Si può chiedere al carcere e alle istituzioni di essere “cortesi”? di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 21 maggio 2024 “Chiedere è lecito, rispondere è cortesia” è un detto popolare che mi è stato insegnato da mio padre, e che mi è tornato in mente in questi giorni, quando ho avanzato alle Istituzioni delle richieste nel mio ruolo di presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti, due “cariche” con poco potere, ma che si possono ricoprire per passione, e fare le cose per passione è comunque sempre un grande privilegio. Queste in particolare le mie richieste: la prima al Capo del DAP, che come Conferenza abbiamo incontrato online a febbraio, quando ha preso l’impegno a rivedere noi rappresentanti del Volontariato con regolarità, ogni due mesi almeno. La mia richiesta è appunto di incontrarci di nuovo, e di parlare della partecipazione del Volontariato al Tavolo istituito per dare esecuzione alla sentenza 10/2024 sui colloqui riservati delle persone detenute con le loro compagne/i. La seconda era rivolta all’Ufficio del nuovo Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e chiedeva di poterlo intervistare, come redazione di un giornale realizzato sì in carcere, ma regolarmente iscritto al Tribunale e con la dignità e la competenza di un qualsiasi altro giornale. Ebbene, non abbiamo avuto nessuna risposta. Evidentemente concetti come cortesia, o come quella tenerezza a cui ha fatto riferimento Papa Francesco, dicendo che “la tenerezza è un modo inaspettato di fare giustizia”, sono concetti lontani da una parte consistente delle Istituzioni, ed è un peccato, perché l’amministrazione oggi, parlo di quella penitenziaria, ha un’immagine macchiata da suicidi, violenze, sovraffollamento, e avrebbe bisogno di parlare un linguaggio nuovo, di trovare le parole giuste per coinvolgere tutti gli attori in gioco, operatori, volontari, persone detenute, loro famigliari, in quella rivoluzione che la sentenza della Corte Costituzionale in qualche modo prefigura, quando parla della desertificazione affettiva prodotta dal carcere e apre la strada all’irrompere dell’amore nelle galere. Il Tavolo comunque è stato istituito, ma con una specie di segretezza poco comprensibile, a meno che non si pensi che la politica e le istituzioni penitenziarie abbiano poca voglia di attuare la rivoluzione dei colloqui, di aprire all’intimità dei rapporti affettivi, di restituire alle persone detenute la loro “interezza” dopo averle in questi anni svuotate di ogni sentimento. Un Tavolo composto di tanti funzionari, giuristi, Polizia penitenziaria (i nomi e le cariche li conosciamo già, i segreti nel nostro paese non li mantiene quasi nessuno), ma la domanda è: perché non c’è nessuno di quel Terzo Settore, che se oggi proclamasse uno sciopero in carcere renderebbe evidente e sconvolgente quel deserto, nel quale si trasformerebbero gli Istituti di pena senza la sua presenza? Che cosa mi porto a casa della Giornata di studi “Io non so parlar d’amore”? - Penso che se l’informazione facesse parlare prima di tutto i famigliari, come abbiamo fatto noi, mettendo insieme figli, compagne, madri, con tutto il loro carico di sofferenza, forse nel nostro paese si formerebbe un clima diverso, un po’ come successe quando ci fu il referendum sul divorzio e l’Italia si rivelò più avanti rispetto ai propri governanti - È stato bello vedere il 17 maggio tante persone detenute portare le proprie testimonianze senza “farsi sconti” rispetto alle responsabilità, ma anche emozionante vedere i loro famigliari, quelli che noi non vogliamo più considerare “vittime secondarie” perché la loro è una condizione di vittime a tutti gli effetti, che a volte devono sopportare anche la “riprovazione sociale” senza avere nessuna colpa. Come hanno raccontato Angelica, figlia di un detenuto che ha deciso di “sfruttare” la sua esperienza diventando educatrice, come Stefania, madre di un ragazzo che ha perso la vita a 22 anni, stritolato dalla galera, o come Zaccaria, che è entrato in carcere con la sua classe nel progetto con le scuole (e il nostro grazie va al Comune, presente con l’assessora Margherita Colonnello, che lo sostiene da anni) e poi ha avuto il coraggio di raccontare che lui quei posti li ha conosciuti bene, da figlio di una persona detenuta. - Come in tutte le iniziative di Ristretti, c’è stata una fusione importante tra gli interventi dei “tecnici” e le testimonianze di chi vive sulla sua pelle il dolore della galera. E i tecnici non hanno fatto troppo gli “addetti ai lavori” ma hanno parlato alla testa e al cuore di tutti, anche toccando temi incandescenti come “la possibilità di mantenere dietro le sbarre una relazione amorosa che non sia amputata della propria dimensione sessuale (Andrea Pugiotto)”, perché questo ha fatto prima di tutto la Corte Costituzionale, e di questo siamo grati a Fabio Gianfilippi, che ha saputo sollevare magistralmente la questione di incostituzionalità legata ai colloqui con i controlli a vista. - Mi ha colpito vedere come tutti hanno saputo trovare “le parole giuste” per trattare anche i temi più spinosi: da Chiara Gregori, sessuologa che è stata capace con grande delicatezza di liberare da ogni ipocrisia il tema della sessualità negata, a Roberto Cornelli, a cui chiediamo di esserci a fianco nell’affrontare “il punto di vista degli operatori e delle operatrici di Polizia Penitenziaria (…) per consentire una discussione pubblica sulle polizie, in modo da rafforzare i presupposti democratici della loro legittimità”. E questo significa anche creare degli anticorpi rispetto alla violenza, a partire dall’imparare a guardare dentro al carcere, come ha detto il direttore dell’IPM di Treviso, Girolamo Monaco, perché “guardare significa vigilare, stare attenti, vegliare; guardare significa aver cura”. - La Giornata di studi è stata anche una occasione di formazione, riconosciuta dall’Ordine dei Giornalisti. E noi abbiamo chiamato a portare la loro esperienza due narratori, di quelli che sanno raccontare “l’irraccontabile”, Massimo Cirri di Caterpillar su Radio 2 e poi Francesca Melandri, che ha saputo rappresentare proprio il dolore dei famigliari combattuti tra il disagio e la sofferenza per il male commesso dai loro cari e il “dovere” di continuare a volergli bene. Il carcere fa diventare davvero le persone “analfabeti amorosi”. Ridurre i danni provocati dalla galera, forse a questo servirà la sentenza della Corte Costituzionale. Che sembra poco, e invece è un’enormità, perché permette alle persone detenute di ritrovare la loro umanità, la bellezza di un abbraccio, il piacere di un bacio che non sia rubato. Nella Giornata di studi “Io non so parlar d’amore…” il carcere tutto, dal direttore alla Polizia penitenziaria agli operatori delle diverse aree alle persone detenute, ai loro famigliari, al Terzo Settore, ai magistrati di sorveglianza, agli avvocati hanno provato a confrontarsi e a dialogare: nessuno si illude che la strada sia spianata, tutt’altro, ma quella sentenza deve essere rispettata, e lo deve essere rapidamente, per “scongelare” quel diritto all’amore e al sesso che la Costituzione riconosce a tutti. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Un altro giovane si toglie la vita in carcere: 34 suicidi dall’inizio dell’anno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 maggio 2024 Il Garante regionale Roberto Cavalieri ha denunciato l’ennesimo dramma a Parma. Sabato le manifestazioni “Indignarsi non basta più!” dei Garanti territoriali. Una mattanza senza fine. Giovedì sera, 16 maggio, un giovane di 25 anni si è tolto la vita nel carcere di Parma. A dare la notizia è stato il Garante dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri: “Alcuni giorni fa l’uomo si era reso responsabile di un’aggressione a un agente della polizia penitenziaria ed era stato collocato in una sezione per detenuti con problematiche di sicurezza”. Questo suicidio è il secondo verificatosi a Parma e il quarto nell’arco degli ultimi 12 mesi in Emilia-Romagna. “Il drammatico evento si aggiunge alla lunga lista dei suicidi in carcere, che ora ammontano a 34”, ha spiegato il garante, il quale giovedì stesso, durante la commissione regionale per la Parità e i diritti delle persone, ha illustrato le criticità riscontrate nelle carceri dell’Emilia-Romagna. Dalla sua relazione annuale, emerge un coacervo di criticità che riflettono la problematica penitenziaria che coinvolge l’intero Paese. Tra queste, suicidi, atti di autolesionismo, danneggiamenti alle strutture, abuso di farmaci, mancato o ritardato rientro da benefici, manifestazioni di protesta, tentativi di evasione, ritrovamento di oggetti non consentiti, radicalizzazioni e violazioni delle norme penali. Nel 2023, le carceri dell’Emilia-Romagna hanno registrato un numero significativo di suicidi e atti di autolesionismo. In particolare, si sono verificati 8 suicidi e 1575 episodi di autolesionismo. Parma e Modena sono risultate le città con il maggior numero di suicidi, con 3 casi ciascuna. Un problema ricorrente riscontrato nella relazione del Garante Cavalieri è quello dell’abuso e dell’accumulo di farmaci. Spesso i detenuti arrivano con terapie farmaceutiche non sempre concordate con i protocolli regionali, creando complessità nella gestione. Particolare attenzione è stata posta sull’uso di farmaci psicoattivi, con l’avvio di una revisione del prontuario farmaceutico presso il carcere di Parma. Siamo così arrivati a 34 suicidi dall’inizio dell’anno. Ricordiamo che l’associazione ha condotto un’analisi approfondita della situazione nelle carceri italiane, ribadendo che si tratta di un dato in aumento rispetto a quello registrato negli ultimi anni, compreso il 2022, ad ora l’anno con più suicidi mai registrato (furono 85). Parallelamente, sono aumentati anche i tentati suicidi, spesso sventati dagli operatori penitenziari o dagli stessi detenuti. Antigone sottolinea che, dopo ogni suicidio, non si deve cercare un capro espiatorio tra coloro che non sono riusciti a monitorare costantemente il detenuto. Allo stesso modo, evitare i suicidi non può essere risolto tramite una sorveglianza costante. La soluzione non risiede nell’assegnare un poliziotto fisso per ogni cella, ma piuttosto nel garantire ai detenuti una vita più significativa e un maggiore contatto con l’esterno. L’associazione propone un approccio integrato che preveda la presa in carico individuale del detenuto, focalizzandosi sul percorso di reintegrazione sociale e offrendo supporto, anche esterno al carcere, per chi ha problematiche psichiche o dipendenze. In definitiva, si tratta di una presa in carico totale dei bisogni del detenuto, affinché sia visto come una persona e non solo come un numero di matricola. Ricordiamo che sabato scorso c’è stata la seconda manifestazione organizzata dalla Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale. Una mobilitazione in tutta l’Italia per accendere un faro sulle problematiche del carcere e invitare il governo ad assumersi la responsabilità di porre fine alla mattanza e al sovraffollamento attraverso incisive misure deflattive e aumento dell’affettività e percorsi trattamentali. In commissione giustizia, attraverso un lentissimo iter, è al vaglio la proposta di legge presentata da Roberto Giachetti di Italia Viva sulla liberazione anticipata speciale. Ma di fatto, rischia di deragliare, visto che, come riportato da Il Dubbio, al Consiglio dei ministri di fine mese potrebbe essere licenziato un decreto carcere dove sostanzialmente le misure deflattive saranno un miraggio. “Telefonate dei detenuti, norma da cambiare” di Paola Pagnanelli Il Resto del Carlino, 21 maggio 2024 Garanti nazionali e regionale delle Marche promuovono mobilitazione per affrontare tensioni nelle carceri, sottolineando carenze affettive, sovraffollamento e necessità di attività trattamentali. Per allentare il clima di tensione nelle carceri, i garanti nazionali hanno indetto, ad aprile e il 18 maggio, due giorni di mobilitazione. Ha aderito anche il garante delle Marche Giancarlo Giulianelli, da tempo attento a questi temi. “Il problema del disagio psicologico, da cui può scaturire il rischio suicidario, ha molte cause, tra le quali la carenza di affettività - spiega -. Sulle telefonate consentite ai detenuti comuni e a quelli ad alta sicurezza ad esempio si dovrebbe fare una piccola modifica all’ordinamento penitenziario. I detenuti comuni hanno diritto a quattro telefonate al mese, sei se hanno figli minorenni. Questa norma non ha senso e può essere modificata, a vantaggio di rapporti affettivi con i familiari più forti e duraturi. Oggi la tecnologia consente anche di vedersi, e questo può dare sollievo, sempre se vogliamo dare un senso di rieducazione al condannato. Se invece dobbiamo solo punirlo, allora si dovrebbero togliere tutte le telefonate”, conclude provocatoriamente. Nelle Marche, con oltre 900 detenuti - con un sovraffollamento di circa cento unità - ci sono stati diversi casi di suicidi e tentativi di suicidio, e il problema è presente ovunque, legato appunto al sovraffollamento, alla mancanza di personale e alla scarsa assistenza sanitaria. Sul tema il presidente della Repubblica aveva rivolto un appello alla classe politica due mesi fa, rimasto inascoltato. “Alla società civile chiediamo una sensibilità che superi la visione carcero centrica” hanno scritto i garanti, sollecitando l’approvazione di misure deflattive del sovraffollamento, a partire dagli sconti di pena. Chiedono poi misure alternative per i detenuti che, tra quei circa 30mila che stanno scontando una pena o un residuo di pena inferiore ai tre anni, “si trovano nelle condizioni di potervi accedere. Di questi, 5.080 detenuti devono scontare appena 8 mesi di carcere”. Infine, l’importanza delle attività: “La maggior parte dei detenuti si trova a trascorrere circa 20 ore in celle chiuse. È necessario garantire diverse attività trattamentali: progetti di inclusione socio-lavorativa, attività culturali, ricreative, relazionali. Infine risulta di importanza fondamentale il tema dell’affettività in carcere”. Salute mentale in carcere, storie fragili e spiragli di luce di Rebecca De Fiore sentichiparla.it, 21 maggio 2024 “Patologie quali quelle legate alla dipendenza da sostanze stupefacenti, il disagio mentale, le malattie cardiovascolari e infettive sono molto più frequenti nella popolazione detenuta che non nella popolazione generale e la percentuale di suicidi in carcere risulta essere tra le 9 e le 20 volte maggiore coinvolgendo sia le persone detenute che il personale che opera nel carcere”. Scriveva così, a ottobre del 2022, sulle pagine di Forward, supplemento di Recenti Progressi in Medicina, Sandro Libianchi, Presidente del Coordinamento nazionale operatori per la salute nelle carceri italiane. Un problema, quello della salute in carcere, che invece che essere affrontato e risolto sembra aumentare. Soprattutto per quanto riguarda la salute mentale: in carcere la presenza di un diffuso disagio psichico rimane una delle problematiche più spesso segnalata anche all’Osservatorio Antigone, Associazione che ogni anno redige un rapporto annuale sulle condizioni di detenzione in Italia. Secondo l’ultimo rapporto, uscito a inizio di quest’anno, il 12 per cento delle persone detenute (quasi 6.000 persone) ha una diagnosi psichiatrica grave, rispetto al 10 per cento dello scorso anno. Salute mentale in carcere, curare dentro o fuori? - “La percezione diffusa tra gli operatori è che le patologie psichiche tra la popolazione detenuta siano in continuo ed esponenziale aumento e che gli strumenti e le risorse a disposizione per trattarla siano sempre più scarse e inadeguate”, si legge nel rapporto. “Se agli operatori il problema appare chiarissimo, la reazione diffusa del decisore politico è quella di vedere la causa principale di questo diffuso disagio nella chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), che hanno smesso di esistere per legge nel 2014 e per davvero nel 2017. Gli Opg erano infatti l’istituzione di scarico a cui inviare le persone detenute con disagio psichico di più difficile gestione”. Con la chiusura degli Opg sono state costituite le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), strutture a gestione sanitaria destinate a ospitare autori di reato giudicati incapaci di intendere e di volere e perciò prosciolti (anche in questo caso, per approfondire, rimandiamo al rapporto Antigone