Libertà personale: perché il Garante è essenziale di Daniele Mont D’Arpizio ilbolive.unipd.it, 23 maggio 2024 In Italia la popolazione carceraria è tornata a superare le 60.000 persone a fronte di 47.300 posti realmente disponibili: un dato spesso messo in relazione a quello ancor più drammatico dei suicidi. Non c’è però solo il carcere: comportano limitazioni alla libertà anche i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr), le residenze per le misure di sicurezza (Rems), istituite dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, e perfino le strutture per anziani. Ne parliamo con Mauro Palma, fino allo scorso gennaio presidente del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale: il primo a ricoprire questo ruolo dall’entrata in funzione dell’autorità indipendente nel 2016. Matematico e giurista di formazione, dopo aver contribuito a fondare l’Associazione Antigone Palma è stato prima componente e poi presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti (Cpt) del Consiglio d’Europa, risultando a tutt’oggi considerato uno dei maggiori esperti a livello internazionale su queste tematiche. Presidente Palma, perché la libertà personale è così importante? “Anche in un ordinamento liberale e democratico come il nostro le sacche di non libertà sono molto ampie e vanno al di là delle ipotesi in cui è prevista la detenzione. Quando si è privati della libertà, qualunque sia la motivazione, si ha una vulnerabilità specifica rispetto alla tutela dei propri diritti: per questo c’è bisogno di uno sguardo esterno, che colga aspetti difficili da notare per un occhio troppo interno e assuefatto”. In concreto? “A partire dall’esperienza europea, poi seguita da molti altri Paesi in tutto il mondo, si è andati verso un modello caratterizzato da una doppia tutela: a quella giurisdizionale, in cui interviene un magistrato e che potremmo definire di tipo reattivo, se n’è affiancata un’altra di tipo preventivo. Quest’ultima è diretta a individuare le circostanze che, sia sul piano normativo che applicativo, potrebbero evolversi in minacce ai diritti della persona”. Come nasce questa seconda tutela? “Alla fine degli anni Ottanta la Corte europea dei diritti dell’uomo e il Consiglio d’Europa iniziarono a riflettere sull’effettiva applicazione articolo 3 della Cedu, uno dei soli quattro articoli inderogabili della convenzione, secondo il quale nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. Nacque così l’idea di un comitato che affiancasse la corte di Strasburgo, individuando le criticità prima che queste si sviluppassero. Il primo presidente fu il grande giurista Antonio Cassese, poi alla fine del 1999 divenni membro del Consiglio in rappresentanza per l’Italia e in seguito presidente”. Un meccanismo che in seguito è stato imitato da molti Paesi nei loro ordinamenti interni... “Sì, anche fuori dall’Europa: sono 93 in tutto il mondo ad aver finora istituito un proprio National preventive mechanism, un organismo indipendente secondo quanto stabilito dall’Optional Protocol to the Convention against Torture and other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (Opcat): dal Brasile alla Repubblica Democratica del Congo, compresi tutti gli Stati europei a eccezione di Russia e Bielorussia”. Qual è stata la filosofia alla base dell’azione del Garante? “La convinzione che non si dovesse tener conto esclusivamente delle situazioni ove fosse presente un provvedimento restrittivo, come un ordine di arresto o un Tso: bisognava considerare tutte le privazioni concrete della libertà, de iure ma anche de facto. Pensiamo alle residenze per anziani o disabili: spesso vi si entra volontariamente, assistiti inizialmente da un parente o un tutore, poi però negli anni ci si trova ad essere gestiti dall’istituto; la situazione, insomma, si evolve nel tempo. Oppure consideriamo le strutture protettive dell’infanzia, in cui le restrizioni nascono proprio per tutelare i minori. Un caso infine molto italiano è quello delle navi che raccolgono migranti e alle quali non venga messo per lungo tempo a disposizione un porto per attraccare”. Con che modalità avete operato? “Con fermezza ma sempre dialogando con le istituzioni. Il Garante ha un grosso potere intrusivo: in ogni momento può accedere a ogni struttura e a ogni documento, ma il suo compito non è e non deve essere quello di un organismo giudicante. Ci vuole anche cooperazione, agire tempestivamente ma non frettolosamente. Non è facile guadagnarsi la fiducia delle persone sottoposte a restrizioni, perché spesso chi ha subito violenze spesso ha difficoltà a raccontarle: l’ho imparato negli anni a Strasburgo e durante le numerose visite all’estero, otto solo in Cecenia, ai tempi in cui la Russia aderiva ancora alla Cedu (ne è uscita nel 2022, ndr). In generale diffido di chi crede di capire subito situazioni di solito molto complesse”. Come si capisce quando siamo di fronte una privazione concreta della libertà? “Banalmente chiedendosi se una persona possa uscire dalla struttura oppure no, se abbia insomma la disponibilità del proprio tempo e dei propri movimenti. Facendo attenzione alla diversità delle situazioni; ad esempio nei centri di accoglienza per i migranti, diversi dai Cpr che sono chiusi, possono uscire liberamente gli adulti ma non i minori: solo la situazione di questi ultimi è di competenza del garante”. Come si sono evolute in Italia le condizioni delle persone private della libertà? “Il Garante italiano negli anni è divenuto un modello a livello internazionale e spero che tale rimanga. Due sono i criteri che abbiamo adottato: salvaguardare ogni residuo di autonomia, cercando sempre di potenziarla piuttosto che avvilirla, e in secondo luogo tenere presente il motivo per il quale una limitazione della libertà viene disposta. Nessun regime carcerario può ad esempio giustificare la totale rinuncia al fine rieducativo della pena, disposto dalla stessa Costituzione, così come è un abuso rinchiudere una persona in un Cpr in assenza di accordi con il Paese d’origine per il rimpatrio”. Ultimamente hanno suscitato qualche perplessità le modalità di avvicendamento al vertice del Garante… “Premesso che confido molto sulle persone che lavorano nell’autorità, sarebbe stato bello confrontarsi con i componenti del nuovo collegio, raccontare direttamente a loro quello che abbiamo fatto. Purtroppo in questi mesi non abbiamo ancora avuto un incontro: continuo a confidare che ci possa essere perché sarebbe utile per dare continuità di azione a un’istituzione che rimane fondamentale, al di là delle idee e dei percorsi di ognuno”. Intanto nelle scorse settimane si è tornati a parlare di abusi: ad esempio di quelli perpetrati nel carcere minorile “Beccaria” di Milano. Quale deve essere oggi il ruolo del Garante? “L’autorità è chiamata ad avere un occhio complesso e sfaccettato come quello di alcuni insetti, in modo da leggere situazioni e contesti sempre più complessi. Allo stesso tempo è fondamentale anche la capacità di proiettarsi nella società, di costruire un dialogo sui nostri valori fondamentali coinvolgendo tutta la cittadinanza. Un confronto limitato a garante e amministrazione servirebbe a poco”. Brunetta: “Portiamo dentro le carceri il mercato del lavoro, a partire dai call center agenparl.eu, 23 maggio 2024 “Le carceri sono per definizione luoghi chiusi, che dialogano poco con l’esterno. Grazie a un’intuizione del ministro Nordio abbiamo avviato otto mesi fa un percorso per favorire il lavoro e la formazione in carcere e costruire così un ponte tra interno ed esterno. Penso innanzitutto al ruolo del digitale. Occorre informatizzare il carcere, ma non questo o quel penitenziario. La sfida è intervenire su tutti i 189 carceri che abbiamo in Italia. Poi dobbiamo portare dentro il mercato, a partire ad esempio dai call center, anche qui con il coinvolgimento di tutto il sistema carcerario e con salario di mercato, in modo che sia poi il cavallo di troia per altri interventi sul piano infrastrutturale e formativo. L’obiettivo è la recidiva zero”. Così il presidente del CNEL Renato Brunetta in occasione della Lectio Magistralis tenuta dal Ministro Della Giustizia Carlo Nordio presso la Casa Circondariale di Rebibbia a Roma. “Abbiamo messo in piedi, CNEL e Ministero della Giustizia, un grande progetto di inclusione per aprire il carcere alla società, puntando sul lavoro, la scuola, la formazione e ricongiungendo le reti della società civile, i soggetti pubblici e privati attivi in questo ambito, le forze sociali e il mondo del volontariato. È un progetto che vuole mettere a sistema le tante buone prassi e i casi esemplari sul territorio. In quest’ottica, stiamo attivando al CNEL un Segretariato permanente, per gestire e accompagnare i molti attori coinvolti, facilitando l’interconnessione tra reti istituzionali, parti sociali e terzo settore. Un’attività da realizzare in stretto raccordo con l’Amministrazione penitenziaria, la Cassa delle ammende, le cabine di regia territoriali”, ha affermato Brunetta. “Conosciamo molto poco il capitale umano che è nelle carceri - ha sottolineato - e questo rende complicato fare formazione in modo efficace. Vi è anche un impatto negativo sugli esiti occupazionali. Per un detenuto su due non conosciamo il titolo di studio, per la platea degli stranieri arriviamo addirittura a due su tre. Per un terzo della popolazione carceraria non sappiamo la storia professionale personale, le esperienze lavorative. Per questo la profilazione è indispensabile e dobbiamo coinvolgere l’intero sistema universitario, per interventi che interessino tutte le carceri e tutti i detenuti. I 61mila reclusi, a cui si aggiungono altri 120mila condannati che scontano la pena all’esterno, con misure alternative, e ulteriori 100mila in attesa dell’esecuzione della pena dopo una sentenza definitiva”. “La riabilitazione e il reinserimento dei detenuti è un obiettivo difficile ma raggiungibile, con l’obiettivo di azzerare la recidiva. Il lavoro dentro e fuori il carcere, la sua giusta remunerazione, l’istruzione e la formazione sono una leva eccezionale. È la logica win-win-win. Ci guadagniamo tutti: detenuti, cittadini e vittime, che possono trovare ristoro da questi processi di inclusione. Sembra follia ma non troppo. Se lavoriamo insieme ce la possiamo fare”, ha così concluso il presidente del CNEL. “Teste di cuoio” contro le rivolte nelle carceri di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 maggio 2024 La protesta della Uilpa Polizia penitenziaria: “Nordio non fa i conti con l’inadeguatezza degli organici”. È nato per sedare le rivolte in carcere, il Gruppo di intervento operativo (Gio), creato come reparto specializzato della Polizia penitenziaria. Lo ha istituito il ministro di Giustizia Carlo Nordio con un decreto ministeriale del 14 maggio, anche se la pianificazione risale ai tempi in cui Marta Cartabia sedeva in via Arenula. Ora però, con il nuovo pacchetto sicurezza (l’approdo in Aula alla Camera dopo le elezioni europee) che introduce la fattispecie di reato di rivolta carceraria, occorre dotare il Corpo penitenziario di un “braccio armato” specializzato. Il Gio - sullo stesso modello del Gom, il Gruppo operativo mobile specializzato nella custodia dei reclusi in regime speciale - è articolato in un ufficio centrale e uffici territoriali (Gruppi di intervento regionali, Gir) alle dirette dipendenze del Dap. E tra i compiti ha quello di intervenire “in presenza di emergenze non altrimenti fronteggiabili che possano pregiudicare l’ordine, la sicurezza e la disciplina in ambito territoriale, oltre che per particolari eventi critici sotto il profilo della sicurezza e per specifiche condizioni di medesimo rischio in ambito penitenziario”. Può supportare anche il Gom per interventi nelle sezioni del 41bis e operare anche negli Istituti penali minorili quando si presentino situazioni emergenziali “che arrecano pregiudizio all’ordine, alla sicurezza e alla disciplina”. Pur apprezzando l’intenzione di Nordio, la Uilpa Polizia Penitenziaria, che come altri sindacati del settore chiedeva da tempo “un’organizzazione idonea a fronteggiare situazioni di emergenza e, prim’ancora, di rischio e pericolo”, ha però protestato perché “non fa i conti con l’inadeguatezza degli organici e - afferma il segretario generale Gennarino De Fazio -, puntando sulla repressione a discapito della prevenzione, rischia di rivelarsi un boomerang per la tenuta del sistema”. Prima, insiste De Fazio, bisogna poter “garantire la sicurezza ordinaria”, messa a rischio da “organici già mancanti di 18mila unità”. Ma la domanda inevitabile è soprattutto una: cosa rende così necessario e urgente l’istituzione di un reparto tipo “teste di cuoio” specializzato nella repressione di un reato appena inventato? Le rivolte sono davvero fortemente in aumento? E non basterebbe portare almeno a regime l’organico di polizia penitenziaria? Ci aiutano, nella risposta, i dati dello stesso Dap raccolti dall’ufficio del Garante nazionale dei detenuti. Se confrontiamo gli eventi dei primi tre mesi dell’anno in corso con quelli del 2023 vediamo che le Aggressioni fisiche al personale di polizia penitenziaria denunciate sono aumentate di 109 unità, le colluttazioni tra detenuti di 107, gli Atti turbativi dell’ordine