostra Costituzione all’articolo 27: “Le pene… devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ne hanno parlato, moderati da Maria Teresa Pichetto, docente e tra i fondatori del Polo universitario per detenuti del penitenziario di Torino, Anna Maria Poggi, ordinario di Diritto costituzionale nell’Ateneo torinese e consigliera dell’Opera Barolo; Franco Prina, docente di Sociologia della devianza e presidente della Conferenza nazionale universitaria Poli penitenziari; Marzia Sica, responsabile del progetto “Obiettivo persone” della Fondazione Compagnia di San Paolo e Silvia Sobrero, direttrice progettazione e attuazione della Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri. Anna Maria Poggi ha introdotto ricordando che la riforma dell’Ordinamento carcerario del 1975 ha apportato maggiore attenzione all’aspetto rieducativo del periodo detentivo. “Ma davvero nelle nostre carceri le opportunità di studio sono strumenti per “dare senso all’esperienza difficile che vivono i reclusi?”, ha chiesto ai relatori, “sono opportunità di riscatto, di riflessione per riprendere in mano la propria vita e prospettarla al futuro? Questo non solo per il valore materiale che un diploma o una laurea possono avere o la loro spendibilità, ma per l’immagine differente da quella che di solito accompagna gli ex detenuti, etichettati come scarto della società”. Per Roberto Gramola, che ha richiamato che la recidiva nel nostro Paese al 70% sfiora lo zero per chi si laurea dietro le sbarre, la risposta è sicuramente affermativa: “per me scegliere di studiare in carcere è stata la leva del cambiamento”. Sì perché, come ha evidenziato Franco Prina, se l’art. 3 della Costituzione garantisce a tutti il diritto allo studio è un dovere della Repubblica garantirlo anche ai detenuti, offrendo opportunità di autoeducazione e crescita personale: questo è lo studio dietro le sbarre. Conferma Marzia Sica - la Compagnia di San Paolo sostiene fin dalla fondazione il Polo Universitario per detenuti alle Vallette, il primo aperto in Italia negli anni 80 del secolo scorso - che ha illustrato i numerosi progetti che la Fondazione finanzia in carcere. Tra questi il “Progetto Lei” grazie al quale 75 donne hanno trovato lavoro nel Penitenziario torinese e 45 fuori. Anche la Casa di Carità Arti e Mestieri è impegnata nelle carceri del Piemonte, tra cui il “Lorusso e Cutugno”, nell’erogazione di corsi di formazione professionale per 600 reclusi ogni anno, come ha spiegato Silvia Sobrero, una garanzia a fine pena di inserimento nel mondo del lavoro grazie ai tirocini in azienda. Insomma lo studio è chiave di volta per tornare liberi lasciandosi alle spalle i reati e ricominciare a vivere “da buoni cittadini”. Il ciclo di incontri sulla detenzione riprenderà venerdì 20 settembre alle 17 sempre a Palazzo Barolo sul tema “Il volontariato in carcere”. Pesaro. “Dal paradosso all’utopia (possibile): il carcere come luogo di cultura” Il Resto del Carlino, 24 maggio 2024 Ilaria Cucchi terrà una lectio magistralis su come trasformare il carcere in luogo di cultura per favorire il reinserimento sociale dei detenuti. La senatrice e attivista per i diritti umani riflette sulle sfide attuali e l’importanza di un nuovo approccio educativo. S’intitola “Dal paradosso all’utopia (possibile): il carcere come luogo di cultura” la lectio magistralis che Ilaria Cucchi terrà oggi alle 18 a Palazzo Gradari nell’ambito di “Incontri capitali”. Senatrice, vicepresidente della Commissione Giustizia e attivista per i diritti umani, Cucchi rifletterà su come le strutture penitenziarie siano diventate, troppo spesso, ‘non luoghi’ dove è sempre più difficile operare per favorire l’inserimento del detenuto nella società. Una situazione legata ad alcuni paradossi: rispetto a un aumento della popolazione detenuta diminuiscono i servizi di supporto da parte dello Stato; a una centralità del ruolo delle carceri nella propaganda politica, corrisponde una grande distanza, politica e sociale, rispetto alla vita delle nostre città. La lectio approfondirà l’importanza di recuperare il ruolo educativo dell’istituto penitenziario nell’ottica di un nuovo approccio che ci permetta di ricostruire un’utopia possibile e necessaria. Dopo la morte di suo fratello Stefano nel 2009 mentre era sottoposto a custodia cautelare, Ilaria Cucchi ha intrapreso una lunghissima battaglia giudiziaria: “Ho fatto avanti e indietro dalle aule dei tribunali per 13 anni. Per Stefano, per gli ultimi e perché venisse ristabilito l’onore delle istituzioni nelle quali non ho mai smesso di credere”. Oggi è forte il suo impegno per fa sì che quelle istituzioni si prendano cura di chi ne ha più bisogno. Per ‘Incontri capitali’ inoltre lunedì 27 Goffredo Bettini presenta il suo libro “Attraversamenti. Storie e incontri di un comunista e democratico italiano” (PaperFIRST) in dialogo col sindaco Matteo Ricci ed il parlamentare Claudio Mancini (Palazzo Gradari, ore 18.30); venerdì 31 (h 17.30 - Palazzo Gradari) Jacopo Fo con la lectio magistralis ‘La scienza dei giullari’. Macerata. Il carcere di oggi visto da Livio Ferrari Il Resto del Carlino, 24 maggio 2024 Il giornalista e scrittore Livio Ferrari presenterà il suo libro sul carcere in Italia a Recanati. Critica la situazione carceraria per l’odio e la violenza presenti, sottolineando la mancanza di trasparenza e di rispetto dei diritti. Oggi alle 18,45 nella libreria caffè Passepartout di Recanati verrà presentato il volume “Il carcere in Italia oggi - Una fotografia impietosa” (Apogeo Editore, 2024). Sarà presente l’autore Livio Ferrari che dialogherà con il giornalista Italo Tanoni. Livio Ferrari è giornalista, scrittore e cantautore, esperto di politiche penitenziarie, fondatore e direttore dal 1988 dell’Associazione di volontariato Centro Francescano di Ascolto di Rovigo, fondatore e portavoce del Movimento No Prison dal 2019, direttore responsabile della rivista dei detenuti del carcere di Rovigo Prospettiva Esse dal 1997, autore di numerosi libri e di album musicali. È anche ideatore e regista dal 2006 dello spettacolo Il carcere in piazza. Secondo lo scrittore rodigino, le carceri italiane, sono lastricate di odio e violenza, dentro un elenco infinito di vittime, ed è ormai dimostrato che le leggi da sole non sono sufficienti a tutelare