Dietro le sbarre l’estate sarà un inferno di David Allegranti La Nazione, 20 maggio 2024 Il sovraffollamento carcerario in Italia peggiora con l’arrivo dell’estate, mettendo a rischio la salute dei detenuti. La situazione critica coinvolge anche i giovani reclusi, con proposte di soluzione critiche. Già in condizioni ordinarie le carceri italiane sono un posto orribile, salvo qualche eccezione (come Gorgona). Figuriamoci con il caldo. Soffre la comunità dei liberi, pensate a come possono stare i ristretti, che vivono in prigioni sovraffollate e fatiscenti. Al 30 aprile 2024 erano 61.297 i detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 51.167 posti. Nella Casa circondariale di Benevento, dove ieri c’è stata una vibrante protesta, la capienza è di 261 posti ma i detenuti sono 430: “Abbiamo quasi il doppio dei detenuti che dovremmo avere e gestiamo con non poche difficoltà la situazione, grazie esclusivamente all’impegno eroico del personale”, ha detto il direttore del carcere Gianfranco Marcello. Con l’estate la situazione non potrà che peggiorare - e non solo lì - in un carcere in cui, secondo Antigone, “le prestazioni sanitarie risultano fortemente compromesse dalla carenza di personale medico ed infermieristico, soprattutto per quanto concerne l’area della salute mentale. La dirigenza sanitaria lamenta di non essere fornita nemmeno di una bilancia per la misurazione del peso dei detenuti in sciopero della fame”. Il sovraffollamento non è più una prerogativa delle carceri per adulti: al 30 aprile 2024 erano 571 i ragazzi e le ragazze reclusi nei 17 istituti penali per i minorenni, e in sette di questi c’è un numero di presenze superiore ai posti disponibili; nei primi quattro mesi del 2024 c’è stata una crescita di 76 unità per un tasso di oltre il 15 per cento. Numeri frutto anche del panpenalismo dell’esecutivo Meloni, che ripete errori di altri governi con l’invenzione di nuovi reati. Il liberale ministro della Giustizia Carlo Nordio ha più volte proposto l’uso delle caserme dismesse per avere più posti in carcere, una soluzione che non porterebbe niente di buono, perché sarebbe come mettere un secchiello più grande sotto una cascata d’acqua. Oltretutto, questi posti in più ancora non si vedono, mentre l’estate non tarda ad arrivare. Garanti in campo contro la crisi delle carceri lavocedelpopolo.it, 20 maggio 2024 Come già accaduto lo scorso 18 aprile, i Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale sono tornati a far sentire la loro voce per portare l’attenzione sulla grave situazione che affligge gli istituti di pena italiani, denunciata lo scorso marzo anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che aveva espresso parole di forte preoccupazione e accorate richieste di interventi migliorativi, nell’ottica di una piena implementazione dei principi costituzionali e, in particolar modo, del rispetto di quanto sancito dall’art. 27 della Costituzione. “I gravi problemi che da tempo sono denunciati da garanti, addetti ai lavori e, non ultimi dai detenuti stessi sono ormai noti e la mancanza di risposte adeguate non può più essere ricondotta a eventuali necessità di approfondimento e analisi degli stessi - ha affermato Luisa Ravagnani, Garante dei detenuti del Comune di Brescia in un comunicato emesso in occasione della giornata di mobilitazione nazionale del 18 maggio. Pare allora non sia più tempo di parlare di emergenza ma, nella migliore delle ipotesi, di disinteresse politico nei confronti di detenuti, agenti di polizia penitenziaria, personale che opera negli istituti e, di conseguenza, della collettività esterna”. Il preoccupante numero di suicidi all’interno della popolazione detenuta (già 34 da inizio anno) rappresenterebbe per il Luisa Ravagnani solo la punta di un enorme iceberg costituito da una lunga lista di sofferenze aggiuntive, troppo spesso insostenibili, che i detenuti sono costretti a sopportare ogni giorno e con loro il personale di polizia penitenziaria che vive gli istituti tanto quanto le persone recluse. Sovraffollamento delle strutture carcerarie, difficile accesso alle misure alternative per arrivare alla necessità di inserire una nuova disciplina relativa alle telefonate che, come nella maggior parte dei Paesi europei, dovrebbero essere illimitate, almeno per i detenuti comuni sono le problematiche che per i Garanti necessitano urgente e improcrastinabile soluzione. La possibilità di sentire quotidianamente i familiari - continua ancora la Garante dei detenuti del Comune di Brescia - risulta infatti un forte elemento di riduzione dello stress inframurario e rafforzamento dei legami familiari, necessari per un efficace reinserimento post pena”. Luisa Ravagnani, in linea con le richieste della Conferenza nazionale dei garanti, ha ricordato come la situazione bresciana sia certamente fra le più difficili nel panorama nazionale tanto da chiedere un intervento immediato ed efficace per la riduzione dei numeri delle presenze negli istituti cittadini. La nota della Garante dei detenuti del Comune di Brescia si richiama in larga parte al documento “Indignarsi non basta più!” che la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale ha predisposto per la mobilitazione del 18 maggio scorso, in cui, a fronte delle criticità denunciate, vengono anche elencate alcune proposte concrete come l’approvazione urgente di misure deflattive del sovraffollamento, partendo dalla discussione e dall’approvazione parlamentare di misure immediatamente deflattive del sovraffollamento e facilmente applicabili, come la proposta, presentata dall’On. Giacchetti quale primo firmatario (AC 552), di modificare l’istituto della liberazione anticipata e prevedendo uno sconto di ulteriori 30 giorni a semestre, per i prossimi due anni, rispetto a riduzioni già concesse dal 2016 ad oggi (30 + 45). Tra le proposte avanzate anche la garanzia dell’accesso alle misure alternative ai detenuti che, tra quei circa 30mila che stanno scontando una pena/o un residuo di pena inferiore ai tre anni, si trovano nelle condizioni di potervi accedere. Di questi, 5.080 detenuti devono scontare appena 8 mesi di carcere. I Garanti delle persone private della libertà personale propongono anche di attenuare la circolare sul riordino del circuito della media sicurezza (DAP circ. n. 3693/6143 del 18 luglio 2022), visto che la maggior parte dei detenuti si trova a trascorrere circa 20 ore in celle chiuse. È necessario garantire diverse attività trattamentali: progetti di inclusione socio-lavorativa, attività culturali, ricreative, relazionali. Per ultimo, come si legge nel documento, “risulta di importanza fondamentale il tema dell’affettività in carcere”. La Conferenza nazionale dei Garanti territoriali, infatti, sottolinea che, ancora oggi, né in via amministrativa né in via legislativa si è inteso prendere posizione sulla sentenza auto applicativa della Corte costituzionale n. 10 del 2024 in tema di tutela del diritto all’affettività delle persone detenute e del diritto a colloqui riservati e intimi (senza controllo visivo). “Occorre da subito - continua il documento - aumentare le telefonate e le videochiamate, soprattutto in casi specifici, perché questo rappresenta un ulteriore modo per tutelare l’intimità degli affetti dei detenuti. Inoltre, occorre che la Magistratura di Sorveglianza si impegni ad aumentare i giorni di permesso premio per i ristretti”. Ora, dite la verità, non vi sentite immensamente più sicuri? di Giulio Cavalli Left, 20 maggio 2024 Vi sentite più sicuri ora che un esercito di ragazzini affolla le carceri pronto ad affinare inclinazioni delinquenziali? Il modello della giustizia minorile in Italia, fin dal 1988, aveva sempre messo al centro il recupero dei ragazzi, in un’età cruciale per il loro sviluppo. Dopo il decreto Caivano non è più così. Dal 1998 (primo dato storico registrato da Antigone) ad oggi non si erano mai registrati numeri così alti. E sarebbero potuti essere anche più alti senza la disposizione, fortemente negativa, che dà potere ai direttori di inviare i giovani adulti (ragazzi fino a 25 anni che hanno commesso un reato da minorenni) nelle carceri per adulti, interrompendo così relazioni educative importanti. In linea con le aspettative più negative scaturite dall’approvazione del decreto Caivano e da un cambio di paradigma nella giustizia minorile, con un approccio maggiormente punitivo, il sovraffollamento sta iniziando ad arrivare anche negli IPM. Il modello della giustizia minorile in Italia, fin dal 1988, data in cui entrò in vigore un procedimento penale specifico per i minorenni, aveva sempre messo al centro il recupero dei ragazzi, in un’età cruciale per il loro sviluppo, nella quale educare è preferibile al punire, garantendo tassi di detenzione sempre molto bassi. “Quello che registriamo - spiega l’associazione Antigone - e che avevamo denunciato, sia durante le audizioni parlamentari svolte nel merito del decreto Caivano, sia nel presentare il nostro 7° rapporto sulla giustizia minorile (“Prospettive minori”) lo scorso mese di febbraio, è invece come si sia intrapresa una strada che cancella questi 35 anni di lavoro con la prospettiva drammatica e attuale di perdere ragazzi e ragazze per strada”. Ora, dite la verità, non vi sentite immensamente più sicuri sapendo che un esercito di ragazzini affolla le carceri pronto ad affinare inclinazioni delinquenziali? La via d’uscita chiamata perdono di Cristina Franchini L’Unità, 20 maggio 2024 Questo è il senso del perdono: non dimenticare, condonare, subire, considerarsi superiori o inferiori. Ma accogliere la vita nella sua interezza, uscire dal giudizio di sé e del prossimo per liberare e guarire il passato, rendendo reale un futuro migliore. Quanto tempo occorre per perdonare? Per realizzare, nel senso di rendere reale, la trasformazione di qualcosa di grosso, di qualcosa di grave? Viviamo a ritmi accelerati, ma la vita e i suoi accadimenti hanno i propri tempi, per manifestarsi. Il 4 maggio scorso, alla Giornata Internazionale del Perdono 2024, abbiamo assistito a belle realizzazioni. A un anno esatto dal primo tentativo, fallito a causa di un blocco della circolazione ferroviaria, sei persone detenute in alta sicurezza nel carcere di Opera, frequentatori abituali dei laboratori Spes contra Spem di Nessuno tocchi Caino, sono finalmente salite sul palco dell’evento, per portare la propria testimonianza: Antonio Albanese, Vito Baglio, Felice Falanga, Corrado Favara, Domenico Ferraioli, Giuseppe Grassonelli. La loro condivisione di quanto attraversato, delle profonde consapevolezze maturate negli anni, è arrivata così autentica alla platea che tutti i presenti, centinaia di persone, oltre a un migliaio collegate, hanno reso omaggio al loro percorso, a queste vite rinate, con un lunghissimo e commosso applauso, alzandosi in piedi. Come ha scritto Lucia di Mauro, Ambasciatrice del Perdono 2023 insieme a Giuseppe Grassonelli, nel racconto “Opera - San Magno solo ritorno”, che narra l’Odissea dell’anno scorso, “Quando la vita ti fa incontrare una persona, si crea un legame. Nel dolore, seppur differente, ci si può salvare in due. Possiamo tutti far nascere qualcosa dalla sofferenza vissuta. Dobbiamo, far nascere qualcosa, di bello e utile. Insieme, oltre le storie personali, così diverse. Solo così ci si incontra veramente, come persone.” E lì, in quel momento, centinaia di persone si sono incontrate veramente, nel senso più profondo di essere umani. Con “gli amici di Opera”, come sono stati definiti alla Giornata, erano sul palco il professor Camillo Regalia, dell’Università Cattolica di Milano, e il professor Giuseppe Ferraro, della Federico II di Napoli. In collegamento anche Marco Sorbara, già Consigliere della Val d’Aosta, assolto in via definitiva dopo 909 giorni di custodia cautelare, convalescente da un incidente. Una pluralità di competenze ed esperienze per esplorare insieme il tema a cui era dedicata la Giornata: il Perdono come unica via d’uscita che libera, guarisce, realizza. In platea, a sostenerli, Rita Bernardini, Sergio D’Elia e Maria Brucale, compagni di viaggio da tanti anni e testimoni, orgogliosi, della loro rinascita. Al termine della tavola rotonda su Perdono e Giustizia, c’è stato un passaggio di consegne tra Giuseppe Grassonelli e Marco Sorbara, nominato Ambasciatore del Perdono 2024. “Per aver scelto e perseguito fermamente una via d’uscita concreta e costruttiva, per te stesso e per tutti i ragazzi con cui ora condividi un autentico esempio di disegno consapevole della propria Vita”. Chi il carcere l’ha vissuto in conseguenza dei propri reati e chi per un clamoroso errore giudiziario, uniti nel farsi testimoni di valori e proposte che vadano oltre il concetto, disumano e totalmente inefficace, di punizione. Alla Giornata Internazionale del Perdono, ideata da Daniel Lumera nel 2016 e organizzata annualmente dalla My Life Design ODV, era presente anche Agnese Moro, che a sua volta ha ricevuto la nomina di Ambasciatrice. “Per il coraggio di aver intrapreso un percorso di riconciliazione, oltre il giudizio, cercando di comprendere l’essere umano e le sfide della Vita nella loro complessità, contribuendo così a risanare una ferita personale e collettiva”. Questo dunque è il senso del perdono: non dimenticare, condonare, subire, considerarsi superiori o inferiori. Ma accogliere la vita nella sua interezza, per-donare, donare ogni sua manifestazione, uscire dal giudizio di sé e del prossimo che porta contrapposizioni, odio, rancore, per liberare e guarire il passato, rendendo reale un futuro migliore. Commovente l’abbraccio tra lei e i sei da Opera, che ha definito vite preziose ritrovate, parlando di dolori che hanno portato vita. Eccolo lì davanti agli occhi di tutti, il futuro insperato, ma realizzato. Il ruolo del pm è una questione aperta, ma non si risolve con le “separazioni” di Edmondo Bruti Liberati* Il Foglio, 20 maggio 2024 Possiamo accostarci alla separazione delle carriere evitando toni apocalittici hinc et hinde? È possibile evitare, citando Giovanni Falcone o Licio Gelli, l’argumentum auctoritatis e quello ad personam, argomenti insieme tra i più abusati e i più deboli come ci insegnano i manuali di retorica? È possibile ricordare che la comparazione è un’arte difficile: ogni norma, ogni istituto e il ruolo di ogni attore vanno inseriti nel contesto della struttura complessiva dello Stato e, soprattutto, occorre fare riferimento alla realtà effettiva del funzionamento di sistemi processuali, non di rado alquanto distante da quello che si potrebbe dedurre dalla teoria delle norme? Può un ex pm (e per sovrammercato ex presidente Anm) esporre argomentazioni tratte dall’esperienza giudiziaria, non meno che da approfonditi studi e anche da cospicui periodi di soggiorni di studio in paesi europei e negli Usa, senza essere liquidato come corporativo? Ben fragile il sillogismo per il quale la separazione è “consustanziale” al processo accusatorio, per la banale ragione che il “processo-accusatoriopuro” non esiste nella realtà, che vede solo sistemi “misti”, con livelli di garanzie molto diversificati. Qualunque imputato di buon senso, se potesse, sceglierebbe l’inquisitorio della Francia, piuttosto che l’accusatorio del Texas. La figura del pm, dei suoi poteri, del rapporto con la polizia giudiziaria e con i giudicanti, della sottoposizione o meno all’esecutivo è, nel mondo e in Europa, estremante diversificata, tanto che il capitolo su questo tema di un fondamentale studio sulle procedure penali europee è intitolato “Quante figure di pubblico ministero…”. La separazione delle carriere non è di per sé imposta dall’adozione di un processo di ispirazione accusatoria, la cui caratteristica essenziale è invece la regola del contradditorio come metodo per l’acquisizione della prova davanti al giudice. Una qualche forma di collegamento/dipendenza del pm dall’esecutivo è in Europa il sistema largamente più diffuso. Tutta la evoluzione degli ultimi decenni è stata nel senso di delimitare e disciplinare questa influenza mirando verso uno statuto di sempre maggiore indipendenza del pm; ma tutte le involuzioni autoritarie che vediamo anche all’interno dell’unione europea hanno tra i primi passi quello di ristabilire un controllo più diretto sul pubblico ministero, come premessa per il controllo ulteriore sui giudicanti. Un corpo di pm autoreferenziale che quanto più si allontani dalla giurisdizione e dalla magistratura giudicante, tanto più ineluttabilmente si avvicinerà alla “cultura di polizia”, tanto meno avrà forza e autorevolezza per resistere alle pressioni di quell’opinione che lo vuole tough on crime duro con il crimine, come si dice negli Stati Uniti. E l’attrazione verso forme di dipendenza dall’esecutivo, al di là delle rassicuranti parole, è fatale, come la storia e l’esperienza del nostro e di altri paesi insegnano. Il pm, primo attore in ordine di tempo del sistema di giustizia penale, è il bersaglio di opposte pressioni tra repressione e garanzie. È ineluttabile che sia così, così come è ineluttabile che l’ipotesi di accusa sia talora, con