Isolamento in carcere, la prospettiva etica verso il superamento di Grazia Zuffa Il Manifesto, 22 maggio 2024 È stato da poco presentato il risultato di una iniziativa internazionale “dal basso”, di Antigone e dell’associazione israeliana Physicians for Human Rights, in tema di isolamento carcerario. Si tratta di linee guida sulle alternative all’isolamento penitenziario, accompagnate da un documento di contesto, che permette di collocare l’isolamento carcerario all’interno della concezione della pena carceraria. Da qui, si può delineare una prospettiva bioetica, seguendo la traccia di pensiero del Comitato nazionale per la bioetica (Cnb) che più volte è intervenuto sul carcere (in particolare sulla salute in carcere). L’isolamento carcerario, ossia la separazione del detenuto dal resto dei reclusi, implica che la persona stia da sola in cella almeno 22 ore al giorno. Può essere disposto per molteplici ragioni: disciplinari (con una durata massima di 15 giorni), giudiziarie (per esigenze cautelari), o anche sanitarie: ad esempio soggetti con problematiche di salute mentale, a volte considerati a rischio suicidario. Un paradosso, poiché i dati dicono che l’isolamento è condizione che precipita la decisione di togliersi la vita. Dalla ricerca si ricavano evidenze circa la nocività dell’isolamento carcerario sulla salute, in particolare sulla salute mentale. Questo regime inibisce le relazioni “fuori”, con familiari e con altri soggetti significativi, riduce la socialità “dentro”, limita l’accesso alle attività culturali: elementi importanti per la tenuta psicologica della persona reclusa e per dare concretezza alla rieducazione e risocializzazione. Dunque, l’isolamento carcerario si pone in contrasto col diritto alla salute, mettendo in tensione il principio del limite che deve rispettare la pena costituzionalmente fondata: la sospensione del diritto alla libertà di movimento non può cancellare gli altri diritti fondamentali, in primis il diritto alla salute. In più, tale regime detentivo comporta una sofferenza in più rispetto alla limitazione della libertà della detenzione ordinaria. È legittimo tutto ciò? Oppure siamo ai limiti del trattamento inumano e degradante, in quanto la sofferenza inferta con l’isolamento eccede i limiti della pena costituzionalmente (ed eticamente) intesa? Un indizio inquietante sta nel fatto che gli episodi di violenza e abuso sono più frequenti proprio nei reparti di isolamento: in molti dei quali le celle sono ambienti inumani. L’obiettivo non può che essere il superamento dell’isolamento, attraverso un percorso di riduzione fino all’eliminazione di questa pratica, in quanto non eticamente fondata. Può essere utile rileggere in parallelo la questione della contenzione. A suo tempo, il Cnb indicò la via della riduzione fino all’abolizione della contenzione. A chi obietta “ma non si può fare altrimenti”, va ricordato che la ricerca delle alternative parte dal rifiuto netto di agire contro la dignità della persona. Se oggi esiste un numero significativo di servizi psichiatrici no-restraint, è perché a suo tempo Franco Basaglia si rifiutò di legittimare la consuetudine di legare i pazienti al letto (il famoso “e mi non firmo”). Le buone pratiche nascono da una rivolta morale, che spinge a inventare, o semplicemente a riconoscere le alternative. Lo stesso si può ipotizzare per l’isolamento detentivo: le alternative già ci sono nelle linee guida internazionali, per riconoscerle occorre un balzo in avanti delle coscienze. Su questa via, il primo passo è far sì che l’isolamento sia considerato intervento straordinario, invece di ordinario strumento di gestione penitenziaria, imponendo procedure trasparenti di documentazione degli episodi. E il sistema sanitario, col suo personale, deve fare la sua parte, non solo astenendosi dal certificare che la persona possa sopportare il regime speciale; ma al contrario facendosi parte attiva nel denunciare l’abuso del procurare danno alla salute delle persone detenute. Il ritorno del sempre uguale di Laura Anello La Stampa, 22 maggio 2024 A poche ore dal 23° anniversario della strage di Capaci - il perno simbolico intorno a cui ruota la storia della mafia e dell’antimafia in Sicilia - le nuove indagini sul generale Mario Mori, allora vicecapo del Ros dei carabinieri e direttore dei Servizi segreti civili, hanno l’effetto dell’eterno ritorno del sempre uguale, per dirla con Nietzsche. Assolto l’anno scorso definitivamente dall’accusa di avere condotto una trattativa sottobanco con Cosa nostra per fermare le stragi dopo una vicenda giudiziaria che si è trascinata per un quarto di secolo, questa volta al canuto generale oggi ottantacinquenne toccherà respingere l’accusa della procura di Firenze di non avere impedito le stragi del 1993 che portarono le bombe a Roma, a Milano, a Firenze. Al netto del rispetto per la magistratura, può un Paese normale continuare ad aggrovigliarsi nei suoi nodi dopo trent’anni? Può ancora aggirarsi nelle nebbie con i suoi fantasmi? Può farlo ancora, tre decenni dopo la morte di Falcone? Se fosse una fiction, verrebbe da dire che i personaggi sono logorati, che la narrazione è vecchia, che non appassiona più. E invece su questa storia che ha visto salire alla ribalta - e questa volta tocca citare Sciascia - una generazione intera di professionisti dell’antimafia, c’è il sangue di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, degli agenti delle loro scorte, delle tante altre vittime innocenti. Non è una fiction, no. La prima inchiesta su Mori, già mascariato per la mancata perquisizione al covo di Riina nel 1993, fu aperta proprio dalla procura di Firenze nel 1998. Poi la svolta nel 2009 quando Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, avviò la stagione delle sue contraddittorie rivelazioni: il padre avrebbe intavolato una trattativa con il Ros, consegnando loro il famoso papello con le richieste per fermare le stragi, uno scambio che avrebbe avuto la copertura di servizi segreti e politici. Un ricatto: abolizione del 41bis in cambio dello stop al tritolo. E Mori, con i suoi uomini (Antonio Subranni e Giuseppe De Donno) nel ruolo di mediatori, complice di una “minaccia a un corpo politico dello Stato”, questa l’ipotesi di reato. Da lì una via crucis, per gli imputati e per il Paese, che è durata 25 anni - venticinque - e che si è conclusa con la sentenza della Corte di Cassazione del 27 aprile 2023 che assolse gli ufficiali del Ros da ogni accusa. La trattativa era una “boiata pazzesca”, come sintetizzò con una battuta il giurista palermitano Giovanni Fiandaca, che già nel 2012 aveva smontato pezzo dopo pezzo quella costruzione, dando scandalo, lui democratico e di sinistra. E tra le tante cose che disse e che ha ripetuto in questi anni vale la pena citarne una: “Questa vicenda è stata frutto di una indebita enfatizzazione estremistica dei pm, far prevalere i processi politico-mediatici rispetto a quelli giudiziari non giova al sistema democratico e neppure alla lotta alla mafia”. Neanche il tempo di tirare un sospiro di sollievo, per Mori, ed ecco arrivargli ieri, nel giorno del suo compleanno, il regalo del nuovo avviso di garanzia per i reati di strage, associazione mafiosa e associazione con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico. Sostanzialmente, sarebbe stato informato delle stragi nel corso della sua attività investigativa, e non le avrebbe impedite. “Credevo di poter trascorrere in tranquillità quel poco che resta della mia vita”, ha commentato. Il timore è che sia la replica della puntata di una spystory già vista. Spettatore esausto il Paese che avrebbe diritto alla verità. Accusato di aver “trattato” per le stragi, ora Mori è indagato per non averle impedite di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 maggio 2024 L’ex Ros Mario Mori nel mirino della procura di Firenze commenta: “Combattere mi allunga la vita”. Ecco cosa non torna nell’accusa avanzata dai pm. Se prima era stato processato perché, interloquendo con don Vito Ciancimino, autonomamente si è mosso per porre fine alle stragi, ora a Firenze lo vogliono processare perché - apprendendo che ci sarebbero state le stragi continentali del 1993-1994 - non ha fatto nulla per impedirle attraverso “autonome iniziative investigative e/o preventive”. Continua la persecuzione giudiziaria nei confronti dell’ex Ros Mario Mori. Processato tre volte a Palermo, dalla cosiddetta mancata perquisizione del (non) covo di Riina alla (non) trattativa Stato-mafia e alla mancata cattura di Provenzano, è stato puntualmente assolto con formula piena. Parliamo di un ventennio di travaglio giudiziario, dove una certa magistratura ha vissuto in simbiosi con un certo giornalismo che vive di rendita con le stragi di mafia, creando tesi dietrologiche che a tutto è servito, tranne che alla verità dei fatti. Mario Mori ha 85 anni e rischia di ritrovarsi ad affrontare un altro doloroso processo. A darne la notizia è stato lui stesso, avendo ricevuto l’avviso di garanzia il giorno del suo compleanno. Data a comparire? Il 23 maggio, per pura casualità l’anniversario della strage di Capaci. Ma su quali basi? Vediamole. Partiamo dalla tesi della procura di Firenze. In sostanza, secondo i magistrati inquirenti, l’ex Ros non avrebbe impedito gli attentati stragisti del 1993-1994, pur avendone la possibilità. In che modo? Non avrebbe segnalato o denunciato alle autorità competenti le informazioni ricevute su imminenti attentati. Non solo. Secondo i magistrati, non avrebbe intrapreso iniziative investigative o preventive per fermare gli attentati. E dove e quando avrebbe appreso questa notizia? Sempre secondo la procura di Firenze, Mori avrebbe ricevuto tali informazioni per due volte. Una ad agosto del 1992: dal maresciallo Roberto Tempesta, tramite la fonte Paolo Bellini, avrebbe saputo che Cosa Nostra progettava di attaccare il patrimonio artistico italiano, in particolare la torre di Pisa. Poi il 25 giugno 1993: durante un colloquio investigativo a Carinola, Angelo Siino gli avrebbe riferito, basandosi su informazioni di Antonino Gioè, Gaetano Sangiorgi e Massimo Berruti, che Cosa Nostra aveva in programma attentati nel Nord Italia. Cosa non torna? Per comprendere il motivo per il quale Mori non avrebbe impedito le stragi continentali dobbiamo aspettare la tesi della procura. Ma vista la narrazione dominante che dura da trent’anni (e sostenuta da alcune tesi processuali e ricostruzioni un po’ contorte di alcuni giudici), possiamo ipotizzare che sicuramente parta dall’idea che un gruppo superiore alla mafia, composto da donne bionde, servizi deviati e gladiatori, abbia eterodiretto Cosa Nostra per far salire Berlusconi al governo. Quindi Mori sarebbe uno dei componenti di questa entità: la famosa teoria del terzo livello che in realtà Falcone e Borsellino consideravano una sciocchezza. Peccato che tutta questa tesi crolli miseramente, visto che il progetto terroristico mafioso è stato deliberato dalla commissione presieduta da Totò Riina nel 1991. Anno in cui la Prima Repubblica era ben consolidata, ancora non era scoppiata Tangentopoli e la discesa in campo non era ancora nell’anticamera del cervello di Berlusconi stesso. Dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, Totò Riina viene catturato dai Ros guidati da Mori. A quel punto, Leoluca Bagarella, i fratelli Graviano e Messina Denaro decisero di portare a compimento la linea stragista. Seguirono l’attentato a Roma contro Maurizio Costanzo il 14 maggio del 1993 (ricordiamo che Gaspare Spatuzza stesso, innanzi al pm Stefano Luciani, disse che i sopralluoghi per l’attentato erano avvenuti nel ‘91), la strage di via dei Georgofili a Firenze tra il 26 e il 27 maggio, la strage di via Palestro a Milano, e contemporaneamente gli attentati a San Giorgio al Velabro e a San Giovanni in Laterano a Roma tra il 27 e il 28 luglio 1993. Dopo una pausa di alcuni mesi, nel 1994, dallo stesso gruppo criminale fu organizzato l’attentato, fallito, davanti allo stadio Olimpico di Roma. Ma veniamo alle notizie che Mori avrebbe appreso. La questione del maresciallo Tempesta è ben conosciuta e già vagliata dai processi di Palermo e di Firenze stessa. Si sfiora un Ibidem. Tutto nasce dall’iniziativa del terrorista nero Paolo Bellini, una strana figura di informatore della polizia e avventuriero, che all’epoca si muoveva anche nel mondo dei traffici di opere d’arte. Offrì al maresciallo Tempesta, del nucleo tutela patrimonio artistico dei Ros, la sua disponibilità a infiltrarsi in Cosa Nostra per portare notizie utili agli investigatori, approfittando dell’amicizia che costui in passato aveva stretto col mafioso Antonio Gioè (stretto sodale di Giovanni Brusca e Gioacchino La Barbera), durante la loro comune detenzione nel carcere di Sciacca. Bellini, col consenso di Tempesta, fece ricorso alla trovata di recarsi in Sicilia per proporre a Gioè uno scambio tra alcuni quadri importanti trafugati