le persone che hanno perso la libertà, in quanto il carcere è un luogo così chiuso che parlare di trasparenza, quella che invece dovrebbe esserci in quanto siti di esecuzione della giustizia, è impossibile e impraticabile, i muri che lo determinano sono il primo e fondamentale elemento di lontananza dalla città libera e dalle garanzie di rispetto dei diritti. Pistoia. Le voci dal carcere con il giornalista Aleotti La Nazione, 24 maggio 2024 Presentazione del libro “Che sapore hanno i muri” di Paolo Aleotti a Montale, dando voce ai detenuti e alle loro storie, con la partecipazione di personalità e educatori. Stasera alle 21, alla villa Smilea di Montale si terrà la presentazione del libro “Che sapore hanno i muri” del noto giornalista Rai Paolo Aleotti. Il libro dà voce ai detenuti e alle detenute con il racconto delle loro storie fuori e dentro il carcere ma soprattutto dei loro sogni per il domani. Sarà presente l’autore del libro ed è prevista la partecipazione di personalità ed educatori del carcere di Prato e della società civile. Aleotti dialogherà sui temi del libro con Elisa Chiappinelli della lista Montale Rinasce, che ha organizzato l’evento. Voce e volto della televisione italiana, Paolo Aleotti dal 1990 al 2001 diviene Corrispondente dagli Stati Uniti per il Giornale Radio e per il Tg1/Tg2/Tg3. Dal 2001 è capo della redazione Cultura e Spettacoli del GrRai1/2/3. Dal 2007 è curatore di “Che Tempo Che Fa”, su Rai3, condotta da Fabio Fazio. Milano. “Wait”, un musical fatto da ragazzi. Direttore artistico del progetto è Davide Mesfun Corriere della Sera, 24 maggio 2024 Chi arriva da comunità minorili penali, chi dalla strada e altri sono universitari. Il 31 maggio al Teatro Guanella di via Duprè a Milano. Coordinamento di un ex detenuto che durante questo percorso è tornato libero, dopo 24 anni. Si chiamano con nomi o soprannomi talora strani tipo Yena, Mehru, Gabe, Aba. Sono un gruppo di ragazze e ragazzi provenienti da comunità minorili penali o dalla strada. Nel senso di strada abbastanza fuori dalla Cerchia dei Navigli e anche dai Bastioni, se non si capisce. Ma ci sono anche giovani universitari, nel caso specifico della Bicocca. E perfino un’assistente sociale in erba. Gli uni e gli altri non si erano mai incontrati prima. Italiani e stranieri, naturalmente: differenza per loro del tutto irrilevante ma ok, diciamolo lo stesso per la cronaca. E diciamo che un giorno hanno cominciato a trovarsi, e piano piano hanno scritto una storia. La loro. E poi altri, studenti di una scuola di musica, si sono messi lì a trasformare quel testo in canzoni. Testo che poi insieme hanno cominciato a provare. Per recitarlo, suonarlo, cantarlo. E infine, dopo nove mesi di lavoro partito veramente da zero, portarlo in scena. Un musical. E adesso possiamo dire anche questo: un musical rap. Ma con dentro rock, funcky, soprattutto un sacco di cuore e verità. Il tutto con il coordinamento di un ex detenuto che proprio durante questo percorso è tornato finalmente del tutto libero, dopo una pena durata 24 anni. Ecco: il risultato di questo mix ha per titolo Wait ed è quello che debutterà venerdì 31 maggio al Teatro Guanella di via Duprè, zona McMahon. Biglietti su Eventbrite, diciamo subito anche questo. Un fatto d’arte e musica, certo. Ma con una componente di integrazione sociale fortissima. Anima e direttore artistico del progetto è Davide Mesfun, il coordinatore di cui si è appena detto, approdato al teatro nel corso della sua esperienza carceraria, accanto a Nicola Dané nella scrittura-revisione dei testi; con la regia di Claudio Raimondo; con la supervisione musicale a distanza di Franco Mussida i cui allievi del Cpm hanno scritto - e suoneranno dal vivo con la loro band, e interpreteranno con il loro coro - tutte le musiche; con le coreografie di Ada Debora Risi. Per una produzione curata da Le Belle Arti Aps e Cpm. E la collaborazione dell’associazione Amici della Nave nella prospettiva - comunque la speranza - di potere replicare presto lo spettacolo anche all’interno del carcere di San Vittore con il Coro La Nave. Il musical fa parte della rassegna Musicami promossa e sostenuta da Fondazione di Comunità Milano, con oltre 500 giovani tra i 15 i 24 anni coinvolti direttamente nell’ideazione e allestimento di sei spettacoli in tutto tra teatri, piazze, spazi culturali dell’area milanese. I primi due - Pagina 64 e Sogno di una notte d’estate - già andati in scena il 5 e il 9 maggio; il prossimo - Il giorno più bello della nostra vita - il 28 maggio al Teatro Delfino; quindi appunto Wait il 31 al Guanella; per chiudere l’8 e il 19 giugno con Trap Community Opera e Forest rispettivamente al Base di via Bergognone e al Cristallo di Cesano Boscone. La storia di Wait? Nove ragazze e ragazzi che aspettano a teatro, per motivi diversi, un certo Davide che non arriva mai. Nell’attesa si conoscono, recitano, litigano, si scontrano… ma poi anche giocano, cantano, rappano. E l’attesa di Davide, come quella di un Godot post-moderno, diventa la metafora di quell’attesa più grande che è la vita: in cui il verbo aspettare può non essere semplicemente un atto passivo, ma trasformarsi nella continua scoperta di “incontri ai quali andare incontro”. E che la vita te la possono veramente cambiare. Lo spettacolo tocca molti dei temi, anche drammatici, che ritroviamo spesso sui giornali come fatti di cronaca quando si parla dei giovani. Ma riesce a farlo con leggerezza e molta ironia, pur nella sua intensità. Diritto di cronaca negato: perquisiti e trattenuti per 3 ore nella “celletta” del commissariato di Annalisa Godi Il Domani, 24 maggio 2024 La Questura: “Non hanno dichiarato di essere giornalisti”. Nittoli, Barsoum e Di Matteo sono stati fermati ieri a Roma mentre stavano andando a seguire un’iniziativa di “Ultima generazione”, che manifestava di fronte al ministero del Lavoro. La polizia ha impedito loro di svolgere il loro mestiere: identificati, perquisiti e messi nella cella di sicurezza. Il fotoreporter Serranò: “Mai visto qualcosa del genere”. Dopo i casi di Messina e Padova è successo anche a Roma. Tre giornalisti sono stati fermati dalla polizia mentre seguivano la manifestazione di Ultima generazione, il gruppo che si batte contro i cambiamenti climatici con atti di disobbedienza civile non