maggiore o minore frequenza, smentita nelle varie fasi del giudizio. Non è ineluttabile il protagonismo iperaccusatorio di taluni pm , peraltro sostenuto e osannato da settori non piccoli della società e dei media. Ma neppure è ineluttabile che alle difficoltà, ai problemi reali, alle cadute di professionalità, che esistono, si pensi di rispondere con ricette salvifiche in un clima di tifoseria anti pm. Il giudice tende a “dare ragione” al collega pm? Ma in senso contrario stanno le percentuali significative di assoluzioni a fronte di richieste di condanna del pm e, ancor prima, i casi nei quali i giudici delle indagini preliminari non accolgono o ridimensionano richieste di custodia cautelari o il Tribunale del riesame annulla o ridimensiona decisioni dei gip. La “terzietà” del giudice delle impugnazioni non è messa in discussione dallo “spirito di colleganza” tra i giudicanti. Ogni giorno la professionalità e la deontologia dei giudici in sede di ricorso, in appello, in cassazione consentono di smentire quanto era stato deciso dal collega della stessa carriera giudicante. È stata ricordata una proposta del 2004 dell’allora Parlamentare Giuliano Pisapia per la separazione delle carriere con legge ordinaria. Quello che si poteva fare senza toccare la Costituzione è già stato fatto con le norme che ormai hanno reso pressoché impossibile il passaggio da giudice a pm e viceversa. In quella proposta si rassicurava sul mantenimento delle garanzie costituzionali dell’art.107 terzo comma: “I magistrati si distinguono tra di loro soltanto per diversità di funzioni”, ma questa norma è seccamente abrogata dai progetti di legge costituzionale ora in discussione. Si citava anche il mantenimento dell’art.104: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, ma di questa norma si propone una radicale riscrittura. E infine si citava come ulteriore “argine insuperabile” l’art.112 sulla obbligatorietà dell’azione penale, ma ore se ne propone una modifica in termini che abbattono questo argine posto a tutela della eguaglianza di tutti davanti alla legge. Per di più oggi i problemi reali delle ineluttabili scelte sull’impiego delle risorse e sulle priorità sono stati affrontati con una legge che prevede che il Parlamento detti criteri di priorità: è da tempo in vigore ma nulla è stato fatto. Il processo penale, il ruolo dell’accusa e della difesa si muovono nella difficile ricerca di equilibri tra diverse esigenze in un sistema di giustizia che affidiamo a persone umane fallibili. Il giudice deve costruire e coltivare la sua “terzietà”, sempre in tensione con i suoi “pregiudizi”, con l’orrore di fronte a stragi e delitti efferati e con l’impatto emotivo di vicende che trovano una riprovazione forte e diffusa nella società (pensiamo alle campagne del mee too) che rischia di travolgere ogni regola e garanzia. Il pm deve essere capace di coltivare la sua “imparzialità” non solo nel corso dell’indagine in cui deve verificare con il dubbio la sua ipotesi accusatoria, ma anche nel dibattimento davanti al giudice ove deve sempre aver presente, mentre sostiene la tesi di accusa ormai cristallizzata nelle imputazione portata a giudizio, che il contraddittorio con una difesa agguerrita è strumento essenziale affinché il giudice sia guidato nella ricostruzione, per quanto possibile nei limiti umani, della verità processuale. La questione non tanto dell’indebito “protagonismo” di alcuni pm , che è patologia, ma del ruolo di una figura come quella del pubblico ministero, che in Italia, come ovunque nel mondo, ha assunto un ruolo centrale nel sistema della giustizia penale, rimane ovviamente aperta. Non la si risolve con gli slogan e le scorciatoie semplicistiche e “le riforme epocali risolutive”, ma con la paziente ricerca di difficili equilibri, nella coerenza di un sistema che salvaguardi le essenziali garanzie costituzionali. Piuttosto che avventurarsi sulle “separazioni” occorrerebbe muoversi con decisione nella costruzione di una comune cultura tra tutti gli esponenti delle professioni giuridiche. Questo è il vero cantiere aperto su cui devono misurarsi le diverse istituzioni della magistratura e dell’avvocatura e le rispettive associazioni. *Ex procuratore della Repubblica di Milano Quando la sinistra voleva le carriere separate di Claudio Cerasa Il Foglio, 20 maggio 2024 La legge sull’ordinamento giudiziario che non è andata in porto: nel 2001 la proposta di Pisapia e Russo Spena (Rifondazione). Il dibattito sulla separazione delle carriere nella magistratura non è nuovo. Nuovo e diverso è l’approccio al tema da sinistra. Il 12 giugno 2001 i deputati Giuliano Pisapia e Giovanni Russo Spena, di Rifondazione comunista, presentavano una loro proposta di legge per modificare l’articolo 190 dell’ordinamento giudiziario “in tema di distinzione delle funzioni requirenti e giudicanti e di passaggio da una funzione all’altra”. Queste le loro motivazioni. Il dibattito sulla separazione delle funzioni e delle carriere tra i magistrati del pubblico ministero e quelli giudicanti è sempre più attuale. Già nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente vi fu un serrato confronto sulla collocazione costituzionale del pubblico ministero. Se in sede di Sottocommissione era prevalsa l’idea di dare al pubblico ministero la più completa indipendenza alla pari di quella riconosciuta per i giudici, in Assemblea emersero due differenti posizioni: la prima di chi intendeva equiparare il pubblico ministero al giudice e la seconda di coloro che volevano dichiararlo “organo del potere esecutivo”. La soluzione di compromesso formulata nell’emendamento Grassi (“Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite dall’ordinamento giudiziario”) fu motivata, dall’onorevole Leone, con l’opportunità di “rimandare alla legge sull’ordinamento giudiziario lo stabilire quali saranno le garanzie del pubblico ministero, e poiché la legge sull’ordinamento giudiziario dovrà essere congegnata in perfetta armonia con la riforma del codice civile, con la riforma del processo penale (...) quella sarà la sede più opportuna perché, premessa la determinazione delle funzioni future del pubblico ministero, si possa stabilire se aumentare le garanzie, o abolirle o ricorrere ad un sistema intermedio”. Dopo aver proclamato che “la magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere” (articolo 104, primo comma) e che i magistrati si distinguono solo “per diversità di funzioni” (articolo 107, terzo comma), la Costituzione dichiara che “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (articolo 101, secondo comma). Solo in due casi la Costituzione si riferisce in modo specifico alle funzioni del pubblico ministero: allorché dichiara che il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario (articolo 107, quarto comma, e 108, secondo comma) e nell’articolo 112 che sanziona l’obbligatorietà dell’azione penale. Proprio in questo momento storico, realizzatasi la riforma del processo penale, appare in tutta chiarezza la necessità di coordinare il nuovo ruolo assunto dal pubblico ministero con la struttura costituzionale delle garanzie e dei diritti. Nel nuovo processo penale vi è una netta separazione tra il ruolo del pubblico ministero e quello del giudice. Il giudice - a garanzia di una corretta amministrazione della giustizia e nell’interesse dell’intera collettività - non solo deve essere - come espressamente previsto dall’articolo 111 della Costituzione - “terzo ed imparziale”, ma deve anche apparire il più possibile equidistante da tutte le parti processuali (pubblico ministero, imputato e parte offesa). Ben diverso è, e deve essere, il ruolo del pubblico ministero che è una parte processuale e che quindi deve avere una specifica preparazione e professionalità. Riconoscere la sostanziale differenza tra la funzione requirente e quella giudicante equivale - diversamente da quanto alcuni temono - a garantire meglio la magistratura, la sua indipendenza e a prevenire il pericolo che ne sia inficiata la credibilità. Non si può altresì non sottolineare che una più netta separazione funzionale non lede in alcun modo il principio di indipendenza della magistratura inquirente, la quale non è, e non deve passare, alle dipendenze del potere esecutivo. Illuminante è al riguardo quanto sostenuto da Giovanni Falcone, che nel 1989 riconosceva che “comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, abbandonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale, paradossalmente, a garantire meno la stessa magistratura, costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti”. Non si può fare a meno di rilevare, peraltro, che la situazione italiana è del tutto anomala rispetto alla situazione della maggior parte degli altri Paesi europei, nonché da quella di altri Paesi extraeuropei, dove, seppure con forme diverse, è stata già operata, una netta distinzione tra le due funzioni. Il caso più interessante è sicuramente rappresentato dalla Francia dove la differenziazione di ruoli tra organi requirenti e giudicanti è talmente netta che nel 1993, con una legge di revisione costituzionale, è stata creata una sezione del Consiglio superiore della magistratura competente esclusivamente nei riguardi dei magistrati del pubblico ministero. In quasi tutti i Paesi europei (per esempio Inghilterra, Galles, Germania, Svezia ed Austria) ed in molti Paesi extracomunitari (valga per tutti l’esempio degli Stati Uniti d’America e del Brasile) la differenziazione delle funzioni o delle carriere è molto forte. Anche in Italia è necessario e indifferibile un intervento legislativo teso a rafforzare la differenza di funzioni tra i magistrati, e non già in una logica di emergenza, ma in ottemperanza al dettato costituzionale. Giova ricordare, per evitare qualsiasi equivoco, che nel nostro ordinamento non vi è alcun rischio che una più netta separazione delle funzioni possa, in qualsiasi modo, determinare una dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo: lo impediscono (e sono questi argini insuperabili) l’articolo 112 della Costituzione, che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale, l’articolo 104, primo comma (“La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”) e l’articolo 107, terzo comma (“I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”). In questa ottica, la presente proposta di legge, con una serie di modifiche all’articolo 190 dell’ordinamento giudiziario, approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, prevede che il passaggio dall’una all’altra funzione venga disciplinato ponendo delle limitazioni al passaggio fra i ruoli, a favore di una maggiore professionalità, nell’interesse della giustizia e dell’immagine di terzietà dei giudicanti. La presente proposta di legge si propone il soddisfacimento di due esigenze essenziali: da un lato la necessità di accertare rigorosamente, in capo al magistrato che chiede il trasferimento di funzione, la sussistenza delle qualità personali e professionali adeguate allo svolgimento delle funzioni stesse; dall’altro, la previsione di una maggiore cautela nel passaggio da una funzione ad un’altra. In particolare, la nuova formulazione dell’articolo 190 dell’ordinamento giudiziario, nel riaffermare la differenza tra la funzione requirente e quella giudicante, prevede che qualora un magistrato faccia richiesta di passare da una funzione ad un’altra, ciò possa avvenire solo su decisione del Consiglio superiore della magistratura, sentito il parere del consiglio giudiziario che deve tener conto delle attitudini per lo svolgimento della nuova funzione. In caso di passaggio da una funzione all’altra, il magistrato deve essere destinato ad una sede di corte d’appello diversa da quella in cui ha esercitato le funzioni precedenti. Il magistrato passato a svolgere funzione giudicante non potrà, per i primi due anni, essere destinato a svolgere le funzioni attribuite al giudice monocratico. E comunque la richiesta di un nuovo trasferimento da una funzione all’altra non potrà essere presentata prima che siano decorsi cinque anni di effettivo esercizio della funzione alla quale il magistrato era stato destinato. Giuliano Pisapia Giovanni Russo Spena Le intercettazioni, il “barbaro Medioevo” che Nordio vuole ridimensionare di Liana Milella La Repubblica, 20 maggio 2024 Parola di Nordio: telefonate tranquilli, nessuno vi registrerà. Lo dice da quando è diventato ministro della Giustizia. A 18 mesi dal suo incarico, perché lui non è un fulmine di guerra, il leit motiv sta diventando realtà. Subito dopo le europee, passerà definitivamente alla Camera il suo primo e unico disegno di legge sull’abuso d’ufficio che impedisce pure la trascrizione delle intercettazioni non rilevanti e proibisce ai giornalisti di pubblicare quelle che non sono contenute negli atti dei giudici. Di Genova non avremo saputo subito tutto quello che sappiano. Ma questo non è che il primo realizzarsi di altre “promesse” in arrivo. Sentiamo come Nordio, in dozzine di interventi, ha parlato degli ascolti. Un florilegio distribuito nell’arco del suo incarico, utile per capire chi è l’uomo e come la pensa. Considerando poi che è stato - come ama vantarsi - “pm per 40 anni” e li ha usati massicciamente come nell’inchiesta sul Mose. Le sue parole, messe in fila, fanno ancor più impressione. 6 dicembre 2022. Nordio è Guardasigilli solo dal 22 ottobre. E dice: “Le intercettazioni sono usate per delegittimare, interverremo”. E poi: “Vigileremo in modo rigoroso su ogni diffusione”. Ancora: “Non si è mai vista una condanna inflitta sulla sola base delle intercettazioni. Sono diventate uno strumento di prova, non un mezzo di ricerca delle prove. E poi possono essere soggette a errori di trascrizione che, spesso pilotata, costituisce uno strumento micidiale”. Arriva la prima minaccia verso la stampa: “Vigilerò in modo rigoroso su ogni diffusione che sia arbitraria e impropria”. L’obiettivo è che le intercettazioni non escano affatto, o ne escano il meno possibile e il più tardi possibile. Gennaio 2023. Nordio parla alla Camera e al Senato. Illustra il suo programma sulla giustizia. Le intercettazioni “non danno nessuna garanzia di attendibilità perché non sono trascritte nella forma della perizia, sono estrapolate dal contesto, manca il tono, sono di solito selezionate da un maresciallo di polizia che sceglie ciò che vuole, e poi trattate dal pm che a sua volta prende quello che gli serve”. Lancia la frase che scatena la polemica: “Ma voi credete veramente che la mafia parli col telefonino se deve fare un attentato?”. Tutti la leggono come l’annuncio del prossimo taglio degli ascolti anche per i reati gravissimi. La Meloni è costretta a intervenire e ad assicurare che ciò non avverrà. È il primo rimbrotto serio che si piglia. 15 giugno 2023. In consiglio dei ministri Nordio presenta il suo primo e unico ddl, quello sull’abuso d’ufficio, che impedisce la trascrizione delle intercettazioni considerate non rilevanti. Di fatto penalizzando sia il pm che l’avvocato difensore perché quei testi potrebbero rivelarsi utili in un secondo momento. I cosiddetti garantisti dovrebbero saperlo, ma plaudono a Nordio e alla sua politica da “delenda Cartago”. 17 giugno 2023. Al Taobuck di Taormina Nordio definisce le intercettazioni “una barbarie che costa 200 milioni di euro l’anno per raggiungere risultati minimi e ciò è sotto gli occhi di tutti”. E ripete la minaccia del suo insediamento: “Noi interverremo radicalmente”. Settembre 2023. In conversione c’è il decreto Mantovano sulle intercettazioni - una pezza rispetto al suo attacco al concorso esterno - e la possibilità di utilizzarle anche se non è contestata l’associazione mafiosa, sollecitato dal procuratore Antimafia Gianni Melillo. Azione e Forza Italia ne approfittano e lanciano la prima sfida alla microspia Trojan perché vogliono eliminare i reati contro la pubblica amministrazione, lasciando solo mafia, terrorismo, droga e traffico di migranti. La stretta non passa, ma i garantisti incassano un traguardo comunque importante, lo stop alle cosiddette intercettazioni “a strascico”. Scatta il divieto di usare gli ascolti di un’inchiesta in una nuova per altri reati che vengono alla luce, reati diversi da quelli per cui gli ascolti sono stati autorizzati. Unica eccezione il caso di un arresto in flagranza. 20 settembre 2023. La presidente della commissione Giustizia Bongiorno deposita la sua relazione sulle intercettazioni. Nordio la citerà e ne vanterà i risultati più volte, dicendo che “ha delegato” a lei la materia. Bongiorno “salva” le intercettazioni perché le definisce “uno strumento indispensabile”, ma nella relazione ci sono spunti per futuri interventi. Ad esempio lo stop dopo 45 giorni (il ddl di Erika Stefani). Ma anche l’obbligo di far autorizzare dal gip il sequestro di uno Smartphone (il ddl Zanettin). 