e della sicurezza (una definizione talmente generica da inglobare pure la battitura dei ferri) messi in atto come protesta individuale di 119 casi, mentre quelli riferibili a manifestazioni di protesta collettive sono aumentate di 10 (da 20 dello scorso anno a 30 di quest’anno). Stranamente però il numero dei provvedimenti disciplinari è in drastico calo: 210 in meno. Salute in carcere: arriva il Metaverso di Antonella Barone gnewsonline.it, 23 maggio 2024 È per certi versi un’evoluzione della telemedicina, già utilizzata in alcuni istituti penitenziari, il Metaverso sanitario, progetto pilota presentato ieri nella colonia penale di Mamone e inaugurato con quattro visite specialistiche effettuate da remoto. A indossare per primi i visori sono stati un detenuto nell’infermeria dell’istituto e uno psichiatra del servizio diagnosi e cura del San Francesco di Nuoro, supportato dal tecnico della società State 1. Psichiatria e fisiatria sono i due ambiti al centro del progetto in questa fase iniziale ma, puntualizzano i responsabili dell’iniziativa, una volta che si avranno i primi feedback del servizio, si pensa di estenderlo anche ad altre attività specialistiche all’interno del carcere. “È un grandissimo passo in avanti che si fa sul fronte del diritto alla salute in ambiente detentivo - ha detto il direttore della colonia penale di Mamone Vincenzo Lamonaca - un progetto pilota fortemente voluto dal Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Russo e dal provveditore Antonio Galati. La realtà sanitaria nel Metaverso va oltre la telemedicina. Il detenuto-paziente riesce a interloquire con il proprio medico o comunque con i sanitari di riferimento. Si tratta di un approccio che consente di elevare gli standard sanitarie di sicurezza contenendo i costi”. Nell’immaginario collettivo ancora oggi il metaverso - spazio digitale tridimensionale in cui è possibile interagire e avere esperienze che simulano quelle della vita reale - è collegato soprattutto al mondo ludico e social. In realtà, da anni, le sue applicazioni si sono estese ai settori della ricerca, della formazione e al mondo medico scientifico. Già nel 2019, il centro medico dell’Università del Connecticut aveva realizzato esperienze di realtà virtuale per la formazione dei chirurghi ortopedici, oggi praticate in tutto il mondo. Un’altra delle applicazioni in via di sviluppo è quella delle visite mediche a distanza, per offrire assistenza sanitaria tempestiva e continuativa a pazienti che vivono in zone isolate e raggiungibili con difficoltà. I 150 detenuti della colonia a fronte dell’opportunità di vivere e lavorare a contatto con la natura, risentono più degli altri di criticità logistiche legate all’isolamento. Con i suoi 2700 ettari di estensione, la colonia dista 17 Km dal centro abitato di Bitti e oltre 50 dal primo presidio ospedaliero, quello di Nuoro. Il pionieristico progetto di assistenza sanitaria ai detenuti è frutto della collaborazione tra la Asl 3 di Nuoro, la casa di reclusione di Mamone, lo spin-off accademico Chain Factory, dell’Università di Cagliari, Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali e la società State1. L’ASL Nuoro ha da tempo messo in campo un’attività multimediale e digitale di telemedicina che consente di monitorare e seguire nel proprio domicilio 400 pazienti con scompenso cardiaco e raccoglie ora una nuova sfida tecnologica. “Con l’attività che inauguriamo stiamo portando un’innovazione molto importante nel domicilio di queste persone, ovvero la casa di reclusione che li sta ospitando in questa fase della loro esistenza”, ha commentato i direttore generale dell’Asl n. 3 di Nuoro, Paolo Cannas. “Siamo fiduciosi che possa portare dei buoni risultati, così che possa essere replicata in tantissime altre realtà e per altre prestazioni”. “Con la separazione il pm diventa un superpoliziotto controllato dalla politica” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 maggio 2024 Riforme della giustizia tra ddl costituzionale e carcere: intervista a Rossella Marro, presidente Rdi Unicost. Oggi ricorre il 32esimo anniversario della morte di Giovanni Falcone che si diceva favorevole alla separazione delle carriere…. Falcone faceva un discorso più ampio rispetto alla separazione, in quanto faceva riferimento all’esigenza di una specifica professionalità accompagnata da una specifica formazione professionale del pubblico ministero. Come magistratura associata siamo compatti nel dire no a questa riforma. Anche se il ministro Nordio lo nega, in realtà la separazione dei pubblici ministeri dai giudici comporterebbe la sottoposizione dei primi al potere esecutivo. Allo stato il pm è il primo garante della legalità, il primo magistrato che il cittadino incontra; sottraendolo allo stesso ordine e alla stessa cultura dei giudici diventerebbe un super poliziotto. Qualche giorno fa il sottosegretario Mantovano ha detto che chi lancia allarmi sullo Stato di diritto a causa della separazione delle carriere avrebbe bisogno di uno psicologo. La ritiene una dichiarazione eccessiva? La ritengo sicuramente eccessiva. Mantovano è un ex magistrato e non posso credere che non comprenda le preoccupazioni della magistratura e di diversi insigni costituzionalisti in merito alle riforme in cantiere. Il problema non è la separazione in sé ma lo stravolgimento dell’assetto costituzionale. In che termini? Il problema è tutto il complesso delle riforme, previsto dalle proposte in discussione in Commissione Affari costituzionali e nel ddl costituzionale, almeno da quanto emerge dalla stampa, visto che ancora non abbiamo visto un testo. In esse vediamo, ad esempio, un indebolimento dell’organo di governo autonomo del Csm, che attraverso la tutela dell’autonomia e indipendenza della magistratura garantisce il principio di uguaglianza dei cittadini. C’è poi l’eliminazione della norma che prevede che i magistrati si distinguono solo per funzioni e questo comporterebbe una accentuazione della gerarchia nelle procure e negli uffici giudicanti. C’è una rivisitazione del principio per cui il giudice è soggetto soltanto alla legge. Tutte queste modifiche messe a sistema minano il nostro assetto costituzionale e quindi fanno sorgere delle perplessità fondate sulla deriva che possiamo prendere. E dell’Alta Corte per il disciplinare cosa pensa? Su questo come gruppo ci siamo espressi: anche questa previsione intacca le prerogative del Csm, andando ad intaccare profondamente l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Con tutte queste riforme, secondo lei la politica vuole fare una guerra alla magistratura? Non so se sia appropriato il termine “guerra”. Sicuramente c’è la volontà di ridimensionare il ruolo della magistratura. Sembra più una posizione assunta a seguito di alcune inchieste che non vengono ben digerite dalla politica. Il ministro Crosetto, commentando il caso Toti, ha parlato di magistratura politicizzata. Prima dell’inchiesta ligure, c’è stata quella in Puglia su esponenti del Partito democratico. Questo ci fa capire che la magistratura effettua il controllo di legalità a 360 gradi. Non ritengo che ci sia una giustizia chirurgica. Non fare inchieste doverose, questo sarebbe veramente uso politico della funzione. La maggioranza qualche mese fa ha attaccato anche la magistratura per il caso Artem Uss e Apostolico ma l’Anm contro queste critiche è uscita compatta dal congresso… In effetti, quello a cui assistiamo sempre più spesso negli ultimi tempi, e che deve indurci ad una attenta vigilanza, è il fastidio che da alcune frange della politica e della stampa si manifesta nei confronti dell’attività di interpretazione costituzionalmente orientata, come se l’attività di interpretazione della legge nell’ambito del più ampio contesto dei principi costituzionali e comunitari sia da bollare come attività eversiva e non come espressione dei più alti principi di una democrazia matura. Calamandrei diceva che noi non sappiamo che farcene dei giudici di Montesquieu, come esseri inanimati: noi vogliamo un giudice con l’anima. L’interpretazione della legge non è operazione meccanica, non è puro sillogismo. Nel ddl in via di rifinitura a via Arenula, salvo sorprese dell’ultima ora, ci sarà anche l’inserimento dell’avvocato in Costituzione, nella versione elaborata dal Cnf. Lei sarebbe d’accordo? Penso che la professione dell’avvocato sia nobile. Magistrati e avvocati devono collaborare con il fine ultimo che la giustizia venga amministrata in modo correto. Nella Costituzione si fa riferimento ai poteri dello Stato, con una precisa previsione di pesi e contrappesi, e il mancato inserimento rispondeva a questa logica che non esclude il valore nobile della professione. Questo non esclude che la proposta, così come pensata dal Cnf, venga discussa e non dobbiamo avere pregiudizi, perché risponde alla esigenza di valorizzare il ruolo di ciascun protagonista del processo. Cosa pensa della proposta di legge Sciascia Tortora sull’obbligo per i magistrati tirocinanti di trascorrere quindici giorni in carcere, compresa anche la notte? La questione è posta in maniera sbagliata. La battaglia contro l’attuale stato delle carceri dovrebbe accomunare non solo magistratura e avvocatura, ma tutti i cittadini. Ma la responsabilità di questa vergognosa situazione non può essere addossata alla magistratura bensì alla politica. Che non ci siano abbastanza posti per i reclusi, nonostante l’aumento dei detenuti negli ultimi decenni, il fatto che in carcere non si attui il principio di rieducazione della pena e che non vi siano risorse: tutto ciò dipende esclusivamente dalla politica e dal ministero. Se si muove dalla logica dei proponenti allora paradossalmente dovrebbero essere i politici a dormire quindici giorni in carcere. Del resto, il messaggio che si invia dalla politica è fortemente contraddittorio perché non si fa altro che aumentare il numero di reati, innalzare le pene e prevedere nuove aggravanti: tutto questo sistema panpenalista avrà una ripercussione anche sul sistema carcerario, perché ci sarà un aumento della carcerazione. Chi ha scritto questa proposta dovrebbe rivolgersi a chi davvero ha un potere per cambiare la condizione di detenzione. Cosa si cela dietro l’ennesima indagine sulle stragi del 1993. Domande per Nordio di Ermes Antonucci Il Foglio, 23 maggio 2024 C’è anche, e soprattutto, la firma del procuratore aggiunto Luca Tescaroli al termine dell’invito a comparire recapitato dalla procura di Firenze al generale Mario Mori, indagato per le stragi mafiose del 1993. È da oltre 25 anni, d’altronde, che Tescaroli indaga - senza risultati - sui presunti mandanti politici e le coperture istituzionali delle stragi di Cosa nostra. Dopo Berlusconi e Dell’Utri, ora tocca a Mori. Nonostante gli scarsi risultati, lo scorso 14 marzo Tescaroli è stato promosso dal Csm come nuovo capo della procura di Prato. Da allora, però, non ha mai preso servizio. Fonti del Csm riferiscono al Foglio che il magistrato ha infatti chiesto e ottenuto dal ministero della Giustizia il cosiddetto “ritardato possesso” dell’incarico, procedura che dovrebbe servire al pm o al giudice per chiudere i procedimenti ancora aperti. Anziché chiudere indagini, però, Tescaroli ne apre di nuove, come quella su Mori. E il posto di procuratore di Prato continua a essere vacante da maggio 2023. L’avviso di garanzia della procura fiorentina nei confronti di Mori porta anche altre firme: quella formale del procuratore capo Filippo Spiezia, dell’altro aggiunto Luca Turco, che da sempre affianca Tescaroli nelle sue iniziative, pur concentrando le sue attenzioni su altre vicende (si chieda a Renzi e alla sua famiglia), e infine del più giovane pm Lorenzo Gestri. Insomma, il vero regista dell’operazione giudiziaria contro Mori è chiaramente Tescaroli, che condusse (senza successo) a Caltanissetta un’inchiesta sui mandanti esterni delle stragi del 1993 e proseguì il filone di indagine appena arrivato nel 2018 a Firenze, accusando nientedimeno che l’ex premier Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Questo il teorema di fondo di Tescaroli: le stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano servirono “per indebolire il governo Ciampi” che in quel momento era alla guida del paese e avevano l’obiettivo di “diffondere il panico e la paura tra i cittadini, in modo da favorire l’affermazione del progetto politico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri”. Più che un impianto accusatorio, l’apice del complottismo giudiziario. L’indagine nei confronti di Mori (che ieri ha ricevuto la significativa “vicinanza” dell’Arma dei Carabinieri per aver “reso lustro all’istituzione in Italia e all’estero”) sembra avere la stessa matrice. Come già anticipato, ciò che sorprende è che Tescaroli alla procura di Firenze neanche dovrebbe più starci, dopo la sua promozione a procuratore di Prato avvenuta lo scorso 14 marzo. Il pm ha però chiesto e ottenuto dal ministero della Giustizia, in particolare dalla Direzione generale magistrati, di poter rimanere ancora per qualche mese (non è chiaro quanti) alla procura fiorentina. Il “ritardato possesso” ha come finalità quella di permettere al pm di chiudere le indagini condotte fino a quel momento. L’avviso di garanzia a Mori, tuttavia, segnala con