Salute mentale e Rems). I problemi non sono certamente legati alla chiusura degli Opg, ma, come sottolineano anche gli autori del libro “Advocacy per la salute mentale”, edito dal Pensiero Scientifico Editore, le Rems non li hanno risolti: “Purtroppo non tutti, compresa parte degli addetti ai lavori, hanno chiaro che le Rems non hanno sostituito gli Opg che, al contrario, sono stati sostituiti da un insieme di interventi messi in atto dai Dipartimenti di salute mentale attraverso la predisposizione di un piano terapeutico riabilitativo che può anche (ma non necessariamente) prevedere il ricovero in Rems. Purtroppo non tutta la magistratura ha chiaro che il malato di mente può certamente essere pericoloso, ma la sua pericolosità dipende da molteplici fattori e anche la sua pericolosità può essere gestita”. Un’alternativa è che la patologia psichica venga curata e seguita all’interno del carcere. Per farlo nel modo corretto, però, bisognerebbe investire in spazi, professionalità e risorse. Ma non è così. Ad oggi, gli spazi interni per il trattamento delle patologie psichiatriche, soprattutto nella fase più acuta, sono chiamate Articolazioni per la tutela della salute mentale (Atsm). In Italia sono 32, collocate in 17 istituti penitenziari, uno per regione. Hanno posto per meno di 300 detenuti in totale, le più grandi sono a Barcellona Pozzo di Gotto (50 persone) e Reggio Emilia (43 persone). “Le Atsm affrontano solo una piccola parte del problema, ma non fotografano affatto il disagio mentale diffuso nelle altre sezioni detentive, né l’evidente tendenza alla psichiatrizzazione degli spazi detentivi”, chiarisce ancora il rapporto Antigone. “Perché il disagio psichico, evidentemente, non vive nelle sole Atsm, ma in tutte le sezioni detentive. E qui il principale strumento di governo della salute mentale diventa il ricorso massiccio agli psicofarmaci, utilizzate con finalità non solo terapeutiche-sanitarie, ma di sedazione collettiva e pacificazione delle sezioni”. Altro tema importante è quello dei suicidi in carcere. Il dato relativo al 2024 è particolarmente allarmante: tra inizio gennaio e metà aprile sono stati 30 i suicidi accertati. Uno ogni 3 giorni e mezzo. Nel 2022 - l’anno record - a metà aprile se ne contavano 20. Se il ritmo dovesse continuare in questo modo, a fine anno rischieremmo di arrivare a livelli ancor più drammatici rispetto a quelli dell’ultimo biennio. Insomma, come scrive Grazia Zuffa, psicologa e bioeticista, su ilPunto, “le persone che entrano in carcere hanno maggiori problematiche psicologiche e psichiatriche rispetto alla popolazione generale: rappresentano perciò un gruppo ad alta vulnerabilità psicosociale. E insieme, sono costrette in un ambiente, la prigione, che come scrive il Comitato nazionale di bioetica, produce sofferenza e malattia. Dunque, in nessun altro luogo vale la raccomandazione di considerare l’assistenza psichiatrica come una parte dell’azione più vasta di tutela della salute mentale. Accanto a validi servizi psichiatrici, è necessario predisporre una robusta strategia in chiave preventiva, di intervento sul contesto, che cerchi di contenere la produzione di sofferenza e malattia del carcere”. Lo Spiraglio va in carcere, con il Premio Luciano De Feo - Anche per tutti questi motivi, Lo Spiraglio Filmfestival ha scelto come grande tema di quest’anno quello della salute mentale nelle carceri. Lo Spiraglio - diretto da Federico Russo per la parte scientifica e da Franco Montini per quella artistica, e organizzato da Roma Capitale e dal Dipartimento di salute mentale della Asl Roma 1 - si è confermato ancora una volta come appuntamento immancabile per capire, pensare e conoscere a fondo il mondo della salute mentale. In anteprima assoluta la settimana prima dell’inizio del festival - che si è tenuto dall’11 al 14 aprile al MAXXI - sono stati proiettati alcuni film in concorso nel carcere di Regina Coeli. “Quest’anno abbiamo deciso di fare un’anteprima assoluta del Festival al Regina Coeli per diversi motivi: innanzitutto perché il Premio Luciano De Feo è stato assegnato a un documentario girato all’interno di un carcere, quello di Rebibbia a Roma”, ci racconta Federico Russo, direttore scientifico dello Spiraglio. “Poi perché l’istituzione carceraria è l’istituzione totale per eccellenza, un luogo pensato come luogo di pena e non di rieducazione. Quindi un luogo in cui ci si chiude e abbiamo pensato che lo Spiraglio potesse portare luce qui dentro”. Il Premio Luciano De Feo, di cui parla Federico Russo, è la novità più rilevante del Festival di quest’anno. Luciano De Feo, avvocato romano, e? stato un grande appassionato di cinema e in particolare del suo ruolo educativo. Direttore dell’Istituto Nazionale LUCE e, successivamente, dell’Istituto Internazionale del Cinema Educativo ICE, Luciano De Feo nel 1930 e? tra i fondatori della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Come ha raccontato Fiamma Lussana nel corso di una chiacchierata con Luca De Fiore, nipote di De Feo e attuale direttore de Il Pensiero Scientifico Editore, “la Mostra del cinema di Venezia nasce dall’incontro di due diverse sensibilità. La prima ispirata da un personaggio molto noto, il Conte Giuseppe Volpi di Misurata, allora Presidente della Biennale. Questa è un’anima di carattere culturale-affaristica perché aveva intenzione di rilanciare il turismo lagunare dopo la crisi del 1929. C’è un’altra anima, però, che ispira la nascita della Mostra, che possiamo definire liberal-pedagogica, ed è quella dell’avvocato romano Luciano De Feo il cui scopo era proprio quello di valorizzare il cinema come arte universale nazionale e internazionale”. Secondo Luciano De Feo, dunque, il cinema doveva diventare un linguaggio universale, doveva capire e parlare più lingue e mettere in comunicazione tra loro popoli, storie e contesti nazionali anche molto diversi. E sulla scia di questa concezione di comunicazione aperta Luciano De Feo fonda nel 1946 la casa editrice Il Pensiero Scientifico Editore, nata proprio per contrastare la chiusura alla scienza anglosassone imposta dal regime fascista. Un premio, quindi, che più di ogni altro rispecchia l’anima dello Spiraglio: unire cinema e salute. “Mi piacerebbe essere un cagnolino, di quelli piccolini di qualche razza con il pedigree. Non perché li consideri meglio di quelli senza pedigree ma perché il più delle volte vengono viziati tanto. Alcuni hanno addirittura il dog-sitter, fanno la manicure, vanno dal parrucchiere. Una volta ho visto un chihuahua con il collare Louis Vuitton che viaggiava in un trasportino abbinato. Vengono coccolati tantissimo, dev’essere piacevole essere un chihuahua con padroni ricchi. […] Quando sono arrivata a Rebibbia ho pensato “Beh, dai, mi riposo qualche giorno, lontano dallo stress del mondo, poi l’avvocato mi fa uscire”. Potrei anche essere io un chihuahua pensavo, mi arrivava la colazione in cella, la mattina, quando ero ancora in isolamento. Passavano a chiedere cosa volevi e potevi scegliere. Prendevo il caffè americano, senza latte. Poi doccia, mi truccavo e tornavo a letto. Dicevo: “Ma che ci torno a fare a casa, qui mi portano la colazione!”. Ovvio che volevo tornare a casa, ma era una sensazione diversa, il poter stare per un po’ senza pensieri e accudita…” - Francesca “Salvate dai pesci”, il documentario (che è anche un libro) vincitore della prima edizione del Premio Luciano De Feo, racconta il laboratorio realizzato dall’Associazione Ri-Scatti nella sezione femminile della Casa Circondariale di Rebibbia dal 13 ottobre del 2022 al 23 febbraio del 2023. L’associazione, nata nel 2013, sviluppa progetti creativi - fotografici, teatrali, laboratori di scrittura - per promuovere l’integrazione sociale e dare un’opportunità di riscatto a chi soffre o a chi nella vita è rimasto indietro. “Ogni anno viene identificata una categoria fragile e gli vengono forniti gli strumenti per raccontarsi”, ci racconta Stefano Corso, presidente dell’Associazione. “Negli anni abbiamo coinvolto persone che soffrivano di disturbi del comportamento alimentare, senza fissa dimora, migranti, bambini con una patologia oncologica, adolescenti vittime di bullismo… Nel 2021 a Milano avevamo già fatto un laboratorio nelle carceri, dando la possibilità sia ai detenuti sia agli agenti di polizia penitenziaria di raccontarsi attraverso la macchina fotografica. Qualche anno dopo siamo voluti entrare in un carcere di Roma”. L’obiettivo iniziale era quello di condurre le donne a raccontare la propria storia in modo fiabesco, così che potessero raccontare la loro vita e la loro esperienza ai propri figli per provare a spiegargli il perché della loro assenza e la realtà carceraria. Con il passare del tempo, però, ci si è resi conto di come scrivere storie personali fosse difficile e doloroso. Il laboratorio è diventato così uno spazio aperto in cui parlare di sé, dei propri sogni, delle proprie speranze. Da questa esperienza è nato un libro “Salvate dai pesci. Racconti delle detenute di Rebibbia”, curato da Mario Corso ed edito da Castelvecchi, che raccoglie storie di nomi, di oggetti, di luoghi, di ricordi, desideri e rimpianti. Storie fragili che lasciano però uno spiraglio di luce. Ddl Sicurezza, opposizione sulle barricate. I penalisti: criminalizza dissenso e disagio di Francesco Grignetti La Stampa, 21 maggio 2024 Il governo vuole il provvedimento in aula il 27 maggio. Lettera a Fontana: no ad accelerazioni. L’allarme di Petrelli (Ucpi): “Finirà che le donne incinte andranno in carceri normali”. Il governo ha una fretta indiavolata e vorrebbe portare al voto della Camera il 27 maggio un progetto di legge, quello sulla sicurezza che porta le firme dei ministri Matteo Piantedosi e Carlo Nordio, licenziato nel novembre scorso. Solo ieri c’è stato un approfondimento con audizioni tecniche. Di qui una lettera delle opposizioni al presidente Lorenzo Fontana per “stigmatizzare l’accelerazione” e per riesaminare i tempi di un provvedimento che “comprime libertà costituzionalmente garantite nel campo del diritto penale, dell’immigrazione e penitenziario”. Nel merito, il presidente dell’Unione camere penali, Francesco Petrelli, nella sua audizione ha demolito il ddl: pene altissime, nuovi reati, criminalizzazione del dissenso e del disagio sociale, fattispecie evanescenti e dubbi di incostituzionalità. Su tutto c’è qualcosa che i penalisti non possono accettare: la possibilità di mandare in carcere le donne incinte. Un passo indietro persino rispetto al vituperato codice Rocco che “dovrebbe essere il parametro di un codice autoritario. Ma ora si fa peggio e a noi garantisti ci ripugna”, dice Petrelli a La Stampa. “Gli istituti a custodia attenuata per detenute madri sono appena 5 in tutta Italia. Finirà che le donne in attesa di partorire andranno in carceri normali e sfido chiunque a dire che è accettabile che una donna con un neonato o una puerpera possa stare in una cella dove le condizioni igieniche fanno pena, senza assistenza psicologica, in realtà sovraffollate. Non è da Stato di diritto”. Il governo vuole usare il ddl in vista delle elezioni europee. I penalisti rispondono con questa memoria: “Le nuove norme, presentate quali soluzioni ai fatti criminali di maggiore appeal mediatico, come se nell’attuale assetto normativo non fossero già presenti disposizioni di legge che puniscono l’occupazione abusiva di immobili, il borseggio, le rivolte nelle carceri o l’aggressione dei rappresentanti delle forze dell’ordine, finiscono per fornire l’errato messaggio per cui è l’efficacia della risposta punitiva ad eliminare i fenomeni”. Bestia nera del governo sono anche gli attivisti di Ultima generazione, ecologisti che bloccano le strade o che danneggiano opere d’arte, sia pure con lievissimi effetti. Giusto ieri hanno imbrattato la facciata del ministero della Giustizia. Ebbene, spiega l’Unione dei penalisti che il ddl è un “contrasto della protesta attraverso la criminalizzazione di comportamenti di dissenso anche laddove manifestati in forma non violenta”. Appare tagliato su misura anche il reato di imbrattamento di edifici che ospitano uffici pubblici. “Considerando che è una protesta non violenta e dai principi condivisibili, entra in conflitto con il codice laddove invece prevede un’attenuante quando si sia mossi da alti valori sociali”. A metà strada tra criminalizzazione del disagio e del dissenso, è poi il nuovo reato di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario”. Vi si punisce con la pena della reclusione da 2 a 8 anni, chiunque promuova una rivolta. La novità è che agli atti di violenza sono equiparati quelli di resistenza passiva all’esecuzione degli ordini impartiti. Petrelli dice: “Al di là di tanti proclami, si fa marcia indietro rispetto alla riforma del 1975 che premiava la buona condotta”. Il veleno è nella coda: il detenuto che sia condannato per “rivolta carceraria” ricadrà sotto l’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario; significa impossibilità di avere benefici carcerari negli anni a seguire. Ripescato il ddl sicurezza. Fd’I lo vuole per le europee di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 maggio 2024 Era fermo da sei mesi, alla Camera, il ddl Sicurezza. Ora, a ridosso delle elezioni, la maggioranza si è ricordata di quella norma-manifesto e ha deciso di scongelarla e, anzi, farla volare: dovrà arrivare in aula il 27 maggio prossimo, meno di una settimana. Le opposizioni protestano e dalle audizioni emergono solo critiche dagli addetti ai lavori. Gli avvocati penalisti avvertono: il testo, oltre ad essere assolutamente superfluo, è “segnato da inammissibili profili di incostituzionalità”. “Ormai la destra ha imposto un nuovo modello in base al quale si legifera per necessità elettorali. Le necessità reali del Paese vengono dopo”, denuncia per primo Filiberto Zaratti, capogruppo di Avs in commissione Affari costituzionali. Sulla stessa linea anche il dem Andrea Casu: “Oggi la maggioranza è in difficoltà e lo dimostra la fretta che vorrebbe imporre sul ddl Sicurezza. Rimasto congelato da novembre scorso, quando è stato approvato in Cdm, lo ritirano fuori perché serve alla propaganda della campagna elettorale”. A sera, tutti i capigruppo delle opposizioni decidono di scrivere insieme una lettera al presidente della Camera, Lorenzo Fontana, per “stigmatizzare l’accelerazione impressa dai presidenti delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia sull’esame del ddl Sicurezza e chiedere la convocazione di una capigruppo” per riesaminare i tempi dell’iter di un provvedimento che “comprime libertà costituzionalmente garantite in particolare nel campo del diritto penale, del diritto dell’immigrazione e del diritto penitenziario”. I firmatari - Chiara Braga (Pd), Francesco Silvestri (M5s), Matteo Richetti (Azione), Luana Zanella (Avs), Davide Faraone (Iv) e Riccardo Magi (Più Europa) - chiedono a Fontana di garantire tempi adeguati di discussione “nel rispetto delle prerogative di tutti i gruppi, di tutte le deputate e di tutti i deputati, tanto di maggioranza quanto di opposizione”. A premere sull’acceleratore sarebbe stata soprattutto Fd’I, determinata a replicare la forzatura messa in atto con il ddl autonomia, nella speranza di arrivare alla discussione generale prima delle europee, per poi rinviare i voti sugli emendamenti a dopo le elezioni. D’altronde, dal momento in cui era stato presentato alla Camera il 22 gennaio, al ddl Piantedosi-Nordio-Crosetto erano state dedicate solo due sedute di discussione generale a febbraio nelle commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia. E poi il nulla, fino al 16 maggio quando sono iniziate le audizioni che si sono concluse ieri. Ora per le commissioni è previsto un vero tour de force: quattro giorni di tempo per esaminare il testo, con gli emendamenti da presentare entro oggi e il mandato al relatore da attribuire entro la settimana. Eppure nell’audizione di ieri Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle camere penali, ha spiegato che “l’intero impianto normativo del ddl è caratterizzato da ampie zone di imprecisione e di oscurità, ovvero da sovrapposizione a norme preesistenti, che ne inficiano l’agevole interpretazione ed applicazione”, ma soprattutto è “segnato da inammissibili profili di incostituzionalità”, in particolare per le nuove fattispecie di reato “che pericolosamente mirano a punire il modo d’essere del soggetto piuttosto