violenti. Poi sono stati identificati, portati in caserma e perquisiti. Protagonisti della vicenda sono la giornalista del Fatto quotidiano Angela Nittoli, il fotografo del Corriere della Sera Massimo Barsoum e il video maker freelance Roberto Di Matteo. I tre sono stati fermati poco dopo le 10 di giovedì mattina vicino a via XX settembre mentre stavano andando a seguire un’iniziativa di Ultima generazione, che manifestava di fronte al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, alla quale poi non hanno potuto assistere. Nittoli, Barsoum e Di Matteo si sono imbattuti in un gruppo di poliziotti e di agenti in divisa che dapprima hanno chiesto loro i documenti. I colleghi si sono subito identificati come giornalisti e hanno fatto vedere i tesserini. Una vicenda in cui non c’era rischio di fraintendimento. Trattenuti e perquisiti - Dopo un primo controllo in strada sono stati portati nel commissariato di zona dove la polizia li ha trattenuti per circa mezz’ora: Nittoli, Barsoum e Di Matteo non hanno potuto usare il proprio cellulare. “Continuavano a dirci: “Aspettate dieci minuti, poi vi lasciamo andare” ha raccontato Nittoli. Poco dopo, è arrivata una volante su cui i giornalisti sono stati fatti salire, gli agenti hanno detto loro di mettere i telefoni e gli zaini con l’attrezzatura nel bagagliaio dell’auto. Arrivati nel commissariato di Castro Pretorio, Nittoli è stata accompagnata in bagno da una poliziotta che non le ha consentito di chiudere la porta. Gli agenti l’hanno perquisita fisicamente e poi hanno controllato zaino e marsupio. Nittoli, Barsoum e Di Matteo sono stati portati in una cella di sicurezza molto piccola. La porta è rimasta aperta, ma i tre venivano controllati a vista dai poliziotti. Alla loro richiesta di essere spostati in sala d’attesa, visto che al commissariato iniziavano ad arrivare anche gli attivisti di Ultima generazione, la polizia ha detto loro che non stavano sporgendo denuncia, ma su di loro stavano effettuando dei “controlli di sicurezza”. Dopo un paio d’ore la polizia ha rilasciato i giornalisti, non consentendo loro di documentare l’azione degli attivisti, che nel frattempo era avvenuta. Nittoli parla di “sorveglianza” per descrivere il tempo che ha passato in commissariato. “Faccio questo lavoro da venti anni e non mi era mai capitato di essere trattenuta dalla polizia, sono stata identificata altre volte ma mai portata in commissariato”, ha commentato Nittoli. L’attacco alla stampa - Ultima generazione in un comunicato definisce l’episodio come “ennesimo atto intimidatorio che dipinge la caduta di un pilastro fondamentale della nostra democrazia: la libertà di stampa”. “Non può passare nel silenzio questo atto di chiara intimidazione nei confronti di operatori dell’informazione”, ha commentato la rete No Bavaglio riguardo alla vicenda che ha coinvolto i giornalisti. “Un atto autoritario che vuole chiaramente comprimere e condizionare la libertà dei giornalisti di documentare e raccontare il dissenso nel nostro Paese”. Ma questo non è stato l’unico caso in cui i giornalisti sono stati fermati: a Messina a novembre 2023 e a Padova ad aprile di quest’anno si è ripetuta la stessa cosa: due giornalisti sono stati fermati dalla polizia e sono stati trattenuti per ore nei commissariati locali, senza la possibilità di utilizzare il telefono. Mentre Pd, M5s e Avs chiedono al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi spiegazioni sull’accaduto, Alessandro Serranò, fotoreporter di Agf, ha descritto l’azione della polizia: “La polizia è stata più repressiva oggi, stavano aspettando i manifestanti per prevenire l’azione ma l’hanno fatto male: hanno buttato a terra gli attivisti e poi ne hanno ammanettati quattro. Non ho mai visto la polizia farlo, nemmeno durante gli scontri con i black bloc. In vent’anni di lavoro non ho mai visto mettere le manette a nessuno”. Dura la reazione della Federazione nazionale della stampa: “Il caso di Roma è il terzo in pochi mesi. In precedenza c’erano stati quelli di Messina e Padova, dopo i quali Fnsi e Ordine dei giornalisti avevano chiesto un incontro con il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi”. Il sindacato spiega che “dopo quello che è accaduto oggi, appare invece evidente che esista una linea di intervento per scoraggiare i cronisti dal documentare i blitz di questi attivisti”. Un’ipotesi smentita però dal Viminale: se la questura di Roma ha spiegato che i tre cronisti sono stati portati in commissariato perché “non hanno dichiarato o dimostrato di essere giornalisti”, a differenza di altri colleghi che “hanno continuato a fare il loro lavoro” dopo il controllo, il dipartimento di polizia ha chiarito che non esiste alcuna nuova “modalità operativa”. Diritti dello straniero, libertà di opinione. Cosa ci consegna il caso Seif Bensouibat di Luigi Manconi, Marica Fantauzzi, Chiara Tamburello Il Manifesto, 24 maggio 2024 Il cittadino algerino, rifugiato politico e con un lavoro di educatore, ha perso tutto e rischia ancora di essere espulso per dei commenti disgraziati su una chat privata. C’è da domandarsi se per conservare il diritto di asilo sia necessario nel nostro Paese non solo rispettare le leggi, ma anche adeguarsi a una sorta di conformismo ideologico. Il conflitto in Medio oriente determina alcune conseguenze emotive nella coscienza comune del nostro paese, tra cui la sensazione di minaccia per una possibile espansione bellica, il desiderio di accelerare la fine della tragedia e l’angoscia per il numero crescente di vittime civili. L’insieme di queste fratture emotive ricade dolorosamente sulle biografie individuali e collettive delle società anche indirettamente coinvolte, come quella italiana. In Europa e negli Stati uniti il dibattito attorno alla tutela dei diritti umani assume contorni diversi ma persiste un tratto comune: l’utilizzo del proprio corpo, inteso come organismo individuale e collettivo. L’intensificarsi delle aggressioni da parte dello Stato israeliano nei confronti del popolo palestinese sta turbando l’opinione pubblica globale e in molti istituti scolastici, di ogni ordine e grado, si sono verificate significative proteste come non avvenivano da decenni: a partire dagli atenei e dai licei e fino ad alcune scuole elementari. Fin qui si osserva un corpo