evidenza l’inizio di una nuova indagine da parte di Tescaroli. Insomma, quando il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, esprime il giusto “sconcerto” per le ennesime contestazioni mosse nei confronti dell’ex comandante del Ros dei Carabinieri dovrebbe allo stesso tempo rivolgere le sue perplessità al collega di governo Carlo Nordio, che guida il ministero che ha consentito a Tescaroli di rimanere alla procura di Firenze per aprire nuove inchieste assurde. La vicenda diventa ancora più assurda se si considera che la procura di Prato attende un nuovo procuratore capo dal 5 maggio 2023, cioè da oltre un anno, in un contesto peraltro caratterizzato da carenza di toghe e di personale amministrativo. Nel “programma delle attività annuali 2024”, la procuratrice di Prato facente funzioni, Laura Canovai, evidenzia come la procura soffra di uno “strutturale sottodimensionamento dell’organico, anche in confronto agli uffici omologhi del distretto di Firenze, soprattutto in rapporto al carico di lavoro, alla tipologia dei reati commessi, alla popolazione e al tessuto sociale e produttivo del circondario”. Nonostante l’organico sia già inferiore alle esigenze, risultano mancanti due procuratori su dieci, incluso il capo (quindi una scopertura del 20 per cento), e 15 unità di personale amministrativo su 33 (scopertura del 45 per cento). Insomma, la procura di Prato vive una situazione delicata, ancor di più se si considera l’alto numero di reati che si ritrova ad affrontare, legati soprattutto alle difficoltà di integrazione della comunità cinese e allo sfruttamento di manodopera clandestina. Basti pensare che proprio al tribunale di Prato si sta svolgendo un maxi processo sulla mafia cinese. Insomma, nonostante questo contesto e una procura in sofferenza, il ministero della Giustizia ha comunque autorizzato Tescaroli a rimanere a Firenze, per di più non a chiudere vecchie indagini, ma ad aprirne di nuove, come quella su Mori che suona come l’ennesimo capitolo di una persecuzione infinita. Inevitabile porsi alcune domande: il ministro Nordio è stato informato, e nel caso ha avallato la richiesta di Tescaroli di restare più tempo a Firenze, malgrado le difficoltà affrontate dalla procura di Prato? È al corrente che il magistrato in questione sta aprendo nuove indagini? Ritiene che tutto ciò sia compatibile con un’efficiente organizzazione del sistema giudiziario? Dalla leggenda del terzo livello al fantasma di Gladio e P2. Ecco tutte le bufale su Falcone di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 maggio 2024 Onorare la memoria del magistrato ucciso a Capaci significa ristabilire la complessità del suo pensiero. Qualche giorno prima della strage di Capaci, Giovanni Falcone rilasciò un’intervista al quotidiano L’Unità. Alla domanda del perché lui avesse rinnegato l’esistenza del cosiddetto terzo livello, il giudice rispose così: “La questione del terzo livello è una singolare e strumentale cattiva interpretazione di quello che io ho detto nel passato”. Falcone proseguì quasi scocciato delle continue mistificazioni: “Il terzo livello non solo non esiste, ma non è stato mai da me ipotizzato”. Alla fine concluse: “La realtà è molto più grave, molto più complessa. È peggiore: negare l’esistenza del terzo livello significa infatti affermare che comanda Cosa Nostra e non gli uomini politici”. In realtà, Falcone, in sedi istituzionali, aveva più volte specificato questo suo pensiero. Lo scrisse, assieme a Marcelle Padovani, anche nel suo ultimo libro “Cose di Cosa Nostra”. Eppure, a distanza di 32 anni dalla sua morte, non è bastato. Ancora oggi, dipingono un Falcone diverso, annullando così la sua grandezza. Tante, troppe bufale che vengono perpetuate anche in prima serata, se pensiamo alle “inchieste” di Report e non solo. La prima manipolazione del pensiero di Falcone è relativa al fallito attentato dell’Addaura. Ci si riferisce storicamente al progetto di agguato contro il giudice, avvenuto il 21 giugno 1989 nei pressi della villa al mare che il magistrato aveva affittato per l’estate nella località palermitana dell’Addaura. Così come il terzo livello (Falcone chiarì che coniò quel termine riferendosi alla mafia, in particolare gli omicidi eccellenti, e non poteri superiori), ancora oggi viene strumentalizzata la sua intervista a Saverio Lodato in cui affermò: “Ci troviamo di fronte a mentì raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”. Ma quello che non viene mai menzionato, è che aggiunse: “Si tratta anche di riciclaggio”. Ma quindi Falcone smentisce sé stesso? Lui che fino al giorno della sua morte aveva combattuto le letture dietrologiche sul fenomeno mafioso? Assolutamente no. In realtà non è stato un caso quell’aggiunta sul riciclaggio. Un’ulteriore conferma si trova in un’altra intervista che Falcone rilasciò questa volta al giornalista Francesco La Licata. Si lasciò sfuggire altre confidenze coerenti con l’idea che la sua presenza (unico magistrato italiano) all’incontro con l’allora presidente degli Stati Uniti Bush fosse stata percepita come un pericolo per gli interessi di poteri criminali di altissimo livello, ai quali era riconducibile l’attentato dell’Addaura. Esaminiamo i fatti. Il giorno del fallito attentato, Falcone attendeva l’arrivo dei colleghi svizzeri Carla del Ponte e Claudio Lehmann per discutere alcuni aspetti dell’inchiesta Pizza Connection. Parliamo del riciclaggio del denaro sporco proveniente dal traffico di droga. L’altra forza di altissimo livello coinvolta è Cosa nostra Americana. Tutto questo lo spiegherà molto bene il pentito Giuffrè sentito al processo Borsellino Quater. Dirà che la mafia americana- in particolare i Gambino - ha fatto molte pressioni a Totò Riina per l’eliminazione dei magistrati, in particolare Falcone. E infatti Pizza Connection andava a colpire gli affari anche di cosa nostra americana. In quel preciso momento storico, la dimensione economica del riciclaggio internazionale dei proventi del narcotraffico era stata stimata dall’Onu in circa 300 miliardi di dollari. Chiaro che gli interessi mafiosi si intrecciavano con quelli di alcuni politici, amministratori, esponenti di forze dell’ordine infedeli e banchieri collusi. Parliamo di una banalità. La stessa situazione che si verificherà, qualche anno dopo attraverso l’inchiesta portata avanti dai Ros, nella grande questione degli appalti pubblici. Ma Falcone pensava che dietro il tentativo di attentato ci fossero i servizi segreti deviati? Assolutamente no. Basterebbe leggere il verbale di assunzione di informazioni del 4 dicembre 1990. Innanzi all’allora procuratore nisseno Salvatore Celesti, il giudice Falcone risponde alle domande relative al fallito attentato dell’Addaura. Alla domanda sul perché ritenga che sia stata la mafia, Falcone risponde: “Affermo ciò per tutta una serie di considerazioni che comunque si riassumono nel fatto che ove l’attentato avesse avuto una matrice diversa, in un modo o nell’altro, l’organizzazione mafiosa mi avrebbe fatto sapere di essere estranea”. L’altra bufala, che purtroppo va avanti con il de relato, è quella relativa ai due poliziotti uccisi e che Falcone li ritenesse collegati all’Addaura. No, non è vero. Ecco cosa risponde Falcone, sempre innanzi al procuratore Celesti: “Per completezza, faccio presente che in atto a Palermo il mio ufficio sta compiendo indagini circa l’uccisione dell’agente Agostino avvenuto nel settembre 89 e circa la scomparsa, avvenuta dopo diversi mesi, di tale Piazza Emanuele, già agente della Polizia di Stato e in qualche modo successivamente in contatto col SISDE. Dalle indagini non è emerso nulla di particolare che possa far ritenere questi due fatti delittuosi collegati con il mio attentato, ma devo registrare che, specie a livello di stampa, è ricorrente l’ipotesi che i due fossero in qualche modo collegati col mio attentato. Le indagini in questione, tuttora condotte con impegno e scrupolo, non hanno dato tuttavia alcun concreto riscontro a questi sospetti”. L’altra narrazione è quella di dire che Falcone pensava che dietro la mafia, in particolare i delitti eccellenti, ci fosse la Gladio e la P2. Falso. Il giudice ha vagliato l’ipotesi, sentito vari personaggi, tra i quali lo stesso Gelli, si è recato personalmente alla sede del Sismi, lesse ogni tipo di documento, reperì anche la lista completa degli aderenti all’organizzazione. Poco prima di lasciare la Procura, il 9 marzo del 1991, sottoscrisse la requisitoria dei delitti eccellenti, ed escluse il ruolo della P2 e soprattutto della Gladio. Tutto ciò verrà poi riconfermato dall’ordinanza sentenza di rinvio a giudizio del 9 giugno del 1991 redatta dall’allora magistrato Gioacchino Natoli. Era pragmatico Falcone e condusse inchieste devastanti contro la mafia. Divenne ancora più pericoloso quando esternò la sua preoccupazione sulla gestione mafiosa degli appalti pubblici, dove erano coinvolte imprese multinazionali. Dirà Angelo Siino che il mafioso Nino Buscemi (in affari con l’impresa nazionale Ferruzzi - Gardini) si innervosì e disse: “Questo ci vuole consumare tutti”. Se fosse diventato capo della procura nazionale, avrebbe avuto il potere di avocare le indagini, soprattutto nei confronti di quelle procure che non concludevano nulla. Andava eliminato al più presto. E così è stato. L’interdizione legale e dai pubblici uffici sono nulle se la pena è inferiore a cinque anni di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2024 Le sanzioni accessorie dell’interdizione legale e dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici sono illegali se applicate a seguito di condanna a pena inferiore ai cinque anni. E l’illegittimità è rilevabile d’ufficio dal giudice di appello e dalla Corte di cassazione anche quando l’impugnazione sia inammissibile. Così la prima sezione penale della Suprema Corte - con la sentenza n. 20246/2024 - ha dettato il principio di diritto in base al quale il giudice nel caso di concordato in appello deve annullare le sanzioni accessorie interdittive disposte nel primo grado di giudizio, anche se non oggetto dei motivi di impugnazione - nel caso in cui la pena risultante dall’accordo delle parti sia inferiore ai cinque anni. Infatti, in tal caso l’interdizione legale durante l’espiazione della pena non è applicabile tout court al pari dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici che va necessariamente imposta solo in via temporanea. Nel caso concreto la condanna a sette anni - comminata dal giudice di primo grado e corredata dalle due misure interdittive nella misura massima - era stata concordata in appello in poco più di quattro anni. Ma il giudice dell’impugnazione non aveva annnullato/adeguato le due sanzioni accessorie dell’interdizione. La Cassazione spiega che tale inerzia del giudice non è giustificata dall’assenza di motivi specifici di impugnazione sul punto. Ciò discende dalla rilevabilità d’ufficio delle conseguenze non previste dalla legge in caso di condanna. Milano. Sguardo sul “Beccaria”: la fatica di educare anche in carcere di Claudio Castaldello santalessandro.org, 23 maggio 2024 Con questo nome tutti conoscono il carcere minorile di Milano, uno dei più famosi d’Italia. Il luogo dove vengono reclusi minorenni che hanno compiuto delitti a volte gravissimi. Di certo, per chi l’ha anche solo velocemente sfiorato, non si tratta di un albergo sia per chi è deputato a lavorarvi, sia per chi fa esperienza di detenzione. Ciascuno degli operatori viene da una propria storia e si ritrova a vivere, relazionare, confrontarsi con storie ancora più pesanti, di disagio, sofferenza e di ribellione. Per questo lavorare in questi luoghi diventa, nostro malgrado, non solo una professione ma anche una “missione”, a volte difficile se non impossibile. Non si può rinunciare al ruolo educativo che la legge impone - Ma i poliziotti, gli educatori, gli psicologi e i magistrati e tutti coloro che sono coinvolti in prima persona ad incidere dentro questi luoghi non possono mai travalicare le loro competenze e rinunciare al ruolo educativo istituzionale che le nostre leggi impongono. L’articolo 27 della nostra costituzione dice infatti che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Nelle scorse settimane sono stati presi provvedimenti gravi nei confronti di alcuni operatori del carcere Cesare Beccaria. Sono pesantissimi infatti i reati contestati agli agenti della Polizia penitenziaria (13 arrestati e otto sospesi): maltrattamenti a danno di minori, concorso nel reato di tortura, concorso nel reato di lesioni in danno di minori, un caso di tentata violenza sessuale. Ci auguriamo che ciascuno possa dimostrare la propria innocenza. Nel frattempo, quello che ci fa pensare, circa questa vicenda, è che se si è arrivati a questo punto tutti i soggetti che ruotano intorno al carcere minorile devono interrogarsi perché se un sistema nel suo complesso non riesce a fermare queste “storture” “devianze” nella gestione carceraria, significa che tutti hanno fallito proprio in quel difficile compito di tentare l’impossibile nel favorire la rieducazione di un ragazzo che ha già un vissuto di violenza e delitti. Senza dimenticare che le responsabilità penali sono sempre personali, di certo alcuni fatti e decisioni prese negli ultimi anni hanno “facilitato” l’origine di questa situazione: investimenti insufficienti, personale ridotto e con turni massacranti, mancanza di una Direzione stabile, mancanza di operatori sociali nella pianta organica del carcere, mancanza di formazione adeguata agli agenti operativi e in collaborazione con gli educatori. Persone “ingestibili”, servono pazienza e metodo - Inoltre è un dato di fatto che oggi al Beccaria dopo le 16.30 - 17.00 non si svolgono attività educative (club di lettura, arte, musica) e quindi rimane solo il rapporto tra le guardie e i ragazzi fino al mattino successivo. È vero, in gran parte, si tratta di ragazzi “incollocabili”, cioè ingestibili, imprendibili e a volte inavvicinabili; persone difficili, capaci di provocare, spesso si rifiutano, sono ribelli a qualsiasi regola e danneggiano a volte la struttura. Serve pazienza, metodo, personale adeguatamente formato e collaborazione fra tutti. Negli ultimi anni sono anche cambiate le tipologie di minori passando dal mondo della tossicodipendenza a quello dei minori stranieri non accompagnati, giunti a volte in modo rocambolesco sul territorio e facile manovalanza della criminalità organizzata. Tutto questo è sacrosanto ma tutti noi dovremmo ricordarci che ciò che loro sono oggi dipende in gran parte da ciò che hanno vissuto in passato, in famiglia, dipende dalle esperienze vissute in strada e dai compagni incontrati sul proprio cammino, dalla presenza assenza di adulti positivi accanto a loro ecc. Con questi ragazzi non serve “buttare via la chiave” come qualcuno anche in questa occasione ha suggerito. “Non serve usare altra violenza” - Non serve usare altra violenza con persone che ne hanno già conosciuta moltissima. Altrimenti come si potrà pretendere che uscendo dal carcere impareranno ad apprezzare la fiducia e il rispetto per gli adulti e i coetanei? Serve pazienza, metodo, personale adeguatamente formato e collaborazione fra tutti. Solo così si può realizzare il miracolo di “riportare alla vita sociale” un ragazzo che per svariati motivi è in balia di un disagio profondo. Quindi ci auguriamo tutti che venga fatta chiarezza per quanto riguarda le responsabilità e i reati commessi e che si possa al più presto ristabilire un minimo di rispetto e di fiducia reciproca nel rispetto dei ruoli, ma soprattutto tutti possano cogliere l’occasione per interrogarsi sulle tante comunità per minori e sulla realtà carceraria presente nei nostri territori. Non ci resta infine che chiedere perdono ai ragazzi coinvolti in questa triste vicenda per non essere stati degni della loro fiducia e non avere saputo intercettare il loro dolore. Mentre un pensiero, va anche agli agenti di Polizia penitenziaria coinvolti: senza giustificare gli atti criminosi se verranno accertati, dentro di noi si fa spazio un sentimento di “com-passione” anche per loro, forse troppo a lungo lasciati soli ad affrontare turni di servizio a volte doppi e di difficilissima gestione. Parma. Via Burla, è emergenza suicidi: due detenuti morti in tre mesi di Christian Donelli parmatoday.it, 23 maggio 2024 Due ragazzi, di 29 e di 25 anni, si sono impiccati nel carcere di Parma. Tra marzo e maggio del 2024 all’interno del carcere di massima sicurezza di Parma due detenuti giovanissimi, di 29 e di 25 anni, si sono tolti la vita. Due suicidi in tre mesi per un’emergenza che non è mai finita ma che torna d’attualità con i due casi di cronaca. Negli ultimi mesi si sono verificati due suicidi all’interno dei penitenziari dell’Emilia-Romagna ed entrambi avvenuti all’interno del carcere di via Burla. Entrambi erano in isolamento per motivi disciplinari. Il primo detenuto, un 29enne di origine nordafricana con problemi di tossicodipendenza, si è tolto la vita impiccandosi alle sbarre della cella, con il suo lenzuolo, nella serata del 13 marzo. Era in isolamento per motivi disciplinari. Il 16 maggio un secondo detenuto, un ragazzo di soli 25 anni originario di Palermo, si è tolto la vita mentre si trovava in una cella di sicurezza: si trovava lì perché avrebbe aggredito, pochi giorni prima, un agente di polizia penitenziaria. Entrambi i giovani detenuti si trovavano all’interno della sezione di Media Sicurezza. Napoli. “In carcere a Poggioreale c’è anche un uomo di 92 anni”: la denuncia del Garante napolitoday.it, 23 maggio 2024 Il Garante dei detenuti ha segnalato anche otto ultra-ottantenni. Otto detenuti ultraottantenni e addirittura un uomo di 92 anni in carcere. La denuncia arriva da Samuele Ciambriello, Garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, che oggi ha incontrato per colloqui diversi detenuti del carcere di Poggioreale a Napoli. Ciambriello si è recato nel reparto Venezia, dove attualmente sono allocati i sex offender, e qui ha incontrato diversi detenuti ultraottantenni. All’uscita dal carcere il garante ha lanciato un appello dichiarando: “Oggi nella mia visita al carcere di Poggioreale ho incontrato un detenuto di 92 anni. Nello stesso reparto ho parlato a lungo con un ottantenne. Lì ci sono poi altri sette detenuti ultraottantenni, nessuno per una condanna di omicidio. Tutti ristretti per ragioni di sicurezza e non di civiltà giuridica. Non è in gioco solo la dignità dei diversamente liberi. Si tratta di preservare la loro stessa vita, vista la loro avanzata età. Ma anche su queste storie di vita carceraria c’è un incolpevole silenzio della politica che vive una logica di sicurezza e non di dettato Costituzionale. Lancio un appello a strutture di accoglienza private in ambito socio-sanitario e comunità residenziali - conclude il garante campano Samuele Ciambriello - chiedendo la loro disponibilità ad accogliere questi detenuti invisibili”. Ancona. Sbarre alle finestre e sorveglianza. All’Ospedale di Torrette tre posti letto per detenuti di Giuseppe Poli Il Resto del Carlino, 23 maggio 2024 Inaugurato un reparto dotato di ogni sistema di sicurezza. Il dg Gozzini: “Eccellenza per il territorio. Qui trovano l’accoglienza degna di qualunque malato”. Il pg Rossi: “Un segnale di attenzione importante”. Tre nuovi posti letto, blindati ma confortevoli, destinati ai detenuti, sono pronti all’ospedale di Torrette: ieri mattina il taglio del nastro del reparto di sicurezza al quinto piano dell’azienda ospedaliero universitaria della Marche. Ascensore e spazi dedicati: un dedalo di corridoi per raggiungerli, con sbarre alle finestre e con tutte le dotazioni di sicurezza necessarie per legge. Dalle telecamere alla control room, alle postazioni destinate agli agenti di polizia penitenziaria, dalle aperture di massima sicurezza a tutto il comfort necessario per una degenza in ospedale, seppure da detenuti, se si considera che due delle tre stanze sarebbero doppie ma sono destinate ad accogliere un solo ospite. Il reparto è pronto e sarà operativo a breve, un’eccellenza per il territorio, come ha spiegato il direttore generale dell’ospedale di Torrette, Armando Gozzini: “Sono tre posti letto - ha detto il direttore -, stanze che sono pronte da un po’ e che sono davvero eccezionali dal punto di vista della logistica e della sicurezza. Qui verranno accolti e curati detenuti che hanno problematiche non estremamente acute né croniche, ma che hanno bisogno di assistenza continua e specifica e quindi, non potendoli curare in reparti particolari, qui trovano tutto quello che serve, dalla sorveglianza di tipo elettronico a un’accoglienza degna di qualunque malato. In tanti ospedali spesso succede che non ci sono spazi adatti. Inauguriamo una delle poche strutture in Italia che possono accogliere tre posti letto per detenuti”. Il procuratore generale Roberto Rossi ha sottolineato che i posti a disposizione non sono pochi: “Sono ben tre: segnali di attenzione così importanti sono ahimé rari. Un’inaugurazione che si inserisce nel solco di un’attenzione che ha il territorio ha nei confronti delle strutture penitenziarie, senz’altro lodevole. Sempre da tenere presente il vecchio detto “meglio accendere una piccola luce che maledire l’oscurità”. Un ruolo decisivo nell’organizzare l’accoglienza speciale l’ha svolto Gloria Manzelli, provveditore regionale amministrazione penitenziaria Emilia Romagna-Marche: “È un’iniziativa assolutamente necessaria e funzionale, non solo alle esigenze del carcere ma anche per il rispetto dei cittadini che sono detenuti - ha aggiunto il provveditore -. Perché averli in corsia con le scorte è comunque un momento di disagio che comprendiamo ma che non possiamo assolutamente omettere. Spazi straordinari, ben curati, un reparto per cui è prevista tutta una serie di servizi necessari per tutta la permanenza del detenuto in carcere, dal colloquio alla postazione del personale di polizia penitenziaria, dettagli che spesso si dimenticano ma che sono indispensabili”. Presenti alla cerimonia anche i consiglieri regionali Lindita Elezi e Marco Ausili, l’assessore comunale Manuela Caucci, il direttore sanitario Azienda ospedaliero universitaria Claudio Martini, il direttore sanità e integrazione sociosanitaria Filippo Masera, il direttore sociosanitario Massimo Mazzieri, il generale della polizia penitenziaria Ernesto Cimino, il tenente colonnello della Guardia di Finanza Silvano Melasecca, il comandante provinciale dei Carabinieri Carlo Lecca, il commissario capo Gerarda La Sala per la questura di Ancona e il direttore dei carceri anconetani Manuela Ceresani. Pozzuoli (Na). Detenute evacuate dal carcere, non sia infranta la speranza di un futuro migliore di Andrea Aversa L’Unità, 23 maggio 2024 La decisione presa dal Prefetto a causa della violenta scossa di terremoto avvenuta due giorni fa. Il Garante Ciambriello: “Un centinaio di donne resteranno in Campania, l’obiettivo è quello di dare continuità al loro percorso trattamentale e di reinserimento sociale. Ma perché in Italia ci si muove solo quando c’è un’emergenza?”. Tra le tantissime persone che due notti fa sono scese in strada a causa della forte scossa avvenuta ai Campi Flegrei, c’erano anche 130 detenute. 130 donne che di certo non sono uscite in strada ma sono state costrette a lasciare le loro celle per raggiungere il cortile del carcere femminile di Pozzuoli. Ore molto concitate anche per loro, alle quali era ovviamente impedito di muoversi liberamente. Almeno fino alla decisione del Prefetto di Napoli Michele Di Bari che ha deciso di evacuare le 130 recluse che tra la notte di domenica e la mattina di lunedì scorso sono state trasferite in altri penitenziari. “Un centinaio di donne sono rimaste in Campania, di cui 43 sono state trasferite presso il carcere di Lauro in provincia di Avellino, circa 25 a Secondigliano e una decina a Salerno - ha spiegato a l’Unità il Garante per i diritti dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello - A Lauro vi sono anche cinque mamme detenute con figli. Le recluse restanti sono state invece trasferite in case circondariali fuori regione ma dotate delle strutture e delle risorse adeguate affinché queste donne possano, non solo proseguire la loro detenzione con dignità ma continuare nel loro percorso trattamentale e di reinserimento sociale, così come stavano facendo a Pozzuoli”. Il carcere femminile di Pozzuoli, infatti, nonostante il piccolo sovraffollamento ha rappresentato una sorta di ‘oasi’ all’interno del panorama detentivo nazionale. Oltre alla dimensione di ‘comunità’ che ha permesso di creare un rapporto molto umano, una sorta di ‘asse’ tra la magistratura di sorveglianza, l’amministrazione, le agenti della Polizia Penitenziaria, le educatrici e le detenute, la struttura è stata un esempio per quanto riguarda le attività trattamentali e lavorative dentro il carcere. Basta citare su tutti due esempi: quella della torrefazione delle Lazzarelle che ha permesso a tre detenute di avere un contratto di lavoro e quella della sartoria, progetto nato nel 2021 grazie alla ditta locale Palingem. L’importanza del lavoro e delle attività trattamentali - “Il nostro augurio e allo stesso tempo la speranza delle detenute - ha affermato Ciambriello - è quello di dare continuità a tutti questi progetti. Di non azzerare tutto ma di implementare il numero di attività che queste donne hanno avuto modo di intraprendere. In Campania, purtroppo, non ci sono strutture adeguate. In altre regioni d’Italia ci sono invece penitenziari più all’avanguardia da questo punto di vista. Sono sempre stato grato al lavoro svolto dalla direttrice di Pozzuoli, Giulia Leone, a tutti gli agenti, alle educatrici e al magistrato di sorveglianza il dott. Gaetano Eboli, sempre disponibili nell’offrire occasioni di riscatto e vivibilità dignitosa alle detenute”. Sogni e speranze delle donne detenute - A qualcuna delle detenute, in stato di semi libertà, sono stati persino concessi gli arresti domiciliari. L’esempio di come le pene alternative possano essere la miglior cura alle piaghe del carcere. Tra queste c’è proprio una delle lazzarelle, “quando le ho dato la notizia dell’ottenimento della messa in prova - ha raccontato Ciambriello - è scoppiata in lacrime. Tutte hanno giustamente paura che lasciando la struttura di Pozzuoli, le loro speranze in un futuro migliore possano svanire. Lo Stato ha il dovere di non infrangere questi sogni. Tante di queste donne con il loro lavoro, oltre a coltivare la loro possibilità di reinserimento sociale, danno una mano a casa, alle loro famiglie, ai loro figli”. Le carceri e i detenuti dimenticati - Tuttavia, l’evacuazione del carcere è stata anche l’espressione di una dinamica sbagliata che in Italia si ripete troppo spesso. “Nel nostro paese la maggior parte delle volte di agisce soltanto di fronte alle emergenze - ha dichiarato Ciambriello - I segnali c’erano tutti, ci sono state tante scosse in passato, dopo il delineamento della zona rossa e dei relativi edifici pubblici sensibili, dovevamo aspettarcelo che prima o poi sarebbe scattata l’evacuazione. Stiamo parlando di un edificio secolare, con tanti problemi strutturali che la rendevano, di fatto, insicura. Considerato che i diritti alla vita e alla salute sono prioritari, secondo Costituzione, perché non ci si è organizzati prima?”