che il “fatto”“. I penalisti puntano il dito contro i “palesi intenti simbolici e la logica della sempre più marcata anticipazione delle soglie di punibilità”. E criticano anche l’articolo 12 sulle detenute madri con il quale “il rinvio della pena per donne incinte e con bimbi fino a un anno viene reso facoltativo” con “conseguenze evidentemente negative in termini di tutela della salute e dell’integrità fisica e psichica di madri e minori, che dovrebbero essere oggetto di specifica tutela costituzionale”. “Il tono è propagandistico; l’efficacia molto dubbia”, afferma davanti ai membri delle commissioni di Montecitorio Giovanni Russo Spena, rappresentante dell’Associazione Giuristi democratici. Secco no all’articolo 18 del ddl, quello che punisce la rivolta nelle carceri, anche da Luca Della Ragione, Gip del Tribunale di Napoli: “Crea problemi in relazione alla resistenza passiva - ha scritto il giudice in una nota - che può essere espressione di più svariate ragioni, anche da tutelare, e di certo non è parificabile alle altre condotte, che appaiono connotate da materialità e offensività”. Tanti ma silenziosi: le toghe indifferenti alla riforma di Nordio di Giulia Merlo Il Domani, 21 maggio 2024 Il ministero punta sulla “maggioranza silenziosa” di toghe che non sarebbero intenzionate a fare muro contro la riforma. All’ultima astensione, l’adesione è stata sotto il 50 per cento. Nell’attesa che la separazione delle carriere arrivi in consiglio dei ministri, molto si muove sia dentro il ministero della Giustizia che tra le toghe. Formalmente c’è un insuperabile muro contro muro: da una parte il guardasigilli Carlo Nordio, che della sua volontà di dividere i percorsi professionali di giudici e pm non ha mai fatto mistero; dall’altra la magistratura associata, con l’Anm, che ha escluso qualsiasi livello di trattativa. In concreto, però, il centrodestra è convinto che nel mezzo si muova qualcosa d’altro, che indirettamente favorirà l’iniziativa del governo. Nordio l’ha spesso tirata in ballo chiamandola la “maggioranza silenziosa”, rappresentata da tutta quella galassia di toghe lontane dalla dimensione sia dei gruppi associativi che dell’Anm e in particolare la categoria dei giudici civili. Si possono virtualmente contare: su circa 10mila magistrati, più della metà si occupano del civile, mentre solo 2mila fanno parte della categoria delle toghe requirenti. L’organico, infatti, è diviso con circa il 55 per cento nel settore civile e il restante tra pm e giudici penali. E i giudici civili, per forza di cose, sono professionalmente meno coinvolti nella questione della separazione delle carriere, che tocca da vicino il penale. Su questo conterebbe il ministero, anche in forza di un dato numerico considerato ancora più emblematico: quel 48 per cento di adesioni all’astensione del maggio 2022 organizzata dall’Anm contro la riforma Cartabia, con la punta negativa di braccia incrociate in Cassazione, con appena il 23 per cento di assenze. Questo sarebbe il peso della “maggioranza silenziosa” e dimostra come la magistratura sia un blocco meno monolitico di quanto appare all’esterno. “Considerarla favorevole alla separazione delle carriere è un’esagerazione, ma potremmo dire che una quota di magistrati è indifferente. E diffidente rispetto al sistema dei gruppi associativi”, è il commento di un magistrato civile. Si tratta di magistrati che non stanno né dalla parte del governo, né da quello della magistratura associata pronta a salire sulle barricate. In definitiva, però, questa neutralità dovrebbe favorire Nordio, se non altro perché impedirebbe una protesta veramente collettiva. D’altro avviso sono le toghe: al congresso di Palermo dell’Anm, celebrato a ridosso dell’annuncio della riforma costituzionale, hanno aderito più di mille magistrati. A quello precedente, erano appena 300. La speranza, quindi, è che stia crescendo anche nel corpo meno attivo la paura di una messa in discussione dei principi di autonomia e indipendenza. Non a caso il presidente Giuseppe Santalucia, voce dialogante e di buon senso, ha scelto di sottolineare come separare le carriere provochi “l’indebolimento della giurisdizione”, perché si espellerebbe la magistratura requirente e questo darebbe ancora più potere ai pm, che “oggi hanno 5 componenti del Csm su un totale di 30 consiglieri”. Con la riforma invece ci sarà un Csm ad hoc tutto di pm che “quindi avranno un potere enorme e sarà un problema di cui presto la politica si accorgerà”. Un argomento, questo, tagliato proprio per convincere quella gran parte di giudici civili, che negli anni hanno visto il loro ruolo inglobato mediaticamente nelle voci dei pm. L’obiettivo è rimarcare il fatto che, con i pm separati, la situazione non migliorerebbe affatto, anzi. Tuttavia, lo spettro dello scarso successo dell’ultima astensione aleggia ancora: anche per questo c’è stata una frenata sull’indizione di una nuova astensione, immediatamente evocata dopo l’annuncio di Nordio e poi ridimensionata. La separazione delle carriere e quello che Nordio non dice di Gian Carlo Caselli La Stampa, 21 maggio 2024 Tocca ringraziare il ministro Carlo Nordio. Chi l’avrebbe mai detto? Propagandando la sua pseudo riforma della giustizia (nella quale non si parla del vero problema da affrontare: la vergognosa interminabile durata dei processi; ma si procede con ostinata ossessione verso la deleteria separazione delle carriere fra pm e giudici), il ministro gigioneggia col suo passato di pm, garantendo per ciò stesso che la sua riforma non potrà abbassare neppure di un millimetro il livello di indipendenza di cui oggi il pm - grazie alla Costituzione democratica ancora in vigore - gode rispetto al potere esecutivo e segnatamente al ministro della Giustizia. Anche tralasciando “il precedente” della fiducia manifestata del ministro, dopo una diretta sperimentazione, verso la “prova Minnesota”, ancorché essa collegasse l’idoneità del magistrato, tra l’altro, alla temperatura dei piedi; la personale “garanzia” di Nordio in tema di separazione delle carriere legittima chi è stato pm come lui a intervenire ancora una volta sullo stesso tema. Tanto per cominciare c’è un problema di coerenza che Nordio neppure si pone. Si dice che a rendere cosa buona e giusta la separazione sarebbe il fatto che la comunanza di carriere (icasticamente rappresentata con il caffè o con l’auto che pm e giudici prendono insieme…) inciderebbe negativamente sul processo, determinando una pericolosa dipendenza di chi controlla rispetto a chi deve essere controllato. Ma allora, per coerenza dovrebbero essere rescissi anche i rapporti fra i giudici dei diversi gradi del processo, cioè fra i giudici di primo grado, d’appello e cassazione. Capita infatti anche a loro di prendere un caffè o un’auto insieme… E proprio per coerenza si dovrebbero prevedere non solo due concorsi (per pm e giudici) ma tre o più, non solo due ma tre o più Csm, non solo due ma tre o più carriere separate. Una strada improponibile, senza uscita, che tuttavia indica chiaramente come l’obiettivo vero ma inconfessabile della separazione sia colpire il pm per mortificare o inceppare l’anello d’avvio della giurisdizione penale, condizionando inevitabilmente anche le fasi successive. Giurisdizione che sarebbe comunque travolta nella sua libertà e indipendenza se mai dovesse passare l’abolizione della obbligatorietà dell’azione penale (oggi sancita dall’art. 112 della Costituzione), posto che al progetto di separazione delle carriere si affianca di solito quello di introduzione della discrezionalità dell’azione penale, regolata però da cogenti direttive ministeriali. Una delle principali obiezioni che si muovono ai magistrati, in servizio o in pensione, che sostengono le tesi ora illustrate è di essere malati di corporativismo. Ma l’indipendente esercizio della giurisdizione non è un patrimonio della casta dei magistrati. Non scherziamo! È invece un prezioso patrimonio dei cittadini. Nel senso che senza una magistratura indipendente, ci sarà sempre (e ciò avviene appunto con la separazione delle carriere) qualcuno che in un modo o nell’altro potrà legittimamente dire al magistrato a chi fare la faccia feroce e a chi invece gli occhi dolci. Una pietra tombale, la fine anche solo della speranza di poter avere una giustizia almeno tendenzialmente uguale per tutti e non attenta soprattutto alle “esigenze” di chi può e conta ed è in sintonia col potere politico contingente, non importa ovviamente di che colore, rosso o nero, giallo o verde. Si sostiene ancora che la separazione delle carriere esiste in vari paesi democratici senza che debbano registrarsi inconvenienti. A parte che molti di questi paesi invidiano proprio il nostro sistema, sta di fatto che in essi la politica sa come “bonificarsi”, espellendo o neutralizzando i pezzi malati. Cosa che nel nostro paese non sempre avviene, sicché pezzi della politica (senza generalizzare, pezzi: ma pezzi talora consistenti) risultano implicati in casi di corruzione o di malaffare fino alla mafia. Conviene lasciare che la politica, con queste presenze, possa influire sull’esercizio della giurisdizione? Non sarebbe un po’come introdurre la volpe in un pollaio? Sono interrogativi spiacevoli e scomodi, che però - nell’interesse della qualità della nostra democrazia - non si possono ignorare. Separazione delle carriere? Il vero nodo è la discrezionalità dei pm di Pietro Dubolino* La Verità, 21 maggio 2024 La riforma voluta dal governo deve essere accompagnata dal ritorno della pubblica accusa alle sue funzioni originarie. Regola fondamentale per chi voglia capire i termini di una qualunque questione è quella di risalire alle sue origini. Questo vale, quindi, anche per la questione della separazione delle carriere tra magistrati del pubblico ministero e magistrati giudicanti, periodicamente riemergente da decenni, a guisa di fiume carsico, nel dibattito politico e ora riemersa a iniziativa dell’attuale governo. Per comprendere l’origine di tale questione, occorre ricordare che di separazione delle carriere si è cominciato seriamente a parlare soltanto da quando, con l’entrata in vigore, nel 1988, del nuovo Codice di procedura penale, basato sul sistema “accusatorio”, il pubblico ministero ha cessato di essere quella che, in precedenza, veniva definita, sia pure con apparente contraddittorietà, una “parte imparziale”, per assumere invece la natura di pura e semplice “parte”, anche se teoricamente gravata dell’obbligo di cercare le prove anche a favore dell’accusato; obbligo che, del resto, corrisponde al suo stesso interesse a non correre il rischio di portare avanti un’accusa che poi si riveli infondata. Ma quel che ancora più conta è che il pubblico ministero è stato anche trasformato, da organo essenzialmente “recettore “ (qual era in precedenza) delle notizie di reato che gli pervengano, sotto forma di segnalazioni, denunce, querele e simili, da organi di polizia, pubblici ufficiali o anche semplici privati, in un organo anche “ricercatore”, di sua iniziativa, delle suddette notizie, laddove ritenga che se ne possano trovare; il che gli ha attribuito un’amplissima discrezionalità inevitabilmente suscettibile di assumere anche connotazioni ideologico-politiche, alle quali però non fa (né può fare) riscontro, come logica invece vorrebbe, alcuna forma di responsabilità politica. Di qui la ritenuta esigenza - soprattutto, ovviamente, dalla parte politica che, di fatto, era risultata più esposta alle “campagne di caccia” del pubblico ministero - di un rafforzamento della “terzietà” del giudice rispetto alla pubblica accusa, da realizzarsi facendo in modo che a sostenere quest’ultima non siano dei soggetti da considerare “colleghi” del giudice, in quanto appartenenti al medesimo “ordine giudiziario”. In realtà, che il rapporto di colleganza tra magistrati giudicanti e magistrati del pubblico ministero sia causa di una comprovata propensione dei primi ad accedere alle richieste dei secondi, a scapito dei diritti e delle legittime aspettative della difesa, non può in alcun modo darsi per certo. Basterebbe, a dimostrarlo, l’altissima percentuale di assoluzioni - risultante dai dati ufficiali offerti dalle statistiche giudiziarie - pronunciate, all’esito dei giudizi, in difformità rispetto alle richieste del pubblico ministero, anche in processi che hanno avuto larga risonanza mediatici come, ad esempio, quello sulle presunte tangenti Eni a esponenti del governo della Nigeria. Potrebbe obiettarsi che lo stesso non avviene, però, nel caso delle misure cautelari, in cui le richieste del pubblico ministero risultano, con estrema frequenza, accolte dal giudice. Ciò tuttavia, a ben vedere, non dipende dal rapporto di colleganza ma, più semplicemente, dal fatto, difficilmente eliminabile, che il giudice, nel decidere se accogliere o meno la richiesta di una misura cautelare, non può che basarsi su quanto in essa viene rappresentato e può, quindi, respingerla solo quando appaia, già a prima vista, del tutto priva di adeguato fondamento, in fatto o in diritto; il che, per ovvie ragioni, raramente può verificarsi. Ciò detto, può tuttavia ammettersi che, per esigenze soprattutto di “immagine” - che hanno una loro importanza e legittimità anche e soprattutto nel campo della giurisdizione - sia ritenuta opportuna e, addirittura, imprescindibile la separazione delle carriere, con l’assicurazione che essa non comporterebbe comunque l’assoggettamento, di diritto odi fatto, del pubblico ministero al controllo e alle direttive del potere esecutivo; obiettivo, questo, che, invece, secondo le forze politiche di opposizione e gli organi associativi della magistratura, sarebbe quello occultamente perseguito dal governo e dalla maggioranza parlamentare che lo sostiene. Il che giustificherebbe l’azione volta a impedirne la realizzazione, a salvaguardia del principio costituzionale dell’indipendenza della magistratura. Per la verità, anche ad ammettere che tali timori abbiano un qualche fondamento, ciò non dovrebbe, di per sé, costituire motivo di scandalo, dal momento che numerosi sono i Paesi sicuramente democratici, a cominciare dalla vicina Francia, in cui, ferma l’indipendenza della magistratura giudicante, il pubblico ministero è posto sotto la direzione o il controllo del potere esecutivo. Ma, volendo, invece, dar credito alle assicurazioni fornite dal governo, occorre, allora, mettere bene in chiaro che la sola separazione delle carriere, con ogni probabilità, lungi dall’attenuare, aggraverebbe, invece, gli effetti negativi della nuova configurazione del pubblico ministero introdotta, come già detto, dal vigente Codice di procedura penale. Un pubblico ministero non più appartenente allo stesso ordine dei magistrati giudicanti e soggetto - come si vorrebbe - al solo blando controllo di un Consiglio superiore in una qualche misura “domestico” sarebbe, infatti, facilmente indotto a esasperare ancor più di quanto già ora avviene la funzione di organo d’accusa a scapito di quella di organo di giustizia, qual era tradizionalmente ritenuto in Italia. E sarebbe ancor più incoraggiato alla ricerca di ipotetiche notizie di reato, nella mantenuta consapevolezza di non dover in alcun modo rispondere dei danni prodotti alle persone coinvolte e dello spreco di risorse finanziarie e umane che la ricerca abbia comportato, quando gli esiti, sottoposti al vaglio del giudice, si rivelino (magari dopo anni) del tutto negativi. Di qui la conclusione che, qualora si realizzasse la separazione delle carriere, questa dovrebbe essere accompagnata, se non altro, dalla riconduzione del pubblico ministero alle sue originarie funzioni di organo essenzialmente “recettore” delle notizie di reato, in modo da eliminare l’anomalia costituita dalla insindacabile discrezionalità di cui oggi esso gode nell’andare, dove meglio crede, alla loro ricerca. E nessuno potrebbe fondatamente sostenere che ciò sarebbe contrario alla Costituzione perché, anzi, la figura del pubblico ministero che si dovrebbe ripristinare è proprio quella alla quale la Costituzione si era ispirata per ricollegarvi, coerentemente, l’obbligo da essa introdotto con l’articolo 112, dell’esercizio dell’azione penale; vale a dire (secondo la più qualificata dottrina giuridica) l’obbligo di sottoporre tutte indistintamente le notizie di reato ricevute al vaglio di un giudice, anche solo per farne riconoscere la eventuale, riscontrata infondatezza. Non ci vuol molto a capire che un tale obbligo mal si concilia, sotto un profilo logico, con la totale discrezionalità, attribuita al pubblico ministero, di scegliere quali siano, nell’infinito numero delle possibili notizie di reato, quelle che valga la pena di andare a cercare. *Presidente di sezione a riposo della Corte di Cassazione Confische antimafia, la nuova controversa direttiva europea di Valentina Stella Il Dubbio, 21 maggio 2024 Sanzioni sui beni subordinate alla condanna nel processo, ma con ambigue eccezioni. Nessun impatto sul ricorso Cavallotti. Entrerà in vigore domani la Direttiva 2024/1260 del Parlamento europeo e del Consiglio Ue riguardante il “recupero e la confisca dei beni”. Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea il 2 maggio 2024, concede tempo agli Stati membri fino al 23 novembre 2026 per conformarsi alle nuove misure introdotte. Uno dei princìpi cardine sanciti al suo interno lo si ritrova all’articolo 12, laddove si legge che “gli Stati membri adottano le misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale, di beni strumentali e proventi derivanti da un reato in base a una condanna definitiva, che può anche essere pronunciata a seguito di un procedimento in contumacia”. A prima vista tale previsione potrebbe apparire maggiormente garantista rispetto alla nostra legislazione interna, che prevede la confisca anche in caso di assoluzione. Emblematico, in tal senso, è il caso della famiglia Cavallotti. In particolare, Vincenzo, Salvatore e Gaetano Cavallotti, tre fratelli di Belmonte Mezzagno, in provincia di Palermo, un tempo leader nel campo della metanizzazione, furono assolti dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso nel 2010 dalla Corte di Appello di Palermo eppure, nell’ambito del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione, la Corte di Cassazione ha ritenuta definitiva, il 2 febbraio 2016, la confisca dei loro beni, tra cui diverse società, di proprietà loro o di loro familiari. A fronte di una iniziale maggiore connessione fra giudizio penale e validità delle misure di prevenzione antimafia (e in generale “anti- crimine”), la nuova direttiva Ue, in alcuni passaggi successivi, sembra quanto meno controversa. Negli articoli 14 (“Confisca estesa”), 15 (“Confisca non basata sulla condanna”) e 16 (“Confisca di patrimonio ingiustificato collegato a condotte criminose”), si afferma che la confisca estesa, ad esempio, dovrebbe essere possibile anche quando “un organo giurisdizionale è convinto che i beni in questione derivino da una condotta criminosa”, senza che sia necessaria la sussistenza di una condanna relativa a tale condotta. E ancora, all’articolo 15, la nuova disciplina eurounitaria statuisce esplicitamente che si può procedere a confisca, anche senza condanna, “nei casi in cui un procedimento penale sia stato avviato ma non sia stato possibile farlo proseguire a causa di una o più delle circostanze seguenti: malattia dell’indagato o imputato; fuga dell’indagato o imputato; decesso dell’indagato o imputato; i termini di prescrizione per il reato in questione stabiliti dal diritto nazionale sono inferiori a 15 anni”, ma soprattutto in virtù del fatto che “il valore dei beni è considerevolmente sproporzionato rispetto al reddito legittimo dell’interessato”; oppure perché “non vi è una fonte lecita plausibile dei beni” e “l’interessato è collegato a persone connesse a un’organizzazione criminale”. Insomma tutta una serie di eccezioni che sembrano vanificare, per molti aspetti, quanto previsto dall’articolo 12. Ma che impatto può avere, la direttiva 2024/ 1260, sia sulla legislazione italiana che sul procedimento dinanzi alla Corte europea dei Diritto dell’uomo relativo proprio al ricorso della famiglia Cavallotti, a cui si aggiungono altri 26 giudizi analoghi, sempre in materia di misure di prevenzione? Sul primo versante, va considerato che i tempi relativi al recepimento della direttiva sono lunghi: abbiamo già scritto all’inizio che l’Italia ha un margine di due anni. Inoltre, è solo entro il 24 novembre 2028 che la Commissione presenterà al Parlamento europeo e al Consiglio una relazione in cui valuta l’attuazione di questa direttiva. E si arriva addirittura al 24 novembre 2031 perché la Commissione presenti al Parlamento europeo e al Consiglio una relazione in cui valuta la direttiva, tenendo conto delle informazioni fornite dagli Stati membri. Questa strada si intreccia con la citata decisione che dovrà prendere la Cedu in merito al ricorso Cavallotti e alle altre cause “gemelle”, un contenzioso ormai “sistemico” rispetto al quale, tra l’altro, l’Unione Camere penali è stata chiamata a esprimere un parere, in veste di amicus curiae, per tutti i procedimenti. Ma in realtà la direttiva non dovrebbe incidere, da questo punto di vista: innanzitutto, il ricorso dinanzi alla Corte di Strasburgo si basa esclusivamente sul contrasto tra le norme del diritto italiano e i princìpi generali del diritto europeo, in particolare della Convenzione europea dei Diritti umani, quali la presunzione di innocenza e il principio di tassatività di una norma (“nulla poena sine lege”), Convenzione che non può comunque essere modificata da una direttiva, che è di rango inferiore. In più, secondo l’avvocato Baldassarre Lauria, legale della famiglia Cavallotti, “questa direttiva è da un lato del tutto irrilevante per quanto concerne il procedimento dinanzi alla Cedu perché non contiene la previsione di una confisca in caso di assoluzione e dall’altro lato non è impattante sulla nostra legislazione, che sta avanti in senso peggiorativo, perché è davvero una mostruosità giuridica quella del sequestro dei beni a seguito di una sentenza di assoluzione”. In pratica, ora come ora, il quadro giuridico italiano è peggiore di quanto preveda la direttiva. L’Italia, quindi, nel recepirla non potrebbe mai arrivare a un livello di garanzie inferiori alle attuali. Anche se, come sottolinea lo stesso Pietro Cavallotti, “la confisca di prevenzione, che serve per colpire gli assolti, non ha ricevuto il riconoscimento da parte di questa direttiva. Pertanto possiamo considerarla più garantista del modello di confisca di prevenzione dell’Italia”. “Vi racconto i miei 33 anni passati in carcere ingiustamente”. Parla Beniamino Zuncheddu di Ermes Antonucci Il Foglio, 21 maggio 2024 Intervista all’ex pastore sardo, vittima del più grave errore giudiziario della storia italiana. L’arresto, il carcere e la liberazione, ora in un libro. “Mi sento come un bambino che deve reimparare a camminare”. “Mi hanno bruciato 33 anni di vita. Pensi a quante cose avrei potuto fare, io non ho potuto fare niente. E chissà quanti ce ne saranno ancora lì dentro, innocenti che non hanno la possibilità di uscire dal carcere”. A parlare al Foglio è Beniamino Zuncheddu, vittima del più grave errore giudiziario della storia del nostro paese. Ex pastore di Burcei (Cagliari), Zuncheddu, 60 anni, è stato condannato all’ergastolo per la strage del Sinnai dell’8 gennaio 1991, che costò la vita a tre persone, per poi essere assolto al termine di un processo di revisione lo scorso 26 gennaio, dopo quasi 33 anni passati in carcere. Da oggi è nelle librerie con “Io sono innocente” (edito da DeAgostini), scritto con il suo legale, l’avvocato Mauro Trogu, in cui racconta la sua incredibile vicenda. Da quando è stato assolto, Zuncheddu è tornato a Burcei. “Mi sento come un bambino che deve reimparare a camminare”, ci dice, riferendosi a tutto ciò di nuovo che ha trovato una volta fuori dal carcere: “Nuove automobili, i telefonini, persino una nuova moneta, l’euro”. L’incubo di Zuncheddu comincia l’8 gennaio 1991 quando sulle montagne di Sinnai vengono uccisi tre pastori e una quarta persona rimane gravemente ferita. Inizialmente le indagini non portano a nessun risultato. L’unico superstite e testimone oculare, Luigi Pinna, riferisce agli inquirenti di non aver potuto riconoscere colui che aveva sparato perché aveva una calza da donna sul volto ed era notte. A fine febbraio Pinna cambia improvvisamente versione e indica Zuncheddu come autore della strage. Si scoprirà in seguito, dopo oltre trent’anni, che a suggerire a Pinna di individuare in Zuncheddu il colpevole era stato un poliziotto. “Il 28 febbraio 1991 alcuni agenti hanno suonato alla porta di casa e mi hanno portato in questura per accertamenti”, racconta Zuncheddu. “Non sapevo per che cosa fossero quegli accertamenti. Poi i poliziotti mi hanno interrogato e mi hanno detto che avevo fatto una strage. Ovviamente avevo sentito degli omicidi, lo avevo letto sui giornali e basta. Mi hanno preso e mi hanno portato in una stanza, una specie di magazzino. La spalliera della sedia era appoggiata a un termosifone. Mi hanno ammanettato il polso sinistro al tubo del termosifone, in alto, così il braccio rimaneva alto sulla testa, e mi hanno lasciato seduto lì tutta la notte, fino alle 9 del mattino. La mattina dopo non sentivo più il braccio. Sono venuti i carabinieri, mi hanno preso e mi hanno arrestato, senza dirmi niente”. Quando le hanno detto che era accusato di aver compiuto la strage cosa ha pensato? “Ho pensato che era impossibile, perché non ero stato io. Non ero stato io. E ho pensato che un giorno o l’altro mi avrebbero liberato, perché avevo anche dei testimoni. Invece non è stato così”, risponde Zuncheddu. Il giudice per le indagini preliminari convalidò il fermo e dispose la misura di custodia cautelare nel carcere di Buoncammino. Il giorno seguente i giornali locali sbatterono in prima pagina la foto di Zuncheddu, che con dei processi lampo venne condannato all’ergastolo per la strage, grazie alla testimonianza, seppur contraddittoria, dell’unico sopravvissuto, Luigi Pinna. Come è stata l’esperienza in carcere? “È stata dura, perché è un mondo diverso, non conosci nessuno”, racconta Zuncheddu. “È come essere buttati in mezzo alla giungla. Io comunque ho sempre rispettato gli altri detenuti e sono sempre stato rispettato. Anche perché devi convivere, devi stare insieme 24 ore su 24 e non devi trascorrere lì dentro uno o due giorni, ma anni. Ci si deve adeguare”. Gli altri detenuti credevano all’accusa di strage mossa nei suoi confronti? “No, non ci credeva nessuno. Non ci credevano neanche le guardie carcerarie, perché è impossibile. Un ragazzo di 26 anni che fa una strage? È una cosa impossibile”. Le cattive condizioni delle carceri italiane sono purtroppo note. “Le carceri sono sempre state sovraffollate. La convivenza è un po’ dura perché ci sono magari celle per due persone e invece ne vengono messi dentro quattro, e lo spazio è sempre più ristretto. Nelle celle da quattro magari ne vengono messi dieci. Il sistema è sempre quello”, dice Zuncheddu. Dove ha trovato la forza per passare tutti questi anni in carcere, come passava il suo tempo? “Mi hanno messo a lavorare. Ho fatto lo scopino, ho fatto il cuoco, ho fatto diverse mansioni. Quando ero chiuso in cella mi dedicavo a fare qualche lavoretto manuale, come gli stuzzicadenti. Oppure facevamo partite a carte, partite lunghissime per cercare di passare il tempo, altrimenti lì dentro la testa parte”. Ci sono stati momenti in cui le è partita, la testa? “No, no. Diciamo però che il corpo era sempre lì, ma la mente era sempre fuori”. E cosa pensava? “Pensava che un giorno o l’altro sarei uscito per forza dal carcere, che qualcuno avrebbe capito che ero innocente”. A crederci è stato innanzitutto l’avvocato Mauro Trogu, che nel 2016 assunse la difesa dell’ex pastore sardo. Attraverso le sue indagini difensive, nel 2019 Trogu riuscì a convincere l’allora procuratrice generale di Cagliari, Francesca Nanni, ad aprire un processo di revisione per esaminare le nuove prove a sostegno dell’innocenza di Zuncheddu. Nanni giunse alla conclusione che la strage non era legata a presunti dissidi fra allevatori, bensì a un sequestro di persona che si era consumato in quella zona nello stesso periodo. “Quando la procuratrice Nanni decise di occuparsi della vicenda fui contentissimo, perché era una persona importante e solo lei poteva riaprire un caso del genere. Questo è avvenuto grazie all’avvocato Trogu, che ha lavorato giorno e notte. In quel momento mi sono rincuorato un po’. Mi sono detto ‘questa volta mi sa che ce la facciamo’”. In effetti, riaperto il caso, la procura autorizzò nuove intercettazioni ambientali nei confronti del superstite Luigi Pinna dalle quali emersero ammissioni e anche parziali pentimenti sull’accusa rivolta oltre trent’anni prima nei confronti di Zuncheddu. Nonostante l’emergere di elementi che scagionavano l’ex pastore, però, il processo di revisione è rimasto praticamente fermo per tre anni, mentre le richieste di scarcerazione venivano respinte. “Avevo diversi testimoni a mio favore, ma non hanno creduto a nessuno. Hanno creduto all’unico superstite che ha cambiato sempre versione. Prima non aveva visto nessuno, poi mi aveva visto ma con una calza in testa. Qual è la versione giusta?”, incalza Zuncheddu. “Non capivo perché la scarcerazione veniva sempre negata”. Si arriva così alla primavera-estate del 2023, quando Zuncheddu subisce un crollo fisico e psicologico evidente. “La vista mi era calata, avevo perso quasi tutti i denti e avevo dei mal di testa fortissimi. Non ce la facevo più”, racconta. L’avvocato Trogu decide così di rivolgersi a Irene Testa, Garante dei detenuti della Sardegna e tesoriera del Partito radicale, che inizia subito a occuparsi del caso e a portarlo all’attenzione dell’opinione pubblica. Attorno alla vicenda si sviluppa una mobilitazione condotta dal Partito radicale e da alcuni organi di informazione. “Anche i miei compaesani sono stati tutti solidali, molti di loro sono venuti a Roma per assistere alle udienze del processo”, ricorda Zuncheddu. Il processo di revisione intanto va avanti e il 14 novembre 2023 Pinna, a sorpresa, ammette che all’epoca un poliziotto, Mario Uda, gli mostrò una foto di Zuncheddu prima di essere interrogato dal magistrato. “È lui il colpevole”, disse il poliziotto a Pinna, indirizzando le indagini. Pinna accusò così proprio Zuncheddu. Il 27 novembre arriva la svolta: Zuncheddu viene rimesso in libertà dopo quasi 33 anni di carcere. “All’inizio non ci ho creduto. Poi quando mi hanno risposto che non stavano scherzando, ho preso alla rinfusa le mie cose e mi sono ritrovato fuori dal carcere, quello di Cagliari Uta. D’istinto, ho cominciato a incamminarmi verso casa. Ho pensato: prima che ci ripensano e magari mi rimettono dentro” (ride). “Poi mi sono fermato e ho chiamato i miei famigliari, che mi hanno riportato a Burcei. Lì c’erano tutti i miei compaesani che mi aspettavano. Hanno organizzato una festa con i fuochi d’artificio. È stata una cosa bellissima, emozionante”. L’epilogo è giunto lo scorso 26 gennaio, quando la Corte d’assise d’appello di Roma ha assolto Zuncheddu al termine del processo di revisione. “Dopo la sentenza ho pensato subito di rientrare a casa. Mi sono sentito un po’ stordito”, racconta l’ex pastore, aggiungendo: “Se non ci fosse la mia famiglia, oggi dormirei per strada. Dopo aver bruciato 33 anni della mia vita, lo stato non sgancia una lira”. Proprio un mese fa sono state depositate le motivazioni della sentenza della Corte d’assise d’appello di Roma. Motivazioni che hanno sorpreso la difesa. Leggendo il provvedimento, infatti, si scopre che Zuncheddu è stato assolto ai sensi del comma 2 dell’articolo 530 del codice di procedura penale (la vecchia formula dell’insufficienza di prove), quindi non con formula piena. Per i giudici, il processo di revisione “non ha condotto alla dimostrazione della certa ed indiscutibile estraneità di Beniamino Zuncheddu” alla strage di Sinnai, “ma ha semplicemente fatto emergere un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza”. Per i giudici di Roma, “è chiaro che una volta venuta meno la prova-cardine di un teste oculare che, sopravvissuto al massacro, asserisce di avere riconosciuto almeno uno degli aggressori, di fronte alla quale, giustamente, nel corso del procedimento del 1991, non si poteva che pervenire ad una sentenza di condanna, oggi la residua scorta indiziaria non può ritenersi sufficiente per pervenire alla conferma della condanna di Zuncheddu, oltre ogni ragionevole dubbio. Non v’è però prova piena della sua innocenza - si legge nelle motivazioni - e ciò perché egli fornì un alibi fallito che poi fu sostenuto da due testi pacificamente falsi”. Le motivazioni hanno