15 dicembre 2023. Alla festa di Atreju Nordio dice che “sequestrare un telefonino è come sequestrare una vita”. E poi: “Ormai il cellulare è pieno di atti riservati, anche se per fortuna la Consulta ha fatto piazza pulita sulla corrispondenza”. Parla della sentenza sul caso Renzi. Quella che poi lo ha portato anche ad aprire un’azione disciplinare contro i pm di quell’inchiesta. Promette di intervenire in un prossimo ddl sulle intercettazioni. Gennaio 2024. Nuova relazione di Nordio in Parlamento sulla giustizia. E lui parla ancora delle intercettazioni come di “un barbaro Medioevo”. 24 gennaio 2024. Nordio insiste, “chi sequestra un cellulare sequestra una vita”. Di fatto “scippa” il ddl Zanettin sugli smartphone, ampliandolo, e caricando i gip di obblighi di controllo e verifica, anche se loro ribattono che non ce la faranno mai per i troppi compiti che gravano su di loro anche dopo la legge Cartabia. Lui drammatizza, come al solito. “Nel cellulare ci sono le cartelle cliniche, ci sono vite intere che vengono rovinate perché un pm, non si sa in base a quale metafisica dell’intelletto speculativo, sequestra un telefonino e attraverso una serie di perversioni che transitano dal cancelliere, all’avvocato, al giudice, tutto finisce sui giornali”. E poi ecco l’attacco ai pm: “È una cosa inaudita, che un telefonino possa essere sequestrato con la sola firma di un pm, una cosa che confligge con qualsiasi regola umana e divina, e che va contro l’articolo 15 della Costituzione che tutela la riservatezza delle conversazioni”. Maggio 2024. Riparte l’attacco al Trojan, ma questa volta per mano di Enrico Costa di Azione. Che nel decreto sulla cybersicurezza, con un ordine del giorno, rilancia il divieto di utilizzarlo anche per la corruzione. Non è la prima volta che ci prova. Ottiene il parere favorevole della maggioranza. C’è da aspettarsi che diventi una prossima misura di Nordio. Ormai noto in Parlamento come lo “scippatore”. Vedi le leggi sulla prescrizione, sulla separazione delle carriere, sulle intercettazioni. Proposte di deputati e senatori che lui blocca per farle sue. I pm e il calcolo per esaustione (al contrario): indagati già colpevoli. Ma i conti non tornano di Pietro Maiorana Il Riformista, 20 maggio 2024 I pm delimitano e misurano la superficie del teorema accusatorio ed emettono gli ordini di custodia cautelare come se gli indagati fossero già colpevoli, da perfetti inconsapevoli seguaci del matematico greco Eudosso. Il calcolo per esaustione è un metodo matematico utilizzato per determinare la superficie di una figura irregolare non altrimenti misurabile. Consiste nello scomporre la figura in diverse parti più regolari e semplici e nel calcolare l’area di quelle misure e poi sommare i risultati, per avvicinarsi alla misurazione più precisa possibile della figura irregolare. Ovviamente questo metodo richiede una grande precisione nel suddividere l’area del poligono da misurare in più parti e nel calcolare con accuratezza e precisione le rispettive parti. Gli storici della matematica attribuiscono l’introduzione di questo metodo di calcolo al filosofo e matematico Eudosso, che visse a Cnido, in Asia minore, nel quinto secolo avanti Cristo dove fondò la sua scuola di filosofia e matematica. Diede un forte impulso alle conoscenze geometriche e a lui si deve anche l’introduzione del concetto di curve coniche e dei metodi per calcolarne le proprietà. Il suo metodo, in condivisione con il più noto Archimede, si basa su un assioma, che da loro prende il nome, che dice che date due grandezze aventi un certo rapporto, è possibile trovare un multiplo dell’uno che sia maggiore dell’altra. La scrittura di questo assioma, viene attribuito ad Euclide. Si trova infatti nel secondo libro di “Elementi”, e il matematico alessandrino, partendo da esso, fornisce importantissimi sviluppi sia geometrici che matematici. Su questo assioma e sul metodo per esaustione si basa il lavoro di Archimede sulla misurazione dell’area del cerchio. Archimede utilizzò due metodi, quello per esaustione e quello intuitivo. Con questo secondo metodo arrivò, iscrivendo figure geometriche per approssimazione sempre più simili all’area del cerchio, a definire il numero costante definito pi, che misura il rapporto tra la circonferenza del cerchio e il suo diametro, e che Archimede stimò in 3,14. Così Archimede riuscì a definire la formula che permette di misurare la superficie di un cerchio e che consiste nel moltiplicare il raggio del cerchio al quadrato per pi greco (3,14). In termini contemporanei il metodo di esaustione viene ancora utilizzato nel calcolo integrale e viene più semplicemente definito calcolo dell’integrale semplice. Eudosso più di duemila anni fa, fu il primo a sviluppare un calcolo che può definirsi la base dell’analisi infinitesimale moderna. Da studente di matematica ho sempre associato il metodo per esaustione all’immagine dell’avvoltoio che avvista la preda moribonda e si avvicina a cerchi concentrici, sempre più vicino, sempre più precisa, fino a piombare sulla preda. In questi giorni, leggendo le notizie sull’inchiesta di Genova che ha coinvolto, tra gli altri, il Presidente della Regione Liguria Toti, mi sono convinto che i pubblici ministeri, non solo quelli di Genova in questione, sono, forse a loro insaputa, dei seguaci di Eudosso e bravissimi ad applicare il metodo del calcolo per esaustione. Solo che lo applicano al contrario. Delimitano e misurano la superficie del teorema accusatorio e emettono gli ordini di custodia cautelare come se gli indagati, nemmeno ancora imputati, fossero già colpevoli. Poi cominciano a centellinare alla stampa le informazioni, aggiungendone di nuove giorno dopo giorno e dando l’impressione di avvicinarsi sempre di più alla verità e alla preda, come quando si misurano aree di poligoni contenuti nell’area più grande da misurare, e facendo crescere così a dismisura l’attenzione mediatica intorno al caso e l’indignazione moralistica di chi è sempre pronto ad esprimere giudizi apriori, senza sapere. Ogni giorno misurano una superficie nuova, dando l’impressione che la quadratura del cerchio sia oramai questione di ore. Vi sono, però, delle differenze. Nel calcolo matematico si tratta solo di misurare l’area di un cerchio o di una figura geometrica irregolare. Qui si tratta della verità giudiziaria o presunta tale, che dovrebbe essere appurata nelle aule di un tribunale. Invece, data in pasto in questo modo all’opinione pubblica, finisce per condannare l’eventuale imputato addirittura molto prima che un tribunale venga designato. E si tratta anche della vita delle persone, che in uno stato civile e di diritto dovrebbero essere considerate innocenti fino a prova contraria e al terzo grado di giudizio. Ma questa è un’altra storia. Calabria. Accanimento giudiziario: un “concorso” o un’aggravante di mafia non si nega a nessuno di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 20 maggio 2024 Come promesso, con questo secondo numero completiamo un racconto che, in realtà, potrebbe continuare a lungo: le storie calabresi - alcune davvero incredibili - di vicende giudiziarie clamorose terminate nel nulla. Anticipiamo subito la scontata obiezione dell’arbitrio statistico di questo racconto, sospettabile di essere una selezione chirurgica di insuccessi accusatori, tacendo dei successi. La risposta sta nei numeri ufficiali: poco meno della metà delle liquidazioni di risarcimenti per ingiusta detenzione a carico dello Stato nel solo 2022 riguarda casi giudiziari definiti nei distretti di Corte di Appello di Catanzaro e Reggio Calabria. I numeri: in Calabria quasi la metà dei risarcimenti giudiziari - Che dunque in Calabria si abusi delle manette, è semplicemente un dato di fatto. E le storie che abbiamo raccontato - e che magari continueremo a raccontare - testimoniano anche di un secondo abuso, non meno allarmante e soprattutto non meno significativo: quello del reato (o dell’aggravante) di mafia. Tutto ciò su cui si indaga, in questa terra difficile, appare destinato ad essere marchiato dalla connotazione mafiosa, troppo spesso destinata poi a scolorirsi, quando non a dissolversi del tutto. Chi frequenta queste vicende giudiziarie calabresi sa che una indagine su qualunque ipotesi di reato di qualche minima consistenza sembra non poter fare a meno del contesto ‘ndranghetistico: un concorso esterno o una aggravante del metodo mafioso, parliamoci chiaro, non si nega a nessuno, se l’indagine vuole avere una qualche visibilità e credibilità. L’abuso dei reati di mafia e i danni irreparabili - L’esito dei giudizi farà poi assai spesso giustizia di questo abuso, ma dopo molto tempo, e soprattutto quando il danno è ormai irreparabile. Perché, lo comprenderete benissimo, altro è, per un amministratore pubblico, per i proprietari di una clinica, per un imprenditore, essere indagati e processati per ipotesi di reato, come dire, ordinariamente connesse all’attività svolta; ben altro è esserlo come associati ad una cosca, o concorrenti esterni ad essa, o come persone che adottano modalità mafiose nel commettere quei reati ordinari. La differenza è devastante: sia per la durezza delle conseguenze detentive e della loro modalità esecutiva, sia soprattutto per lo stigma sociale dal quale si viene marchiati, e per le conseguenze professionali ed economiche semplicemente irrimediabili. L’accanimento giudiziario - Ora noi, sulla scia di questo lungo e drammatico racconto che abbiamo voluto farvi in questi due numeri di PQM, reiteriamo le nostre semplici domande: come è possibile che non si apra una riflessione su tutto ciò? Un qualche dibattito, una qualsivoglia riflessione critica, nei media, nella politica, nella società? Come è possibile, per esempio, che sia rimasta senza alcuna conseguenza quella accusa, scritta nero su bianco in una sentenza della Corte di cassazione, di “accanimento giudiziario” accusatorio nei confronti di un esponente politico democraticamente eletto e giudiziariamente disarcionato dalla carica senza alcuna ragione? Non sono critiche contenute in qualche libello polemico, sono parole scritte - immaginiamo con quanta ponderazione e prudenza - da un Collegio di Giudici della Suprema Corte di cassazione: davvero non valgono nulla, non producono nulla, non impongono una qualche discussione, almeno? Occorrerà pur chiedersi la ragione di questo mortificante silenzio, e darne un senso, una spiegazione. Noi almeno abbiamo provato a romperlo, quel silenzio, raccontando fatti, storie, numeri. Servirà? Come amava ripetere sempre un grande leader politico a me molto caro, Marco Pannella: si faccia quel che si deve, accada quel che può. Benevento. Rivolta in carcere, il direttore Gianfranco Marcello: “La protesta è rientrata” ansa.it, 20 maggio 2024 “Al rifiuto del medico della Asl di visitare un detenuto è esplosa una protesta vibrata, sfociata in momenti di concitazione con la rottura di alcune vetrate le cui schegge hanno ferito lievemente due agenti di polizia. Non c’è stata alcuna colluttazione, né aggressione da parte dei detenuti verso gli agenti e ora la protesta è rientrata”. Lo dice all’Ansa il direttore del carcere di Benevento, Gianfranco Marcello, a proposito dei disordini avvenuti nella Casa di reclusione. “Dopo la protesta gli stessi detenuti hanno collaborato alla pulizia e a sistemare i locali”, ha dichiarato il direttore. I due agenti feriti sono stati medicati in ospedale ed hanno fatto rientro a casa per sottoporsi a nuovi controlli domani. “Viviamo una situazione difficile a causa del sovraffollamento delle carceri - aggiunge Marcello -. Abbiamo quasi il doppio dei detenuti che dovremmo avere e gestiamo con non poche difficoltà la situazione, grazie esclusivamente all’impegno eroico del personale”. La segnalazione del sindacato - La situazione allarmante segnalata del Sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria, Sappe è fortunatamente rientrata - “Ci arrivano da Benevento segnali allarmanti - aveva sottolineato Tiziana Guacci, segretario del Sappe - di una crescente tensione, con i detenuti comuni del quarto piano che, per futili motivi, hanno devastato la rotonda, computer, vetri e tutto quello che c’era. In prima battuta sembrerebbe che hanno preso in ostaggio dei colleghi, due sono stati accompagnati in ospedale. La situazione è molto critica e sul posto sono presenti anche operatori delle altre forze di polizia”. “Mi sembra evidente - prosegue Guacci - che c’è necessità di interventi immediati da parte degli organi ministeriali e regionali dell’Amministrazione penitenziaria, che assicurino l’ordine e la sicurezza in carcere a Benevento tutelando gli agenti di Polizia penitenziaria che vi prestano servizio. Ed è grave che non siano stati raccolti, nel corso del tempo, i segnali lanciati dal Sappe sui costanti e continui focolai di tensione nelle carceri campane”. Il segretario generale del Sappe Donato Capece giudica la condotta dei detenuti ancora in rivolta “irresponsabile e gravissima. Sono quotidiane le nostre denunce con le quali evidenziamo che le carceri in Campania sono ad alta tensione. Alla teoria di chi parla di carceri conoscendoli poco, ossia dalla parte della Polizia Penitenziaria, vogliamo rispondere con la concretezza dei fatti. Che parte da un dato incontrovertibile: la Polizia Penitenziaria continua a ‘tenere botta’, nonostante le quotidiane aggressioni. I problemi del carcere sono reali, come reale è il dato che gli eventi critici nei penitenziari sono in aumento. È sotto gli occhi di tutti che servono urgenti provvedimenti per frenare la spirale di tensione e violenza che ogni giorno coinvolge, loro malgrado, appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria nelle carceri italiane e della Campania, per adulti e minori. Come dimostra quel che sta succedendo nel carcere di Benevento”. Benevento. I Garanti: “Ma quale rivolta, quella dei detenuti era solo una protesta” Il Dubbio, 20 maggio 2024 La nota di Ciambriello e Sannino dopo i toni allarmistici del sindacato di polizia su quanto verificatosi in carcere. Ieri mattina nel carcere di Benevento si sono registrati momenti di tensione, il motivo sarebbe stato il mancato accompagnamento di un detenuto ad effettuare una visita medica all’interno della Casa Circondariale, il quale si è ribellato. Si sono verificati attimi di protesta durante i quali è stato mandato in frantumi un vetro e due poliziotti hanno riportato lievi lesioni, successivamente sono stati prontamente medicati in ospedale e sono poi rientrati a lavoro. Nella prima mattina ci sono state chiamate da parte del Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, della Garante provinciale Patrizia Sannino e Garante nazionale Felice Maurizio D’Ettore, al Direttore dell’Istituto Gianfranco Marcello, il quale ha spiegato come sono andati i fatti e ha rassicurato i garanti ricostruendo l’accaduto e comunicando che non c’era nessuna rivolta in atto né tantomeno sequestro di agenti in atto. La dinamica del disordine è avvenuta dalle 8.30 alle 9.20. Dalle ore 12.00 comunicati stampa aggressivi, agenzie di stampa, giornali e telegiornali, anche nazionali, hanno riportato notizie di rivolta a Benevento di sequestri di agenti e di disordine ancora in corso. Su quello che è accaduto e come è stato divulgato c’è una dichiarazione congiunta dei Garanti regionali e provinciali che stigmatizzano le parole lanciate come pietre, invitano a verificare le fonti e ad autorizzare i Direttori a dichiarare su come sono andati i fatti quando si verificano negli Istituti disordini, violenze o rivolte. Ecco la dichiarazione congiunta dei Garanti Samuele Ciambriello e Patrizia Sannino: “Sempre più aggressivi comunicati dei sindacati di polizia penitenziaria, che ritraggono le carceri come un fronte di guerra, non stupiscono chi ha contezza di un conflitto in effetti in atto, sebbene il bersaglio dell’offensiva sia uno solo: la popolazione detenuta. E poi perché comunicare quando l’evento è in corso? Si crea allarme a tutta la comunità penitenziaria. E infine perché i Mass media non verificano con altre fonti le notizie prima di renderle pubbliche? E perché non si autorizzano i direttori degli Istituti o il Prap a ricostruire subito come sono andati i fatti?” Biella. Reinserimento detenuti: il futuro veste Zegna di Antonella Barone gnewsonline.it, 20 maggio 2024 Impianti, attrezzature e layout all’avanguardia, personale competente ed efficiente: il laboratorio di Ermenegildo Zegna che produce divise formali per la Polizia penitenziaria è, a tutti gli effetti, un’azienda industriale. Solo che i suoi dipendenti al termine dell’orario lavorativo, invece di tornare a casa rientrano nelle stanze di detenzione. Il capannone industriale si trova, infatti, nel padiglione a trattamento intensificato della Casa circondariale di Biella e le 55 persone che vi lavorano (più i 5 addetti alle pulizie) sono detenute. Il progetto, messo a punto nel 2016 con un protocollo d’intesa tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Gruppo Zegna, iniziò con pochi macchinari, la formazione di alcuni detenuti e l’avvio di una prima produzione di pantaloni, la parte più semplice della divisa. Il capannone di circa 2.000 mq e i relativi impianti furono realizzati su progetto tecnico e tecnologico dei tecnici della Zegna. Alla vera fase produttiva