collettivo che si assembra e si mobilita per chiedere la fine del massacro in corso e il raggiungimento di alcuni obiettivi essenziali. Tutto ciò rifletterebbe il lato migliore delle democrazie contemporanee, quello che garantisce la libertà di espressione e di parola, di pensiero e di riunione. E che coinvolge direttamente la dimensione pubblica dell’organizzazione sociale. Ma c’è un’altra dimensione, che si potrebbe chiamare oscura se non fosse ormai così vivida e cristallina, e che risiede nei tentativi di mortificazione di questi stessi principi fondativi del sistema democratico. Tentativi che rimandano a un rifiuto sprezzante, per esempio, delle ragioni della protesta studentesca, ridotta a prodotto di “professionisti della materia che provocano le forze dell’ordine nella speranza che qualcosa vada storto” (Giorgia Meloni). Ma altrettanto disprezzo si manifesta in vicende dove sono la libertà individuale e i diritti fondamentali della persona a risultare sotto attacco. È il caso di Seif Bensouibat. Riassumiamo la sua vicenda. Bensouibat è un cittadino algerino, rifugiato politico in Italia dal 2013, che per circa dieci anni ha lavorato come educatore nell’istituto superiore francese Chateaubriand di Roma. Dopo aver visto le immagini, provenienti dalla Striscia di Gaza, relative all’uccisione di migliaia di bambini e di vittime civili, l’uomo condivide alcuni post privati in cui si esprime con risentimento nei confronti dei paesi occidentali, alleati di Israele, e a favore di Hamas. Tutto ciò in una chat non pubblica, visibile solo a chi ha accesso al profilo di Bensouibat. La segnalazione di questa condivisione ha causato prima la sospensione dal lavoro e poi il definitivo licenziamento da parte dell’autorità scolastiche. Poi, una perquisizione domiciliare a opera della Digos di Roma allo scopo di ricercare armi ed esplosivi. Perquisizione che non ha avuto alcun esito. Pochi giorni dopo Bensouibat viene informato dell’avvio a suo carico di una indagine penale e del procedimento di revoca dello status di rifugiato. Trascorrono alcuni mesi e la storia di Bensouibat assume tratti ancora più preoccupanti. Pochi giorni fa, la polizia di Stato gli comunica la conferma della revoca dello status di rifugiato: viene prelevato e portato prima all’ufficio immigrazione e, poi, nel Cpr di Ponte Galeria, alla periferia di Roma. La motivazione del provvedimento consisterebbe nella presunta pericolosità di Seif e nel suo possibile coinvolgimento nel “fenomeno del terrorismo religioso di matrice jihadista, dei lupi solitari e della radicalizzazione islamica”. Il 20 maggio scorso la misura del trattenimento nel Cpr non è stata confermata dal giudice della convalida e, ora, i legali di Seif Bensouibat hanno un mese di tempo per ricorrere contro il decreto di espulsione. Restano irrisolte le grandi questioni di principio che questa vicenda evoca. Ovvero: le parole di Seif Bensouibat integrano la fattispecie del reato di opinione? E, nel caso, una simile violazione può incrinare il fondamentale diritto, costituzionalmente protetto, e così limpidamente espresso all’articolo 10: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica”? Ancora: Seif Bensouibat è indagato per “propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”. L’uomo ha già chiarito, pubblicamente, il motivo di quelle frasi e ne ha preso nitidamente le distanze. Dunque, c’è da domandarsi se lo straniero, perché possa conservare lo status di rifugiato debba, oltre che rispettare le leggi italiane, adeguarsi a una sorta di conformismo ideologico. Un conto è non condividere le opinioni di Seif Bensouibat e un conto assai diverso, e insidioso, è pretendere di controllarne e censurarne gli stati emotivi, i sentimenti, la sofferenza. Cara Segre, perché l’odio contro gli ebrei ritorna di Gad Lerner Il Fatto Quotidiano, 24 maggio 2024 Cara Liliana Segre, l’amarezza e il senso di sconfitta che hai confidato martedì al convegno sul nuovo antisemitismo tenutosi nello stesso luogo, Binario 21, da cui tredicenne venisti deportata a Auschwitz, non può lasciare indifferente chi ti ammira e ti vuole bene. Anch’io provo il timore che la memoria della Shoah - componente imprescindibile della nostra coscienza morale e democratica - si estingua in un magma di diffidenza e incredulità sol perché fra le nuove generazioni alligna il sospetto che essa venga perpetuata al fine di legittimare i crimini commessi dal governo israeliano eccedendo il suo diritto all’autodifesa. Condivido il timore di Enzo Traverso: se prendesse il sopravvento la convinzione che la memoria della Shoah è solo un espediente utilizzato per giustificare soprusi inaccettabili, ne deriverebbe un grave imbarbarimento delle coscienze, di cui non solo gli ebrei tornerebbero a diventare vittime. È vero, stiamo correndo questo pericolo. Hai ricordato, Liliana, l’altra sera: “Quando ho cominciato ad andare nelle scuole e negli atenei i ragazzi mi ascoltavano e facevano domande anche molto interessanti, in me aprivano orizzonti”. Per poi aggiungere amaramente, commentando le proteste studentesche in solidarietà con i palestinesi: “Anche la gioventù, in pochi hanno studiato, e vanno nelle università a gridare”. Vorrei dirti, cara Liliana, che ci sarà pure un perché se ad accamparsi e a gridare anche slogan sbagliati sono gli stessi ragazzi che hanno ascoltato con rispetto e accorata partecipazione le tue testimonianze. Che tu stessa hai saputo attualizzare sollecitandoli al rispetto dei diritti umani e alla vigilanza contro ogni forma di razzismo, sopraffazione, linguaggio dell’odio. L’averti nominata senatrice a vita, suscitando il dispetto dei nostalgici e degli smemorati, è stato uno degli atti più significativi del presidente Mattarella. Ora la guerra di Gaza sembra travolgere i nostri punti di riferimento; ma non credo che il senso di giustizia che scuote la gioventù dei paesi occidentali, e la disperazione dei nostri concittadini immigrati di origine araba, meritino di essere liquidati in toto come rigurgito di antisemitismo. Lo vedo anch’io, ne sono anch’io non solo da oggi bersaglio minore. Ma limitarsi a lanciare un anatema - so che non era questa la tua intenzione - ostacolerebbe il dialogo di reciproca comprensione in cui sei maestra. Comprendo e condivido la tua ripulsa per