stupito innanzitutto Zuncheddu: “I giudici hanno scritto che in pratica non erano sicuri. Ma una cosa o l’hai fatta o non l’hai fatta. Ecco l’ingiustizia italiana”. Ma a rammaricarsi per le parole usate dai giudici romani è soprattutto l’avvocato Trogu: “Le motivazioni mi hanno molto deluso. Proprio al Foglio, dopo la sentenza di assoluzione, dichiarai che le motivazioni ci avrebbero mostrato il livello di progresso di civiltà giuridica del nostro paese e ci avrebbero spiegato quanto ci siamo allontanati dal 1991 o meno. Devo dire che la distanza dal 1991 a oggi è veramente inesistente”. “Nelle motivazioni - spiega Trogu - si adottano gli stessi schemi che portarono alla condanna di Zuncheddu. Non c’è una sola parola di biasimo verso il falso costruito dalla polizia giudiziaria, non c’è il minimo cenno al fatto che la questura di Cagliari insabbiò una pista del procedimento, tenendo nascosti gli atti dei primi dieci giorni di indagine. L’unico soggetto contro cui continua a essere puntato il dito è Zuncheddu, che a detta della Corte è colpevole di aver fornito un alibi falso all’epoca dei fatti. Io avevo chiesto che fosse ammessa come prova una consulenza tecnica che serviva proprio a dimostrare che l’alibi di Beniamino reggesse. La consulenza, infatti, avrebbe dimostrato che i tempi necessari per commettere quegli omicidi erano molto più lunghi di quanto non venne ritenuto nella prima sentenza, ma la consulenza non è stata ammessa in quanto ritenuta irrilevante. Invece, nella sentenza ora si scopre che la questione dell’alibi era ancora rilevante”. “La testimonianza principale, l’unica, quella del testimone oculare, è caduta. Che alibi deve fornire un soggetto che nessun altro colloca nella scena del delitto?”, si chiede l’avvocato Trogu. “Siamo di fronte a un’inversione dell’onere della prova. Si colpevolizza l’imputato di non essere riuscito a provare di essere altrove quando non c’è nessuno che lo accusa di essere stato presente”. Le motivazioni rischiano di avere pesanti ripercussioni sulla valutazione della richiesta di riparazione per errore giudiziario che l’avvocato Trogu intende presentare. Insomma, dopo aver passato 33 anni in carcere ingiustamente, Zuncheddu rischia pure di vedersi negato dallo stato italiano un risarcimento degno di questo nome. Padova. Suicidi in carcere, giornata d’iniziative di denuncia e sensibilizzazione di Antonio Bincoletto* Ristretti Orizzonti, 21 maggio 2024 A due mesi dalle dichiarazioni del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella sui suicidi in carcere servono interventi urgenti (ancora non si sono viste concrete azioni volte a contrastare e prevenire l’allarmante fenomeno. Ad oggi i suicidi in carcere sono stati 35 e nei prossimi mesi si rischia di superare il triste record raggiunto nel 2022 (90 suicidi). La Conferenza nazionale dei Garanti territoriali ha per questo indetto una seconda giornata d’iniziative di denuncia e sensibilizzazione. Il Garante comunale di Padova, promuove in tal senso due interventi: 1) la diffusione del presente comunicato, inviato agli organi d’informazione locali, cui si allega II documento “Indignarsi non basta più”, elaborato dal portavoce e dal Direttivo della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali 2) Intervento al Convegno “Io non so parlar d’amore” del 17 maggio presso la Casa di reclusione Due Palazzi, organizzato dalla rivista Ristretti orizzonti e dall’Associazione Granello dl senape. Bisogna intervenire subito nelle seguenti direzioni: -adottare misure deflattive straordinarie per ridurre Il sovraffollamento degli Istituti detentivi (la popolazione attualmente reclusa supera del 30% la capienza massima delle nostre carceri), per esempio sostenendo la PDL avanzata dall’on. Giachetti che, senza ricorrere ad indulti, consentirebbe di anticipare il ritorno In libertà per quanti, avendo residui dl pena irrisori, abbiano fatto un buon percorso detentivo mantenendo comportamenti corretti e collaborativi. -Aumentare Il numero dl telefonate, mettendo in condizione chi è recluso dl mantenere rapporti assidui con i parenti e le persone care. -Dare attuazione in tempi stretti a quanto riconosciuto e disposto nella sentenza 10/2024 della Corte costituzionale, rendendo finalmente possibili rapporti affettivi e Intimi fra reclusi e congiunti, come già avviene nella maggior parte dei Paesi europei. -Limitare al minimo l’isolamento e la chiusura delle celle, riaprendo gli spazi sociali nelle sezioni quando ciò è possibile. -Creare maggiori supporti terapeutici e psicologici per chi si trova In condizioni critiche o di forte malessere personale. Una parte di queste misure si potrebbe prendere subito e senza aggravio di spesa: sarebbe un primo passo, un segnale dl attenzione verso I molti che, dentro al carcere, perdono ogni prospettiva per II futuro e rischiano dl cadere nella disperazione. In assenza delle rapide Iniziative concrete raccomandate dal Presidente Mattarella si rischia Invece di andare incontro ad un aggravamento della situazione, che porterà inevitabilmente ad un secondo richiamo della Corte Europea dei Diritti Umani, dopo quello del 2013, quando la CEDU sanzionò l’Italia per trattamenti inumani e tortura riscontrando la mancanza degli spazi minimi di vivibilità nel carcere (3 metri quadri per persona). Anche i detenuti sono persone. Agiamo finché siamo in tempo. *Garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale del Comune di Padova Asti. Suicidi in carcere, incontro con la presenza dei Garanti regionale e comunale lavocediasti.it, 21 maggio 2024 Anche ad Asti, si è tenuta nei giorni scorsi l’iniziativa nazionale lanciata dalla Conferenza nazionale dei Garanti delle persone detenute per richiamare l’attenzione sui suicidi in carcere. Al Foyer delle Famiglie delle Acli, i garanti regionale Bruno Mellano e comunale Paola Ferlauto, in collaborazione con la Camera Penale del Piemonte Occidentale e Valle d’Aosta, sezione di Asti, con il referente avv. Davide Gatti, con l’associazione di volontariato penitenziario Effatà, referenti Beppe Passarino e Domenico Massano, e con il supporto prezioso della Acli di Asti, referente Mauro Ferro, hanno sviscerato un momento interessante. Con la lettura dei 62 nomi, età e carcere, delle persone detenute che sono “morte in carcere e di carcere”: non solo dunque i 35 suicidi, ma anche coloro che hanno perso la vita da ristretti per cause da accertare o per malasanità. Il tragico elenco è quotidianamente aggiornato dalla Rivista Ristretti Orizzonti redatta presso il carcere di Padova e la cui banca dati online registra all’inizio del suo lavoro, gennaio 1992, ben 1760 suicidi. Prima della lettura condivisa dei nomi, si è parlato del fenomeno crescente ed allarmante degli atti autolesivi e del numero delle persone che si sono tolte la vita nell’ambito della Comunità Penitenziaria, delle problematiche croniche del sistema penitenziario, delle progettualità positive messe in campo anche ad Asti, ma si è unanimemente tornati sulla necessità di interventi urgenti e radicali. Si sono segnalate sia la recente riforma in fase di difficile attuazione della cosiddetta “giustizia riparativa” ma anche dell’importante decisione della Corte Costituzionale (10/2024) in tema di affettività in carcere. Erano presenti l’assessore comunale Loretta Bologna, anche a nome del sindaco Maurizio Rasero, i consiglieri comunale Paolo Crivelli e Walter Saracco, gli avvocati Davide Arri, Guido Cardello e Cristina Coda e numerosi volontari penitenziari. Il Pontefice: “Il carcere è un luogo di grande umanità. Significativa la concomitanza con la giornata nazionale della visita alla Casa Circondariale di Verona del Pontefice che ha avuto parole chiare e ferme sulla questione, con un diretto appello ai detenuti “non cedete allo sconforto: la speranza è un diritto”. Proprio sabato 18 maggio, infatti, Papa Francesco ha affermato “Per me entrare in un carcere è sempre un momento importante, perché il carcere è un luogo di grande umanità. Sì, è un luogo di grande umanità. Di umanità provata, talvolta affaticata da difficoltà, sensi di colpa, giudizi, incomprensioni, e sofferenze, ma nello stesso tempo carica di forza, di desiderio di perdono, di voglia di riscatto”. Ha inoltre sottolineato “Conosciamo la situazione delle carceri, spesso sovraffollate - nella mia terra, pure - con conseguenti tensioni e fatiche. Per questo voglio dirvi che vi sono vicino, e rinnovo l’appello, specialmente a quanti possono agire in questo ambito, affinché si continui a lavorare per il miglioramento della vita carceraria.” E infine ha concluso “Seguendo le cronache del vostro istituto, con dolore ho appreso che purtroppo qui, recentemente, alcune persone, in un gesto estremo, hanno rinunciato a vivere. È un atto triste, questo, a cui solo una disperazione e un dolore insostenibili possono portare. Perciò, mentre mi unisco nella preghiera alle famiglie e a tutti voi, voglio invitarvi a non cedere allo sconforto, a guardare la porta come la porta della speranza”. L’occasione è servita per ricordare i 35 detenuti suicidi in Italia dall’inizio dell’anno, a cui si affiancano 4 agenti di polizia penitenziaria: in Piemonte sono 3 i reclusi che si sono tolti la vita da gennaio, rispettivamente ad Ivrea, Cuneo e Torino. Il Garante regionale ha rilanciato l’appello pubblico che ha preso avvio dalle parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che il 18 marzo scorso, parlando alla Polizia Penitenziaria al Quirinale ha sottolineato come “elemento prioritario” sia “l’esigenza di assistenza sanitaria nelle prigioni, che è una esigenza diffusa ampia, indispensabile”. E come “È indispensabile che si affronti sollecitamente questo aspetto. Il numero dei suicidi nelle carceri dimostra che servono interventi urgenti. È importante ed indispensabile affrontare il problema immediatamente e con urgenza. Tutto questo va fatto per rispetto dei valori della nostra Costituzione, per rispetto di chi negli istituti carcerari è detenuto e per chi vi lavora”. Appuntamento a Torino per giovedì 23 maggio presso il Tribunale con l’Ordine degli Avvocati e al prossimo 18 giugno, evento conclusivo della mobilitazione nazionale che ha l’obiettivo di sollecitare l’attenzione delle istituzioni e della politica alla questione, iniziative sotto lo slogan “Non basta più indignarsi!”, anche perché nella stessa giornata il tragico contatore si è aggiornato a 36 suicidi. Brescia. Carcere di Verziano, la Sindaca: “Stiamo ancora aspettando una risposta dal Governo” quibrescia.it, 21 maggio 2024 Alla lettera della prima cittadina del 2023 non è mai arrivata una replica. La richiesta è di istituire un tavolo per discutere delle condizioni infernali di Canton Mombello e del controverso piano di allargamento della seconda prigione. Ancora nessuna risposta, da mesi ormai. La denuncia arriva nientemeno che dalla sindaca di Brescia Laura Castelletti, che lunedì ha rilasciato una durissima nota (l’ennesima) con la quale invoca un incontro con i ministri della Giustizia e delle Infrastrutture per discutere del contestato ampliamento del carcere di Verziano. La sindaca avrebbe appreso dai giornali che l’unica soluzione prevista dal Governo per far fronte alle condizioni disumane di Canton Mombello sarebbe quella di allargare la seconda casa circondariale di Brescia, per poi trasferirvi una parte dei detenuti. Questa misura però non risolverebbe il degrado e l’inadeguatezza degli spazi di Canton Mombello, continuamente denunciati dalla Garante dei detenuti, dai detenuti stessi e dagli agenti di polizia penitenziaria. “Come più volte ribadito da parlamentari e commissioni, anche europee, quella struttura va definitivamente chiusa. Non è più in grado di rispondere alla funzione di recupero e risocializzazione di chi sta scontando la pena. Il solo trasferimento di una parte dei detenuti a Verziano è un’opzione inadeguata per rispondere a una criticità ormai intollerabile”, ha dichiarato Castelletti. “Il Comune continua a dare la massima disponibilità a collaborare con chi ha il compito di intervenire, per poter agevolare le decisioni da assumere, ma è necessario attivare al più presto un’interlocuzione se davvero c’è la volontà di agire per risolvere la grave situazione di sovraffollamento e disagio delle strutture carcerarie della nostra città”. Airola (Bn). Giustizia riparativa, focus con i giovani detenuti Il Mattino, 21 maggio 2024 Primo incontro intramurario per il percorso che mira all’acquisizione di consapevolezza. Il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello e il presidente della Fondazione Polis della Regione Campania (garante per Napoli) don Tonino Palmese, con il segretario generale Enrico Tedesco e la responsabile dell’area vittime e facilitatrice interna del progetto Tiziana Apicella, hanno incontrato l’equipe interna dell’Istituto penale minorile di Airola, guidata dalla direttrice Eleonora Cinque, e i ragazzi dall’Istituto, per il primo degli incontri intramurari dell’iniziativa “Progettare un agire responsabile per il futuro: servizi e comunità a favore delle vittime di reato e percorsi di giustizia”. Gli appuntamenti intramurari ed extra-murari, ha spiegato don Palmese, “sono finalizzati all’incontro tra i ragazzi e le vittime di reato per percorsi di giustizia riparativa, per facilitare la trasformazione delle biografie personali attraverso processi di consapevolizzazione dell’offesa e del dolore arrecato”. Nel carcere minorile di Airola erano presenti 32 giovani ristretti. Per Ciambriello “i giovani adolescenti devono recuperare il valore della responsabilità dei propri gesti: spesso il vuoto esistenziale che hanno vissuto non li ha portati ad avere consapevolezza del reato commesso. Giustizia riparativa per ricucire e rigenerarsi, dunque, ma anche le famiglie e le istituzioni hanno un concorso di colpa per i reati che hanno commesso”. Milano. “Oggetti d’evasione” al Consorzio di Viale dei Mille. Le opere dei detenuti in mostra di Roberta Rampini Il Giorno, 21 maggio 2024 La mostra “Oggetti d’evasione” realizzata da “CarteBollate” e studenti del Naba con oggetti dei detenuti di Bollate si sposta al Consorzio di Viale dei Mille. Incontri e laboratori in programma. Dalla Fabbrica del Vapore agli spazi del Consorzio di Viale dei mille. La mostra “Oggetti d’evasione” realizzata dal periodico di informazione “CarteBollate” insieme agli studenti di Social Design del Naba (Nuova accademia di Belle Arti) con gli oggetti realizzati dai detenuti e dalle detenute del carcere di Bollate, si sposta. Dal 23 maggio al 15 giugno gli oggetti costruiti dai detenuti-designer, “per sopravvivere alle limitazioni del carcere” saranno in mostra negli spazi di viale dei Mille 1. In questa seconda “tappa” della mostra ci saranno anche incontri e laboratori. Il primo appuntamento è giovedì 23 maggio alle ore 17, parola ai “carcerieri”: Luigi Pagano ex provveditore regionale e vice-capo del Dap, Francesco Maisto, garante dei detenuti di Milano e Giorgio Leggieri, direttore del carcere di Bollate, racconteranno perché le limitazioni del carcere vanno ben oltre la privazione della libertà. L’ultimo il 13 giugno con una serata-pizza. “Il carcere è inutile. E ci riguarda”. Il viaggio di Daria Bignardi nell’isolamento di Silvia Antenucci Il Giorno, 21 maggio 2024 Il nuovo libro: un’esplorazione dell’umanità “ristretta”. “Il sentimento prevalente è il senso di colpa”. Daria Bignardi torna in libreria con un docu-book sulla realtà del carcere e sulle forme dell’isolamento. L’invasione barbarica del carcere e la gioia salvifica delle piccole cose: “Ogni prigione è un’isola” (Mondadori), che intreccia storia personale a testimonianze e riflessioni, sarà presentato domani a Firenze alla Libreria Cinema Giunti Odeon (ore 18,30) con Agnese Pini, direttrice di Quotidiano Nazionale, il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno, Luce! e Azobor Ernest. “Nessun uomo è un’isola” scriveva il poeta John Donne, suggerendo che ognuno di noi è partecipe dell’umanità e pertanto presente al prossimo e solidale con le altrui sofferenze. Daria Bignardi sembra riprenderne il pensiero nel suo libro, dove racconta la realtà del carcere e i temi a essa connessi: l’isolamento, la violenza, gli errori giudiziari, l’esperienza femminile della prigione anche attraverso le parole di Goliarda Sapienza, che in Università di Rebibbia raccontò la sua detenzione a seguito di un furto di