in una galleria di Modena e la concessione di benefici carcerari ad appartenenti a Cosa Nostra. Gioè, attraverso Brusca, presentò a Bellini una lista di cinque detenuti del gotha di Cosa Nostra sottoposti al 41 bis o comunque in difficoltà, rispetto ai quali Bellini si impegnò a ottenere un alleggerimento del trattamento detentivo. Tempesta, incalzato da Bellini, volle rimettere la questione a Mori, ma la trattativa si arenò: l’ex Ros tergiversò e in sostanza non volle occuparsene, e dal canto suo Bellini, temendo di rischiare troppo, e effettivamente sospettato da Gioè e dal suo gruppo di agire da infiltrato, uscì di scena dileguandosi. Punto, nient’altro. Che Bellini segnalò la Torre di Pisa come simbolo da colpire è storia nota. Peccato che, come sappiamo, non fu colpita, e ben altre città vennero colpite e già adocchiate nel ‘91. Basti pensare a Maurizio Avola che già in quell’anno, fece un sopralluogo a Firenze. Sarebbe interessante, a questo punto, leggere le intercettazioni di via Ughetti, dove sono stati captati i dialoghi tra Gioè e La Barbera. Sappiamo che sono risalenti a febbraio del ‘93. Gioè verrà arrestato subito dopo per evitare che fossero realizzati alcuni attentati già pianificati, così come risulterebbe dalle conversazioni intercettate dalla procura di Palermo. Parliamo al condizionale perché non sono mai state depositate tutte. Sarebbe a questo punto interessante poterle leggere per intero, visto che quelle sì che potevano essere utili per prevenire le stragi continentali. Per ora rimarrà un mistero. Poi c’è la questione di Angelo Siino, il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra” arrestato grazie al dossier mafia-appalti redatto dai Ros. Nel giugno del ‘93 avrebbe detto a Mori che la mafia stava preparando attentati al Nord. All’epoca non era ancora un pentito, quindi parliamo di colloqui informali e molto probabilmente non c’è alcun verbale. Quindi difficile poter verificare con i riscontri. Abbiamo un esempio. Siino, dialogando con l’ex Ros Giuseppe De Donno, avrebbe accusato di corruzione alcuni magistrati di Palermo per quanto riguarda la gestione del dossier mafia-appalti. Quando Siino divenne collaboratore si rimangiò tutto: era la sua parola contro quella dell’allora Ros Giuseppe De Donno, visto che erano colloqui informali e quindi non verbalizzati. Ma poniamo che fosse vero quello che dicono gli inquirenti fiorentini. Parlare di attentati al Nord era generico, quale azione preventiva poteva fare Mori? Ma tutto questo è ancora da chiarire attraverso un lungo lavoro di archivio. Dopo 32 anni non ci si può più fare affidamento alla memoria. Dovranno essere le carte a parlare. Nel contempo, raggiunto telefonicamente da Il Dubbio, Mori dice di non aver paura di nulla, anzi: “Combattere di nuovo mi rinvigorisce e allunga la vita”. Il generale Mario Mori indagato a morte, ecco l’inchiesta più surreale del mondo di Tiziana Maiolo Il Riformista, 22 maggio 2024 Se lo sentiva, il generale Mario Mori, che gli sarebbe cascato addosso “qualcosa”, alla vigilia dell’ottantacinquesimo compleanno e dell’invito a comparire della procura di Firenze. Non avrebbe però immaginato mai di essere indagato per i reati di strage, associazione mafiosa e associazione con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico. Aspettava piuttosto una reazione, dopo le motivazioni della sentenza che lo aveva visto assolto, dopo vent’anni di pene e ingiustizie, dalla bufala del secolo, il “Processo Trattativa” tra lo Stato e la mafia. L’inchiesta più surreale del mondo - Non gli erano sfuggite le dichiarazioni del pm “antimafia” Nino Di Matteo, che aveva accusato i giudici della sesta sezione della cassazione di aver emesso una sentenza “politicamente indirizzata”. Così l’ex comandante del Ros e dirigente del Sisde aveva lanciato il suo piccolo allarme in un’intervista al quotidiano L’Identità. “Venti anni di processi sono tantissimi e pesanti. Probabilmente non è ancora finita”. Eccolo accontentato. Se può esserle di consolazione, caro generale, sappia che, per quanto il fatto sia doloroso e incomprensibile, lei è finito all’interno dell’inchiesta più surreale del mondo. Che queste indagini sulle stragi del 1993 e 1994, partite a Caltanissetta e planate su Firenze quasi come bagaglio appresso del pubblico ministero Luca Tescaroli, sono state già archiviate quattro volte. I due Luca - E se Silvio Berlusconi non potrà avere la soddisfazione di vederne la quinta è solo perché non c’è più. Rimangono Marcello Dell’Utri e la storia infangata di Forza Italia. Con una guerra di carte tra le toghe di Palermo, che ripetutamente hanno messo pietre tombali sulle petulanze di certe richieste dei pm, e la procura di Firenze con l’insistenza dei due Luca, Tescaroli e Turco, l’”amico” di Matteo Renzi e della sua famiglia. Un’inchiesta sulle bombe mafiose del 1993, in via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano e san Giovanni in Laterano e san Giorgio al Velabro a Roma. Oltre a quella mancata allo stadio Olimpico, importante per l’accusa perché è del gennaio 1994 e consente alla procura di Firenze di fissare la data dell’ultimo attentato ai giorni precedenti l’annuncio di Berlusconi del suo ingresso in politica. Dopo, dicono i pm Tescaroli e Turco, non ci sarà più bisogno di bombe e di stragi, perché il risultato sarà stato raggiunto con la vittoria di Forza Italia e di Silvio Berlusconi. Surreale? Certo, ma loro ci credono. E non sono opportune battute sulla necessità di sottoporre i magistrati ai test psico-attitudinali. Ma ci sono altri magistrati che la pensano diversamente. O quanto meno che stanno di più con i piedi per terra e attinenza alla realtà. L’ex procuratore nazionale antimafia ed ex presidente del Senato Pietro Grasso, per esempio. In un’intervista a Lucia Annunziata circa un anno fa aveva raccontato di aver interrogato sulla fine delle stragi un “pentito” molto accreditato, quel Gaspare Spatuzza che aveva svelato l’imbroglio del finto collaboratore Scarantino. E il “pentito” gli aveva detto che le stragi erano cessate perché lo Stato aveva vinto, e tutti i boss erano ormai all’Ucciardone. Le anticipazioni vaghe e generiche - Quindi non erano Berlusconi e Dell’Utri a organizzarle, ma semplicemente i corleonesi. Ormai sconfitti. Il generale Mori, scrivono i due Luca (uno dei quali, Tescaroli, che compie queste indagini da quando aveva 27 anni, è ormai promosso procuratore capo di Prato), “pur avendone l’obbligo giuridico, non impediva, mediante doverose segnalazioni e/o denunce all’autorità giudiziaria, ovvero con l’adozione di autonome iniziative investigative e/preventive, gli eventi stragisti di cui aveva avuto plurime anticipazioni”. Che erano vaghe e molto generiche. Una su un progetto di attentati al patrimonio artistico e “in particolare alla Torre di Pisa”. E l’altra di “attentati al nord”. “Accuse surreali e risibili” le ha definite il generale Mori. Ma del resto tutta questa inchiesta è costruita così. E ogni volta che si avvicina la data dell’archiviazione “spunta” una specie di fatto nuovo. È accaduto negli ultimi mesi del 2022, quando i pm di Firenze hanno avuto la fortuna di imbattersi nel gelataio Salvatore Baiardo, recentemente finito ai domiciliari per calunnia nei confronti di Massimo Giletti, che in diverse puntate di “Non è l’arena”, aveva parlato di una foto di Berlusconi con il boss Giuseppe Graviano. La foto non si è mai vista, e Baiardo si è divertito parecchio, a pagamento, a giocare al gatto con il topo, facendola apparire e sparire, da giocoliere quale è. Poi l’ultima puntata dell’otto maggio scorso, con un danno collaterale. E un avviso chiusura indagini, di un ramo secondario dell’inchiesta, con la notizia del fatto che Ilda Boccassini è indagata per false dichiarazioni al pm, per non aver svelato il nome della fonte del suo amico giornalista Giuseppe D’Avanzo su uno scoop del 1994. E ora Mario Mori. Il quale ricorda il giudizio sferzante della cassazione sul “Processo Trattativa” e le sue ricostruzioni “storiografiche”. E aggiunge con amarezza: forse la mia colpa è quella di non essermi fatto ammazzare come Falcone e Borsellino? Non ci si poteva accontentare, gli fa eco il ministro Guido Crosetto, di avergli reso per decenni la vita un calvario? Evidentemente no. Caso Forti. Permessi premio e semilibertà, l’ultima parola spetta all’Italia di Liana Milella La Repubblica, 22 maggio 2024 Eccole le parole chiave: permessi premio, semilibertà, liberazione condizionale, 45 giorni di pena in meno per ogni semestre scontato. Fanno parte del bagaglio di stampo garantista che l’Italia ha “consegnato” agli Usa, già quando a sollecitare il trasferimento di Chico Forti fu l’ex Guardasigilli Marta Cartabia. Sono le stesse che ora, nel primo atto giudiziario che lo riguarda - la sentenza della Corte d’Appello di Trento del 22 aprile di Ettore Di Fabio, Gabriele Protomastro e Giovanni De Donato - compaiono quando viene citata la convenzione di Strasburgo, testo chiave perché disciplina “il trasferimento delle persone condannate”, recepita nella legge del 1989. Né equivoci, né imbrogli sottobanco nell’accordo Italia-Usa. Da ergastolano che ha già scontato 25 anni, l’ex surfista, col sì del giudice di sorveglianza, potrà fruire delle nostre norme. Messe sotto il naso degli americani, più e più volte. E lo dice subito Nicola Russo, l’ex capo del Dag, il Dipartimento dell’amministrazione di giustizia con Cartabia, oggi di nuovo giudice della Corte d’Appello di Napoli. “Già nel 2021 abbiamo rappresentato in maniera estremamente chiara quale sarebbe stato il regime penitenziario applicabile una volta riconosciuta la sentenza, che prevede dopo 25 anni la possibilità, dopo un altro anno, che il condannato acceda ai benefici, previo parere favorevole del giudice di sorveglianza che ne osserva il comportamento”. Proprio così. Né sorprese. Né favoritismi. Forse indotti oltreoceano dall’accoglienza assai festaiola della premier. Ma basta leggere la convenzione di Strasburgo: “L’esecuzione della condanna è regolata dalla legge dello Stato d’esecuzione e quest’ultimo è il solo competente per prendere tutte le decisioni appropriate”. Da qui non si scappa. Il costituzionalista di Roma Tre Marco Ruotolo ha certezze, ma pure un dubbio: “L’Italia si è impegnata a rispettare la pena, solo dopo 26 anni la liberazione condizionale e dopo 20 la semilibertà. Sarà possibile un’attività all’esterno tornando in cella la sera, e permessi premio. Scontato il parere attento del giudice di sorveglianza”. Ma Ruotolo ricorda quell’ergastolo “without parole”, senza liberazione condizionale. Che in Italia è possibile. Ma pure la criticità: “Si sta creando un clima favorevole che mette in crisi la condanna di uno Stato democratico riconosciuta dai nostri giudici …”. L’enfasi di Meloni all’arrivo? Ruotolo guarda lì. Se il costituzionalista riconosce i “diritti” di Forti, il giurista della Statale di Milano Gian Luigi Gatta si attesta sul “nessun automatismo”, con un passo avanti: “Per la nostra giurisprudenza è pacifico che nel computo degli anni scontati si tenga conto di quelli all’estero. Nonché dei 45 giorni ogni sei mesi in caso di buona condotta. E a me paiono già sei anni. Il tribunale di sorveglianza chiederà agli Usa se la buona condotta c’è stata e le detrazioni possono essere applicate. In tal caso potrebbe accedere subito alla liberazione condizionale che comporta però un “sicuro ravvedimento” oltre al risarcimento ai parenti delle vittime. Le vedo improbabili nel suo caso”. Ed eccoci ai dubbi. Quelli di Giovanni Maria Pavarin, una vita da magistrato di sorveglianza. “Il futuro di Forti mi richiama alla mente il lungo contrasto giurisprudenziale che esiste sulla compatibilità della liberazione condizionale, con il sicuro ravvedimento del condannato, e la dichiarazione d’innocenza, posto che sarà ben difficile spiegare all’uomo della strada come sia possibile ravvedersi da qualcosa che si dichiara di non aver commesso, ancorché la Suprema corte l’abbia talvolta ritenuto possibile…”. Restano allora i “permessi di necessità”. Come quello per la madre. E quelli premio. Ma la strada è lunga. Il ritorno di Chico Forti. La distanza tra le prigioni italiane e quelle Usa di Mario Giro Il Domani, 22 maggio 2024 In questi ultimi anni era detenuto in un carcere fuori Miami di “minima sicurezza”, dove poteva avere un cane, fare dei corsi agli altri detenuti, ricevere tutte le visite e altre facilità. Nel tempo si era fatto ben volere da tutti, guardie comprese: cosa non scontata nell’universo carcerario statunitense. Chico Forti è tornato in Italia. È una buona notizia. Deve continuare a scontare la pena qui da noi: è questo l’accordo preso tra le autorità dei due paesi. Qualche anno fa ero stato a trovarlo in carcere a Miami. Molti ministri e deputati di ogni colore si sono adoperati per negoziare la sua liberazione. L’attuale esecutivo presieduto da Giorgia Meloni è riuscito a