si è arrivati di fatto al termine del 2020, in quanto nei primi mesi della pandemia l’attività sartoriale fu riconvertita per la realizzazione di mascherine. Oggi il laboratorio ha in dotazione 77 macchine da cucire, 34 presse da stiro e altre attrezzature per il taglio e l’adesivazione, tutte scelte e acquistate dal Gruppo Zegna. I 55 detenuti vi lavorano per 5 ore al giorno e 5 giorni a settimana. La produzione attuale è di 3.500 kit-divisa l’anno per la Polizia penitenziaria, ciascuno comprensivo di una giacca, due pantaloni e una gonna per le donne, una giacca e due pantaloni per gli uomini. Con l’imminente rinnovo del protocollo d’intesa tra l’Amministrazione Penitenziaria e il Gruppo Zegna, l’obiettivo è il raddoppio della forza lavoro e la produzione annuale di 7.000 kit. I modelli delle divise sono stati sviluppati da specialisti della Zegna, mentre i tecnici della maison hanno studiato i cicli produttivi e rilevato i tempi standard per ottimizzare qualità, tempi di esecuzione e permettere la corretta ripartizione delle operazioni sui lavoratori, in modo che ognuno abbia un carico di lavoro adeguato alle ore di presenza. I lavoratori, selezionati tramite bandi sull’intero territorio nazionale, frequentano un primo percorso regionale di addestramento all’uso di macchine organizzato dall’associazione Arti e Mestieri. Formazione sul campo e perfezionamento sono in seguito curate da tre maestre d’arte convenzionate con l’Amministrazione Penitenziaria e da un maestro del Gruppo Zegna. Un’esperienza altamente professionalizzante quella offerta dal laboratorio, che apre una prospettiva futura ai suoi dipendenti. Al singolo lavoratore Gruppo Zegna e Amministrazione Penitenziaria rilasciano un attestato di competenze spendibile nel mondo lavorativo del tessile al termine della pena. La Casa circondariale di Biella ospita 324 detenuti. Oltre ai 55 occupati nel laboratorio di sartoria, 42 sono addetti ad attività interne (cucina, lavanderia, pulizie, manutenzione del fabbricato e delle aree verdi) e 15 lavorano nel tenimento agricolo che produce frutta, verdura e ortaggi destinati al mercato esterno. Prodotti che, in parte, saranno destinati alla trasformazione alimentare nel nuovo laboratorio in fase di completamento. Padova. “Sono un detenuto e per me poter studiare in carcere è stata una salvezza” di Luigi Mollo vanityfair.it, 20 maggio 2024 L’Università di Padova offre la possibilità ai detenuti di potersi laureare, facilitando così il reinserimento nella società “libera”. Ne parla qui Francesca Vianello, coordinatrice delle attività didattiche del Polo universitario nella Casa di reclusione di Padova. La carcerazione lascia delle tracce indelebili sulla pelle dell’anima, non esiste chirurgo che le possa operare. Quando il pesante portone si chiude dietro alle tue spalle, entri in un nuovo mondo, dove il tempo si ferma. Il pensiero non ti abbandona mai, rallenta il respiro, si ha fame di quell’aria che si respirava all’esterno e si cerca di colmare questa fame impegnando ogni battito della giornata in qualsiasi attività che possa farti sentire vivo. Ed è così che il Polo Universitario della Casa di Reclusione di Padova mi ha salvato e forse ha salvato molti come me dal buio. Ha ricostruito ciò che con le mie mani avevo distrutto. Ma, se la macchia del reato rimarrà per sempre, mi auguro che i giudizi prima o poi non facciano più male. Io, laureando in Scienze Politiche, credo di essere stato salvato dal progetto Università in Carcere UNIPD e dall’incontro con Francesca Vianello, professoressa associata di Sociologia del diritto e della devianza, direttrice del Master in Criminologia critica e sicurezza sociale e coordinatrice delle attività didattiche del Polo universitario nella Casa di reclusione di Padova. Ed è lei stessa a spiegare questo progetto, che è quanto mai necessario per chi, come me, deve ricostruirsi un futuro. “La convenzione tra l’Università e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria risale al dicembre 2003: all’inizio si trattava fondamentalmente di un’attività di volontariato da parte di nostri docenti, alcuni dei quali in pensione” racconta la professoressa Francesca Vianello, “Iniziammo con due-tre studenti e oggi ne abbiamo oltre sessanta, con corsi di laurea come Giurisprudenza, Psicologia, Agraria ed Economia. Un’iniziativa che nasce per rendere effettivo il diritto all’istruzione come forma di rieducazione e di reinserimento sociale, in teoria garantito a ogni detenuto, ma di fatto quasi impossibile da esercitare. Operazione tutt’altro semplice, quella di organizzare in un luogo di reclusione un vero e proprio ateneo: implica infatti che sia riconosciuto e garantito l’accesso alle strutture per docenti e materiali, formare specifiche commissioni d’esame e di laurea e infine mandare regolarmente tra le sbarre decine di studenti a fare da tutor ai loro colleghi detenuti. Ma sembra essere una necessità: ogni anno riceviamo circa 200 domande per solo una cinquantina di posti disponibili”. Che ruolo giocano l’istruzione e il lavoro nel percorso penitenziario? Quali sono i punti positivi e cosa invece va migliorato? “È punto cardinale nel percorso di un detenuto lavorare e formarsi. In questo àmbito, come per altri in Italia c’è grande discrepanza tra realtà e ciò che viene definito a livello normativo, dove in teoria saremmo all’avanguardia. Mancano sicuramente risorse, ma la questione sta anche nella dimensione strutturale del carcere come luogo incentrato sulla propria sicurezza interna. Anche nella Casa di Reclusione di Padova, considerata un modello a livello nazionale, quasi metà della popolazione carceraria non studia, non lavora e non si forma. A frequentare corsi e attività sono sempre le stesse persone, quelle con maggiore capacità di adattamento e di relazione, mentre stranieri, tossicodipendenti e malati psichiatrici fanno grande fatica”. Continuano anche quest’anno i suicidi: perché in carcere si continua a morire? “Ogni suicidio nasconde una storia personale: di fatto però in carcere i suicidi sono 17 volte più della media nazionale. A concorrere sono più elementi: certamente si tratta di una popolazione più vulnerabile, che spesso presenta già all’ingresso nella struttura problemi di salute o di dipendenze; incidono poi anche le condizioni in cui si vive. Abbiamo appena superato i 66.000 detenuti: una situazione analoga a quella che nel 2013 aveva portato alla condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti Umani. Senza contare la grave carenza di medici, educatori e operatori: vi è un agente di polizia penitenziaria ogni due detenuti, il numero più alto in Europa, e solo un funzionario giuridico pedagogico ogni 100 detenuti, in alcuni istituti appena uno ogni 200. In queste condizioni non è umanamente possibile svolgere un lavoro di osservazione e di cura individuale. Non meno importante delle altre questioni, è che oggi manca anche la speranza. Dopo la condanna della Cedu erano state prospettate riforme importanti: può sembrare un dettaglio ma il clima esterno è essenziale per chi vive costantemente privato della propria libertà. Poi però, come spesso accade, la montagna ha partorito un topolino: tante cose non sono state fatte, per molti versi anzi si è tornati indietro. Quanto conta anche la formazione del personale carcerario? I recenti episodi di torture e pestaggi fanno pensare… “Sono vicende dolorose, una brutta pagina delle istituzioni ma teniamo presente che la polizia penitenziaria negli ultimi anni è cambiata: molti agenti oggi sono laureati, oltre che formati e sensibilizzati sia sulla dimensione costituzionale della pena, sia su tipologie di intervento non più rivolte esclusivamente alla sicurezza ma anche ad agevolare il trattamento. Il problema non è tanto l’aspetto punitivo della pena, quanto la sua dimensione degradante: Massimo Pavarini, studioso italiano e certamente uno dei massimi studiosi del mondo delle istituzioni carcerarie diceva che la pena è anzitutto degradazione di status. I processi di infantilizzazione e disculturazione forse sono superabili, ma probabilmente non all’interno di questo tipo di strutture”. Si può pensare anche a una soluzione diversa dal carcere? “Certamente. La reclusione, per la sua stessa organizzazione interna e per la continua contrapposizione tra sorveglianti e sorvegliati, è una situazione che produce naturalmente processi come quelli accennati. Da osservatrice dell’associazione Antigone dico che gli istituti dove ci sono più attività e più lavoro sono anche quelli dove gli agenti vivono e lavorano meglio, tra l’altro con meno sindromi da burnout da gestire. Ad ogni modo la carcerazione continua a produrre degradazione sociale: non solo per i detenuti, ma anche per le altre persone che ci lavorano o lo frequentano”. Piacenza. Convegno alla Cattolica: “Il carcere fra sovraffollamento e riscatto sociale” di Filippo Lezoli cattolicanews.it, 20 maggio 2024 “Non è presente nell’agenda politica. Il carcere non porta voti”. Fulvio Fulvi, giornalista di Avvenire ospite al Collegio Sant’Isidoro della sede piacentina dell’Università Cattolica, introduce così l’incontro “Cosa c’è dietro le sbarre? Il carcere tra sovraffollamento, salute e riscatto sociale”, organizzato nell’ambito di “Avvenire in Campus”, progetto che coinvolge firme illustri del quotidiano di ispirazione cattolica e personalità del mondo dell’informazione. Davanti ai molti giovani intervenuti, Fulvi ha portato i numeri allarmanti che disegnano il quadro del sistema carcerario italiano. “Sulle 61mila persone che sono detenute nelle carceri italiane - dice - 19mila sono immigrati. Si contano più di 60 nazionalità. Solo 6.200 persone hanno avuto una condanna definitiva, il 10% del totale. Dei 61mila, 25mila hanno pene fino ai tre anni, minime: perché allora non pensare a strutture ad hoc per detenuti con pene basse? Potrebbero essere meglio aiutati a reinserirsi fuori dal carcere”. Il dato dei suicidi impressiona, dice Fulvi: “Nel 2022 ce ne sono stati 84, nel 2023 sono stati 69 e, fino a ieri, 35 nell’anno in corso”. La presenza di Maria Gabriella Lusi, direttrice del carcere alle Novate, ha consentito di fare il punto anche sulla situazione della casa circondariale piacentina. Non prima, però, di avere incassato i complimenti di Fulvi. “Sono abituato a muovermi per diverse carceri italiane e la situazione che ho riscontrato a Piacenza è migliore rispetto a molte altre da me osservate” afferma il giornalista di Avvenire. Il sovraffollamento, ad esempio, che su scala nazionale è uno dei maggiori problemi delle carceri, a Piacenza con 399 detenuti su di una capienza massima di 416 posti “è tenuto sotto controllo” afferma la direttrice Lusi. Detto che alle Novate sono 229 gli agenti di polizia penitenziaria, poco sotto i 250 previsti dall’organico, e che il 70% dei detenuti è straniero, Lusi spiega che per un carcere è fondamentale essere parte del territorio in cui è inserito, non qualcosa di avulso. “L’istituto deve interagire con il territorio circostante - afferma - e noi stiamo crescendo insieme a quello piacentino. Il carcere può aiutare la società, restituendo persone non più pericolose, rispettose delle regole e degli altri cittadini”. La direttrice cerca anche di abbattere qualche luogo comune. “Il carcere - dice - non è un luogo statico, un posto dal tempo sospeso”. È sufficiente l’arrivo di un detenuto problematico, spiega, per attivare tutta una serie di conseguenze. “Per ridurre il rischio suicidario - continua - fatto tra l’altro in crescita anche nella società libera, a Piacenza stiamo lavorando molto sull’accoglienza dei “nuovi giunti” e sulla dimissione dei detenuti. La presa in carico è sempre condivisa fra ispettore, medico, psicologo, criminologo, educatore. È importante conoscere le persone ed è giusto che il detenuto abbia la sensazione che qualcuno si stia prendendo cura di lui”. “L’immagine del carcere come luogo dove il detenuto si spegne non è corretta - sostiene ancora Lusi - ritengo occorra invece partire dalla vita, o meglio, dalla vitalità di chi lo frequenta, siano essi i detenuti, chi vi lavora, fino a chi lo dirige. Se non partiamo da lì, non raggiungiamo alcun obiettivo”. E di vita parlano ad esempio le numerose attività svolte nella casa circondariale di Piacenza, fra cui le “fragole del carcere” coltivate grazie alla cooperativa “Orto Botanico” e il laboratorio di scrittura autobiografica. A questo si collega Carla Chiappini, giornalista e membro dell’Associazione Verso Itaca, che da 24 anni si occupa del tema e che in sedici istituti si è occupata di scrittura autobiografica. “Mai come oggi si parla tanto del carcere - assicura Chiappini - lo si fa però spesso senza andare in profondità nelle questioni affrontate”. Sarebbero tante, dice la giornalista, che ne cita tre. “A Parma lavoro con alcuni ergastolani ostativi - dice - occorrerebbe confrontarsi sulle azioni per rieducare persone che non usciranno più dal carcere. Andrebbe inoltre affrontata la questione legata ai detenuti iscritti all’università: può una persona privata temporaneamente della libertà raggiungere gli standard richiesti all’esterno? E poi c’è il tempo vuoto, definito dall’ex garante nazionale una tortura”. Modena. Si è conclusa la quinta edizione del Festival della Giustizia Penale di Jacopo Gozzi Il Resto del Carlino, 20 maggio 2024 Con 2.500 presenze e oltre 15.000 visualizzazioni online che andranno a crescere nei prossimi mesi grazie alle registrazioni degli incontri disponibili sui canali digitali della manifestazione, la quinta edizione del Festival della Giustizia Penale, che si è conclusa ieri mattina al Teatro San Carlo, è stata un successo. La manifestazione articolata tra Modena, Carpi, Sassuolo e Pavullo ha coinvolto una serie di relatori del calibro di Giuliano Amato, Roberto Formigoni, Beniamino Zuncheddu e Francesca Scopelliti, con interventi tecnici e divulgativi che hanno trattato il tema della vita e della morte nella Giustizia penale. La conferenza conclusiva di ieri mattina si è composta di due tavole rotonde: la prima dedicata al tema dello Stato di Diritto, giustizia penale e realtà carceraria, la seconda rivolta a una serie di riflessioni su intelligenza artificiale e dignità della persona. Per i saluti istituzionali, vista l’assenza del ministro Nordio, si è collegato il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, che ha avuto un deciso scambio di battute con il Procuratore Generale Emerito presso la Suprema Corte di Cassazione, Giovanni Salvi. Quest’ultimo, infatti, ha elogiato la massiccia campagna di assunzioni di cancellieri mediante concorsi, per aumentare gli organici amministrativi, avviata dall’ex-ministro della Giustizia Orlando - presente in sala in quel momento - e poi proseguita dalla Mmistra Cartabia, dopo venticinque anni di discussioni sul tema senza alcuna conseguenza concreta. A quel punto, il viceministro Sisto è intervenuto puntualizzando: “Anche il ministro Nordio ha fatto molto in termini di assunzioni del personale amministrativo nel settore giustizia, non hanno agito solamente Orlando e Cartabia in questo senso. Questo è il ministero che ha svolto più assunzioni negli ultimi 50 anni, è un dato oggettivo. Le assunzioni sono state massicce: oltre duemila agenti di polizia penitenziaria e abbiamo colmato i ruoli di tutto quello che è assistenza nei confronti dei detenuti”. La seconda e ultima tavola rotonda, co-organizzata come la prima dalla Fondazione Vittorio Occorso, è stata animata dalle parole di Padre Paolo Benanti, presidente dalla Commissione sull’Intelligenza Artificiale della presidenza del Consiglio dei ministri, che ha discusso di etica di AI in Europa. Al termine delle conferenze, gli organizzatori hanno dichiarato che questa edizione ha superato ampiamente le aspettative e hanno annunciato di essere già al lavoro per programmare la prossima. Il tema della kermesse del 2025, che non è ancora stato definito, sarà reso noto nei prossimi mesi. Torino. Al Salone del libro abbiamo portato la contro-narrazione sulla giustizia di Giacomo Puletti Il Dubbio, 20 maggio 2024 Test ai magistrati, gogna mediatica, casi giudiziari. Ma anche carceri al collasso, diritti umani, fine vita. Di tutto questo e di tanto altro si è parlato durante i quattro giorni di stand del Dubbio alla trentaquattresima Libro di Torino, con la partecipazione di esperti del settore, politici e giornalisti. E di tanti curiosi e visitatori del Salone, che si sono fermati per assistere agli incontri, ai dibattiti, alle interviste. E che hanno apprezzato l’installazione di una finta gogna mediatica alla quale tutti potevano sottoporsi, per provare sulla loro pelle cosa significa essere sbattuti in prima pagine per inchieste che poi spesso finiscono, magari dopo anni, nel nulla. Nella prima giornata è stato sicuramente il panel sui test ai magistrati a raccogliere maggiore attenzione da parte del pubblico, con il dibattito moderato da Valentina Stella tra la vicepresidente del Senato ed esponente dem, Anna Rossomando, il responsabile Giustizia di Azione, Enrico