l’abuso della parola “genocidio”, da te vissuto come “blasfemo”. Mentre non esito a evocare due reati contemplati dal diritto internazionale come “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità” a proposito del modo in cui il governo israeliano ha scelto di reagire al massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre. Tu, cara Liliana, ebrea italiana, hai pieno diritto a protestare quando vengono a chiederti conto dei comportamenti di Netanyahu o di chi per esso. Hai espresso la tua angoscia per tutte le vittime di questa orrenda guerra. So che provi il mio stesso turbamento e le stesse lacerazioni sofferte dagli ebrei di tutto il mondo, trepidanti per la sorte di Israele ma anche per i suoi terribili errori che ci costa fatica denunciare. Hai da poco tenuto un discorso esemplare al Senato su un tema politico italiano: i pericoli del premierato. Nessuno può importi di intervenire anche nel merito della guerra in corso e sui pronunciamenti dell’Onu. Ma resta il fatto che il nuovo antisemitismo si nutre di queste gravissime circostanze; e se molti purtroppo cadono nella trappola dei vecchi pregiudizi è anche per la reticenza opposta alle voci critiche che pure non mancano nel mondo ebraico. Quando si reagisce scompostamente all’indignazione per quel che accade a Gaza e in Cisgiordania, si ottiene l’effetto opposto a quello desiderato. Incontro ogni giorno persone che patiscono come offesa cocente l’accusa di antisemitismo. Talora, inconsapevolmente, calpestano la nostra sensibilità. Altri, una minoranza, ne trarranno motivi di ulteriore ostilità, convincendosi che gli ebrei sanno pensare solo a se stessi. Demonizzare serve la peggior causa. Favorisce l’importazione in casa nostra del fanatismo che da ambo le parti ha incrudelito il conflitto fra due popoli destinati prima o poi a convivere perché non dispongono di un altro luogo in cui abitare. Non so se sia successo anche a te, ma nei giorni scorsi mi son ritrovato a sperare che non siano stati degli ebrei a commettere l’orrenda spedizione punitiva culminata nel pestaggio a sangue di Chef Rubio, personaggio che tante volte ti ha insolentito e che brandisce come un insulto la parola “sionista”. A questo siamo ridotti: a temere che la malaugurata tendenza al “soli contro tutti” generi violenza squadristica anche all’interno di una Comunità contraddistinta da sempre dallo spirito di tolleranza. Aiutaci a preservarcene, cara Liliana. Medio Oriente. L’Aja e i mandati di arresto: le armi spuntate della giustizia internazionale di Nello Scavo Avvenire, 24 maggio 2024 La richiesta d’arresto per i capi di Hamas e per Netanyahu, propone un dilemma per molti degli Stati che aderiscono alla Corte penale dell’Aja: sostenere Israele senza screditare la Cpi. E viceversa. La Corte internazionale di giustizia (emanata dall’Onu e che decide sulle contese tra gli Stati) deciderà oggi sull’istanza urgente del Sudafrica: ordinare la sospensione dell’offensiva israeliana a Rafah. Ma la decisione della Corte arriva nella settimana in cui l’altro tribunale internazionale (quello penale, indipendente dall’Onu e senza alcun collegamento funzionale con la Corte di giustizia) deve valutare la richiesta d’arresto per il premier israeliano Netanyahu, il ministro della Difesa Gallant e i capi di Hamas. È un rompicapo, per due organismi giudiziari slegati tra loro, ma i cui destini stavolta si incrociano. Per la procura della Corte penale internazionale (Cpi) Israele sta commettendo crimini a Gaza. L’eventuale ordine della Corte di giustizia potrebbe perciò rafforzare oppure diluire le accuse della procura. A seconda dei casi, assisteremmo al consolidamento della giustizia sovrastatale, oppure al suo discredito se sulla stessa materia si arrivasse a scelte strabiche. Ma c’è un problema: se i mandati di cattura venissero convalidati, chi dovrebbe eseguirli? La Palestina, che ha aderito alla Corte penale internazionale, avrebbe l’obbligo di individuare e arrestare i leader di Hamas sul terreno, con i quali vi sono contatti frequenti per i negoziati, e consegnarli all’Aja. Ma l’Autorità nazionale palestinese ne avrebbe la capacità e la convenienza? Quanto a Netanyahu e Gallant, al governo in un Paese che non riconosce la Cpi, non ci sarebbe modo di arrestarli, a meno di recarsi in Paesi membri dell’Aja che dovrebbero fermarli, oppure potrebbero sorvolare (non sono previste sanzioni concrete per chi non ottempera agli obblighi), infliggendo un colpo mortale al Diritto internazionale. Da quanto trapela, l’ufficio del procuratore Khan aveva segnalato in anticipo gli sviluppi investigativi ad alcune capitali, tra cui Parigi, Londra e Berlino, consentendo ai governi di coordinare per tempo le reazioni. “Questo ci mette in difficoltà per vari motivi”, ha dichiarato sotto anonimato alla “Reuters” un funzionario del governo tedesco, che difende strenuamente la scelta di fornire armi a Israele. Il presidente americano Joe Biden ha definito “oltraggiose” le richieste d’arresto per Netanyahu e Gallant, esponendosi però a una contraddizione: gli Usa, che non riconoscono la Corte penale dell’Aja, hanno bloccato la fornitura di armi per Tel Aviv proprio a causa della smodata reazione di Israele a Gaza. Tutti i 27 Paesi dell’Ue sono membri (e finanziatori) della Corte penale internazionale. Ma anche stavolta sono divisi. La Gran Bretagna, che ha appoggiato la candidatura dello scozzese di origini pachistane Khan a procuratore, dice non ritenere applicabile la giurisdizione su Israele. Distinguo mai posto quando è stato emesso il mandato di cattura per Putin, leader di un Paese che, come Israele, gli Usa, La Russia e la Cina, non aderisce alla Corte penale internazionale. Il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha sostenuto che un mandato di cattura potrebbe “alimentare l’antisemitismo”. L’omologo irlandese Micheál Martin ha dichiarato che “è fondamentale rispettare l’indipendenza e l’imparzialità della Cpi”, mentre il premier ceco Petr Fiala ha definito la richiesta di arresto come “spaventosa e completamente inaccettabile”. Meno ambigua la posizione di Parigi. Con una nota il ministero degli Esteri ha ribadito di “sostenere la Corte penale internazionale, la sua indipendenza e la lotta contro l’impunità in tutte le situazioni”. Medio Oriente. I