concludere positivamente una vicenda che durava da parecchio tempo. Chico non si è mai lamentato, non ha protestato, non ha inveito contro le autorità americane o italiane: è solo rimasto fermo sulle sue posizioni di innocenza, con calma e grande determinazione. Ha compreso subito che quando sei nelle mani di un altro governo devi lasciar fare alle autorità diplomatiche del tuo paese. Le nostre - come ha ripetuto il ministro degli Esteri Antonio Tajani - sono abituate a non abbandonare nessuno. Sulla copertina dei passaporti di molti paesi, anche Ue, sta stampata una dicitura: “Questo passaporto non dà diritto ad alcuna assistenza consolare obbligatoria”. Da noi è diverso. Ci sono oltre 2.400 casi di italiani bloccati all’estero, non tutti in carcere e ognuno con una storia diversa. Inoltre ogni anno le nostre autorità diplomatiche e consolari operano circa 10mila interventi per rimpatri, evacuazioni mediche, incidenti vari. Certo possono accadere fatti molto più gravi e orrendi come la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni, un dramma che ha inciso sulle relazioni con l’Egitto e che rende difficile la cooperazione giudiziaria. Fortunatamente sono casi rari: il più delle volte si tratta di eventi meno dolorosi, anche se va detto che pure nel caso di Giulio dobbiamo molto all’ambasciatore dell’epoca al Cairo, Maurizio Massari (oggi a New York), che ebbe il coraggio di denunciare immediatamente e non permettere l’insabbiamento iniziale (ciò che forse ha contribuito a far ritrovare il corpo). Comunque ci sono molti casi di liberazioni e rimpatri dei quali non si fa pubblicità (o pochissima): l’impegno dello Stato (del quale sono testimone) è permanente e non è senza rischi (ricordate le bombe alle nostre sedi al Cairo o ad Atene?). Visto che Chico verrà trasferito in un carcere italiano, ciò che invece davvero dovrebbe attirare tutta la nostra attenzione e quella del grande pubblico è lo stato delle nostre prigioni. È giusto pretendere che gli italiani non restino intrappolati nelle carceri o nei labirinti giudiziari altrui, ma è ancor più importante badare ai propri. Il nostro sistema carcerario soffre dei soliti annosi disagi: sovraffollamento, vetustà delle strutture, carenza di acqua e servizi, caldo d’estate e freddo d’inverno, poca possibilità di fare attività o di lavorare, cattiva sanità, poco personale male retribuito e ancor meno motivato. Chico in questi ultimi anni stava in una prigione (fuori Miami) di “minima sicurezza” dove poteva avere un cane, fare dei corsi agli altri detenuti, ricevere tutte le visite e altre facilità. Nel tempo si era fatto ben volere da tutti, guardie comprese: cosa non scontata nell’universo carcerario statunitense. Tutto questo si deve alla sua capacità empatica, alla sua intelligenza umana e alla sua calma: talenti che già gli si riconoscevano nella vita precedente. A Trento in molti se lo ricordano così. Ora giungerà in un altro universo carcerario in cui tante possibilità non ci sono. Accanto alla sua storia che sta - finalmente! - andando nel verso giusto, vorrei cogliere l’occasione per ricordare le tante storie di prigionieri nelle nostre carceri finite male. Soprattutto i tantissimi suicidi, quasi 40 dall’inizio di quest’anno. Si muore troppo nelle nostre prigioni, per un nonnulla e nella grande disattenzione. Marco Bracconi sul Venerdì ha fatto una lista dei suicidi, una speciale Spoon River nazionale, con i nomi, le provenienze e le età. Ci sono tante piccole drammatiche storie di disagio fisico e mentale; stranieri e italiani insieme, molti accusati di femminicidio o abusi. Numerosi hanno provato a uccidersi più volte fino a riuscirci. Dietro a ogni nome si intravvede un vuoto di solitudine e abbandono. Le età sono molto diverse: dai vent’anni ai settanta. Alcune storie sono senza nome, anonime. La buona notizia di Chico, assieme a tante altre, può spingerci a guardare al nostro sistema carcerario con occhi diversi. Un paese diventa civile se si prende cura degli ultimi: dei poveri, dei fragili e anche dei carcerati. In Italia non si può, non si deve più morire così. *Politologo Siracusa. Il Garante: “Il detenuto suicida doveva essere trasferito in Comunità fin dal 2023” di Gianni Catania siracusaoggi.it, 22 maggio 2024 Il detenuto che si è ucciso in cella ad inizio maggio, a Cavadonna, doveva essere trasferito in una comunità di recupero. La richiesta era stata presentata già a giugno 2023. È quanto emerso durante il sopralluogo del Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Siracusa, Giovanni Villari, all’interno della casa circondariale. L’uomo, in terapia psichiatrica, si è impiccato utilizzando le lenzuola. Disperativi i tentativi di rianimazione che hanno riattivato soltanto un flebile battito cardiaco. Trasferito in rianimazione all’Umberto I senza mai riprendere conoscenza, è stato dichiarato morto due giorni dopo. Quello stesso pomeriggio, un secondo detenuto aveva tentato di togliersi la vita, quasi un’ora prima e sempre nella stessa sezione: blocco 10. Non è riuscito nel suo intento e - attraverso colloqui con i medici della struttura - il garante ha appreso che era in sciopero della fame per protesta. Anche in questo caso, si tratta di uomo in terapia psichiatrica. Ma quanti sono i carcerati che richiedono questo tipo di assistenza a Cavadonna? “Non è stato possibile reperire il registro visite psichiatriche, dal quale si sarebbe potuto evincere il numero dei casi in cura in questo ultimo periodo. È purtroppo molto evidente una grave carenza di personale sanitario: dal programma di turno di maggio risultano 29 turni scoperti (di cui 12 notturni), per un totale di 180 ore non coperte. È imprescindibile un intervento immediato per potenziare il personale sanitario”. Al momento sono almeno 12 i casi psichiatrici di gravità “significativa” ma circa il 30/40% dei detenuti presenti a Cavadonna - secondo il dato fornito da fonti mediche al garante Villari - “richiede cure e terapie psichiatriche”. Nell’ala in cui era ristretto il detenuto che si è tolto la vita, sono in corso lavori di ristrutturazione. “Attualmente, purtroppo, la sezione è affetta da casi di scabbia dovuti all’infestazione di parassiti, un problema persistente nonostante gli interventi mirati e sanificanti attuati dalla direzione già in passato”, annota il garante che ha suggerito alcuni interventi per ridurre le possibilità di proliferazione e diffusione di parassiti. Noti poi i problemi relativi alla carenza di personale e sovraffollamento della popolazione carceraria. Il Garante ha anche sottolineato nella sua relazione come, nonostante siano passate molte settimane dall’installazione del distributore gratuito di acqua potabile sanificata e dalla fornitura dei dispenser per tutte le sezioni dell’Istituto, questi ultimi non sono ancora stati attivati e resi disponibili alla fruizione. “Si sono accumulati notevoli ritardi a causa della protratta consegna di alcune attrezzature. La direzione assicura che l’attivazione avverrà entro una settimana. Sarà necessario trovare una soluzione adeguata per posizionare i dispenser nelle varie aree di utilizzo, preferibilmente vicino all’ingresso delle sezioni, per consentire un accesso libero e continuo, ma sotto la supervisione costante del personale della polizia”. Milano. Alessia Pifferi inizia lo sciopero della fame in carcere: “Non ho più voglia di vivere” di Simona Musco Il Dubbio, 22 maggio 2024 Di recente la donna è stata condannata all’ergastolo per aver abbandonato per una settimana la figlia Diana, morta di stenti. “La mia vita è finita, nessuno mi crede. Mi sento abbandonata, sola. Non ho più voglia di vivere”. Alessia Pifferi vuole lasciarsi morire così come sua figlia Diana, la piccola di 18 mesi morta di stenti per essere stata lasciata sola in casa dalla madre per sei giorni. Una fine tremenda, la sua, per la quale la donna è stata condannata pochi giorni fa all’ergastolo: per i giudici, infatti, Pifferi è capace d’intendere e di volere. Una tesi che la difesa, rappresentata dall’avvocato Alessia Pontenani, non condivide affatto, rilanciando, in vista del futuro appello, la diagnosi che la vuole affetta da un deficit cognitivo. Da 24 ore Pifferi ha iniziato lo sciopero della fame, mettendo in atto il proposito comunicato a Pontenani già all’indomani della sentenza: “Voglio spegnermi come la mia bambina”, aveva affermato. “Mi ha detto che ha firmato un foglio per lo sciopero della fame - ha spiegato l’avvocato a Repubblica - piange in continuazione. Sta scrivendo una lettera alla madre, che ancora non ha spedito. Dice che ha ricevuto molta solidarietà dalle altre detenute, almeno quelle che la tollerano. Adesso le hanno cambiato anche compagna di cella, sta con un’altra signora. Ma dice che non ha più voglia di vivere”. Per conoscere le ragioni della condanna toccherà attendere 90 giorni. Intanto, quel che è certo è che i giudici della Corte d’Assise di Milano hanno escluso la premeditazione. Per il pm Francesco De Tommasi, Pifferi non meritava alcun beneficio “soprattutto perché ha mentito sulla vita di sua figlia, l’ha tradita quando l’ha lasciata sola, l’ha tradita in questo processo, quando non ha avuto il coraggio di assumersi le sue responsabilità. Diana guarderebbe la madre e implorerebbe il suo perdono perché i bambini sono così. Alessia Pifferi è stata descritta come una vittima sulla base di considerazioni che muovono da un presupposto: è affetta da deficit mentali - ha detto nel corso della requisitoria -. Non ha alcun deficit mentale, non c’è alcun dubbio, alcun documento di prova. Pifferi si è inventata una storia per scrollarsi di dosso le responsabilità e poter dire: “Non è colpa mia”“. Completamente diversa la versione di Pontenani, secondo cui “è evidente che non volesse uccidere la bambina”. La legale ha annunciato che in appello verrà chiesta una nuova perizia, affermando che il processo è stato condizionato dalla nuova indagine che la vede coinvolta assieme alle psicologhe del carcere di San Vittore, accusate di falso e favoreggiamento per aver messo nero su bianco che il Qi della donna è pari a 40, ovvero quello di una bambina di 7 anni. “Se non ci fosse stata l’inchiesta parallela - ha spiegato dopo la pronuncia della sentenza -, forse la perizia avrebbe dato un esito diverso. Non è stato un processo sereno”. Pontenani avrebbe però recuperato nuovi documenti sulle condizioni di salute di Pifferi, ovvero cinque cartelle sulla cui base l’avvocato chiederà una nuova perizia psichiatrica, così come aveva fatto poco prima della chiusura dell’istruttoria dibattimentale in primo grado, quando aveva depositato i documenti relativi al percorso scolastico di Pifferi, caratterizzato dalla necessità di un sostegno. Se Pifferi è stata oggetto di insulti e di aggressioni in carcere, Pontenani è stata invece oggetto di minacce (anche di morte) e insulti telefonici e online, perpetrati da chi le ha contestato di aver osato difendere un “mostro”. Insulti arrivati, ha spiegato intervenendo a Cusano Italia Tv, anche da parte di alcuni colleghi. L’avvocato ha pubblicato sui propri social uno dei tanti messaggi di odio ricevuti, in cui una donna - forse la meno aggressiva - la invitava a “farsi schifo”. E poche ore dopo ha spiegato di aver parlato con una delle sue hater, appena 17enne, che addirittura l’avrebbe minacciata di morte, salvo poi scusarsi. “C’è anche da dire che nel momento in cui un pubblico ministero dice che la pena deve essere sofferenza, allora forse dovremmo rivalutare un po’ tutto quanto, perché io invece ritengo sempre che la pena debba essere rieducativa, così come previsto dalla nostra Costituzione - ha dichiarato ancora Pontenani -. Quando sento dire certe cose rabbrividisco perché qui mi sembra che stiamo facendo veramente un preoccupante passo indietro. Ci fosse stato il rogo pubblico in piazza la Pifferi l’avrebbero bruciata in piazza, e questo a me fa paura”. Palermo. Il punto del Garante dei detenuti nell’evento “Il carcere visto da dentro” blogsicilia.it, 22 maggio 2024 “Il carcere visto da dentro, il dramma della detenzione tra sovraffollamento e suicidi”. È stato questo il tema della relazione di Pino Apprendi, garante comunale per i diritti dei detenuti della città di Palermo che è stata presentata nel salone Orlando Scarlata dell’Associazione siciliana della stampa in via Francesco Crispi 286 a Palermo. Apprendi ha, dunque, fatto il punto della situazione estremamente critica registrata nelle carceri dell’Ucciardone e dei Pagliarelli. Gli autori di tutti gli interventi hanno concordato sulla necessità di riformare il sistema carcerario ed hanno sollecitato il comitato a proseguire nelle battaglie portate avanti negli ultimi anni. L’iniziativa è promossa dal comitato “Esistono i diritti” con il coinvolgimento delle associazioni forensi palermitane. Sono intervenuti: Irene Carmina (giornalista de La Repubblica), Roberto Leone (vice segretario regionale dell’Associazione