. Già, perché? Milano. I giovani detenuti lavoreranno per la città di Massimiliano Saggese Il Giorno, 23 maggio 2024 Accordo tra Comune e Tribunale per i minorenni per promuovere interventi di pubblica utilità. Un patto tra Comune e Tribunale per i Minorenni di Milano consentirà ai giovanissimi autori di reato di svolgere lavori di pubblica utilità per la città. Presto, l’accordo tra i due enti verrà sottoscritto; nel frattempo, ieri, il progetto è stato presentato durante la seduta delle Commissioni consiliari Sviluppo economico e Politiche del lavoro, Welfare e Salute e della sottocommissione Carceri. Le linee di indirizzo del provvedimento saranno approvate a breve dalla Giunta di Palazzo Marino e prevedono l’individuazione da parte dell’Amministrazione delle sedi che saranno messe a disposizione per lo svolgimento dei lavori, oltre che di disciplinare le modalità di esecuzione della pena sostitutiva. Per favorire la funzione rieducativa e riabilitativa della pena, alla base del sistema italiano, “il Comune - si legge in una nota di Palazzo Marino - garantirà il sostegno e l’accompagnamento educativo utile al minore per prendere consapevolezza del disvalore delle proprie azioni e conferire una valenza riparativa al percorso”. L’accordo rientra tra le iniziative del “Patto per il Lavoro di Milano” che tra le numerose azioni prevede anche politiche attive a sostegno dei soggetti più fragili. “È un’iniziativa di particolare importanza - dichiara la presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano Maria Carla Gatto - perché rappresenta la collaborazione tra giustizia minorile e Comune di Milano rivolta a rendere effettivo il percorso di responsabilizzazione e di formazione dei giovani entrati nel circuito della devianza con l’obiettivo di facilitarne anche l’inserimento nel contesto sociale attraverso il lavoro”. Gli assessori Alessia Cappello (Sviluppo economico) e Lamberto Bertolé (Welfare) riflettono sul fatto che “pur essendo riconosciuta dalla Costituzione, la funzione rieducativa della pena ancora oggi rischia di rimanere solo un’intenzione nell’ambito del sistema penale italiano”. Con questo progetto si punta invece a renderla reale. “Si tratta di un principio che - proseguono - soprattutto per i più giovani, dovrebbe trovare un’applicazione più concreta e costante, per garantire un pieno reinserimento nella società. Questo accordo va proprio nella direzione di creare occasioni di riscatto e ripartenza per le ragazze e i ragazzi autori di reato. I lavori di pubblica utilità, accompagnati da un adeguato supporto educativo, possono essere il punto di partenza di un percorso di formazione e consapevolezza”. Brescia. I liberi cittadini incontrano i detenuti grazie alla danza contemporanea di Sara Polotti Giornale di Brescia, 23 maggio 2024 A Brescia c’è un progetto che fa incontrare i liberi cittadini con le detenute e i detenuti delle Case circondariali della zona attraverso la danza contemporanea: si chiama Progetto Verziano ed è alla sua tredicesima edizione. Quest’anno la performance conclusiva - quella che mostra i risultati dei laboratori che Compagnia Lyria tiene durante l’anno all’interno di Verziano e Canton Mombello: alle 18 la corte del Centro per le Nuove Culture in via Moretto, Mo.Ca., ospiterà “Istantanea #7”, performance di danza contemporanea accompagnata dalla lettura di alcuni testi (esito di un parallelo laboratorio di scrittura creativa). L’ingresso è libero senza prenotazione. Nel cortile si terrà un’azione coreografica di composizione semi-improvvisata. “Ci sono dei criteri e una struttura, e all’interno di questa struttura i performer improvviseranno”, spiega Giulia Gussago, direttrice artistica della compagnia. “È una forma di scrittura consona al contesto: i detenuti si trovano a operare delle libere scelte durante la performance, seguendo però dei criteri condivisi che creano sintonia nel gruppo, a rappresentare la comunità in cui si troveranno nuovamente una volta tornati in libertà”. L’intento è dare loro la consapevolezza che in futuro saranno tenuti a operare scelte libere, evitando il sentimento di vittimismo. “Possono diventare operatori attivi della propria vita”. I liberi cittadini partecipanti quest’anno sono una quindicina; detenuti e detenute sono altrettanti (anche se in scena saranno solo sette di loro: alcuni hanno scontato la pena, altri non hanno ricevuto il permesso di uscire). Per domenica “c’è grande entusiasmo”, dice Gussago. “Nei giorni scorsi i partecipanti hanno proposto la performance agli altri detenuti, a Verziano: è uno dei momenti più difficili perché ci sono casi di derisione da parte delle altre sezioni. C’è imbarazzo, ma ieri, dopo le prime prese in giro, tutti si sono acquietati e sono esplosi anche applausi a scena aperta”. Trieste. La salute mentale in carcere, il Pensiero tra libri e cinema di Erica Sorelli pensiero.it, 23 maggio 2024 Si è svolta ieri a Trieste, nell’ambito del Festival Scienza e Virgola, la presentazione del volume Advocacy per la salute mentale di Benedetto Saraceno, Rebecca De Fiore, Giovanna Del Giudice e Nerina Dirindin pubblicato da Il Pensiero Scientifico Editore. Cogliamo l’occasione per ricordare che il tema della salute mentale in carcere, oltre ad essere oggetto del volume, è stato recentemente al centro de Lo Spiraglio Filmfestival che si è tenuto a Roma dall’11 al 14 aprile al Maxxi. Di fronte alla percezione diffusa tra gli operatori che le patologie psichiche tra la popolazione detenuta siano in continuo ed esponenziale aumento, e che gli strumenti e le risorse a disposizione per trattarla siano sempre più scarse e inadeguate - come si legge nel Rapporto Antigone Salute mentale e Rems -, gli autori di Advocacy per la salute mentale, edito dal Pensiero Scientifico Editore, chiariscono: “Purtroppo non tutti, compresa parte degli addetti ai lavori, hanno chiaro che le Rems non hanno sostituito gli Opg che, al contrario, sono stati sostituiti da un insieme di interventi messi in atto dai Dipartimenti di salute mentale attraverso la predisposizione di un piano terapeutico riabilitativo che può anche (ma non necessariamente) prevedere il ricovero in Rems. Purtroppo non tutta la magistratura ha chiaro che il malato di mente può certamente essere pericoloso, ma la sua pericolosità dipende da molteplici fattori e anche la sua pericolosità può essere gestita”. Un’alternativa potrebbe essere quella di curare e seguire la patologia psichica all’interno del carcere, spiega Rebecca De Fiore su Senti chi parla, ma per farlo nel modo corretto bisognerebbe investire in spazi, professionalità e risorse, mentre ad oggi, gli spazi interni per il trattamento delle patologie psichiatriche - le Articolazioni per la tutela della salute mentale (Atsm) - in Italia sono soltanto 32, collocate in 17 istituti penitenziari, uno per regione, e vi trovano posto meno di 300 detenuti in totale. Anche per tutti questi motivi, sottolinea ancora De Fiore: “Lo Spiraglio Filmfestival ha scelto come grande tema di quest’anno quello della salute mentale nelle carceri. Lo Spiraglio - diretto da Federico Russo per la parte scientifica e da Franco Montini per quella artistica, e organizzato da Roma Capitale e dal Dipartimento di salute mentale della Asl Roma 1 - si è confermato ancora una volta come appuntamento immancabile per capire, pensare e conoscere a fondo il mondo della salute mentale”. La pace e la scuola consapevole di Luigi Manconi e Chiara Tamburello La Repubblica, 23 maggio 2024 Cosa può unire i bambini e la politica? E che ruolo ha l’infanzia nell’organizzazione della vita pubblica? Una piccola storia “pedagogica”, se pure circoscritta localmente, può aiutarci a trovare risposte. La tendenza della nostra cultura è quella di tutelare i più piccoli da ogni bruttura del mondo e ridurre al minimo l’impatto che gli orrori a cui assistiamo potrebbe avere su di loro. Eppure le guerre sono presenti già nell’immaginario infantile, soprattutto quando i bambini cominciano a interrogarsi, a seguito di vicende reali o di elaborazioni fantastiche, sul concetto di lotta per il potere e di scontro tra il bene e il male. Inoltre la vita quotidiana espone a immagini e informazioni che raccontano i fatti attuali e che, di conseguenza, possono evocare violenza e morte. Tutto ciò, se pure in maniera meno “adulta”, incontra sentimenti di angoscia e di inquietudine presenti anche nei minori. È a partire da questa consapevolezza che nasce il Coordinamento per l’educazione alla Pace, un’organizzazione che si è attivata in seguito all’appello per il cessate il fuoco dello scorso novembre promosso dalla scuola primaria Simonetta Salacone di Roma. In questi mesi docenti e genitori, comitati e associazioni, si sono riuniti per riportare al centro dell’esperienza educativa l’importanza della scuola pubblica e dei servizi essenziali alla persona, questioni trascurate dall’agenda politica e indebolite da un crescente interesse nei confronti dell’industria bellica e della corsa al riarmo. Si tratta di una mobilitazione che è partita dall’istituto Antonio Gramsci l’8 maggio nel quartiere Trullo di Roma e che culminerà la mattina di venerdì 24 maggio con la partecipazione di più di venti scuole nei vari quartieri della città, con il supporto e il sostegno dei municipi che hanno aderito e dell’assessorato alle politiche scolastiche. I promotori, insieme ai genitori e agli studenti, organizzeranno incontri, iniziative di scambio, dibattiti, attività creative. L’obiettivo è quello di sensibilizzare le generazioni più giovani e diffondere un messaggio incisivo: “Apriti Pace”. In una iniziativa come questa si rivela il lato più maturo dell’istituzione educativa. La scuola è una zona sensibile dove spesso la manifestazione delle espressioni di libertà degli alunni viene mortificata. E si deve fare i conti con un’altra realtà drammatica: la scuola pubblica è sempre più un’organizzazione frustrata e trascurata dalle politiche culturali e dalle manovre economiche e finanziarie. Questo determina uno stato di depressione che incide profondamente sull’apprendimento e sulla crescita dell’istituzione come luogo di formazione. Chi insegna ha il dovere di produrre consapevolezza e il diritto di affermare che la guerra è da ripudiare perché così vuole la carta costituzionale e il benessere degli individui e dei popoli. Poi, si dovrà e si potrà spiegare quanto raggiungere quell’obiettivo sia arduo e faticoso, ma è da quel principio irrinunciabile che si deve muovere. È il fulcro di una educazione alla cittadinanza che va garantita e tutelata e che è alla base delle Indicazioni nazionali per la scuola di primo e secondo grado che proprio in queste settimane il ministro Giuseppe Valditara vorrebbe rivedere e modificare. Infine, c’è un ulteriore aspetto: la riappropriazione dello spazio pubblico in orario scolastico da parte delle scuole e delle persone che le abitano, tra cui insegnanti, genitori e alunni, significa andare oltre le mura degli istituti formativi e riprendere contatto con i territori e le comunità di riferimento. La vita vera e l’illusione della vita social di Assia Neumann Dayan La Stampa, 23 maggio 2024 Soukaina El Basri, meglio conosciuta come Siu, ha trent’anni, un marito, due bambine piccole, un lavoro da beauty influencer e un profilo Instagram da oltre ottantunomila follower. Sponsorizza prodotti di bellezza, abiti, una ragazza come ce ne sono tante, una vita che sembra un servizio fotografico. Ora Siu si trova in terapia intensiva in coma farmacologico, giovedì scorso è arrivata al pronto soccorso dicendo di essere caduta in casa. Poco dopo averlo detto è collassata a terra per una emorragia interna. Ha un foro nel petto. In casa c’era sangue ovunque e nessuna arma. “Le ipotesi di una caduta accidentale o di un gesto anticonservativo non sono verosimili con quanto abbiamo raccolto”, ha dichiarato la procuratrice Teresa Angela Camelio. L’anno scorso Siu aveva denunciato il marito per maltrattamenti. Il marito ad ora risulta indagato per tentato omicidio. Le indagini chiariranno cosa è successo a Siu, perché la sua sembra una storia che abbiamo già sentito molte volte. Quando una donna arriva in ospedale e dice di essere caduta dalle scale o di aver preso uno spigolo, può non essere vero. A volte le donne hanno un buco nel petto, a volte hanno dei lividi, a volte sorridono e basta, a volte dalle scale cadono davvero ma il primo pensiero è che non sia vero. Quello che spinge le donne a rimanere