gioielli. Attraverso le storie di detenuti e detenute, direttrici di istituti, ispettori e commissari, passando per le proprie esperienze personali e professionali - dall’arresto di un giovane fidanzato alla corrispondenza con Scotty, carcerato americano nel braccio della morte, all’impegno a San Vittore per il programma Tempi Moderni - Daria Bignardi compone un quadro dalle molteplici voci e prospettive. Daria, nel libro si apprende che il carcere è uno dei fil rouge della sua vita. Come è cambiata nel tempo la sua percezione di questa realtà? “È una domanda che ha una risposta che non vorrei dare: una percezione sempre più desolata. Ma ho imparato che, come dice una delle persone che incontro nel libro, la giudice Cossia, bisogna accontentarsi delle piccole cose: una riabilitazione tra cento recidive, una vittima e il suo oppressore che si parlano, un figlio che non ripete gli errori del padre”. Svetlana Aleksievi? sosteneva che in un paese in guerra un uomo è come fosse illuminato a giorno. La stessa cosa accade in carcere? “Nelle situazioni estreme, in guerra, in carcere, in mezzo a una catastrofe o naufragate su un’isola remota, le persone si mostrano per quello che sono veramente, senza sovrastrutture. Ed è anche molto più chiaro quel che conta veramente. Il poco che ci serve per sopravvivere: libertà, salute, amore, condivisione, lavoro. Guerra, carcere, violenza. Nel libro cita l’esperimento di Philip Zimbrando, a dimostrazione che le dinamiche di gruppo e i contesti possano trasformare le persone in aguzzini. Il male è banale? Quello di Zimbardo è un esperimento molto contestato ed è stato dimostrato che non fu eseguito in maniera scientifica. Ma credo che ugualmente si possa parlare, con Hannah Arendt, di banalità del male, e di come il contesto influenzi moltissimo le azioni e le scelte umane”. A proposito di isolamento obbligato, il Covid ci ha insegnato qualcosa in termini di solitudine e di empatia? “Sembrava di sì ma non so se poi quella consapevolezza è rimasta. Ho l’impressione che l’abbiamo rimossa in tanti. Tanti altri invece hanno maturato scelte nuove”. Condizioni durissime, sovraffollamento, solitudine e morti violente. La violenza che pervade il carcere è strutturale? “Temo di sì. È quello che mi hanno detto in tutti questi anni non solo le persone ristrette ma anche gli agenti di polizia penitenziaria, i direttori di istituto, gli educatori, i criminologi che ho conosciuto: sembra che la violenza sia patogena, un effetto collaterale del carcere così come è organizzato oggi. Nel Processo, Josef K. muore sentendo che “la vergogna gli sarebbe sopravvissuta”. Quale sentimento si impone tra tutti, nell’esperienza dell’isolamento forzato? “Credo sia il senso di colpa: nei confronti delle famiglie abbandonate e nei confronti di se stessi e degli anni di vita perduta. E anche nei confronti delle proprie vittime”. Come si restituisce realtà a un luogo che molto spesso è sterotipato o ignorato? “Per quanto riguarda me ho cercato soprattutto di evitare la retorica, il moralismo e il buonismo. Di raccontare la realtà così come l’ho vista, le emozioni che ho provato e che provo. I dubbi, la desolazione, ma anche la ricchezza della vita e dell’umanità, dei sentimenti e dei valori. Senza giudizio”. Raccontare la violenza significa scarcerarla dall’isolamento che essa stessa provoca sollecitando chi legge all’empatia? “Riconoscerla, raccontarla, senza paura e soprattutto senza morbosità. Sapendo che ogni sentimento umano, anche il peggiore, in quanto umani ci appartiene e ci riguarda”. Tra tutte le scrittrici e scrittori che ha intervistato, chi secondo lei ha il dono di narrare l’indicibile? “Svetlana Aleksievi? e Annie Ernaux sono le prime a cui penso. Neige Sinno, l’autrice di Triste tigre, ha molto in comune con loro. La capacità di raccontare con lucidità, precisione e grande talento letterario una materia incandescente come il male”. Resta il dubbio: la reclusione è una pratica necessaria o a volte si configura come una forma di vendetta sociale? “Dipende dalla forma della reclusione: così come è oggi è quasi sempre una vendetta sociale, oltretutto dannosa alla stessa società. Costosa, dolorosa, inutile”. L’ossessione del contrasto alla mobilità delle persone di Gennaro Avallone Il Manifesto, 21 maggio 2024 “Chiusi dentro. I campi di confinamento nell’Europa del XXI secolo”, edito da Altreconomia e curato dalla rete RiVolti ai Balcani: il libro sarà presentato il 23 maggio, alle ore 14,30 presso aula SSC 4, Edificio C del Campus di Fisciano (Unisa), con Dario Verderame, Maurizio Del Bufalo, Gianfranco Schiavone. Le politiche migratorie dell’Unione Europea sono sempre più ossessivamente concentrate sulla riduzione del diritto di asilo e sul contrasto alla mobilità delle persone potenziali richiedenti protezione internazionale. Fra le molteplici ragioni che il libro Chiusi dentro. I campi di confinamento nell’Europa del XXI secolo (pp. 310, euro 18, edito da Altreconomia e curato dalla rete RiVolti ai Balcani) ricostruisce, una risulta fondamentale: le persone che richiedono asilo agiscono al di fuori delle programmazioni degli stati (basate sul sistema delle quote di accesso) e delle loro procedure ritenute ordinarie (concessione dei visti) per esercitare il diritto alla mobilità, dunque l’autonomia delle migrazioni. Sul piano dell’analisi sociale e politica è questo il campo della lotta in corso, definito dal contrasto tra l’interesse degli stati a usare le migrazioni in modo utilitaristico (come manodopera possibilmente a basso costo o come oggetto-nemico per costruire consenso sulla base della paura e/o del razzismo) e l’interesse dei potenziali richiedenti asilo a cercare luoghi più sicuri, lontani da guerre, minacce e lutti, anche a rischio della vita e, a volte, di quella degli stessi affetti più cari. Questo terreno di scontro - che le persone in cerca di protezione ovviamente eviterebbero, in presenza di reali alternative per la loro mobilità - è alimentato dalle politiche dell’Unione Europea e dei suoi stati membri in modo da erodere diritto e diritti, agendo con dichiarazioni, memorandum, accordi bilaterali, condotte di polizia in deroga ai trattati della stessa Unione. È proprio il tema dell’attacco al diritto e ai diritti il filo conduttore del libro, che mette insieme 17 testi - la prefazione su “l’eclissi del diritto”, 12 capitoli e 4 schede di approfondimento - scritti da persone impegnate come giuriste, avvocati, attivisti, ricercatori, giornalisti e operatori legali. Il volume mostra come, lungo l’intera area orientale del continente europeo, dai paesi dell’ex Jugoslavia alla Turchia, si dispieghi un sistema di “violenza strutturale” contro le persone richiedenti asilo o potenziali tali, attraverso una molteplicità di pratiche basate sul sopruso agite dagli stati. In queste pratiche si incontrano i reali protagonisti delle migrazioni, governati come minacce da tenere lontane o abbandonare. Su di loro si è sviluppato un intero vocabolario della repressione - fatto di parole quali respingimenti, rimpatri, riammissioni, espulsioni, esternalizzazioni, controllo delle frontiere esterne, illegalità/irregolarità, interdizione dei movimenti secondari, centri hotspot - utile per costruire un’ideologia a sostegno della legittimazione della violenza contro le persone indesiderate perché non utili al momento e non coerenti con l’utilitarismo degli stati e delle loro economie nazionali e regionali. Il testo è una miniera di documentazione. Scende nel dettaglio dei casi nazionali studiati (Turchia, Grecia, Macedonia del Nord, Serbia, Bosnia, Polonia, Bielorussia, Lituania, Lettonia, Italia) e delle iniziative istituzionali, comprese quelle agite da Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. Quello che emerge è la centralità delle pratiche di confinamento, l’altra faccia della violenza strutturale delle politiche migratorie, che determinano “un distinguo tra chi può passare da un territorio a un altro senza percepire l’esistenza di un confine e chi, invece, è costretto a una vita nella frontiera”. È questa separazione tra esseri umani legittimi e esseri umani indesiderati che va messa radicalmente in discussione. È il razzismo costitutivo delle politiche della mobilità dell’Unione Europea che deve essere sconfitto se si vogliono superare le condizioni socio-istituzionali che sostengono le violenze contro le persone richiedenti asilo e potenziali tali. Il problema non è, dunque, quello di approntare piccole riforme all’esistente, ma è quello di mettere in discussione la logica e la finalità fondante di tali politiche, orientata a selezionare le popolazioni con la violenza, con l’obiettivo - come scrive l’ex magistrato Livio Pepino nella Prefazione - “di garantire la sopravvivenza di questo sistema”. Migranti. Sui due Cpr in Albania nodi e lentezze. Ma la premier: apripista per l’Ue di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 21 maggio 2024 Slitta ancora, forse a ottobre, l’apertura delle strutture per migranti a Shengjin e Giader. Il Viminale ha chiuso la gara per gestirle, ma le opere della Difesa vanno a rilento. Sul piano delle dichiarazioni, la premier italiana Giorgia Meloni resta determinata: sull’esternalizzazione dei centri per migranti, ribadisce di buon mattino sulle reti Mediaset, “stiamo facendo da apripista per una soluzione sostenibile”. Solo che quella soluzione - ossia l’annunciata realizzazione in terra d’Albania di due strutture in cui collocare una parte delle migliaia di persone soccorse nel Mediterraneo mentre cercano di raggiungere le coste italiane ed europee - finora stenta a decollare. Tanto che, a mesi dall’intesa di novembre fra Roma e Tirana e dalle ratifiche dei rispettivi Parlamenti, l’effetto annuncio potrebbe rischiare di tramutarsi in un effetto boomerang. Chi si è recato nelle aree dove dovrebbero sorgere i suddetti centri, infatti, per ora ha scorto solo recinzioni e mezzi meccanici per il movimento terra. E, nel frattempo, di mese in mese la data fissata per la loro apertura continua a slittare: prima a inizio 2024, poi a metà maggio - in questi giorni per l’esattezza - per scivolare quindi verso il prossimo ottobre, ma senza granitiche certezze. In parallelo, la stessa presidente del Consiglio - dopo aver ipotizzato una missione a maggio per visitare le opere in corso - ha fatto slittare la visita, senza per ora calendarizzare un’altra data. Cosa sta accadendo? Per tracciare un punto della situazione, abbiamo provato a compulsare alcune fonti dei ministeri di Interno e Difesa, che in questa fase stanno gestendo le procedure per la realizzazione e la gestione dei futuri centri, ricevendo off the record solo alcune parziali risposte. Il Viminale: conclusa la procedura per la gestione. Com’è noto, sono due le strutture da realizzare, stando all’intesa del 6 novembre 2023, sottoscritta dai premier di Italia e Albania, Giorgia Meloni ed Edi Rama. Una dovrebbe nascere nel porto di Shengjin, l’altra a Gjader: sono state progettate per ospitare un massimo di 3mila migranti in contemporanea, per un totale annuo di 36 mila (se i tempi di esame delle richieste di asilo dureranno, come ipotizzato dal governo, 28 giorni). Nei giorni scorsi il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha assicurato che le procedure avviate dal Viminale per la loro gestione si sono concluse nei tempi previsti, il 6 maggio. Fonti dell’Interno fanno sapere ad Avvenire che la prefettura di Roma (incaricata di vagliare 30 istanze) ha individuato - “sulla base del criterio delle pregresse esperienze contrattuali maturate nello svolgimento di analoghi servizi” - tre operatori economici da invitare alla procedura negoziata: “Consorzio Hera, Officine Sociali e Medihospes”. Ma solo una delle tre società, alla scadenza del 10 aprile, ha presentato una vera e propria offerta: la Medihospes, che ha offerto un ribasso del 4,94%, ottenendo l’aggiudicazione per un importo pari a 133.789.967 euro più Iva. Si tratta di una cooperativa sociale con circa 3.500 dipendenti e 90 milioni di ricavi (dati 2021), cresciuta molto negli ultimi anni, fino ad arrivare a gestire a Roma quasi tutti i centri di accoglienza straordinaria, non senza qualche criticità, secondo alcune inchieste giornalistiche. In ogni caso, ad aprile è stato aggiudicato alla Medihospes l’affidamento dell’appalto per un periodo di 24 mesi, prorogabili per un massimo di ulteriori 24 mesi. “Si tratta dell’unica società che ha presentato un’offerta” ha ribadito il ministro al Sole 24 ore, ricordando che “l’aggiudicazione del bando è avvenuta solo all’esito dei controlli sul possesso dei requisiti di legge” e che tali controlli “saranno molto accurati anche nella fase di esecuzione”. Cantieri solo all’inizio. Ma, se sul fronte viminalizio la gara per l’assegnazione della gestione si è chiusa, altrettanto non può dirsi per la costruzione dei due centri. Interpellate ieri da Avvenire, diverse fonti della Difesa (a cui è stato affidato l’onere di realizzare le strutture), non hanno fornito valutazioni o elementi utili a ipotizzare una possibile tempistica o lescadenze di un eventuale cronoprogramma di realizzazione dei due centri, uno dei quali dovrebbe sorgere in un’area messa a disposizione dall’aeronautica albanese. C’è chi parla di ottobre o novembre come periodo per l’ultimazione delle opere. Ma fonti di un altro dicastero sostengono che il genio militare stia già “bonificando” le aree interessate e sia pronto a dare “un’accelerata forte”. I dubbi delle opposizioni. Da mesi, in Parlamento i partiti d’opposizione avanzano perplessità su costi e modalità dell’operazione: “A che punto è la realizzazione dei centri in Albania?” ha incalzato un mese fa Avs, ritenendo che alla fine il tutto costerà “oltre un miliardo di euro e non i 650 milioni preventivati in 5 anni” e sollecitando l’adozione di “provvedimenti, come la certificazione antimafia, per evitare che i cartelli della mafia albanese si aggiudichino parte delle attività”. I nodi giuridici. Se e quando le strutture verranno ultimate, resteranno da sciogliere i nodi sul piano del diritto e delle procedure. La competenza a pronunciarsi sui ricorsi dei migranti sarà del tribunale di Roma: udienze in video conferenza, così come i colloqui con gli avvocati, e scambio di documenti via Pec. Tuttavia, in Italia le commissioni per l’esame delle richieste d’asilo sono in forte carenza di organico e non è chiaro se ne verranno formate alcune ad hoc per i centri albanesi. In più, pende davanti alla Corte di Giustizia europea il giudizio di valutazione sulla questione della cauzione di 5mila euro (prevista dal decreto Cutro) per chi non voglia essere sottoposto al trattenimento amministrativo in attesa del vaglio della domanda. Una materia su cui il governo potrebbe intervenire con una norma chiarificatrice, messa a punto dai tecnici di Interno e Giustizia, prima che i centri aprano. La scommessa di Meloni. Tasselli mancanti che non mettono in crisi la “visione” della premier: “Noi processiamo le richieste di asilo in territorio albanese sotto la giurisdizione italiana”, ripete. La sua scommessa è chiara: come col Piano Mattei e col modello Tunisia, punta ad additare all’Ue nuovi strumenti per alleggerire la pressione migratoria. “La sinistra si è stracciata le vesti, alcuni giornalisti di parte sono andati a rincorrere i commissari europei chiedendo se non sia una violazione dello Stato di diritto” argomenta Meloni, ricordando invece che “15 Paesi su 27” hanno chiesto alla prossima Commissione di creare un meccanismo analogo. Insomma, conclude, “se l’accordo con l’Albania funziona può essere il nuovo modello di gestione dei migranti per l’intera Europa”. Se funziona, appunto. Migranti. L’Asgi: in Italia tante barriere illegittime per i richiedenti asilo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 maggio 2024 Secondo un preoccupante studio pilota condotto dall’Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), le persone straniere che chiedono asilo in Italia si trovano ad affrontare numerose barriere illegittime all’accesso alla protezione internazionale e all’accoglienza. Lo studio, che ha coinvolto 108 operatori e avvocati in 55 province italiane, ha rilevato una serie di violazioni dei diritti fondamentali da parte delle questure. Il rapporto dell’Asgi ha identificato diverse criticità significative. Prime tra tutte sono i ritardi nell’accesso alla procedura di protezione