siciliana della stampa), Gaetano D’Amico (presidente del comitato Esistono i Diritti), Marco Traina (avvocato, componente del comitato Esistono i Diritti), Annalisa Cordaro (componente del comitato Esistono i Diritti), Pino Apprendi (garante per i diritti dei detenuti del Comune di Palermo), Mario Serio (professore ordinario presso l’Università di Palermo componente del collegio del Garante Nazionale), Ornella Spotorno (psicologa presso la Casa di Reclusione Ucciardone), Rita Barbera (già direttrice della Casa di Reclusione Pagliarelli - Ucciardone), Giorgio Bisagna (avvocato, presidente dell’Associazione Antigone Sicilia), Fra Loris (cappellano presso la Casa di Reclusione Pagliarelli Palermo), Donatella Corleo (consiglio direttivo di Nessuno Tocchi Caino), Santi Consolo (garante per la tutela dei diiritti fondamentali dei detenuti della Regione Siciliana). A riconferma della difficile situazioni nelle carceri siciliane anche gli episodi di violenza che si sono verificati negli ultimi giorni a Trapani e Palermo. “Durante una rissa tra detenuti nel reparto Adriatico del carcere di Trapani, un detenuto ha aggredito un sovrintendere e un agente intervenuti per riportare l’ordine. I poliziotti sono stati portati in ospedale. La prognosi è di alcuni giorni”. È quanto denuncia il Maurizio Mezzatesta segretario regionale Fsa Cnpp. “Mercoledì scorso, un detenuto durante il trasporto dopo aver creato scompiglio alla 9^ sezione dell’Ucciardone a Palermo ha aggredito un ispettore della polizia penitenziaria che lo stava accompagnando in un altro reparto - aggiunge Mezzatesta - Continuano gli eventi critici e le aggressioni ai danni del personale di polizia penitenziaria relegato negli Istituti penitenziari della regione, che si sommano con le critiche condizioni lavorative più segnalate dal Cnpp, financo il rischio che in personale oltre la penalizzazione dei diritti soggettivi, gli insostenibili carichi di lavoro dovuti alla cronica carenza di personale che verosimilmente potrebbe penalizzare perfino il piano ferie estivo”. Pozzuoli (Na). Dopo le scosse di terremoto evacuato il carcere femminile: 140 detenute trasferite di Ciro Cuozzo Il Riformista, 22 maggio 2024 Il carcere femminile di Pozzuoli è stato evacuato nella mattinata di martedì 21 maggio dopo le forti scosse di terremoto registrate nella serata di ieri nell’area dei Campi Flegrei, di cui Pozzuoli è uno delle zone rosse. Le circa 140 detenute saranno trasferite “per motivi di sicurezza” in diverse strutture penitenzierie della Campania. Ad annunciarlo il prefetto di Napoli Michele Di Bari nel corso di un punto stampa sul bradisismo e gli ultimi, preoccupanti, eventi delle scorse ore. Terremoto, carcere evacuato: notte nel cortile per detenute - Una decisione presa per tutelare detenute e agenti penitenziari. Dopo le quattro scosse di magnitudo compresa tra 3.1 e 4.4 (la più alta degli ultimi 40 anni), le detenute sono state condotte nel cortile del carcere dove hanno trascorso la notte, munite di coperte. Nella struttura nei prossimi giorni saranno effettuati controlli e verifiche sull’agibilità. Il provveditore delle carceri campano Lucia Castellano spiega che la decisione è stata presa “per motivi precauzionali” dopo che “le scosse di ieri sera hanno provocato dei danni alla struttura sulla cui entità sono in corso accertamenti. Il nostro sforzo è finalizzato a far rientrare le detenute quanto prima -spiega Castellano- Pozzuoli è una struttura d’eccellenza a cui non vogliamo rinunciare”. Terremoto, “crepe” in carcere - Quanto ai danni, Castellano spiega: “Gli ingegneri da noi delegati, insieme con quelli del comune - spiega il provveditore Lucia Castellano - hanno verificato l’esistenza di crepe e, siccome non ne conosciamo al momento la gravità e neppure siamo in grado di prevedere l’andamento e l’entità dello sciame sismico in corso, al termine di una riunione abbiamo deciso di trasferire per motivi precauzionali l’intera popolazione carceraria”. “Devo rivolgere un ringraziamento alle agenti della penitenziaria e a tutto il personale presente - ha concluso il provveditore - che hanno assistito le detenute finanche nella preparazione dei bagagli”. Mamone (Nu). Il metaverso entra in carcere, visite mediche da remoto per i detenuti di Luca Urgu La Nuova Sardegna, 22 maggio 2024 Progetto pilota dell’Asl. La sanità penitenziaria cambia a cominciare da Mamone per la prima volta in Italia. La tecnologia per spezzare l’isolamento, abbattere i costi e fornire l’assistenza sanitaria alla popolazione penitenziaria da remoto. E in questo particolare momento storico in cui i professionisti scarseggiano questa nuova frontiera della medicina di prossimità assume un’importanza davvero rilevante, per certi versi rivoluzionaria. Parte dalla colonia penale di Mamone, estesa su 2.700 ettari, che accoglie detenuti (il 50 per cento sono stranieri) condannati a una pena massima di sei anni, il progetto innovativo studiato in questi mesi dalla Asl di Nuoro, dall’Università di Cagliari e State 1, per facilitare l’accesso alle prestazioni sanitarie, in uno dei luoghi - sia per l’isolamento (54 km dall’ospedale più vicino, ma anche per la condizione di detenzione) è più difficile usufruirne. La struttura offre l’opportunità di lavorare nel settore agropastorale a circa 150 detenuti ogni anno e ha ancora potenzialità enormi. Il principale obiettivo di questo esperimento è migliorare l’accessibilità alle cure sanitarie per i detenuti, superando le barriere legate all’isolamento geografico e le conseguenti difficoltà logistiche affrontate quotidianamente dalla colonia. Con questo progetto i partners coinvolti si pongono all’avanguardia nell’uso delle tecnologie digitali per garantire e facilitare l’accesso alle prestazioni sanitarie, promuovendo al contempo l’equità e l’inclusione nel contesto delle cure penitenziarie. L’innovativo progetto Metaverso - per la prima volta in Italia -, consente di erogare servizi sanitari da remoto in una realtà penitenziaria complessa dove il problema principale è rappresentato dall’isolamento che va ben oltre i chilometri che lo dividono dall’ospedale più vicino. Ieri nella giornata di debutto delle consulenze in remoto nella colonia penale di Mamone a partire dalla metà della mattinata ben quattro detenuti hanno sperimentato il servizio nella stanza dell’infermeria del carcere. Uno dopo l’altro hanno indossato il visore e dialogato con i professionisti della Asl collegati nella Casa della Comunità San Francesco di via Demurtas a Nuoro. Per questa fase iniziale psichiatria e fisiatria sono i due ambiti al centro del progetto, ma una volta che si avranno i primi feedback del servizio si potrebbe pensare di estenderlo anche ad altre attività specialistiche all’interno del carcere con il risultato di una riduzione dei costi legati agli spostamenti. “È un grandissimo balzo in avanti che si fa sul fronte del diritto alla salute in ambiente detentivo - ha detto il direttore della colonia penale di Mamone Vincenzo Lamonaca -, è un progetto pilota fortemente dall’amministrazione penitenziaria nella nostra struttura, decisamente isolata (siamo a quasi 17 km da Bitti a oltre 50 km dall’hub ospedaliero più vicino che quello di Nuoro). Così la realtà sanitaria nel Metaverso va oltre la tele medicina. Il detenuto-paziente riesce a interloquire con il proprio medico o comunque con i sanitari di riferimento. Ecco, questo tipo di approccio consente di elevare gli standard sanitari e contemporaneamente anche quelli di sicurezza evitando rischiosi in termini di sicurezza ed esosi (per le casse pubbliche) spostamenti”, ha rimarcato il direttore che oggi guida Mamone e Is Arenas. Dal punto di vista operativo il servizio funzionerà in base al bisogno dell’utenza e ci sarà ovviamente la possibilità per i detenuti di prenotarsi a seconda delle specialistiche di riferimento tendenzialmente fisiatria e psichiatria, settori maggiormente suscettibili di essere sviluppati all’interno di questa realtà virtuale. “Con l’attività che stiamo inaugurando stiamo portando un’innovazione molto importante nel domicilio di queste persone, ovvero la casa di reclusione che li sta ospitando in questa fase della loro esistenza”, ha commentato da Mamone il direttore generale dell’Asl n. 3 di Nuoro, Paolo Cannas. “Siamo fiduciosi che possa portare dei buoni risultati, così che possa essere replicata in tantissime altre realtà sia carcerarie anche utilizzata per altre tipologie di prestazioni”. Cagliari. Carceri, due incontri su malattia mentale e caso Scardella L’Unione Sarda, 22 maggio 2024 Gli appuntamenti giovedì 23 e sabato 25 maggio. “Salute Mentale e Rems: la realtà di Cagliari-Uta” è il tema dell’incontro-dibattito in programma giovedì 23 maggio nella Biblioteca dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari, promosso dall’associazione “Socialismo Diritti Riforme Odv”. In collaborazione con l’Ordine forense, l’appuntamento, che si svolgerà dalle ore 16.30 alle 19.30, intende approfondire il rapporto tra privazione della libertà e salute mentale. Nell’ambito dei lavori, a cui sono stati invitati, tra gli altri, l’assessore regionale della Sanità Armando Bartolazzi, la Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari Cristina Ornano, il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria Mario Antonio Galati e il responsabile dell’area sanitaria della Casa Circondariale “Ettore Scalas” Luciano Fei, si parlerà anche della realtà della Rems (Residenza per le Misure di Sicurezza) di Capoterra con il Direttore Riccardo Curreli. La partecipazione all’iniziativa, che si avvale del patrocinio dell’Ordine degli Avvocati, garantisce tre crediti formativi alle e agli iscritti. A coordinare il dibattito, dopo l’introduzione ai lavori di Maria Grazia Caligaris, Presidente di Sdr Odv, sarà la giornalista Chiara Zammitti, inviata di Tgr Rai Regione. “Abbiamo subito accolto la richiesta di ospitare l’incontro - sottolinea Matteo Pinna, Presidente dell’Ordine degli Avvocati - per l’importanza del tema. L’emergenza del carcere e la tutela dei diritti umani e del diritto alla salute, anche mentale, delle persone detenute sono questioni centrali per l’Ordine, sia sul fronte della funzione difensiva che su quello dei rapporti tra tutti gli enti coinvolti, che devono dialogare il più possibile tra loro”. “Parliamo di salute mentale - ha aggiunto Herika Dessì, referente Commissione Diritti Umani dell’Ordine - perché stiamo sperimentando sempre più spesso che si tratta del disturbo più diffuso tra i nostri assistiti. Con episodi che fanno ritenere indispensabile un approfondimento e una conoscenza più articolata”. “Il tema della realtà detentiva nei suoi molteplici aspetti - sottolinea Caligaris - ricorre nei nostri dibattiti. Riteniamo che, a 13 anni dal passaggio della sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario, sia indispensabile una riorganizzazione e un ripensamento nonché la necessità di rafforzare i servizi di salute mentale nel territorio. La Casa Circondariale di Cagliari, con una popolazione detenuta di oltre 650 persone, offre un’occasione per riflettere su ciò che si fa all’interno ma anche sugli indispensabili strumenti di prevenzione all’esterno con supporti socioeconomici alle famiglie, spesso lasciate da sole”. Sdr Odv, dopo l’appuntamento di giovedì, si occuperà ancora di carcere sabato pomeriggio nella Sala Conferenze della Fondazione di Sardegna. L’occasione è la presentazione del nuovo libro di Cristiano Scardella che rievoca la morte in carcere del fratello Aldo, suicidatosi a Buoncammino dopo 185 giorni di detenzione da innocente. Milano. “E tu, che lavoro sei?”. Spettacolo-provocazione dei detenuti di Bollate di Roberta Rampini Il Giorno, 22 maggio 2024 “I figli di Estia” metteranno in scena dopo otto mesi di prove un testo per riflettere sul tema della professione come definizione dell’identità. Il testo nasce da una provocazione: cosa sognavamo da bambini? Cosa ci piacerebbe fare? Com’è cambiato il lavoro e come ha cambiato la società? Un dramma originale e collettivo. Nessuna risposta ma domande più profonde da condividere con chi sta fuori, “spesso il lavoro ci tradisce e altrettanto spesso ci definisce come individui, ma è realmente così? Siamo davvero solo il nostro lavoro?”