Costa, l’ex procuratore Armando Spataro e lo psichiatra Fabrizio Starace. Da posizioni nettamente divergenti, politica e magistratura si sono confrontate su un tema spinoso ma sul quale il dialogo è quantomeno necessario. Subito dopo è stato presentato il progetto della finta gogna, intitolato Processo mediatico: il “colpevole” sei tu! con la partecipazione di Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora, e Marco Sorbara, ex assessore regionale in Valle d’Aosta rimasto in carcere per più di 900 giorni prima di venire assolto da qualsiasi accusa. E stato poi Mauro Palma, ex Garante dei detenuti, il protagonista del panel sull’importanza di fermare la strage dei suicidi in carcere, questione che sta diventando sempre più tragica ogni anno che passa. La giornata si è conclusa con lo spettacolo “Nasrin e Narges. Carcere di Evin. Sezione 209” messo in scena dalla compagnia teatrale Attori&Convenuti e che racconta un dialogo immaginario tra Nasrin Sotoudeh, avvocata più volte imprigionata dal regime iraniano, e Narges Mohammadi, premier Nobel per la Pace nel 2023; e con la presentazione del libro Avvocati di guerra del giornalista del Dubbio Gennaro Grimolizzi. Il quale il giorno dopo ha moderato il primo dibattito di giornata su giustizia e giustizialismo tra l’avvocato Mattia Grassani, Stella Frascà, consigliere federale Figc e in commissione Diritto dello sport Cnf) e l’avvocato Salvatore Crimi, consigliere del Coa di Torino e coordinatore commissione Diritto Sportivo. E mentre decine di persone si facevano immortalare nella finta sala fotografie di una questura per poi finire nella fittizia prima pagina de La Gogna, la giornata è proseguita parlando di giudizi robot, con il vicepresidente della Fai Vittorio Minervini e la professoressa del Politecnico di Torino Tatiana Tommasi, e della necessità di progettare carceri umane, con gli architetti Federica Sanchez e Cesare Burdese e l’avvocata Elisabetta Brusa. Lo stesso Burdese hapi dialogato di affettività in carcere con l’avvocato del Coa di Torino Antonio genovese, prima che l’intervista a Silvia Jop, nipote di Franco Basaglia e Franca Ongaro, chiudesse la giornata ricordando i 100 anni dalla nascita del grande neurologo. E stato tuttavia il sabato a prendersi la scena con il maggior numero di panel e approfondimenti, dapprima con Silvana Arbia, ex magistrata alla Corte penale internazionale, e un incontro sul manifesto del Ccbe per la politica, con Rossomando a Daniela Giraudo, capodelegazione al Ccbe e consigliera del Cnf. Spazio poi all’incontro- scontro (sempre nel rispetto dell’“avversario”) tra monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontifica Accademia per la vita, e Lorenzo d’Avack, già presidente del Comitato nazionale per la bioetica. Un lungo confronto, moderato da chi scrive, sul fine vita, dai casi Welby, Englaro e dj Fabo fino alle recenti sentenze della Corte costituzionale in materia e le difficoltà del Parlamento nel legiferare della questione. Due casi giudiziari balzati alle cronache negli ultimi anni e che hanno occupato le colonne dei giornali per mesi hanno poi tenuto banco nella seconda parte di giornata. Dapprima con l’intervista di Simona Musco ad Alessia Pontenani, avvocata di Alessia Pifferi pochi giorni fa condannata all’ergastolo in primo grado per l’omicidio della figlia di 18 mesi. Poi con la presentazione del libro Il lupo di Bibbiano di Luca Bauccio, avvocato di Claudio Foti, lo psicoterapeuta, presente al panel, reso celebre suo malgrado dal tanto discusso, e poi smontato nelle aule di tribunale, caso Bibbiano. Decine di persone hanno assistito alla versione dei fatti raccontata da Foti, ben diversa da quella pubblicata per anni su molti giornali e sponsorizzata da una certa politica. Per finire, Rocco Vazzana ha intervistato il gip Guido Salvini, di recente andato in pensione, con il quale ha discusso di separazione delle carriere e del funzionamento generale della giustizia nel nostro paese, con spunti a dir poco interessanti. In chiusura, domenica si è parlato di vite reali e vite immaginarie, passando per il metaverso e le identità digitali con l’avvocato Giuseppe Vitrani, consigliere del Coa di Torino, prima di un faccia a faccia sul processo mediatico con l’avvocato Giovanni Berti Arnoaldi Veli. Il gran finale - Gran finale poi con la premiazione della quarta edizione del Premio letterario per la giustizia, promosso dal Dubbio e dalla Fai, nelle rispettive sezioni poesia, racconti brevi e romanzi. Anche in questo caso sentita partecipazione da parte del pubblico, fino al brindisi finale che ha suggellato una quattro giorni ricca di spunti di riflessione sulla giustizia, la politica, il mondo del carcere e il tema più ampio dei diritti, da sbattere, come sempre e come da slogan del nostro giornale, in prima pagina. Gli italiani verso le elezioni europee, vince la voglia di pace di Lorenzo Castellani Il Domani, 20 maggio 2024 Il Cise, Centro studi elettorali della Luiss, ha appena pubblicato uno studio demoscopico di grande interesse per la campagna elettorale delle europee. In un clima in cui il dibattito stenta a decollare, lo studio offre spunti per cercare di cogliere dinamiche potenzialmente decisive per l’esito elettorale che restano sotto traccia. Il Cise, Centro studi elettorali della Luiss diretto dallo scienziato politico Lorenzo De Sio, ha appena pubblicato uno studio demoscopico di grande interesse per la campagna elettorale delle europee. In un clima in cui il dibattito stenta a decollare, lo studio offre spunti per cercare di cogliere dinamiche potenzialmente decisive per l’esito elettorale che restano sotto traccia. Il sondaggio registra un’opinione pubblica in generale a favore della giustizia sociale sul tema della redistribuzione del reddito verso i redditi più bassi (82 per cento), ma al tempo stesso decisamente conservatrice sull’immigrazione (il 64 per cento è per limitarla); saldamente a favore della partecipazione dell’Italia alla Nato e all’Unione europea, anche se a fronte di un largo 72 per cento per restare nella Nato, si registra soltanto un 65 per cento favorevole a restare nella Ue. E, sempre su temi di politica internazionale e anche qui con qualche contraddizione, emerge anche una netta prevalenza di posizioni pacifiste: il 79 per cento è per spingere Israele a fermare l’intervento a Gaza, e il 64 per cento è a favore di negoziati tra Russia e Ucraina, anche se dovessero comportare il riconoscimento dei territori invasi dalla Russia. Anche se questi orientamenti si abbinano a una lieve maggioranza favorevole a un esercito comune europeo, su un tema che comunque rimane divisivo (53 per cento a favore contro 47 per cento contrario). Si potrebbe dire che gli italiani accettino la difesa e la politica di sicurezza, ma non ne vogliano sapere di guerre e di forme indirette di partecipazione alle stesse, come per altro gran parte degli altri europei quando si guarda ai sondaggi dei nostri vicini. Giustizia e diritti - Altrettanto divisivo è il tema della giustizia (54 per cento per mantenere i poteri della magistratura, contro un 46 per cento per ridurli), una divergenza che si esacerba in tempi di inchieste giudiziarie sulla politica. Sul tema dell’aborto, recentemente riportato nel dibattito pubblico dalla proposta di ingresso dei movimenti antiabortisti nei consultori, si registra invece una maggioranza abbastanza netta di contrari (67 per cento), segno che anche nell’elettorato di destra non c’è poi un grande afflato reazionario, appannaggio di minoranze nella attuale maggioranza. Infine, la tensione tra sviluppo economico e protezione ambientale vede in maggioranza i sostenitori di quest’ultima, ma in un contesto comunque diviso (58 per cento contro 42 per cento) che rende difficile capire quale sia il grado di ambientalismo accettabile per la maggioranza degli elettori. Destra e sinistra - È interessante il quadro che emerge anche quando si guarda alle opinioni degli elettori dei maggiori partiti. A destra, Forza Italia e Fratelli d’Italia non si discostano troppo tra di loro: crescita economica, limitazione dell’immigrazione, peso dell’Italia nell’Ue, permanenza nella Nato e riforma della giustizia sono, pur non nello stesso ordine, ai vertici delle preoccupazioni di questi elettorali. Anche chi vota Lega mostra priorità simili ma con una diversa posizione rispetto all’Unione europea, col 63 per cento favorevole a uscire dall’euro, e alla permanenza nella Nato, che non rientra nelle priorità. Ma anche a sinistra emergono spaccature. Il Pd è saldamente ancorato al progressismo culturale e tra le priorità compaiono: continuare nell’accoglienza attuale degli immigrati, rimanere nella Ue, mantenere i poteri della magistratura, negare ai movimenti antiabortisti l’ingresso nei consultori, rimanere nella Nato. Più indietro i temi economici. All’opposto è l’elettore del Movimento 5 stelle, dove in cima alle preoccupazioni si attestano la riduzione delle differenze di reddito e la riduzione della povertà. Seguono poi il voler mantenere i poteri della magistratura, la posizione pacifista sull’intervento israeliano a Gaza, i temi ambientali. Più indietro la permanenza nell’Ue invece. A sinistra, più che a destra, c’è una scarsa coincidenza di priorità: soltanto la difesa della magistratura è nelle prime cinque priorità dell’elettore del Pd e di quello del Movimento 5 stelle. Di qui le difficoltà politiche, culturali ed elettorali del campo largo. La campagna elettorale - In conclusione, lo studio del Cise è importante per analizzare le prossime settimane di campagna elettorale perché mostra quali sono i temi portanti di ciascun elettorato. Dunque, chi saprà portare al centro del dibattito ciò che è ritenuto centrale dagli elettori della propria area potrà ottenere maggior consenso e dettare l’agenda agli partiti. Naturalmente questa dinamica andrà integrata da altri fattori: leadership e credibilità del candidato agli occhi degli indecisi e soprattutto mobilitazione dei propri elettori. La vera variabile difficile da controllare è proprio quella dell’affluenza, spesso decisiva nel disegnare gli equilibri. Alle Europee del 2014, con bassa affluenza, i sondaggi sottovalutarono molto il Pd di Matteo Renzi; mentre alle Europee del 2019 i sondaggi sottovalutarono la Lega di Salvini e sopravvalutarono molto il Movimento 5 stelle. Sarà interessante valutare se nel 2024 finirà come nelle due tornate precedenti, cioè con diversi punti percentuali di consenso che si spostano in modo sotterraneo, o se questa volta studi e sondaggi più approfonditi riusciranno a fotografare meglio l’elettorato. L’Occidente in decadenza, il Papa e i giorni dell’odio di Andrea Malaguti La Stampa, 20 maggio 2024 “Che epoca terribile quella in cui degli idioti governano dei ciechi” - Shakespeare, Re Lear. I ciechi siamo noi. Parto da una cosa che ha detto ieri Papa Francesco. A Verona. Davanti a trentamila persone. C’era anche molto Piemonte con lui, molta Torino. Da don Ciotti a Carlin Petrini. Si parlava di pace, parola diventata bestemmia, come se evocarla fosse già un tradimento, come se volesse dire abbandonare gli ucraini al proprio destino o negare il diritto all’autodifesa dello stato di Israele, se non addirittura la sua natura, il suo sacrosanto - non negoziabile - diritto di esistere. Come se fosse una rinuncia a valori che ci scivolano tra le dita, che non capiamo più, mentre mancano tre settimane alle elezioni europee e il sangue e la violenza ci inseguono dalla Slovacchia a Berlino, dalla Svezia a Parigi. Il Papa, dicevo, e la sua frase davanti a una comunità in cerca di bussola. “La cultura marcata dell’individualismo è la radice delle dittature”. L’uomo che vale più del progetto. Ho scartato Meloni (non riesco a credere a un rischio di ducismo nostrano) e ho pensato a Putin e a Kim, il dittatore nordcoreano che si crede dio. Poi a Orban. A Xi. A Modi. Giudici monocratici dell’esistenza di miliardi di esseri umani. Persino - con un involontario moto di autocensura - a Robert Fico, sospeso tra la vita e la morte dopo l’agguato vigliacco di uno pseudo-poeta, Juraj Cintula, pacifista con la pistola, sintesi perfetta di un tempo che con il senso di umanità ha perso anche il senso di sé. Gavrilo Princip in sedicesimi, fanatico tra fanatici, lupo non più solitario in un Continente che ha fatto dell’estremismo, della polarizzazione e dello scontro da stadio, il sottofondo sempre più sgradevole e rumoroso di queste settimane cupe, in cui le grandi masse dormono, annoiate e assenti, e un manipolo di esagitati riscrive le nostre agende. Non eravamo abituati ai colpi di pistola prima del voto. E se vi state chiedendo se quegli spari arrivassero da destra o da sinistra, vi state facendo la domanda sbagliata e fate anche voi parte dell’inganno. Ora che l’hanno ferito, nell’istante esatto in cui gli si augura tutto il meglio, è ancora possibile dire che Robert Fico rappresenta un universo valoriale (e bisogna essere molto generosi a metterla così) che ha poco o niente a che vedere con l’Europa sognata a Ventotene? Ma, soprattutto, che cosa è rimasto di quell’Europa, se in Germania, Maximilian Krah, “spitzenkandidat” dell’Afd, partito di ultradestra alleato di Matteo Salvini, dice a Tonia Mastrobuoni di Repubblica che “le SS non erano tutte criminali”? Si è rotto un argine. Qualunque delirio viene spacciato per libero esercizio democratico. E se succede è perché qualcuno lo avalla. Qualcuno ci crede. Qualcuno condivide. Abbiamo liberato i nostri mostri e la piena della follia rischia di travolgere tutti. L’Italia dove sta in tutto questo? Giorgia Meloni che ruolo gioca? Moderata amica di Biden e Von der Leyen o pasionaria abascaliana, orgogliosa di inviare il suo caloroso messaggio, proprio oggi, alla convention di Vox, ritrovo aggressivo di nostalgici e ultraconservatori di ogni latitudine? Qual è la distanza ideale che divide la nostra premier da Orban, da Fico e da Abascal? Quanto ci avvicina a loro la triplice riforma di giustizia, autonomia regionale e carta costituzionale che la maggioranza impasta come un pane avvelenato? Stiamo scivolando su un piano inclinato e non si vede l’ombra di un’opposizione in grado di fermare il precipizio. Perché la sinistra, i progressisti, i centristi, non sono si sono mai chiesti davvero quando la democrazia ha cominciato ad essere considerata una merce scadente e ha lasciato il campo ai leader forti? In Europa le aggressioni nei confronti dei politici sono triplicate nell’ultimo mese. Il capo del governo polacco, Donald Tusk, è stato minacciato di morte. Non è una buona notizia per nessuno. “Le persone sono in crisi, frustrate, si sfogano con chi dovrebbe rappresentarci. E le dichiarazioni populiste di politici anche seri inaspriscono il clima”, ha detto Ursula Munch, direttrice dell’Accademia per l’educazione politica di Tutzing, in Baviera, al nostro Marco Bresolin. Quello che qualunque analista vede e racconta lascia indifferente la collettività. Guardiamo la vita come se fossimo al cinema. Ci odiamo da soli e ci facciamo odiare dal mondo, che detesta da sempre la superbia e l’arroganza occidentali, il nostro senso di superiorità, i nostri privilegi (non importa se ottenuti in larga parte in modo più che legittimo) e oggi ci vede deboli, confusi, divisi, quindi facilmente aggredibili. È l’ora di saltarci addosso e noi affrontiamo la sfida in alcolico ordine sparso. “Che epoca terribile quella in cui degli idioti governano dei ciechi”. Continuiamo a credere al nostro primato, alle piccole patrie, al nazionalismo salvifico, incapaci di affrontare questioni globali destinate a rovesciare gli equilibri economici e quelli geopolitici. Le corse solitarie contano più dello sguardo condiviso, il richiamo della cabina elettorale suona vuoto nella testa di un avente diritto su due. Non è uno scenario deprimente, è uno scenario pericoloso, che lascia nelle mani di pochi il destino di tutti. “Chi ricopre un ruolo di responsabilità rischia di sentirsi investito del compito di salvare gli altri, come se fosse un eroe. Questo avvelena l’autorità”, ha aggiunto Papa Francesco a Verona. Frase inaspettata, che mi ha fatto tornare in mente un incontro avuto con Meloni qualche mese fa, a Palazzo Chigi. Era evidentemente stanca. Si è aperta. Con quel modo che ha lei di creare un istantaneo senso di empatia anche in chi condivide poco o nulla di quello che pensa. “Io non mollo, ma questo è un Paese che non vuole farsi salvare”. Uno sfogo, certo. I premier non salvano, guidano pro-tempore. Un modo di dire, forse. Che ieri mi è tornato tra i pensieri mentre guardavo Carlin Petrini baciare sulle guance il Pontefice e di fianco a lui due giovani imprenditori, uno israeliano e uno palestinese, abbracciarsi platealmente per dimostrare a chiunque che l’idea del nemico, il bisogno di guerra e il richiamo della violenza, sono semplicemente costruzioni malate della nostra mente. Patetico buonismo? “Un gesto potente”, mi dice Carlin Petrini mentre torna in macchina verso le Langhe. La fotografia di un sabato per la Pace in cui Francesco rimette al centro la politica dei temi contrapponendola all’arrembaggio truffaldino dei candidati bandiera, figurine buone a prendere i voti da consegnare ad altri. “Francesco ha parlato di lavoro, diritti, immigrazione, ambiente, disarmo. Questioni centrali. Alte. Potenti”. E la politica? “La politica, alla vigilia delle europee, dà un senso di sbandamento generale. Io sono molto preoccupato dall’astensionismo. Se aumenta ancora faremo fatica a pensarci una democrazia. In questo contesto le derive rischiano di essere patologiche. Quello che abbiamo combinato con la dichiarazione europea sui diritti Lgbtq+ è incredibile. Ma dove stiamo arrivando?”