con uomini violenti risulta incomprensibile per chi non sa cos’è quella vita lì e per chi la fa facile, sempre. È paura, è che non hai un lavoro e magari nemmeno un conto corrente, è che non sai dove andare e magari hai anche dei figli piccoli, e se hai dei figli piccoli hai paura che gli assistenti sociali te li portino via, è che poi non hai nessuno che possa aiutarti, magari nemmeno la tua famiglia, è che pensi che non succederà niente perché sei una brava persona, ma poi succede. A volte si è abbastanza fortunate da non crepare per aver preso uno spigolo. E poi ci sono i social che vendono vite che non sono reali, che spesso sono una proiezione, un lavoro, l’immagine che vorremmo il mondo avesse di noi. I video sui social non sono documentari, sono un modo per guadagnare, anche quando si piange. Gabby Petito era una travel blogger e influencer di ventidue anni, girava gli Stati Uniti in camper con il suo fidanzato. Un giorno li avevano visti litigare, qualcuno aveva chiamato la polizia, lei aveva detto che era colpa sua e si era scusata. Il suo cadavere è stato ritrovato qualche mese dopo, il fidanzato l’aveva strangolata. Le fotografie che faceva Gabby erano bellissime, piene di natura, gioia, meraviglia. Sembrava una vita così invidiabile, libera, perfetta, e invece noi non sappiamo cosa succede quando si spegne la macchina fotografica. L’ipotesi migliore è quella di una vita ordinaria, la peggiore è quella di un inferno. Bisogna aver paura di quello che non vediamo più di ciò che abbiamo sempre davanti agli occhi Migranti. Piantedosi chiede alle prefetture di accelerare le procedure. I funzionari scioperano di Gaetano De Monte Il Domani, 23 maggio 2024 Il Viminale impone alle Commissioni territoriali - deputate ad accogliere le richieste d’asilo - di adottare le decisioni in maniera rapida, ma non fa i conti con i tagli al personale, la qualità e la competenza che il servizio richiede: “C’è un enorme carico di lavoro da sempre, ma negli ultimi mesi le pressioni politiche da Roma cadono a cascata”. “È necessario garantire che le decisioni delle commissioni e delle sezioni siano incrementate sensibilmente, in modo tale da garantire e ridurre la durata dei procedimenti, evitando lunghe attese e, conseguentemente, garantire una più efficace gestione del sistema di accoglienza”. Con queste parole contenute in una direttiva indirizzata ai prefetti, e di cui Domani è in possesso, il ministro dell’interno, Matteo Piantedosi, ha annunciato qualche settimana fa i prossimi obiettivi del governo per garantire “una gestione adeguata del sistema di protezione dei richiedenti asilo e protezione internazionale”. Peccato, però, che proprio i lavoratori delle prefetture addetti al funzionamento del sistema delle commissioni territoriali, dunque deputati ad accogliere le richieste d’asilo, considerino la nuova riorganizzazione ministeriale come mortificante della loro stessa attività di funzionari e penalizzante dell’intero processo decisionale, a scapito della tutela dei richiedenti asilo. Così, dopo lo sciopero del 17 novembre scorso in cui avevano lamentato i tagli all’organico conseguenza del così detto decreto Cutro, i lavoratori del ministero dell’Interno sciopereranno nuovamente il prossimo 24 maggio con un presidio in piazza Santi Apostoli, sostenuti dal comparto Funzione pubblica della Cgil. Lo sciopero - Il motivo è presto detto: “Ai tagli preannunciati dal governo sui servizi di interpretariato e ai gettoni di presenza delle commissioni territoriali che, con l’aumento dell’attività decisionale richiesta, penalizzeranno l’attività delle commissioni, si aggiunge che l’accelerazione dei tempi di esame delle domande di asilo avviene in carenza di personale amministrativo di supporto”, si legge nella convocazione, dove si fa riferimento anche al fatto che le nuove assunzioni degli ultimi mesi, ovvero l’infornata di funzionari amministrativi non assunti tramite specifico concorso ma provenienti da altre graduatorie, rischiano di pregiudicare la qualità delle decisioni. I funzionari, quindi, attaccano il Viminale per quello che reputano “un palese disinvestimento nella qualità di questo delicatissimo settore” e puntano il dito anche sulle pratiche di esternalizzazione delle procedure decise dal governo (vedi accordo con l’Albania) che, a loro avviso, “mettono in discussione l’esistenza stessa del diritto di asilo sancito dall’articolo 10 della Costituzione”. La situazione nelle Commissioni - Non solo. Dice Antonio Indolfi, dipendente di lungo corso della commissione territoriale di Bari e coordinatore nazionale dei lavoratori del settore asilo della Cgil: “Partiamo da una considerazione di ordine sindacale, siamo passati in poco tempo, come organico, da 400 a circa 230 unità, perché alcuni hanno scelto di dimettersi per lo stress e il carico di lavoro, mentre veniva di fatto azzerato il supporto amministrativo, e poi perché le prefetture hanno richiamato il personale per ampliare i propri ranghi, svuotati dai pensionamenti anticipati”. E, di conseguenza, “le commissioni sono state usate come riserva di personale per rimpinguare gli organici, senza considerare che, poi, da qualche tempo, all’interno delle commissioni e in conseguenza dell’aumento degli sbarchi, è stato invece assunto personale non qualificato, vincitori di concorso per altre amministrazioni dello stato che nulla hanno a che fare con la protezione internazionale, mi vengono in mente lavoratori provenienti dall’Inail, esperti di sicurezza, e un lavoratore con una laurea al conservatorio musicale”, prosegue il sindacalista. Chiosa Indolfi: “Indubbiamente è in gioco la qualità del servizio, la tutela dei richiedenti asilo, ma anche i diritti di centinaia di lavoratori a cui il ministero chiede, con un’impostazione produttivistica, di valutare le domande con estrema velocità, a ritmi folli”. “Siamo di fronte a un enorme carico di lavoro. È sempre stato così, del resto, da quando le commissioni sono state istituite nel 2016, ma ciò che è cambiato negli ultimi mesi sono le pressioni politiche che da Roma cadono a cascata sulle sedi locali per aumentare i numeri delle decisioni”, rileva un funzionario di una commissione territoriale a cui Domani ha garantito l’anonimato. “L’indicazione che è stata data dal presidente della commissione nazionale asilo è stata di processare una media di due domande al giorno da parte di ognuno di noi, indipendentemente dalle ferie, dalle malattie, dai giorni lavorati”. Si parla soltanto dei numeri delle domande, senza considerare invece che sono proprio i tagli, come quelli al servizio di mediazione linguistica e culturale, a rendere difficile le audizioni, che spesso vengono rinviate più volte per mancanza di mediatori”, conclude. Minacce di provvedimenti disciplinari - Sia come sia, la situazione è omogenea, dal punto di vista delle criticità, dal nord al sud del paese. Le pressioni, a volte, si trasformano in vere e proprie minacce di provvedimenti disciplinari, racconta un’altra funzionaria: “Chiaramente si tratta di minacce verbali a cui non viene dato seguito, mancandone i presupposti, ma molti presidenti di commissioni che sono vice-prefetti sono particolarmente sensibili ai desiderata del ministero, premono per adottare le decisioni in maniera veloce, in molti casi in senso restrittivo per i richiedenti asilo. Diciamo che per alcuni presidenti quello che dice il ministero è legge, invece noi godiamo di autonomia di decisione nel nostro lavoro, fermo restando l’adesione alla Costituzione e al diritto internazionale”. Già, perché la richiesta d’asilo e protezione internazionale non è soltanto una procedura burocratica, e non riguarda soltanto le storie drammatiche di sofferenza e di violenza delle persone che arrivano in Italia scappando da tutto ciò, ma anche centinaia di lavoratori dello stato che hanno le competenze, l’esperienza e la professionalità in grado di cambiare la vita di queste persone e, dunque, hanno il diritto di lavorare in autonomia e serenità, senza subire pressioni dal potere politico, specie se è lo stesso che adottando determinate norme provoca guasti al sistema. Migranti. Ora c’è una sentenza che dice: soccorrere i naufraghi è sempre obbligatorio di Francesca Cancellaro, Alessandro Gamberini, Nicola Canestrini* L’Unità, 23 maggio 2024 Nessuna consegna concordata, nessun taxi del mare, né condotte tese a procurare l’ingresso illegale dei migranti in Italia. Al momento del soccorso i migranti sono da considerare “naufraghi”. La verità giudiziaria smaschera strumentalità politica delle campagne diffamatorie contro le organizzazioni non governative: la corposa sentenza GUP presso il Tribunale di Trapani accerta l’insussistenza di un qualsiasi reato e spazza via ogni ipotesi di collaborazione fra ONG e trafficanti, evidenziando piuttosto una indagine fondata su “materiale incompleto e “analizzato in una prospettiva solo parziale”. Dopo sette anni di criminalizzazione dell’equipaggio Iuventa sarebbe bastato all’accusa verificare l’operato della Iuventa e raccogliere i documenti che da sempre erano a disposizione per rilevare che tutto è stato fatto sotto il coordinamento dell’MRCC di Roma. Invece, come rilevato dal Gup, ci si è accontentati di “laconici brogliacci” delle intercettazioni e di relazioni di servizio che hanno distorto la realtà dei fatti (ed in particolare quella dell’undercover Luca Bracco). Testualmente la sentenza fin dalle premesse evidenzia infatti che le autorità di indagine “in tale contesto probatorio parziale (..) hanno talvolta concentrato l’attenzione e valorizzato oltremodo aspetti di portata dimostrativa limitata, senza tenere conto complessivamente di tutti gli elementi disponibili o comunque agevolmente acquisibili, e da dati del tutto incerti e privi di significato univoco avevano sviluppato valutazioni e raggiunto conclusioni presentate come certe, giungendo in qualche occasione ad un’interpretazione dei fatti che non può più ritenersi coerente con quanto emerso all’esito dell’udienza preliminare”. La sentenza sottolinea che sostanzialmente le autorità di indagine si sono limitate a fare affidamento sui dati emergenti “dai laconici brogliacci della Centrale Operativa dell’I.M.R.C.C. (Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo) e dalle sintetiche schede SAR dell’I.M.R.C.C., senza acquisire e adeguatamente valorizzare ulteriori elementi, quali le registrazioni delle comunicazioni telefoniche tra l’I.M.R.C.C. e gli assetti navali coinvolti nei vari eventi SAR, nonché i dati di posizionamento e di tracciamento delle navi intervenute o presenti in occasione delle operazioni di soccorso dei migranti, in modo da ottenere informazioni aggiuntive e complete che consentissero di esaminare in una visione d’insieme i singoli eventi e di verificare le condotte dei protagonisti di ciascuna vicenda”; aggiunge che le autorità di indagine avevano fornito “interpretazioni distorte di alcuni accadimenti, presentati dalla polizia giudiziaria con una successione diacronica alterata rispetto al reale accadimento dei fatti” per non aver tenuto conto dei diversi fusi orari! Nessuna consegna concordata, nessun taxi del mare, né condotte tese a procurare l’ingresso illegale dei migranti in Italia. Viene invece riconosciuto che già sul piano oggettivo e materiale la direzione delle condotte addebitate alla Iuventa vada “inquadrata nello specifico contesto delle operazioni di soccorso. Va osservato come l’obbligo di soccorso in mare sia previsto dal diritto consuetudinario internazionale, da numerose convenzioni internazionali e dal diritto interno”. La sentenza riconosce altresì che le operazioni di soccorso siano state sempre disposte dall’I.M.R.C.C. e siano state svolte sotto la direzione e il costante coordinamento dell’I.M.R.C.C. come risulta dalle comunicazioni telefoniche con la nave Iuventa e con gli altri assetti navali presenti nell’area. Rispetto infine alla presenza degli operatori della Iuventa negli scenari ove operavano anche i presunti scafisti / trafficanti, viene sancito espressamente che “la mancata opposizione del personale della nave Iuventa all’impossessamento del motore del gommone da parte dei “pescatori di motori” va inquadrata nel contesto nel quale i predetti “pescatori di motori” avrebbero potuto essere armati e avrebbero potuto reagire con manovre improvvise tali da mettere in pericolo la stabilità del gommone, con il conseguente rischio che alcuni migranti potessero cadere o gettarsi a mare, fermo restando che non sussisteva, in ogni caso, un obbligo giuridico da parte del personale della nave Iuventa di impedire il prelievo del motore da parte dei “pescatori di motori”. In tal modo la mancata opposizione del personale della nave Iuventa all’impossessamento del motore del gommone da parte dei “pescatori di motori” non solo non è idonea a fungere da elemento sintomatico della contestata consegna concordata dei migranti soccorsi (..), ma non è neanche idonea ad integrare un’autonoma condotta di favoreggiamento dell’immigrazione illegale”. Secondo il provvedimento “gli elementi probatori esposti depongono, in termini di assoluta chiarezza e completezza, per l’insussistenza dei reati contestati agli imputati “e ancora “sgombrato il campo dai sospetti, sulla base di dati