. Attori e tecnici sono tutti detenuti. Otto mesi di prove per “E tu, che lavoro sei?”, il nuovo spettacolo de “I figli di Estia”, compagnia teatrale dell’associazione culturale PrisonArt, nata all’interno del carcere di Bollate per desiderio di un gruppo di persone detenute che avevano lavorato con Michelina Capato e che volevano mantenere vivo il suo insegnamento anche dopo la chiusura di cooperativa Estia (da qui il nome della compagnia). Due date, giovedì 30 maggio e sabato 1° giugno alle 20.30, nel teatro del carcere, alle porte di Milano. Un nuovo spettacolo e l’ennesima conferma, nel caso ce ne fosse bisogno, della ‘potenza’ del teatro per rieducare chi ha sbagliato e sta pagando. Per ‘plasmare’ i detenuti in attori e danzatori. Sul palcoscenico ci saranno Antonio De Salve, Aziz Usman, Fabrizio Pasini, Francesco Antonio Cannata, Gianluigi Sferrazza, Jinlai Lin, Leandro Strano, Maurizio Margiotta, Sebastian Nicolas Arredondo, Yong Xiao Hu, detenuti- attori che hanno trovato la loro opportunità di riscatto attraverso questo lavoro collettivo e anche nella magia della recitazione. La parte tecnica delle luci è affidata a Cristian Stepich, quella dei suoni a Cristian Bezzecchi e Raffaele Rullo. Realizzazione di Lorenc Marini, Roberto Stepichi, Gianluca Dercenno. Scenografia e regia sono a cura di Barbara Bedrina e Lorenza Cervara, sotto la visione di Stefano Pozzato, presidente di PrisonArt, i “non detenuti” del gruppo. La prima a portare il teatro dietro le sbarre fu Michelina Capato, artista, coreografa e pedagoga, scomparsa nel 2021 a soli sessant’anni. Convinta che il carcere dovesse riabilitare le persone, a partire dagli anni ‘90 introdusse i laboratori teatrali a San Vittore. Nel 2004 fondò la cooperativa Estia e portò il teatro anche a Bollate, carcere all’avanguardia nel trattamento dei detenuti. Qui, ancora oggi, il suo ricordo è vivo. Iscrizioni per assistere allo spettacolo sul sito www.prisonart.it entro giovedì 23 maggio. Cuneo. Animazione sociale e culturale destinata ai detenuti laguida.it, 22 maggio 2024 Ha preso inizio sul territorio cuneese il progetto “Mettersi alla prova. Acrobazie della convivenza tra regole e leggerezza”, con capofila il Comitato Arci Cuneo Asti e finanziato dalla Cassa delle Ammende della Regione Piemonte. L’obiettivo è la realizzazione di iniziative di animazione sociale e culturale destinate a detenuti della casa circondariale di Cuneo e della casa di reclusione di Fossano, persone alla messa alla prova seguite dagli Uepe (Uffici di esecuzione penale esterna) e dall’Ussm (Ufficio di servizio sociale per minorenni), o ancora persone marginalizzate e a rischio di esecuzione penale, intercettate dalla Cooperativa Emmanuele, dal Comitato di Quartiere Cuneo Centro e dal Csv (Centro servizi per il volontariato). Alla base dell’idea progettuale e della collaborazione tra numerosi enti del territorio, istituzionali e del terzo settore, c’e? l’intenzione di voler contribuire a sviluppare le competenze creative, artistiche, linguistiche e civiche di giovani e adulti, coltivando relazioni positive con la realta? sociale che si vive e si abita quotidianamente. Il percorso che si propone e? anche uno strumento per facilitare la conoscenza di professioni nel mondo della cultura e dare delle possibilita? di inserimento lavorativo. Avvicinando la cultura al mondo del sociale e il sociale al mondo della cultura. Gli attori culturali coinvolti sono: le cooperative Panaté e Perla che si occupano di inserimento lavorativo di detenuti, l’Arci Bra, il Collettivo Zaratan, Ratatoj di Saluzzo e Cinema Vekkio di Corneliano d’Alba. Le azioni previste consistono in laboratori di preparazione e riflessione con metodi di pedagogia attiva sul mondo dell’arte dal vivo e i Festival culturali, ma anche laboratori artistici di video partecipativo, musica rap, circo contemporaneo e mindfulness motivazionale. I beneficiari del progetto “Mettersi alla prova” verranno poi inseriti e accompagnati in mansioni concrete durante gli appuntamenti artistico culturali, concependo il volontariato come opportunita? di coltivare coesione sociale, di scoprire ambiti di interesse diversi. I festival culturali del territorio della Provincia di Cuneo coinvolti sono tre: Zoe? in Citta? alla sua 5ª edizione e proposto dal Collettivo Zaratan e Circo Zoe? nel periodo tra luglio e agosto 2024; Expo Art.27 a Cuneo, alla sua 2ª edizione a settembre 2024 e proposto dalla cooperativa Panate? e la casa circondariale di Cuneo; il Festival della Leggerezza al monastero di San Biagio di Mondovi? previsto a giugno 2025 proposto da Casa Do Menor e l’Associazione teatrale Orfeo. I beneficiari conosceranno da vicino il mondo delle discipline artistiche, della fruizione culturale, dell’organizzazione di eventi, avvicinandosi anche ai mestieri dello spettacolo che sono una risorsa per l’inserimento lavorativo e la crescita professionale per i giovani. Inoltre i Festival possono essere luoghi e occasioni per le persone coinvolte attivamente per sperimentarsi in un quadro definito con regole precise e talvolta frutto di negoziazioni, cosi? come accade all’interno di ogni societa? (orari, collaborazione, turni, mansioni). La partecipazione al percorso è aperta a tutti; contattare il 370.3474145 per maggiori informazioni. Uguaglianza e pace, così l’Europa rinnega se stessa di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 22 maggio 2024 L’Europa sta negando se stessa. L’Unione europea è nata su due fondamenti, l’uguaglianza e la pace: per porre fine ai razzismi, ai campi di concentramento e, soprattutto, alle guerre. Entrambi questi fondamenti stanno oggi venendo meno. È questa la prospettiva che dovrebbe essere presente, ma che è totalmente assente, nell’attuale campagna per le elezioni europee. Innanzitutto l’uguaglianza. La disuguaglianza è in aumento in tutta Europa e soprattutto in Italia, dove la povertà assoluta è triplicata negli ultimi quindici anni, mentre è più che raddoppiato il numero dei miliardari. Ma sono le leggi in materia di immigrazione - le odierne leggi razziste - che stanno mostrando il riemergere in Europa di un’antropologia della disuguaglianza, alimentata da perverse ossessioni nazionaliste e identitarie. L’Europa ha un debito enorme nei confronti del resto dell’umanità. Per secoli, proprio in nome del diritto di emigrare da essa rivendicato a fondamento delle sue conquiste e colonizzazioni, gli Stati europei hanno invaso, occupato, dominato, depredato e sfruttato gran parte dei paesi del mondo. Oggi che l’asimmetria si è ribaltata e sono i disperati della terra che fuggono da quegli stessi paesi ridotti in miseria, l’esercizio di quel diritto si è trasmutato in delitto. Militarizzazione dei confini, penalizzazione dei soccorsi in mare, sequestro dei migranti finché non ne avvenga il rimpatrio o l’accoglimento delle domande d’asilo, hanno blindato la fortezza Europa, dove è riapparsa la figura della “persona illegale”, clandestina o detenuta unicamente per ragioni di nascita. A causa dell’apartheid dei poveri del pianeta, il genere umano è spaccato in due: un’umanità che viaggia liberamente nel mondo, per turismo o per affari, e l’umanità dei sommersi e degli esclusi, costretti dalla miseria e dalla fame a terribili odissee, fino a rischiare la vita nel tentativo di arrivare in Europa dove sono destinati a detenzioni illegittime o a sfruttamenti come non-persone. L’altro valore fondante dell’Europa, la pace, è scomparso dall’orizzonte delle politiche europee, proprio nel momento forse più drammatico della storia umana. Con incredibile leggerezza e irresponsabilità, i governanti europei stanno parlando, da qualche mese, di una possibile guerra tra la Nato e la Russia, che ovviamente rischierebbe di degenerare in un conflitto nucleare e nella devastazione dell’intero continente. Frattanto l’Onu sta manifestando tutta la sua impotenza, non riuscendo neppure a ottenere la cessazione del fuoco e del massacro disumano nella disgraziata striscia di Gaza. Sta inoltre crescendo, in Europa, un clima di guerra velenoso, segnato dall’intolleranza settaria dei governi e di gran parte dei media per qualunque opzione pacifista. Si sta giocando col fuoco. L’intero Consiglio europeo di due mesi fa ha concordato sulla necessità di sconfiggere la Russia e, in vista di una guerra, di accrescere spese militari e armamenti come se quelli esistenti non fossero sufficienti a distruggere più volte il genere umano. Di fronte a questa follia, Costituente Terra ha organizzato, per giovedì 23 maggio presso l’Università di Roma Tre, un convegno dedicato alla pace, al quale papa Francesco ha inviato il bellissimo messaggio pubblicato qui sotto. Discuteremo a tal fine della necessità di stipulare le garanzie della pace, oggi assolutamente mancanti. Queste garanzie non possono limitarsi ai tanti trattati di non proliferazione nucleare, sistematicamente violati o inattuati. È necessaria una rifondazione della carta dell’Onu che stabilisca, nell’interesse di tutti, il disarmo totale degli Stati, la messa al bando delle armi, non solo di quelle nucleari ma di tutte le armi da sparo, e l’abolizione di tutti gli eserciti nazionali, auspicato da Kant più di due secoli fa. Sembra un’utopia, ma è la sola ipotesi realistica e razionale, letteralmente nell’interesse di tutti. Eserciti e apparati militar-industriali, come dichiarò Eisenhower alla fine del suo mandato presidenziale, sono la costante, mortale minaccia alla democrazia e alla pace. Per questo la produzione, il commercio e la detenzione di armi dovrebbero essere previsti come crimini. Ma a tal fine dovrebbe crescere, nel senso comune, il banale riconoscimento di una corresponsabilità morale, in ogni guerra e in ogni assassinio, delle grandi imprese produttrici di armi. Giacché è da questi produttori di morte che sono armati eserciti, associazioni criminali, bande terroristiche e assassini. D’altro canto la pace non è solo fine a se stessa. È anche la condizione di un dialogo tra le grandi potenze in ordine alle tante altre sfide globali che minacciano l’umanità: dal riscaldamento climatico alla crescita delle disuguaglianze e della povertà, dallo sfruttamento del lavoro al dramma dei migranti. Queste catastrofi possono essere impedite solo dalla costruzione di una sfera pubblica globale e di istituzioni di garanzia alla loro altezza, quali proverrebbero dalla stipulazione di una Costituzione della Terra. Ma è solo in un clima di pace che può maturare la consapevolezza dell’esistenza di pericoli a tutti comuni, che richiedono l’accordo di tutti su risposte globali e comuni, nell’interesse di tutti, inclusi i potenti, alla convivenza e alla sopravvivenza. Il convegno “Il problema della guerra e le vie della pace” si terrà giovedì 23 maggio 2024 alle ore 09.30, presso il Dipartimento di Giurisprudenza (Aula 5) dell’Università Roma Tre. In Friuli vietato parlare di immigrazione nelle scuole di Marika Ikonomu e Enrica Riera Il Domani, 22 maggio 2024 Dopo la nota pubblicata dalla Regione, l’incontro organizzato dalla scuola in collaborazione con il Consorzio Italiano di Solidarietà è stato spostato a data da destinarsi. Un mediatore culturale avrebbe dovuto raccontare la propria storia, ma per la regione è una visione di parte. Il Consorzio: “Vige l’idea autoritaria per cui le informazioni devono provenire solo dalle istituzioni, non può esistere un altro punto di vista” Avrebbero dovuto incontrare gli studenti dell’istituto comprensivo Italo Svevo di Trieste per parlare di accoglienza e inclusione. Ma questa mattina il mediatore culturale Ismail Swati e il Consorzio Italiano di Solidarietà non lo hanno fatto. “Appuntamento sospeso, non ce lo ha comunicato la scuola, lo abbiamo saputo dai giornali ma poi, una volta contattato il docente che aveva organizzato l’incontro, abbiamo ricevuto conferma. Una decisione assunta probabilmente a seguito della posizione assunta dall’assessorato regionale rispettivamente all’Istruzione e alla Sicurezza”, commenta il presidente del Consorzio, Gianfranco Schiavone. “Visione univoca della realtà” - Per questa storia bisogna infatti fare un salto indietro, fino alla nota del 15 maggio della Regione Friuli Venezia Giulia che aveva mostrato diverse perplessità in riferimento all’appuntamento. “Grave che all’interno di uno spazio pubblico come una scuola, a dei giovani studenti, su un tema estremamente complesso come l’immigrazione irregolare, venga offerta una visione univoca della realtà, argomentata da chi riceve soldi pubblici per gestire l’emergenza e da chi potrebbe essere arrivato illegalmente in Italia”, si legge appunto nella nota della Regione Friuli Venezia Giulia. Per gli assessori all’Istruzione e alla Sicurezza è necessario capire se per l’evento in questione sia “stata valutata l’opportunità di organizzare un incontro così politicamente orientato in piena campagna elettorale”. Ma soprattutto per gli assessori “una scuola pubblica dovrebbe offrire una rappresentazione della realtà riportata primariamente dalle istituzioni che hanno competenza in materia: la prefettura sull’accoglienza, la polizia sui flussi irregolari e sul rilascio dei permessi, il Comune sulla gestione dei minori non accompagnati, la regione sulle norme di settore”. Da qui l’annuncio di voler chiedere un approfondimento all’Ufficio scolastico regionale. “Inopportuno dare voce a un migrante irregolare” - Domani ha dunque contattato Alessia Rosolen, assessora all’Istruzione, che è ferma nella sua posizione ma garantisce che “la scuola non ha ricevuto alcuna richiesta circa la sospensione dell’incontro da parte