internazionale. Emerge che in molte questure, ai richiedenti asilo viene impedito di presentare la domanda o viene loro fissato un appuntamento dopo mesi di attesa, in violazione del diritto di presentare domanda di asilo entro tre giorni lavorativi. Altro punto critico è la richiesta di documenti illegittimi. Ovvero, viene spesso richiesta ai richiedenti asilo la presentazione di documenti non previsti dalla legge, come la dichiarazione di ospitalità o il passaporto, ostacolando ingiustificatamente l’accesso alla procedura. A questo si aggiunge la mancanza di posti accoglienza. In diverse province, ai richiedenti asilo viene negato l’accesso all’accoglienza nonostante la legge preveda l’obbligo di individuare soluzioni immediate per chi ha chiesto protezione internazionale. Altro punto critico riguarda la discriminazione in base alla nazionalità. È emerso che in alcune questure, ai cittadini provenienti da paesi ritenuti “sicuri” viene data priorità bassa, relegandoli ad attese interminabili e ostacolando il loro diritto di richiedere asilo. Queste prassi illegittime a loro volta fanno emergere conseguenze gravi. In primis, la violazione dei diritti fondamentali: i richiedenti asilo vedono compromesso il loro diritto di chiedere protezione internazionale e di accedere a misure di accoglienza adeguate. Altra conseguenza è l’aumento della vulnerabilità: privati di un supporto adeguato, i richiedenti asilo si trovano in una situazione di maggiore vulnerabilità e marginalizzazione. Infine, la negazione dell’accoglienza e i ritardi nell’accesso alla protezione internazionale contribuiscono alla frammentazione del sistema di accoglienza, con gravi ripercussioni sulla gestione del fenomeno migratorio. Per questi gravi motivi, l’Asgi auspica che le autorità competenti adottino misure immediate per porre fine alle prassi illegittime documentate nello studio. Vengano stanziate risorse adeguate per garantire l’accesso effettivo alla protezione internazionale e all’accoglienza. Sia avviato un percorso di formazione per gli operatori delle questure sulle normative vigenti in materia di asilo e immigrazione. L’accesso alla protezione internazionale e all’accoglienza sono diritti fondamentali che devono essere garantiti a tutti. Lo studio dell’Asgi rappresenta un monito preoccupante e un invito ad agire con urgenza per contrastare le violazioni dei diritti umani che ostacolano il regolare e sicuro percorso di richiesta d’asilo in Italia. Medio Oriente. La Corte penale internazionale de L’Aja: “Arrestate Netanyahu e Sinwar” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 21 maggio 2024 La Corte chiede l’arresto anche di Mohammed Diab Ibrahim Al-Masri, più comunemente noto come Deif (comandante in capo dell’ala militare di Hamas, le Brigate Al-Qassam), Ismail Haniyeh (capo dell’ufficio politico di Hamas) e il ministro della Difesa israeliano Noav Gallant. Il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha presentato ieri le richieste di mandato d’arresto davanti alla Camera preliminare I della Cpi in riferimento “alla situazione nello Stato di Palestina”. La notizia era già nell’aria una ventina di giorni fa, ma da più parti si è cercato di ridimensionare le probabili mosse dell’Aja. Ora l’iniziativa presa dalla Corte è ufficiale. La richiesta di arresto si divide in due parti. La prima ha come destinatari Yahya Sinwar (capo del movimento di resistenza islamica “Hamas” nella Striscia di Gaza), Mohammed Diab Ibrahim Al-Masri, più comunemente noto come Deif (comandante in capo dell’ala militare di Hamas, le Brigate Al -Qassam) e Ismail Haniyeh (capo dell’ufficio politico di Hamas). I tre sono considerati “responsabili penalmente” di una serie di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi sul territorio di Israele e dello Stato di Palestina, sulla Striscia di Gaza, “almeno dal 7 ottobre 2023”. Gravissime le accuse rivolte ai vertici di Hamas. Tra i reati contestati a Sinwar, Al-Masri e ad Haniyeh vi sono “lo sterminio come crimine contro l’umanità, contrario all’articolo 7, comma 1, lettera b), dello Statuto di Roma”, “l’omicidio come crimine contro l’umanità, e come crimine di guerra”, “la presa di ostaggi” intesa come “un crimine di guerra”, lo “stupro e altri atti di violenza sessuale come crimini contro l’umanità e anche come crimini di guerra nel contesto della prigionia”, la “tortura come crimine contro l’umanità anche come crimine di guerra, nel contesto della prigionia”. “Il mio ufficio - si legge nel comunicato diffuso dal procuratore Khan - sostiene che i presunti crimini di guerra siano stati commessi nel contesto di un conflitto armato internazionale tra Israele e Palestina e di un conflitto armato non internazionale tra Israele e Hamas che si svolgeva parallelamente. Riteniamo che i crimini contro l’umanità contestati facessero parte di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile di Israele da parte di Hamas e di altri gruppi armati. Alcuni di questi crimini, secondo la nostra valutazione, continuano ancora oggi”. L’altro “capitolo” della richiesta dei mandati di arresto riguarda, invece, Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant. Nessuna accusa, per il momento, è stata formulata nei confronti di Herzi Halevi, capo dell’Idf, alle fine di aprile indicato come possibile destinatario di una richiesta di arresto della Cpi. Il primo ministro israeliano ha definito uno “scandalo” le accuse provenienti dall’Aja. “Sulla base delle prove raccolte ed esaminate dal mio ufficio - scrive Khan - ho ragionevoli motivi per ritenere che Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, e Yoav Gallant, ministro della Difesa israeliano, siano responsabili penalmente di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi sul territorio dello Stato di Palestina, nella Striscia di Gaza, almeno dall’8 ottobre 2023”. Nel caso israeliano si fa riferimento alla “fame dei civili come metodo di guerra, come crimine di guerra contrario all’articolo 8, comma 2, lettera b, paragrafo xxv, dello Statuto della Cpi”. L’accusa si sofferma pure su un’altra tipologia di crimine di guerra consistente nel “causare intenzionalmente grandi sofferenze o gravi lesioni al corpo o alla salute” o “trattamenti crudeli”. E ancora. Netanyahu e Gallant sono accusati di aver diretto “intenzionalmente attacchi contro una popolazione civile”. Gravissime le accuse di “sterminio e-o omicidio contrario agli articoli 7(1)(b) e 7(1)(a), anche nel contesto di morti per fame, come crimine contro l’umanità”. Si fa infine riferimento alle fattispecie di “persecuzione” e “altri atti disumani” che costituiscono crimini contro l’umanità ai sensi dell’articolo 7 dello Statuto della Corte penale internazionale. “Riteniamo - aggiunge il procuratore Karim Khan - che i crimini contro l’umanità contestati siano stati commessi come parte di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile palestinese in conformità alla politica statale. Questi crimini, secondo la nostra valutazione, continuano ancora oggi. Il mio ufficio sostiene che le prove raccolte, comprese interviste con sopravvissuti e testimoni oculari, video autenticati, foto e materiale audio, immagini satellitari e dichiarazioni, dimostrano che Israele ha intenzionalmente e sistematicamente privato la popolazione civile in tutte le parti di Gaza di oggetti indispensabili alla sopravvivenza umana”. Giuseppe Paccione, professore di diritto internazionale della Unicusano, evidenzia che “il nocciolo della decisione del procuratore Khan di emettere i mandati d’arresto non ha nulla a che vedere con le ragioni del conflitto, ma solo con i crimini di guerra e contro l’umanità che si sono concretizzati con la commissione da parte dei vertici israeliani e di Hamas”. L’attività investigativa della Cpi è stata intensa. “Per arrivare ai mandati d’arresto - commenta Paccione -, il procuratore Khan ha presentato delle prove per ritenere che siano state violate le norme delle quattro Convenzioni di Ginevra e dei due Protocolli, come, ad esempio, l’usare intenzionalmente lo strumento della fame dei civili come metodo di guerra e l’omicidio e la persecuzione dei palestinesi come crimini contro l’umanità. La Cpi ha voluto prendere in mano la situazione per cancellare ogni malinteso sul suo ruolo e sulla sua giurisdizione per ricordare agli Stati che non esiste conflitto che debba essere escluso dalla portata della legge dell’umanità. Spetterà ora ai giudici accogliere la richiesta del procuratore di emissione dei mandati e stabilire quali mandati dovrebbero essere emessi”. La giustizia penale internazionale indaga e agisce di conseguenza, a dispetto di chi pensava che fosse solo un ornamento della comunità internazionale. Medio Oriente. Corte dell’Aja contro Hamas e Netanyahu, un segnale: nessuno resta impunito di Nello Scavo Avvenire, 21 maggio 2024 Il giorno in cui il Tribunale della Corte penale internazionale ha emesso il mandato di cattura contro Vladimir Putin, da buona parte del mondo, e specialmente dai governi europei e dai Paesi Nato, era salita un’ovazione. Più timida è la reazione degli Stati Ue quando si tratta di inchieste e mandati di cattura per i crimini contro i migranti in Libia, Paese con cui Roma e Bruxelles intrattengono rapporti improntati più al “segreto di stato” che alla trasparenza. Non poteva andare diversamente con le indagini su Israele. Nel dicembre 2023, quando il procuratore Khan si era recato a Gerusalemme e in Palestina, le agenzie di stampa avevano registrato l’entusiasmo di chi sosteneva le indagini contro i criminali alla guida di Hamas, sorvolando sull’ipotesi di una inchiesta che toccasse anche governo e militari di Tel Aviv. “Nessuno si senta impunito”, aveva però avvertito il procuratore internazionale. Non solo: “Ho anche chiarito abbondantemente che la legge - aveva insistito Karim Khan - non può essere interpretata in un modo che la privi di significato”, quando invece occorre far rispettare la Convenzione di Ginevra, “ovvero proteggere i più vulnerabili della società, dai bambini alle donne”. La chiave per capire gli sviluppi giudiziari in Medio Oriente è ancora in quelle parole. Perché il 7 ottobre Hamas ha compiuto un orribile crimine contro i civili e contro le speranze di convivenza. E perché Israele, che ha il diritto-dovere di difendersi e salvaguardare la sua gente, a cominciare dagli ostaggi, deve però farlo tenendo l’impegno “a proteggere i più vulnerabili”. Ad aprile è arrivata la conferma dell’inchiesta a largo spettro. Non dalle parole dell’Aja, ma dal timore espresso negli Usa. “Gli Stati Uniti non sostengono l’indagine della Corte penale internazionale contro Israele”, disse Karine Jean-Pierre, portavoce della Casa Bianca facendo intendere che all’Aja le cose si stessero mettendo male per Netanyahu. Con una chiosa: “Non crediamo abbia la giurisdizione”. Non bastasse, l’escalation contro la Procura è giunta al suo massimo quando Paesi democratici come Israele e Stati Uniti hanno cominciato a fare pressione e minacciare la Corte. A tal punto da costringere il procuratore Khan a ricordare che l’articolo 70 dello Statuto di Roma, l’atto normativo istitutivo del tribunale penale internazionale permanente, obbliga i magistrati a perseguire chi tenta di condizionarne l’operato. Pressioni arrivate non da screditate autocrazie putiniane, ma da solide democrazie in crisi d’identità. La richiesta di mandato di cattura per i capi di Hamas e i leader del governo israeliano sono insieme una prova di maturità per la Procura e la conferma della sua fragilità: non può eseguire gli arresti, ma chiedere che lo facciano gli Stati membri. Non è certo che il tribunale accolga tutte le richieste degli inquirenti. E senza la convalida della corte alcuni degli indagati potrebbero farla franca. Tuttavia, conta anche il non detto. Fino alla guerra contro l’Ucraina Paesi come Stati Uniti, Israele, Russia, Cina, credevano fosse sufficiente non aderire all’Aja per non finire alla sbarra. Ma come era accaduto a Putin, Israele è sotto indagine perché i presunti crimini sono commessi contro la Palestina, che invece riconosce la giurisdizione internazionale. In altre parole, commettere crimini nel territorio di un Paese che aderisce all’Aja, attiva la giurisdizione internazionale anche per chi la disconosce. Perciò l’avvertenza del procuratore Khan aveva agitato le acque: “Nessuno si senta impunito”. Medio Oriente. Fine del doppio standard, giustizia senza eccezione di Francesco Strazzari Il Manifesto, 21 maggio 2024 Era nell’aria, ma quando è arrivata è suonata comunque dirompente. Il procuratore della Corte Penale Internazionale Karim Khan l’ha anticipata alla Cnn: dalla sua viva voce abbiamo udito, dopo i pesanti capi d’accusa indirizzati alla leadership di Hamas, le parole starvation, civilian targeting, extermination, associate alla richiesta di arresto depositata per Benjamin Netanyahu e il suo ministro della difesa Yoav Gallant. Non ci sono precedenti di capi di governo di Paesi che si definiscono democratici per i quali la giustizia internazionale ha chiesto l’arresto per crimini di tale gravità elevati a metodo di guerra. Il procedimento si aggiunge a quello che vede Israele difendersi davanti alla Corte di Giustizia Internazionale, anch’essa ubicata all’Aia, l’accusa - sostenuta dal Sudafrica e già reputata plausibile - riguarda invece la violazione della Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio. Israele è firmataria di tale convenzione, mentre notoriamente - al pari di Usa, Cina e Russia - non ha sottoscritto il Trattato di Roma istituisce il Tribunale Penale Internazionale. Certo, la richiesta del procuratore passa ora per il vaglio del giudice. Ma dal punto di vista della portata politica il fatto è eclatante. A mostrare che per il governo di Israele il danno è fatto ci sono le reazioni rabbiose che arrivano da Tel Aviv: non solo l’entità delle accuse, dritte a colpire i decisori ultimi, ma anche il trovarsi citati in compagnia dei leader terroristi di Hamas, che ugualmente si scagliano contro la presunta equiparazione fra aggressore e vittima. Eppure, quali che siano le opinioni sulla ‘parola che inizia con la G’ (genocidio), il fatto che Gaza e nei territori occupati si siano commessi e si continuino a perpetrare crimini di guerra è evidente a chiunque abbia seguito le vicende successive al 7 ottobre. Il procuratore Khan non fa che difendere l’esistenza della pietra d’angolo del diritto internazionale quale strumento che interviene in dinamiche di guerra sempre più disumane. Tale passo è indispensabile a non sancire la morte del diritto davanti al ‘resto del mondo’. Ricordiamo, pochi anni fa, le proteste dei capi di stato africani, stanchi di essere gli unici obiettivi della giustizia penale internazionale: con tanto di Sudafrica che abbandona il Tpi, consentendo al jet di al-Bashir di spiccare il volo e lasciare Pretoria. La scorsa settimana, in un passaggio dai toni drammatici, lo stesso procuratore Khan, aveva risposto al rappresentante russo attorno al pericolo di trovarsi minacciato: si è detto ben consapevole delle costellazioni di potere che condizionano le organizzazioni internazionali, ma ha rassicurato sul fatto che, se messo sotto pressione, non avrebbe desistito, accettando sul proprio operato solo il giudizio del giudice, di Dio e della storia. A guardare con attenzione il provvedimento, non si parla della tortura dei prigionieri palestinesi, né di occupazione. Eppure, quando, investito da fatti talmente tragici ed eclatanti, lo stesso tribunale che ha spiccato mandati contro Assad e Putin include oggi un leader occidentale, gli stessi che ieri inneggiavano alla ‘giustizia’ iniziano a parlare di ‘motivazioni politichè. Ora si dirà che tutto andrà avanti ugualmente, che Putin, destinatario di un mandato d’arresto, gira il mondo con relativo agio e un numero crescente di ammiratori. Che Israele, abituata ad assolversi davanti alle Nazioni Unite, tirerà dritto come sempre, e che ancora vedremo gli aiuti umanitari di cui a Gaza c’è bisogno disperato bloccati e saccheggiati sotto gli occhi dei militari. Qui però siamo fuori dalle Nazioni Unite nel senso stretto, e davanti alla magnitudine delle sofferenze delle popolazioni le tattiche usate fino ad oggi per condizionare il dibattito diplomatico e mediatico appaiono logore. Israele di Netanyahu a Washington è vista sempre più come l’alleato che crea problemi, sempre meno come l’alleato