. Mi verrebbe da rispondergli: siamo due Paesi, Carlin. Sta sparendo il collante sociale. Da una parte la ministra Roccella, i pasdaran del “vi diciamo noi come dovete vivere”, quelli che la pensano come Vannacci ma giurano di no. Dall’altra il presidente della Repubblica, Mattarella, noi partigiani della riconciliazione. “L’intolleranza per il diverso, l’indifferenza di fronte alle compressioni delle altrui libertà, costituiscono lacerazioni alla convivenza democratica. L’Italia non è immune da episodi di omotransfobia”. Io sto con Mattarella. E anche con Bertrand Russell: “In etica, come in altri campi del pensiero umano, ci sono due tipi di opinione: quelle rette sulla tradizione e quelle che hanno qualche probabilità di essere giuste”. Chi può credere, davvero, che l’aborto, l’eutanasia, gli orientamenti sessuali possano essere oggetto di un dibattito politico? In Europa pochissimi. Noi, l’Ungheria o la Slovacchia ci crediamo, ormai consegnati all’esercizio, chissà quanto inconscio, di un potere plebeo, che si comporta come tale, conoscendo perfettamente la lingua, l’anima e i pensieri di coloro ai quali toglie a libertà. È come se il nostro povero Paese avesse una dipendenza da una sostanza che da tempo non le dà più piacere, ormai sprofondato in un’oscurità senza rive. La prospettiva della pace: trovare le chiavi della convivenza di Andrea Riccardi Avvenire, 20 maggio 2024 In pochi anni, è avvenuto un cambiamento profondo: la pace è scivolata via dai dibattiti internazionali. In primo piano c’è la guerra. Si considera spesso la pace come un’aspirazione da “anime belle”, a volte apprezzate per l’ingenuità, a volte disprezzate o accusate di complicità con chi invade, fa la guerra e via dicendo. In qualche anno, si è formato questo pensiero prevalente dal sapore amaro, ma che si vuole realista. L’aggressione russa all’Ucraina è stato il punto di svolta. Da allora la prospettiva è combattere o aiutare a combattere. Del resto, la resistenza ucraina ai russi s’è imposta per forza e sacrificio. La prospettiva della pace è oscurata da tante guerre. Il brutale attacco terroristico di Hamas a Israele e il rapimento degli israeliani hanno innescato una rappresaglia che non trova fine. Il mondo è in guerra su vari fronti. Merita ricordare la guerra interna al Sudan, con grave danno della gente, costretta alla fame o a lasciare le proprie case. In Africa, il terrorismo islamista provoca dolori e conflitti: Sahel, Mozambico e altrove. Il Kivu, in Congo, è terra di scontro tra Stati africani. La guerra è ormai uno strumento per affermare i propri interessi. Addirittura - è il caso degli islamisti - si fa la guerra per esistere e allargare l’influenza. Di fronte a questo, come sfuggire al ricatto della guerra se non aumentando l’apparato militare? In queste settimane, in Europa si è riflettuto sulla capacità dell’Unione di difendersi e di produrre autonomamente armi, anche nel caso di scelte isolazioniste americane. A questo, si aggiunge la crisi delle istituzioni internazionali, come l’Onu, luogo principe di composizione dei conflitti, ma pure memoria di un “bene comune” internazionale. Quale futuro per un mondo che ha retrocesso la pace a sogno improbabile? Ogni guerra è diversa. Prendiamo il caso dell’Ucraina, oggi in difficoltà nella risposta militare ai russi. Macron ha parlato di possibile intervento francese nel Paese. I russi hanno di nuovo ventilato la minaccia atomica. Parole? Forse, ma dalle parole è facile scivolare ai fatti, cioè a un conflitto più largo che coinvolga l’Occidente. Finora non è avvenuto, ma è possibile un incidente, seppure gli apparati militari e di intelligence si parlano. Ogni giorno si rischia. Un’affermazione russa in Ucraina provocherebbe un impegno (diretto) dell’Occidente. La distruzione di Gaza e lo sradicamento di Hamas non hanno risolto il problema dei palestinesi, per il cui Stato non sembra esserci spazio nell’ex Palestina. Questa situazione produrrà nuovi conflitti o terrorismo. È l’eternizzazione dei conflitti nell’attuale situazione geopolitica. In Kivu da vent’anni si combatte e siamo alle soglie di una guerra più grande. Per uscire dal tunnel (o da più tunnel), occorre tornare a parlare di pace. La pace non è mai perfetta. Ma bisogna mettere la pace al centro dell’agenda internazionale. Gli Stati Uniti, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali, non sono nel momento migliore per un’azione simile, ma c’è bisogno di loro. La Cina, legata alla Russia, ma anche desiderosa di un mondo tranquillo, ha un grande compito con il suo alleato. L’Unione Europea, sfidata da una guerra alle porte, non riesce a trovare il passo di una diplomazia lungimirante. Bisogna moltiplicare l’iniziativa diplomatica, creare contatti, rompere l’isolamento (che porta a visioni distorte), esplorare le prospettive dei vari attori, trovare convergenze. Lo si deve fare, perché non si può vivere sempre in guerra. Non lo possono gli ucraini, che stanno pagando un prezzo enorme in vite, emigrazione, distruzioni. La pace non è facile, ma bisogna assumerla come prospettiva: un ribaltamento della cultura di guerra. Questo è il desiderio, sovente inespresso, di tanti popoli. Eredità della storia per gli europei, che dovrebbero ricordare gli orrori della Seconda guerra mondiale e la Shoah. Sul ripudio di quella storia, è stata realizzata la ricostruzione democratica in Italia e in Germania. Nell’odierno caos internazionale, niente è scontato. Classi dirigenti o leader, chiusi in un’ottica nazionalista, devono essere aiutati a maturare una migliore intelligenza dell’interesse del proprio Paese. Infatti la sicurezza di uno Stato o di un popolo è soprattutto la pace. La guerra è un ingranaggio che si perpetua: non risolve le crisi ma le rinfocola preparando nuovi conflitti. C’è l’esigenza invece di ricostruire l’ordine internazionale, includendo i vari attori con le loro differenti prospettive. È difficile compiere tale operazione in un mondo così multipolare, tra soggetti spesso dotati di forza economica e militare, ma è necessario. È la grande politica di cui c’è necessità. Abbiamo bisogno di statisti lungimiranti che non cerchino solo di aver ragione oggi, ma trovino le chiavi della convivenza futura. Olio di ricino digitale di Walter Veltroni Corriere della Sera, 20 maggio 2024 Il caso della bimba malata di tumore derisa da pochi hater. Ma è il momento di porsi delle domande. Asia, una bambina di 14 anni malata di tumore al rene, ha ricevuto un messaggio dal capo dello Stato che, in un tempo civile, non avrebbe mai dovuto raggiungerla. Sergio Mattarella ha voluto, con la sensibilità che gli è propria, scriverle allo scopo di consolarla per gli attacchi ricevuti sui social. “‘Sta pelata”, “Non ti odio ma lo sai che le persone sono tue amiche solo per il cancro di Wilms o cosa hai?”, “Spero che ci rimani, in ospedale” e via dicendo. Abbiamo visto recentemente video di persone che, di fronte al ferito di un incidente stradale, facevano selfie. O abbiamo letto degli insulti in rete a Liliana Segre. Va detta una cosa, come avvertenza. Come al solito rischiamo di vedere la paglia e non la trave. La paglia sono le poche centinaia di persone che diffondono odio a piene mani, che sfogano la loro frustrazione insultando e augurando il male, che si accaniscono contro chi muore. Ci sono sempre stati. Qualcuno ricorderà, era nel millennio scorso, quando Radio Radicale lasciò aperta la sua segreteria telefonica e giunsero lì valanghe di improperi, insulti, minacce. È paglia perché sono pochi e non dobbiamo, davvero non dobbiamo, pensare che rappresentino la maggioranza degli italiani. La loro violenza e rumorosità, la loro sfrontatezza li rende appetibili anche per i media tradizionali e così il loro pensiero, fatto di puro gergo dell’odio, si trasforma da periferico in centrale, quasi un nuovo “spirito del tempo” che si autoalimenta del proprio livore e viene legittimato come pensiero dominante. Sono minoranze, assolute minoranze, e non c’è nulla di più pericoloso, in una democrazia, che trasformare, poco importa che lo faccia la politica o la comunicazione, un linguaggio di odio praticato da pochi nel presunto pensiero generale di un Paese. La dittatura delle minoranze si afferma così e quella a cui stiamo assistendo è l’era dell’egemonia del linguaggio estremo, con la sua permanente visibilità, che schiaccia la cultura del dialogo e della complessità, la pacatezza e il riferimento a valori che hanno direttamente a che fare con il senso di umanità. Sono pochi, i leoni da tastiera, nascosti dietro nomignoli ridicoli e un anonimato da furfanti, insultano le bambine malate o le donne che sono state nei campi di sterminio. Pochi, non dimentichiamolo e teniamoli dove devono essere, nel discorso pubblico. Speso non esistono neanche, sono indirizzi fasulli a quali non corrispondono non dico un cervello, ma neanche una carta d’identità. Pochi, ma possono far male. Per questo Mattarella ha fatto benissimo a intervenire. Se sono, o dovrebbero essere, considerati insignificanti come campione del pensiero diffuso, gli hater possono distruggere vite umane. E chi finisce sotto il loro olio di ricino digitale è completamente solo. È possibile che chi ha scritto quelle cose a una ragazzina malata possa continuare a usare uno strumento di comunicazione, non debba essere almeno bandito da ogni social? Qui non c’entra, ovviamente, la libertà di opinione. Qui siamo alla violenza pura. L’obiettivo non è dire il proprio pensiero, è far male a un essere umano, meglio se fragile. Cosa faremmo se uno squinternato entrasse in un ospedale, nel reparto di oncologia pediatrica e cominciasse a insultare i piccoli malati? Invece sui social lo si può fare erga omnes, senza che nessuno chieda conto. La carta d’identità forse, più che a un loggionista della Scala, andrebbe domandata a chi tenta di avvelenare la vita di chi soffre. E qui è la trave. È giunto il momento di porsi una domanda, culturale prima che altro. Dopo quasi venti anni dalla comparsa dello smartphone e dell’irruzione dei social, il mondo è migliorato? Non parlo della rete, la cui valenza positiva è evidente, parlo dei social. La domanda è: siamo più accoglienti, più tolleranti, più aperti al dialogo, più informati, più colti? O anche, per usare la beffarda parola chiave di questo mondo, siamo forse più “amici”? Claudio Mencacci, psichiatra e co-presidente della Società Italiana di Neuropsicofarmacologia ha detto ieri sulle pagine dell’inserto Salute: “Oggi sappiamo anche che provocano alterazioni di molti processi di sviluppo dei bambini e degli adolescenti. Negli ultimi 10/12 anni, con l’introduzione degli smartphone nelle nostre vite, abbiamo visto crescere i problemi di salute mentale nei più giovani, con un aumento significativo di isolamento sociale e di frustrazione causato dalla iperstimolazione digitale, così come sono in crescita impressionante i disturbi psicopatologici sia nell’età scolare che preadolescenziale (colpiscono il 14% del target), fino a quella adolescenziale (che riguarda il 16-20% dei casi). …Solo le relazioni reali, non quelle virtuali, permettono di crescere e costruire un sé positivo ed equilibrato…. La sofferenza psichica dei ragazzi è insostenibile e non va mai sottovalutata”. Non sottovalutiamola, parliamone. Se possibile, senza urlare. Più diritti, ma non per tutti: un sondaggio mostra le due facce dell’Italia sulle richieste Lgbt di Simone Alliva L’Espresso, 20 maggio 2024 Cresce la consapevolezza per le istanze della comunità arcobaleno. Ma se su alcune tematiche la maggioranza dimostra di essere assai più avanti rispetto alla politica, si conferma una spaccatura sulle persone transgender e sulla gestazione per altri (da permettere o vietare in base all’orientamento sessuale). In anteprima i risultati dello studio delle Università di Verona e Pavia. Da cui si può costruire anche un “identikit dell’omofobo”. Siamo un Paese che rifiuta le persone Lgbt? Sì e no. Non si può sottovalutare il fatto che tre persone su quattro siano convinte che i diritti Lgbt costituiscano un tema importante di cui la politica dovrebbe occuparsi, ma non si può nemmeno sottovalutare che una buona parte degli italiani esprima forti dubbi sul diritto delle persone transgender di affermare il proprio genere. L’indagine dal titolo “L’opinione pubblica italiana e i diritti LGBT+”, progettata ed elaborata nell’ambito di una collaborazione tra ricercatrici e ricercatori in scienza politica del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Verona e del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Pavia, presentata in anteprima da L’Espresso, disegna una immagine contraddittoria degli umori e delle opinioni dei cittadini del nostro paese, che appaiono molto critici nei confronti della politica del governo di Giorgia Meloni, ma altrettanto severi nei confronti di alcune battaglie rivendicate dalla comunità Lgbt. Lo studio raccoglie le attitudini e le opinioni in Italia riguardo temi legati ai bisogni e ai diritti della comunità arcobaleno: il campione è rappresentativo della popolazione italiana per età elettorale (18-65), anagrafica (poco meno di un giovane su cinque, maggioranza assoluta di over-45), genere (bilanciamento donne-uomini, con leggera prevalenza degli ultimi) e livelli di istruzione (prevalenza relativa di titoli di studio bassi, consistenza sempre più esigua al salire del livello di istruzione). Dai dati emerge una opinione pubblica diffusa consapevole dell’omotransfobia nel nostro Paese. Per poco più della metà delle persone rispondenti (53,9%) le persone gay, lesbiche e bisessuali sono molto (11,8%) o abbastanza (42,1%) discriminate, mentre un terzo del campione (31,8%) considera che le persone LGB siano poco (20%) o per nulla (11,8%) discriminate. E sulle persone trans* e non-binarie la percezione della discriminazione cresce. Colpisce, invece, l’opinione degli italiani sulle iniziative legislative che hanno tentato di contrastare l’odio omotransfobico in Italia. Il sondaggio ha chiesto agli italiani di di valutare la decisione del Parlamento italiano dell’ottobre 2021 di bocciare il cosiddetto Ddl Zan: più della metà (56,3%) del campione ritiene che il Parlamento abbia preso una decisione sbagliata, mentre il 17,2% ritiene che la decisione presa sia stata giusta. Restando sui bisogni e i diritti specifici delle persone trans* e non-binarie, gli italiani sono stati interrogati sulla possibilità di cambiare i propri documenti d’identità per conformarli all’espressione e al vissuto della propria identità di genere attraverso procedure amministrative semplificate, senza ricorrere a protocolli medici e giudiziari; e la possibilità di utilizzare il proprio nome di elezione a scuola e in università attraverso lo strumento della “carriera alias”. Se sulla prima questione gli intervistati si dicano d’accordo con un’ampia maggioranza (59,7%), seppure una persona su quattro (24,1%) si dichiari in disaccordo con questa possibilità, sulla questione della carriera alias, la percentuale di persone rispondenti che dichiarano di essere d’accordo, pur rimanendo più alto di quelle in disaccordo, si abbassa e si colloca al 46,6%. Al contrario, la percentuale di persone in disaccordo corrisponde a poco più di un terzo del campione (34,8%), indicando un innalzamento della conflittualità politica su questo specifico tema rispetto a quello delle procedure semplificate. E sui temi che agitano questo tempo come le famiglie omogenitoriali e il diritto al matrimonio egualitario, invece, si registra una spaccatura e una distanza. In generale, una larghissima maggioranza del campione (83,4%) è d’accordo nel riconoscere legalmente le unioni tra persone dello stesso sesso - ma mentre il 56,8% è d’accordo con l’idea di estendere il matrimonio anche alle coppie dello stesso sesso, il 26,6% dichiara di preferire un riconoscimento legale attraverso le unioni civili e non attraverso il matrimonio. Le persone che dichiarano di non essere d’accordo né con le unioni civili né con il matrimonio, e quindi che sono contrarie a qualsiasi forma di riconoscimento legale delle unioni tra persone dello stesso sesso, rappresentano il 6,6%. È “l’amore che crea una famiglia”: ne sono consapevoli la maggior parte degli italiani. Più della metà del campione (57,6%) è d’accordo nel considerare le famiglie arcobaleno come famiglie a tutti gli effetti, quasi un terzo (28,3%) ritiene che l’unica famiglia sia quella