della regione”. Un incontro “inopportuno - continua Rosolen - perché su temi così delicati bambini di 12 o 13 anni dovrebbero ascoltare le istituzioni, dalla questura alla prefettura. E invece - chiosa - si è scelto di dare la parola a un migrante irregolare e a una cooperativa politicamente schierata”. Quando facciamo notare che forse si sarebbe trattato di una testimonianza diretta, di una storia raccontata di chi l’ha vissuta sulla propria pelle per l’assessora non ci sono ragioni. “A parlare a dei ragazzini non può essere un migrante irregolare”. Il Consorzio Italiano di solidarietà è attivo nel campo dell’accoglienza a Trieste dal 1998. “Abbiamo attraversato venti governi - dice ancora il presidente Schiavone -, ma mai come oggi affrontiamo un’epoca fatta di assoluta aggressività. Dicono che non ci sia stata nessuna richiesta da parte della Regione? Per noi c’è un nesso di casualità invece e la vicenda è assai bizzarra. Dicono che Ismail sia un irregolare? Non sanno come stanno le cose. Lui avrebbe soltanto raccontato la sua vita”. Comprare il silenzio - Per Schiavone, che guida il Consorzio da molti anni, l’elemento che colpisce è “l’idea autoritaria per cui le informazioni devono provenire solo dal mondo istituzionale, non può esistere un altro punto di vista. Ciò che viene dalle istituzioni, quando sono da loro controllate (dalla maggioranza ora al governo, ndr) deve essere l’unica fonte”. Il presidente di Ics sottolinea come non sia ammessa “una pluralità” e si rifiuti l’idea che una visione alternativa o differente possa essere comunque autorevole. In questa storia si aggiunge però un ulteriore elemento. Ics collabora con le istituzioni da circa trent’anni, gestendo diversi centri di accoglienza e Sai, il sistema di accoglienza diffuso. Un’attività di sensibilizzazione come quella proposta alla scuola, nella visione dell’amministrazione regionale, prosegue Schiavone, “non può arrivare dagli enti che hanno rapporti di cooperazione con le istituzioni medesime”, perché “non è pensabile che questi enti abbiano una loro esistenza e autonomia al di fuori di quel contratto”: “Ciò che viene comprato non è il servizio, è il silenzio”, conclude il presidente di Ics. Egemonia culturale - Il Movimento di cooperazione educativa (Mce), che si impegna nel rinnovamento della didattica e lavora per una pedagogia popolare, ha espresso solidarietà all’istituto Italo Svevo, che, come Pioltello, è un altro esempio “di una politica che usa la scuola per costruire la sua egemonia culturale”, si legge nel comunicato. L’Mce la considera una “grave violazione dell’autonomia scolastica, fondamentale per un’istruzione che rispetti la libertà di insegnamento e il pluralismo culturale”, minando, continua il movimento, la fiducia nel sistema educativo, che dovrebbe custodire i valori democratici e dell’inclusione. Si chiede dunque alla politica di evitare future ingerenze nel campo educativo, affinché la scuola non si trasformi in un campo di battaglia politica. Questo giornale ha provato a mettersi in contatto con la dirigente scolastica dell’Ic Italo Svevo ma finora non è stato possibile raggiungerla. Nell’attesa c’è un dato di fatto: oggi gli studenti non ascolteranno quella storia di accoglienza, unica come tutte le storie, simile a tutte le storie. Ma magari aprendo il libro sul proprio banco si imbatteranno in quella di Trieste, che ai primi del Novecento accolse James Joyce, straniero in un paese straniero. Città più sicure, la via del modello Milano di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 22 maggio 2024 Il tema della sicurezza interessa tutti. Ma la destra non ha soluzioni ed enfatizza il problema. E la sinistra non avendo soluzioni prova a nasconderlo. È il momento di cambiare. Forse verrà perfino un tempo in cui convocare gli stati generali sull’immigrazione: destra, sinistra e centro, senza etichette. Magari a Milano, che da sempre accoglie chi bussa per farne una parte di sé. Il buonismo è di sinistra e il cattivismo è di destra? Parafrasando liberamente il grande Gaber, sembra esserselo chiesto qualche giorno fa Beppe Sala, quando Milano è finita sotto i riflettori nazionali per l’ennesimo caso di cattiva immigrazione tracimato in cronaca nera: l’accoltellamento di un coraggioso viceispettore di polizia aggredito da uno sbandato marocchino che non doveva trovarsi fra noi, in quanto gravato da condanne varie e, soprattutto, da ordini di espulsione mai rispettati. E cos’è, poi, la sicurezza? Un faccenda di sinistra o di destra? Di fronte al ventennale, pericoloso girovagare di Hasan Hamis sul nostro territorio, senza mai una bussola d’integrazione a distoglierne i passi dal sottobosco del microcrimine, il sindaco della città più accogliente e più pragmatica d’Italia s’è dato qualche risposta: basta ideologie, ha detto in una bella intervista al nostro Maurizio Giannattasio. Tra buonisti di sinistra e cattivisti di destra il sistema migratorio non è mai stato affrontato seriamente, ha spiegato. Riservando dure critiche alla destra e ai suoi slogan fasulli (dal bluff dei porti chiusi a una tolleranza zero fatta di chiacchiere) Sala, “da uomo di sinistra”, s’è tuttavia dichiarato stufo marcio dei balbettii della sua parte politica proprio sulla questione sicurezza: “Dobbiamo essere propositivi”. La novità, non piccola, sta appunto qui. Perché, appena esploso il caso Milano, si sono sprecati i consueti rimpalli sulle colpe, stavolta tra un governo centrale di destra e un’amministrazione locale di sinistra (ma, statene certi, a parti invertite la scena non cambierebbe d’una virgola). Il passo avanti del sindaco verso un’assunzione matura di responsabilità introduce un elemento di riflessione e, addirittura, una possibilità: che il caso Milano vada a tramutarsi, chissà, un giorno o l’altro, in un modello Milano. Una via finalmente seria e bipartisan per ragionare insieme di accoglienza e fermezza, due termini che nella gestione dell’immigrazione non vanno contrapposti ma, piuttosto, bilanciati con buonsenso. La brutta storia di Hamis è illuminante a riguardo. Quando è entrato in Italia per intraprendere la sua vita clandestina, c’era al governo Berlusconi e Grillo faceva il comico. Dodici esecutivi, d’ogni formula e colore, si sono susseguiti. Lui, nel frattempo, accumula ventidue alias (ma viene sempre identificato grazie alle impronte) e tre provvedimenti di espulsione (2004, 2012, 2023): l’ultimo perché nel Centro per il rimpatrio cui sarebbe destinato, non c’è posto. Dunque, gli mettono in mano l’ennesimo invito a lasciare cortesemente il Paese entro sette giorni. Tutti sanno che quel foglietto è una farsa. Lui rientra così in quel magma di centinaia di migliaia di invisibili che si trascinano nelle nostre stazioni, nei nostri parchi, nei sottopassi delle nostre tangenziali, “non luoghi” dove vivere una non vita: fino all’incidente, più o meno grave, che trasforma l’invisibile in attore della cronaca nera. L’ex capo della polizia Franco Gabrielli, ora delegato del sindaco Sala alla sicurezza e alla coesione sociale, ha rammentato sul Foglio che “per arrivare alle espulsioni tutto passa per gli accordi con i Paesi per il rimpatrio”. Ma ne abbiamo troppo pochi, vanno implementati, bisogna lavorarci e non è gratuito (perché quei Paesi vanno motivati a riaccogliere non proprio la loro meglio gioventù). Matteo Salvini fece fare alla sua Lega il grande balzo del 2018-19 promettendo agli italiani che avrebbe rimpatriato in breve mezzo milione di irregolari: al ritmo con cui procedeva nei rimpatri, si calcolò che ci avrebbe messo più di ottant’anni. Dall’opposizione Giorgia Meloni ha ripetuto per dieci anni che bastava un blocco navale nel Mediterraneo per risolvere il problema: arrivata al governo ha capito che le cose sono più complesse, ha aperto con l’Europa trattative in Africa, ha varato un Piano Mattei pieno di prospettive visionarie ma irto difficoltà da superare. La sinistra, come ha ricordato Sala, ha del resto fatto sempre finta che la questione non esistesse (con l’eccezione virtuosa, ricordiamo noi, di Marco Minniti): per il Pd e i suoi alleati l’immigrazione è il grande rimosso dalla crisi degli anni Dieci in avanti, col risultato di consegnare le periferie italiane (che con quell’immigrazione fanno i conti ogni giorno) ai rivali politici. La destra non ha soluzioni ma enfatizza il problema. La sinistra non avendo soluzioni prova a nasconderlo. È il momento di cambiare: e si può fare solo insieme, smettendo di specularci su per intere campagne elettorali. La sicurezza non è di una fazione politica, è un valore costituzionale: la sua negazione soffoca tutti noi e, fra noi, colpisce i più deboli, chi vive nei quartieri più disagiati, chi prende il bus più affollato, chi torna a casa sulla strada meno illuminata. Servono più Cpr, che non siano lager ma abbiano “porte girevoli”, come dice Gabrielli. E serve, accanto ad essi, una chiara via di integrazione, percorsi di recupero e formazione, flussi regolari costanti dai Paesi d’origine per battere i contrabbandieri dell’immigrazione irregolare. Occorre in definitiva un salto culturale per capire che ciò che oggi può rallegrarmi, poiché è una grana per il mio avversario, domani potrà affliggermi perché diventerà una grana per me. Forse verrà perfino un tempo in cui convocare gli stati generali sull’immigrazione: destra, sinistra e centro, senza etichette. Magari a Milano, che da sempre accoglie chi bussa per farne una parte di sé. Migranti. Nuova trappola per le navi delle Ong di Angela Nocioni L’Unità, 22 maggio 2024 Riguarda tutte le navi questa nuova Circolare? Anche uno yacht? Anche una nave da crociera? “No, riguarda voi, le navi delle Ong”. Queste sono le risposte date all’Unità dall’Ufficio delle dogane. Esiste una nuova trappola in Italia per le navi delle Ong che soccorrono naufraghi nel Mediterraneo. L’ufficio delle dogane dice di aver ricevuto una circolare in proposito, ma non la mostra. Impedisce però nel frattempo al camion con il carburante per il rifornimento della nave Humanity1 della Ong tedesca Sos Humanity di entrare in porto. “Dobbiamo verificare qual è la reale attività svolta dalla nave prima di far entrare il camion con il carburante per farvi fare rifornimento. Ce lo chiede una circolare nuova di questi giorni che ancora dobbiamo capire come applicare”. Riguarda tutte le navi questa nuova circolare? Anche uno yacht? Anche una nave da crociera? “No, riguarda voi, le navi delle ong”. Queste sono le risposte date all’Unità dall’Ufficio delle dogane alla richiesta di spiegazione del perché al camion con il carburante per il rifornimento della nave di soccorso Humanity1 non viene dato il permesso di entrare in porto. Parla genericamente della necessità del pagamento di un’accisa, di cui però non sa né spiegare l’origine, né stabilire l’ammontare. Il dirigente dell’Ufficio delle dogane di Pisa, Simone Culla, da cui dipende quello di Marina di Carrara, non risponde al telefono. La prefettura di Carrara dice che nulla sa del perché la nave non può far rifornimento e che non ha intenzione di occuparsene. Risultato: la nave invece di tornare velocemente al largo della Libia per soccorrere naufraghi è ferma in porto attendendo che le autorità locali capiscano se e come applicare questa fantomatica circolare di cui nessuno fornisce copia. Asilo negato, profughi in gabbia: ma gli xenofobi d’Europa vogliono di più di Gianfranco Schiavone L’Unità, 22 maggio 2024 Una missiva, all’indomani del sì al nuovo Patto europeo, in cui si indica come modello l’accordo Ue-Turchia ma anche il protocollo Italia-Albania. La richiesta sembra essere: fate ciò che volete, ma in Europa i migranti non devono entrare. Il 15 maggio 2024 ben 14 Stati membri dell’UE (Austria, Bulgaria, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca e Romania), tutti caratterizzati da politiche di netta avversione verso le migrazioni, hanno inviato una lettera congiunta alla Commissione Europea per chiedere nuove politiche sull’immigrazione e l’asilo. Può apparire paradossale che ciò avvenga proprio il giorno dopo l’approvazione definitiva, lo scorso 14 maggio, da parte del Consiglio Europeo dei testi di riforma del sistema europeo di asilo collegati al cosiddetto Patto europeo su immigrazione e asilo, approvazione avvenuta a maggioranza qualificata con il voto favorevole di tutti i firmatari della lettera di cui qui trattiamo, meno due, Ungheria e Polonia. I governi firmatari della lettera (che era stata evidentemente già concordata prima dell’approvazione delle norme legate al Patto) manifestano insoddisfazione per l’attuale quadro legislativo appena votato e chiedono nuove riforme ancor più draconiane smentendo in tal modo la banale giustificazione data da quelle forze politiche che nel Parlamento UE avevano ad aprile dato voto favorevole all’approvazione dei testi di riforma connessi al Patto con la motivazione che si trattasse di una triste ma necessaria