difensori dell’ordine internazionale non arretrino sulle richieste della Cpi di Maurizio Delli Santi Il Domani, 24 maggio 2024 Occorre che l’Occidente non delegittimi la Cpi, perché si porrebbero in discussione anche i mandati d’arresto per Putin e i generali russi. L’iniziativa dovrebbe essere vista invece a favore dei sussulti democratici di Israele e a sostegno del futuro di Gaza, dove sarà necessario restituire il controllo legittimo all’Autorità palestinese. Il procuratore della Corte penale internazionale (Cpi) ha formulato la richiesta di mandati d’arresto per i capi di Hamas ma anche per il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il suo ministro della difesa Yoav Gallant. L’accusa al vaglio della Pre Trial Chamber è per crimini di guerra e contro l’umanità: il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale penale non ammettono eccezioni per nessuno, né per terroristi né per capi di stato e di governo. È difficile fare previsioni su come evolverà la situazione, ma c’è da sperare che l’occidente attenui le proteste contro la Corte, perché la delegittimerebbe definitivamente ponendo in discussione anche i mandati d’arresto emessi per il trasferimento forzato di minori ucraini nei confronti di Putin e per i bombardamenti indiscriminati sull’Ucraina di cui sono imputati due generali russi. È bene dunque approfondire l’articolato statement del Procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan. Khan precisa di essersi avvalso di una molteplicità di testimonianze, prove documentali in video, audio e fotografie, nonché di immagini satellitari passate al vaglio dell’autenticità, e “come ulteriore garanzia” di avere consultato anche un “gruppo imparziale” di giuristi di alto profilo, esperti nel diritto internazionale umanitario e nel diritto internazionale penale. Tra questi figurano Adrian Fulford avvocato già giudice alla Corte penale internazionale e ora all’Alta Corte d’Inghilterra e Galles, Helena Kennedy presidente dell’Istituto per i diritti umani dell’Associazione internazionale degli avvocati, Elizabeth Wilmshurst ex consigliere giuridico del Commonwealth, l’avvocata internazionalista araba Amal Clooney, l’autorevole Theodor Meron, avvocato e giudice israeliano naturalizzato statunitense, visiting professor all’Università di Oxford e già presidente del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, e ancora Kevin Jon Heller professore di diritto internazionale all’Università di Copenaghen, e il senegalese Adama Dieng già consigliere speciale delle Nazioni unite per la prevenzione del genocidio. Il procuratore richiama inoltre i principi della effettività della giurisdizione della Corte sui territori palestinesi e il principio di “complementarietà”. Il 5 febbraio 2021, con la decisione sulla “Richiesta dell’accusa ai sensi dell’articolo 19, paragrafo 3, di una decisione sulla giurisdizione territoriale della Corte in Palestina”, la Pre Trial Chamber I ha sancito la giurisdizione penale della Corte nella “situazione nello Stato di Palestina” e tale giurisdizione si estende a Gaza e alla Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, con mandato pieno anche per l’escalation delle violenze dal 7 ottobre 2023 in poi. Il vissuto delle indagini - Per il principio di “complementarietà” dell’articolo 17 dello Statuto prevale la giurisdizione degli Stati nazionali, per cui la Corte penale dell’Aja non interviene se per gli stessi fatti viene assicurato l’avvio di un procedimento interno agli Stati. Tuttavia il procuratore Khan rimarca che le autorità nazionali devono impegnarsi in procedimenti giudiziari “indipendenti e imparziali”, che “non proteggano gli indagati e non siano una farsa”: ricorrerebbero altrimenti il “difetto di volontà” (unwillingness) o il “difetto di capacità” che impongono l’intervento della Corte. Importante è il richiamo alla responsabilità diretta dei capi, perché i crimini di guerra e contro l’umanità indagati sono stati commessi “su larga scala”, rientrano in un piano esteso e preordinato, e si configurano pertanto non come fatti isolati, ma quali “leadership crime”, crimini dei capi, tanto di Hamas quanto di Israele. Lo statement del procuratore si sviluppa in primo luogo sulle gravi responsabilità dei capi di Hamas, in particolare dell’ala militare delle Brigate al-Qassam, per crimini contro l’umanità. Al di là del tecnicismo delle imputazioni, il procuratore dell’Aja si sofferma sul vissuto personale delle indagini: “Parlando con i sopravvissuti, ho sentito come l’amore di una famiglia, i legami più profondi tra un genitore e un figlio siano stati stravolti per infliggere un dolore insondabile con una crudeltà calcolata e un’estrema insensibilità”. E aggiunge: “Vi sono ragionevoli motivi per ritenere che gli ostaggi siano stati tenuti in condizioni disumane e che alcuni siano stati oggetto di violenze sessuali, compreso lo stupro (...). Siamo giunti a questa conclusione sulla base di cartelle cliniche, prove video e documentali, e colloqui con vittime e sopravvissuti”. Altrettanto gravi sono le imputazioni per Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant. Si tratta innanzitutto di crimini di guerra: “Morte per fame di civili come metodo di guerra” e “Causare intenzionalmente grandi sofferenze o gravi lesioni al corpo o alla salute” e molte altre imputazioni. Il procuratore Khan delinea anche un quadro specifico molto serio delle gravi responsabilità dei leader israeliani: i crimini commessi da Israele sono stati compiuti “nell’ambito di un attacco diffuso e sistematico” contro la popolazione civile palestinese, e “in base alla politica dello Stato”. L’accusa è perciò rivolta alla “imposizione di un assedio totale su Gaza che ha comportato la chiusura completa dei tre valichi di frontiera, Rafah, Kerem Shalom ed Erez”, nonché al blocco arbitrario di aiuti essenziali. I principi della giustizia - La Corte penale internazionale era stata sempre accusata dai suoi detrattori, in specie dagli attori del Global South, di ipocrisia e arrendevolezza quando si trattava di avviare procedimenti nei confronti del mondo occidentale. È sembrato dunque che alla Corte penale internazionale dell’Aja - cui aderiscono 124 Stati (tra gli “Stati non parte” vi sono Usa, Cina, Russia e Israele, ma ciò non rileva se si