composta da un uomo e da una donna come ripetono costantemente a destra. E sempre la maggioranza si dichiara favorevole all’idea che le coppie dello stesso sesso possano adottare al pari delle coppie eterosessuali. E proprio sul tema della genitorialità, mentre il Senato si prepara ad approvare una norma che renderebbe la gestazione per altri reato universale, lo studio interroga il sentimento degli italiani sui metodi di procreazione (che sia maternità surrogata o procreazione medicalmente assistita) e qui emerge quello che gli studiosi chiamano “eccezione eterosessuale”: sulla PMA gli italiani esprimono un parere favorevole, ma quasi un terzo solo se si tratta di coppie eterosessuali o eventualmente di donne single, rimanendo contrario a estendere questa possibilità anche alle coppie di donne. Sulla Gestazione Per Altri più di un terzo delle persone rispondenti (38,5%) è contrario, mentre tra le persone che hanno un’opinione favorevole, ovvero il 37,3% del campione, una su quattro (26,9%) è d’accordo solo se il ricorso alla pratica avviene da parte di una coppia eterosessuale. “Ci interessava comprendere più da vicino l’atteggiamento delle persone nei confronti di tematiche che rimandano ai bisogni e ai diritti della popolazione LGBT+ in Italia, anche alla luce dell’appuntamento elettorale delle elezioni europee. E i dati mostrano chiaramente che il tema dei diritti civili è ben lungi dall’essere percepito come una questione secondaria o poco importante”, spiega a L’Espresso Massimo Prearo, ricercatore in scienza politica dell’Università di Verona che ha scritto il report scientifico con Federico Trastulli e Pamela Pansardi. “Dal sondaggio emerge un’attitudine generalmente e maggioritariamente favorevole, ma emergono anche sfumature e contrasti considerevoli. Per questo parliamo di una forma di accettazione selettiva dei bisogni e dei diritti delle persone LGBT+. Potremmo dire che se da un lato le opinioni favorevoli rappresentano il bicchiere mezzo pieno, dall’altro rimane una parte consistente di opinioni contrarie che rappresentano il bicchiere mezzo vuoto dei diritti LGBT in Italia. E questo lo vediamo soprattutto attraverso il fattore generazionale e il fattore politico che appaiono come elementi determinanti. Questo sondaggio indagava le opinioni e le attitudini della popolazione italiana sulle questioni che riguardano i temi e i diritti Lgbt, il prossimo passo sarà di comprendere le opinioni della popolazione Lgbt rispetto alla politica, al voto, ai partiti. Il 10 giugno, subito dopo le elezioni, lanceremo questo secondo sondaggio, che ci permetterà di studiare per la prima volta in Italia il rapporto alla politica della popolazione Lgbt”. Tutte le inchieste hanno un margine di imprevedibilità. Ogni commento a caldo dei dati estratti dal lavoro dell’Università di Verona, come quello cui si è costretti a una prima lettura, rischia di essere approssimativo e superficiale. Tuttavia a leggere con attenzione il lavoro Centro di Ricerca si può, forse, delineare un “identikit dell’omofobo”, cioè di chi respinge qualsiasi forma di riconoscimento legale e di dignità per le persone lgbt: generalmente uomini, molto religiosi con una assidua pratica, un posizionamento politico a destra e un’età vicina ai 45-54 anni, è questa classe che presenta opinioni favorevoli più basse per quasi tutte le questioni oggetto del sondaggio, ed è anche quella che presenta sulla questione delle adozioni l’opinione più negativa. Un campione nel campione che sembra riflettere la composizione del Parlamento italiano (età media degli eletti di 51 anni, solo uno su tre è donna). Sul fronte opposto, la classe di età tra i 18 e i 29 anni è quella che, secondo i dati del sondaggio, si dimostra più aperta al rispetto e al riconoscimento della comunità arcobaleno. Lezione sugli immigrati: l’agenda Vox fa male alla demografia e al Pil di Claudio Cerasa Il Foglio, 20 maggio 2024 C’è stato un tempo in cui la politica raccontava soprattutto a sé stessa che il benessere di un Paese è inversamente proporzionale al numero di migranti accolti. Il ragionamento era grosso modo questo: più sono i migranti, meno sono i posti di lavoro, meno sono i posti di lavoro più i nativi sono disoccupati, più i nativi sono disoccupati e più gli elettori sono arrabbiati, più gli elettori sono arrabbiati e più la vita di chi governa diventa un incubo. Negli ultimi mesi, però, la favola raccontata dagli amici del giaguaro sovranista si è completamente ribaltata e il dato interessante è che oggi vi sono diversi casi di studio, alcuni anche molto vicini all’Italia, che dimostrano che la teoria esposta un tempo dal partito della xenofobia si è semplicemente capovolta. Il caso spagnolo, la Spagna dei temibili amici xenofobi di Meloni, la compagnia di Vox, che ieri ha radunato in Spagna pezzi più o meno estremisti della destra mondiale, è interessante. Ed è interessante perché la Spagna guidata da Sánchez ha raggiunto risultati importanti facendo l’opposto di quello che chiedono da anni gli estremisti di Vox: più immigrati. Negli ultimi anni i governi spagnoli hanno optato per una strada semplice: non arretrare di un millimetro nella lotta contro gli immigrati irregolari (do you remember Ceuta?) ma fare di tutto per accogliere un numero sempre più alto di migranti regolari. All’inizio degli anni Novanta, in Spagna la quota di immigrati residenti era pari al tre per cento della popolazione. Oggi rappresenta il 17 per cento. Si tratta di una delle quote più alte d’Europa (media europea: 13 per cento). Reuters, giorni fa, ha dedicato un interessante approfondimento al tema spagnolo. Ha notato che la Spagna sta assistendo a un circolo virtuoso in cui “un afflusso di lavoratori stranieri sta aumentando l’offerta di lavoro e aumentando il tasso di crescita economica” e si è affidata a un importante professore di Economia dell’immigrazione di Madrid, Jesús Fernández-Huertas, per sintetizzare il tema: “Mentre l’economia spagnola migliora, i migranti arrivano, e mentre arrivano, l’economia migliora” (la Spagna crescerà nel 2024 del 2,1 per cento, dopo il 2,5 per cento del 2023, e nel 2025 dell’1,9 per cento: quasi il doppio dell’Italia). Secondo Raymond Torres, capo economista di Funcas, un think tank con sede a Madrid, l’immigrazione ha rappresentato il 64 per cento dei nuovi posti di lavoro creati e la metà della crescita economica della Spagna nel 2023. Un tempo, nota Funcas, gli immigrati in Spagna erano soliti coprire posti vacanti poco qualificati nei settori dell’edilizia e dell’aiuto domestico. Oggi, invece, la crescita dei posti di lavoro dei migranti si è verificata nel settore della tecnologia o della scienza, che è più che raddoppiato tra il 2018 e il 2023. La Spagna facilita l’ondata migratoria attraverso visti per professionisti altamente qualificati. Marianela Morales, una programmatrice di algoritmi di 28 anni proveniente dall’Argentina, ha detto a Reuters che ci sono volute solo tre settimane per ottenere il suo visto per lavorare presso Imdea, un istituto di istruzione superiore di Madrid dove svolge ricerche sul miglioramento degli algoritmi. La Spagna però non è un caso isolato. Ci sono altri paesi importanti, in giro per il mondo, in cui vi è un rapporto stretto tra aumento dell’immigrazione (regolare) e aumento del pil (e del lavoro). Un caso su tutti: gli Stati Uniti. Il presidente della Federal Reserve Jerome Powell nelle ultime settimane ha più volte citato l’immigrazione come “una delle ragioni alla base della forte crescita economica”. Il mese scorso, il Congressional Budget Office (Cbo) ha calcolato che l’immigrazione genererà un aumento di 7 mila miliardi di dollari del prodotto interno lordo nel prossimo decennio. Secondo Michael Feroli, capo economista statunitense di JP Morgan, l’immigrazione è stata “importante per il ritmo sorprendente della crescita dell’occupazione, anche insieme a un tasso di disoccupazione in modesto aumento. E questo, a sua volta, è stato uno dei fattori alla base della crescita complessiva sorprendentemente forte del reddito e della produzione” (pochi giorni fa, la Federal Reserve ha aumentato la proiezione di crescita del pil statunitense al 2,1 per cento per il 2024, rispetto all’1,4 per cento delle previsioni di dicembre). Secondo l’analisi dei dati governativi dell’Economic Policy Institute, l’anno scorso gli immigrati hanno rappresentato la cifra record del 18,6 per cento della forza lavoro negli Stati Uniti. E ancora. Uno studio condotto da Wendy Edelberg e Tara Watson, economiste dell’Hamilton Project della Brookings Institution, ha concluso che negli ultimi due anni i nuovi immigrati hanno aumentato l’offerta di lavoratori nell’economia e hanno consentito agli Stati Uniti di generare posti di lavoro senza surriscaldare e accelerare l’inflazione (nel 2019, il Congressional Budget Office aveva stimato che l’immigrazione netta - arrivi meno partenze - sarebbe stata pari a circa 1 milione nel 2023: il numero reale, ha affermato il Cbo a gennaio, era più del triplo di quella stima: 3,3 milioni). “L’immigrazione non è solo una questione sociale e politica molto impegnativa, è anche una grande questione macroeconomica”, ha scritto la scorsa settimana in una nota ai clienti Janet Henry, capo economista globale di Hsbc Holdings Plc. Come nota Bloomberg, il tono positivo tra gli economisti “contraddice quello visto durante la campagna elettorale”, dove l’aumento dell’immigrazione è considerato un tema drammatico, e secondo un recente sondaggio Gallup, la percentuale di americani che vede l’immigrazione come il problema più importante che gli Stati Uniti devono affrontare corrisponde ora a un livello record risalente a quattro decenni fa. Dunque, che fare? Assecondare gli elettori preoccupati, rischiando di mandare a rotoli l’economia, o sfidare gli elettori indignati provando ad attingere dall’agenda della realtà per creare crescita, benessere e lavoro, allargando la platea dei contribuenti che pagheranno le pensioni del futuro? La lezione del caso spagnolo e del caso americano è in verità molto chiara e non dovrebbe offrire margini di ambiguità. Per evitare un forte calo dell’offerta di lavoro e quindi della crescita potenziale dell’economia europea occorre uno sforzo significativo per consentire un ingresso regolare e controllato di immigrati e la loro integrazione nel mercato del lavoro. Perché più aumenta l’immigrazione, più aumenta il pil, più si abbassa l’inflazione, più aumenta il lavoro. E d’altro canto, se proprio si vuole fare un passo avanti sul tema, per evitare di parlare di demografia senza ipocrisia non si può affrontare solo il tema della natalità: occorre mettere da parte la demagogia, la retorica e la paura dello straniero quando si parla di immigrazione. L’Italia, con il governo Meloni, ha fatto una scelta coraggiosa, e nel 2023 ha deciso di ammettere complessivamente 452 mila cittadini stranieri, per motivi di lavoro subordinato stagionale e non stagionale e di lavoro autonomo, così suddivisi: 136.000 cittadini stranieri per l’anno 2023; 151.000 cittadini stranieri per l’anno 2024; 165.000 cittadini stranieri per l’anno 2025. Le imprese italiane però dicono che i numeri non bastano, lamentano una manodopera che manca pari a 2,5 milioni di richieste insoddisfatte. E a quanto risulta al Foglio, il ministro dell’Interno ha avuto mandato di valutare come e quanto aumentare la quota già prevista per il 2024 e il 2025. Lavorare per avere più migranti, per un paese governato dalla destra, non è semplice, ma le alternative oggi non ci sono: per risolvere buona parte dei problemi che ha un paese come l’Italia quando si parla di crescita, demografia, natalità, lavoro, produttività, ci sono poche scelte diverse da quelle fatte da Spagna e Stati Uniti: più migranti regolari, bellezza. Vale per tutti. Ma vale soprattutto per i paesi con una fertilità bassa, una crescita insufficiente, una demografia in difficoltà. Meno Vox, più realtà. Migranti. Parte oggi l’appalto per la gestione dei Centri in Albania, ma ancora non ci sono di Alessandra Ziniti La Repubblica, 20 maggio 2024 La scadenza del 20 maggio cade nel vuoto. Tempi ancora lunghi per la realizzazione delle strutture in cui verranno rinchiusi i migranti che l’Italia intende rimpatriare. Bonelli: “Che fine hanno fatto le ragioni di estrema urgenza per l’appalto?”. Avrebbero dovuto aprire oggi ma a Schengjin e a Gjiader al momento ci sono solo le ruspe. L’inaugurazione in pompa magna dei centri per migranti in Albania che - dice Giorgia Meloni - mezza Europa ci invidia, come ampiamente previsto, è rimandata a data da destinarsi, probabilmente non prima dell’autunno. E rinviata è anche la visita in Albania che la premier aveva annunciato per il 27 maggio per verificare l’avanzamento dei lavori di quell’idea (l’esternalizzazione delle richieste di asilo in Paesi terzi) che adesso quindici Paesi vorrebbero copiare per provare a non fare entrare sui loro territori migranti che si ritiene debbano essere rispediti indietro.Niente da fare. L’appalto milionario alla Medihospes - Altro che inaugurazione prima delle elezioni europee. Quello che sarebbe stato uno splendido spot per il governo per dimostrare l’efficacia di quell’approccio securitario che l’Europa ha finito per condividere con l’approvazione del nuovo Patto asilo e migrazione non ci sarà. Il progetto delle strutture, che il ministero della Difesa ha affidato alla Akkord del barese Fabrizio Palmiotti, presidente di Rete imprese Puglia, è ancora allo stato iniziale. E arrivati alla data del 20 maggio viene fuori la truffa elettorale dei centri, con l’appalto milionario alla Medihospes, la società che a partire da oggi è pronta a fornire tutti i servizi per la gestione dell’accoglienza dei migranti, e la desolante realtà delle due aree in cui dovranno sorgere i centri, dove le ruspe del genio militare stanno ancora lavorando agli sbancamenti e alla realizzazione delle opere di urbanizzazione totalmente assenti. Consegna dei lavori, come si legge nella determina di affidamento dei lavori da parte del ministero della Difesa, prevista per fine ottobre. Indietro anche l’impianto normativo e organizzativo - E d’altra parte anche l’impianto normativo e organizzativo che dovrà accompagnare tutta l’operazione è a zero. Il ministro dell’Interno Piantedosi da mesi annuncia una modifica alla norma del decreto Cutro sulla cauzione da 5.000 euro richiesta ai migranti, unica alternativa alla detenzione amministrativa, su cui la Corte di giustizia europea non si pronuncerà prima di diversi mesi. Ma della modifica allo studio degli uffici legislativi dei ministeri di Grazia e giustizia e Interni ancora nessuna traccia. Così come delle speciali commissioni prefettizie da destinare all’esame delle richieste di asilo dei migranti provenienti da Paesi sicuri selezionati a bordo delle navi militari italiane che li dovessero soccorrere in acque internazionali. Bonelli: “Che fine hanno fatto le ragioni di estrema urgenza?” - Chi intende accendere i riflettori sull’affare Albania è Angelo Bonelli dei Verdi. “I centri non sono pronti eppure per assegnare l’appalto della gestione sono state utilizzate ‘ragioni di estrema urgenza sussistenti’. L’appalto lo ha vinto la cooperativa Medihospes, con una procedura negoziata, senza bando, per un importo di oltre 151 milioni, anziché con una gara ad evidenza pubblica. Si tratta di centri che costeranno all’Italia più di 800 milioni in cinque anni, per gestire non più di 3000 persone contemporaneamente. Le procedure accelerate applicate nei centri dovranno durare non più di 28 giorni ma mi chiedo: come verrà garantito che questo termine non venga superato? Come verrà fatta la divisione in mare tra chi è vulnerabile e chi no? Come verranno effettuati i rimpatri visto che con molti paesi terzi non ci sono accordi? Questo protocollo rappresenta una mera mossa propagandistica. Uno spreco enorme di risorse che servirebbero invece per migliorare un sistema di accoglienza sempre precario e al collasso”. Medio Oriente. Il Sud Africa e le accuse contro Israele, all’Aia lo scontro su Rafah di Iuri Maria Prado Il Riformista, 20 maggio 2024 “Se cade Rafah, cade Gaza”. Che sembra, secondo che lo si guardi da una parte o dall’altra, l’allarme di un generale attestato a difesa di una ridotta o l’augurio del nemico che la assedia. E invece quelle parole sono scappate di bocca a uno dei quattro avvocati che l’altro ieri, davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, chiedevano l’emissione di nuove misure a carico di Israele. In buona sostanza, la richiesta che la Corte ordini il ritiro da Gaza, l’immediata cessazione delle operazioni belliche e il ripristino del flusso degli aiuti. Ma ipotizzare che qui si tratti della “caduta” di Gaza significa, appunto, porsi da un punto di vista diverso rispetto a quello che cura gli interessi della popolazione civile tragicamente coinvolta nelle operazioni belliche. Soprattutto, chiedere allo Stato sventrato il 7 ottobre di ritirarsi senza condizioni significa pretendere che rinunzi al tentativo di recuperare gli