scelta per frenare nuove involuzioni. Con immediatezza è arrivata la conferma che non è così dal momento che le politiche di ossessiva chiusura verso il diritto d’asilo e verso la migrazione in generale non arrivano mai a un punto di soddisfazione; esse vivono solo dentro una incessante auto alimentarsi. Veniamo dunque al testo della lettera nella quale si invoca fin dalle prime righe la necessità di un sistema di asilo “a livello mondiale volto a prevenire ed affrontare la migrazione irregolare alla radice e lungo le rotte migratorie, fornendo nel contempo una protezione e un riparo adeguati a chi ne ha bisogno e favorendo il rimpatrio e la reintegrazione”. Emerge da subito l’ambiguità e la voluta confusione concettuale del testo; il diritto d’asilo (teoricamente da rispettare) e la migrazione irregolare (da contrastare e prevenire) sono sovrapposti e mescolati in modo da creare un insieme indistinto. L’obiettivo reale da perseguire emerge nella nota poche righe dopo, ed è quello di spostare “la nostra attenzione dalla gestione della migrazione irregolare in Europa al sostegno ai rifugiati e alle comunità ospitanti nelle regioni di origine”. I rifugiati quindi vanno tenuti fuori dall’Europa, confinati in paesi terzi ai quali possiamo al massimo fornire risorse. Ma non da noi. I partenariati con i paesi terzi, più volte invocati, sono essenziali “per offrire ai migranti un’alternativa a mettere a rischio la propria vita in viaggi pericolosi. Dovrebbero essere esplorate diverse idee per ottimizzare tali partenariati, compresi i modelli ispirati alla dichiarazione UE-Turchia (e al meccanismo 1:1) e al memorandum d’intesa UE-Tunisia”. Senza imbarazzo alcuno il testo cita come modello da copiare quello che è stato il più spregiudicato (ma anche forse riuscito) esperimento di esternalizzazione del diritto d’asilo (e di aggiramento delle regole contenute nel Trattato sul funzionamento dell’UE in materia di accordi tra la UE e i Paesi terzi), ovvero la dichiarazione UE-Turchia del 18 marzo 2016 con la quale milioni di rifugiati sono stati forzatamente confinati in Turchia senza alcuna protezione. Stracciando le solenni promesse contenute in quella dichiarazione, nessun piano di ricollocamento dei rifugiati siriani è stato mai realizzato: al 4 aprile 2024, otto anni dopo il 2016, al posto della necessità di fornire reinsediamento a non meno di un milione e mezzo di persone, ne sono state reinsediate nell’UE 46.388, di cui 399 in Italia (dati Commissione Europea). Quale sia invece l’esempio che si possa trarre dall’accordo con la Tunisia, non è dato sapere, a meno che non si considerino tale le violenze continue verso chi è in fuga e le deportazioni e l’abbandono dei rifugiati nel deserto al confine con l’Algeria. Gli aspetti sconcertanti della missiva, seppure così breve (solo due paginette) non si limitano a quanto sopra; poco dopo il riferimento a Turchia e Tunisia il testo si lancia nella proposta di creare dei “meccanismi di transito” che avrebbero lo scopo di “intercettare o in caso di pericolo, salvare i migranti in alto mare e portarli in un luogo di sicurezza predeterminato in un Paese partner al di fuori dell’UE, dove potrebbero essere trovate soluzioni durature per questi migranti, anche sulla base di modelli come il Protocollo Italia-Albania”. Nella terminologia in uso nel diritto internazionale per “soluzioni durature” si intendono i programmi per la protezione e l’inserimento sociale dei rifugiati in un dato Paese. Si tratterebbe dunque dell’Albania. Il protocollo Italia-Albania, pur con le sue macroscopiche problematiche giuridiche, prevede però che i richiedenti asilo trasportati in Albania rimangano sotto la giurisdizione italiana e che in caso di accoglimento della domanda di asilo i beneficiari vengano in Italia, paese che ha riconosciuto loro la protezione, e non in Albania. Come è dunque possibile che nella lettera firmata dall’Italia, ci sia un così macroscopico errore? Il governo italiano si è lasciato scappare che inconsciamente vorrebbe fare proprio ciò che con il protocollo con Albania non può fare, ovvero consegnare i rifugiati a quel paese, come il Regno Unito intende caparbiamente fare con il Ruanda? L’intenzione di usare paesi terzi per attuarvi le più diverse procedure emerge dall’ulteriore proposta contenuta nella lettera, l’unica che ha avuto un certo riscontro mediatico, che chiede di istituire “degli hub di rimpatrio, dove i rimpatriati potrebbero essere trasferiti in attesa del loro allontanamento definitivo”. Si tratta di una previsione che è in contrasto con il diritto dell’Unione (e i firmatari ne sono consapevoli, tanto che chiedono appunto la revisione della direttiva rimpatri). È necessario chiedersi quale sia la finalità di un tale obiettivo; se infatti un cittadino straniero è soggetto ad una detenzione di tipo amministrativo attuata per eseguire coattivamente il suo allontanamento perché mai tale detenzione (che non è una sanzione penale e deve essere la più breve possibile perché applicata al solo scopo di eseguire l’allontanamento) iniziata in Europa può proseguire in un paese terzo? L’unica spiegazione, per quanto terribile, di una proposta che altrimenti andrebbe considerata illogica per logistica e costi, è che essa svela la volontà di creare una sorta di colonie penali di fatto ed extraterritoriali, poste lontano dalla vista di soggetti indiscreti e da ogni garanzia e tutela verso forme di violenza e degrado. Un’ultima attenzione va dedicata ad un aspetto della lettera che, a quanto mi sembra, non è stato oggetto di commento pubblico, ma che è di primaria importanza, ed anzi sarà il primo concreto banco di prova dell’applicazione del nuovo Regolamento sulle procedure in materia di asilo; esso riguarda la concreta applicazione della problematica nozione di “paese terzo sicuro” dove inviare coattivamente un richiedente asilo senza neppure avviare l’esame di merito della sua domanda di asilo, che va dunque considerata inammissibile, nel caso tale paese terzo offra una “protezione effettiva” (art. 57 del nuovo Reg. procedure) ed il richiedente “abbia con il paese terzo in questione un legame in virtù del quale sarebbe ragionevole che vi si recasse”. Non sfuggirà, anche al lettore privo di nozioni tecniche, la assoluta vaghezza della nozione sopra riportata. La lettera congiunta chiede alla Commissione di “rivalutare il quadro giuridico, ove necessario, compresi i criteri di collegamento durante la prevista revisione del concetto di paese sicuro nel 2025”. L’obiettivo cui tali paesi vogliono arrivare è ben noto, ed è quello di considerare sussistente il legame tra il richiedente e il paese terzo qualora vi sia un qualsiasi tipo di collegamento (non a caso viene usate questa parola) tra la persona e il paese nel quale si vuole rinviarlo, compreso il solo fatto di averlo attraversato, di avervi usufruito di aiuti umanitari, si esservi stato ospitato, magari forzatamente, in una struttura di qualunque tipo. In tal modo, se con gli hub per i rimpatri verrebbero istituite, come si è detto, delle colonie penali extraterritoriali, con i nuovi criteri per stabilire il legame/collegamento tra i rifugiati e i paesi terzi verrebbe costruita una sorta di ideale cintura di protezione attorno all’UE fatta di Paesi da pagare profumatamente affinché non solo più si tengano i rifugiati che arrivano sul loro territorio (la politica dell’esternalizzazione) ma si anche riprendano coloro che sono riusciti ad arrivare nell’UE. È agevole ipotizzare quali saranno: i paesi non UE dei Balcani occidentali facili da ricattare, la Tunisia, la Turchia, l’Egitto ed altri Paesi posti in posizione strategica lungo le rotte migratorie. In un tale scenario che rimarrebbe in Europa del diritto d’asilo? Nel diritto internazionale sui rifugiati non esiste un diritto a scegliersi liberamente il paese di asilo; tuttavia se venisse generalmente impedita la possibilità stessa di accesso dei rifugiati al territorio europeo con la motivazione dell’esistenza di asserite (ma spesso non reali) protezioni cui si può accedere altrove, si potrebbe ancora ritenere che sia effettivo, al di là degli aspetti formali, il rispetto del diritto d’asilo per come esso si è evoluto nell’UE negli ultimi decenni? Chi scrive ha sul punto dei forti dubbi. In Nord Africa caccia ai migranti con i mezzi forniti da Roma e Bruxelles di Fabio Papetti* Il Manifesto, 22 maggio 2024 Soldi, bus e fuoristrada ai paesi del Nord Africa. Per deportare i subsahariani nel deserto. 11 luglio 2023. Poco fuori Sfax, città costiera della Tunisia, viene ripreso un fuoristrada bianco mentre scorta un autobus pieno di migranti arrestati in uno dei recenti raid effettuati nella città. Ingrandendo l’immagine si vede che il fuoristrada è un Nissan Navara. Spulciando tra i bandi e le forniture della polizia di stato italiana si scopre che oltre cento di questi modelli erano stati dati dal governo italiano tra il 2022 e il 2023 al ministro dell’interno tunisino per il contrasto dell’immigrazione illegale. Oggi i mezzi dello stesso modello vengono usati per espellere i migranti ai confini desertici della Tunisia, e non solo. Anche le forze di sicurezza di Mauritania e Marocco sono coinvolte in questo tipo di violenze. Le Nissan sono solo una delle tracce che si intravedono tra le strade sabbiose dei paesi del Nord Africa e che oggi sono percorse da decine di mezzi stanziati dall’Unione europea e dai suoi Stati membri, tutti diretti a gettare i migranti nel nulla. Scorrendo indietro i programmi europei e gli accordi bilaterali si iniziano a vedere le prime forniture dal 2016, anno in cui la Germania ha donato alla Tunisia 25 Toyota Hilux. L’anno successivo è sempre Berlino a fornire altre 37 Nissan Navara al ministro degli Interni tunisino. Ma la lista non finisce qui. La Spagna, finanziata per oltre 4 milioni dal fondo europeo per l’Africa, EUTF, e attraverso l’agenzia governativa per la promozione delle politiche pubbliche, la Fundación Internacional y para Iberoamérica de Administración y Políticas Públicas (FIIAPP) nel 2018 ha fornito 75 Toyota hilux e oltre cento Land Cruiser allo stato del Marocco, gli stessi modelli fotografati negli scorsi mesi durante rastrellamenti operati dalla polizia marocchina per le strade delle città alla ricerca di migranti dalla pelle scura. Nello stesso anno infine, la FIIAPP ha donato alla Mauritania almeno 9 fuoristrada, due autobus e ha provveduto alla riparazione di due centri di detenzione a Nouakchott, la capitale del paese, e Nouadhibou, città sulla costa. Entrambi questi punti sono snodi fondamentali in cui i migranti vengono portati prima di essere espulsi verso i confini desertici del Marocco o le zone di frontiera con il Mali, dove ancora imperversano conflitti armati. A confermare il tutto ci pensa un responsabile di un centro di detenzione in Mauritania: “Questi ce li ha forniti la Spagna” dice mentre indica due autobus. Gli stessi immortalati da un video raccolto sul campo che andranno a espellere un gruppo di migranti. “Hanno pagato per questi due e per tre Hilux qui” aggiunge. Spesso i video-testimonianza di quello che succede al di là del Mediterraneo arrivano dalle stesse persone che subiscono queste violenze. Ma questo trend non è una novità per loro. Già nel 2005 si avevano notizie di migranti deportati dal Marocco dopo aver tentato di attraversare le enclavi spagnoli di Ceuta e Melilla. Parte dei video raccolti durante questa inchiesta sono stati registrati prima del 16 luglio 2023, giorno in cui l’Europa ha deciso di stringere un patto di 105 milioni di euro con la Tunisia per contrastare l’immigrazione illegale. Eppure gli accordi sono andati avanti. Un mese dopo la firma del Memorandum of understanding, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) aveva inviato una lettera all’Europa in cui criticava le politiche intraprese nel Nord Africa e l’appoggio offerto a governi dalle politiche sempre più razziste e discriminatorie. In particolare l’organo delle Nazioni Unite criticava gli accordi “le cui future modalità di attuazione potrebbero comportare una possibile violazione del principio di non respingimento e dei diritti umani dei rifugiati”. Su questo punto la lettera continua affermando di come manchino le linee guida per evitare che il materiale fornito dall’Ue al governo tunisino “non contribuirà - direttamente o indirettamente - alle violazioni dei diritti umani e non raggiungerà gli enti responsabili di tali violazioni”. Conclude l’Alto commissariato ammonendo la politica dell’esternalizzazione delle frontiere, ormai divenuta un elemento centrale della risposta dell’Ue alla gestione della migrazione che non tiene conto del comportamento repressivo del Paese in questione. Queste parole sono andate perdute nel vento e i rappresentanti europei hanno continuato ad andare avanti sulla stessa strada, difendendo le scelte prese. Margaritis Schinas, commissario per la promozione dello stile di vita europeo, ha enfatizzato come, in relazione alle accuse sulle violenze commesse dalle forze di sicurezza tunisine, “l’Europa non finanzi questo tipo di tattiche, non sono incluse nel memorandum con la Tunisia e queste cose non accadono sotto il nostro sguardo”. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si è spinta più in là e oltre a difendere il memorandum lo ha definito un esempio per le future relazioni con i paesi del Nord Africa. Da qui sono seguite le firme degli accordi con Mauritania, 7 marzo, Egitto, 14 marzo e Libano, 2 maggio: tutti hanno come punti principali la cooperazione per il contrasto all’immigrazione illegale. In tutta questa storia riecheggiano le parole di François, uomo camerunense di 38 anni che nel settembre 2023 ha compiuto il suo terzo tentativo di attraversare il Mediterraneo. Intercettato dalle navi della Garde Nationale tunisina, equipaggiate con motori Yamaha, stesso modello di quelli forniti dall’Italia, è stato successivamente trasportato ed espulso nel deserto che separa la Tunisia dall’Algeria. Sono in tutto tre le volte che François è stato trasportato in mezzo al nulla dalle forze tunisine. Adesso vive ancora a Tunisi con la famiglia. Raggiunto dai reporter che hanno partecipato a questa inchiesta, ha espresso tutta la sua delusione per la situazione in cui si trova. “All’Europa non importa niente dei subsahariani. Ci considera spazzatura. Ci mette in questa situazione e continuerà a farlo finché non sarà soddisfatta”. *Giornalista di IrpiMedia, testata che fa parte di Desert Dumps, un progetto d’inchiesta collaborativo coordinato da Lighthouse Reports a cui hanno partecipato Le Monde, El Pais, Washington Post, Inkyfada, Der Spiegel, porCausa, Ard e Enass Media. Da Putin a Netanyahu dai talebani a Sinwar: il procuratore del Cpi Khan non risparmia nessuno di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 22 maggio 2024 “Nessuno è al di sopra della legge”, ha tuonato Karim Kahn dai microfoni della Cnn in un’intervista rilasciata a Christiane Amanpour. Non lo sono i comandanti di Hamas responsabili dei pogrom del 7 ottobre, non lo sono i dirigenti politici israeliani responsabili dei massacri di civili nella Striscia di Gaza. Il procuratore capo della Corte Penale Internazionale dell’Aja ha fatto capire che lui non guarda in faccia nessuno, neanche Benjamin Netanyahu, raggiunto da un clamoroso mandato di cattura internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. Prima di lui, a finire nel mirino di Kahn un altro grosso calibro della politica mondiale, il presidente russo Vladimir Putin incriminato nel marzo 2023 per le deportazioni illegali di bambini ucraini, lo smacco fece infuriare il Cremlino che reagì inserendo il procuratore nella lista delle persone ricercate. Sdegnata invece la reazione di Netanyahu che ha evocato “una vergogna e un oltraggio di proporzioni storiche”, mentre l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan accusa Kahn addirittura di antisemitismo. Contrario all’iniziativa anche la Casa Bianca che definisce “vergognosa” la comparazione tra l’esecutivo israeliano e i terroristi”. C’è da dire che anche l’ufficio politico di Hamas rifiuta l’equivalenza messa in piedi dalla Cpi che “pone sullo stesso piano le vittime e i carnefici” si legge in un comunicato del movimento islamista il quale ritiene “illegale” il mandato di arresto nei confronti dei suoi leader. Kahn però non sembra per nulla turbato dalle critiche che piovono a 360 gradi e, incassando il sostegno dell’Europa, promette che andrà avanti, dritto per la sua strada. È dall’inizio degli anni novanta che Karim Kahn affronta le violazioni dei diritti umani per la corte dell’Aja, avendo lavorato, giovanissimo, nel tribunale sui crimini in Ruanda e in ex Yugoslavia. Giurista di formazione, per diversi anni ha oscillato tra la carriera di difensore e quella di giudice inquirente. Da avvocato ha accettato di difendere figure illustri come l’ex presidente della Liberia Charles Taylor (ma abbandonò il caso dopo la prima udienza) o il figlio di Muammar Gheddafi Said o ancora il vicepresidente del Kenya William Ruto. Prima che si insediasse a capo della procura dell’Aja i suoi oppositori gli hanno rinfacciato di aver preso le difese di autocrati e dittatori ma Kahn non si è scomposto, rivendicando il suo lavoro di legale nella cornice dello Stato di diritto. L’assoluzione di William Rutto gli è valsa il sostegno decisivo del Kenya quando è stato eletto per una manciata di voti nel luglio 2021. Insediandosi con un’idea fissa: dare più forza ed efficacia alla Corte. Il bilancio dei primi vent’anni di attività della Cpi è stato infatti risibile, quasi decorativo: oltre i due terzi dei casi presentati ai giudici sono stati archiviati per totale mancanza di prove, appena cinque le condanne emesse. E il tribunale conta attualmente decine di latitanti. Un audit concluso nel settembre 2020 identificava queste carenze mettendo in luce la mancanza di visione e di strategia giudiziaria dei primi due procuratori della Corte, Luis Moreno Ocampo e Fatou Bensouda. Il primo atto da procuratore generale, nel settembre 2021, è stata la riapertura delle inchieste per crimini di guerra contro il Talebani e le milizie dello Stato islamico Korashan attive in Afghanistan. Il governo di Kabul aveva ottenuto la sospensione del procedimento dal procuratore Bensouda, sostenendo, invano, che il suo sistema giudiziario potesse giudicare i reati. Il principale obiettivo strategico del suo mandato, che scade nel 2030, è l’estensione dei poteri della Cpi; solo 123 Stati hanno infatti ratificato lo Statuto di Roma che ha istituito la Corte il 17 luglio 1998. Ad esempio nazioni di peso come Stati Uniti, Cina, India, Russia e lo stesso Israele non l’hanno ratificato. Inoltre, lo scorso febbraio, Kahn ha annunciato di voler perseguire i “crimini ambientali”, considerandoli cause o conseguenze dei crimini di guerra e contro l’umanità di cui si occupa la sua giurisdizione. “Netanyahu e Hamas, giusta la mossa della Corte Aja” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 22 maggio 2024 Intervista a Silvana Arbia, già Prosecutor del Tribunale penale internazionale per il Ruanda: “Nessuno è al di sopra della legge”. La richiesta di mandato di arresto del procuratore della Cpi, Karim Khan, nei confronti dei vertici di Hamas, del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e del ministro della Difesa Yoav Gallant ha provocato reazioni diverse nel mondo. Ne abbiamo parlato con la magistrata Silvana Arbia, già Prosecutor del Tribunale penale internazionale per il Ruanda. “Esistono - dice Arbia al Dubbio - norme di diritto internazionale che tutti devono rispettare. Nessuno è al di sopra della legge, indipendentemente dai ruoli istituzionali rivestiti. Anzi, più elevata è l’autorità esercitata, più grave e più estesa è la responsabilità”. L’importante ruolo della Cpi non viene riconosciuto da tutti gli Stati? Non è la prima volta, durante i trascorsi due decenni dall’entrata in vigore dello Statuto di Roma, che il procuratore della Cpi chieda alla Pre-trial Chamber l’emissione di mandati di cattura contro presunti responsabili di crimini di competenza della Corte stessa. Sono già stati emessi simili mandati in altre situazioni, si pensi ad Al Bashir e a Putin, ma le leadership mondiali, oggi, come in passato, appaiono guidate da interessi politici ed economici piuttosto che dall’interesse a porre fine all’impunità di autori di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra e preservare, così, la pace e la sicurezza mondiale. Né è la prima volta che per proteggere leader di Paesi amici, alcuni Stati tentino di svilire il mandato della Corte, creare ostacoli alla esecuzione delle sue decisioni facendola apparire un’istituzione inutile e costosa. Fino ad oggi la Corte è riuscita, comunque, a funzionare e a dimostrare quanto importante sia per milioni di vittime e per Stati deboli poter ricorrere all’intervento di una giurisdizione internazionale per ristabilire la pace e la riconciliazione delle loro popolazioni attraverso la giustizia, che è, lo posso dire per esperienza, domandata a gran voce. Avendo la Cpi il potere di perseguire e punire i crimini di sua competenza da chiunque commessi, quindi anche da cittadini di Stati non parte come Israele, negli Stati parte dello Statuto di Roma, e da cittadini degli Stati parte ovunque commessi, è pienamente legittima l’azione del procuratore di svolgere indagini, formulare accuse e chiedere mandati di cattura contro cittadini palestinesi, essendo la Palestina Stato parte, e contro cittadini israeliani autori di crimini commessi nel territorio della Palestina, costituito da Gerusalemme Est, Gaza e West Bank. Esistono norme di diritto internazionale che tutti devono rispettare. Nessuno è al di sopra della legge, indipendentemente dai ruoli istituzionali rivestiti. Anzi, più elevata è l’autorità effettivamente esercitata, più grave e più estesa è la responsabilità. Le accuse enunciate dal procuratore della Cpi includono in effetti anche la responsabilità per crimini commessi da subordinati, per non averli impediti pur avendone il potere e o per non averli puniti. L’iniziativa del procuratore Khan è stata criticata da alcuni Stati. Non è stata però sottolineata l’imparzialità della Cpi. Cosa ne pensa? Se la Corte penale internazionale venisse soltanto percepita come un’istituzione che opera secondo criteri selettivi e, quindi, senza garanzie di imparzialità, con pregiudizio grave per la sua credibilità, si raggiungerebbe lo scopo di coloro che, temendo l’azione della Corte, cercano di portarla al fallimento, giustificando l’uso della forza e la corsa agli armamenti come il solo mezzo per la soluzione dei conflitti. Quali saranno le prossime tappe, dopo la richiesta di mandato d’arresto per i vertici di Hamas, Netanyahu e Gallant? È possibile fare delle previsioni tenendo conto dei capi di imputazione molto circostanziati? In base a quanto si legge nelle dichiarazioni del procuratore di due giorni fa, si può ritenere che i cinque mandati saranno emessi dai giudici. I capi di accusa per crimini contro l’umanità e crimini di guerra appaiono giustificati prima facie. Non figura tra le accuse quella di genocidio, ma le indagini continuano e le situazioni si evolvono continuamente, e non possiamo escluderla. Ricordiamo che la responsabilità internazionale dello Stato di Israele è oggetto di una procedura avviata dal Sud Africa innanzi alla Corte internazionale di giustizia, che ha emesso misure provvisorie ed urgenti, avendo ritenuto la sussistenza del fumus boni iuris di violazioni, da parte di Israele, della Convenzione del 1948 sulla prevenzione e la repressione del genocidio in danno del popolo palestinese in quanto gruppo distinto e protetto in quanto tale. Quando qualcuno afferma di non riconoscere l’autorità della Corte dell’Aia si rinnegano anni di sforzi e di lavoro della giustizia penale internazionale? Gli Stati sono liberi di firmare e ratificare il trattato istitutivo della Corte penale internazionale. Oggi sono 123 gli Stati che cedono una parte della sovranità nazionale per quanto concerne i crimini internazionali di competenza della Cpi, aggressione, genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, ottenendo la garanzia della punizione di quei crimini se commessi nel proprio territorio da “chiunque”. Tale garanzia è particolarmente importante nelle situazioni in cui uno Stato parte non ha la possibilità per mancanza degli strumenti e per il non funzionamento delle giurisdizioni nazionali, come in caso di conflitti armati in corso o di crisi istituzionali. Il procuratore Khan sottolinea “il principio di complementarità, che è al centro dello Statuto di Roma” e che “continuerà a essere valutato”... La Cpi, per statuto, è complementare alle giurisdizioni nazionali che hanno l’obbligo di perseguire e punire i crimini di competenza della Corte penale internazionale, nei casi in cui gli Stati non vogliono o non possono. L’intervento della Corte presuppone la mancanza di volontà effettiva. Non è sufficiente una volontà apparente a volte per sottrarre individui alla giustizia con la messa in scena di procedure di circostanza o l’impossibilità delle giurisdizioni nazionali di esercitare l’azione penale. Ricorre questa impossibilità anche quando gli autori si trovano in posizione di potere e potrebbero impedire direttamente o indirettamente che si proceda nei loro confronti. Si tratta della complementarietà cosiddetta “passiva”. I primi anni di esperienza della Cpi hanno dimostrato poi la necessità di avviare progetti di complementarietà “attiva”, non prevista nello Statuto, ma molto importante per il raggiungimento dell’obiettivo di assicurare a tutti uguale accesso alla giustizia e consistente nell’offrire agli Stati competenze, mezzi ed esperienze necessarie al corretto funzionamento delle giurisdizioni nazionali.