affermano principi giuridici “universali”) - si stessero compiendo importanti passi in avanti per l’affermazione della giustizia penale internazionale, specie con l’emissione dei mandati d’arresto nei confronti di Putin e dei generali russi per la guerra in Ucraina. Ora potrebbe essere tutto azzerato con le critiche venute dagli Usa, cui si è associato anche il Regno Unito. Al momento sono comunque incoraggianti almeno la posizioni espresse da altri Stati europei. L’auspicio è che anche in Italia maturino presto voci autorevoli altrettanto chiare nel sostenere il ruolo della Corte penale internazionale. Sta alla “comunità internazionale” che si identifica nello Statuto di Roma ribadire con forza che in tutti i contesti ai principi del diritto internazionale umanitario nessuno può derogare. Medio Oriente. I detenuti palestinesi muoiono nell’indifferenza di Gideon Levy Internazionale, 24 maggio 2024 Un medico, primario di un ospedale di Gaza, è stato picchiato e torturato a morte in una prigione. La cosa non ha fatto scattare nessun allarme nell’opinione pubblica israeliana. Il dottor Adnan Al Bursh era il primario del reparto di ortopedia dell’ospedale Al Shifa, nella città di Gaza. Con lo scoppio della guerra aveva cominciato a spostarsi di continuo da una struttura sanitaria all’altra, perché tutte venivano distrutte dall’esercito di Tel Aviv. Non tornava a casa sua a Jabalia dall’inizio del conflitto, finché a dicembre di lui si sono perse completamente le tracce. Di recente si è saputo che Adnan Al Bursh è morto in una prigione israeliana, verosimilmente a causa delle torture e delle percosse subite durante gli interrogatori. Le ultime persone ad averlo visto sono gli altri medici e i detenuti che sono stati liberati. Ai giornalisti Jack Khoury e Bar Peleg, del quotidiano israeliano Haaretz, hanno raccontato che Al Bursh era a stento riconoscibile. “Era evidente che aveva passato le pene dell’inferno: torture, umiliazioni e privazione del sonno. Non era più la persona che conoscevamo. Era l’ombra di se stesso”, hanno dichiarato. Una sua foto diffusa dopo la morte mostrava un uomo molto elegante. In un’altra foto, scattata durante la guerra mostrava il suo camice ospedaliero coperto di sangue. Al Bursh aveva una moglie, Jasmine, e sei figli. Aveva studiato medicina in Romania, poi aveva frequentato la scuola di specializzazione nel Regno Unito. Il rapper e attivista palestinese Tamer Nafar gli ha dedicato una bellissima canzone. Quasi tutti i suoi colleghi, tra cui i vertici dell’ospedale, e ovviamente le persone che hanno partecipato alle orrende torture compiute nella base di Sde Teiman e nelle carceri israeliane non hanno detto una parola. Un primario è stato picchiato a morte. E con questo? Dopotutto, quasi cinquecento medici e operatori sanitari sono stati uccisi nella guerra e di loro non si è quasi parlato. Allora perché la storia di Al Bursh dovrebbe attirare l’attenzione? Perché era un primario? Nessun crimine di guerra commesso dallo stato ebraico a Gaza ha suscitato emozioni qui in Israele, a eccezione della gioia provata dalla destra sanguinaria. Alla morte del medico si è aggiunto anche un altro atto odioso: la reazione delle autorità. Lo Shin bet (i servizi segreti israeliani) è rimasto come al solito in silenzio. Alcuni ex agenti oggi sono famosi commentatori televisivi. Gli viene chiesto di mostrarci la via, di esprimere la loro opinione, ma lo Shin bet non parla mai delle persone che ha interrogato e torturato. L’esercito si è sottratto alle sue responsabilità: Al Bursh è stato solo “gestito” in una prigione dell’esercito, per poi essere trasferito a Kishon, in una struttura usata dai servizi per gli interrogatori. E da lì è finito al carcere di Ofer, affidato al servizio penitenziario israeliano. La risposta delle autorità carcerarie è stata sfacciata: “Non ci occupiamo della morte di detenuti che non sono cittadini israeliani”. Un uomo muore in carcere, ma il servizio penitenziario non pensa di dover riferire all’opinione pubblica le circostanze del suo decesso, perché non era un cittadino israeliano. In altre parole, la vita di chi non è un cittadino israeliano non ha nessun valore nelle prigioni dello stato ebraico. Ricordiamocelo quando un israeliano viene arrestato a Cipro per stupro o in Perù per droga e c’indigniamo per le sue condizioni di detenzione. Ricordiamocelo con ancora più forza quando denunciamo al mondo, e a ragione, la sorte dei nostri ostaggi. Come può la gente identificarsi con il dolore provato dagli israeliani per il destino degli ostaggi, quando gli stessi israeliani si rivelano indifferenti alla sorte degli ostaggi dell’altra parte? Perché nella piazza di Tel Aviv dove manifestano i parenti delle persone rapite non c’è un solo striscione che chieda un’inchiesta sull’uccisione del medico di Gaza? Il suo sangue è forse meno rosso di quello degli israeliani sequestrati? Perché il mondo dovrebbe occuparsi solo degli ostaggi israeliani e non di quelli palestinesi, le cui condizioni di prigionia o la cui morte nelle carceri dello stato ebraico dovrebbero far inorridire chiunque? Bosnia. A Srebrenica fu genocidio: il voto all’Onu per ricucire la Storia del “peggior massacro” di Letizia Tortello La Stampa, 24 maggio 2024 L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato la risoluzione per riconoscere l’11 luglio Giornata internazionale del genocidio in Bosnia. Proteste e minacce di serbi e alleati: “Così minate la pace” nei Balcani. A Srebrenica fu genocidio. Ora, tra gli orrori peggiori dell’umanità e delle guerre moderne c’è anche il massacro compiuto nel 1995 nell’Est della Bosnia. Quando 8000 uomini e ragazzi bognacchi furono trucidati a sangue freddo dalle forze serbo-bosniache guidate dal generale Mladic, con l’unico scopo di “regalare” la città al popolo serbo. Una pulizia etnica che puntava a eliminare fisicamente il fratello-nemico, fucilato e seppellito in fosse comuni, molti corpi devono essere ancora scoperti. Causò anche la deportazione di 30 mila donne, ragazze e bambini, consegnati nelle mani di carnefici e stupratori dalle stesse truppe Onu che avrebbero dovuto proteggerli. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato a maggioranza a favore della risoluzione: dall’anno prossimo, l’11 luglio sarà giornata internazionale del ricordo del genocidio di Srebrenica. Con buona pace dei serbi di Belgrado, e dei serbi bosniaci della Republika Srpska, che hanno fortemente osteggiato l’iniziativa promossa dalla Germania, dal Rwanda e sostenuta da 17 Stati per lo più occidentali (tra cui Usa, Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna). Con buona pace di Ungheria, Bielorussia, Cina e Russia, che hanno votato “no”. E quest’ultima minaccia un grave danno alla “pace e alla sicurezza” della regione dopo il sì all’Onu. All’Assemblea generale non è possibile mettere il veto, ma le alleanze di chi sta con la Serbia di Vucic e la Repubblica di Dodik in funzione anti-occidentale sono apparse un messaggio geopolitico forte e chiaro. “Noi non siamo una nazione genocida”, hanno tuonato i serbi da più parti, mentre bandiere e scritte popolavano Belgrado e Banja Luka, sebbene il riferimento al popolo serbo nella sua interezza come responsabile di Srebrenica non sia menzionato nel testo. Il presidente Vucic ha fatto il gesto delle tre dita, in nome del nazionalismo pan-serbo, dopo la votazione. I contrari sono stati 19, gli astenuti (68), tra cui gli Emirati Arabi, l’Argentina di Milei e il Libano, ma la maggioranza è stata a favore (84 Stati). Quel giorno, l’11 luglio 1995, il generale serbo Ratko Mladi? si sentiva come Dio, scrive Emir Suljagi? in Cartolina dalla fossa: svuotò quella cittadina bosniaca, Srebrenica, ed Emir che si credeva già morto, appena maggiorenne, invece si salvò, tra 8000 trucidati. “Mladi? aveva il potere assoluto di decidere sulla vita di chiunque”. Il generale guardò la carta d’identità di Suljagi?, gli chiese che cosa stesse facendo e poi gli disse che poteva andare. Il massacro bosniaco di ventinove anni fa, che per molto tempo è stato ritenuto il peggiore dalla Seconda guerra mondiale, è stato dichiarato genocidio dalla Corte internazionale di Giustizia e dal Tribunale penale dell’Aja per i crimini di guerra nell’ex Jugoslavia. Sono state condannate una cinquantina di persone, tra cui lo stesso Mladic, il “boia di Srebrenica”, che sta scontando l’ergastolo nel carcere di Scheveningen, in Olanda. E ancora, Radovan Karadži?, all’epoca presidente della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, anche lui nel carcere dell’Aja. La corte ha incriminato anche il presidente serbo Slobodan Milo?evic, morto durante il processo. Il voto all’Onu su Srebrenica, in particolare in questo momento di guerre, dopo che la Corte internazionale di Giustizia ha ravvisato il “fumus” di genocidio a Gaza da parte di Israele, ha grande importanza storica. Esorta gli Stati membri a condannare la negazione del massacro in Bosnia e l’esaltazione dei criminali di guerra, chiedendo che le restanti vittime siano identificate e che tutti i responsabili ancora in libertà siano assicurati alla giustizia. A Srebrenica fu genocidio, e sono passati quasi trent’anni. Molti Paesi, a partire dagli Usa, hanno sostenuto la risoluzione con convinzione, mentre negli scenari odierni la definizione crea dubbi e distinguo. La Danimarca manderà in Kosovo 300 dei suoi detenuti stranieri ilpost.it, 24 maggio 2024 Il parlamento del Kosovo ha approvato giovedì un accordo per ospitare per 10 anni 300 detenuti delle carceri della Danimarca. Il Kosovo otterrà in cambio 210 milioni di euro, 21 l’anno. L’accordo era stato trovato nel 2021 ed era stato firmato nell’aprile del 2023, ma attendeva una definitiva approvazione in Kosovo per entrare in vigore: ora dovrà essere solo ratificato dal presidente della Repubblica. Il governo danese, sostenuto dal 2022 da una grande coalizione che comprende partiti di centrosinistra e di centrodestra, vuole utilizzare il trasferimento di detenuti in Kosovo per ridurre il sovraffollamento delle proprie carceri, ma anche per favorire la successiva espulsione dei condannati stranieri non comunitari. L’accordo prevede infatti che i detenuti non rientrino in Danimarca quando abbiano finito di scontare la pena. Il ministro della Giustizia danese Peter Hummelgaard ha detto che l’accordo invia un chiaro segnale ai criminali stranieri: “Il loro futuro non è in Danimarca e quindi non dovrebbero nemmeno scontare la pena qui”. La prigione scelta è quella della città di Gjilan, a sud della capitale Pristina, dove verranno effettuati dei lavori per far sì che le condizioni di detenzione siano identiche a quelle del regime carcerario danese. L’accordo era infatti stato criticato dalle opposizioni e da organizzazioni non governative perché nelle prigioni del Kosovo sono frequenti episodi di violenza, corruzione, rischi di radicalizzazione politica e religiosa e carenza di cure mediche. Dai trasferimenti saranno esclusi i cittadini danesi, i condannati per terrorismo o crimini di guerra e i detenuti con problemi di salute mentale. Attualmente nelle carceri danesi ci sono 1.000 persone in più rispetto alla capacità prevista, secondo stime del governo, con un affollamento delle carceri intorno al 124 per cento e molto vicino a quello italiano. Il governo del Kosovo ha annunciato che utilizzerà il denaro ricevuto dalla Danimarca per migliorare il proprio sistema carcerario e per investimenti nella produzione di energia da fonti rinnovabili. Il parlamento ha approvato l’accordo con 86 voti favorevoli, una settimana dopo averlo respinto in una precedente votazione. Il Kosovo si trova tra Serbia, Montenegro, Albania e Macedonia ed è grande un po’ più dell’Abruzzo. È il paese più giovane d’Europa, avendo dichiarato la propria indipendenza nel 2008 e uno dei più poveri del continente. Le sei stelle che si vedono sulla sua bandiera rappresentano i sei gruppi etnici che lo abitano: gli albanesi, che sono più del 90 per cento della popolazione, e poi i serbi, i turchi, i gorani, i rom e i bosgnacchi (i musulmani di origine bosniaca). Dal 1999 è presente nel Paese un contingente militare della NATO, chiamato KFOR. Iniziò le proprie operazioni dopo la fine dell’intervento militare dello stesso anno contro la Repubblica Federale di Jugoslavia di Slobodan Miloševi?, che venne giustificato con la necessità di porre fine a una deliberata campagna di oppressione, pulizia etnica e violenze portata avanti dai serbi contro la popolazione di origine albanese. All’interno delle KFOR sono presenti circa 150 soldati danesi.