obiettivi, le fonti di prova non si prestano a soluzioni alternative e non sono interpretabili in maniera diversa da quella sopra accolta. Peraltro, il materiale probatorio acquisito, anche nel corso dell’udienza preliminare, è insuscettibile di completamento e non potrebbe essere ulteriormente sviluppato nella direzione accusatoria”. Il Tribunale si premura di aggiungere che “anche nel caso in cui il materiale probatorio fosse stato idoneo ad integrare l’elemento oggettivo dei reati, nel contesto delle doverose operazioni di soccorso, realizzate sotto il costante coordinamento dell’I.M.R.C.C., sarebbe mancata la dimostrazione della sussistenza dell’elemento psicologico delle fattispecie contestate… tenuto anche conto della circostanza che al momento del soccorso i migranti sono da considerare “naufraghi” fino allo sbarco in un luogo sicuro e che il loro status verrà definito a terra solo dopo la consegna da parte dei soccorritori alle Autorità preposte ai controlli di frontiera”. Allo stesso modo si sarebbe dovuta prendere in considerazione la causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p.. Un adempimento del dovere di soccorso che come ha innovativamente rilevato il Gup riferendosi al provvedimento assunto dal Tribunale civile di Brindisi, può essere “astrattamente declinabile, in una prospettiva evolutiva, anche come diritto di esercitare il soccorso nei confronti dei migranti in evidente situazione di pericolo, in viaggio su imbarcazioni fatiscenti, sovraccariche, inidonee a percorrere in sicurezza lunghi tragitti e a raggiungere le coste europee, prive di una guida competente, di carburante sufficiente e di dispositivi di sicurezza”. Infine, il Gup ha riconosciuto che “la fuga da torture, detenzioni arbitrarie, violenze sessuali, maltrattamenti, sfruttamento sessuale e lavorativo, privazioni delle necessità umane primarie (beni alimentari e cure mediche) è chiaramente indicativa dell’inevitabilità di sottrarsi a una situazione di pericolo attuale di un danno grave alla persona derivante dalla permanenza nei centri di detenzione libici per migranti transitanti” rilevante per la sussistenza della scriminante dello stato di necessità. “In tale prospettiva le eventuali condotte materialmente idonee a procurare l’ingresso in Italia dei migranti privi di titolo di ingresso sarebbero in realtà necessitate, in quanto funzionali a difendere gli interessi fondamentali della persona umana e a sottrarre i migranti transitanti in Libia alle condizioni inumane vissute nei centri di detenzione”. Ribadiamo grande soddisfazione per il risultato raggiunto, ancora di più per gli importanti principi affermati dal Tribunale di Trapani che chiariscono una volta per tutte l’innocenza dei nostri difesi, ma soprattutto la necessità e la doverosità del soccorso delle persone che muoiono ogni giorno nel Mediterraneo. *Avvocati L’odissea dei migranti: “Respinti nel deserto con la complicità dell’Unione Europea” di Leonardo Di Paco La Stampa, 23 maggio 2024 Un’inchiesta svela il lato oscuro degli accordi bilaterali anti-immigrazione. “Bruxelles finanzia mezzi ed equipaggiamenti per impedire le traversate”. Francois è un uomo camerunese di 38 anni che, come tanti nella sua condizione, ossia provenienti dai Paesi dell’Africa subsahariana, sogna un futuro migliore in Europa. Tra settembre e dicembre 2023 ha provato quattro volte a raggiungere il Continente, mettendo da parte i soldi con il suo lavoro da piastrellista: non ci è mai riuscito. Il primo fallimento è arrivato dopo essere stato intercettato in mare da imbarcazioni con motori donati dall’Italia alla Tunisia. La seconda è stato arrestato all’improvviso nella sua abitazione vicino a Sfax, seconda città tunisina per importanza, ed è stato abbandonato nel deserto al confine tra la Tunisia e l’Algeria assieme alla sua famiglia. Senza cibo, senza acqua, senza alcuna assistenza: “Come un sacco di spazzatura”. A differenza di altri migranti, è sempre riuscito a sfuggire al deserto assassino. In altri due casi, invece, è stato recuperato in mare dai pescatori dopo un problema ai motori delle barche degli scafisti. La testimonianza di Francois è contenuta in un’inchiesta di Irpimedia, testata indipendente e non profit di giornalismo investigativo transnazionale che mette in evidenza la complicità dei Paesi Ue nel voler respingere i migranti con metodi che prevedono una grave violazione dei diritti umani. Morti di stenti - Nell’estate 2023 l’opinione pubblica internazionale ha scoperto casi simili a quello di François grazie alle testimonianze dirette dei migranti postate sui social network. Cambiava il luogo di espulsione: centinaia di persone provenienti dai Paesi dell’Africa subsahariana erano state cacciate tra la città tunisina di Ben Guerdane e quella libica di Ras Jedir. Il confine libico-tunisino è l’altra zona delle espulsioni di massa dalla Tunisia. Per quanto Ras Jedir sia poco distante dal mare, si trova in una zona desertica e inospitale. La trentenne ivoriana Fati Dosso e sua figlia Marie, di 6 anni, sono tra le 29 persone decedute in quei giorni tra le dune di sabbia. La foto che ritrae i loro corpi senza vita, abbracciati nel deserto, è diventata un simbolo delle conseguenze di quelle espulsioni di massa. Il sistema - Secondo l’inchiesta In Nord Africa esiste un “sistema” per espellere nel deserto i migranti che provengono tra il Sahara e l’Equatore. Lo scopo è impedire loro di raggiungere l’Europa, sfruttando il processo di esternalizzazione delle frontiere promosso dall’Ue negli ultimi vent’anni. Il ruolo dell’Europa - Mezzi ed equipaggiamenti necessari al sistema delle espulsioni per funzionare, dai motori delle motovedette che intercettano le barche dei migranti, fino ai pickup o agli autobus che li trasportano e abbandonano in mezzo al deserto, sono dotazioni che provengono dai Paesi europei. Bruxelles riconosce l’esistenza delle espulsioni nel deserto ma afferma che la responsabilità sia da attribuire ai Paesi partner che hanno siglato accordi bilaterali con gli Stati Ue. Rileva ancora il rapporto: “In Nord Africa, intorno a questo sistema, si sono creati centri di potere che gestiscono l’industria della migrazione irregolare: dai gruppi di trafficanti fino a ministeri che usano la migrazione come una leva per negoziare aiuti economici e legittimità politica”. Le responsabilità italiane - L’Italia, sottolinea Irpimedia, “è fra i Paesi che ha più sostenuto la Commissione in questo sforzo diplomatico, con l’obiettivo di fermare i flussi di migranti in partenza dal Paese nordafricano”. Lasciando fare il “lavoro sporco”, come lo chiama Francois, ad altri in cambio di ingenti fondi. Unione Europea. Con l’AI Act, stretta sulla giustizia, settore ad “alto rischio” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2024 Ieri il via libera del Consiglio Ue. La legislazione sarà in vigore tra due anni. Maggiore è il rischio di causare danni alla società e alle persone, più severe saranno le regole. Limiti stringenti all’utilizzo da parte dell’autorità giudiziaria. “Alcuni sistemi di IA destinati all’amministrazione della giustizia e ai processi democratici dovrebbero essere classificati come sistemi ad alto rischio, in considerazione del loro impatto potenzialmente significativo sulla democrazia, sullo Stato di diritto, sulle libertà individuali e sul diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”. In particolare, sono ad alto rischio “i sistemi di IA destinati a essere utilizzati da un’autorità giudiziaria o per suo conto per assistere le autorità giudiziarie nelle attività di ricerca e interpretazione dei fatti e del diritto e nell’applicazione della legge a una serie concreta di fatti”. Il passaggio è contenuto nel paragrafo 61 dell’AI Act, la legge europea sull’intelligenza artificiale che disciplina lo sviluppo, l’immissione sul mercato e l’uso dei sistemi di IA, a cui ieri il Consiglio Ue ha dato il via libera definitivo. La legislazione, spiega una nota del Consiglio, segue un approccio “basato sul rischio” , il che significa che maggiore è il rischio di causare danni alla società, più severe saranno le regole. Quando il rischio è inaccettabile, scattano i divieti: è il caso ad esempio delle tecniche manipolative, delle pratiche di polizia predittiva, del riconoscimento delle emozioni vietato sul posto di lavoro e nelle scuole. E ancora è il caso del riconoscimento facciale, il cui uso è consentito solo alle forze dell’ordine e soggetto a condizioni rigorose. L’Europa, dunque, è tra i primi soggetti giuridici al mondo a dettare una serie di obblighi a fornitori e sviluppatori di sistemi di IA in base ai diversi livelli di rischio identificati. Le nuove regole saranno applicabili a due anni dall’entrata in vigore, con l’eccezione dei divieti, che scatteranno dopo sei mesi, dei controlli sui sistemi di IA per finalità generali, compresa la governance (12 mesi) e degli obblighi per i sistemi ad alto rischio (36 mesi). Per garantire una corretta applicazione, vengono istituiti diversi organi di governo: un ufficio AI all’interno della Commissione per far rispettare le regole comuni in tutta l’UE; un panel scientifico di esperti indipendenti a supporto delle attività di contrasto; un comitato per l’AI con rappresentanti degli Stati membri per consigliare e assistere la Commissione e gli Stati membri nell’applicazione coerente ed efficace della legge sull’AI; un forum consultivo per le parti interessate per fornire competenze tecniche al comitato AI e alla Commissione. Ma il warning sulla applicazione della IA alla “Giustizia” si estende ai sistemi Adr. “Anche i sistemi di IA destinati a essere utilizzati dagli organismi di risoluzione alternativa delle controversie - si legge nel Regolamento - dovrebbero essere considerati ad alto rischio quando gli esiti dei procedimenti di risoluzione alternativa delle controversie producono effetti giuridici per le parti”. “L’utilizzo di strumenti di IA - specifica il testo - può fornire sostegno al potere decisionale dei giudici o all’indipendenza del potere giudiziario, ma non dovrebbe sostituirlo: il processo decisionale finale deve rimanere un’attività a guida umana”. Non è invece opportuno, continua il regolamento - estendere la classificazione dei sistemi di IA come ad alto rischio ai sistemi di IA destinati “ad attività amministrative puramente accessorie, che non incidono sull’effettiva amministrazione della giustizia nei singoli casi, quali l’anonimizzazione o la pseudonimizzazione di decisioni, documenti o dati giudiziari, la comunicazione tra il personale, i compiti amministrativi”. Nel mirino anche i sistemi di IA che attribuiscono un “punteggio sociale” alle persone perché possono portare “a risultati discriminatori e all’esclusione di determinati gruppi. Possono inoltre ledere il diritto alla dignità e alla non discriminazione e i valori di uguaglianza e giustizia”. Tali sistemi di IA comportano “pratiche inaccettabili” e “dovrebbero pertanto essere vietati”, senza tuttavia pregiudicare le “pratiche lecite di valutazione delle persone fisiche effettuate per uno scopo specifico in conformità del diritto dell’Unione e nazionale”. I modelli di IA per scopi generali (Gpai) che non presentano rischi sistemici dunque saranno soggetti ad alcuni requisiti limitati, ad esempio in materia di trasparenza, ma quelli con rischi sistemici dovranno rispettare regole più severe, tra cui valutazione del modello, valutazione e mitigazione di rischi sistemici, protezione della sicurezza informatica. La legge poi promuove regulatory sandboxes e real-world-testing , istituite dalle autorità nazionali per sviluppare e addestrare l’IA innovativa prima dell’immissione sul mercato. A seconda della violazione e delle dimensioni dell’azienda, saranno comminate multe che possono andare da un minimo di 7,5 milioni di euro o l’1,5% del fatturato fino a 35 milioni di euro o il 7% del fatturato globale. Dopo essere stato firmato dai Presidenti del Parlamento europeo e del Consiglio, l’atto legislativo sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Ue nei prossimi giorni ed entrerà in vigore venti giorni dopo la pubblicazione. Intanto, il 24 aprile scorso il Governo italiano ha varato un disegno di legge per l’introduzione di disposizioni e la delega al Governo in materia di intelligenza artificiale, con un investimento previsto di 1miliardo di euro. Sul fronte giustizia il testo prevede che l’IA sia utilizzata esclusivamente per finalità strumentali e di supporto - organizzazione del lavoro e ricerca giurisprudenziale e dottrinale - mentre è sempre riservata al magistrato la decisione sull’interpretazione della legge, la valutazione dei fatti e delle prove e sull’adozione di ogni provvedimento inclusa la sentenza. Stati Uniti. Caso Assange, ora nessuna lezione di democrazia universale di Stefania Limiti Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2024 Ora non venite a dirci che la democrazia occidentale è un modello universale. La buonissima notizia che giunge da Londra ci riempie di gioia e va ascritta ad onore e merito delle mobilitazioni mondiali a favore del giornalista australiano fondatore di Wikileaks. Essa rappresenta senz’altro una tappa importante: riconoscendo la fondatezza del suo ricorso, che ha posto dubbi circa