ostaggi superstiti e all’obiettivo di neutralizzare i tremilacinquecento miliziani che si nasconderebbero a Rafah: gli stessi che nei giorni scorsi hanno più volte preso di mira il valico di Kerem Shalom, cioè il punto di transito degli aiuti che, secondo l’accusa sudafricana, sarebbe stato chiuso da Israele in attuazione di un piano genocidiario per affamare la popolazione civile e privarla di ogni assistenza medico-sanitaria. Una parola, “genocidio”, non casualmente era quella che con più frequenza ricorreva nelle requisitorie dei legali del Sud Africa. Una parola ripetuta nel corso di quattro round di accusa, preceduti da una prolusione sul razzismo e sui crimini del Paese che da settantacinque anni eserciterebbe sui palestinesi la propria azione usurpatrice. Tutte questioni su cui è ovviamente lecita ogni opinione, ma estranee all’oggetto del procedimento: il quale non è davvero rivolto a giudicare la presenza israeliana e la cosiddetta questione palestinese dal 1948 a questa parte, bensì a valutare se i dritti del Gruppo palestinese siano o no esposti al pericolo di pregiudizio che rende necessario un intervento della Corte dopo quelli di gennaio e di Marzo. La ripetizione ossessiva della parola “genocidio”, dunque, non aveva fine tecnico ma impressionistico, perché la Corte ha già deciso che è plausibile l’esistenza, in capo ai palestinesi, dei diritti protetti dalla Convenzione. Questo è un punto tanto importante quanto di semplice comprensione: non si tratta in nessun modo di accertare, in questa fase, se l’azione israeliana ha i caratteri “genocidiari” su cui sente il bisogno di insistere il Sud Africa; si tratta di accertare se la situazione della popolazione palestinese sia tale da rendere necessaria l’emissione di nuove misure protettive. Il ricorso sudafricano si basa su accuse gravissime: Israele avrebbe creato “zone di sterminio”, avrebbe perpetrato “distruzioni di massa”, sarebbe responsabile delle “fosse comuni” scoperte nelle scorse settimane e avrebbe approntato sistemi di intelligenza artificiale per compilare “liste di uccisione”. A supporto di queste allegazioni ci sono le testimonianze di un paio di soldati, raccolte da un giornale israeliano, le rilevazioni di un blog nonché un rapporto del 6 Maggio compilato da un gruppo di “esperti” tra i quali l’italiana Francesca Albanese, quest’ultima autrice di un pamphlet intitolato “Anatomia di un genocidio” che, recentemente, ha manifestato solidarietà a un noto attivista pro Hamas secondo cui tra gli ebrei “ci sono le merde e quelli meno merde” e che promuove online la vendita di “coltelli antisionisti”. Questo scarto desolante tra la maestosità delle accuse e la povertà e poca credibilità dell’apparato documentale posto a sorreggerle non deve, ovviamente, far sottovalutare la situazione di spaventosa sofferenza cui indiscutibilmente è sottoposta la popolazione palestinese. Una situazione di gravità che potrebbe indurre la Corte a intervenire nuovamente, in particolare con misure rivolte a sollecitare Israele ad assumere iniziative di più efficace assicurazione del flusso degli aiuti e di maggiorata cautela nella conduzione delle operazioni belliche. Esponendo i propri argomenti di difesa, nell’udienza di ieri, Israele non ha negato le immani sofferenze della popolazione civile, pur contestando che esse siano l’effetto di una deliberata e indiscriminata azione sopraffattoria. Ha detto che i civili sono tragicamente coinvolti, anche per responsabilità di chi li usa come scudi, in una guerra, non in un genocidio. Ha detto che l’assicurazione degli aiuti, cui Israele è in ogni caso impegnato, è resa difficile e spesso impedita dall’azione dei terroristi. Tutte difese controvertibili, ovviamente, ma sostanzialmente “chiamate” da accuse che, anziché documentare specifici casi di violazione e individuare precise modalità di intervento preventivo e riparatorio, preferivano rappresentare l’immagine dell’esercito sterminatore al comando di un manipolo di gerarchi assetati di sangue. Nei prossimi giorni la decisione della Corte. Medio Oriente. Sull’aereo degli aiuti che sfamano la Striscia di Francesca Mannocchi La Stampa, 20 maggio 2024 Prima della guerra. entravano 500 camion al giorno, che erano a malapena necessari per sfamare la popolazione. Sul C-130 dell’Aeronautica giordana che paracaduta il cibo. Il paesaggio è oltre l’immaginabile, palazzi di quindici piani rasi al suolo. Un militare: “Aiuto i fratelli palestinesi”. Venerdì scorso i primi rifornimenti dal molo galleggiante americano. La distanza tra ciò che serve e ciò che manca a Gaza dall’alto si vede nitidamente. Ciò che serve è a bordo del C-130 dell’Aeronautica Giordana che ci porta sui cieli della Striscia, ciò che manca è l’accesso da terra. Perché i 16 pallet da 150 chili l’uno, il 94esimo volo umanitario della sola Giordania, sono una goccia nel mare del bisogno dei gazawi, anche se sommati ai quasi 300 voli complessivi che dalla base militare a un’ora da Amman, sono partiti negli ultimi mesi. La distanza tra ciò che serve e ciò che manca si legge anche nei volti dei soldati, del personale di terra giordano. Sono le dieci di mattina sulla pista della King Abdullah II, la base dell’aviazione militare giordana nel deserto vicino Zarqa, un’ora da Amman. Il magazzino è pieno di cibo. A destra gli aiuti arrivati pronti per essere smistati: farina, cibo in scatola, zucchero, acqua, latte in polvere. A sinistra i pallet pronti, chiusi dal nastro giallo. Il paracadute fissato sopra, pronti a essere lanciati da 600 metri d’altezza. Barjas, un militare dell’aviazione che non può dire il suo cognome perché non autorizzato a parlare, è lo specialista a bordo del C-130 Hercules. Monitora il lavoro di tutti, tutte le operazioni di sicurezza. Sono tutti di poche parole, solo lui prima di partire, in un angolo del magazzino, vuole condividere i pensieri: “Quello che vediamo da due mesi è oltre l’immaginabile. Interi palazzi di dieci, quindici piani rasi al suolo. Quella gente non merita quello che sta accadendo, questa per noi non è solo un’operazione militare, è una missione personale. Sono fratelli”. Poi prende gli adesivi con le bandiere giordane da attaccare ai pallet e sale dal portellone abbassato. Sulla pista altri due C-130, uno egiziano e uno tedesco, carichi e pronti a partire, tutti sono coordinati con Israele, che deve approvare i voli che attraversano il suo spazio aereo. Nella stiva ci sono una dozzina di membri delle forze speciali giordane. I pallet sono attaccati alle cinghie che fissano i paracadute. Quando il C-130 decolla, guardare giù significa ancora guardare un Paese in pace: le strade di Amman attraversate da veicoli e persone, abitazioni intatte. Le colline della periferia di Amman, fatte di condomini ocra, di giardini immacolati scompaiono dietro le nuvole. Meno di un’ora di volo dopo, mentre il C-130 comincia ad abbassarsi, lo scenario, invece, è quello della distruzione. È il volto architettonico della fame. A ognuno di quei palazzi distrutti corrispondono migliaia di morti, e centinaia di migliaia di persone affamate. Prima che il portellone si apra il C-130 scende bruscamente, uno dei militari abbassa lo sguardo, dà una pacca al primo pallet e dice qualcosa guardando quegli aiuti, quel cibo, prima che venga lanciato. Un messaggio sordo nel frastuono della stiva dell’aereo. Poi le cinghie vengono sganciate e in pochi secondi i 16 pallet scivolano via, i paracaduti si aprono uno dopo l’altro sopra Gaza distrutta e sopra la fame. In cinque minuti, con la luce che entra potente dall’esterno, tutta la distanza tra ciò che serve e ciò che manca. Tutti guardano Gaza in silenzio. Le soluzioni fragili, i confini di terra chiusi - I lanci di aiuti sono misure necessarie ma inefficaci e costose. Difficile avere dettagli sui costi ma dall’inizio, due mesi fa, le Agenzie delle Nazioni Unite le hanno definite “misure di ultima istanza, straordinariamente costose, per fornire assistenza”. I lanci aerei possono, talvolta, avere un senso logistico (bisogni urgenti degli ospedali, per esempio) ma non possono essere una via sistematica per fornire aiuto a quasi due milioni di persone. Quasi impossibile garantire chi riceverà gli aiuti e chi no, né garantire dove i pallet andranno a finire. Oltre al rischio per le persone che corrono verso il mare, cercando di recuperare i pacchi, mettendo a rischio la propria vita. Due mesi fa questa misura era cominciata, in via urgente, perché Israele teneva bloccati i valichi di terra. La scorsa settimana è stata la volta di un’altra misura urgente, il molo galleggiante americano. Venerdì scorso sono entrati a Gaza i primi aiuti dal molo costruito dalle forze armate americane che sarà utilizzato per convogliare gli aiuti in arrivo da vari paesi per la Striscia. Gli aiuti entrati due giorni fa - 300 pallet contenenti cibo ma anche kit di teli di plastica per ripari temporanei, kit igienici - sarebbero già nei magazzini di Dair al-Balah, pronti per la distribuzione. Secondo i piani americani, gli aiuti verranno raccolti e ispezionati a Cipro, solo poi caricati sulle navi, su cui percorrono 320 km fino al molo galleggiante al largo di Gaza. Le Nazioni Unite, attraverso il Programma Alimentare Mondiale, saranno responsabili degli aiuti una volta lasciato il molo, si coordineranno sull’arrivo dei camion vuoti che verranno registrati, sulla supervisione del trasferimento delle merci e sulla spedizione nei magazzini lungo la Striscia e infine sulla consegna finale ai gruppi umanitari che li distribuiranno ai civili. Se i piani andassero a regime il numero di camion dovrebbe raggiungere i 150 al giorno. Ma tra i piani e la loro realizzazione ci sono molti ostacoli. Primo: il molo galleggiante non può sostituire le consegne di terra, considerando che prima della guerra entravano di media 500 camion al giorno, a malapena necessari a una popolazione che già in larga maggioranza dipendeva per la propria sopravvivenza da aiuti umanitari. In più, la fattibilità dell’operazione rimane scivolosa: sono alti i rischi di attacchi da parte dei gruppi armati, così come sono alti gli ostacoli logistici, il primo è la mancanza di carburante, visto che Israele mantiene il blocco dopo gli attacchi dei 7 ottobre, perché sostiene finirebbe nelle mani di Hamas. La catastrofe umanitaria e i beni distrutti - Le agenzie delle Nazioni Unite, però, sono state chiare anche questa volta, come per i ponti aerei: il molo aiuta, perché di tutto c’è bisogno nella Striscia di Gaza, ma non basta. Come a dire, per l’ennesima volta, che vanno riaperti e al più presto i valichi di terra. Anastasia Moran, direttrice associata dell’International Rescue Committee, è stata molto esplicita. Per lei la costruzione del molo ha distolto l’attenzione dai numeri della catastrofe umanitaria “la rotta marittima ha richiesto tempo, energie e risorse in un momento in cui gli aiuti non erano stati aumentati. E ora che la rotta marittima è operativa, i valichi terrestri sono stati effettivamente chiusi”. Israele ha sequestrato e bloccato il valico di frontiera di Rafah nelle prime operazioni militari intorno la città al confine con l’Egitto, impedendo così l’ingresso degli aiuti umanitari dall’unico tra Gaza e l’Egitto. Oggi, solo il valico di Kerem Shalom, controllato da Israele, e il valico di Erez occidentale a Nord di Gaza sono aperti, ma la quantità di aiuti che vi passa è largamente insufficiente e i dati sugli effettivi transiti dati da Israele non corrispondono ai dati in possesso delle organizzazioni umanitarie: il Programma alimentare mondiale Onu, infatti, afferma che dal 6 maggio, quando Israele ha lanciato l’operazione a Rafah, l’organizzazione non è stata in grado di accedere dal valico di Kerem Shalom, che è stato completamente inaccessibile dal 6 al 10 maggio. L’11 maggio sono entrati solo sei camion e dal giorno dopo non sono più disponibili dati. Negli stessi giorni, gruppi di manifestanti, per lo più coloni vicini alla destra sionista, hanno distrutto il cibo contenuto nei convogli di aiuti umanitari che dalla Giordania erano diretti a Gaza. I camion sono stati assaltati all’altezza del check-point di Turqumiya, a Ovest di Hebron, i manifestanti li hanno bloccati, lanciato parte degli aiuti fuori all’esterno, prima di calpestarli e poi distruggerli. Pacchi di pasta, farina, gettati a terra, sacchi di grano distrutti, così come lo zucchero, il latte in polvere per i bambini, al grido di “a Gaza non esistono innocenti, solo complici di Hamas”. Ritorno ad Amman - Quando il portellone del C-130 si chiude tutti tacciono. La concentrazione dell’ora di volo, la perizia delle operazioni da fare, dei cavi da attaccare e lasciare andare, della rotta da prendere, dalla Giordania a Israele e poi verso il mare della Striscia di Gaza, gli zaini paracadute da indossare prima del portellone. Di tutta questa concentrazione, dopo aver visto Gaza, resta solo silenzio. I militari tolgono gli zaini dalle spalle e si siedono a terra. Qualcuno non smette di guardare giù. Non è la prima volta, non sarà l’ultima. Nella pancia del C-130 non ci sono più pallet, carne e tonno in scatola, farina né latte. La parola fame, durante il volo non l’ha mai pronunciata nessuno. A farlo sono le immagini, che parlano spesso più delle parole e meglio. Che si possono scrutare da vicino perché da lassù gli esseri umani affamati si confondevano con le macerie. Da vicino invece, studiando le immagini, si vedono uomini. Uomini che corrono lungo le vie in pezzi. Corrono perché sanno che dal cielo cade cibo, oggi, e non morte. Uomini che da mesi dicono “ho fame”, mentre tutto il mondo, intorno, pare sordo. Cosa succede quando l’aborto è criminalizzato: il caso del Marocco di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2024 Il codice penale del Marocco vieta l’aborto a meno che non sia praticato da un medico o da un chirurgo che hanno l’abilitazione e sia ritenuto necessario per salvaguardare la salute o la vita della donna. Chi abortisce o prova ad abortire per altre ragioni rischia da sei mesi a due anni di carcere, cui potrebbero aggiungersi ulteriori condanne per il “reato” di relazione sessuale extramatrimoniale. La legge proibisce la diffusione di informazioni sull’aborto, impedendo così alle donne di prendere decisioni consapevoli sulle loro gravidanze. “Incitare all’aborto” in qualsiasi modo, anche parlandone in pubblico o distribuendo materiale, può comportare fino a due anni di carcere. I professionisti sanitari che praticano aborti al di fuori della legge rischiano di perdere l’abilitazione. Possono anche essere obbligati, nei processi giudiziari, a fornire notizie su aborti illegali di cui siano venuti a conoscenza. Stando così (male) le cose, molte donne devono ricorrere ad aborti clandestini, insicuri e spesso costosi oppure a metodi pericolosissimi: abuso di farmaci, ingerimento di sostanze chimiche, violenza fisica autoinflitta o fatta da altri. Non poche tentano il suicidio. Farah (non è il suo vero nome) è stata stuprata da un collega mentre era a terra, svenuta a seguito di un attacco di diabete. Due mesi dopo ha scoperto di essere incinta e si è recata da un ginecologo, che ha rifiutato di praticare l’aborto. Il suo datore di lavoro l’ha sospesa in quanto, se fosse stata indagata per relazione extraconiugale, avrebbe danneggiato la reputazione dell’azienda. Ha cercato di interrompere da sola alla gravidanza ma, nonostante le ferite e un’infezione, è stata costretta a portarla a termine: “Ho provato tutti i tipi di erbe e qualsiasi bevanda potessero procurarmi un aborto. Sono andata da un erborista, ho fatto un infuso ma mi sono sentita male e basta. Sentivo l’intestino a pezzi ma niente. Un giorno, nella mia stanza, mi sono spogliata e ho inserito un lungo bastone nella vagina, muovendolo in tutte le direzioni ma gli unici risultati sono stati dolore dappertutto e una profonda ferita. Ho anche tentato il suicidio”. Ecco dunque che tutto, tragicamente torna: l’impunità per gli stupratori, la criminalizzazione delle relazioni extraconiugali e quella dell’aborto. Donne non sposate, la cui gravidanza sia frutto di violenza o di una relazione fuori dal matrimonio, non possono abortire e partoriscono nello stigma familiare e collettivo che marchia le madri celibi. Queste non ricevono il libretto di famiglia, essenziale per registrare la nascita dei figli e per ottenere i certificati necessari per l’assistenza medica o per mandarli a scuola. I loro figli non possono portare il nome del padre biologico dato che la filiazione paterna è riconosciuta solo a seguito di un matrimonio legalmente contratto, non possono ricevere sostegno economico dallo Stato e non hanno diritto all’eredità. Questo e altro lo trovate descritto in un rapporto pubblicato alcuni giorni fa da Amnesty International, intitolato: “Mi hanno rovinato la vita. La necessità di decriminalizzare l’aborto in Marocco”. A partire da questa pubblicazione, Amnesty International ha avviato una campagna per chiedere di decriminalizzare l’aborto nel paese nordafricano. *Portavoce di Amnesty International Italia