che offre vantaggi. Molte cose si muovono incertamente, a partire dall’Iran che affronta una successione complessa. Il 7 ottobre, quando 14 anni di ‘dottrina Netanyahu’ sono andati a pezzi davanti agli efferati crimini dei miliziani di Hamas, la risposta è stata trovata da Netanyahu nel repertorio biblico: ‘lo sterminio degli Amaleciti’, evocato nell’annunciare la guerra a Gaza e ai suoi abitanti. Davanti a questo sviluppo in troppi, in occidente, hanno assunto un atteggiamento comprensivo, lasciandosi condurre da una leadership cieca su un crinale sempre più stretto. Ogni giorno è più chiaro che lo sterminio di cui parla oggi il procuratore è una realtà, e che l’enorme sofferenza che è stata aggiunta non conduce da nessuna parte nemmeno Israele. Dopo la richiesta di mandato di arresto diventa sempre più difficile, per i governi occidentali, volgere altrove lo sguardo, rifugiarsi in formule vuote e aggirare con tattiche dilatorie le riserve sempre più forti dei propri staff legali. Diventerà sempre più difficile difendere ogni ok all’esportazione di armi, o silenziare le richieste di rivedere pacchetti di collaborazione scientifica con implicazioni dual use. Diventerà sempre più arduo fingere compattezza per l’esecutivo di guerra israeliano, con Netanyahu e gli alleati dell’estrema destra incalzati dall’ultimatum di Benny Gantz. Forse dal Tpi arriva un segno circa il limite alla possibilità di continuare a capovolgere ogni nozione pubblicamente difendibile di ordine internazionale ‘basato sulle regolè. A meno di non stravolgere anche ogni parvenza di minima coerenza del sistema, fino a smarrire ogni identificazione, soccombendo ai doppi, tripli standard sui quali ogni visione dispotica della politica da sempre campa disperatamente. Medio Oriente. Biden sulla Cpi: “Decisione oltraggiosa”. Silenzio dell’Unione europea di Giovanna Branca Il Manifesto, 21 maggio 2024 È solo dopo molte ore dall’annuncio di Karim Khan che sono cominciati ad arrivare i commenti dei principali leader mondiali, a partire dal comunicato lapidario di Joe Biden che definisce “oltraggiosa” la richiesta dei mandati d’arresto per Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant: “Voglio essere chiaro: qualunque cosa questo procuratore possa sostenere, non c’è equivalenza - nessuna - tra Israele e Hamas. Staremo al fianco di Israele contro le minacce alla sua sicurezza”. Dello stesso avviso, naturalmente, il segretario di Stato Antony Blinken, che mette inoltre in discussione la decisione sostenendo che lo stesso Khan era atteso in Israele a breve per discutere dell’indagine in corso alla Cpi - nonostante Tel Aviv “non ne faccia parte” -, e che il suo staff era atteso ieri per coordinare la visita: “Israele è stata informata del fatto che non si erano imbarcati più o meno nello stesso momento in cui il procuratore è andato in tv (alla Cnn, ndr) ad annunciare le accuse”. Elementi che, sostiene Blinken, “mettono in discussione la legittimità e credibilità di questa indagine”. Oltre al fatto che la Cpi “non ha giurisdizione” in materia. A scagliarsi contro la decisione della Corte anche deputati e senatori del Congresso Usa, come il trumpista Lindsey Graham - mentre in serata lo speaker Gop della Camera Mike Johnson minaccia direttamente la Corte: “In assenza di una leadership alla Casa bianca, il Congresso sta valutando tutte le opzioni possibili, incluse le sanzioni, per punire la Cpi e assicurarsi che la sua leadership subisca le conseguenze se decide di procedere”. Dall’Europa e dalle istituzioni comunitarie silenzio quasi tombale, e sconcertante: solo la ministra degli Esteri belga Hadja Lahbib si rallegra per la mossa di Khan - “i crimini commessi a Gaza devono essere perseguiti ai livelli più alti” -, mentre un portavoce del primo ministro britannico Rishi Sunak la definisce una decisione “controproducente” nella prospettiva del raggiungimento di una tregua, del ritorno a casa degli ostaggi e dell’ingresso a Gaza di aiuti umanitari. Gran Bretagna. Ricorso fondato, speranza per Assange di Leonardo Clausi Il Manifesto, 21 maggio 2024 Il fondatore di WikiLeaks resta nel carcere duro di Belmarsh, per i giudici inglesi ha il diritto di presentare appello contro l’estradizione negli Usa. Hanno pesato il rischio di condanna a morte e di non poter invocare il primo emendamento. La giornata, tersa e luminosa, autorizzava a presagirlo. Quando, davanti alla sede dell’Alta Corte, sullo Strand, viene finalmente data la notizia che Julian Assange potrà finalmente ricorrere in appello contro l’estradizione negli Usa, le centinaia di suoi sostenitori si abbandonano alla gioia mista a sollievo. I due giudici britannici hanno appena accolto le istanze del collegio della difesa del giornalista-hacker australiano, secondo cui il governo statunitense non saprebbe garantirgli la protezione del primo emendamento della costituzione americana, quello sulla libertà di espressione. Non è che un piccolo passo verso la fine di un incubo per lui e la famiglia, non certo il grande salto necessario: l’appello non è affatto detto sarà accolto e Assange, che ieri non era in aula per via di condizioni di salute in continuo deterioramento - è recluso in isolamento da cinque anni nella famigerata prigione di massima sicurezza di Belmarsh -, dovrà aspettare altri mesi dietro le sbarre. Nella peggiore delle ipotesi, rischia ancora quei 175 anni di carcere per aver pubblicato via WikiLeaks un nugolo di documenti secretati che, tra le altre cose, inchiodano gli Stati Uniti a una serie di omicidi di civili durante le invasioni di Iraq e Afghanistan. Eppure, per la prima volta in questa storia di libertà di stampa fatta passare per spionaggio, nonché del diritto dei cittadini di sapere veramente cosa fanno i rispettivi governi nel loro nome, l’ottimismo pare consono: si tratta comunque di una battuta d’arresto per i legali statunitensi, un giro di boa che ne rende la strada tutta in salita mentre Joe Biden, dietro pressioni soprattutto di Australia e Brasile, potrebbe finalmente mollare la preda e concedere la grazia. La decisione dei giudici era stata rinviata a ieri nella precedente udienza del 26 marzo scorso, nella quale avevano stabilito che Assange aveva tre motivi per fare appello: la sua estradizione è incompatibile con i suoi diritti alla libertà di espressione sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo; potrebbe essere discriminato nel giudizio a causa della nazionalità (non godendo lui, in quanto cittadino australiano, della protezione del Primo emendamento); infine, perché non potrebbe contare su una protezione adeguata contro la pena di morte. Dopo aver fatto il possibile per consentire agli Stati Uniti di fornire tali rassicurazioni - sforzo tutto politico - il duo giudicante ha dovuto arrendersi all’evidenza che l’imputato potrebbe effettivamente essere privato della protezione del suddetto Primo emendamento: la decisione di concederlo spetta infatti al tribunale statunitense e non al dipartimento di giustizia americano, che non ha quindi potuto garantirla. Tale mancata garanzia ha reso dunque appellabile l’estradizione secondo quanto stabilito in materia dalla legge britannica, che rifacendosi alla Convenzione europea dei diritti umani vincola l’estradizione di chicchessia alla protezione della sua libertà di espressione. Nel frattempo sono passati quattordici anni, e Assange, ideale candidato al Pulitzer quando non, come senza alcuna sfacciataggine ha detto sua moglie Stella dopo la sentenza, al Nobel per la pace, è ridotto a una larva. “Abbiamo passato molto tempo ad ascoltare gli Stati Uniti che mettevano il rossetto a un maiale (Putting lipstick on a pig, abbellire una schifezza, ndr) ma i giudici non l’hanno bevuta”, ha detto ai giornalisti davanti al tribunale. “Siamo sollevati in quanto famiglia, ma per quanto tempo può andare avanti così? Gli Stati Uniti dovrebbero valutare la situazione e abbandonare questo caso. Ora”. Molto dipenderà, in ogni caso, anche dalla fibra consunta di un uomo distrutto da quindici anni di cattività, prima nei pochi metri quadrati dell’ambasciata Londinese dell’Ecuador e ora in un carcere duro. L’appello sarà un ripartire da zero, e la data non è stata ancora resa nota. Sempre che Joe Biden, in sorprendente controtendenza con la serie di decisioni inanellate ultimamente in politica estera, non decida di fare una cosa una che sia giusta. Stati Uniti. Sul caso Assange ora serve un atto di coraggio di Joe Biden di Riccardo Noury* Il Domani, 21 maggio 2024 Il tentativo degli Stati Uniti di processare il fondatore di Wikileaks ridicolizza il loro conclamato impegno in favore della libertà d’espressione nel mondo. Se il presidente Usa vuole essere ricordato per qualcosa di buono nel campo della libertà di espressione, deve fare solo una cosa. La decisione dell’Alta corte di Londra è una rara buona notizia per Julian Assange e per tutti coloro che difendono la libertà di stampa. L’Alta corte ha correttamente concluso che, in caso di estradizione negli Usa, Assange rischierebbe gravi violazioni dei diritti umani come l’isolamento prolungato, in contrasto col divieto di tortura e altri maltrattamenti. Il tentativo degli Stati Uniti di processare Assange mette in pericolo la libertà di stampa nel mondo e ridicolizza gli obblighi di diritto internazionale degli Usa e il loro conclamato impegno in favore della libertà d’espressione. Col tentativo di metterlo in prigione, gli Usa stanno inviando un messaggio chiaro: non hanno rispetto per la libertà d’espressione e minacciano i giornalisti ovunque nel mondo che potrebbero essere presi di mira a loro volta, solo per aver ricevuto e diffuso informazioni riservate e pur avendolo fatto in nome dell’interesse pubblico. Mentre nei tribunali britannici continuerà la battaglia legale, chiediamo agli Usa di porre finalmente termine a questa vergognosa saga, annullando tutte le accuse nei confronti di Assange. Questo significherebbe fermare il procedimento giudiziario negli Usa e la libertà di Assange, che ha già trascorso cinque anni in carcere. Anche perché le condizioni di salute di Assange sono, come noto, pessime. Anche in quest’occasione non ha potuto essere presente all’udienza e quindi questa saga infinita che gli Stati Uniti vogliono portare avanti rischia di produrre danni, questa volta non con un’estradizione che sembrava imminente, ma con un ulteriore peggioramento delle condizioni di salute di Assange. Quello che ci vorrebbe è un atto di coraggio (o meglio, di giustizia) da parte di Joe Biden. Se il presidente americano vuole essere ricordato per qualcosa di buono nel campo della libertà di espressione, prima che termini il suo mandato, una cosa ha da fare: porre fine a questa persecuzione giudiziaria ritirando le accuse e annullando il mandato di estradizione. libertà di stampa in pericolo. Va aggiunta un’altra questione, perché in questi anni si è sempre detto “se Assange verrà estradato sarà un colpo mortale per la libertà di informazione e per il giornalismo investigativo” e questo rimane assolutamente vero e da scongiurare. Tuttavia, già in questi anni in cui Assange è stato messo sotto accusa, additato come un nemico, una spia e un traditore, il potere intimidatorio di questa azione da parte degli Stati Uniti si è fatto sentire. Lo dimostrano i dati di Amnesty International e di altri osservatori sulla libertà di stampa. Il giornalismo che indaga sugli abusi di potere, sui crimini di guerra, sulla corruzione e sulla commistione tra istituzioni e criminalità organizzata è in pericolo. Ci sono tante vicende simili a quella di Assange in luoghi meno illuminati e in situazioni che costituiscono accanimento e persecuzione giudiziaria. Penso a quanto accade in Messico e in diversi Stati dell’Africa subsahariana, ma anche alla repressione del giornalismo investigativo in stati del Nord Africa come l’Algeria e la Tunisia. Da ultimo, ma non meno importante, stiamo vedendo qualcosa di simile anche nel nostro paese. La vicenda che interessa tre giornalisti di questo giornale ha elementi molto vicini alla vicenda di Assange. Ricevere informazioni di contenuto più o meno sensibile da fonti esterne e pubblicarle, quando queste informazioni si ritiene siano di interesse pubblico, comporta una persecuzione giudiziaria. Assange fa scuola, mentre la sua vicenda giudiziaria è ancora in corso e non si è conclusa. Questo ci dice ancora una volta perché sia importante che quella vicenda si concluda presto e bene. Gli Stati Uniti hanno voluto fare di Assange un esempio, un caso da manuale di cosa può succedere a chi mette il naso dove non dovrebbe, a chi rompe la regola del silenzio e sfida la cultura dell’impunità. Per questo motivo, deve arrivare in tutti i modi un messaggio contrario: il giornalismo non è un reato, rendere noti i misfatti del potere è un’attività fondamentale per le società democratiche e pluraliste che rispettano i diritti umani. *Amnesty International Italia Australia. In prigione David McBride, che ha rivelato i crimini australiani in Afghanistan di Emanuele Giordana Il Manifesto, 21 maggio 2024 L’ex maggiore e avvocato dell’esercito condannato a 5 anni e 8 mesi per aver passato gli Afghan Files all’emittente pubblica Abc. C’è appena stato un ennesimo caso Assange anche in Australia, il Paese che ha dato i natali proprio al fondatore di Wikileaks ma anche all’ex avvocato e maggiore dell’esercito David McBride che è stato condannato una settimana fa a cinque anni e otto mesi per aver rivelato ai giornali informazioni su presunti crimini di guerra commessi dai militari australiani in Afghanistan durante gli anni dell’occupazione. Si sono aperte per lui le porte della prigione. E ci dovrà rimanere fino al 13 agosto 2026 prima di poter beneficiare della condizionale. I suoi legali presenteranno appello. La sentenza che ha giudicato Mc Bride colpevole è arrivata a distanza di sette anni da quando l’emittente pubblica Abc aveva reso noti quelli che sono stati poi chiamati Afghan Files, bastati proprio sulle informazioni fornite ai giornalisti di Abc da McBride. L’ex militare ha sempre detto di non aver mai voluto nascondere il suo desiderio di rendere note le informazioni che aveva e anche che si aspettava che la giustizia del suo Paese valutasse se era o meno giustificato il suo comportamento. Che invece la corte ha ritenuto illegittimo e dannoso per l’interesse nazionale. McBride ha sempre difeso il suo operato perché si sentiva moralmente in dovere di condividere pubblicamente quanto sapeva e, per altro, un’indagine sull’operato dell’Australia in Afghanistan ha poi evidenziato che le truppe di Canberra avevano ucciso illegalmente decine di afgani durante la guerra. McBride e la Abc avevano aperto in sostanza un vaso di Pandora tenuto nascosto e sigillato. Quando nel 2019 le verità di McBride diventarono pubbliche, la polizia federale australiana fece irruzione negli uffici della Abc confiscando tutto il materiale relativo agli Afghan Files, cui tra gli altri lavorava soprattutto il giornalista Dan Oakes che, alcuni mesi fa, è stato paradossalmente insignito della Medaglia dell’Ordine dell’Australia per il “servizio reso al giornalismo” proprio per via del suo lavoro sul materiale fornito da McBride. Gli avvocati di McBride avevano chiesto clemenza, sostenendo proprio che il loro cliente aveva condiviso le informazioni riservate con intenzioni “onorevoli” e per senso del dovere. Ma secondo i giudici, il maggiore era motivato da “rivendicazioni personali” e quel che ha fatto ha messo in pericolo la sicurezza nazionale e la politica estera dell’Australia. I sostenitori di McBride però pensano invece che la sentenza della Corte Suprema di Canberra sia una sorta di punizione e che il governo australiano sia più interessato a punire chi ha fatto luce su fatti oscuri che non a perseguire gli autori di crimini di guerra. La Federazione Internazionale dei Giornalisti (Ifj) si è unita alla sua affiliata australiana Media Entertainment and Arts Alliance nel condannare una sentenza dall’”impatto allarmante sul giornalismo di interesse pubblico” e hanno chiesto una riforma sul tema della protezione degli informatori. “È una farsa che la prima persona imprigionata in relazione ai crimini di guerra australiani in Afghanistan non sia un criminale di guerra ma un whistleblower”, ha detto dopo la sentenza Rawan Arraf, direttore esecutivo del Centro australiano per la giustizia internazionale.