la garanzia di un giusto processo negli Stati Uniti, l’Alta Corte di Londra ha concesso un’ulteriore possibilità di appello a Julian Assange contro l’estradizione negli Usa. Giochi dunque aperti. Come ha subito detto il consulente legale di Amnesty International, Simon Crowther, si tratta di “una rara buona notizia per Julian Assange e per tutti coloro che difendono la libertà di stampa”, dove a colpire è, ovviamente, quel rara che sta a dire dell’intento persecutorio della caccia scatenata contro di lui e dell’indifferenza verso la libertà dell’informazione. Nonostante l’Alta corte non sia affatto rappresentata da esponenti del progressismo radicale, con la sua conclusione dice al mondo che, se venisse estradato negli Usa, Assange potrebbe rischiare gravi violazioni dei diritti umani come l’isolamento prolungato, in contrasto col divieto di tortura e altri maltrattamenti. Non una quisquilia, dunque. Il punto di rottura di questa offensiva contro Assange deve esser stata il superamento della decenza della macchina repressiva, oltre che l’opportunità politica (dopo Navalny occorre uno ‘stacco’). Incriminato con 17 accuse di spionaggio e un’accusa di uso improprio del computer, i pubblici ministeri statunitensi chiedono per lui 175 anni di prigione, accusandolo della pubblicazione, quasi 15 anni fa, sul suo sito web, di una serie di documenti statunitensi riservati: in realtà si tratta di informazioni vitali per smascherare la natura criminale del potere americano che ha condotto guerre disumane nascondendo i suoi metodi brutali. Per questo il mondo democratico si è ribellato, sostenendo il giornalista: la sua incriminazione è un atto di negazione della libertà di stampa che ridicolizza gli obblighi di diritto internazionale degli Stati Uniti e del mondo occidentale e il decantato impegno per la libertà d’espressione. Chiedendo per lui una cella a vita, gli Usa dicono al mondo che la libertà d’espressione va bene ma se sono loro a decidere cosa dire o non dire. E chi sgarra paga. Per questo non vorremmo sentire lezioni di democrazia universale dopo questa sentenza, perché il caso Assange in una democrazia non sarebbe dovuto proprio mai iniziare. E se c’è ancora uno spiraglio, forse, lo si deve ad una autorità morale che si dà molto da fare dietro le quinte, e che, tra una preghiera al cielo e un inviato che conosce la diplomazia, forse può aver fatto la differenza. Medio Oriente. Se la pace non si fa alla procura dell’Aja di Stefano Stefanini La Stampa, 23 maggio 2024 I mandati di arresto richiesti dal Procuratore Capo del Tribunale penale internazionale fanno bene alle coscienze. Fanno malissimo alla pace. L’allontanano. Karim Ahmad Khan intende applicare il “diritto umanitario internazionale”, violato dai leader di Hamas per “crimini contro l’umanità” il 7 ottobre e dal primo ministro e dal ministro della Difesa israeliani per “privazione sistematica dei mezzi per la sopravvivenza” della popolazione di Gaza. Nel bel mezzo della guerra contro un movimento terroristico e della durissima crisi umanitaria della Striscia non contano le intenzioni; contano gli effetti che hanno. Il principale è stato di allentare la pressione, interna ed esterna, su Benjamin Netanyahu per fermare l’operazione militare contro Rafah e per offrire una soluzione politica al futuro di Gaza e della Palestina. Khan ha così gettato al primo ministro israeliano una ciambella di salvataggio che gli permette, una volta di più, di rimanere in sella a Gerusalemme, di tener testa alle richieste americane e di continuare “l’assedio totale a Gaza”, motivazione della richiesta di mandato d’arresto. Bibi era alle strette. Sempre più impopolare, fronteggiava l’ultimatum di Benny Gantz e dello stesso ministro della Difesa, Yoav Gallant, per presentare entro l’8 giugno un piano per Gaza nel dopoguerra. Da Washington piovevano le critiche per l’invasione di Rafah. La musica è di colpo cambiata. Joe Biden è immediatamente passato a censurare l’operato del Tpi. In Israele oppositori e critici hanno fatto quadrato intorno al governo, sdegnati soprattutto per “l’intollerabile equazione” con Hamas. Questa solidarietà non durerà a lungo ma intanto Netanyahu tira avanti. Come osserva Thomas Friedman sul New York Times, l’inattesa boccata d’ossigeno distrae dall’altra falsa, e pericolosa, equazione fra Hamas e Autorità palestinese che egli cerca di accreditare. Se “Hamas e Fatah sono la stessa cosa” non ci può essere Stato palestinese. Non resta che colonizzare Gaza e la Cisgiordania come vogliono i ministri estremisti, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. Karim Khan non ha colpa di queste conseguenze perverse, per quanto prevedibili. Il suo mestiere che è di far rispettare il diritto internazionale. Molti giuristi ritengono ineccepibile il suo operato. Il conflitto fra buone intenzioni giuridiche e pessimi effetti pratici nasce a monte. Nasce dall’entrata a gamba tesa del diritto sul terreno ancora instabile della politica e della diplomazia. Tocca a loro trovare una via d’uscita alla crisi costata la vita agli israeliani massacrati da Hamas e di cui stanno facendo le spese i due milioni di palestinesi delle Striscia. Il diritto deve fare un passo indietro e aspettare. Altrimenti diventa un ostacolo alla pace. Questo vale per la guerra fra Israele e Hamas a Gaza. Vale per quella russo-ucraina. Vale per tutte le guerre. Il turno dei tribunali viene dopo le guerre. Durante le guerre tocca alla diplomazia. Senza bisogno di risalire a Norimberga, che favorì l’incredibile catarsi tedesca post-bellica, i processi chiave del Tribunale per l’ex-Jugoslavia si sono tenuti solo dopo i negoziati politici. Prima venne Dayton, poi l’Aja. In “Come mettere fine a una guerra” Richard Holbrooke non fa mistero di aver trattato con gli stessi personaggi che poi finirono sul banco degli imputati: Slobodan Miloševi?, Radovan Karadži?, Ratko Mladi?. La pace costa strette di mano ostiche. Ricordiamo bene quella, sofferta, di Yitzhak Rabin a Yasser Arafat nei giardini della Casa Bianca. Questa è diplomazia. Il diritto è una cosa diversa. Alle elementari, in Scienze, impariamo che acqua e olio non fanno soluzione. Ma a tavola è necessario avere l’una per dissetarsi, l’altro per condire. Lo stesso dicasi di diplomazia e diritto internazionale. Vanno tenuti separati. Un mandato d’arresto contro un leader in esercizio delle sue funzioni crea il paradosso di ostacolare il dialogo quand’anche se ne creino le condizioni politiche. Immaginiamo una conferenza di pace sulla crisi ucraina. Improbabile ma certamente auspicabile. A Vienna, Ginevra o Helsinki, classiche sedi di vertici fra Mosca e Occidente. Con la partecipazione di Vladimir Putin. Altrimenti con chi parlarne? Cosa dovrebbero fare austriaci, svizzeri o finlandesi, arrestarlo perché colpito da mandato di cattura del Tpi? O pensiamo a una conferenza di pace sul Medio Oriente a Roma, che forse non dispiacerebbe al governo italiano. Cosa fare con Benjamin Netanyahu, se i giudici dell’Aja accolgono la richiesta del procuratore capo? Quando ci si siede a un tavolo per negoziare il meglio giuridico è nemico del bene diplomatico. Medio Oriente. “Ripudio la guerra di Netanyahu e andrò in carcere per questo” di Massimo Berruti Il Dubbio, 23 maggio 2024 In Israele chi rifiuta la leva è punito da sei mesi a un anno, ma col protrarsi del conflitto si rischia anche di più. La storia di Itamar Greenberg, obiettore di coscienza e attivista. In Israele, nel frammentato panorama dell’attivismo contro l’occupazione, i più giovani si distinguono per l’obiezione di coscienza alla leva militare. Un atto eclatante con conseguenze tangibili. Tra questi ragazzi incontriamo Itamar, 18 anni. Ad agosto verrà convocato per la leva obbligatoria. Due anni e otto mesi per i ragazzi e due anni per le ragazze. Itamar ha però deciso di non servire. Non si riconosce più nell’anello culturale in cui è cresciuto da bambino e non crede nelle politiche che vedono nell’occupazione e nei suoi insediamenti, un modello utile per la sicurezza comune come per quella pace che nel suo paese manca sin dalla sua creazione. Itamar è un obiettore di coscienza ed attivista per la causa Palestinese, ha deciso di intraprendere questa difficile strada, nonostante tutto, nonostante il 7 ottobre. Per lui questi atti rappresentano l’unica vera speranza di pace. In Israele gli obiettori sono soggetti al carcere per una durata ufficialmente indefinita, di solito tra i 6 mesi e un anno, ma col protrarsi della guerra la punizione potrebbe essere più aspra. Pur non arretrando sulla sua posizione e convinto della bontà delle sue intenzioni, Itamar ha paura. E conta uno ad uno i giorni di libertà che gli restano. Qual è la tua formazione? Dove hai studiato? Ho studiato in una scuola Ebraica, dedita all’insegnamento del Talmud e della Thora. Vengo da una famiglia ortodossa e questo è il normale percorso formativo. Poi ho abbandonato la comunità, mi sono distaccato da un punto di vista culturale. Non ho molto da dire da un punto di vista religioso, ma per quanto riguarda il mio credo politico, mi riconosco in una sinistra che qui viene definita come “radicale”. Radicale in che modo? In Israele viene definito come radicale quasi qualsiasi disallineamento con la dottrina coloniale del governo, di questo attuale come dei precedenti. Certe divergenze di opinioni non sono ben viste. La difesa dei diritti per i palestinesi in Israele, è certamente considerata come la più radicale delle posizioni ed io la sostengo. Quando dovrai apparire in tribunale per sostenere il tuo rifiuto alla leva? Il prossimo agosto. So bene che dovrò affrontare il carcere, e tramite persone che lo hanno fatto prima di me so anche che questa condizione durerà 6-12 mesi prima che mi rilascino. Ogni mese verrò condotto di fronte al giudice per confermare o meno la mia posizione, quindi in carcere di nuovo. Il sistema cerca di piegarti alla sua volontà in tutti i modi. Psicologicamente sarà molto difficile, e puoi affrontarlo solo se sei fermamente convinto delle tue ragioni. Credo fermamente che questo sia un potente segnale per il governo e tutta la mia società, rispetto alle ingiustizie che avvengono qui come l’oppressione dei palestinesi nei territori occupati. Sei molto giovane, come hai formato questa tua convinzione? Sono sempre stato molto interessato al “conflitto” e volevo saperne di più. Per noi è una condizione con cui si cresce, quasi del tutto scontata. Appena ho potuto ho fatto ricerche su Internet. Qui internet non è aperto come altrove, non è possibile accedere a tutte le informazioni. È così che è iniziato un processo che mi ha portato ad identificarmi come “di sinistra” circa 4 anni fa. Ho messo in discussione la mia società e di conseguenza anche le regole imposte dalla mia affiliazione all’ortodossia. Per questo ho abbandonato. Cosa significa abbandonare? La mia famiglia è speciale, siamo molto uniti. Non possono appoggiare la mia decisione, ma l’hanno accettata. Stranamente sono più sorpresi dalle mi visione politica che dal fatto che io non creda, ma viviamo ancora insieme. Questo è raro perché quasi chiunque altro abbia abbandonato la comunità ha affrontato un diverso destino. Di solito si viene esclusi e dimenticati, come si fosse morti. A rendere il tutto ancor più eccezionale è il fatto che mio padre è capitano dell’esercito, coinvolto nella ricerca ed identificazione delle persone scomparse il 7 ottobre. Per quanto riguarda le amicizie invece? Sono ancora in contatto con alcuni amici con cui ho studiato. Non sono molti, ma con loro sono molto vicino. La maggior parte invece non mi ha capito, ed ha tagliato completamente ogni rapporto con me. Torniamo alla tua causa, come intendi portarla avanti? Hai amici palestinesi? Non ne ho ma vorrei, non parlo arabo e per ora ho visitato molto poco i territori palestinesi. Mi voglio unire al progetto “Protective presence” con un gruppo che si chiama Looking occupation in the eye. Con loro userò i miei diritti a difesa di quelli Palestinesi, per proteggerli dalle confische ed aiutarli ad accedere in modo meno faticoso ad acqua ed altre risorse. Penso di iniziare una volta concluso il calvario giudiziario in cui sto per entrare per via della mia obiezione alla leva. Nel frattempo sono comunque attivo e presente in tutti gli eventi possibili contro l’occupazione. Cosa puoi dirmi del 7 ottobre, come lo hai vissuto? All’inizio il mio primo pensiero è andato a mio padre, perché sapevo che sarebbe stato chiamato a servire. Poi ho pensato alla dimensione senza precedenti di questo evento sul territorio di Israele, e sebbene abbia e continui a provare compassione per tutti coloro coinvolti in quel massacro, il mio pensiero è andato velocemente a Gaza, conscio del fatto, che il giorno dopo, sarebbe stata ferocemente rasa al suolo. Nell’immane tragedia che si è consumata quel giorno qualcuno, in alto, ha visto un’opportunità per accelerare il progetto coloniale. Questa tragedia deve però essere invece per la gente comune una opportunità per rendersi conto che queste logiche non possono portare a nulla se non all’autodistruzione. Purtroppo siamo ancora una piccola minoranza, ma ci sono segnali di crescita. Prima o poi la mia gente aprirà gli occhi. L’occupazione deve finire.